IL MODELLO LATTE NOBILE Un’altra via è possibile a cura di Roberto Rubino
Proprietà letteraria riservata Š 2014 Anfosc Onlus Finito di Stampare 30/09/2014 ISBN 978-88-901965-7-7 Stampa Printer Group Redazione e impaginazione Di Stefano & Partners
INDICE PARTE PRIMA: IL MODELLO LATTE NOBILE IN ITALIA E MESSICO. LA REAZIONE DEL SETTORE LE STRATEGIE DI TRASFERIMENTO, IL RUOLO DEI CONSUMATORI. _________________________________________________________ 5 IL LATTE NOBILE: UN MODELLO IN VIA DI EVOLUZIONE ROBERTO RUBINO _________ 7 IL SIGNIFICATO DEI FORAGGI PRATIVI NEI SISTEMI ZOOTECNICI PER LA PRODUZIONE DEL LATTE BRUNO RONCHI _____________________________________________ 36 RISORSE FORAGGERE, ALIMENTAZIONE ANIMALE E PAESAGGI AGRARI PER I PRODOTTI DI QUALITÀ ANDREA CAVALLERO, GIAMPIERO LOMBARDI _____________________ 51 EL MODELO DE “LATTE NOBILE” UNA VÍA ALTERNATIVA PARA LA PRODUCCIÓN DE LECHE DE CALIDAD EN MÉXICO DR. MIGUEL ANGEL GALINA _____________________ 73 IL PRIMO PASSO DI UNA LUNGA MARCIA. CADUTE, RIASSESTAMENTI, LINEE PER IL FUTURO GIANFRANCO NAPPI ___________________________________________________ 89 STORIA BREVE DI UN PERCORSO ANNUNCIATO IL DETERMINANTE RUOLO DELLA REGIONE CAMPANIA ADRIANO GALLEVI _____________________________________ 98 PARTE SECONDA: I RISULTATI DELLA RICERCA IL LATTE NOBILE STRUMENTO PER MIGLIORARE LA COMPETITIVITÀ DELLE AZIENDE 1 1 1 AGRICOLE DELL’APPENINO CAMPANO.S. LA TERRA , G. CAMPISI , L. CORALLO , A. DI 1 1 1 1 1 FALCO , G. FARINA , G. GIURDANELLA , C. GUARDIANO , M. OTTAVIANO , G. AZZARO1, G. LICITRA2. __________________________________________________________ 103 COMPONENTI SALUTISTICHE E AROMATICHE DEL LATTE NOBILE DELL’APPENNINO CAMPANO S. LA TERRA1, V. M. MARINO1, T. RAPISARDA1, G. BELVEDERE1, F. LA 1 TERRA , S. CARPINO1, G. LICITRA2. ______________________________________ 108 RAPPORTO OMEGA6/OMEGA3 E GPA NEL LATTE NOBILE IN MOLISE GIAMPAOLO COLAVITA, CARMELA AMADORO, ROSSELLA MIGNOGNA _______________________ 118 IL LATTE NOBILE DELLE ALPI PIEMONTESI COME STRUMENTO PER MIGLIORARE LA COMPETITIVITÀ DELLE AZIENDE AGRICOLE MONTANE: PRIMI RISULTATI GIAMPIERO LOMBARDI, LUCA BATTAGLINI, PAOLO CORNALE, CAROLA LUSSIANA, VANDA MALFATTO, ANTONIO MIMOSI, MASSIMILIANO PROBO, SIMONE RAVETTO ENRI, MANUELA RENNA LUCIA DECASTELLI, SARA ASTEGIANO, ALBERTO BELLIO, DANIELA MANILA BIANCHI, SILVIA GALLINA, GRAZIA GARIANO _______________________________________ 129 UNA PROPOSTA DI MISURAZIONE DELLA QUALITÀ DEL FIENO F. INFASCELLI, S. CALABRÒ, MONICA I. CUTRIGNELLI, R. TUDISCO, M. GROSSI, P. LOMBARDI ________ 139 PARTE TERZA: NUOVI INDICATORI E NUOVI PARAMETRI ESSENZE FORAGGERE E QUALITÀ AROMATICO- NUTRIZIONALE DEL LATTE SALVATORE CLAPS E LUCIA SEPE _______________________________________ 153 LE COMPONENTI NUTRIZIONALI E AROMATICHE DEL LATTE: LA COMPLESSITÀ DELLE MISURAZIONI E I POSSIBILI FATTORI DI VARIAZIONE LUCIA BAILONI E ROBERTO MANTOVANI ________________________________________________________ 161 IL LATTE NOBILE NON È SOLO UNA BUONA IDEA, MA UN MODELLO CHE FUNZIONA RONCORONI C.1, CALABRÒ S.2, GALLI T.1, MUSCO N.2, GROSSI M.2, FAGIOLO A. 173 QUANDO IL LATTE VALORIZZA IL TERRITORIO MAURIZIO RAMANZIN E ENRICO STURARO 181
Parte Prima
Il Modello Latte Nobile in Italia e Messico. La reazione del settore, le strategie di trasferimento, il ruolo dei consumatori.
Il Latte Nobile: un modello in via di evoluzione Roberto Rubino Presidente Anfosc Onlus Un giorno un tassista spagnolo mi disse: mio padre aveva otto vacche, ma, hombre, non ci faceva bere il latte di tutte e otto ma solo quello della vacca più grassa e che produceva meno latte.
Dal modello unico alla diversità Il mondo zootecnico è attraversato da una serie di piccole e grandi questioni che stanno agitando e non poco i sogni dei piccoli come dei grandi allevatori di vacche da latte. In primis, la fine delle quote latte, la scomparsa di quell’ombrello che ha permesso, negli ultimi venti anni, alle grandi aziende di consolidare la propria posizione, naturalmente a scapito dei piccoli allevamenti, che sono stati decimati, e di spostare i problemi per almeno un ventennio. Problemi che ora stanno venendo al pettine. Ci riferiamo alla direttiva sul benessere animale, allo spandimento dei liquami e al nuovo metodo di valutazione della disponibilità dei suoli agricoli, all’aumento dell’inincrocio verso percentuali di non ritorno per un abuso incredibile della F.A. e di semi di pochi tori, ed alla persistenza di un’infertilità che ormai è l’unica causa di eliminazione delle vacche dall’azienda. A tutto questo si è aggiunta, nel mese di luglio, la notizia del crollo del 6%dei consumi di latte alimentare nei primi sei mesi del 2014. Verrebbe da dire che il settore è in crisi, se non fosse che questa parola era già all’ordine del giorno quando ero all’Università agli inizi degli anni settanta e che l’ho sentita ripetere per tutti questi anni. Questa volta però, più che di crisi c’è
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un’atmosfera di panico, d’impotenza. Gli allevatori sentono che i cambiamenti non saranno indolori, che i nuovi regolamenti dovranno essere applicati, che la concorrenza sarà ancora più spietata, ma non riescono a reagire. Una soluzione non si vede all’orizzonte, se non la solita e oramai obsoleta litania: ridurre i costi per abbassare ancora i prezzi. Curioso che un settore che ha avuto a disposizione e che ha utilizzato a piene mani il massimo dell’innovazione tecnologica e tutto il mondo della ricerca, non riesca nemmeno ad elaborare un modello teorico di sviluppo per uscire dalla crisi. Il miglioramento genetico continua stancamente a selezionare gli animali più per perpetuare e tenere in piedi un impianto economicooccupazionale che per migliorare un qualche aspetto dell’allevamento e della vita dell’animale. Queste macchine da latte così potenti dovrebbero almeno avere a disposizione un’alimentazione in grado di salvaguardare prima la salute dell’animale e poi la qualità del latte e della carne, ma entrambi sono ai minimi termini perché la buona alimentazione costa troppo e non possiamo permettercelo. E cosi spingiamo verso la monocoltura, i sottoprodotti e gli integratori, e non ci accorgiamo che nel frattempo sono scomparsi i prati permanenti, la foraggicoltura polifita, la biodiversità floristica. Bel paradosso nel momento in cui la nuova PAC mette il greening come obiettivo primario della politica europea.
Pregi (pochi) e limiti (molti) del modello “Alta Qualità” L’ultima àncora sembra il marchio di Alta Qualità, che può essere preso a simbolo e paradigma della debolezza del settore e dell’incapacità che questo ha di individuare nuove soluzioni. Questo marchio fu fortemente voluto dagli addetti ai lavori dopo l’avvio delle quote latte per frenare l’importazione di latte dall’estero, notoriamente meno costoso. Poiché il latte impiegava più di qualche giorno per arrivare sul mercato italiano e doveva anche essere pastorizzato due volte, si scelse di individuare parametri che quel tipo di latte non poteva rispettare. Per prima cosa il latte doveva essere raccolto e imbottigliato dopo ventiquattro ore dalla mungitura,
e poi doveva avere una carica batterica e un contenuto di cellule somatiche talmente bassi da poter sostenere una sola pastorizzazione senza che vi fossero conseguenze negative per la qualità del latte. A questi due parametri vennero aggiunti anche grasso e proteine, a quel tempo considerati determinanti per la qualità del latte. A un latte così definito venne data la scadenza di 4 giorni, poi portata a 6 e fu dato il marchio di Alta Qualità. Il successo fu enorme, non a caso l’Italia è fra i pochi paesi europei ad avere un alto consumo di latte fresco pastorizzato. Ed è stato anche un bene per il consumatore, perché, come si è visto in ricerche effettuate alla fine degli anni novanta, il trattamento termico, la sterilizzazione, deprimono la qualità aromatica e nutrizionale del latte. Però ogni medaglia ha il suo rovescio e, nel nostro caso, gli effetti sono rimbalzati come un boomerang sul settore latte. Nel momento in cui si è preteso di produrre Alta Qualità con un sistema altamente intensivo, in cui la selezione inseguiva la qualità e dava un premio alla vacca che faceva più latte e che questa quantità veniva supportata da un sistema alimentare pessimo, basato su una sola erba e soprattutto su molti concentrati, nel momento cioè in cui si è cercato di conciliare l’inconciliabile, allora il danno è stato incomparabile e su più direzioni. Il consumatore gradualmente ha perso la percezione del sapore del latte e va verso l’elogio dell’insapore. Oggi grazie alla deriva della qualità, i formaggi sono sempre più banali e caratterizzati da un difetto di ossidazione che rimanda all’alimentazione squilibrata, quando il latte è giallo i caseifici non lo vogliono e ricorrono allo sbiancamento con clorofilla, i consumatori non vogliono i formaggi gialli. I trasformatori continuano a confondere la resa, e quindi il contenuto di grasso e proteine, con la qualità. Spingono gli allevatori a tenere alti questi parametri e non si accorgono che in questo modo la qualità dei formaggi è drammaticamente crollata. Un esempio è quello della ricotta. Per recuperarne il sapore, visto che era ridotto ai minimi termini, i casari hanno ben pensato di aggiungere la panna. E
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così la ricotta, che stranamente per la gran parte dei dietologi passa per un formaggio magro, ora è più che grassa ma non certo più aromatica. Sul mercato vi è una ricotta light che, pur essendo più magra, ha, tra gli ingredienti, la crema, a dimostrazione che quel latte di sapore e profumi ne aveva molto pochi. E poi, l’industria che imbottiglia il latte per uso alimentare si è adagiata sulla rendita del marchio dell’Alta qualità e si è limitata a pretendere solo una qualità igienica del latte. Alla fonte il latte raccolto viene miscelato, poi viene portato in azienda dove subisce trattamenti vari per poter immettere sul mercato una gamma la più variegata possibile( sottrazione di grasso, aggiunta di vitamine, omega3, ecc.). E così il latte, alimento principe della dieta che accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, ha perso il legame con il territorio, non ha una sua specificità, è tutto uguale, l’etichetta è praticamente simile al Nord come al Sud, l’unica diversità la fa l’industria. All’allevatore il latte, quando viene pagato in relazione alla qualità, lo è solo in funzione di quei quattro parametri: grasso proteine, carica batterica e cellule somatiche. Numerose ricerche hanno dimostrato che questi parametri non hanno alcuna relazione con la complessità aromatica e nutrizionale del latte. Ma a volte non bisogna aspettare i risultati di ricerche costose e lunghe per arrivare a considerazioni attendibili. Nel nostro caso basta vedere il burro. Un burro di animali al pascolo ha la stessa quantità di grasso di un burro di animali alla stalla. Se il grasso fosse sinonimo di qualità, i due burri sarebbero simili. Invece le distanze sono enormi, e lo stesso si potrebbe dire per la ricotta. Quindi, grazie a questo metodo gli allevatori che hanno prodotto un buon latte, in questi anni, i piccoli allevamenti di montagna e di collina, o quelli che testardamente hanno deciso che con l’intensivo non volevano avere niente a che fare, non hanno visto premiato i loro sforzi, al contrario quelli che hanno adottato appieno il metodo intensivo, sono stati premiati. Le conseguenze erano prevedibili, ma tutti hanno fatto finta di non vedere: i piccoli allevamenti hanno chiuso, in Basilicata, dove vivo, negli ultimi dieci anni hanno chiuso tremila stalle (se avesse chiuso
la Fiat di Melfi ci sarebbe stata la rivoluzione) fra l’indifferenza generale, la qualità del latte è quella che è, del benessere animale e della qualità dell’ambiente ne abbiamo già parlato. Infine, l’allevatore ha perso il contatto con i fattori della produzione e la relazione che intercorre fra di essi. Continua a preoccuparsi di grasso e di proteine, di carica batterica e di cellule somatiche, senza rendersi conto che questi sono tutti parametri che niente hanno a che fare con la qualità. Burro docet. Assiste inerme al crollo della fertilità della mandria, a un turnover accelerato delle vacche, al rischio continuo d’impatto ambientale all’anonimato del suo prodotto, e all’impossibilità di intervenire nella formazione del prezzo. Continua a produrre nella speranza che il prezzo salga per effetto di congiunture internazionali favorevoli, non certo per un aumento della qualità del suo prodotto, cosciente che la chiusura è dietro l’angolo se “la situazione dovesse continuare”. Di qui l’incapacità del settore di individuare strade nuove, un modello diverso di sviluppo. La debolezza, culturale ed economica è tale da lasciarsi impiccare sull’Alta Qualità piuttosto che rimettere tutto in discussione e ricominciare daccapo. Come diceva Einstein: non si risolve un problema utilizzando la stessa logica che lo ha prodotto. Occorre cambiare modello e soprattutto la logica che è stata alla base del sistema intensivo: la riduzione dei costi e dei prezzi. Noi ci abbiamo provato.
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Il modello Latte Nobile Noi siamo partiti dalla considerazione che, in un mercato dove esiste una variabilità più o meno ampia delle quasi totalità delle produzioni alimentari e non solo, l’anacronismo del latte alimentare che rinuncia ad una diversità dell’offerta basata sulla materia prima fosse facilmente superabile e che non sarebbe stato difficile intercettare consumatori non solo in grado di pagare di più ma felici di accedere ad un prodotto di una evidente qualità elevata. Quale mamma, ci chiedevamo, si farà condizionare da un prezzo più elevato nella scelta di un alimento di cui conosce le caratteristiche nutrizionali e aromatiche? La sfida era tutta qui: abbiamo dato per scontato che ci fosse spazio per un prodotto più caro e che la domanda fosse il minore dei problemi, anche perché il successo di Slow Food e la vivacità con la quale le comunità locali si muovono per promuovere e portare alla luce le specificità territoriali lasciavano ben sperare in un consumatore attento e desideroso di un prodotto con una personalità spiccata. Messo da parte quello che ad altri sembrava un problema insolubile, occorreva costruire il modello di sviluppo, immaginare e programmare i vari segmenti della filiera, perché il latte alimentare, contrariamente al vino o ai formaggi o all'olio, ha una sua caratteristica dalla quale non si può prescindere: il giorno che viene munto deve essere immesso sul mercato e venduto. Quindi, non solo ci si deve preoccupare di produrre un buon latte, separarlo dalla massa e imbottigliarlo a parte, ma occorre immediatamente intercettare quel consumatore già informato che quella qualità merita un prezzo abbastanza superiore a quello del latte più caro che al momento trova sul mercato. La Regione Campania ha subito sponsorizzato il progetto fornendo all’Anfosc un finanziamento per attivare i vari segmenti della filiera. Nella prima fase abbiamo individuato il nome, Latte Nobile(non sapevamo come fare perché la legge 189 aveva già sbarrato la strada a nomi che includessero la parola “qualità”), abbiamo abbozzato un disciplinare di produzione, sondato eventuale partner
per l’imbottigliamento e approfondito la bibliografia sulla qualità del latte. In corso d’opera l’Anfosc ha messo insieme diversi attori fra cui il Corfilac di Ragusa ed ha partecipato a un bando di ricerca della Regione Campania(124HC). Questo progetto ha permesso di monitorare e meglio definire il disciplinare di produzione e le caratteristiche organolettiche del latte, di approfondire anche la qualità dei derivati come yogurt e formaggi e, soprattutto, di affinare le strategie di approccio con i vari attori della filiera. Siamo alla fine del progetto, i risultati sono riportati in questo libro e li abbiamo raccontati al Salone del Gusto di Torino alla presenza sia degli allevatori partner del progetto e sia dei nuovi allevatori, ormai oltre venti, che via via hanno chiesto di aderire al disciplinare del Latte Nobile. Ma il risultato più soddisfacente è che il modello funziona e che il Latte Nobile non solo è presente sul mercato ma che è diventato un prodotto di élite, ricercato dai consumatori e dai distributori. Ecco come è stato possibile.
Una qualità superiore certificabile Se il latte non è tutto uguale e se io voglio offrire al consumatore un latte di qualità, che deve essere pagato di più, che livello di qualità devo produrre affinché l’evidente differenza sia tale da spingere il consumatore a superare la barriera del prezzo più alto attualmente sul mercato? E poi, che garanzie, oltre al sapore, do al consumatore che quel latte risponde alle caratteristiche raccontate e riportate sulla confezione? Il primo passo è stato quello di individuare il livello di qualità e di scegliere la cornice in cui inquadrare i vari fattori di produzione. Insomma bisognava abbozzare il disciplinare di produzione e verificarne i risultati. Questo percorso è stato abbastanza agevole perché l’esperienza che ci derivava da oltre un ventennio di ricerche sulla qualità del latte e da continui scambi con chi, soprattutto in Italia e in Europa, si era occupato di qualità del latte, ci ha permesso di portare a sintesi estrema i tanti studi fatti: la qualità del latte e dei formaggi è l’espressione di una serie di molecole aromatiche: terpeni, fenoli, flavonoidi e nutrizionali: antiossidanti, vitamine, acidi
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grassi insaturi. Tutte queste componenti dipendono essenzialmente dalla quantità di erba che l’animale ingerisce e, ancora di più, dal numero di erbe, perché, come abbiamo notato in numerose ricerche, ogni erba apporta componenti diverse al latte. Anzi, più le erbe sono selvatiche, spontanee, naturali, direi persino infestanti e più questa complessità è importante. Questa è stata l’unica certezza di tutto il modello che avevamo ed è stato gioco facile metterla in pratica. Dovevamo a questo punto fissare i paletti: quanta erba e quante erbe il disciplinare dovesse prevedere per avere una qualità percepibile, una diversità che il consumatore potesse cogliere, sapendo che il latte è un liquido molto diluito e difficile da “leggere”. Avevamo, negli anni novanta, effettuato alcune ricerche sull’uso dei concentrati in animali al pascolo ed alla stalla. Avevamo capito che in effetti questa tipologia di alimento aveva essenzialmente un effetto diluente sulla complessità aromatica e nutrizionale del latte. Avevamo anche visto che l’influenza sulla riduzione della produzione non era automatica e costante, e che molto dipendeva anche dalla qualità dei fieni. Sulla base di questi dati ci siamo orientati su un rapporto foraggio/concentrati di 70/30, rapporto che si è rivelato efficace sia per la qualità del latte, la cui diversità è percepibile dal consumatore e dagli strumenti analitici e sia per il benessere animale( i risultati sono riportati nella seconda parte del libro). Più difficile e per certi aspetti più sorprendente si è rivelata la scelta del numero di erbe. Se sappiamo che più alto è il numero e più la qualità del latte allora si poteva partire subito con un numero elevato. In fondo, qualsiasi prato permanente, anche il più scadente, ha almeno una ventina di essenze. Però in Italia ci sono gli erbai, spesso monocolturali o limitati a due sole erbe. Due però erano troppo poche per dare una “scossa” al latte, occorreva partire almeno con quattro, a costo di costringere l’allevatore a comprare o seminare due tipologie di fieno. E così è stato. Siamo partiti con quattro erbe e poi, mano a mano che si andava avanti e che si accumulavano le conoscenze relative ai diversi territori italiani, si è
visto che si può arrivare a sei, sapendo comunque che l’obiettivo resta quello di spingere ogni allevatore ad avere almeno un appezzamento a prato polifita in modo da poter allestire una razione di fieno con diverse erbe. Purtroppo ci siamo subito resi conto che la monocultura aveva fatto più danni di quelli che avevamo immaginato. I prati polifiti sono quasi scomparsi, la stessa parola prato dice poco a molti allevatori, le essenze foraggere sono ormai ridotte a poche specie, la biodiversità è praticamente nulla. Allora abbiamo cambiato strategia privilegiando questo aspetto negli incontri con gli allevatori. Lo stato dell’arte sarà raccontato da Cavallero in questo libro. Abbiamo anche inserito il divieto degli OGM e degli integratori, inutili se non dannosi con un’alimentazione ben equilibrata. Infine restava da definire il livello produttivo. Occorreva prevederlo o no? In fondo se ne poteva fare a meno, perché se un animale utilizza quel tipo di razione per forza deve ridurre la produzione e poi non tutti gli animali danno la stessa risposta e quindi per alcuni poteva rappresentare una ulteriore limitazione. Abbiamo preferito mettere comunque un limite a 5000 litri per lattazione, sapendo che il disciplinare è qualcosa che può essere migliorato in itinere se i risultati che si vanno conseguendo lo dovessero suggerire. Ci siamo preoccupati anche di inserire alcune clausole relative all’ambiente, come la lontananze da discariche e l’uso limitato di concimi e diserbanti.
Gli indici di qualità A questo punto si poneva il problema della tracciabilità. E’ vero che la diversità del latte è abbastanza riconoscibile da tutti ma quali parole ho a disposizione per raccontare questa diversità e come posso garantire al consumatore che l’allevatore rispetta il disciplinare? E poi, cosa posso scrivere in etichetta, visto che il Regolamento 1069/2011 che va in vigore alla fine del 2014 è molto
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rigoroso ed è stato concepito per l’industria, non certo per produzioni di qualità? Il latte, i formaggi e la stessa carne sono alimenti e, per questo, vengono acquistati o per ragioni edonistiche, per il piacere di mangiare qualcosa di buono e/o per ragioni squisitamente nutrizionali. Il gusto è legato a una serie di molecole complesse, i fenoli, i terpeni, gli idrocarburi aromatici, gli stessi flavonoidi; gli esteri, gli alcoli, le aldeidi. Il valore nutrizionale dipende dalla qualità dei grassi e non dal grasso, dalla presenza degli acidi grassi insaturi, dalle vitamine, dagli antiossidanti. Stiamo parlando di centinaia di molecole le cui analisi sono difficile e costose. Occorre pensare a degli indici sintetici che facilitino il racconto e il cui controllo permetta di monitorare il rispetto del disciplinare. Più facile a dirsi che a farsi, ma non ci stiamo tentando.
Il rapporto omega6/omega3 In passato, in collaborazione con Laura Pizzoferrato e Pamela Manzi dell’ex Inran ora CRA-Nut, avevamo iniziato a mettere a punto qualche indice. Grazie ad alcune intuizioni di Laura Pizzoferrato, avevamo lavorato sul Grado di Protezione Antiossidante(GPA) e sul rapporto Omega6/omega3. Il primo è importante perché ci da la misurare del grado di protezione del colesterolo dall’ossidazione dei radicali liberi(a parità di contenuto di colesterolo la sua ossidabilità aumenta con la diminuzione del GPA). Il secondo è molto studiato nel mondo della medicina tanto che ormai ne è stato precisato anche il valore raccomandabile per la salute umana. Una recente ricerca americana ha fermato l’asticella su 2,8, ritenuto ideale e da perseguire. Noi sapevamo, quando siamo partiti, che occorreva restare al di sotto di 5. E questo abbiamo scritto nella prima stesura del disciplinare. Poi, con l’entrata di altri allevatori e mano a mano che arrivavano i risultati dei prelievi periodici, abbiamo visto che quasi tutti si attestavano intorno a 3, per cui abbiamo abbassato a 4 il valore del rapporto omega6/omega3.
Il GPA (Grado di protezione antiossidante) Più complicato rimane il GPA. Dai dati pubblicati insieme a Laura Pizzoferrato sapevamo che questo indice varia da circa 4 negli animali alla stalla a oltre venti in quelli al pascolo, ma dove posizioniamo l’asticella? E poi stiamo parlando di beta-carotene e di alfa-tocoferolo le cui analisi sono più complesse di quello che potrebbe sembrare. Per fortuna, nel periodo in cui si andava sviluppando il progetto in Campania, dove le ricerche venivano effettuate dal Corfilac, altri due progetti sono stati avviati in Piemonte ed in Molise. E’ stato così possibile mettere insieme l’Università di Torino e quella del Molise per poter effettuare anche un ring test sul GPA. In questo libro verranno presentati tutti i risultati ma ci siamo accorti subito che mentre il beta-carotene è abbastanza stabile e risponde all’alimentazione, la vitamina E risponde meno perché è una vitamina liposolubile, perché ha diversi isomeri con diversa biodisponibilità e, soprattutto, viene sistematicamente data come integratore nei sistemi intensivi, quindi difficile sapere se la sua presenza nel latte, al momento in vengono effettuate le analisi, dipende dalle erbe o dall’integrazione. MA questi due antiossidanti non sono importanti solo perché capaci di bloccare l’ossidazione del colesterolo. Negli ultimi anni va aumentando la frequenza e la percentuale di formaggi industriali e, a volte, anche aziendali, caratterizzati da un retrogusto metallico fastidioso e spesso molto persistente. Il responsabile di questo difetto è un’ossidazione che, a sua volta, può dipendere da uno squilibrio fra radicali liberi e vitamine antiossidanti presenti nel latte. Jensen(1999) ha dimostrato che la produzione di beta-carotene e di alfa- tocoferolo prescinde dalla quantità giornaliera di latte che un animale produce. Quindi, se con la selezione alziamo sempre più il livello produttivo, lo squilibrio fra molecole bersaglio dell’ossidazione ed antiossidanti aumenta sempre più. E’ vero che si interviene con gli integratori(il disciplinare del Latte Nobile li vieta perché questo equilibrio deve avvenire naturalmente con i foraggi), ma evidentemente ormai la situazione è fuori controllo, anche perché per i nutrizionisti la razione deve rispondere solo alle esigenze del
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metabolismo e della produzione di grasso e proteine, non della qualità del latte e dei formaggi. Quindi, noi continuiamo a pensare che questo indice sia fra i più interessanti, ma al momento l’unica cosa che si può fare è quella di continuare a studiare per avere dati più stabili, per comprendere il ruolo degli integratori e per poter, infine, definire il valore del GPA da inserire nel disciplinare.
Il GIR (Grado di isomerizzazione del retinolo) Pe restare agli aspetti nutrizionali, Laura Pizzoferrato aveva anche definito un altro indice, il GIR (grado d’isomerizzazione del retinolo) perché aveva visto che i trattamenti termici del latte determinavano un aumento della forma cis con conseguente riduzione della biodisponibilità. E’ certamente un Indice interessante, però nel nostro caso inutile perché ci limitiamo alla qualità della materia prima in azienda, tutto quello che viene dopo, attiene a un altro segmento, è industria, è tecnica. Forse si può fare a meno di un indice di complessità aromatica E il gusto, il sapore, come lo raccontiamo, da cosa dipende, possiamo individuare un indice di sintesi? Anche qui le cose sono abbastanza complicate. Le molecole interessate sono centinaia e, soprattutto, con soglie di percezione diverse non solo fra loro ma anche fra i consumatori. Forse un aiuto potrà darcelo l’analisi Smart nose, perché la presenza di un operatore addestrato vicino al Gas massa permette di rilevare sole le note percepibili dall’uomo. Si potrebbe in questo modo rilevare il numero di note aromatiche e l’intensità. In questo libro il Corfilac presenta i risultati, certo non definitivi, ma sapremo se almeno questa parte merita un ulteriore approfondimento. Al momento quindi abbiamo inserito nel disciplinare e si continua a monitorare solo il rapporto omega6/omega3, che deve essere sotto 4. Le numerose analisi che sono state fatte e la variabilità dei dati ci hanno confermato che questo dato è abbastanza sensibile alla razione alimentare ed alla presenza di erba tanto è vero che ogni
qualvolta è stato registrato un aumento del valore è stato possibile accertare che l’allevatore aveva modificato la razione.
Un argomento in evoluzione Un solo indice è sufficiente per rassicurare il consumatore e la stessa filiera? Certamente no, anche perché si può intervenire artificiosamente, per esempio con l’uso di pannelli di semi oleaginosi, per cambiare questo rapporto. Occorre quindi insistere per individuare altri indici altrettanto efficaci. Al momento due sono i punti fermi che ci permettono di guardare con sufficiente tranquillità la filiera e la sua tracciabilità. Il primo fa riferimento ai controlli che l’Anfosc effettua nelle aziende e che riguardano il livello produttivo degli animali, l’uso dei concentrati e la qualità dei fieni. Il secondo, il più importante, parte dal presupposto che l’organismo è un sistema in equilibrio, dove “tutto si tiene” e, quindi, se l’animale mangia un buon fieno, il latte deve essere di buona qualità e le molecole saranno tutte in equilibrio fra loro. Possiamo quindi anche non monitorarle. Sullo sfondo, la seconda regola di Newton: due effetti devono avere sempre la stessa causa. Tradotto per noi: se con una buona alimentazione migliora un indice, tutti gli altri devono muoversi nella stessa direzione. A questo punto avevamo gli strumenti per avviare la produzione di un latte diverso, di qualità superiore a qualsiasi latte alimentare presente sul mercato. Come ottenerlo? Avevamo a disposizione due strade: provare a convincere qualche allevatore che, stanco e disilluso dal modello intensivo, non avrebbe avuto molte remore a provare il nuovo modello oppure individuare allevatori che, con piccoli aggiustamenti, si trovavano già nelle condizioni previste dal disciplinare. Per accelerare i tempi optammo per la seconda soluzione. In accordo con il Sesirca, il Servizio di Sviluppo della Regione Campania, facemmo un inventario dei modelli di allevamento della regione e, dopo alcuni sondaggi, optammo per Castelpagano, un Comune dell’alto beneventano, a vocazione quasi
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esclusivamente zootecnica, con piccoli allevamenti prevalentemente a gestione familiare. Fra i tanti ne selezionammo 4 o 5, analizzammo il latte e ci rendemmo conto che in quell’area vi erano tutte le condizioni per avere la qualità che cercavamo. Una delle conditio sine qua non che ci eravamo posti e che successivamente anche Slow Food ci pose quando chiedemmo loro di collaborare al progetto, era che agli allevatori fosse riconosciuto un prezzo alla stalla più equo, più remunerativo. In quel momento il prezzo di mercato era intorno ai 40-43 centesimi/litro, decidemmo di tenero come punto fermo 0,60 centesimi/litro. Avevamo il latte, avevamo gli allevatori, ma non bastava per poter vendere bene un buon latte. Il percorso era ancora lungo. Occorreva trovare un imbottigliatore, un trasportatore che si facesse carico di far arrivare il latte all’industria, un distributore e dei negozianti disponibili, tutti, ad entrare sul mercato con un prodotto più caro e non meno caro come era ed è la prassi.
Attivazione dei vari attori della filiera Il primo ostacolo fu l’imbottigliamento. In Campania, come nelle altre regioni, i centri d’imbottigliamento sono pochi e, come abbiamo potuto verificare anche per gli altri protagonisti della filiera, operano quasi tutti con il proprio marchio, non hanno alcun interesse a entrare in un’iniziativa che si configura, a prima vista, come un concorrente per la propria produzione. In sostanza, mentre un produttore di vino amplia la gamma dell’offerta puntando soprattutto sulla diversità della materia prima, le uve, ricercando varietà autoctone di uve oppure tecniche di raccolta particolari, l’industria del latte si limita a variare l’offerta solo in funzione della tecnica di imbottigliamento e ignorando la specificità della materia prima. Un atteggiamento simile hanno avuto i raccoglitori del latte, che al Sud hanno un ruolo determinante, in pratica gestiscono e controllano il prezzo ed il rapporto con l’industria. La debolezza del sistema è tale che un seppur minima variazione dello status quo crea il panico e
spesso siamo stati oggetto di un’accoglienza fredda, quasi minacciosa. Un’analoga risposta avevamo ottenuto da un importante ipermercato di Napoli quando abbiamo cercato di far capire al responsabile degli acquisti che quel latte andava venduto a un prezzo alto perché la qualità era di livello superiore : “noi vendiamo scatole e non siamo interessati a quello che c’è nella confezione”. Dopo un primo tentativo di imbottigliamento subito abortito, abbiamo capito che se volevamo andare avanti non dovevamo dialogare con gli attori della filiera tradizionale. Per fortuna sulla nostra strada abbiamo incontrato la Compagnia della qualità, una società appena formata e composta da piccoli imprenditori neofiti, che ha “sposato” la filosofia del progetto e, pur senza aver alcuna esperienza di latte, del mercato e della distribuzione, ha accettato la sfida. Un piccolo imbottigliatore si è impegnato a offrire questo servizio per conto terzi, essendo egli stesso produttore di latte di Alta Qualità, e a questo punto il latte era pronto. Nel frattempo avevamo definito il nome, Latte Nobile, perché volevamo far capire subito al consumatore che si trattava di qualcosa di diverso e di livello superiore a quello che si trova normalmente sul mercato, e abbiamo registrato nome e marchio. Naturalmente non era e non è nostra intenzione fare del Latte Nobile un marchio commerciale. Noi volevamo offrire al settore un modello di sviluppo alternativo a quello attuale che fosse più remunerativo per l’allevatore, più rispettoso dell’ambiente e del benessere animale e che potesse dare al consumatore la libertà di scegliere la qualità del latte. In qualche modo vuole essere un marchio simile al biologico con la differenza che il biologico è stato concepito per ottenere un sistema di allevamento più compatibile per l’ambiente e più rispettose della salute degli animali. Non si preoccupa della qualità del latte, non a caso la sua diversità è difficile da dimostrare. La filosofia che è alla base del latte nobile parte dalle qualità del latte e dai fattori presi in considerazione per renderla diversa. Se un animale mangia più foraggio e più erbe diverse, se l’allevamento è lontano da fonti d’inquinamento, il latte è di migliore qualità, l’animale
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mangia meglio, produce meno latte ed ha una qualità della vita decisamente migliore. A questo punto avevamo gli allevatori ai quali veniva riconosciuto un prezzo interessante e decisamente incoraggiante, avevamo l’imbottigliatore ed avevamo la confezione di latte, un altro passaggio seppur meno importante ma comunque da fare, da pensare, da formulare. Oggi le confezioni e le etichette sono tutte uguali. Noi dovevamo raccontare non solo una diversità della materia prima ma anche le motivazioni per le quali il consumatore avrebbe dovuto pagare quel latte a un prezzo superiore a tutti i latti che si , trovano sul banco dei supermercati. E poi, con la nuova legge sull’etichettatura, per la cui interpretazione occorre una laurea specifica, bisogna fare molta attenzione perché non si è mai certi su cosa si possa o non si possa scrivere. Comunque abbiamo anche dovuto ottemperare a quest’obbligo apparentemente secondario. Avendo deciso, sulla base dell’esperienza precedente, che i supermercati andavano evitati e che occorreva percorrere strade nuove, non restava ora, a noi dell’Anfosc, di creare l’attesa presso i consumatori per questo latte Nobile e, alla Compagnia della qualità, di attivare il circuito della distribuzione.
La comunicazione L’Anfosc, all’interno del modello, ha assunto, nella fase iniziale, il ruolo di animatore, di trascinatore dei protagonisti della filiera. Oltre che di controllo e di diffusione delle conoscenze che mano a mano si andavano acquisendo. La ricerca e gli studi sugli indici sono stati prima effettuati dal Corfilac di Ragusa a cui si sono via via aggiunti L’Università del Molise con Giampaolo Colavita, l’Università di Torino con Andrea Cavallero e Giampiero Lombardi, l’Università di Napoli con Federico Infascelli e Serena Calabrò e l’Istituto Zooprofilattico di Lazio e Toscana con Antonio Fagiolo e Cristina Roncoroni. Avevamo quindi tutti i supporti tecnico-scientifici per mettere a punto un metodo di comunicazione e di diffusione del modello da far conoscere prima ai consumatori e poi a tutti gli altri attori della filiera.
A chi rivolgersi e come? Per il latte alimentare bevuto tal quale, il diretto interessato era il consumatore. Come preparare l’attesa, sapendo anche che la Compagnia della qualità, non avendo a disposizione un caseificio, non poteva permettersi la tentata vendita e riprendere il latte non venduto? Tutto il latte consegnato doveva essere venduto e, per questo, gli ordini erano precauzionalmente bassi. Per prima cosa attivammo il sito www.lattenobile.it ed incominciammo a partecipare a tutte le manifestazione importanti: Cheese (Bra), Salone del Gusto (Torino), Terra Felix (Napoli), Agrosud (Napoli), Saperi e Sapori (Genova). Contemporaneamente, a Napoli e nell’interland, andavamo organizzando seminari, serate di degustazione, incontri nelle sedi più diverse in modo da coinvolgere il maggior numero di consumatori e le categorie professionali le più diverse. Dal mondo della medicina, con seminari alla Facoltà di Medicina e di Veterinaria, alle scuole, ai Gas, al mondo della ristorazione. Le informazioni che scaturivano dai seminari e gli articoli sulla stampa nazionale che periodicamente facevano riferimento alla nostra attività e al latte Nobile, hanno contribuito a determinare la curiosità per questo nome altisonante, il desiderio di provare un latte che per la prima volta diceva di essere diverso perché più gustoso e nutrizionalmente importante. Contemporaneamente, la Compagnia della qualità contattava tutti i piccoli negozianti di Napoli facendo bene attenzione a non creare concorrenza nella stessa area. Nel giro di pochi mesi le gastronomie più importanti ne hanno fatto un motivo di prestigio poter vendere un latte diverso, più costoso e che piaceva molto ai consumatori. Dopo le gastronomie, l’attenzione è stata rivolta ai bar, alle pasticcierie e alle cioccolaterie. In questo caso il racconto era quasi pleonastico. Il latte ha un gusto delicatamente più marcato senza eccessi, il contenuto di grasso è di poco più alto così come più elevato è il
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contenuto di acidi grassi insaturi. Il barista ha potuto subito verificare che il cappuccino ha un sapore e una consistenza diversa, resta colpito dal fatto che il consumatore individua subito la differenza. Alcune industrie selezionano e propongono per i bar latti con una tensione superficiale e una schiumabilità più alta perché, come nel caso dell’Alta Qualità, pensano che questo parametro permetta di avere un cappuccino con più schiuma. I responsabili del marketing, e forse anche molti baristi, sono convinti che un buon cappuccino si caratterizza per la quantità di schiuma che lo ricopre e non per il sapore e il gusto. Il Latte Nobile ha una schiumabilità non diversa dagli altri latti, eppure il cappuccino è diverso e con più personalità. Dopo i bar è venuta la volta dei gelatai, dei pasticcieri e dei cioccolatieri. L’accoglienza, anche in questo caso, è stata entusiasta soprattutto da parte dei gelatai, che trovano il gelato con un gusto più deciso, più spatolabile, a parità di temperatura, perché più ricco di acidi grassi insaturi. Inoltre, dal momento che il Latte Nobile ha sempre un titolo in grasso più alto, il gelataio può usare meno panna. Gelatai e pasticcieri, avendo verificato la diversità del latte, insistono ora per avere la panna e il burro da latte Nobile. Da parte sua, Slow Food Campania, partner nel progetto di ricerca della 124 della Regione Campania, avvia la procedura per far diventare il Latte Nobile dell’Appennino Campano, unico prodotto liquido, un Presidio Slow Food. E, attraverso i suoi fiduciari territoriali, avvia un’attività d’informazione sul territorio regionale e nazionale. All’inizio di questo percorso l’accordo fra la Compagnia della qualità e gli allevatori era che solo il latte venduto come Nobile sarebbe stato pagato al prezzo fissato di 0.60 a litro. La restante parte sarebbe stata acquistata dall’imbottigliatore a un prezzo superiore a quello di mercato di circa 5 centesimi/litro. Con questo meccanismo, gli allevatori che hanno aderito al progetto e all’iniziativa non hanno subito alcuna penalizzazione e la Compagnia della qualità ha potuto affrontare l’avvio incerto senza costi aggiuntivi. In questo modo, nel
giro di un paio d’anni la totalità del latte di 8 allevatori di Castelpagano è diventata ed è stata venduta come Latte Nobile, il mercato si è allargato all’intera Campania, anche se Napoli resta il bacino più importante. La gamma dell’offerta va dal latte, ai gelati, allo yogurt, ai formaggi e a breve si passerà alla panna ed al burro. Ma la cosa più curiosa è che il Latte Nobile, almeno a Napoli, è diventato un cult, una moda, un prodotto che una buona salumeria non può non avere, un pasticciere che si considera importante non può non usare la Fuscella, una specie di ricotta tipica della zona. A una domanda crescente normalmente si risponde con l’adeguamento dell’offerta. E poi se, come ho detto all’inizio, il Latte Nobile non è un marchio ma un modello di sviluppo e se il modello è valido, questo si deve diffondere in tutto il territorio nazionale e non solo. E se c’è bisogno di nuovo latte non dovrebbe essere difficile trovarlo, visto anche che gli allevatori ricevono un prezzo superiore al 50% rispetto a quello di mercato. E allora, come si può attivare il modello in aree diverse da quella iniziale, da dove si comincia e chi devono essere gli interlocutori?
I punti critici della filiera La debolezza di alcun segmenti della filiera Alla fine dello scorso anno i punti fermi erano: l’alimentazione con erba ed erbe diverse ed un livello produttivo al di sotto di 20 litri per capo/giorno garantiscono un latte qualitativamente diverso ed in linea con le nostre aspettative, il sistema permette di offrire agli allevatori un prezzo significativamente superiore a quello di mercato, gli utilizzatori intermedi e finali(baristi, gelatai, negozianti e consumatori) mostrano di gradire questa diversità pur pagando un prezzo che potrebbe essere anche di 50 centesimi/litro superiore al prodotto di Alta Qualità. La domanda incominciava a essere superiore all’offerta, bisognava trovare altro latte.
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Proviamo in Basilicata dove ci sono ancora piccoli allevatori che, con piccole modifiche, avrebbero potuto adeguare il sistema di allevamento al disciplinare del Latte Nobile. Incominciamo a organizzare alcune riunioni con gli allevatori in due diversi bacini lattiferi della regione: il Marmo-Melandro e il Vulture. La proposta era abbastanza semplice: voi adeguate il sistema alimentare al nostro disciplinare e la Compagnia della qualità vi riconosce un prezzo di circa il 50% superiore a quello da voi oggi percepito. All’inizio ci sembrava di essere i “portatori della buona novella”, in un settore in crisi profonda, dove la prossima abolizione delle quote sta creando il panico, la proposta di un prezzo decisamente superiore avrebbe dovuto apparire come un’àncora di salvezza. Invece dopo qualche riunione avemmo l’impressione di aver creato il panico, tanto che mi venne in mente la frase che Freud pronunciò al momento dello sbarco a New York: “gli americani non sanno che gli stiamo portando la peste”. Le indicazioni che vennero da queste riunioni furono: allevatori con al massimo 20 vacche in lattazione distribuivano agli animali una quantità di mangimi talmente alta da creare forti problemi di fertilità, oltre che evidenti danni economici; i raccoglitori di latte, che nel Sud hanno in mano il mercato del latte perché fungono da primi acquirenti, sono interlocutori privilegiati e possono diventare l’elemento chiave della filiera. Decidiamo allora di dialogare con alcuni di essi. Veniamo bene accolti, rifacciamo alcune riunioni, ma quando capiscono che, in questo modo, il loro ruolo potrebbe diventare secondario, visto che la leva del prezzo passerebbe dalle loro mani a quelle della Compagnia della Qualità, allora ci fanno terra bruciata e si pone fine agli incontri. Ci rendiamo conto a questo punto che la strategia va cambiata. Il raccoglitore di latte, almeno in molte aree del Centro e del Sud, dal momento che è anche primo acquirente ed è quindi lui a decidere il prezzo, non può accettare di raccogliere il Latte per una industria disponibile a pagare prezzi superiore a quelli che lui sta garantendo in quell’area. Occorre quindi scavalcare questa figura utilizzando
mezzi propri per la raccolta del latte. Come superare poi la sfiducia innata e spesso giustificata degli allevatori verso chi ti offre un prezzo più alto, visto che le truffe in questo settore sono all’ordine del giorno? La Compagnia della qualità allora decide di dotarsi di una cisterna per la raccolta del latte e di predisporre un contratto chiaro con le modalità di pagamento e con le fideiussioni per superare la diffidenza degli allevatori. Resta ancora un elemento chiave da definire e lo faremo nei prossimi mesi: il latte Nobile non è tutto uguale e il prezzo dovrebbe premiare la qualità del latte. Nei prossimi mesi definiremo un metodo di pagamento in base a parametri che riguardano il rapporto omega6/omega 3 ed alla qualità sensoriale dei fieni. Tutto questo è stato inserito nel contratto e solo la parte relativa ai fieni sarà decisa a breve. Con la cisterna e il contratto il dialogo con gli allevatori ha avuto il risultato atteso. La Compagnia della qualità, proprio mentre scrivo queste note, ha chiuso in Molise, nel bacino lattifero del Titerno, alcuni importanti contratti con tre allevatori, uno dei quali ha appena avviato una stalla con vacche Jersey e da subito ha voluto produrre Latte Nobile. Un ottimo latte per avviare nel modo più appropriato la produzione di panna e di burro.
Il settore della bufala è nelle stesse condizioni Ma il modello non ha interessato solo l’allevamento della vacca da latte. Per motivi sostanzialmente simili, la bufala sta vivendo la stessa crisi del bovino, anche se il problema non è l’abolizione delle quote latte bensì la deriva della qualità del latte, che a sua volta determina una concorrenza al ribasso, quindi una crisi del prezzo, per molti non più remunerabile. Per alcuni allevatori il modello latte Nobile è apparso l’ultima spiaggia. Nel settore della bufala non avevamo alcuna esperienza ma la seconda regola di Newton ci faceva dormire sonni tranquilli. Un allevatore in provincia di Caserta ha voluto provare, destinando solo 15 bufale al Latte Nobile. L’alimentazione è stata cambiata, adeguandola al disciplinare e dopo
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un paio di mesi sono stati fatti i controlli analitici del latte. Come c’era da aspettarsi, non solo il rapporto omega6/omega 3 è sceso sotto 4, attestandosi intorno a 3, ma le mozzarelle hanno manifestato in pieno la propria diversità: un gusto più persistente e variegato ed una maggiore cremosità rispetto alle mozzarelle fatte con il latte del gruppo di bufale alimentate con il sistema tradizionale. A quel punto è intervenuta la Compagnia della qualità con il metodo ormai consolidato: un contratto con un prezzo superiore a quello del mercato locale con opzioni sull’attivazione di un meccanismo premiativo della qualità.
La qualità dei fieni è precaria e modesta Se la qualità del latte dipende dal foraggio e dalle diverse erbe, allora, quando ci chiedono di aderire al Latte Nobile, la prima cosa che facciamo è una visita al fienile. Ormai l’esperienza è tale, abbiamo fatto tante analisi in condizioni di alimentazione diverse e con tanti livelli produttivi delle vacche, che ci basta una analisi sensoriale dei fieni ed il riscontro della produzione media giornaliera di latte per fare una ipotesi attendibile della qualità aromatica e nutrizionale del latte. Tali visite però finiscono per confermare quello che è diventato evidente già all’inizio di questo percorso, quando abbiamo iniziato a dialogare con gli allevatori di vacche da latte e di bufale: il fieno è un semplice foraggio abbandonato, se va bene, sotto una tettoia, con un colore quasi mai verde, come dovrebbe essere, ma variabile dal giallo al marrone e di variabilità di erbe e di biodiversità nemmeno l’ombra. Mano a mano che il numero delle visite aumentava, ci accorgevamo che oramai il fieno era diventato un “male necessario”, lo si falcia e lo si raccoglie quando si ha tempo, il ricovero non è necessario. Chi produce fieno sa che il compratore è interessato alla quantità, l’allevatore che deve distribuirlo agli animali è convinto che il fieno è solo un alimento che deve apportare fibra e proteine. Può bastare una sola erba, anche se di colore giallo. Non a caso l’unità di misura della qualità del fieno è il “camion”, l’autotreno. Naturalmente non dappertutto la situazione è
come quella descritta. Al Sud è drammatica, al Centro un po’ meno, al Nord, e soprattutto sulle Alpi, la tradizione è decisamente diversa. D’altronde c’era da aspettarselo. Per anni il mondo della ricerca ha incoraggiato la monocoltura con la motivazione che fosse meno costosa e, soprattutto, che migliorasse la qualità del latte e del formaggio. Erano e in parte sono, i tempi di grasso e proteina nel latte e di fibra e proteine del fieno e con questi parametri si esprimevano giudizi definitivi sulla qualità. Ero studente e utilizzavamo il metodo Van Soest per valutare e misurare la qualità dei foraggi. Sono in pensione, e questo metodo è ancora considerato l’unico attendibile. Come se ci fosse una relazione fra la carica di aromi e profumi e l’apporto in termini nutrizionali di un buon fieno e il suo contenuto in fibra, cellulosa, e proteina. E allora, perché coltivare i prati polifiti, che danno meno produzione, perché falciare in anticipo, visto che si ha meno erba, perché raccogliere nei tempi giusti il fieno e conservarlo in fienili costosi, visto che la proteina e la fibra non ricevono grandi danni? Un appunto per la prossima PAC e per la programmazione dei piani di sviluppo regionali: la qualità del latte e della carne si recupera essenzialmente attraverso il fieno e i fienili. Occorre quindi mettere in atto azioni in questa direzione: finanziamenti ai fienili, nel greening dovrebbe rientrare anche una classificazione della qualità dei fieni. In Francia c’è persino un fieno DOP, le Foin de la Crue. E tutto questo si potrà ottenere se il fieno sarà anch’esso pagato a qualità. Per quello che ci riguarda, abbiamo messo a punto un metodo di valutazione sensoriale dei fieni e i primi risultati saranno riferiti in questo libro dal gruppo di Infascelli dell’Università di Napoli.
Inizia la lunga marcia Ma un modello non è tale se non può prescindere dai protagonisti che ne hanno determinato lo sviluppo e se non può trovare applicazione in altri territori e con altri soggetti. E siamo alla seconda fase del modello Latte Nobile.
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Finora il modello di sviluppo ha avuto due protagonisti chiave: L’Anfosc e la Compagnia della qualità. Potrà sembrare un paradosso, ma il successo del modello sarà totale e definitivo se il settore potrà fare a meno dei soggetti che ne hanno avviato lo sviluppo. In sostanza, se il modello potrà trovare applicazione in qualsiasi parte del mondo, purché si rispetti il disciplinare di produzione, allora vorrà dire che lo sviluppo sarà, come si diceva negli anni ottanta, autopropulsivo. L’Anfosc al momento svolge il ruolo di coordinamento, di promozione, soprattutto di controllo e di certificazione. MA l’Anfosc è un’Associazione senza fine di lucro e ha competenze soprattutto tecniche. Mano a mano che le adesioni aumenteranno, il suo ruolo diventerà sempre più marginale e limitato alla consulenza scientifica. La funzione di controllo potrà essere e sarà effettuata dai tanti organismi di Certificazione che già operano in tutte i sistemi produttivi del mondo. Il raccordo fra i soggetti che operano nel settore del Latte Nobile e di comunicazione e marketing sarà facilitato e monitorato dalla SILN, una società che l’Anfosc ha contribuito a creare e di cui non fa parte. La Compagnia della qualità è una società privata per ora localizzata in Campania e le regioni circostanti. Ha svolto un ruolo determinante, continuerà a svolgerlo, ma in altre regione ed anche nella stessa regione, altri soggetti potranno intervenire ed utilizzare il marchio Latte Nobile per avviare e creare un’attività economica di successo. E’ quello che sta avvenendo. L’attivazione del sito web, i numerosi seminari organizzati in giro per l’Italia e gli articoli apparsi sulla stampa nazionale hanno intercettato non solo consumatori alla ricerca di novità gastronomiche e, nel nostro caso, del latte di “una volta”, come è riportato sulla confezione, ma allevatori stanchi di un modello che, almeno per loro, appare senza futuro e senza prospettive. Siamo stati allora contattati da allevatori del Piemonte, del Lazio, della Puglia, del Molise, della
Basilicata e della Sicilia. La caratteristica di tutti questi allevatori è che possono agire in maniera individuale in quanto riescono a chiudere la filiera in azienda. Non hanno cioè bisogno di vendere ad intermediari per far arrivare sul mercato il latte per uso alimentare o per la trasformazione. Ma sta cambiando anche la tipologia di allevatore. In Campania e Molise si tratta di piccoli allevatori il cui sistema di allevamento già si avvicinava al disciplinare del latte Nobile, per cui le modifiche non sono state sostanziali. Adesso invece entrano nel settore soggetti che vogliono drasticamente cambiare, perché le prospettive non lasciano intravvedere sbocchi positivi. Riporto a titolo esemplificativo due casi molto interessanti anche per i risultati tecnico-scientifici che ci hanno permesso di acquisire.
A volte ritornano. I prati polifiti in pianura padana A Villastellone, in provincia di Torino, i fratelli Masera gestivano la classica azienda intensiva di Frisone basata, come la quasi totalità delle aziende della pianura padana, su insilato di mais e concentrati. La situazione era al limite, il modello non piaceva alla nuova generazione che ha preso in mano l’azienda e, ad un seminario che abbiamo tenuto a Bra in occasione di Cheese, ci sentono parlare di latte Nobile. La richiesta di adesione arriva dopo qualche mese. Senza remore e indecisioni, arano l’intera azienda e, sotto la direzione del prof. Cavallero dell’Università di Torino(ne parlerà in questo libro), seminano 25 ettari di prati polifiti, adottano il disciplinare del latte Nobile, ottengono la certificazione dopo un anno perché occorreva aspettare la formazione del prato permanente ed ora producono e vendono Latte Nobile, gelati e yogurt a Villastellone e nella gelateria al Centro di Torino.
La Frisona, una macchina da latte capace di rallentare la corsa Nel Lazio, a Segni, l’agronomo Andrea Colagiacomo si trova a gestire l’azienda familiare che è impostata sul modello intensivo con Frisone che producono latte di Alta Qualità. Ha un piccolo
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imbottigliamento e produce anche gelati e yogurt. E’ giovane, dinamico, aperto alle novità. Viene a conoscenza del modello e decide di provare. Alleva 150 vacche in lattazione, quindi un allevamento non proprio piccolo, e avvia la prova separando un gruppo di 48 vacche ed alimentandole secondo il disciplinare del latte Nobile. Tutta la fase di preparazione e di controllo viene effettuata dall’Unità diretta da Antonio Fagiolo dell’Istituto Zooprofilattico di Lazio e Toscana e dal prof. Infascelli dell’Università di Napoli. Il primo gruppo effettua il monitoraggio del benessere animale, il secondo quello della qualità dei fieni e del latte. I risultati sono riportati in questo libro. Io aggiungo solamente che l’allevatore è soddisfatto, riesce a vendere contemporaneamente sia latte di Alta Qualità sia Latte Nobile, naturalmente a prezzi diversi. Vedremo se nel futuro tutta l’azienda sarà destinata a latte Nobile. Al momento questo modello è per noi di grande interesse perché ci permette di studiare e approfondire le tematiche e gli effetti del “ritorno” alle tecniche di una volta sul benessere animale, sulla fertilità dei suoli e sulla qualità del latte. Un campo scuola a cielo aperto, impagabile di questi tempi. Il primo dato scientifico importante è che le Frisone, contrariamente a quanto viene sentenziato dal mondo della selezione, hanno ridotto il livello produttivo non solo senza problemi ma recuperando quote di benessere.
Il Latte Nobile non è più una buona idea ma un modello che funziona La lezione che ci viene dal modello Latte Nobile è che lo sviluppo di qualsiasi prodotto può essere possibile se la sua diversità, la sua specificità, possono essere ripetibili, attraverso il disciplinare di produzione, certificabili, attraverso controlli mirati e raccontabili, attraverso l’estrapolazione e l’uso sia dei fattori che determinano tale differenza e sia delle parole chiavi che permettono di raccontarla. Spesso ci dicono che abbiamo scoperto l’acqua calda, che in fondo lo sanno tutti che alimentando bene gli animali, che ritornando al passato, la qualità del latte migliora. Certo, rispondiamo ma, a parte che ancora adesso il mondo della vacca da latte pretende di
produrre latte di Alta Qualità con una selezione spinta degli animali e con razioni alimentari basate su una sola erba ed una quantità sproporzionata di concentrati e sottoprodotti ed integratori, e quindi, per questo mondo, anche l’acqua calda è una rivoluzione, ma non basta produrre un buon latte per vendere “bene” un buon latte. Soprattutto quando non hai a disposizione risorse economiche da destinare alla comunicazione. Questo modello ci dice che lo sviluppo non lo ottieni se coinvolgi solo un segmento della filiera e che non ti verrà riconosciuta la diversità se non fai diventare protagonista il consumatore, l’unico in grado di stimolare e attivare la filiera, permettendo di scavalcare i vari Ghino di Tacco che si trovano sul percorso. Negli anni ottanta si diceva -e per la verità molti lo dicono ancora adesso- che agli allevatori della montagna va riconosciuto e pagato il ruolo di presidio del territorio e di mantenimento delle frane e del dissesto. Insomma un poco di elemosina per fare stare bene noi che stiamo in pianura. Basterebbe invece che il consumatore pagasse bene, il giusto, i prodotti di questi allevatori non per far vivere bene loro, ma per vivere bene egli stesso, perché questi prodotti sono nutrizionalmente e aromaticamente più importanti. Non a caso il risultato finale di questo modello è un consumatore felice di pagare un prezzo alto per un buon prodotto e un l’allevatore felice di ricevere un prezzo giusto per il suo lavoro ed i suoi sforzi. Aggiungo che questo modello, se dovesse avere successo, sarebbe un’àncora di salvezza per tanti piccoli e grandi allevatori che sono destinati a scomparire e, soprattutto, è l’unica alternativa per tutti quei paesi in via di sviluppo dove il prodotto locale è penalizzato da importazioni che vengono apprezzate di più e meglio dai consumatori locali. Ma questa è un’altra storia che speriamo di raccontare nel prossimo futuro. Non a caso il Latte Nobile ha avviato i primi passi nello Stato di Colima in Mexico e Miguel Galina, dell’Università di Città del Messico ne racconta il tentativo in questo libro.
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Se ogni lunga marcia presuppone un primo passo, il modello Latte Nobile di passi ne ha fatti già più di uno. Il gruppo di lavoro dell’Anfosc è composto dal sottoscritto e da: Michele Pizzillo, Adriano Gallevi, Daniela Princigalli, Mimmo Pontillo, Mariolina Boscarelli e Antonio Doronzio.
Bibliografia L’argomento trattato in questa nota affronta un argomento troppo vasto e richiederebbe una bibliografia che mal si concilierebbe con la voluta brevità del testo. Riporto solo qualche pubblicazione che è stata determinante per la scelta di alcuni passaggi chiavi del percorso che abbiamo intrapreso ed un libro che abbiamo scritto per raccontare le motivazioni che ci hanno portato a concepire un modello diverso di sviluppo della filiera da latte. Soren Krogh Jensen, Anna Kirstin Bjornbak Johannsen, Jonn E. Hermansen, 1999. Quantitative secretion and maximal secretion capacity of retinol, beta-carotene and alfa-tocoferol into cows’ milk. Journal of Dairy Research, 66: 511-522. C.Agabriel, A.Cornu, C.Journal, C.Sibra, P. Groller, B. Martin, 2007.Tanker variability according to farm feeding practices: vitamins A and E, carotenoids, color and terpenoids. J. Dairy Sci. 90: 48844896. L.Pizzoferrato, P.Manzi, S.Marconi, V.Fedele, S;Claps, R:Rubino, 2007. Degree of antioxidant protection: a parameter to trace the origin and quality of goat’s milk and cheese. J.Dairy Sci. 90: 45694574. Pamela Manzi, Laura Pizzoferrato, Roberto Rubino, Michele Pizzillo, 2010. Valutazione di composti della frazione insaponificabile del latte vaccino proveniente da diversi tipi di allevamento. Atti convegno Ciseta, 482- 486. Pamela Manzi, 2011. Come è cambiata la qualità del latte negli ultimi venti anni. Caseus,
S.Claps, M.Pizzillo, R.Rubino, 2011. Dalle stalle le stelle, Caseus Editrice, Potenza, pp.135.
Tesi di Laurea F. Manco, 2013. Diversamente uguali: Il progetto Latte Nobile. Relatore Prof. Nicoletta Murru, Università di Napoli, Corso di Laurea in Medicina Veterinaria. F. Esposito, 2013. Lo sviluppo e il lancio di un nuovo prodotto. Il caso del Latte Nobile. Relatore Prof. Andrea Runfola, Università di Perugia, Corso di Laurea in Statistica ed Informatica per la Gestione delle Imprese. D. Furio, 2013. Una qualità “diversa” è possibile: il caso del latte nobile. Relatore prof. Serena Calabrò, Università di Napoli, Corso di Laurea in Tecnologie delle Produzioni Animali.
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Il significato dei foraggi prativi nei sistemi zootecnici per la produzione del latte Bruno Ronchi Universtità degli Studi della Tuscia Presidente Associazione per le Scienze e le Produzioni Animali (ASPA)
Introduzione Riscoprire il significato di quell’ampia varietà di foraggi proveniente da pascoli e da prati può sembrare fare un tuffo indietro nel passato, quando l’alimentazione degli erbivori di interesse zootecnico, ma anche di molti altri animali che oggi non consideriamo più erbivori, quali il suino, l’oca, l’anatra, etc., era prevalentemente o esclusivamente basata sull’impiego di tali risorse alimentari, per lo più mediante il pascolamento. La tematica risulta invece estremamente attuale e oggetto di numerose ricerche anche nei paesi che hanno sviluppato per primi le forme più intensive di allevamento in condizioni di stabulazione. La rinnovata attenzione verso forme meno intensive di allevamento è dettata in primo luogo da ragioni economiche, a fronte di una sempre più evidente insostenibilità dei sistemi intensivi che si sono diffusi negli ultimi decenni. Ma esistono anche motivi legati alla possibilità, attraverso l’impiego di foraggi di buona qualità e all’applicazione di buone pratiche di gestione, di migliorare le condizioni del benessere animale e la qualità dei prodotti di origine animale. La qualità dei foraggi non è semplicemente il risultato di una naturale e casuale combinazione di eventi, quanto piuttosto il risultato di un serio programma di pianificazione e gestione delle risorse foraggiere per le necessità degli animali allevati. L’attenzione sui foraggi è anche giustificata dalla rilevanza che assumono sulla superficie agricola mondiale. Basti pensare che, considerando l’Europa, i prati e i pascoli coprono oltre il 33% della superficie agraria (EUROSTAT, 2008). Tali aree assumono un
grande significato non solo per la possibilità che offrono di ricavare biomassa foraggiera per gli animali domestici e selvatici, ma anche per un’ampia pluralità di funzioni legate al loro valore estetico, ambientale ed ecologico. Una corretta gestione della superficie prativa fornisce, infatti, un contributo determinante alla prevenzione dei fenomeni erosivi, alla prevenzione del degrado del paesaggio e al mantenimento della fertilità del suolo. In questa nota verranno presi in considerazione aspetti relativi al significato dei foraggi per il benessere animale e alla valutazione della qualità dei foraggi prativi per l’alimentazione del bestiame. Verranno inoltre fatti alcuni cenni sul significato economico e sul valore ambientale dei foraggi prativi.
Consumo di foraggi e benessere animale Aspetti generali Il tema del benessere animale è sempre più frequentemente all’attenzione dell’opinione pubblica e oggetto di ampia produzione normativa in molte parti del mondo. I ricercatori che operano nel campo delle produzioni animali lo stanno indagando nei molteplici aspetti scientifici, dall’etologia, all’immunologia, al metabolismo, etc. Forte attenzione è anche posta agli aspetti etici. Molto frequentemente il tema si arricchisce di considerazioni che non hanno solide basi scientifiche, ma sono sostenute da pregiudizi ideologici o, più semplicemente, da false convinzioni. Molti sono i luoghi comuni, quali il pensare che l’allevamento intensivo del bestiame sia sempre e comunque sinonimo di grave perturbazione del benessere animale e, sul fronte opposto, il credere che gli animali che vivono allo stato brado godano indubbiamente di ottima salute. Ma rimanendo nell’ambito più contenuto, riguardante la valutazione dell’utilizzazione dei foraggi prativi sul benessere animale, le questioni fondamentali da analizzare sono: l’effetto dell’attività di pascolamento sul benessere animale, così come influenzata dal movimento, dalle condizioni climatiche, dalla qualità sanitaria dell’ambiente, dal tipo di gestione, etc.; l’effetto delle
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disponibilità alimentari e di acqua rispetto alle esigenze nutrizionali del bestiame. Si ritiene utile precisare che queste varie componenti presentano un elevato livello di interazione tra loro, in quanto, per esempio, la capacità di ingestione alimentare non è solo influenzata dalla qualità del foraggio, ma anche dalle condizioni ambientali, climatiche in particolare. Ed è proprio sull’ingestione alimentare che occorre soffermare principalmente l’attenzione, in quanto rappresenta uno dei parametri più strettamente collegati con il benessere dell’animale. Tra i fattori che influenzano la capacità di ingestione, ai primi posti vanno inseriti l’appetibilità e la digeribilità del foraggio. L’appetibilità, che può variare sensibilmente da una specie animale all’altra, è strettamente collegata alla composizione botanica del foraggio e allo stadio di sviluppo vegetativo. Nel caso dei foraggi conservati, si aggiungono evidentemente altre importanti variabili, legate alle modalità di raccolta e c di conservazione. I foraggi di alta qualità, siano essi freschi o conservati, stimolano la capacità di ingestione e permettono di soddisfare, in tutto o in buona parte, le esigenze nutrizionali degli animali. Al contrario, foraggi di mediocre qualità risultano poco appetibili e poco digeribili, determinando così carenze nutrizionali, perdite di peso, cali produttivi e problemi metabolici. Nel caso di bovini da latte diverse ricerche hanno permesso di prevedere il livello potenziale di ingestione di foraggi e di produzione lattea in funzione della qualità dei foraggi. A titolo di esempio, con foraggi di buona qualità è possibile prevedere un livello di ingestione che si avvicina al 3,5% di sostanza secca sul peso vivo dell’animale (Kolver & Muller, 1998). Con foraggi di scarsa qualità il livello di ingestione non supera il 2% del peso vivo (Noller, 1997). A questo punto entrano chiaramente in gioco anche aspetti legati alla gestione agronomica e alle modalità di pascolamento. Senza entrare nel merito degli aspetti agronomici, vale solo la pena sottolineare come, nel caso di sistemi zootecnici che sono basati fortemente sull’utilizzazione del pascolamento, siano da preferire soluzioni che permettano di ottenere un’ampia catena di foraggiamento, una buona permanenza
negli anni e una buona resistenza al calpestio del bestiame. Per questo, risultano più idonee e sostenibili soluzioni agronomiche basate sulla realizzazione di prati misti poliennali (Combs, 2001), i quali presentano anche vantaggi sul fronte ambientale ed ecologico. Sembra sempre più evidente che l’impiego di varietà foraggere locali offra una maggiore resistenza ai contrasti dovuti alla variabilità climatica, siccità in modo particolare, in quanto più facilmente adattabili alle caratteristiche del suolo (Brunetti, 2003). La presenza di una diversità vegetale permette di migliorare sensibilmente l’offerta di nutrienti per le esigenze degli animali allevati. Ma un grande vantaggio derivante dalla biodiversità dei foraggi risiede anche nel fatto che ciò potrebbe consentire agli animali di selezionare, a seconda delle necessità, piante dotate di proprietà medicamentose, contenenti cioè sostanze utili per disintossicare l’organismo o per svolgere una funzione antiparassitaria. I foraggi contengono molto di più che energia e proteine per la nutrizione animale. Molte piante contengono, infatti, composti bioattivi, definiti anche metaboliti secondari, che possono svolgere delle interessanti funzioni nutraceutiche o comunque benefiche per l’organismo animale. È il caso di comuni piante foraggere, quali, ad esempio, la sulla (Hedysarum coronarium), che presentano valori elevati di tannini condensati, utili per contenere la carica di endoparassiti (Niezen et al., 2002). Molte sono le segnalazioni pratiche di comportamenti alimentari degli animali al pascolo orientati ad assumere in alcuni periodi dell’anno particolari tipi di erbe. Restano da comprendere, su base scientifica, le ragioni di questi comportamenti, anche ai fini di un’eventuale applicazione. Per sgomberare però il campo dall’idea che l’alimentazione degli animali al pascolo o l’utilizzazione dei foraggi sia sempre e comunque utile per garantire condizioni di benessere degli animali, vanno sottolineati i seguenti aspetti:
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- i foraggi vanno inseriti all’interno di un piano alimentare che possa permettere di ottenere un equilibrato apporto di nutrienti per gli animali, prevedendo l’impiego di idonei supplementi e integrazioni quando necessario; - i foraggi presentano una grande variabilità di composizione e valore nutritivo, che deve essere attentamente valutata al fine di considerare il loro corretto impiego alimentare; - non sempre gli animali hanno la possibilità di “autoregolarsi” in un’alimentazione basata esclusivamente sui foraggi; - in alcune fasi del loro sviluppo i foraggi possono presentare una composizione “critica”, favorevole per lo sviluppo di alcune dismetabolie (sindrome uremica per esempio, da eccesso di sostanze azotate). Il contenuto vitaminico dei foraggi: carotenoidi e tocoferolo Il consumo di foraggi prativi, specialmente se freschi, è comunemente associabile a una colorazione giallastra del latte, del burro, del formaggio e talvolta anche del grasso animale. Questo fatto viene generalmente valutato dal consumatore e dall’allevatore come una condizione di “naturalità” dell’allevamento e anche di benessere animale. Tali colorazioni assunte dai prodotti di origine animale dipendono essenzialmente dalla presenza nei foraggi di pigmenti naturali, chiamati carotenoidi. Tali sostanze vengono almeno in parte trasferite nella frazione lipidica dei prodotti di origine animale. Alcuni carotenoidi, particolarmente il beta-carotene, sono precursori della vitamina A propriamente detta (retinolo), che solitamente è contenuta solo in alcuni alimenti animali, e svolgono un’importante funzione antiossidante. Tale funzione non riguarda esclusivamente proprietà nutraceutiche per il consumatore, ma coinvolge anche la stabilizzazione di molti composti del latte ossidabili, rendendo quindi il latte più stabile e gradevole. I carotenoidi più importanti rinvenibili nei foraggi sono, in ordine decrescente di concentrazione, la luteina, la zeaxantina e il trans-
beta-carotene. In minore quantità si rinvengono neoxantina, violaxantina, anteraxantina e cis-beta-carotene (Kalac, 2012). Non tutti i carotenoidi possiedono lo stesso valore biologico e nutrizionale. Da ciò deriva che la determinazione del contenuto totale di “carotene” nei foraggi non offre sufficienti informazioni di carattere qualitativo. Sarebbe dunque preferibile differenziarle, per esempio mediante cromatografia liquida ad alta risoluzione (HPLC), le singole molecole e le differenti forme isomeriche. Particolare attenzione deve essere posta alle modalità di campionamento dei foraggi, in quanto i contenuti in carotenoidi sono influenzati, oltre che dalle differenti specie botaniche, dalla fase vegetativa, parte della pianta e addirittura dal momento del prelievo nell’arco della giornata. -1
Tab.1. Contenuto di carotenoidi (mg/kg ) in foraggi freschi (da P. Kalac, parzialmente modificato).
Tipo di foraggio
Betacarote ne totale
Transbeta carote ne
Lutei na
Epilute ina
Zeaxant ina
Pascolo Montano
29,0
47,3
193,0
36,0
49,8
29,9
16,0
136,0
40,0
-
44,7
-
167,0
-
-
Trifoglio pratense (primo sfalcio) Prato permane nte
Refere nze Caldero n et al., 2006 Cardina ult et al., 2006 Muller et al., 2007
I trattamenti di conservazione dei foraggi determinano un forte perdita del contenuto di carotenoidi. Le perdite nel corso della fienagione sono tanto più pronunciate quanto più l’erba rimane in campo, a causa dell’effetto negativo dei raggi ultravioletti. Anche l’insilamento determina una riduzione del contenuto in carotenoidi e
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del loro valore biologico, tanto più accentuata quanto più alterati sono i processi fermentativi. Il tipo e la qualità del foraggio consumato dai ruminanti condiziona fortemente il contenuto di carotenoidi nel latte e nei grassi di deposito. Con l’aumento della concentrazione ematica di carotenoidi aumenta la quantità che viene catturata dalla ghiandola mammaria e riversata nel latte. Altri fattori sono tuttavia da considerare, ivi compresa ovviamente l’eventuale aggiunta di carotenoidi alla dieta mediante integratori. I foraggi freschi rappresentano, inoltre, una considerevole fonte di tocoferoli, tra i quali l’isomero alfa-, la più importante forma di vitamina E. Analogamente a quanto succede per i carotenoidi, i trattamenti di conservazione dei foraggi determinano una forte perdita di tocoferoli (Shingfield et al., 2005). Il trasferimento della vitamina E nel latte è influenzato da fattori nutrizionali, dalla stagione, dal management aziendale, dalla genetica e della fase di lattazione. All’aumento del contenuto di tocoferoli nei foraggi si verifica un aumento nel latte, anche se con un’efficienza di trasferimento non particolarmente elevata, quantificata dagli stessi autori sopra menzionati intorno al 2,8%. Ma più recentemente alcuni autori svedesi hanno riscontrato valori prossimi al 6% (Hojer et al., 2012). Ai cambiamenti di dieta, per esempio nel passaggio dal regime alimentare a base di foraggi freschi al regime a base di fieni, segue in pochi giorni (da una a due settimane) il cambiamento della concentrazione di tocoferolo nel latte. Al di là degli effetti ben conosciuti sulla salute dell’animale e dell’uomo, l’α-tocoferolo riveste un ruolo di grande interesse come fattore antiossidante nella prevenzione degli attacchi ossidativi a carico degli acidi grassi insaturi (Juhlin et al., 2010). L’alimentazione a base di foraggi, soprattutto se freschi, fornisce dunque un grande apporto di nutrienti per l’animale e non soltanto in termini di apporto energetico e proteico, ma anche in termini di apporto di vitamine e sali minerali, non considerati nella trattazione.
Tali nutrienti hanno, in primo luogo, un significato positivo per il benessere animale e, fatto non trascurabile, arricchiscono anche i prodotti di origine animale. Si potrebbe dunque concludere, se pur con una semplificazione, che benessere animale e benessere del consumatore sono strettamente collegati, nel senso che in una condizione di benessere, l’animale è in grado di produrre meglio, sia in termini quantitativi che qualitativi.
Come definire la qualità dei foraggi La definizione della qualità del foraggio è tematica largamente affrontata da specialisti sia del settore foraggiero, sia dell’alimentazione e nutrizione animale. Nel corso del tempo molti sono stati i contributi rivolti a comprendere sempre meglio il significato da attribuire alla qualità del foraggio per le diverse destinazioni. La qualità del foraggio è stata soprattutto associata alla composizione chimica e alla stima del valore nutrizionale, riguardando quindi il “valore nutritivo del foraggio”. I parametri usualmente indagati sono: umidità, energia, proteine grezze, fibra. Da altri punti di vista la “qualità del foraggio” è intesa come un termine più ampio del semplice valore nutrizionale, includente, per esempio, anche aspetti relativi all’interazione con l’animale (ingestione volontaria, performance produttive). Per tentare di tenere conto sia del valore nutrizionale, sia della capacità di un foraggio di essere assunto dagli erbivori, alcuni ricercatori americani hanno proposto il calcolo della “qualità relativa dei foraggi” (relative forage quality – RFQ) e hanno proposto una scala di valori idonei per le diverse categorie funzionali di animali (Undersander et al., 2010). È ormai abbastanza evidente che la qualità di un foraggio non può essere unicamente definita sulla base di analisi di composizione chimica. Basti pensare che uno dei parametri di composizione chimica più largamente utilizzato per definire la qualità di un foraggio, la fibra grezza o NDF, viene messa sempre più frequentemente in discussione. Il tradizionale assunto “la digeribilità diminuisce con l’aumentare del contenuto di fibra (NDF)” non sempre
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è dimostrabile, poiché non tutta la fibra presente nei foraggi presenta uguali livelli di digeribilità, e addirittura ciò riguarda anche la frazione ligninica (Mandebvu et al., 1999). Riteniamo che sia necessario considerare, ai fini di una corretta valutazione della qualità dei foraggi, il loro significato per il benessere animale, preso in esame nel capitolo precedente, e il loro significato per le produzioni, sia in termini di “quantità”, sia in termini di “qualità”. A partire dal tradizionale detto popolare “non fare di tutta l’erba un fascio” la qualità del foraggio, fresco e conservato, dovrebbe pesare e considerare tutti questi aspetti, in modo che il valore del foraggio sia strettamente legato al suo significato per la salute dell’animale, per le produzioni che è in grado di sostenere e per la qualità dei prodotti di origine animale. Va evidenziato, a questo proposito, il modello “latte nobile”, sviluppato di recente nel nostro paese a partire da alcune esperienze condotte in Campania e poi riprodotte in altre regioni (Rubino, 2014). Tale modello è fortemente incentrato sul ruolo dei foraggi di alta qualità nell’alimentazione dei bovini da latte, foraggi freschi da pascolo in modo particolare, ai fini di ottenere una qualità superiore del latte certificabile.
Qualche considerazione economica In diversi paesi del Mondo dove è diffuso l’allevamento del bovino da latte, tra i quali gli Stati Uniti, si sta sviluppando un crescente interesse per sostituire in tutto o in parte l’alimentazione in stalla del bestiame con l’utilizzazione del pascolamento intensivo (Fontaneli et al., 2005). Il concetto di base è quello di sostituire l’animale nel complesso e dispendioso sistema di raccolta, conservazione, preparazione e distribuzione dei foraggi. Dove il pascolamento fino a pochi anni fa veniva considerato come l’antitesi dello sviluppo tecnologico, ora sta diventando pratica diffusa. La tecnica di pascolamento che viene adottata è tuttavia a carattere intensivo, di tipo parcellare. È prevista l’utilizzazione di piccole superfici di
pascolo, che vengono cambiate giornalmente, e di alti carichi istantanei. La gestione dell’animale al pascolo avrebbe dunque anche il significato di aumentare i margini di reddito dell’impresa zootecnica, sia riducendo considerevolmente alcune voci di costo (strutture, macchine, carburanti, personale, gestione delle deiezioni), sia migliorando le condizioni di benessere e di efficienza riproduttiva del bestiame (Staples et al., 1994). Oltre a contribuire, in buone condizioni di gestione, alla riduzione del rischio economico, il pascolamento avrebbe anche il significato di aumentare la flessibilità dell’impresa zootecnica. Condizioni di base per una razionale utilizzazione del pascolamento per l’allevamento da latte sono: una regolare disponibilità di foraggio nel corso dell’anno, una buona appetibilità del foraggio con modeste variazioni della qualità e mancanza di importanti fenomeni di stress termico, da caldo in modo particolare. Man mano che ci si scosta da tali condizioni, allevando animali a medio-alto livello produttivo, aumenta il rischio di squilibri e carenze alimentari, con comparsa di problemi di salute del bestiame e riduzione consistente delle produzioni. I sistemi intensivi di allevamento dei bovini da latte sono stati fortemente basati su una foraggicoltura orientata verso due principali produzioni: l’erbaio di mais per l’insilamento e il prato di erba medica per la fienagione. In molte aree, anche a livello nazionale, queste colture risultano sempre meno sostenibili, sia per le condizioni del suolo, sia per le condizioni climatiche e, soprattutto nel caso del mais, per la forte richiesta di acqua di irrigazione (Chase, 2012). Vanno dunque ricercate o recuperate altre soluzioni, più economiche e a più elevato grado di adattabilità all’ambiente di produzione. Una ulteriore considerazione potrebbe riguardare la relazione tra qualità del foraggio e costo dell’alimentazione animale, la voce più importante del costo di gestione dell’impresa zootecnica. È ampiamente dimostrato che all’aumentare della qualità del foraggio si riduce la necessità di ricorrere all’impiego dei concentrati, con una
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sensibile miglioramento della redditività e anche del benessere animale. In prove recenti condotte su vacche da latte in condizioni di pascolamento intensivo è stato dimostrato che è possibile, con l’impiego di foraggi di alta qualità, ridurre in lattazione l’apporto di concentrato fino al 12% sulla sostanza secca complessivamente ingerita, senza compromettere il benessere animale e il livello produttivo (Daley et al., 2010). Va anche sottolineato che l’impiego di foraggi di buona qualità può contribuire a migliorare sensibilmente alcuni aspetti della qualità dei prodotti, latte in modo particolare. Ciò può e dovrebbe tradursi in un maggiore valore e in una maggiore remunerazione del prodotto. Si evidenzia, infine, che la PAC 2014-2020 prevede il cosiddetto “pagamento ecologico” (greening). Per accedere a tale misura gli agricoltori dovranno rispettare alcune pratiche agricole benefiche per il clima e per l’ambiente: la diversificazione delle colture; il mantenimento dei prati permanenti; la presenza di aree ecologiche. Fig. 1: chiavi di successo della produzione del latte mediante il pascolo
Quantità di foraggio disponibile
Supplementi di foraggio
Gestione agronomica e tecnica pascolamento
Ingestione di foraggio
Benessere animale Performance produttive Qualità dei prodotti
Valore nutritivo del pascolo
Supplementi di concentrati integratori
Il significato ecologico dei foraggi prativi Una riserva di biodiversità I pascoli e i prati permanenti presentano, in aggiunta agli effetti positivi sul bestiame e sui prodotti di origine animale, un grande significato ecologico e ambientale. Ciò è legato alla grande ricchezza floristica che, oltre ad offrire un quadro estetico di grande attrazione, richiama anche una grande presenza di artropodi e di tanti altri esseri viventi. Molto interessante è anche il significato della rizosfera, che rappresenta un substrato straordinario per batteri, funghi, artropodi, vermi, etc. (Brunetti, 2003). Il valore biologico del suolo aumenta notevolmente man mano che si passa dalla monocoltura al mosaico, come nel caso dei pascoli, e risente ovviamente anche delle modalità di gestione del bestiame allevato e di eventuali interventi agronomici.
La corretta valutazione dell’impatto ambientale Gli allevamenti estensivi degli erbivori, ruminanti in modo particolare, che sono basati prevalentemente sull’utilizzazione dei foraggi, vengono sempre più frequentemente chiamati in causa per responsabilità sull’emissione di gas serra. Nel caso specifico si tratta di emissioni di metano. È evidente che se si considera solo un aspetto della complessa questione “impatto ambientale”, allora è facile dimostrare che i ruminanti al pascolo rappresentano un grande danno ambientale. Ma considerare un solo aspetto appare estremamente scorretto e fuorviante. È d’altra parte dimostrato, prendendo in considerazione più aspetti dell’impatto ambientale, che il bilancio finale dell’allevamento estensivo su superfici foraggiere sia addirittura positivo, nel senso che riesce a catturare più gas serraequivalenti di quanti ne emette. I prati contribuiscono infatti a sequestrare una notevole quantità di carbonio atmosferico (CO 2) attraverso le foglie e gli apparati radicali.
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Conclusioni I foraggi hanno un significato fondamentale per l’alimentazione e per il benessere degli animali erbivori, ruminanti in modo particolare. È sempre più diffuso l’impiego dei foraggi prativi per l’alimentazione dei bovini da latte, anche mediante forme intensive di pascolamento. I contenuti nutrizionali dei foraggi freschi giovano alla salute dell’animale e possono essere trasferite nel latte e in altri prodotti per la salute del consumatore. La qualità dei foraggi non può essere completamente valutata e misurata solamente attraverso le classiche analisi chimiche. Ulteriori parametri di composizione meritano di essere considerati, così come il valore del foraggio per la capacità produttiva e il benessere animale, nonché per la qualità dei prodotti. Di particolare interesse appare il recente modello “latte nobile”, orientato all’ottenimento mediante l’impiego di foraggi di alta qualità di un valore nutrizionale superiore certificabile del latte bovino. Poiché la qualità dei foraggi non è il risultato di una fortuita combinazione di eventi, vanno messe a punto, anche con un forte supporto delle ricerca, le soluzioni agronomiche più idonee per ciascun contesto produttivo e per i diversi sistemi di allevamento, unitamente alle tecniche ottimale di utilizzazione. I foraggi prativi presentano anche un grande valore ecologico ed ambientale, contribuendo ad arricchire la biodiversità vegetale ed animale, il valore paesaggistico del territorio e contribuendo, attraverso buone pratiche di gestione, alla mitigazione dei fenomeni di inquinamento ambientale. L’impiego dei foraggi prativi nella alimentazione del bestiame, anche mediante il pascolamento, può concorrere a migliorare la redditività dell’impresa zootecnica, riducendo i costi di gestione, migliorando il valore commerciale dei prodotti e permettendo di accedere alle misure di carattere ambientale previste dalla PAC 2014-2020.
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Risorse foraggere, alimentazione animale e paesaggi agrari per i prodotti di qualità Andrea Cavallero, Giampiero Lombardi Università degli Studi di Torino Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari La lettura attenta di un paesaggio agrario segnala la potenzialità del luogo alla produzione agraria e zootecnica di qualità. Quanto più il paesaggio presenta coperture vegetali e colture diversificate, tanto più è probabile che siano esaltati dall’attività umana le diversità e i contrasti che ogni ambiente può esprimere, garantendo le migliori produzioni vegetali e animali derivate. Soprattutto in questi ultimi decenni, in molti luoghi, dalle pianure alle Alpi, dagli Appennini ai sistemi collinari, non si riscontrano più queste condizioni di potenziale eccellenza e quindi spesso il paesaggio “tace”, secondo un’efficace espressione di Pandakovic (1). Le “forme” dei luoghi e la vegetazione spontanea e antropizzata che li ricoprono non comunicano più a ciascuno di noi e alla comunità le ragioni della loro diversità e dei loro segni, che modellano e differenziano il paesaggio stesso. Si osserva frequentemente la perdita di significati un tempo espliciti, lo svuotamento dei “messaggi” dei territori stessi a favore di una omologazione produttiva, che tende alla standardizzazione dei prodotti e quindi anche del paesaggio. Si va forse perdendo anche la nostra capacità di cogliere e comprendere i vari messaggi dei territori, spesso così profondamente alterati rispetto alla tradizione locale, ma è indubbio che il paesaggio “tace” per la scomparsa o la riduzione di molte delle “diversità” che le tradizionali attività agricole avevano indotto. Osserviamo sempre più l’omologazione delle forme, delle scelte e dei comportamenti, imposta dallo sviluppo economico degli ultimi decenni, applicato con troppa leggerezza.
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La diversità e la ricchezza del paesaggio sono sostanzialmente il risultato del processo di insediamento dell’uomo sul territorio e della sua occupazione di tanti spazi particolari, di tante nicchie. Le nicchie hanno nutrito la diversità e i vari gruppi umani hanno trovato in esse i propri adattamenti, dando vita a tante comunità e alla loro cultura (2). I sistemi produttivi così introdotti e affermati erano fondati sulla valorizzazione delle diversità e dei contrasti delle risorse caratterizzanti i territori, con una grande varietà di soluzioni adattative. Oggi, invece, molti dei sistemi produttivi agricoli sono sempre più intensivi, specializzati, sempre più orientati alla monocoltura o quasi, sempre più difficilmente sostenibili dal punto di vista ambientale, ecologico e fruitivo, privi di originalità e spesso di autenticità. L’allevamento degli animali si è in gran parte allineato a questa impostazione produttiva, unificando sistemi di allevamento e soprattutto di alimentazione, specie e razze allevate. Anche i prodotti ottenuti, magari ancora formalmente diversi per nome, forme, stagionatura e confezioni, sono sostanzialmente simili per caratteristiche qualitative intrinseche, perché l’alimentazione è fondamentalmente basata su una o due colture foraggere come il mais insilato, integrato con importanti quantità di mangimi composti di elaborazione industriale. In questo contesto, i consumatori sembrano sempre più apprezzare i prodotti animali (latte, trasformati caseari e carni) derivanti da animali alimentati tradizionalmente con l’erba o il fieno dei prati e dei pascoli. Gli animali che alleviamo per il latte e la carne sono erbivori e in gran parte ruminanti, capaci di trasferire nei loro prodotti molte delle sostanze di pregio ritrovate nei foraggi, alimenti che per natura sono prevalentemente derivanti da formazioni erbacee polifite, utilizzate naturalmente con il pascolamento o, attraverso l’intervento umano, con il più antico sistema di conservazione che è l’essiccamento all’aria e al sole del foraggio precedentemente sfalciato.
Le caratteristiche di queste risorse foraggere, che definiamo seminaturali perché derivanti dalla combinata azione degli ambienti e dei processi di utilizzazione da parte degli animali domestici allevati, sono molto varie e la diversità è il risultato dell’interazione appena descritta. Ogni ambiente, per la posizione geografica, l’altitudine, l’esposizione, le caratteristiche climatiche e del suolo, e i possibili e differenti processi di utilizzazione delle stesse risorse erbacee, esprime foraggi diversi per composizione vegetazionale (numero e caratteristiche delle specie presenti), per stagionalità del ciclo produttivo, per produttività complessiva. A fronte di tipologie di risorse foraggere così diverse fra loro, è facile spiegare la differente gamma di prodotti caseari ottenuti in passato, in combinazione con le svariate tecnologie casearie messe a punto nei secoli e nei territori. Tali prodotti sono ancor oggi ottenibili a determinate condizioni di alimentazione degli animali. Dalle pianure, ai colli, alle montagne, le risorse foraggere tradizionali impiegabili nell’alimentazione animale sono così numerose e diverse che è in pratica impossibile descriverle compiutamente, se non in opere specializzate e riferite a settori territoriali ben definiti, anche se piuttosto ampi. Può essere esempio un volume redatto per le Alpi piemontesi (3). Tutte le risorse foraggere semi-naturali degli ambienti italiani, prati e pascoli, alle differenti latitudini e altitudini, sono caratterizzate dal polifitismo, ovvero da una complessità compositiva più o meno accentuata, con specie diverse, appartenenti ad alcune o a molte famiglie botaniche, fra loro integrate nella valorizzazione delle risorse naturali espresse dall’ambiente e da quelle indotte dalla stessa presenza degli animali utilizzatori con la brucatura diretta, lo sfalcio per l’intervento dell’uomo, l’apporto di fertilità al suolo diretto con le deiezioni, o tramite l’intervento antropico con le letamazioni. Le pianure, per la maggiore uniformità ambientale che in genere le caratterizza, esprimono formazioni polifite prative e pascolive meno
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ricche di specie, ma non per questo meno interessanti, anche per la più elevata produttività. Il loro foraggio è comunque sempre in grado di trasferire ai prodotti animali derivati, sostanze e molecole dette funzionali, di gran pregio per l’alimentazione umana (aromi, antiossidanti, CLA, acidi grassi a catena corta, vitamine A ed E ecc.). Non è poi trascurabile la ricaduta ambientale (vere colture di protezione delle falde acquifere per il modestissimo rilascio di nutrienti) e paesaggistica della prateria permanente che, con le sue fioriture e il verdeggiare nelle diverse stagioni, connota positivamente determinati ambienti di pianura atti alla sua coltivazione e a una fruizione multiuso del territorio che la include. Nella collina e soprattutto nella montagna alpina e appenninica, le vegetazioni prative e pascolive sono un patrimonio di grande valore dal punto di vista eco-sistemico, del paesaggio e della fruibilità turistico-ricreativa, per le molteplici valenze compositive e cromatiche. Molti hanno vissuto e vivono la bellezza di questi luoghi, ma non tutti, forse, hanno avuto l’opportunità di correlare le caratteristiche delle vegetazioni prative e pastorali alla loro genesi semi-naturale e comprenderne l’importanza paesaggistica ed economico-produttiva. Quelle praterie sono testimoni e archivi viventi della storia dell’insediamento umano sugli Appennini e sulle Alpi (prima ancora che nelle pianure malariche): veri segni d’erba di un passato, anche produttivo, ormai lontano, ma che abbiamo oggi il dovere di conservare o far rivivere nel nostro interesse generale. Le vegetazioni prato-pascolive di monte esprimono al massimo il polifitismo, accentuando nei prodotti animali derivati le caratteristiche di pregio di cui si è detto. E’ dunque possibile cogliere il collegamento fra il paesaggio agricolo di un territorio e la potenziale qualità dei prodotti animali derivati e lavorati in loco. In un territorio, la presenza rilevante di formazioni prative e pascolive, esprime una disponibilità di foraggi, potenzialmente di qualità, in grado d’influire positivamente sui prodotti zootecnici, anche in funzione di un auspicabile e razionale
collegamento fra lo stesso territorio e il suo prodotto. Il paesaggio può essere la bandiera di un prodotto di pregio derivato, così come un prodotto può essere la bandiera di un territorio.
Principali formazioni prato-pascolive polifite seminaturali italiane Una breve disamina, anche se un po’ scolastica, sulle formazioni prato-pascolive più importanti nell’ambiente italiano, riassunta da una più completa trattazione (4), consente di comprendere le notevoli diversità e i contrasti sfruttabili nella produzione lattea e casearia del Paese. Al nord, tra le formazioni polifite semi-naturali delle pianure, segnaliamo i Lolieti permanenti, a Lolium multiflorum, prati pingui dalla vegetazione fortemente influenzabile dal livello di intensificazione produttiva. Quanto più è equilibrata la gestione colturale, tanto più aumenta il polifitismo, con numerose altre graminacee, espressione di differenze ambientali fra le praterie, alcune leguminose di pregio, composite, plantaginacee, ranuncolacee, labiate. La tempestiva utilizzazione di queste risorse offre ottimo foraggio fresco per l’alimentazione verde, per il pascolamento, che arricchisce il cotico erboso di altre specie, se ripetuto costantemente, o per la fienagione, che può essere effettuata 3 o 4 volte nella stagione. Nelle aree collinari e nella bassa montagna si afferma l’Arrenatereto, derivante da inerbimento naturale condizionato dalle operazioni di sfalcio e letamazione. Sono molte le specie che caratterizzano questa formazione, graminacee, leguminose, asteracee, ombrellifere, labiate, cariofillacee, con uno spettro floristico veramente ampio. Anche in questo caso la tempestiva utilizzazione offre foraggi di alta qualità e ricchissimi di componenti di pregio e molecole funzionali. Nella media montagna si afferma in buone condizioni di fertilità il Triseteto, ottimo prato subalpino ricchissimo di specie, anche di
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grande valore estetico-paesaggistico, in grado di produrre dell’ottimo foraggio per il pascolamento o la fienagione. Nella collina e nella montagna sono anche presenti su terreni poveri e a volte mal gestiti, formazioni prato-pascolive oligotrofiche a Bromus erectus, che possono in parte evolvere verso Arrenatereti e Triseteti, se sottoposti a razionali interventi di fertilizzazione organica e tempestive utilizzazioni pascolive. Si tratta senza dubbio di formazioni foraggere più adatte ad animali meno esigenti di quelli in lattazione. Le formazioni sommariamente descritte assumono, passando dalla bassa, alla media e all’alta montagna delle Alpi e dell’Appennino centro settentrionale, connotazioni gradualmente più pascolive in funzione delle condizioni di giacitura e di prevalente utilizzazione. La diversificazione vegetazionale si accentua notevolmente con il moltiplicarsi delle situazioni ambientali e gestionali. I tipi vegetazionali riscontrabili sono moltissimi, con varianti locali ancor più numerose a costituire un “unicum” fra i vari massicci montuosi del mondo. Le vegetazioni alto-montane per le loro caratteristiche particolari, per l’incomparabile polifitismo che generalmente esprimono, sono in grado di sostenere produzioni casearie particolari, ad alto valore aggiunto, perché ottenute da foraggi naturali con qualità uniche, in grado di conferire, ai prodotti derivati, caratteristiche di pregio e di identificazione (5). Negli ultimi decenni, le notevoli trasformazioni sociali ed economiche verificatesi nel mondo rurale e montano hanno modificato in parte la situazione con l’abbandono o la gestione inadeguata di vaste superfici, determinando una graduale involuzione vegetazionale verso forme impoverite a più ridotta biodiversità. Tuttavia, anche se ridotte per superficie, rispetto a quella occupata nella metà del secolo scorso, sono ancora in gran parte riscontrabili sul territorio vegetazioni di gran valore e diversità, mentre s’intravede, in questi ultimi anni, una ripresa d’interesse per la loro conservazione e maggiore valorizzazione.
Si ricordano soltanto alcune delle formazioni più importanti per superficie occupata, iniziando dalle formazioni pascolive delle basse altitudini e via via passando a quelle degli ambienti sommitali:
i brachipodieti, formazioni impoverite su suoli a modesta fertilità, a ridotto polifitismo, ma sicuramente migliorabili in molti ambienti con una razionale gestione del loro potenziale produttivo; i lolieti-cinosureti, formazioni pastorali d’elezione della bassa montagna e collina, produttivi, ricchi di specie e adatti ad animali esigenti; i festuceti a Festuca gr. rubra, formazioni tra le più significative della fascia altitudinale montana e sub-alpina, dal corteggio floristico molto vario ed equilibrato, adatto a tutte le utilizzazioni e dal notevole significato ambientale; nelle situazioni meno favorevoli domina la Festuca gr. ovina con inferiori livelli di produttività, ma sempre con un ricco corteggio floristico; i nardeti secondari, formazioni derivanti prevalentemente dalla degradazione gestionale dei festuceti; comunque interessanti per il corteggio floristico, in parte anche arbustivo, e suscettibili di miglioramento con adeguate pratiche gestionali. Al limite superiore della vegetazione forestale, la gamma delle tipologie pastorali si amplia ulteriormente, in relazione ad una crescente influenza delle condizioni ambientali e in particolare dell’esposizione. Tra le formazioni più estese e più adatte all’utilizzazione pastorale con animali da latte si ritrovano, nelle aree meno acclivi, ancora festuceti particolarmente ricchi di specie e produttivi (festuceti a F. nigrescens), trifoglieti a Trifolium alpinum dal particolare significato pastorale e paesaggistico, formazioni a Poa alpina, Phleum alpinum e Taraxacum alpinum, molto utilizzate e in grado di esprimere ottimi prodotti caseari. Sui pendii soleggiati e su rocce calcaree,
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interessanti sono le formazioni a Onobrychis montana, riconoscibili dalle splendide fioriture rosa intenso, ed eccellente alimento per gli erbivori di tutte le specie e le categorie. Ancor più in alto, nella fascia altitudinale alpina e nivale, si riscontrano formazioni di elevato significato pastorale oltre che ambientale: quelle a Plantago alpina e Festuca gr. rubra, dal ricco corteggio floristico con vari trifogli e Leontodon hispidus, sicuramente tra i migliori pascoli della fascia altitudinale superiore; più discontinue per l’articolata morfologia altoalpina sono le formazioni a Nardus stricta e Plantago alpina arricchite da T. alpinum, Ligusticum mutellina e altre specie ancora; quelle sempre a Plantago alpina, con Alopecurus gerardi, Poa alpina, Carex foetida, che, nonostante il nome, presenta caratteristiche foraggere di elevato interesse, già note da secoli. Le formazioni naturali di prateria degli ambienti a influenza mediterranea, per la più accentuata variabilità climatica e per il maggior influsso antropico, sono più frammentarie e quindi più difficilmente definibili rispetto a quelle alpine e appenniniche centrosettentrionali. Dal livello del mare verso le fasce altimetriche poco più elevate, si ritrova tipicamente la steppa mediterranea con molte specie del genere Stipa (capensis, gr. pennata, offneri) e altre graminacee per lo più annuali, appartenenti ai generi Bromus, Vulpia, Avena, Hordeum, Aegilops, Laguru, in grado di assicurare a fine inverno-inizio primavera, a seconda dei luoghi, un periodo relativamente breve di foraggi di qualità. Nelle macchie mediterranee, più fresche, si possono trovare andropogoneti ad Adropogon distachyus con Dasypyrum villosum, Avena barbata, erbe mediche e trifogli annuali, con un polifitismo non trascurabile. Di maggior valore pabulare sono le associazioni a leguminose autoriseminanti che su terreno siliceo sono essenzialmente a Trifolium subterraneum, , T. yanninicum, T. hirtum, T. cherleri, T. nigrescens, T. glomeratum, Ornithopus compressus, Scorpiurus muricatus, mentre su terreni subalcalini o calcarei sono a T. brachycalycinum, Medicago polymorfa, M. orbicularis, M. murex, M. rigidula, M. truncatula, M.tornata, M. litoralis e affini. Le due serie di
leguminose sono sempre accompagnate da alcune graminacee (Lolium rigidum, Phalaris sp.pl., Avena sp.pl., Bromus spp, Hordeum sp.pl.) secondo gli andamenti termo-pluviometrici). Il polifitismo delle formazioni è sempre assicurato dall’autunno alla primavera, mentre in estate sono disponibili residui secchi con molti legumi maturi appetiti soprattutto dagli ovini. Nelle aree collinari a suoli calcareo–argillosi, ritroviamo formazioni a Phalaris coerulescens, Ph. truncata, Festuca gr. ovina e Cynosurus echinatus con molte leguminose appartenenti ai generi Hedysarum, Melilotus, Trigonella, Vicia, Lotus e Lathyr,. e specie dei generi Crepis, Inula, Cichorium, Echium, Geranium. Adeguatamente gestite queste formazioni possono offrire foraggi di qualità medio-elevata, in grado di esprimere prodotti caseari particolari. In certe situazioni inoltre, la moltiplicazione degli ecotipi locali di Hedysarum spp. e Onobrychis spp. con un’adeguata produzione di semente, potrebbe offrire un ricco contributo alla qualità dei cotici descritti, migliorati con l’apporto di tali ecotipi, adatti ai diversi ambienti. Sull’Appennino meridionale e in Sicilia, nella fascia altitudinale superiore, dominano i seslerieti a Sesleria nitida, con Bromus erectus e Dactylis hispanica, unitamente a diverse specie foraggere mediocri. Negli areali di altitudine dell’Appennino centrale le vegetazioni pastorali si avvicinano a quelle descritte per l’Appennino settentrionale con alcune formazioni caratteristiche come i seslerieticariceti a Sesleria tenuifolia e Carex Kitaibeliana, con presenze irregolari di Alopecurus gerardii e Trifolium thalii. Nell’insieme le vegetazioni sono sempre polifite e assai complementari fra loro. In questi ambienti non si può dimenticare il ruolo delle specie legnose, costituenti pascoli arborati con essenze quercine caratteristiche della Sardegna, o con componenti arbustive a costituire pascoli a macchia evoluta (Mirthus communis, Pistacia lenticus, Arbutus unedus, Phillirea latifolia, Erica arborea, Olea
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europea, alcune specie di quercia), in grado di assicurare agli animali un complemento alimentare importante, oltre alle specie erbacee presenti. Le formazioni a macchia bassa con rosmarino, lavanda, cisti e ginestra offrono invece foraggio d’interesse solo per la componente erbacea, nel complesso piuttosto povera. In generale tutte le formazioni descritte presentano un assortimento di specie importante con differenti specializzazioni funzionali (produttiva, anti-erosiva, difensiva dall’eccesso di prelievo da parte degli erbivori mal gestiti, complementari per la presenza di leguminose che rilasciano nutrienti, di fiori o di piante aromatiche che richiamano pronubi, ecc), in equilibrio con le sollecitazioni esterne provenienti dagli animali utilizzatori, che a loro volta influenzano il cotico per l’azione di brucatura, di calpestamento e per l’apporto di deiezioni solide e liquide. Ai fini della qualità dei prodotti di origine animale, in particolare per il latte, le formazioni pascolive seminaturali utilizzate correttamente e nella stagione appropriata assicurano le migliori qualità ottenibili.
Formazioni foraggere artificiali polifite Non tutti gli allevamenti però possono sostenersi con sole risorse semi-naturali. Condizioni ambientali diverse, situazioni aziendali, fondiarie, agronomiche, soggettive dei conduttori, possono rendere necessarie altre scelte tecniche più intensive, con l’introduzione dell’avvicendamento delle diverse colture proponibili in un determinato ambiente. Anche in questi casi, per l’allevamento animale di qualità sono utilizzabili colture diverse, ma sempre rispondenti alla caratteristica di base necessaria, espressa dal polifitismo, con le migliori specie e varietà adatte, consapevolmente consociate per ciascun ambiente. Assume quindi importanza la coltivazione di prati polifiti avvicendati di differente durata da 2 a 5 o 6 anni, secondo le condizioni ambientali e le esigenze dell’allevamento, costituiti da consociazioni di varietà selezionate delle migliori specie prative, appartenenti alle famiglie botaniche delle graminacee e delle leguminose. Lolium
multiflorum, L. perenne, L. hybridum, Festulolium, Dactylis glomerata, Festuca pratensis, F. arundinacea, Phleum pratense, Bromus inermis, Poa pratensis, sono le diverse specie graminacee più regolarmente impiegabili nei prati avvicendati di pianura del centro-nord; regolarmente consociate con alcune varietà di specie leguminose in funzione di ambiente, tipo di suolo, esigenze aziendali e dell’allevamento (Trifolium repens, T. pratense, T. hybridum, Medicago sativa, M. Lupulina, Onobrychis viciifolia, Lotus corniculatus). I miscugli da predisporre con le diverse specie e varietà di graminacee e leguminose possono prevedere per le specie da 2 consociare differenti rapporti in termini di numero di semi per m di suolo; rapporti che devono tener conto della competitività delle specie e varietà impiegate per ottenere una massa foraggera, consumabile dagli animali nelle diverse forme (erba pascolata, erba sfalciata e somministrata fresca agli animali, erba sfalciata e affienata), il più possibile polifita nei diversi periodi stagionali. Nelle aree collinari, montane e subalpine del centro-nord, si possono impiegare, oltre alla maggior parte delle specie indicate, per le graminacee, Arrenatherum elatius e, in zone collinari siccitose, B. willdenowii, evitando in genere l’impiego di loiessa e loglio ibrido; tra le leguminose si può aggiungere Anthyllis vulneraria. Per un’utilizzazione prevalentemente pascoliva le consociazioni polifite saranno formulate escludendo Lolium multiflorum, L. hybridum, Festuca pratensis, scegliendo per le altre specie varietà adatte al pascolamento. Negli ambienti mediterranei, la scelta dei miscugli per i prati avvicendati è più complessa per la necessità di far fronte a periodi critici di siccità normalmente più pronunciati. Per l’utilizzazione a sfalcio, la scelta delle specie da consociare dovrà necessariamente prevedere, in tutti i casi con particolare attenzione alle varietà impiegate, Festuca arundinacea, Dactylis glomerata, Bromus
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willdenowii, Phalaris aquatica, Festulolium, fra le graminacee, e Medicago sativa, Onobrychis viciifolia, Hedysarum coronarium, fra le leguminose. Per un’utilizzazione pascoliva è possibile aggiungere fra le graminacee Lolium rigidum, Cynodon dactylon, Eragrostis curvula; fra le leguminose: Trifolium subterraneum, T. brachycalycinum, T.yanninicum e Medicago polymorfa. L’impiego di questo tipo di risorse non è così generalizzato e generalizzabile nelle zone di allevamento centro-meridionali, dove spesso le esigenze alimentari sono invece soddisfatte con erbai annuali per differenti ragioni. Gli erbai annuali, più frequentemente inseriti nel sistema colturaleforaggero centro-meridionale, spesso non presentano le caratteristiche del polifitismo, essendo prevalentemente formulati con Avena sativa consociata a Vicia sativa, o con altre specie sempre consociate in formazioni bifite (Trifolium incarnatum, oppure T. alexandrinum, oppure T. squarrosum, e altri ancora). L’impiego di più specie da erbaio consociate può, in analogia con il prato avvicendato, consentire la produzione di foraggio polifita con sufficiente equilibrio fra i componenti e con caratteristiche di qualità generalmente superiori. In certe situazioni poco adatte alla semina diretta di erbai polifiti e in attesa di acquisire le conoscenze necessarie, è possibile, in alternativa, assicurare un‘alimentazione polifita agli animali direttamente in mangiatoia, moltiplicando negli appezzamenti aziendali alcuni tipi di erbaio costituiti da differenti consociazioni bifite fra le specie potenzialmente più adatte all’areale di coltivazione.
Il modello produttivo imposto dal Latte Nobile
foraggero
razionalmente
Tutti i dati analitici e tecnologici sulla qualità del latte Nobile concordano sul ruolo primario e irrinunciabile del foraggio polifita utilizzato dagli animali. Tale requisito s’impone nel relativo disciplinare produttivo come il principale condizionatore del risultato
qualitativo atteso. Le risorse polifite permanenti esistono ancora e potranno anche migliorare ed espandersi nuovamente; le risorse polifite avvicendate sono ovunque coltivabili, ma non è comunque immediato un rapido e diffuso ritorno a una foraggicoltura di qualità. Nel momento in cui la produzione di un latte di qualità superiore come il Latte Nobile si afferma come alternativa produttiva, si evidenziano nettamente i molti problemi da risolvere nel settore foraggero in tutte le aree interessate, per giungere ai necessari adeguamenti in termini di polifitismo delle risorse impiegabili, siano esse risorse permanenti, avvicendate prato-pascolive, o erbai.
Problematiche della foraggicoltura permanente e avvicendata italiana L’agricoltura italiana risente, da alcuni decenni, degli orientamenti, per ora vincenti, di una parte della ricerca, di molti tecnici e del mercato, verso la monocoltura maidicola anche in campo foraggero. Ne sono derivate la semplificazione produttiva e la standardizzazione dei relativi processi (e dei prodotti), che hanno sottratto interesse per la praticoltura in genere, assai più complessa da gestire, riducendone drasticamente l’importanza in termini di superficie occupata e trascurando gli effetti positivi sulla qualità dei prodotti zootecnici, intesa, questa, nei termini, radicalmente diversi, proposti da ANFOSC. Sono state invece assai poco ascoltate altre acquisizioni della ricerca ottenute negli ultimi 50 anni, che hanno indicato opportunità, scelte tecniche e criteri operativi nei diversi areali italiani, a favore del polifitismo in foraggicoltura e della gestione conservativa delle risorse seminaturali. Le ragioni dell’insuccesso sono molteplici e di diverso peso. Nei paragrafi seguenti saranno esaminati gli aspetti più significativi del problema. 1) Assistenza tecnica alle Aziende Nel mancato sviluppo di una foraggicoltura nuova orientata prevalentemente alla qualità dei prodotti ottenibili, ha indubbiamente ha avuto un ruolo molto importante l’insufficiente trasferimento delle
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conoscenze acquisite dalla ricerca. È mancata sostanzialmente in tutte le Regioni, un’assistenza tecnica aziendale competente e adeguata, non legata a interessi mercantili, come si osserva in alcune Nazioni confinanti l’Italia, in grado di accompagnare, nelle stesse aziende interessate, l’evoluzione tecnica per comprendere e conservare la foraggicoltura prato-pascoliva permanente e l’avanzamento della foraggicoltura da prato avvicendato e da erbaio. Anche negli areali montuosi, dalle Alpi agli Appennini, dove predominano per ragioni ambientali le formazioni permanenti (prati e pascoli), analogamente, non c’è stata la diffusione a livello aziendale delle conoscenze tecniche per interpretare le diverse risorse, apprezzarne le diversità e i contrasti e quindi conservarle in funzione di una razionale valorizzazione. Nel sud della penisola, dove il mais non è entrato in modo preponderante fra le colture, fondamentalmente per ragioni climatiche, sono gli erbai autunnoprimaverili monofiti o bifiti ancora a prevalere, quale conseguenza di orientamenti produttivi verso la semplificazione produttiva e per insufficienti conoscenze sulle possibilità alternative e sui risultati attendibili in termini di qualità del latte. Alla mancata assistenza tecnica, si aggiunge la tradizionale diffidenza degli imprenditori anziani nel recepire innovazioni più impegnative nella gestione aziendale, che trova giustificazioni nell’abbandono in cui spesso è stata lasciata l’agricoltura, soprattutto quella condotta da piccole aziende, e spesso anche da medie e grandi aziende che evidenziano insufficienti conoscenze tecniche nel settore della foraggicoltura al di fuori della monocoltura maidicola, del prato di erba medica, dell’erbaio di loiessa o dell’erbaio di avena e veccia o poco altro. Tutti gli aspetti di programmazione del sistema foraggero pratopascolivo permanente o avvicendato prativo o con erbai polifiti, con valutazione dei risultati e individuazione degli interventi correttivi a tutto campo, richiedono specifiche conoscenze raramente riscontrabili per ora fra gli operatori del settore e anche in molti
tecnici agricoli (dal semplice riconoscimento delle specie a tutti gli stadi vegetativi, al rilievo dei rapporti quantitativi fra le specie consociate, agli effetti delle diverse pratiche agronomiche e gestionali sui rapporti vegetazionali). Occorre quindi un’integrazione fra attività: l’apporto qualificato di tecnici preparati, eventualmente a tal fine formati, per impostare gli accertamenti tecnici e trasferire le conoscenze necessarie e la volontà e la disponibilità di imprenditori aperti e interessati a recepire l’innovazione. Alcune recenti iniziative incoraggianti con giovani imprenditori del “Consorzio Formicoso Alta Irpinia - Agricoltura e Sviluppo Sostenibile”, che hanno accettato di provare e verificare i risultati ottenibili, inducono a proseguire celermente nelle attività di integrazione delle diverse risorse e di trasformazione dei sistemi foraggeri. L’eccellente qualità di alcuni prodotti caseari ottenuti in un’azienda del Consorzio Alta Irpinia con l’integrazione foraggera fra erbai e pascoli permanenti, pone l’accento sull’importanza della valorizzazione di risorse diverse nello stesso ambiente. Con personale preparato occorre poi sviluppare le conoscenze per migliorare i numerosi sistemi foraggeri in conformità ai parametri di qualità del latte prodotto, da definire come “parametri obiettivo”. Nelle diverse situazioni occorre dunque organizzare e controllare il sistema foraggero al fine di stabilizzare il più possibile, durante le diverse stagioni, le caratteristiche compositive e nutrizionali del latte, prendendo come riferimento i valori delle produzioni primaverili, ma sempre rispettando le differenze indotte dal mutare dei foraggi con le stagioni. Differenziare i prodotti caseari con le stagioni potrebbe anche aumentare i motivi d’interesse per gli stessi prodotti. L’integrazione fra le differenti tipologie di risorse può ulteriormente contribuire al miglioramento della foraggicoltura nei termini indicati. 2) La scelta varietale nella foraggicoltura avvicendata Oggi più che in passato, è rilevante il problema della scelta varietale per le diverse specie foraggere suggerite, sia da prato, sia da erbaio.
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L’unico strumento proponibile per porre rimedio al problema è l’organizzazione, in numerosi ambienti e ad altitudini diverse, di un sistema di adeguati confronti varietali, di specie, varietà differenti, coltivate in purezza e variamente consociate. Solo così si potrà offrire supporti tecnici importanti per il miglioramento diffuso dei sistemi foraggeri italiani. I criteri di valutazione non devono esaurirsi con la produttività delle cultivar, ma occorre che sia valutata la persistenza, la precocità, la capacità di ricaccio, la rispondenza alle diverse modalità di utilizzazione e le caratteristiche qualitative in termini di abbondanza di composti funzionali (caroteni, polifenoli, vitamine, ecc.). Volendo poi attuare delle consociazioni fra alcune specie, occorre valutare nelle stesse condizioni indicate, il comportamento delle specie e cultivar variamente consociate, per verificare tutti gli aspetti tecnici necessari a stabilizzare, nei prati, il più possibile nel tempo, i rapporti fra le specie scelte, pur con le variazioni stagionali immodificabili e negli erbai per garantire nel prodotto finale l’apporto complementare desiderato fra le varie specie incluse nel miscuglio. L’abbandono in molte aziende della praticoltura avvicendata è anche la conseguenza d’insuccessi derivanti da scelte errate indotte dal settore commerciale, senza altri adeguati supporti tecnici. Analogo discorso può essere fatto per gli erbai, dove prevalgono quelli monofiti o bifiti proprio per la difficoltà di ottenere foraggi polifiti equilibrati fra le specie seminate. Le singole aziende possono o potranno saggiare il comportamento di specie e cultivar nel proprio ambiente, ma non potranno mai sostituirsi a un programma di assistenza tecnica, adeguatamente programmato e condotto da esperti. 3) Valorizzazione degli ecotipi locali Nel contesto indicato, deve essere anche considerato adeguatamente il valore di molti ecotipi locali, di grande significato foraggero, che richiederebbero soltanto una verifica comportamentale e la produzione di adeguate quantità di seme nell’areale di provenienza per un utile impiego aziendale.
Quest’aspetto, già oggetto di significative ricerche specialmente nell’areale sardo, non può che essere affrontato da enti di ricerca per l’individuazione delle specie pregevoli, per organizzare la raccolta semi e la moltiplicazione della semente, da utilizzare nello stesso ambiente o in ambienti similari, fino alla eventuale costituzione di nuove cultivar a più ampia valenza ambientale. Sono molte le specie che si presentano nei vari ambienti con ecotipi spontanei interessanti. Tra le leguminose più interessanti si citano Onobrychis viciifolia e O. montana, Hedysarum coronarium, Trifolium pratense,Trifolium subterraneum, T. brachycalycinum, Medicago sativa, Medicago polymorfa; tra le graminacee Lolium perenne, L. rigidum, Dactylis glomerata, Festuca arundinacea. 4) Meccanizzazione della semina delle consociazioni polifite. Spesso nelle aziende zootecniche che desiderano tornare alla praticoltura o agli erbai polifiti si aggiunge, al problema varietale, quello della semina dei miscugli con semi di differenti dimensioni e in percentuali definite fra le specie e le varietà seminate. Si riscontra, infatti, la ridotta diffusione nelle aziende delle seminatrici adatte a due tramogge, mentre è poco conosciuto il rimedio del diluente secco (segatura di legno setacciata) per stabilizzare il miscuglio durante le operazioni di semina. Sono inoltre assai rare nelle aziende le seminatrici a doppio rullo scanalato, anteriore e posteriore alla caduta del seme, per ottimizzare il ricoprimento dello stesso e migliorare l’emergenza delle plantule anche in terreni soggetti alla formazione di crosta. Considerando il modesto impiego temporale di queste macchine in azienda, il loro acquisto cooperativo o consortile potrebbe contribuire a risolvere il problema. 5) Lotta alle specie infestanti dei prati avvicendati La lotta alle infestanti nella coltura dei prati polifiti avvicendati è assai più complessa che in quella di altre colture annuali, soprattutto se il prato polifita segue colture maidicole ripetute. Volendo escludere il diserbo in presemina per evidenti ragioni di salubrità dell’ambiente e dei foraggi ottenuti, l’unica soluzione proponibile è la tecnica della falsa semina con distruzione meccanica delle plantule infestanti germinate prima della vera semina delle foraggere.
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6) Gestione del manto erbaceo nella praticoltura avvicendata. A semina riuscita del prato polifita, assume notevole importanza la valutazione periodica del manto erbaceo (in termini di copertura e rapporti quantitativi fra le specie), per poi correggere le cause di eventuali squilibri vegetazionali determinati da scelte specifiche e varietali, da scorretti rapporti in fase di semina o di emergenza fra i componenti, da modalità e severità delle utilizzazioni, da pratiche colturali scorrette (concimazione e irrigazione eventuale). Solo così sarà possibile prevedere anticipatamente gli interventi correttivi e conservare nel tempo la tipologia vegetazionale desiderata e rispondente ai diversi ruoli previsti per il prato (produttivi, ambientali, paesaggistici), sempre considerando che modeste variazioni compositive stagionali sono da ritenersi normali. La tecnica colturale da applicare ai prati deve essenzialmente assumere il carattere di tecnica correttiva degli squilibri vegetazionali precocemente osservati. Modalità di utilizzazione, integrazione fra differenti tecniche (dal pascolamento, allo sfalcio in differenti stadi delle specie presenti), concimazione organica ed eventualmente minerale, con funzioni prevalentemente correttive, trasemina delle specie di pregio diradatesi precocemente o di altre interessanti in aggiunta, sono tutte tecniche che, in combinazione fra loro, possono allungare la vita di un prato avvicendato. È anche possibile, in certe condizioni, procedere “all’invecchiamento guidato dei cotici consociati” per trasformare il prato avvicendato in permanente, migliorando ulteriormente la gamma delle risorse disponibili. Questo è ottenibile con periodici interventi di miglioramento con specie, varietà ed ecotipi di pregio traseminati, accettando via, via, l’inserimento di specie spontanee di buona qualità e in grado di esaltare nel latte i contenuti di alcune sostanze aromatiche e nutrizionali di pregio. Nella valutazione periodica del manto vegetale, la struttura delle specie di un prato assume un significato diagnostico importante. Quando la dimensione dei cespi delle graminacee a lamina larga e produttive è notevole e questi appaiono gradualmente sempre più spaziati fra loro, l’equilibrio vegetazionale è compromesso, in quanto le altre specie sono destinate ad un progressivo diradamento.
Occorre intervenire con utilizzazioni più frequenti, con il pascolamento anticipato, per contenere la competitività delle specie dominanti, ridurre o eliminare gli apporti azotati, incrementare quello fosfatico a favore delle leguminose, intervenire con la trasemina di specie adatte. Se questo non fosse sufficiente, nella ricostituzione successiva del prato dovrà essere riconsiderata la composizione della consociazione, la scelta varietale delle specie dominanti e dominate, le quantità rispettive di seme, la tecnica di semina, che potrebbe aiutare a conservare l’equilibrio seminando a file separate le graminacee e le leguminose (è anche possibile una semina a file doppie separate fra i due gruppi di specie, per ridurre ulteriormente la competitività interspecifica). 7) Valutazione del manto erbaceo negli erbai per la corretta formulazione delle consociazioni. Nel caso degli erbai, esaminare correttamente il manto vegetale assume essenzialmente il significato di valutare la riuscita dell’erbaio polifita; eventuali variazioni compositive sono logicamente da introdurre nell’erbaio successivo. Durante il breve ciclo dell’erbaio è, infatti, molto difficile intervenire per modificare i rapporti quantitativi delle specie consociate, salvo il caso in cui siano carenti le graminacee, favorite da un modesto apporto azotato in copertura a fine inverno. 8) Gestione delle formazioni prato-pascolive permanenti Per queste risorse ancora esistenti, di grande significato produttivo e ambientale, si potrebbe suggerire prioritariamente un’analisi accurata per Regione, secondo modelli già applicati per le Alpi occidentali (3) e più recentemente per le praterie francesi (6), con lo scopo di evidenziare le tipologie più promettenti e suscettibili di miglioramento e conservazione, da integrare con le risorse avvicendate. A livello aziendale, sia per le praterie sfalciate, sia per quelle pascolate, valgono le precedenti considerazioni sulla valutazione del manto vegetale al fine di individuare gli interventi gestionali correttivi. L’interpretazione delle variazioni vegetazionali e l’individuazione degli squilibri che le determinano in tutti gli ambienti non sono facili da accertare, richiedendo conoscenze ecologiche
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generali e specifiche per le principali specie del cotico. L’applicazione dei suggerimenti correttivi è poi alla portata dei singoli imprenditori soltanto con adeguati supporti tecnici iniziali.
Possibili ricadute degli interventi per il miglioramento della foraggicoltura Il superamento delle carenze tecniche riguardanti l’impianto dei prati polifiti, potrebbe dunque favorire in molti areali il passaggio da una foraggicoltura a ciclo breve o brevissimo, a una foraggicoltura polifita di più lunga durata o stabile. Gradualmente i prodotti caseari derivati potrebbero migliorare per qualità intrinseche, gustative e anche visive, come il colore giallo che assumono alcuni derivati (burro, ricotta, formaggi) quando il foraggio consumato fresco è ricco di caroteni. I prodotti di qualità superiore, così distinguibili, potrebbero ritornare a essere universalmente apprezzati, innescando il ritorno a una nuova foraggicoltura di qualità. Ricadute economiche importanti potrebbero essere l’autonomia foraggera aziendale a supporto di prodotti di qualità superiore, con valore aggiunto in gran parte trasferibile agli attori primari della filiera. Le ricadute ambientali attese sono essenzialmente collegate al miglioramento dell’azotofissazione in molte consociazioni, alla protezione delle falde acquifere per i modesti rilasci di nutrienti delle praterie, alla conservazione e all’incremento delle formazioni permanenti seminaturali prato-pascolive, pregevoli per l’aspetto paesaggistico e per la loro fruibilità, senza dimenticare il collegato e notevole incremento di biodiversità. Le nuove e attese risposte del comparto agricolo foraggerozootecnico di molti ambienti potrebbero dunque riconciliare efficacemente aspetti economici produttivistici con aspetti socioambientali sempre più importanti.
Realtà operative in evoluzione Dalla Campania al Molise, dal Lazio al Piemonte, alcune Aziende pilota hanno avviato la trasformazione del proprio sistema foraggero. Nelle prime due Regioni, gli erbai saggiati con 4 o 6 specie hanno fornito risultati incoraggianti per l’importante opera del citato Consorzio Formicoso Alta Irpinia - Agricoltura e Sviluppo Sostenibile, mentre sono in fase di definizione gli inserimenti di prati avvicendati polifiti da trasformare eventualmente in permanenti. In provincia di Benevento nove aziende producono Latte Nobile per alcuni negozi di Napoli. Nel Lazio sono in fase di programmazione i tipi di erbaio e prati proponibili, possibilmente in integrazione fra loro. In Piemonte, un’Azienda della pianura torinese ha abbandonato la monocoltura maidicola e l’allevamento intensivo per passare a una foraggicoltura prato-pascoliva avvicendata polifita, seminando sull’intera superficie aziendale (20 ha) miscugli appositamente formulati per prati-pascoli a 5-7 specie di graminacee e leguminose. Nell’anno in corso, durante il quale gli animali hanno iniziato a pascolare dalla primavera e si è iniziato a produrre Latte Nobile, una serie di accertamenti sul manto vegetale ha consentito di valutare i differenti miscugli seminati e di predisporre gli interventi correttivi per fronteggiare le difficoltà della trasformazione colturale attuata, prevalentemente da ricondurre al difficile controllo della vegetazione infestante dopo decenni di monocoltura maidicola. Nei prossimi anni sarà controllata la longevità dei differenti cotici polifiti con l’obiettivo di farli evolvere, con l’invecchiamento controllato, in permanenti, con un significativo contributo di specie spontanee. Sempre in Piemonte, ma nella zona alpina, quattro Aziende in alta Valle Susa, Val Chisone e Val Sesia hanno iniziato il percorso di valutazione del latte prodotto con i foraggi e con il pascolamento di prati e pascoli di differente altitudine. Tutte le tipologie dei cotici permanenti polifiti utilizzati hanno risposto positivamente in termini di qualità del latte ottenuto, garantendo la produzione di Latte Nobile e confermando per quest’aspetto le notevoli possibilità delle aziende montane. La spinta all’innovazione nella tradizione continua.
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Sembra dunque emergere timidamente nell’agricoltura italiana anche la necessità di affrontare la scelta dei sistemi foraggeri aziendali su basi nuove, ponendo operativamente al primo posto la correttezza produttiva, la valorizzazione delle diversità e il trasferimento delle conoscenze, considerando vecchie e nuove risorse foraggere e l’integrazione fra queste con quelle naturali, da recuperare almeno in parte, con l’obiettivo finale di un netto incremento della qualità e della qualificazione dei prodotti caseari e carnei nazionali. Originata da attente intuizioni e considerazioni (7), ha forse inizio una piccola rivoluzione tecnica e culturale, verso la tradizione, la genuinità, la sostenibilità ambientale, la fruibilità dei territori e il loro paesaggio, il collegamento degli stessi prodotti ai territori, ma con ben altre conoscenze rispetto al passato e più precisi e concreti obiettivi.
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El modelo de “Latte Nobile” una vía Alternativa para la producción de leche de calidad en México Dr. Miguel Angel Galina FES-Cuautitlán Universidad Nacional Autónoma de México
Situación de la Producción de Leche en México, Problemas fundamentales y desarrollo de modelos alternos La leche representa la quinta parte del valor total de la producción pecuaria, en México siendo la tercera en importancia, en nuestro país se ordeñan 11 millones de litros de leche diariamente, de los cuales el 80% se proviene de las altas o medianas productoras, en aproximadamente 50 mil establos, de 100 vacas o más, solo el 20% lo producen estacionalmente ganaderos de menos de 50 vacas principalmente en los trópicos. El sistema de manejo tradicional de lechería no especializada concentra al 67 % del hato lechero nacional y participa tan sólo con el 20% de la producción del lácteo a nivel nacional. Este sistema utiliza ganado Cebú criollo o con cruzas con Suizo, Holstein y/o Simental, las vacas son ordeñadas principalmente en las épocas de lluvia. El ganado criollo se encuentra en praderas siendo ocasionalmente alimentado con suplementos alimenticios. Los hatos en las unidades productivas tienen entre 30 y 40 cabezas. La infraestructura es escasa y la rentabilidad baja. La producción es estacional y se destina fundamentalmente a la venta directa al consumidor. La dispersión de la oferta, la presencia de la leche rehidratada, los costos del combustible y la inseguridad en el campo, hacen que este sistema de producción sea muy vulnerable (SAGARPA, 2014). Las políticas gubernamentales en México y en mayoría de los países de América Latina, quizás con la excepción de Argentina, Uruguay, Brasil y Cuba es mantener un estricto control a la baja, del precio de la leche mediante la importación de leche en polvo, de
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Estados Unidos y Nueva Zelanda, en México prácticamente de los 16 millones de litros que se consumen al día, por los más de 100 millones de mexicanos, 5 millones provienen de la importación o sea el 31.7% mientras que se producen 11 millones o sea el 68.3% del consumo nacional, con una politica de subsidio para las clases marginadas a costa de lo productores, que no tienen sostenibilidad económica, por ello a las grandes industrializadoras de leche, se les dan cuotas de importación de leche en polvo, para regular la oferta, con perjuicio de los productores del lácteo. Si los ganaderos exigen un mejor precio los industrializadores recurren a sus cuotas de importación de leche en polvo, manteniendo los precios bajos a los productores, que en ocasiones han tirado volúmenes importantes de leche para demostrar su descontento. En México el 95% de los ganaderos tienen menos de 50 vacas y muchos de ellos las tienen básicamente en pastoreo, particularmente en los trópicos, donde se ordeñan alrededor de 2 millones de litros de leche diarios, con enormes desviaciones estándar, dependiendo de la época del año, en el invierno sube el precio que se le paga al ganadero, pero pocos tienen leche, mientras que en el verano baja cuando todos los productores dependientes de los pastizales se ordeñan, las vacas en promedio dan 10 a 15 litros diarios, en lactancias de 150 a 210, días se calcula que son más un millón de ganaderos que emplean entre 3 a 4 millones de trabajadores fijos o eventuales, (CONILEC, 2014). Pese a que no existe en México un estudio con un enfoque de organización empresarial para el mercado de la leche, con el objeto de determinar su estructura, es claro que ésta tiende a observar un cierto grado de concentración por la industria. Las decisiones de localización de las transformadoras dominantes han determinado la concentración de la producción en algunas regiones productivas del país (Comarca Lagunera, Jalisco, Guanajuato, Querétaro e Hidalgo) cerca de las grandes urbes. Sin embargo, pese a que la disponibilidad de los insumos de producción a través de una integración horizontal de diferentes empresas se ha desarrollado acorde con las necesidades de la industria, la intensidad con la que
el sistema productivo de la leche, tecnificado o familiar, utiliza recursos naturales; plantea una seria limitante para un incremento sostenido de la escala de la producción (CONILEC, 2014). Uno de los problemas estructurales es la importación de leche en polvo, En nuestro país se hidratan diariamente 5 millones de litros de leche en polvo, lo que en los últimos 5 años ha mantenido el precio de la leche de vaca con moderados incrementos, que no son comparables a los aumentos en los insumos. El modelo es totalmente dependiente de los forrajes de corte y un altísimo uso de concentrados, que son más del 50% del alimento de los bovinos, el precio de los suplementos se ha incrementado 45% en los últimos cinco años, la gasolina 75% mientras que la leche solamente un 15%. Lo márgenes de rentabilidad se han disminuido por lo que los ganaderos sobrevivientes tienden a incrementar el número de vacas o la producción de las mismas, que se traduce generalmente en bajos índices de fertilidad, las vacas literalmente son usadas dos o tres años y remplazadas por novillas gestantes (CONILEC, 2014). Recientemente el Dr. Roberto Rubino de ANFOSC en Italia, cuestionaba el sistema de cuotas de leche que ha beneficiado a los grandes productores (en México a los industrializadores), pero que ha dañado severamente a los pequeños ganaderos, que cada día con mayor frecuencia abandona la actividad, a pesar de las diferencias entre sistemas y productores los problemas son muy similares, los costos se incrementan los beneficios disminuyen, hay desaliento y abandono de la actividad por los pequeños productores. (Rubino, 2014). En México no tenemos a la vista una solución o una propuesta alternativa, sino la letanía habitual y ahora obsoleta: “reducir los costos de producción, para disminuir los precios a la venta, para poder competir con los precios de la leche en polvo rehidratada, que en Estados Unidos, cuenta con un importante subsidio gubernamental, decía Albert Einstein “si aplicamos la misma solución para el mismo problema, tendremos el mismo resultado”. Curioso que una industria que ha estado en permanente desarrollo y que utiliza hasta el máximo de la innovación tecnológica y el mundo
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de la investigación, ni siquiera ha sido capaz de desarrollar un modelo teórico para salir de la crisis, del 95% de los ganaderos en México, que esperan alternativas, abandonando la actividad, desapareciendo gradualmente. La mejora genética continúa con la misma premisa para seleccionar los animales, para perpetuar y mantener vivo un sistema económico, que ha llevado a la ganadería a una crisis permanente, que en el principal de los escenarios, mejora algún aspecto de la producción animal (Rubino, 2014). Estas vacas altas productoras, al menos deberían tener acceso a una fuente de alimentación capaz de salvaguardar la salud del animal, mejorando la calidad de la leche y la carne, pero ni este objetivo tiene viabilidad económica, debido a que una buena nutrición es demasiado cara, siendo lo más importante la rentabilidad, que en México se hace viable solo con 500 vacas, en línea de ordeña, de producciones de 8 o 10 mil litros por lactación, recordamos cuando iniciamos nuestra práctica profesional en los 60´s un establo de 100 vacas era un buen negocio, con animales de 4 o 5 mil litros ordeña, por lo tanto han desaparecido miles de ganaderos, concentrando la producción en un menor número de operarios, que se encuentran también en “crisis” por el precio de la leche, que deja márgenes muy pequeños de rentabilidad y que no puede competir con los precios subsidiados de la leche en polvo de importación, en nuestro caso particularmente de los Estados Unidos, los ganaderos siguen en la producción porque no encuentran quién les compre las unidades de producción, los establos eventualmente por la urbanización, producto del constante fenómeno de migración del campo a las ciudades, venden sus ranchos como terrenos urbanos, para el desarrollo de las grandes metrópolis, abandonando la actividad. El equilibrio económico es por lo tanto, de baja rentabilidad, debido al precio de la leche, para sobrevivir, se mantienen por las enormes cuotas de producción, dependientes de forrajes de corte y concentrados lo que les crea una deuda impagable a los proveedores, lo que ha reducido la calidad de la leche, de la carne y el número de ganaderos en el campo mexicano. Los grandes productores no abandonan el negocio porque no encuentran quién
les compre mil o más vacas, se mantienen con múltiples deudas y a su vez con aparentemente muchos ingresos, sin embargo los márgenes de ganancia se reducen por los altísimos costos de la alimentación. Y así nos han empujado hacia el monocultivo principalmente de alfalfa, con altas cuotas de subproductos y suplementos, en detrimento de las praderas y la biodiversidad florística. Paradoja cuando la nueva ecologización a nivel global, busca el mantenimiento de la biodiversidad (Rubino, 2014). Nuestros Gobiernos, incluyendo el Mexicano pregona que debemos producir “amigablemente con cuidado de los animales y el medio ambiente” sin dar herramientas por lo que los condena por la vía de costos de producción y precios de la leche, a su extinción. Es curioso observar que en la Italia meridional y en México, países distantes con economías distintas, los problemas de los pequeños productores en el campo son muy similares. El pequeño ganadero, no es solamente en nuestra apreciación un ser económico, es un ente social, el abandono del campo incrementa la inseguridad, afecta las vías de comunicación, disminuye la mano de obra de los campesinos, que se van en la obligación de migrar hacia el extranjero o hacia las grandes urbes en busca de trabajo. La mayor parte de las fuentes de trabajo en el campo en México la genera los pequeños ganaderos, siendo en muchas ocasiones mano de obra familiar.
Antecedentes de la calidad de la leche de pastoreo en México Se han realizado por el presente grupo de trabajo una serie de investigaciones sobre la calidad nutricional de la leche en México, que nos han permitido certificar las bondades del pastoreo tanto en vacas, como en cabras y recientemente en borregas (Galina et al., 2012; 2013). Un contenido mínimo de ácidos grasos saturados (AGS) se observó en la leche procedente de los animales en pastoreo, contrastado con una presencia significativa de AGS en leche de animales en estabulación (Galina et al., 2012; 2013; 2014). Recientemente ha sido probado en la literatura que un menor
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contenido de AGS favorece la salud humana, debido a su papel en las enfermedades coronarias (Pfeuffer., Schrezenmeir., 2000). Los resultados de nuestro equipo de investigación en México, permiten suponer que el sistema de alimentación, en general, y en particular el pastoreo libre, en un ambiente silvopastoril, permite que cada vaca como individuo, componer una dieta de acuerdo a sus propias necesidades, que tienen un efecto positivo sobre el aroma, sabor y características nutricionales de la leche (Galina et al., 2012; 2013). Un resultado interesante fue que se demostró un mayor contenido de ácidos grasos trans, presentes en la leche de pastoreo. Hasta hace poco un efecto negativo de los ácidos grasos trans en la salud fueron considerados similares a los documentados para los ácidos grasos saturados (Pedersen, 2001; Sicchiari, 2008). Los efectos negativos de los ácidos grasos trans en patología coronaria y citotoxicidad, se determinó a partir de observaciones de los ácidos grasos hidrogenados producidos durante la manufactura de alimentos industriales. Los trans derivados de los procesos de biohidrogenación ruminal, como los producidos por el rumen, han mostrado en cambio, efectos positivos sobre la salud humana (Váradyová et al., 2008). Por lo tanto, a la luz de este conocimiento relativamente novedosos, el papel de los ácidos grasos trans en el sistema de alimentación de los rumiantes en pastoreo libre tienen que ser revaluados en el marco de producir una “mejor” leche desde el punto de vista de la salud del consumidor. Salud, que en México, es una gran preocupación debido a que una parte significativa de la población del 65% al 70% sufre de obesidad o sobrepeso (ENSNUT, 2014), que se traduce en las enfermedades crónico degenerativas, particularmente los trastornos coronarios. Nuestro primer paso en México, era certificar si la leche de pastoreo tenía calidad similar a la reportada en numerosos estudios en Europa, particularmente en Italia donde habían probado el nivel de calidad de la leche y queso como la expresión de una serie de moléculas aromáticas: terpenos, fenoles, flavonoides, antioxidantes, vitaminas y ácidos grasos insaturados (Galina et al., 2007). Todos estos componentes dependen esencialmente de la cantidad de
pasto que el animal ingiere, y, aún más, el número de hierbas, ya que, como hemos señalado en numerosos estudios, cada hierba trae diferentes componentes de la leche. De hecho, la mayoría de las hierbas son silvestres, denominadas genéricamente "malas hierbas", esta complejidad es importante porque se refleja en una leche “diferente”, de calidad superior, el consumidor poco a poco empieza a diferenciar entre una leche de pastoreo y una de estabulación, por su aroma y sabor. Una primera premisa demostrada es que los sistemas de producción ganaderos que se manejan en pastoreo, pueden impactar en forma positiva en la salud de la población, produciendo leche, queso o carne de mejor calidad nutricional para el consumidor (Galina et al., 2019a; 2009b). Los alimentos de origen animal provenientes de estos sistemas, pueden ser considerados como alimentos funcionales y/o como fuente de compuestos nutracéuticos (Galina et al., 2007; 2014). En segundo lugar ha sido ampliamente demostrado en la literatura científica la insostenibilidad de los sistemas productivos de estabulación con vacas productoras de 40 litros o más por día, desde el punto de vista de calidad de la leche, o de bienestar animal, para lograr una oferta de mayor calidad nutricional a los consumidores, evitando paralelamente la destrucción y degradación de los ecosistemas. En trabajos previos se ha demostrado que los sistema silvopastoriles son una alternativa biosostenible de producción que permite una repoblación vegetal de gramíneas y leguminosas dentro de un entorno biodiverso que contribuye a la protección y mejoramiento del medio ambiente (Galina et al., 2012). Otra premisa estudiada sería la producción orgánica, que ha surgido como respuesta a la degradación del medio ambiente, para sostener los sistemas hemos desarrollado una alternativa orgánica con formación de proteína de los microorganismos ruminales y liberación de la energía de los forrajes fibrosos, con sistemas de soporte, debido al natural desbalance de energía de los sistemas silvopastoriles producto de la alternancia de una producción abundante de biomasa
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forrajera en la época de lluvias, contrastada con la escasez de la época de secas (Galina et al., 2009a; 2009b). Otro mecanismo que pudiera contribuir a la producción de leche de calidad sería la suplementación con probioticos de bacterias lácticas (LAB). Esto se debe a su efecto sobre la biohidrogenación (BH) ruminal, que se traduce en una saturación de los ácidos grasos no saturados, abundantes en las plantas, para ello suplementamos con LAB, que no BH, o lo hacen en menor volumen (Galina et al., 2012; 2013). Los resultados de biohidrogenación con LAB fueron similares a los obtenidos en dietas suplementadas con ácidos orgánicos o plantas con aceites (Váradyová et al., 2008) lo que permite suponer que las bacterias lácticas es una forma de fermentación ruminal que permite tener el mismo efecto, que se traduce en una mejor calidad de la leche, (Galina et al., 2012). Para ello hemos realizado varias observaciones comparando sistema de alimentación en estabulación o pastoreo con o sin el uso de suplementos de bacterias lácticas. Las diferencias significativas en el perfil de ácidos grasos benéficos entre las leches de pastoreo con la adición de un suplemento de bacterias lácticas comparados con la leche comercial, demuestra la importancia de la biohidrogenación en el metabolismo ruminal, para la calidad de la leche, en relación a la salud del consumidor, desde luego los animales en sistema silvopastoril con suplementación de promotores de la fermentación y probioticos, fueron las que significativamente produjeron una leche de mejor calidad comparadas con las de pastoreo sin probioticos o las de estabulación con o sin probióticos, (Galina et al., 2013). Otros factores como la presencia de flavonoides, antioxidantes y ácidos aromáticos aumentan significativamente en pastoreo, particularmente en sistemas silvopastoril. Cuando se habla de calidad de la leche, la ordeñada de animales en pastoreo presenta un contenido variado, pero en general más bajo en elementos como el colesterol, porque proviene de un origen vegetal diverso comparado con productos de animales en estabulación, contenido que se podría sintetizar en:
i) La Leche de animales en pastoreo tiene un contenido de ácidos grasos no saturados mayor que el de animales en estabulación. Los ácidos grasos saturados son los implicados en la mayor parte de las enfermedades cardiovasculares asociados con la obesidad, disminuyendo la concentración de alfa tocoferol en los tejidos de los animales en pastoreo. La calidad de los productos pecuarios, leche o carne es superior cuando los rumiantes son manejados en pastoreo, superando significativamente a los animales en estabulación (Sima et al., 2000; Rubino, 2002). ii) El ácido linoleico conjugado que tiene propiedades antitumorales, y anticolesterémicas, se encuentra solamente en productos de origen animal, particularmente en la leche y carne de animales en pastoreo, en concentraciones cuatro veces mayor que en animales en estabulación. Se acumula particularmente en el queso. (Rubino, 2002; Rubino et al., 2012). iii) Siempre la leche de pastoreo contiene un nivel inferior de colesterol y un nivel mayor de antioxidantes. Esto se traduce en una capacidad antioxidante mayor, uno de los elementos probados contra el crecimiento de tumores, acompañados de derivados del alcohol como los monoterpenos que reducen la formación de células tumorales (Cuchillo, 2005). iv) El componente aromático es mucho más fuerte en la leche de pastoreo.
Modelo de “Latte Nobile” en México “Latte Nobile” México es un sistema de identificación de calidad de producto de pastoreo que iniciamos en asociación con “Latte Nobile” Italia, desarrollando un reglamento de acuerdo a los niveles de producción y sistemas de manejo de praderas de nuestro país, respetando los principios del reglamento italiano, pero sobretodo tiene el objetivo de aumentar el valor de la leche de los ganaderos en el proyecto, para incentivar la producción de leche y queso por los productores de menos de 50 vacas. La pequeña ganadería en México está en crisis “permanente” mientras los investigadores y
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técnicos no hemos sabido desarrollar alternativas para los productores de leche y carne. Alternativamente “Late Nobile” México es un proyecto que trabaja en dos direcciones, aumentar el precio de la leche para los ganaderos y ofertar un producto de alta calidad a los consumidores. La leche en México se paga actualmente en relación con la calidad que pide la industria, esta es sólo en función de cuatro parámetros, proteínas, grasa, carga bacteriana y células somáticas, que no tienen prácticamente ninguna relación con la calidad aromática y el perfil nutricional de la leche. Numerosos estudios han demostrado que estos parámetros no tienen relación con la complejidad aromática y/o calidad de leche desde el punto de vista de contenido de elementos benéficos para la salud (Rubino, 2014). Estábamos convencidos de dos preceptos, primero era necesario producir una leche de mayor calidad, producto de pequeños ganaderos con menos de 50 vacas que tuvieran como base de alimentación la pradera, preferentemente el sistema silvopastoril, con el incentivo de agregar plusvalía a la leche de pastoreo, segundo era necesario encontrar un grupo de ganaderos que quisieran participar en el proyecto, ambas cosas las encontramos con la Unión Ganadera de Colima y particularmente la Asociación Ganadera de Cuauhtémoc en Colima que tiene a ganaderos que producen leche en pradera. El incentivo con el que partimos es que venderían su leche un peso mexicano más del que les pagaban los acaparadores del lácteo. El trabajo científico que lo probaba lo habíamos iniciado con el Dr. Fernando Pérez Gil y la Dra. Claudia Delgadillo Puga del Instituto Nacional de Ciencias Médicas y Nutrición Salvador Zubirán, Los Dres Fernando Osnaya, Ma. de los Angeles Ortíz y Magdalena Guerrero de la UNAM, el Dr. Jorge Pineda de la Universidad de Colima y lo continuamos con el Dr. Pedro A. Vázquez Landaverde Investigador el CICAT del Instituto Politécnico Nacional de Querétaro en México, con ellos demostramos la calidad de la leche de pastoreo en vacas y cabras era comparativamente similar al observado en Italia.
A los productores los invitamos a participar obteniendo el “Logo Internacional de Latte Nobile” porque el poder pertenecer a un proyecto internacional y aparecer en las páginas de internet de Italia era un gran incentivo, para ello teníamos que certificar igualmente la calidad del producto, para ello elaboramos un manual de procedimientos que contenía una serie de reglas que garantizarán el nivel de producción no mayor a 5 mil litros y el sistema de alimentación 80% en pradera. La certificación mediante el logo ¨Latte Nobile¨se otorga por un año a los productores que reúnen los requisitos de la reglamentación de ¨Latte Nobile¨México. En una primera fase La Universidad de Colima y La Universidad Nacional Autónoma de México mediante la Facultad de Estudios Superiores Cuautitlán participaron en la elaboración del reglamento mediante el Dr. Carlos Izquierdo y el Dr. Jorge Pineda de la Universidad de Colima y la Dra Ma de los Angeles Ortíz, el Dr. Fernando Osnaya y la Dra Magdalena Guerrero de la UNAM. La UNAM y la U de C, son las dos instituciones que mediante sus estudiantes certifican las unidades de producción como ¨Latte Nobile¨. Contamos por parte de la Asociación Ganadera de Cuauhtémoc, pequeño municipio de Colima, México, con la entusiasta participación del Dr. José María Rodríguez Preciado Presidente de la Asociación y varios ganaderos, los problemas a resolver son similares, a los discutidos por Roberto Rubino en Italia, por el momento encontrar un mecanismo de embotellamiento de la leche de los productores participantes o la elaboración de un queso que garantice la calidad del producto. El queso ya lo hemos elaborado y lo presentamos en Bra en Italia en el 2012, tenemos ya una pequeña quesería en Colima y el proyecto de embotellamiento estamos buscando fuentes de financiamiento en la actualidad, Para ello iniciamos un sistema de promoción y certificación de calidad de producto, la certificación se llevará a cabo con el Dr. Pedro Vázquez Landaverde investigador del CICATA perteneciente a una de las instituciones más prestigiadas en México, el Instituto
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Politécnico Nacional. Los productores que reciben la certificación Latte Nobile México tienen que tener sus instalaciones abiertas a los certificadores que pueden tomar muestras de leche o queso en cualquier momento y llevarlas al laboratorio, la certificación es anual. Uno de los problemas fundamentales que hemos encontrado en Latte Nobile México es la dispersión de productores que hasta el momento ha dificultado el embotellamiento de leche para su venta y certificación, el costo de transporte y la manutención de la cadena de frío en los trópicos dificulta la empresa, una alternativa sería que en México es tradicional la elaboración de quesos directamente en la unidad de producción, con una pasteurización lenta 63°C por media hora con cuajado con bacterias lácticas, por ello hemos hecho una serie de investigaciones para garantizar la calidad y persistencia del patrón de ácidos grasos particularmente omega 3 en los quesos elaborados bajo esas circunstancias en caprinos y bovinos (Galina et al., 2007). Buscamos con la banca de desarrollo (FIRA, FIRCO) nacional, los organismos gubernamentales SAGARPA y SEDER y las instituciones UNAM, IPN infraestructura y financiamiento para el proyecto. Otras Instituciones internacionales como Slow Food podrían jugar un papel importante en la difusión de productos artesanales de calidad nutricional permitiendo expandir a futuro el mercado de la “Latte Nobile”. Podría colaborar financiando la participación de miembros del proyecto en Ferias Nacionales, Cursos de capacitación, Congresos y otros eventos, además de la difusión a través de la infraestructura en México ya existente de Slow Food, para poder presentar las bondades del proyecto. Este es un pequeño resumen de un trabajo de varios años, que inicia a dar frutos. Proyecto financiado con fondos de PAPIIT IT202014 y Cátedra PIAPIVC05 de la Universidad Nacional Autónoma de México y de la FES-Cuautitlán UNAM.
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Il primo passo di una lunga marcia. Cadute, riassestamenti, linee per il futuro Gianfranco Nappi Presidente de La Compagnia della Qualità
89 L’esigenza di un modello alternativo L’esperienza del Latte Nobile, a saperle vedere, propone tante cose. E davvero, ex post, si può apprezzare ancora di più tutto il valore della ricerca e dell’impegno di Anfosc unito ad una dose importante di coraggio. La prima e più importante in termini di riflessione per la mia sensibilità culturale è che un’alternativa al produttivismo applicato all’agroalimentare, a questo ‘fordismo’ alimentare che ha piegato tutto alla logica delle quantità prodotte è possibile ed è praticabile. Se guardassimo solo all’esperienza del Latte Nobile sarebbe poca cosa, certo. Ma il Latte Nobile si inserisce a pieno titolo in un percorso di sperimentazione e innovazione di processo e di prodotto che traguardando pienamente il postfordismo potremmo dire supera l’anonimato e riafferma la personalità. Supera l’anonimato e la serialità di prodotti tutti uguali a se’ stessi, senza gusto o con gusto aggiunto. Supera l’anonimato di processi produttivi in campo agroalimentare in cui la chimica diventa più importante della natura. E restituisce un valore alla diversità, alla differenza : di origine, di territorio, di alimentazione, di gusto, di cultura. Anzi, fa della differenza un punto di forza, un plus per prodotti a cui restituisce ,insieme al lavoro in essi incorporato , un valore aggiuntivo fino a prima sconosciuto. Costruisce ‘cittadinanza’ potremmo dire e non la nega in una massa indistinta e uniformemente indirizzata.
Insomma questo è uno dei terreni dove più esplicitamente si può misurare quanto il cambio di paradigma produttivo, se agito con coerenza e determinazione, possa avere effetti benefici per aree, soggetti, produzioni che invece erano considerati, fino al perdurare dei luccichii della modernità produttivistica, marginali, puri residui di un passato finito, destinati ad essere superati. Se non esagero la lezione che pure viene dal Latte Nobile, possiamo prendere questa esperienza come pietra di paragone di questo cambiamento che ha indicatori più vasti e articolati ma che qui mi appare in un’evidenza solare. In altri termini è di modelli di sviluppo che stiamo discutendo. Stiamo lasciando, si spera, un modello di sviluppo che assorbiva dentro le sue logiche e dentro le sue priorità tutto e tutto subordinava ad esse: territori, vecchie produzioni e modalità produttive, settori diversi. E’ anche da questo modello che è nata una lettura del dualismo nello sviluppo del paese per il quale c’è un Nord che tira ed un Sud che segue e che è in ritardo esattamente perché non riesce a riprodurre fino in fondo il modello del Nord. E dunque una lettura del “ritardo” del Mezzogiorno come ‘ritardo’ nell’imitazione’ di un modello di sviluppo altrui. Determinando in questo modo la stessa irresolubilità della questione del Mezzogiorno: se il problema del Sud è sempre quello di fare come altri fanno risulta evidente che il Sud sarà sempre un passo indietro a quelli che ‘fanno’. A me, produzioni di qualità, eccellenze agroalimentari, riscoperta delle culture enogastronomiche e con esse crescere di un nuovo appeal dei territori e delle comunità che le esprimono parlano di questo nuovo paradigma in formazione. E dentro c’è un’attenzione nuova per il valore del territorio, del paesaggio, per la sua bellezza, e dunque per la sua conservazione dinamica, per la sua sicurezza. E c’è un recupero di centralità per le mille storie dei borghi, le mille
abilità, i mille saper fare, i mille prodotti, i mille modi di cucinarli, i mille modi di raccontarli... tutto questo s’incontra con una domanda del tutto moderna di qualità, di conoscenza, di senso persino, di curiosità nei confronti del mondo che è l’effetto diretto di questo stesso mondo più interconnesso, nel quale le informazioni si scambiano su scala planetaria e le distanze pure si accorciano nel quadro di una mobilità crescente. Solo a saper fare leva su tutto ciò, ad organizzarla questa domanda, a veicolarla s’immagina cosa potrebbe rappresentare per milioni di persone potenzialmente desiderose di ‘imparare’ e fare esperienze nel paese più ricco del mondo da questo punto di vista, l’Italia, e, se ci è consentito, in questo Sud dove è nata la Dieta Mediterranea? In un paesaggio di collina e di montagna segnato dallo spopolamento, dalla chiusura di tutte le attività e da uno scivolamento a valle drammatico, sotto forma di frane e disastri ambientali, di tanta parte di territorio alto, i pascoli e gli allevamenti di Latte Nobile possono rappresentare una delle vie per restituire centralità a territori invece destinati appunto all’abbandono con conseguenze sociali ed economiche che già oggi sono pesantissime. Insomma, nel crescere di un’attenzione grande per il cibo, per la sua qualità, per la sua produzione, di cui l’esperienza di Slow Food rimane un riferimento imprescindibile e di valore assoluto, non ci vedo il vagheggiamento di un bel tempo che fu, di un nostalgico richiamo ad un mondo e ad un tempo che mai ci fu: il rapporto con la terra sempre è stato espressione di crudi e duri rapporti di forza. Di servaggio anche delle persone per tutta una fase. E poi di dipendenza vitale legata al raccolto, alle condizioni atmosferiche e poi, con l’industrialismo, è venuta la fase invece dello sradicamento... E bene ha fatto Roberto Rubino nel suo saggio iniziale a mettere in luce quanto il modello produttivistico, continuiamo a chiamarlo così per sintesi di ragionamento, abbia inciso nel profondo nella coscienza degli stessi allevatori che in alcuni casi, pur lamentandosi,
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preferiscono rimanere ‘prigionieri’ dei vecchi rapporti nei quali centrale è la figura del mediatore... Di tutto questo parla a noi l’esperienza del Latte Nobile. Un processo produttivo la cui riflessione è maturata nel Sud del paese e che diventa ora, con il concorso di tante e qualificate esperienze , compiutamente nazionale. Ma se il tema del Latte Nobile è quello di territori che si riappropriano di temi e tempi produttivi di cui erano stati privati e che per questa via danno corso ad elementi di uno sviluppo più solido, fondato su un più alto livello di remunerazione e un più alto livello di dignità del lavoro, risulta anche immediatamente evidente che siamo in presenza di un modello replicabile ovunque nel mondo ci siano da recuperare storie, culture, capacità di sviluppo radicate sul territorio: in questo senso davvero il suo è un valore più generale. Io penso che ci sia una ‘politicità’ profonda in questa esperienza. Ci siano messaggi e richieste per la politica. Proprio in questi anni di crisi acuta, di caduta dell’economia reale, di ricerca di vie nuove per lo sviluppo per le quali prevalentemente ci si ostina a battere strade già note e inconcludenti, troviamo su questo terreno indicazioni importanti. Esse reclamano e sollecitano un orientamento del "pubblico", delle sue ‘politiche’ capace di investire su questa prospettiva, di assumerla come prioritaria per lo sviluppo del paese, un paese che abbia voglia di puntare sulla emersione delle sue mille energie positive, aiutandole a mettersi in rete e ad acquisire quella forza capace di parlare al mondo intero.
L’esperienza de La Compagnia della Qualità Quando cominciammo circa quattro anni fa a lavorare con il Latte Nobile sicuramente non avevamo chiare tutte queste implicazioni. Sentivamo però che c’era molto di nuovo e di corrispondente a domande attualissime. E così, anche con l’orgoglio di chi ama la propria terra, ci siamo buttati a capofitto nel promuovere e organizzare la
commercializzazione del latte imbustato e poi a far nascere una linea completa di latticini e formaggi derivati. Partendo dal lavoro primario degli allevatori, con la capacità di comunicare contenuti nuovi che veniva dall’Anfosc e dal suo lavoro di ricerca che ha incrociato del resto via via tante Università, e con la spinta decisiva che è venuta dalle scelte di Slow Food, abbiamo dato corso ad un lavoro di costruzione quotidiana di una rete commerciale ex-novo che oggi serve in Campania oltre 200 punti vendita con la sua gamma di prodotti a Latte Nobile: una piccola cosa, certo. Ma concreta e vitale. Ed oggi, questa realtà pensa ad una sua espansione: nascono i formaggi e latticini nobili fatti ad Agerola e secondo la tradizione casearia agerolina, realizzati con ICLA Agerolatte. Agerola è famosa per il suo fior di latte, per il Provolone del Monaco. E’ stato siglato un accordo con l’importante, coraggiosa e nuova esperienza di Eccellenze Campane che porta a produrre direttamente lì una quota dei prodotti agerolini nobili. In accordo con una delle più importanti e storiche cioccolaterie napoletane, Gay Odin, si sta andando alla produzione di gelati nobili. E proprio in accordo con pasticcieri e gelatai si sta lavorando ad un appuntamento sui dolci e sui gelati fatti a latte nobile che coinvolge direttamente anche gli Istituti Alberghieri del territorio. In intesa con un altro appartenente alla Comunità in crescita del Latte Nobile, la Fattoria la Frisona a Segni nel Lazio, si va alla produzione di yogurt e panna nobili. I nostri stessi locali di ristorazione, ne gestiamo uno nel centro storico di Napoli, la Taverna a Santa Chiara, ed uno nel centro antico di Castellabate, in Cilento, il Chiostro, sono diventati luoghi di racconto e degustazione del Latte Nobile. E il riscontro è stato così significativo che abbiamo deciso di trasformare il nostro locale di
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Napoli nel primo Ristorante-Latteria-Sala degustazione interamente dedicato a tutta la gamma dei prodotti a Latte Nobile. Senza rinunciare al meglio della tradizione culinaria e pasticcera napoletana... preparate uno zito spezzato a mano con il ragù napoletano e fuscella nobile (la sorella... nobile della ricotta proprio perché fatta direttamente dal latte), e vedrete che intensità e delicatezza di sapori... oppure preparate una crema pasticcera con latte nobile... Quattro anni in salita e in crescita nei quali si è rafforzata la collaborazione con imprese già operanti nel settore del Latte, come la Vallepiana di Eboli. E quattro anni nei quali si è dovuto anche contrastare quello che molto spesso uccide la capacità del Sud di risollevarsi pienamente: le furbizie, l’idea che ‘fregando’ chi ti è più vicino cresci di più. Non nascondiamocelo, c’è stato già e ci sarà ancor di più nel futuro il tentativo di comportamenti agli antipodi rispetto allo spirito e alla lettera del progetto di inserirsi, di insinuarsi. Occorrerà essere sempre vigili per sconfiggerli. E’ anche per questo che abbiamo costruito un modello contrattuale che prevede il rapporto diretto con i singoli allevatori a cui si chiede di stare sul livello di qualità del disciplinare; nei cui confronti ci si impegna ad un miglioramento di prezzo in presenza del raggiungimento dei nuovi standard di qualità che Anfosc via via delineerà; a cui si riconosce, per quello che vale oggi, un prezzo di 0.60 euro a litro + iva e senza alcun gravame per i costi di trasporto nel raggio di 200 chilometri dal nostro centro di trasformazione.
Nasce la SILN Oggi siamo ad un cambio di fase. Ad un passaggio. Da esperienza sostanzialmente ‘locale’, il Latte Nobile diventa compiutamente nazionale. Sicilia, Lazio, Molise, Piemonte sono partiti e sono in procinto di farlo, in Veneto, in Emilia Romagna in Friuli se ne sta discutendo concretamente. In questo cambio di passo c’era bisogno anche di una capacità di gestione del progetto, non nelle sue chiavi culturali e scientifiche
perché lì il tutto è in ottime mani, ma proprio in chiave commerciale e di valorizzazione piena del marchio. Un marchio che a breve ‘parlerà’: si sta implementando, infatti, il progetto di realtà aumentata che consentirà, oltre l’esperienza del QRCode, ad ogni etichetta di ciascun prodotto a Latte Nobile di raccontare direttamente, tramite lo smartphone, la sua storia. Ed anche qui, per impulso sempre dei nostri noti di Anfosc (quanto possa la determinazione di un gruppo seppur piccolo nel perseguire un obiettivo giusto in termini di risultati è davvero sorprendente...), è stata sollecitata la creazione di un nuovo soggetto, la Società Italiana del Latte Nobile, nata in queste settimane, a cui è stata affidata la gestione del marchio Latte Nobile e la sua valorizzazione commerciale. E la SILN è costituita proprio da alcuni dei protagonisti del percorso sin dai suoi inizi. La SILN dovrà dare vita alla Comunità del Latte Nobile, qualcosa di più di un semplice Consorzio di tutela. L’idea è quella di far vivere alcune regole semplici che facciano crescere la filiera tenendola al riparo di ogni intento rapace; di realizzare una strategia comune e integrata di comunicazione che sostenga lo sforzo dei singoli produttori in ogni parte del paese collocati; di costruire la rete nazionale di commercializzazione del Latte Nobile e dei suoi derivati, fino a costituire un vero e proprio Paniere Nobile con tutti i prodotti italiani così realizzati promuovendone la commercializzazione sia a livello nazionale sia all’estero; di offrire un supporto ai singoli produttori in termini di servizio e di logistica; di produrre anche direttamente per le aree dove nasce la domanda di mercato ma non è ancora presente l’offerta produttiva. Il tutto a partire da un’idea base: esaltare il presupposto di fondo del progetto, non un grande operatore che ingloba tutti i soggetti e i ‘piccoli’ in modo particolare, ma una forte rete all’interno della filiera per fare in modo che l’insieme dei ‘piccoli’
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si muova e ragioni con un’ambizione grande sollecitando di continuo nuovi protagonismi. La sfida continua.
Forse sta partendo l’esperimento più bello ... Proprio in queste ore sta muovendo un’esperienza che nasce sempre dall’incrocio di capacità di ricerca e conoscenza in rapporto diretto con i produttori e disponibilità a investire in nuovi progetti da parte di un soggetto che opera sul mercato. Sta nascendo la nostra sfida alla Terra dei Fuochi, perché non è giusto che una Terra come quella di Lavoro sia penalizzata ulteriormente. Ovviamente qui non c’è da chiudere gli occhi di fronte a niente: la camorra, in associazione con poteri locali spesso infiltrati e con la partecipazione a distanza di imprese del Nord in cerca di risparmi facili nello smaltimento dei propri rifiuti, ha devastato un pezzo di territorio della provincia di Caserta. Un fazzoletto di territorio rispetto alla vastità della provincia. Non cambia la gravità del fatto fosse stato anche un solo metro quadro. Il tutto poi si ritrova aggravato da un male antico dei meridionali: lo scarso amore per tutto ciò che non è privato o proprio ed è invece pubblico. Laddove invece per quello che è ‘fuori’, che è poi lo spazio dove lavoriamo, passeggiamo, giocano i nostri figli, dovremmo coltivare la stessa religiosa cura che dedichiamo alle nostre case, perché quello ‘pubblico’ di spazio è ‘nostro’ quanto la nostra casa, e più, e dovremmo essere noi i primi a tutelarlo in quanto nostro spazio di vita... Ma qui il discorso ci porterebbe lontano... Ebbene a Caserta, nasce uno dei nostri prodotti a più alto grado di riconoscibilità nel mondo : la Mozzarella di bufala. Ovviamente l’altro polo produttivo parimenti importante è nella piana del Sele. Ma è qui che il contraccolpo è stato forte.
Ed è proprio da qui, da Caserta, che nasce il progetto della prima Mozzarella di Bufala Nobile, prodotta cioè applicando il disciplinare del Latte Nobile adattato alle Bufale. E di questa mozzarella si saprà tutto : il terreno dove hanno pascolato le bufale, le sue caratteristiche ambientali, le caratteristiche delle erbe e dei fieni che le hanno alimentate, il trasformatore e i processi di qualità che adotta. Tutto. Anche questo è il segno di un processo che va avanti e ci fa piacere farlo proprio qui, in questa terra così carica di storia e di cultura che deve trovare la forza di recuperare una dimensione di futuro.
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Storia breve di un percorso annunciato Il determinante ruolo della Regione Campania Adriano Gallevi ANFoSC
Se, in un tempo relativamente breve, il modello Nobilat è riuscito ad assumere l’importanza attuale, molto lo si deve alle disponibilità finanziarie che è stato possibile attingere dalla Regione Campania. La scintilla che ha innescato il corto circuito è partita nel 2010 da una telefonata tra il Presidente Anfosc e la Dirigente dell’allora Sesirca, dr.sa Mariella Passari e poi da un colloquio con l’allora Assessore all’Agricoltura dr. Nappi, ai quali Rubino espose le sue tesi in tema di cosa dovesse intendersi per qualità del latte e di come fosse possibile ottenerla. Il messaggio fu immediatamente recepito ed al primo bando della Misura 124 HC l’Anfosc, in qualità di Capofila, presentò il suo Progetto, denominato Nobilat, che aveva, come protagonisti, 6 allevatori di Castelpagano, 2 trasformatori, il Consorzio di allevatori di Castelpagano, Slow Food Campania e, in qualità di Ente scientifico, il Corfilac di Ragusa. Il Progetto fu valutato positivamente e risultò primo con 85 punti del lotto dei progetti presentati. La dotazione finanziaria iniziale è stata di circa 750 mila euro ed il Progetto prevedeva azioni di Campo presso gli allevatori con interventi volti a migliorare sia le attrezzature di gestione dell’allevamento che di miglioramento delle tecniche foraggere con impianto di erbai e prati polifiti; azioni di Laboratorio, totalmente affidate al Corfilac, per l’esame diagnostico del latte e dei foraggi tesi alla ricerca, man mano che procedevano le azioni di miglioramento in Campo e presso gli allevamenti, dei parametri che permettessero al latte, secondo il Disciplinare varato, di essere qualificato come Nobile; tali parametri venivano poi ricercati anche sui prodotti della trasformazione del latte conseguiti dai due trasformatori i quali avevano anche il compito, attraverso esperti casari messi a loro disposizione dal Progetto, di ricercare anche
prodotti innovativi a più elevato valore aggiunto come yogurt, creme spalmabili, ecc. A tal fine, il Progetto ha reso anche possibile che venisse studiato un prototipo, il “Mininobilat” che, dopo un travagliato lavoro di messa a punto, ha di recente iniziato a funzionare. Gran parte del budget di Progetto faceva capo alle attività di Diffusione e Divulgazione dei risultati, completamente affidate a Slow Food Campania e all’Anfosc la quale, peraltro, era anche impegnata nell’attività di Assistenza Tecnica presso gli allevatori e nel lavoro di raccordo e sintesi delle attività svolte dagli altri partner. L’intenso e produttivo lavoro svolto da questi due partner, possiamo dire che è stato il vero motore che ha consentito di far arrivare la conoscenza del metodo Nobilat ad una vasta e variegata platea di persone, come in altra parte del libro è descritto. Complessivamente l’Anfosc ha compiuto più di 400 gg di missioni su e giù per la Campania ed il resto d’Italia al fine di presentare il metodo Nobilat a consumatori, studiosi ed esperti del settore, attraverso riunioni, convegni scientifici, laboratori, partecipazioni a fiere e mostre, ecc. In questo ultimo scorcio di anno l’attività si è vieppiù intensificata in quanto il lavoro propedeutico di Divulgazione ha cominciato a produrre effetti concreti presso gli allevatori, uno degli obiettivi primari del Progetto, per cui ora non esiste più il solo latte Nobile Campano ma vi è quello Piemontese, Molisano, Laziale e dal latte vaccino siamo ora passati anche a quello bufalino. Anche in questo settore, il Progetto ha reso possibile, accanto al funzionamento del sito www.lattenobile.it , anche lo studio e la messa a punto della Realtà Aumentata, attraverso la quale ogni prodotto a marchio Latte Nobile potrà raccontare, avvicinando un tablet o uno smartphone, oltre la filosofia di fondo del prodotto, anche la storia di chi e come lo produce. Dal canto suo, Slow Food Campania con il suo budget destinato alla Divulgazione, ha dapprima creato il Presidio del Latte Nobile e, quindi, attraverso i suoi laboratori e le attività delle Condotte, ha contribuito significativamente alla diffusione del prodotto fra i consumatori. La sintesi di tutto questo lavoro l’avremo al Salone del Gusto di Torino, quando tutti i protagonisti di questo esaltante e
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corale lavoro, italiani ed stranieri, presenteranno i risultati raggiunti e le prospettive future. Durante tutto questo percorso, iniziato il 21 gennaio 2011 e che terminerà il 22 novembre 2015, l’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania, attraverso la sua qualificata Struttura tecnicoamministrativa, ed anche l’INEA, non ci hanno mai fatto mancare il loro appoggio aiutandoci a muoverci tra leggi e regolamenti che, molte volte loro malgrado, appesantiscono non poco il lavoro di chi è abituato, come l’Anfosc, a guardare più alla sostanza che alla forma. Pensiamo e speriamo, però, che l’andamento di questa esperienza possa essere servita perché, già nella prossima programmazione che inizierà il primo gennaio 2015, alcuni punti del Regolamento più intransigenti e che molte volte frenano l’azione, vengano riadattati alla realtà con la quale ognuno di noi operatori deve fare i conti.
Parte Seconda 101
I risultati della ricerca
Il Latte Nobile strumento per migliorare la competitività delle aziende agricole dell’Appenino Campano.
1
1
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S. La Terra , G. Campisi , L. Corallo , A. Di Falco , G. Farina , G. 1 1 1 1 Giurdanella , C. Guardiano , M. Ottaviano , G. Azzaro , G. 2 Licitra . 1 Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia, Regione Siciliana. 2 DISPA, Università degli Studi di Catania.
Il progetto “Un nuovo modello per rivitalizzare la filiera del latte bovino-NOBILAT”, supportato dalla Regione Campania ha avuto come scopo la caratterizzazione del latte “Nobile” dell’Appennino Campano. In questo capitolo vengono riassunti i risultati relativi alle attività svolte nelle aziende oggetto di studio che sono state monitorate per l’intera filiera, dal management aziendale, all’alimentazione animale ed alla qualità del latte prodotto, mediante formulazione e applicazione di piani agronomici ed alimentari ad hoc, analisi fisico-chimiche, aromatiche e microbiologiche del latte, per tutta la durata (2012-2014) del progetto. Sono stati effettuati controlli sulla filiera produttiva (tabella 1) al fine di migliorare il management aziendale e di monitorare i punti critici su cui effettuare eventuali azioni correttive.
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Tabella 1: controlli effettuati nella filiera Filiera Produttiva Allevamento e Qualità Latte 1 - Body Condition Score (BCS) 2 - Controllo impianto di mungitura 3 - Fase di mungitura
Controlli di Filiera
misurazione del numero delle pulsazioni utilizzo di un prodotto schiumogeno pre-dipping corretta applicazione del gruppo di mungitura applicazione del post-dipping
4 - Cellule somatiche individuali controllo mediante prelievi individuali 5 - Modello epidemiologico individuazione vacche subcliniche e croniche Alimentazione 6 - Qualità foraggi: anticipazione sfalcio Campionamento e valutazione foraggi in azienda 7 - Verifica razionamento modello CNCPS (CPM-Dairy V. 3.10)
Materiali e metodi Analisi foraggi Analisi foraggi con Foss XDS near-infrared acquisendo gli spettri tra 400 e 2498 nm; Sostanza secca 103°C (ISO 6496: 1999); Fibra insolubile in detergente neutro – NDF; Fibra insolubile in detergente acido – ADF; Lignina – ADL; Analisi latte con MilkoScan™ Grasso; Proteine (TN); Analisi latte con Fossamatic Cellule somatiche; Analisi microbiologiche latte Staphylococcus aureus; Escherichia coli AOAC 991.14 (2010); S. aureus UNI EN ISO/TS 6888-2: 2004; Analisi microbiologiche con BAX E. coli O157:H7; L. monocytogenes; Salmonellae spp.
Risultati e discussione La figura 1 riporta i valori medi di proteina grezza rilevati nei fieni. I campioni presentano un tenore proteico medio compreso tra 4.68 e 10,95 %. I valori più bassi sono correlabili ai campioni con un più alto contenuto di NDF (> 60 %). Valori proteici più elevati sono stati registrati nei campioni appartenenti alle aziende B ed H, indicando una migliore qualità del foraggio di partenza e presumibili buone condizioni di raccolta e di conservazione. In generale, i risultati ottenuti sono in linea con valori di medio/alta qualità dei fieni.
Proteine % SS 10,95 9,03 8,12 7,30
7,18
6,76 4,68
A
B
D
E
G
H
L
Figura 1: Valore medio proteine grezze
La figura 2 riporta i risultati delle frazioni fibrose, NDF, ADF e ADL, rilevati nei campioni di fieno. I valori di NDF sono risultati pari o maggiori del 60 % SS in 5 aziende, questo probabilmente è dovuto ad uno sfalcio più tardivo dei foraggi da destinarsi alla fienagione che consente di massimizzarne le rese. Le aziende E e L hanno mostrato valori più bassi di NDF (53,31 e 50,07 %). Simili considerazioni vanno fatte per le frazioni ADF e ADL.
105
NDF % SS
ADF % SS
63,38
62,46
60,08
ADL % SS 62,00
60,76 53,31
50,07 38,61
37,66
39,81
37,94 34,75
32,29
6,80
A
6,82
B
7,38
5,90
D
E
6,86
G
37,81
6,65
6,47
H
L
Figura 2. Valori medi NDF, ADF e ADL % SS
I campioni di latte di tutte le aziende monitorate durante il periodo di studio hanno mostrato valori medi di grasso, proteine equiparabili a quelli riferiti al latte di buona qualitĂ (tabella 2).
Tabella 2: valori medi grasso, proteine campioni di latte
Aziende A B C D E F G H I L
grasso% 3,45 4,1 3,87 3,73 4,19 3,65 4,13 3,79 4,1 3,25
proteine% 3,26 2,5 3,40 3,47 3,22 3,29 3,53 2,49 3,37 3,23
cellule*1000 542 558 938 149 546 957 527 179 198 322
Il controllo del management di tutte le aziende ha migliorato le condizioni igenico-sanitario del latte presentando valori di cellule somatiche nei limiti consentiti dalla legge. La determinazione dei patogeni Stafilococcus aureus, Salmonella, Listeria monocytogenes ed E. coli O157:H7, hanno permesso di
rilevare la buona qualità microbiologica del latte Nobile di tutte le aziende sottoposte a monitoraggio: Stafilococcus aureus è risultato essere inferiore a 1 (UFC/ml); Salmonella, Listeria monocytogenes ed E. coli O157:H7 assenti (UFC/25 ml).
Conclusione Le indagini effettuate sul latte Nobile hanno permesso di valutare la qualità dei foraggi impiegati negli allevamenti e dei campioni di latte dal punto di vista nutrizionale e microbiologico. I mangimi e i foraggi impiegati nell’alimentazione animale sono risultati di buona qualità, i campioni di latte hanno mostrato valori di grasso, proteine molto simili tra loro nei differenti prelievi mensili. Dal punto di vista igienicosanitario si è visto che tutte le aziende sono rientrate nei limiti consentiti dalla legge. In conclusione possiamo affermare che il controllo di filiera e le azioni correttive applicate al management aziendale hanno permesso il miglioramento dello stato di benessere animale e della qualità finale del latte.
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Componenti salutistiche e aromatiche del Latte Nobile dell’Appennino Campano 1
1
1
1
S. La Terra , V. M. Marino , T. Rapisarda , G. Belvedere , F. La 1 1 2 Terra , S. Carpino , G. Licitra . 1
Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia, Regione Siciliana. 2 DISPA, Università degli Studi di Catania.
Il latte è considerato un alimento funzionale perché, oltre a possedere un elevato valore nutrizionale, contiene sostanze con proprietà benefiche per la salute umana. Tra queste ultime troviamo acido coniugato linoleico (CLA) gli omega 3 e gli omega 6 e le vitamine liposolubili (tocoferoli, vitamina A e il suo precursore betacarotene). L’alimentazione dei ruminanti svolge un ruolo importante sulla produzione quali-quantitativa del latte influenzando fortemente le caratteristiche chimico-fisiche, organolettiche e salutistiche dei prodotti lattiero caseari, che ne derivano. In questo capitolo si focalizza l’attenzione sulle proprietà salutistiche del latte Nobile illustrando sia i risultati relativi al rapporto omega 6/omega 3, al contenuto di CLA, alle vitamine, agli antiossidanti ed un confronto tra latte Nobile ed Alta Qualità Campano (sia crudo che pastorizzato).
Materiali e metodi Determinazione degli acidi grassi PUFA e CLA. Per l'estrazione degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) e del CLA dal latte è stata utilizzata la metodica descritta da Banni et al. (1996). Determinazione delle vitamine liposolubili. L’estrazione del β-carotene è stata eseguita in accordo al protocollo di Palozza and Krinsky (1992). L’estrazione dell’alfa tocoferolo (vitamina E) è stata eseguita in accordo al protocollo di Palozza and Krinsky (1992) modificato da Marino et al. (2010).
Determinazione sostanze volatile: Smart Nose GCO e GC massa L’estrazione delle componenti volatili con SmartNose è stata effettuata come riportato in Rapisarda et al., 2013. L’analisi delle profilo volatile è stata effettuata mediante gas cromatografia olfattometrica e spettrometria di massa, previa estrazione delle componenti volatili con odore attivo (OACs) mediante distillazione in corrente di vapore come riportato in Rapisarda et al. 2014.
Latte Nobile verso Alta Qualità Nel valutare la qualità del latte oggetto di studio si è voluto analizzare la qualità di origine e l’influenza dei trattamenti termici. Sono stati, quindi, messi a confronto campioni di latte crudo destinato all’Alta Qualità, latte Alta Qualità, latte Nobile crudo e pastorizzato.
Risultati e discussione Latte Nobile – 6/3. Nella tabella 1 sono riportati i valori medi di omega 6/omega 3 dei campioni di latte di massa prelevati, nelle aziende oggetto di studio, durante il periodo sperimentale (2012 al 2014). Dall’osservazione dei dati possiamo affermare che il rapporto 6/3 per le singole aziende ha subito un’evoluzione positiva durante gli anni del progetto rientrando nel limite raccomandato dalla FAO/WHO (1994) inferiore a 5.
109
Tabella 1: valori medi di 6/3 dal 2012 al 2014
6/3 Aziende
2012
2013
2014
A
5,2
4,4
2,8
B
7,0
5,0
3,1
D
6,0
5,0
3,2
F
4,7
8,3
2,4
G
4,0
3,6
3,5
H I
4,0 4,0
4,0 4,4
3,0 4,2
L
5,1
4,8
2,7
Latte Nobile - Vitamine e PUFA Nei campioni di latte analizzato i livelli di -carotene e -tocoferolo (Figure 1 e 2) hanno mostrato un andamento stagionale con picchi nel mese di Aprile. beta-carotene 0.06
0.05
mg/L
0.04
0.03
0.02
0.01
0 dicembre
gennaio
aprile
Figura 1: andamento beta carotene nei campioni di latte (2013)
maggio
alfa-tocoferolo 1.2
mg/L
0.8
111 0.4
0 dicembre
gennaio
aprile
maggio
Figura 2: andamento alfa tocoferolo nei campioni di latte (2013)
Parallelamente alle vitamine liposolubili, anche i livelli dei precursori degli omega 3 e 6 (18:3 e 18:2, rispettivamente ) e dell’isomero 9,11 del CLA (Figura 3) variano durante l’anno con un picco nel mese di Aprile. n3 18:3
Andamento dei PUFA nel latte
n6 18:2 9,11 CLA
g/100g di grasso
4
3
2
1
0
Gennaio
Aprile
Maggio
Giugno
Settembre
Ottobre
Figura 3: andamento di PUFA e CLA nei campioni di latte (2013)
La concentrazione di molecole nutraceutiche dipende infatti da diversi fattori come la specie, la stagione, l’alimentazione. Questi dati confermano, anche in accordo con quanto riportato in letteratura,
che la tipologia e la qualità del foraggio influenzano la qualità nutrizionale del latte. Il pascolo fresco disponibile soprattutto in primavera arricchisce il latte di queste vitamine liposolubili di CLA incidendo su un basso rapporto (2:1), principalmente attribuibile a una maggiore presenza nel foraggio di acido alfa-linolenico (18:3). Latte Nobile – GCO e GC Massa e SmartNose L’analisi olfattometrica e di spettrometria di massa effettuate su campioni di latte Nobile prelevato dalle diverse aziende oggetto di studio hanno permesso di identificare molecole con odore attivo appartenenti alle seguenti classi chimiche: acidi grassi, alcoli, aldeidi, chetoni, esteri, idrocarburi, pirazine, pirroli, sulfurei, terpeni e tiazoli. In tabella 2 sono riportati i risultati.
Tabella 2: componenti volatili con odore attivo campioni di latte prelevati Compound Chem Class Odour perception butyric acid acid rancid phenyl acetic acid acid soap,spicy methyl-2-butenol alcohol herbaceous heptanol alcohol onion 2-ethyl hexanol alcohol green 2-phenyl ethyl alcohol alcohol honey,floral 2,6-nonadienol alcohol cucumber 2-octenal aldehyde green 3,6-nonadienal aldehyde floral perilla aldehyde aldehyde spicy decadienal aldehyde rancid,fat o-amino acetophenone aromatic hyd sweet ethyl butyrate ester apple butyl acetate ester pear ethyl methyl butyrate ester apple methyl-2-(methylthio)-acetate ester fried,potato ethyl isohexanoate ester fruity ethyl hexanoate ester honey,floral hydroxy pentanone ketone mushroom,earth octadienone ketone floral 2-nonanone ketone hot milk ethyl dimethyl pyrazine pyrazine potato acetyl pyrroline pyrrole fried,nut propionyl pyrrole pyrrole roast dimethyl disulfide sulfur garlic mercapto pentanone sulfur onion thenylthiol sulfur sulfur sulfurol sulfur garlic methylfuranthiol sulfut garlic limonene terpene floral (Z)-linalool oxide terpene soap,floral (E)-rose-oxide terpene green (Z)-limonene oxide terpene citrus carveol terpene fresh linalool oxide terpene floral myrtenal terpene floral,spicy 1,3-p-menthadien-7-ol terpene spicy acethyl thiazole thiazole green,earthy Totale a
a
b
LRI Ident 818 PI 1267 PI 779 PI 926 PI 1032 PI,MS 1116 PI 1163 PI 1061 PI 1096 PI 1274 PI 1322 PI 1313 PI 798 PI 816 PI 848 PI 891 PI 967 PI 1001 PI 824 PI 980 PI 1104 PI 1087 PI 924 PI 1026 PI 777 PI 899 PI 1077 PI 1260 PI 865 PI 1035 PI 1070 PI 1132 PI 1136 PI 1198 PI 1214 PI 1235 PI 1292 PI 1019 PI
A
B x
D E x x
F x
G H
I
x x x
x
L M x x x
x x x x
x x
113
x
x x x x x x x
x x
x x
x
x
x x
x
x x
x
x x x x x
x x x x
x
x
x
x
x x
x
x
x
x
x
x
x
x x x x x x
x x x x
x x x x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x x x x
x
x
x
x x
x
10
7
x x x 9
8
6 10 11 17 14
4
LRI, Linear Retention Index, capillary column HP-5. b Identification: MS (Wiley library); PI (Internet database:flavornet); ST (standard solution); * LRT calculated on the normal alkans RT
Nei campioni di latte oggetto di studio sono state identificate specifiche classi chimiche volatili la cui presenza può essere imputabile alla dieta animale. E’ il caso ad esempio delle aldeidi e nello specifico il decadienale la cui origine è dovuta al processo di ossidazione degli acidi grassi insaturi presenti nelle piante. La classe chimica dei terpeni, la cui presenza è stata rilevante nei campioni analizzati, deriva dai processi metabolici secondari. Come
dimostrato da precedenti studi, il profilo aromatico del latte è influenzato dall’alimentazione animale. Le sostanze aromatiche ingerite con la dieta possono infatti essere assorbite e trasferite inalterate dal sangue all’apparato mammario e quindi al latte. Latte Nobile verso Alta Qualità Campano - Vitamine e PUFA In tabella 3 sono riportati i risultati delle analisi di due tipologie di latte crudo e pastorizzato: latte Nobile e latte Alta Qualità Campano. I valori analitici riguardano in particolare il contenuto nel latte di tocoferolo, -carotene, colesterolo e del rapporto 6/3. Tabella 3: valori medi di -tocoferolo, -carotene, colesterolo e 6/3 -tocoferolo
-carotene
colesterolo
(μg/100 g)
(μg/100 g)
(mg/100 g)
Crudo destinato Alta Qualità Campano Alta Qualità Campano
47.2
5.1
18.5
7.2
52.0
5.7
20.8
7.1
Nobile crudo
28.6
2.1
15.3
2.6
Nobile pastorizzato
29.4
2.1
16.1
2.7
Tipologie latte
6/ 3
I risultati mostrano che nel latte di Alta Qualità Campano l’alfatocoferolo e il beta-carotene sono più alti nel latte pastorizzato rispetto al crudo, mentre nel latte Nobile non c’è variazione tra crudo e pastorizzato. Anche se i campioni di latte presentano valori molto diversi in contenuto vitaminico e di colesterolo, il latte Nobile presenta un rapporto 6/3 simile tra latte crudo e latte pastorizzato. Il trattamento termico non ha avuto effetti sul rapporto 6 e 3 confermando i dati riportati in bibliografia. Il latte Nobile però mostra un valore di 2.7 rispetto ai limiti raccomandati dalla FAO/WHO (1994) di 5, di contro il latte campano di Alta Qualità sia crudo che pastorizzato mostra un valore superiore al limite massimo raccomandato. Il valore del rapporto 6/3, è un valore importante e dimostra la qualità del latte Nobile, rappresenta l'equilibrio infatti di questi due acidi grassi essenziali è importante per la prevenzione e il trattamento di diverse patologie: l’eccessiva assunzione di -6 può
compromettere la formazione degli -3 a partire da acido Linolenico e viceversa. Latte Nobile verso Alta Qualità Campano -SmartNose Andando a valutare i risultati relativi alle componenti volatili ottenute con l’analisi allo SmartNose possiamo osservare che una differenza tra le componenti volatili dei campioni di latte analizzati (Figura 4) è dovuta al processo di termizzazione (PC1 88,14%; PC2 10,13%) a differenza di ciò che avevamo osservato per le componenti salutistiche. Figura 4. Score plot dei campioni di latte (AQ_C= Alta Qualità Campano (past = pastorizzato).
Focalizzando poi l’attenzione sulle due tipologie di latte (Nobile e Alta Qualità Campano), nel grafico si nota una vicinanza tra le due tipologie di latte indicandone un’analoga composizione volatile. Tale andamento è stato registrato sia nei campioni di latte crudo che
115
pastorizzato. Questi risultati mostrano che in generale per quanto riguarda le componenti aromatiche il latte Nobile ha un profilo simile a quello del latte Alta Qualità Campano.
Conclusioni I dati presentati in questo capitolo, relativi al latte Nobile analizzato sia sotto il profilo salustico che aromatico hanno mostrato un latte qualitativamente buono soprattutto se si fa riferimento al rapporto 6/ 3 del latte Nobile che è molto al di sotto dei valori massimi raccomandati dalla FAO/WHO (1994). I risultati relativi alle componenti aromatiche del latte Nobile mostrano inoltre un latte ricco di sostanze attribuibili alla dieta degli animali ed una significativa similitudine al latte Alta qualità Campano per le sue componenti volatili.
Bibliografia Banni S., Carta G., Contini M.S., Angioni E., Deiana M., Dessi M.A., Melis M.P., and Corongiu F.P. 1996. Characterization of conjugated diene fatty acids in milk, dairy products, and lamb tissues, J. Nutr. Biochem., 7:150-155. Palozza P., Krinsky N.I. 1992a ß-Carotene and tocopherol are synergistic antioxidants. Arch. Biochem. Biophys., 297:184-187. Marino, V. M., La Terra, S., Licitra, G. and Carpino S. Effetto del trattamento termico sulle sostanze nutraceutiche del latte. 2010. Scienza e Tecnica Lattiero Casearia. 61(1) :19-27. Rapisarda, T., Pasta, C., Belvedere, G., Schadt, I., La Terra, F., Licitra, G., Carpino, S. 2013. Variability of volatile profiles in milk from the PDO Ragusano cheese production zone. Dairy Sci. Technol. 93, 117–134. Rapisarda, T., Pasta, C., Carpino, S.Caccamo, M., Ottaviano, M., Licitra, G. 2014. Volatile profile differences between spontaneous and cultivated Hyblean pasture. Anim. Feed Sci. And Tech. 191, 3496.
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Rapporto omega6/omega3 e GPA nel Latte Nobile in Molise Giampaolo Colavita, Carmela Amadoro, Rossella Mignogna Università del Molise - Campobasso
Premesse Gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) sono anche acidi grassi essenziali, in quanto il nostro organismo deve necessariamente assumerli con la dieta. Quelli di maggiore interesse alimentare sono gli omega-3 e gli omega-6, che differiscono tra di loro per la posizione dell’ultimo (omega) doppio legame della catena. Nei primi, che sono dei derivati dell’acido α-linolenico (18:3 - ω3), l’ultimo doppio legame è in posizione 3, mentre nei secondi, derivati dell’acido α-linoleico (18:2 - ω6), in posizione 6. Nel latte questi acidi grassi non sono molto abbondanti rispetto ad altri alimenti. Il nostro organismo è in grado di trasformare l’acido α-linoleico in acido eicosapentanoico (EPA) ed in misura minore in acido docosaesaenoico (DHA). Il primo è il principale precursore delle prostaglandine della serie 3 (attività antiaggregante) e che insieme al DHA ha un’azione protettiva contro l’arteriosclerosi e nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Dal metabolismo degli omega-3 e degli omega-6 si formano prostaglandine, trombossani, leucotrieni, eicosanoidi ed endocannabinoidi, sostanze importanti nella stabilità delle membrane cellulari, nella coagulazione del sangue, nella flogosi e nella riparazione delle ferite. Diversi studi epidemiologici e sperimentali suggeriscono che gli omega-3 PUFA (Polyunsaturated fatty acids) possono espletare un effetto favorevole nel controllo e nella prevenzione delle malattie
cardiovascolari e dell’arteriotrombogenesi, riducendo il livello di colesterolo LDL e aumentando quello HDL.
Importanza di un corretto rapporto omega-6:omega-3 Ci sono evidenze scientifiche che dimostrano come l’interazione tra omega-6 e omega-3 nella dieta abbia dei riflessi sulle malattie metaboliche tra cui l’obesità. Negli ultimi decenni nella nostra dieta è incrementato il rapporto omega-6:omega-3, che è passato da 6:1 nel 1998, a 12:1 nel 2006, fino a valori, in alcune diete, di 17:1. Si è visto che il largo utilizzo di oli vegetali porta ad una maggiore assunzione di omega-6, così pure nel fastfood dove gli oli vegetali sono frequentemente aggiunti alle preparazioni. Una elevata assunzione di omega-6 favorisce i fattori della flogosi derivanti dall’acido arachidonico, molto probabilmente l’omega-6 più importante per le nostre difese contro le infezioni e in diversi processi metabolici. Una elevata assunzione di omega-6 comunque può contribuire allo stato infiammatorio che caratterizza diverse delle malattie legate allo stile di vita. L’acido arachidonico stimola la trasformazione degli adipociti intervenendo nell’eziopatogenesi dell’obesità nei bambini. Alcuni studi riportano elevati valori ematici di omega-6 e bassi livelli di omega-3 nei bambini obesi,. Prove sperimentali sugli animali da laboratorio hanno dimostrato che quando dopo la nascita i piccoli assumono con la dieta omega-6 e omega-3 in rapporto 9:1, frequentemente da adulti sviluppano obesità, pressione alta, trigliceridi aumentati, insulina alta (Simpoulos, 2002). Negli ultimi anni dati scientifici riportano lo stesso fenomeno nei bambini. (Strandvik, 2011). Risulta , quindi, di grande interesse produrre alimenti, e nello specifico latte e formaggi, che abbiano un corretto rapporto omega-6:omega-3, aderendo in tal modo agli orientamenti e al parere dell’Accademia della Nutrizione e Dietetica (2014).
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Materiali e metodi Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del progetto Aria di Molise, inserito nel PSR Molise 2007/1013, Mis. 124, per lo sviluppo di metodologie produttive tese alla produzione di un latte con elevate proprietà salutistiche. Il progetto è stato svolto nell’azienda Di Vaira di Petacciato (CB). Dopo una “ristrutturazione” del management aziendale e la stabilizzazione dei fattori produttivi, si è proceduto al prelievo (con cadenza mensile) di campioni di latte massale, nella prima fase per ottenere dei dati baseline e successivamente collezionare dei dati sperimentali inerenti il tenore in acidi grassi polinsaturi essenziali, i composti antiossidanti ed il colesterolo. Al fine di effettuare un’analisi comparativa, sono stati raccolti campioni di latte di alta qualità in aziende da latte del Molise.
Determinazione della capacità antiossidante idrosolubile con il metodo TEAC Il metodo TEAC (Trolox Equivalent Antioxidant Capacity) selezionato per la determinazione della capacità antiossidante totale è basato + sulla neutralizzazione del catione radicalico ABTS , formato dall’ossidazione di un cromoforo di origine sintetica, l’ABTS, dalla forte capacità assorbente (700-750nm), in accordo con la reazione + ABTS – e => ABTS . Il radicale è preparato a partire da una reazione di ossidazione dell’ABTS con il persolfato di potassio. Il radicale reagisce velocemente con un donatore di elettroni/ioni idrogeno a formare l’ABTS incolore. Un aumento della concentrazione di ABTS è linearmente dipendente dalla concentrazione degli antiossidanti, incluso il Trolox (6-hydroxy2,5,7,8,-tetramethylchromane-2-carboxylic acid), standard usato per la calibrazione. I risultati finali sono espressi come nmoli di Trolox/g campione.
Determinazione degli acidi grassi in latte e formaggio Per la determinazione degli acidi grassi del latte e del formaggio è stata utilizzata un’idrolisi basica per il latte e un’idrolisi acida per il
formaggio, seguita poi da estrazione con solvente della frazione lipidica secondo il metodo riportato in Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n° L407/92: Decisione del Consiglio del 14/11/1992 e nella Gazzetta Ufficiale n°229 del 2/10/1986, che prevede un’analisi gascromatografica. L’identificazione degli acidi grassi è stata effettuata mediante confronto dei tempi di ritenzione dei composti rivelati con quelli di una miscela standard di acidi grassi. Per la quantificazione i dati sono stati espressi come rapporto percentuale tra l’area del singolo acido grasso e l’area totale degli acidi grassi.
Determinazione delle vitamine liposolubili e del colesterolo Le vitamine liposolubile e il colesterolo sono state determinate secondo il metodo cromatografico (HPLC) secondo Manzi et al., 1996, previa estrazione con metodo Panfili et al., 1994. I risultati sono stati elaborati tramite un computer provvisto di software Chromeleon 6.60.
Determinazione del Antiossidante (GPA)
Grado
di
Protezione
Il grado di protezione antiossidante (G.P.A.) è stato calcolato come rapporto molare tra le molecole antiossidanti (M.A.) beta-carotene + alfa-tocoferolo ed il bersaglio dell’ossidazione del colesterolo (B.O.): M.A. n° moli+B.O./n° moli (Manzi e Pizzoferrato, 2006).
Risultati Nella tabella n.1 sono riportati i risultati relativi ad alcuni (per ragioni di spazio) campioni di latte massale dell’azienda Di Vaira. Come è possibile rilevare i valori della composizione centesimale possono rientrare nei parametri di un latte che, in base al D.M. 185/89, può essere definito di “alta qualità”. Tali valori sono coerenti con un management aziendale e un’alimentazione sostanzialmente corretti della mandria. Il tenore in grasso e proteine si è stabilizzato su valori
121
piuttosto elevati e stabili negli ultimi mesi, a testimonianza del raggiungimento degli obiettivi produttivi conseguentemente alla ristrutturazione aziendale e al nuovo regime alimentare, che ha visto un rapporto foraggio/concentrato arrivare a 80/20. Nella tabella n. 2 sono riportati i tenori in composti antiossidanti del latte di massa, i cui valori si sono dimostrati ampiamente nella media riportata in letteratura per il latte bovino. Gli stessi valori sono mano mano aumentati nel prosieguo dell’attività sperimentale. Anche i valori del GPA risultano soddisfacenti e stante la stabilità del tenore in colesterolo del latte, presentano un andamento parallelo a quello degli antiossidanti, da cui evidentemente sono fortemente dipendenti. Nella tabella n. 3 sono riportati i dati relativi al tenore in acidi grassi polinsaturi (PUFA) della serie omega-6 ed omega-3. Come è possibile evincere dalla tabella, anche se i valori assoluti non sono molto elevati, risulta ottimale il rapporto omega-6:omega-3, significativamente al di sotto del valore soglia di 5:1. I dati dimostrano come da valori baseline di 7,5:1 (all’inizio del progetto), il rapporto sia sceso e si sia stabilizzato su valori compresi tra 2,48 e 3,31, che certamente si possono definire ottimali. Nelle tabelle n. 4 e n. 5 sono riportati i dati (ancorché poco rappresentativi), relativi a campioni di latte di “Alta qualità” prelevati presso alcune aziende molisane. Si può rilevare come a dei tenori in grasso certamente ragguardevoli, corrispondano tenori in PUFA alquanto eterogenei, ma soprattutto il rapporto omega-6:omega-3 risulta molto elevato rispetto a quello riscontrato nel latte nobile, oscillando tra 6,67 e 11,25, ben oltre il valore soglia di 5:1. E’ verosimile che tali differenze siano riconducibili ai diversi regimi alimentari delle bovine, che negli allevamenti considerati avevano un rapporto concentrati/foraggi su valori di 60 : 40. Dalla tabella n. 7 è possibile rilevare come la scarsa presenza di foraggi nella razione delle lattifere incida negativamente sul tenore in composti antiossidanti nel latte di “Alta qualità” e, di conseguenza, anche sui valori del GPA. Questi dati dimostrano che per ottenere un
latte nobile è fondamentale un regime alimentare delle bovine basato sulla preponderanza dei foraggi.
Considerazioni conclusive I dati ottenuti nel corso dello studio dimostrano che si può produrre un Latte nobile con un corretto management dell’allevamento e con una alimentazione in gran parte basata sui foraggi e rispettosa della fisiologia e del biochimismo ruminale. Inoltre appare evidente che a parità di tenore in grasso, la differenza tra i latti risiede nel contenuto in sostanze antiossidanti e nella composizione acidica, soprattutto per quanto riguarda il rapporto omega-6:omega-3, per cui il concetto della qualità si sposta dal parametro qualità a quello di un corretto equilibrio dei vari costituenti, in particolare acidi grassi polinsaturi e antiossidanti quali tocoferoli e beta-caroteni. Questi ultimi trovano la loro fonte primaria nei foraggi e possono contenere significativamente i processi ossidativi del colesterolo. Se gli integratori a base di omega-3 e di antiossidanti rappresentano la risposta “chimica” per un’alimentazione moderna, il Latte nobile ne rappresenta la via naturale.
Tab.1: Composizione centesimale di campioni di latte di massa (Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira Data prelievo
Umidità
Proteine%
07.02.13
86,82± 0,03
3,38 ± 0,01
4,2 ± 0,02
Grasso %
0,80 ± 0,01
Ceneri%
Lattosio % 4,8
pH 6,63
Densità 1.030
14.01.14
86,63 ± 0,19
3,57 ± 0,02
4,30± 0,20
0,80 ± 0,02
4,7
6,6
1.030
12.02.14
86,49 ± 0,23
3,65 ± 0,30
4,35± 0,07
0,81 ± 0,01
4,7
6,68
1.031
14.04.14
86,30 ± 0,21
3,80 ± 0,07
4,40± 0,14
0,80 ± 0,00
4,7
6,64
1.030
09.06.14
86,46 ± 0,11
3,70 ± 0,4
4,34± 0,22
0,80 ± 0,02
4,7
6,66
1.031
123
Tab. 2: Contenuto in antiossidanti nel latte di massa (Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira μg/ml di latte
μg/100g di grasso
β-carotene
19.50 ±0,21
437,50±5,1
Data prelievo
GPA
09.03.14 α-tocoferolo
130,30±1,70
3080,72 ±21,3
13-cis-retinolo
22,60 ±0,12
532,2± 17,1
Trans-retinolo
22,10 ±1,50
540,54± 18,2
Colesterolo mg/ml
10,9±0,10
_
18,57
14.04.14 β-carotene
18.70 ±0,11
419,55±3,1
α-tocoferolo
121,50±1,70
2862,66 ±13,1
13-cis-retinolo
21,7 0±0,09
511,00± 14,3
Trans-retinolo
22,10 ±1,50
535,65± 16,2
Colesterolo mg/ml
10,7±0,8
_
17,7
β-carotene: range letteratura 3,4-29,0 µg/100ml (Lucas et al., 2006) α- tocoferolo: range letteratura 16,9-143,7 µg/100ml (Lucas et al.,2006) trans-retinolo: range letteratura 15,6-29,2 µg/100g (Panfili et al., 2006)
Tab. 2: Contenuto in antiossidanti nel latte di massa (Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira Data prelievo
μg/ml di latte μg/100g di grasso
GPA
06.05.14 β-carotene
20,20 ±0,13
453,20±5,2
α-tocoferolo
132,3±2,30
3113,08 ±11,7
13-cis-retinolo
21,7 ±0,09
511,0± 14,3
Trans-retinolo
23,3 ±1,90
548,67± 10,2
Colesterolo mg/ml
10,9±0,11
_
125
18,9
09.06.14 β-carotene
21,70 ±0,10
486,85±6,1
α-tocoferolo
139,3±1,90
3066,01 ±9,2
13-cis-retinolo
22,2 ±1,03
522,77± 10,6
Trans-retinolo
23,8 ±1,20
560,44± 8,9
Colesterolo mg/ml
10,7±0,20
_
20,32
β-carotene: range letteratura 3,4-29,0 µg/100ml (Lucas et al., 2006) α- tocoferolo: range letteratura 16,9-143,7 µg/100ml (Lucas et al.,2006) trans-retinolo: range letteratura 15,6-29,2 µg/100g (Panfili et al., 2006)
Tab. 3: Contenuto in omega-6 e omega-3 in campioni di latte di massa (Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira Campione
media
Ac. linoleico ω6
Ac. linolenico ω3
ω6 : ω3
07.02.13
media
2,12±0,04
0,28±0,01
7,5
13.03.13
media
1,87±0,02
0,36±0,01
5,2
17.05.13
media
1,71±0,03
0,38±00,0
4,5
03.06.13
media
1,73±0,04
0,41±0,04
4,2
18.07.13
media
1,53±0,09
0,46±0,04
3,2
02.09.13
media
1,60±0,00
0,63±0,00
2,54
03.10.13
media
1,43±0,04
0,52±0,01
2,75
05.11.13
media
1,52±0,06
0,60±0,01
2,53
10.12.13
media
1,57±0,03
0.55±0,01
2,85
14.01.14
media
1,47±0,03
0,59±0,00
2,49
12.02.14
media
1,59±0,02
0,48±0,01
3,31
09.03.14
media
1,49±0,01
0,51±0,00
2,92
14.04.14
media
1,53±0,02
0,49±0,02
3,12
06.05.14
media
1,62±0,00
0,62±0,01
2,6
09.06.14
media
1,59±0,01
0,64±0,02
2,48
Tab. 4: Composizione centesimale di campioni di latte di Alta Qualità di aziende molisane (* azienda A; ** azienda B; ***azienda C) utilizzati come confronto con il Latte Nobile Data prelievo
Umidità
Proteine%
Grasso %
Ceneri%
Lattosio %
pH
Densità
17.12.13*
87,4 ± 0,37
3,60 ± 0,07
4,10 ± 0,07
0,74 ± 0,01
4,2
6,55
1.031
14-01-14*
87,6 ± 0,37
3,20 ± 0,01
3,90 ± 0,12
0,72 ± 0,01
4,6
6,52
1.030
10.02.14*
86,72 ± 0,01
3,30± 0,40
4,60 ± 0,26
0,78 ± 0,01
4,6
6,61
1.030
21.03.14**
87,50 ± 0,08
3,2 0± 0,10
4,3 0± 0,13 0,70 ± 0,01
4,3
6,56
1032
24.04.14***
87,60 ± 0,13
2,70 ± 0,03
4,60 ± 0,15 0,63 ± 0,03
4,5
6,6
1.031
Tab. 5 : Contenuto in omega-6 e omega-3 in campioni di latte di Alta qualità di aziende molisane (*azienda A; **azienda B; *** azienda C) Ac. linoleico ω6
Ac. linolenico ω3
ω6/ ω3
17.10.13 media*
3,15±0,03
0,28±0,00
11,25
14.01.14 media*
2,88±0,08
0,31±0,03
9,29
10.22.14 media*
2,95±0,18
0.31±0,01
9,51
21.03.14 media**
2,30±0,04
0,40±0,01
5,75
24.04.14 media***
3,20±0,08
0,48±0,01
6,67
Campione
Bibliografia Gazzetta Ufficiale n. 407 del 31 Dicembre 1992. Metodi di analisi e di prova del latte trattato termicamente, destinato al consumo umano diretto. Gazzetta Ufficiale n°229 del 02/10/1986. Metodi Ufficiali di analisi per i formaggi. Manzi P., Panfili G., Pizzoferrato L.,1996. Normal and reversedPhase HPLC for more complete evaluation of tocopherols, retinols, carotenes and sterols in dairy products. Chromatographia, 42,1/2. Panfili G., Manzi P., Pizzoferrato L., (1994). High-performance Liquid Chromatographic Method for the Simultaneous Determination of Tocopherols, Carotenes, and Retinol and its Geometric Isomers in Italian Cheeses. Analyst, 119, 1161-1165. Georgé S., Brat P., Alter P., Amiot M.J. (2005). Rapid Determination of Polyphenols and Vitamin C in Plant-Derived Products. Journal of Agricultural and Food Chemistry, 53, 1370-1373. Position of Academy of Nutrition and Dietetics (2014). Dietary fatty acids and healthy adults. Journal of Academuy of Nutrition and Dietetics, 114, 1, 136-153.
127
Re R., Pellegrini N., Proteggente A., Pannala A., Yang M., RiceEvans C. (1999). Antioxidant activity applying an improved ABTS radical cation decolorization assay. Free Radical Biology and Medicine, 26: 1231-1237. Simopoulos A.P. (2002). The importance of the ratio of omega6/omega-3 essentialfatty acids. Biomed Pharmacother, 56, 365-379. Strandvik B. (2011) The omega-6/omega-3 ratio is of importance. Prostaglandins, Leukotrienes and Essential Fatty Acids. 85. 405-406. http://www.rizzuti.org/roma/Corso/Manzi%20Pizzoferrato.ppt#256,.
Il Latte Nobile delle Alpi piemontesi come strumento per migliorare la competitività delle aziende agricole montane: primi risultati Giampiero Lombardi, Luca Battaglini, Paolo Cornale, Carola Lussiana, Vanda Malfatto, Antonio Mimosi, Massimiliano Probo, Simone Ravetto Enri, Manuela Renna Università degli Studi di Torino Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari Lucia Decastelli, Sara Astegiano, Alberto Bellio, Daniela Manila Bianchi, Silvia Gallina, Grazia Gariano Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta
Premesse Nelle montagne piemontesi la superficie agricola utilizzabile è per il 90% circa costituita da prato-pascoli permanenti e pascoli (187000 ha; ISTAT, 2013). Essi sono utilizzati da 7.800 aziende agricole, 3.000 delle quali dedite all’allevamento di bovini e, tra esse, il 50% dedite all’allevamento di vacche da latte. Queste ultime ammontano a circa 19.300 (Sistema Piemonte, 2009) e corrispondono al 10% del patrimonio bovino regionale. Le bovine allevate in tali aziende forniscono il 9% della produzione regionale di -1 latte, quasi completamente trasformato in circa 2800 t anno di prodotti caseari (oltre l’80% della produzione casearia piemontese; Brun et al., 2005), mentre la produzione di latte destinato al consumo diretto, in termini quantitativi e di impatto economico, è al momento poco rilevante. Anche in Piemonte è però in continua crescita l’interesse verso il latte alimentare proveniente da allevamenti estensivi, quali sono quelli montani. I consumatori sono alla ricerca di un latte il più
129
possibile simile a quello che esce dalla mammella della bovina, come testimoniato dalla diffusione dei distributori di latte crudo, il cui successo non dipende esclusivamente dal più ridotto costo per litro. Inoltre il latte di allevamenti non intensivi nei quali è più rispettata la fisiologia dell’animale, gode presso i consumatori di un’immagine di naturalità ed evoca il ricordo della tradizione. Da parte dei produttori la riscoperta dell’interesse verso la produzione di latte per il consumo diretto è legata alla necessità di differenziare le produzioni al fine di far fronte alle fluttuazioni della domanda di prodotti tipici, contrastare la riduzione dei prezzi all’ingrosso, che talora scendono sin sotto il punto di equilibrio tra costi e ricavi per effetto di disponibilità di prodotto spesso superiori alla domanda (almeno stagionalmente), ridurre il capitale immobilizzato sotto forma di formaggio nelle celle di stagionatura, ridurre l’onerosità delle lavorazioni, soprattutto nei momenti di picco della produttività della stalla, e disporre di un bene primario di largo consumo che richiami il consumatore presso il punto vendita, spingendolo ad acquistare anche altri prodotti. Tuttavia, tanto le esigenze dei produttori quanto le aspettative dei consumatori possono essere soddisfatte solo con difficoltà nell’attuale situazione del comparto latte. Infatti il latte, come bene primario, ha sul mercato un valore che dipende in larga parte dalla quantità e solo in piccola parte da parametri qualitativi (grasso, proteine, carica batterica e cellule somatiche), che non sono quasi mai l’espressione di una qualità nutrizionale. Quest’ultima invece può variare molto in funzione dell’alimentazione degli animali produttori, della loro razza, delle condizioni di allevamento e mungitura, dei processi di lavorazione attuati dopo la mungitura, ecc. (Chilliard et al., 2007; Dewhurst et al., 2006). In particolare la ricerca ha evidenziato che l’alimentazione delle bovine con foraggi freschi o con foraggi conservati secchi da prati polifiti (fieni) è in grado di conferire al latte un profilo in acidi grassi, vitamine e molecole antiossidanti più favorevole per l’alimentazione e la salute umana rispetto al latte di animali alimentati a unifeed, insilati o mangimi (Van Dorland et al., 2006). Il latte ottenuto impiegando soprattutto
erba fresca e foraggi provenienti da prato-pascoli a elevata biodiversità si propone quindi come mezzo sia per superare le difficoltà del mercato, sia per migliorare la dieta e la salute di chi lo consuma. In questo contesto il marchio Latte Nobile nasce nell’Appennino campano con l’obiettivo di promuovere un modello di produzione del latte alimentare che parte dal presupposto che il latte prodotto da animali alimentati prevalentemente a fieno e erba ha caratteristiche intrinseche che lo rendono riconoscibile e superiore sotto il profilo nutrizionale e salutistico da quello normalmente presente in commercio. Tale modello ha già trovato applicazione in diverse regioni del centro e sud Italia, ma finora non è stato adottato nelle regioni temperate. In questo lavoro sono presentati i primi risultati del progetto Làit Real, finanziato nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 di Regione Piemonte, che mira ad adattare il modello proposto alla realtà montana piemontese che, rispetto a quella campana, presenta evidenti differenze di sistemi di allevamento e gestione delle bovine, caratteristiche delle risorse foraggero-pastorali utilizzate, razze animali allevate e relativo potenziale produttivo.
Le filiere del Latte Nobile in Piemonte Le imprese potenzialmente interessate alla produzione di Latte Nobile in Piemonte sono sostanzialmente organizzate secondo due filiere: una che fa riferimento ad aziende agricole in grado di eseguire in proprio i processi di lavorazione e di commercializzare direttamente il latte e una con aziende che conferiscono la propria produzione a imprese casearie di trasformazione, quali caseifici industriali o caseifici cooperativi, per la lavorazione in forma associata. Per entrambe le tipologie, il progetto ha valutato tutte le fasi della filiera, dalle risorse alimentari utilizzate per l’allevamento, al prodotto finito ed è stata verificata la risposta dei consumatori nei confronti del prodotto stesso. Le attività hanno coinvolto due imprese in provincia di Torino (piccoli allevamenti riconducibili al primo tipo di
131
filiera) e tre in provincia di Vercelli (due piccoli allevamenti e il caseificio cooperativo al quale essi conferiscono).
La base delle filiere: risorse foraggere ad alta biodiversità ed estremamente diversificate La vegetazione destinata alla produzione di fieno per l’alimentazione in stalla e/o al pascolamento delle vacche da latte è stata caratterizzata in termini di composizione e potenzialità foraggera. L’analisi dei dati provenienti da 156 rilievi effettuati con il metodo fitopastorale (Daget e Poissonet, 1972) su 200 ha di prato-pascoli delle quattro aziende ha consentito di riconoscere 15 differenti tipi di vegetazione. Quelli maggiormente rappresentati sul territorio sono a Festuca gr. rubra e Agrostis tenuis (28% della superficie), a Brachypodium rupestre (13%) e a Bromus erectus (10%). Nel primo caso si tratta di una vegetazione fertile e fresca tipica dei pianori, delle pendici moderate e degli alti fondovalle. Gli altri due tipi sono tipici dei ripidi versanti esposti a Sud, soggetti a forti escursioni termiche, a importanti variazioni della disponibilità idrica e con moderata disponibilità di nutrienti del suolo. Tutti i tipi sono caratterizzati da un’elevata biodiversità: complessivamente sono state rilevate circa 340 diverse specie vegetali, peraltro in ambienti tra loro simili, e una media di 27 specie per rilievo (con un massimo di 51 in un brachipodieto del piano subalpino). Di ogni tipo sono state valutate la produttività e la qualità foraggera, determinate sia con analisi chimico-bromatologiche, sia con il Valore Pastorale (VP), un indice che consente di esprimere un giudizio sintetico sul potenziale foraggero ed è in grado di stimare in modo accurato la qualità e la produttività della vegetazione complessa. I fieni e l’erba di pascolo con i quali gli animali sono alimentati sono in media di buona qualità (VP medio 31), oltre che ricchi di specie (soprattutto dicotiledoni).
Dal foraggio al latte: le vacche e la loro dieta Nelle quattro aziende zootecniche del progetto sono allevati da 20 a 45 capi di diverse razze (Valdostana Pezzata Rossa, Grigio Alpina, Bruna Alpina, Montbéliarde, Abondance). Di questi 15-35 sono in
lattazione e producono quotidianamente 15-20 kg per capo di latte (20-27 kg al momento del picco di lattazione), corrispondenti a 40006000 kg per lattazione. Nel periodo invernale queste produzioni sono ottenute con una razione prevalentemente composta da fieno, con limitate integrazioni a base di mangime e/o materie prime (mais, orzo) in quantità inferiore al 20% s.s.. Nel periodo estivo di alpeggio le bovine si alimentano esclusivamente al pascolo o talora con limitate integrazioni a base di mangime e/o materie prime. Nel periodo primaverile di passaggio da alimentazione secca a verde si verifica una contemporanea assunzione di foraggi conservati ed erba di pascolo aziendale di fondovalle (in varie proporzioni e con o senza integrazioni, a seconda dell’azienda). Nel periodo autunnale si verifica nuovamente una contemporanea assunzione di foraggi conservati ed erba di pascolo aziendale di fondovalle, per il passaggio da alimentazione verde ad alimentazione secca invernale.
Il latte: qualità microbiologiche e nutraceutiche Del latte prodotto dalle bovine delle quattro aziende sono stati valutati i parametri generali di qualità per verificare il rispetto dei limiti fissati dalla normativa europea vigente (Reg. CE 853/2004). In particolare sono state valutate la carica batterica totale e le cellule somatiche del latte crudo. Questi due parametri sono utilizzati come indicatori rispettivamente delle condizioni igieniche di allevamento, mungitura e conservazione del latte e delle condizioni sanitarie della mammella. La normativa nazionale, inoltre, fissa alcuni parametri merceologici (tenore in grasso e proteine) che vengono utilizzati come indicatori di qualità del latte in termini di valori nutritivi. Le aziende sono state monitorate durante tutto il periodo in cui hanno prodotto latte alimentare, in particolare sono stati eseguiti almeno due prelievi al mese di latte massale. Al fine di valutare la salubrità del prodotto è stata valutata l’assenza di aflatossina M1 e di microrganismi patogeni quali Salmonella spp., Lysteria monocytogenes, Escherichia coli verocitotossici, Campylobacter termofili e stafilococchi coagulasi positivi. I risultati ottenuti hanno mostrato il rispetto dei limiti fissati per i parametri indicatori di igiene
133
e di stato sanitario della mammella. Nella maggior parte dei casi i parametri merceologici hanno mostrato valori superiori a quelli fissati per il latte Alta Qualità. Tutti i campioni di latte crudo analizzati sono risultati negativi alla ricerca di aflatossina M1 e dei microrganismi patogeni, mentre hanno mostrato livelli accettabili di stafilococchi coagulasi positivi. Dato che il regime alimentare ha un effetto rilevante sulla composizione della materia grassa del latte, per le quattro aziende è stato determinato il profilo completo in acidi grassi del latte massale nei diversi periodi dell’anno. La composizione in acidi grassi del latte è stata determinata tramite analisi gascromatografica (Renna et al., 2012) e i dati ottenuti sono stati trattati statisticamente mediante analisi della varianza al fine di individuare le differenze tra periodi. A titolo di confronto le stesse analisi sono state effettuate anche per campioni dei principali tipi di latte reperibili presso la grande distribuzione. Nel periodo estivo (figura 1) il Latte Nobile presenta le maggiori concentrazioni medie di acidi grassi polinsaturi della serie omega-3 e di acido linoleico coniugato (CLA). Rispetto al latte invernale, anche il latte prodotto in primavera e autunno presenta concentrazioni mediamente più elevate di omega-3 e CLA. Questi risultati dipendono senza dubbio dall’impiego di erba nella razione delle bovine (Couvreur et al., 2006). Rispetto al Latte Nobile del periodo estivo, la concentrazione degli stessi acidi nel latte commerciale è mediamente 3-4 volte inferiore e comparabile a quella del Latte Nobile prodotto in inverno. Nel Latte Nobile il rapporto tra acidi grassi polinsaturi delle serie omega-6 e omega-3 (PUFA n6/PUFA n3), nonché il rapporto tra acido linoleico e acido α-linolenico (LA/ALA), non variano significativamente in funzione della stagione e si avvicinano a valori auspicabili da un punto di vista nutrizionale e salutistico (1:1–4:1), che erano tipici delle diete dei nostri predecessori (Simopoulos, 2011). Il latte in commercio invece ha rapporti decisamente meno favorevoli (3.82-5.50).
135
Figura 1 – Contenuto di acidi grassi del latte (PUFA: acidi grassi polinstaturi; LA: acido linoleico; ALA: acido α-linolenico; CLA: acido linoleico coniugato). Valori espressi in g/100 g di grasso. Lettere uguali identificano trattamenti tra loro non significativamente differenti.
Il latte dalla stalla al consumatore: nasce Nobile ma… … solo con un trattamento termico, un imbottigliamento e una conservazione adeguati conserva tutte le qualità nutrizionali che derivano dalla particolare alimentazione delle vacche. Per definire le lavorazioni che meno alterano le caratteristiche del latte nel corso del progetto sono stati verificati gli effetti di diversi tempi e temperature di pastorizzazione, utilizzando come indicatore parametri microbiologici (Enterobatteriaceae: < 10 ufc/mL) ed enzimatici (Fosfatasi alcalina: negativa; Perossidasi: positiva). La pastorizzazione a bassa temperatura e per un tempo prolungato consente di ottenere un prodotto sicuro e idoneo alla commercializzazione come latte Alta Qualità secondo la vigente normativa. Il latte è stato imbottigliato utilizzando diversi tipi di
bottiglia (vetro e PET) e diverse temperature di imbottigliamento e sono state monitorate nel tempo la carica batterica psicrofila e mesofila. Questi batteri, se presenti in cariche elevate, possono determinare alterazioni organolettiche in termini di gusto, odore e aspetto limitando la vita commerciale del prodotto (shelf-life). I risultati ottenuti evidenziano come tali parametri sono inferiori ai limiti considerati accettabili, durante l’intera shelf-life dichiarata dal produttore, nonostante le bottiglie siano state conservate ad una temperatura di leggero abuso termico (+ 8°C).
Le risposte dei consumatori Nella proposta di un nuovo prodotto, quale il Latte Nobile in Piemonte, la capacità dei consumatori di percepire le differenze rispetto a prodotti simili normalmente disponibili in commercio è un elemento fondamentale per il successo del prodotto stesso. Con l’obiettivo di valutare tale capacità, nell’ambito del progetto sono state organizzate due giornate dedicate alle valutazioni sensoriali. Due differenti panel non addestrati di circa 120 persone ciascuno hanno effettuato oltre 450 test triangolari di confronto tra campioni di latte pastorizzato delle quattro aziende partecipanti al progetto e campioni di un latte Alta Qualità proveniente dalla grande distribuzione. Tra i campioni proposti anonimamente l’88% degli assaggiatori ha correttamente individuato il Latte Nobile, al quale sono stati attribuiti maggiori intensità del gusto, persistenza, freschezza e sapidità rispetto al latte di riferimento, oltre a note lattiche, animali, di burro e di crema più intense.
Conclusioni Gli allevamenti piemontesi estensivi dispongono di foraggi con una composizione diversificata, un’elevata diversità specifica e, in generale, una buona qualità foraggera. Tutti questi aspetti sono ben valorizzabili soprattutto attraverso il pascolamento che consente di ottenere un latte con valori nutrizionali indiscutibilmente superiori a quello prodotto da sistemi intensivi. Grazie all’abilità degli allevatori si ottiene un latte di ottima qualità non solo nutrizionale, ma anche
igienica e queste qualità possono essere conservate per diversi giorni dopo la vendita del prodotto confezionato con semplici pratiche in fase di lavorazione. Esse sono adottabili anche in aziende o caseifici di piccole dimensioni, cioè anche senza impiego di impianti di pastorizzazione-imbottigliamento di tipo industriale. La conclusione delle attività del progetto Làit Real permetterà di ottenere maggiori informazioni in merito alle diverse fasi delle filiere e di valutare gli effetti della variabilità stagionale. I risultati ottenuti evidenziano fin da ora la possibilità di utilizzare la produzione del Latte Nobile come strumento per aumentare la competitività e diversificare le produzione delle aziende di montagna. Inoltre i modelli che saranno messi a punti per le zone montane potranno, dopo adeguate verifiche, essere trasferiti anche ad altri allevamenti gestiti estensivamente.
Bibliografia Brun F., Mosso A., Xausa E. (2005). La montagna in cifre: rapporto statistico sulle terre alte del Piemonte. Regione Piemonte, 71 pp. Chilliard Y., Glasser F., Ferlay A., Bernard L., Rouel J., Doreau, M. (2007). Diet, rumen biohydrogenation and nutritional quality of cow and goat milk fat. European Journal of Lipid Science and Technology 109: 828-855. Couvreur S., Hurtaud C., Lopez C., Delaby L., Peyraud J.L. (2006). The linear relationship between the proportion of fresh grass in the cow diet, milk fatty acid composition, and butter properties. Journal of Dairy Science 89: 1956-1969. Daget P, Poissonet J. (1972). Un procédé d’estimation de la valeur pastorale des pâturages. Fourrages 49: 31-39. Dewhurst R.J., Shingfield K.J., Lee M.R.F., Scollan N.D. (2006). Increasing the concentrations of beneficial polyunsaturated fatty acids in milk produced by dairy cows in high-forage systems. Animal
137
Feed Science and Technology 131: 168-206. ISTAT (2013). Atlante dell'agricoltura italiana. 197 pp. Renna M., Cornale P., Lussiana C., Malfatto V., Fortina R., Mimosi A., Battaglini L.M. (2012). Use of Pisum sativum (L.) as alternative protein resource in diets for dairy sheep: effects on milk yield, gross composition and fatty acid profile. Small Ruminant Research 102: 142-150. Simopoulos A.P. (2011). Importance of the omega-6/omega-3 balance in health and disease: evolutionary aspects of diet. In: Simopoulos A.P. (Ed.), “Healthy Agriculture, Healthy Nutrition, Healthy People”. Karger, Washington, D.C., pp. 10-21. Van Dorland H.A., Wettstein H.-R., Kreuzer M. (2006). Species-rich swards of the Alps: constraints and opportunities for dairy production. In: Elgersma A., Dijkstra J., Tamminga S. (Eds.), “Fresh Herbage for Dairy Cattle”, Springer, Dordrecht, The Nederlands, pp. 27-43
Una proposta di misurazione della qualità del fieno F. Infascelli, S. Calabrò, Monica I. Cutrignelli, R. Tudisco, M. Grossi, P. Lombardi Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni animali Università di Napoli Federico II
L’aumento delle produzioni unitarie nel comparto bovino da latte, oltre che frutto del miglioramento genetico, è ascrivibile all’adozione di piani alimentari caratterizzati da basso rapporto foraggi/concentrati. Tali diete, tuttavia, per l’influenza negativa esercitata sul benessere animale, sono ritenute responsabili dello scadimento qualitativo delle derrate e del peggioramento del ritmo riproduttivo. Il disciplinare di produzione del latte Nobile prevede, invece, diete con rapporti foraggi/concentrati pari a 70/30 ed eliminazione degli insilati; risulta evidente quindi che, per soddisfare i fabbisogni nutritivi degli animali, è necessario disporre di ottime risorse foraggiere. In merito, nell'ambito delle attività previste dal protocollo di collaborazione tra la Cattedra di Nutrizione e Alimentazione animale del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell'Università Federico II di Napoli e i promotori del Progetto Nobilat, si è ritenuto utile lavorare su diversi aspetti. In primis si è pensato di fornire agli allevatori e ai tecnici una scheda di facile interpretazione (figura 1) per operare una valutazione di campo dei fieni.
139
Figura 1 - Scheda Valutazione Fieno (punti) 1) Colore Marrone scuro: 2; Marrone chiaro: 5; Giallo paglierino: 6; Verde chiaro: 7; Verde: 8; Verde intenso: 10 2) Numero di essenze presenti da 1 a 3: max 3
da 4 a 7: max 7; da 8 a 10: max 10
3) Polvere Assenza: 10; poca: 8-9; media: 5-7; molta: 1-4 4) Valutazione tattile Morbido: 8-10; croccante: 5-7; rigido: 1-4 5) Valutazione flaoviur odore di fresco: 8-10; odore medio: 5-7; odore scarso: 1-4 6) Rapporto Graminacee/Leguminose 50/50: 10; 60/40: 8; 70/30: 6; 80/20: 4; 100/0: 2; 0/100: 5 7) FogliositĂ scarsa: 1-3; media: 4-6; molto foglioso: 7-10 Valutazione totale punti: ____________
Valutazione di Campo Nel corso degli ultimi due anni, le schede sono state utilizzate sempre dallo stesso panel di operatori in diverse aziende zootecniche delle province di Avellino e Benevento. Nelle tabelle 1 e 2 vengono riportate le correlazioni significative ritrovate tra i diversi parametri della scheda e i valori di alcune caratteristiche chimiche determinate presso i nostri laboratori (AOAC, 2000; Van Soest et al., 1991) di fieni polifiti prodotti nelle due province.
Tabella 1. Correlazioni parametri scheda/composizione chimica (Avellino) Ceneri
PG
NDF
PG/NDF
colore
0.6507*
0.8171*
-0.6551*
0.8106*
essenze
0.1955
0.4556
-0.3720
0.4804
polvere
-0.0351
0.3213
0.0825
0.1980
tattile
0.6733*
0.6377*
-0.3423
0.5809*
odore
0.0109
0.4724
-0.1723
0.4202
L/G
0.7693*
0.5322
-0.8442*
0.6975*
fogliositĂ
0.9324
0.8283
-0.8119
0.9595
Totale
0.7874
0.8283
-0.7193
0.8595
* P<0.05 Tabella 2. Correlazioni parametri scheda/composizione chimica, (Benevento) Ceneri
PG
NDF
PG/NDF
colore
-0.0797
-0.3048
0.6324*
-0.4387
essenze
0.2932
-0.3729
0.4354
-0.4457
polvere
0.4609
0.1067
-0.0220
0.0755
tattile
-0.3570
-0.2287
0.4004
-0.3545
odore
0.1966
-0.1410
-0.0184
-0.1385
L/G
0.5628
0.5322
-0.6331
0.5175
fogliositĂ
-0.3518
-0.4115
-0.4625
0.9776*
Totale
0.0906
-0.4115
0.5780*
-0.5315
* P<0.05
Come si evincere dalla lettura delle tabelle, mentre per la provincia di Avellino buona parte dei parametri soggettivi è risultato correlato con le caratteristiche chimiche, per Benevento soltanto per il colore e la fogliosità dei fieni sono stata trovate correlazioni significative, rispettivamente con il contenuto di NDF e con il rapporto protidi/NDF.
141
Il non soddisfacente risultato di Benevento e soprattutto le differenze tra le due province, ci ha indotto ad apportare alcune modifiche alla scheda impiegata che sono attualmente in corso di effettuazione.
Indice di metanogenicità Un altro aspetto su cui si è ritenuto utile indagare – e che vuole essere la proposta di cui al titolo della presente relazione - è rappresentato dalla misurazione del metano di origine ruminale prodotto dall'impiego di diversi fieni, consci che la produzione di questo gas oltre a diminuire l’efficienza di utilizzazione dell’energia dell'alimento, rappresenta un problema ambientale e la sua riduzione rientra nelle finalità delle produzioni zootecniche eco-sostenibili, quale il latte Nobile si prefigge di essere. Il metano, infatti, è responsabile del 20% dell'incremento dell'effetto serra (Moss, 1993). A confronto dell’anidride carbonica, la sua presenza in atmosfera è molto inferiore; tuttavia, il metano ha un potenziale di riscaldamento globale 23 volte superiore. In particolare, la quota derivante dagli allevamenti è considerata, significativa: autori diversi hanno stimato che il metano prodotto dai microrganismi ruminali incide con percentuali comprese tra 7.4 e 23.3%. L’energia per la crescita microbica in ambienti anaerobi deriva dall’ossidazione dei substrati, con trasferimento di elettroni ad accettori finali diversi dall’ossigeno molecolare e spesso derivati dagli stessi substrati. Nel rumine i principali prodotti che ne derivano sono gli acidi grassi volatili ed il metano. L’energia ancora disponibile nel metano può essere liberata da un’ossidazione, con il trasferimento degli equivalenti riducenti all’O2. La produzione e l’eliminazione del metano dunque se da un lato concorre a mantenere condizioni ossidative in un ambiente anaerobio attraverso la riossidazione dei cofattori trasportatori di elettroni, come il NADH, il FADH2 e la ferredossina, dall’altro rappresenta una perdita di energia per il ruminante (dal 2 al 12% in funzione del rapporto foraggio/concentrato). I responsabili della metanogenesi sono degli archeobatteri, gruppo di microrganismi unico dal punto di vista filogenetico caratterizzati da lento sviluppo e stretta anaerobiosi. I metanogeni nell’ecosistema ruminale
rappresentano uno dei passaggi conclusivi della catena di degradazione dell’alimento, di cui sono responsabili tre differenti gruppi di microrganismi: 1° stadio – degradazione dei polisaccaridi: dovuto all’azione di batteri che idrolizzano cellulosa, emicellulose, pectine, amido e altri polimeri a mono ed oligosaccaridi, successivamente metabolizzati ad acidi grassi volatili, idrogeno, anidride carbonica e alcoli; 2° stadio – produzione di idrogeno molecolare: ne sono responsabili i batteri acetogenici (degradano i prodotti del primo stadio in acido acetico, idrogeno ed in alcuni casi in anidride carbonica), i protozoi e i miceti che possiedono gli idrogenosomi. 3° stadio – metanogenesi: i batteri metanogeni utilizzano i prodotti ottenuti nei primi due stadi, soprattutto idrogeno e anidride carbonica. I tre stadi risultano strettamente collegati tra di loro: l’efficienza metabolica di un gruppo dipende da quella degli altri due. Gli zuccheri semplici derivati dalla degradazione dei polisaccaridi, attraverso la glicolisi sono trasformati in piruvato che occupa una posizione chiave da cui prendono avvio reazioni chimiche che differiscono sia per le specie batteriche anaerobiche coinvolte sia per le differenti condizioni ambientali di crescita delle popolazioni ruminali. Il piruvato può essere metabolizzato ad acetato, anidride carbonica, idrogeno, oppure a butirrato o etanolo o ancora a propionato tramite lattato e succinato. Parte del propionato, degli acidi grassi a catena lunga e degli acidi aromatici vengono ossidati anaerobicamente fino ad acetato oppure ad acetato e anidride carbonica, o formiato, a seconda dei diversi substrati. I metanogeni utilizzano come substrato principalmente idrogeno molecolare e anidride carbonica, secondo la seguente equazione: 4 H 2 + CO2 → CH4 + 2 H2O. Essi, tuttavia, sono anche in grado di utilizzare formiato ed altri precursori di minore importanza, come l’acetato e gli alcoli primari a catena corta, fra cui il metanolo che si forma nella degradazione delle pectine, e l’n-butanolo. Il formiato può essere
143
utilizzato dai batteri metanogeni direttamente o previa degradazione ad anidride carbonica ed idrogeno da parte di altri batteri. In vitro, gli alcoli primari di basso peso molecolare (fino all’n-butanolo) e soprattutto il metanolo, possono essere efficienti donatori di elettroni nella metanogenesi, ma in vivo, mano a mano che la digestione della pectina procede, il metanolo tende piuttosto ad accumularsi e l’etanolo a donare i propri elettroni nella sintesi di acidi grassi volatili. Il Methanobacterium subossidans ossida il butirrato ad acetato in presenza di anidride carbonica e idrogeno molecolare, formando contestualmente CH4: 2 butirrato + CO2 + 2 H2 → 4 acetato + CH4 Non solo il metano non è utilizzabile per il metabolismo dell’animale ospite, ma la metanogenesi e la produzione di acidi grassi volatili sono antagoniste. I principali meccanismi responsabili dell’eliminazione di metano sono due: il primo legato alla quantità di carboidrati della dieta che fermentano nel reticolo-rumine ed al rapporto tra questa e la velocità di passaggio dell’alimento. Il secondo meccanismo regola la disponibilità di idrogeno e la conseguente produzione di metano dagli AGV. E’ principalmente il rapporto acetico/propionico (A/P) ad influenzare la produzione di metano; generalmente A/P è compreso tra 0.9 e 4. Diversi fattori esogeni intervengono nella regolazione della produzione di metano: l’ingestione di alimento, il tipo di carboidrati ingeriti, i foraggi somministrati, l’aggiunta di lipidi alla razione, la manipolazione della microflora. Il tipo di carboidrati fermentati influenza la produzione di metano principalmente attraverso l’impatto che essi hanno sul pH ruminale e sulla popolazione microbica. La fermentazione dei carboidrati della parete cellulare produce più acetato rispetto al propionato e quindi più metano (Moe e Tyrrell, 1979). La fermentazione dei carboidrati solubili, produce meno metano rispetto ai carboidrati di struttura e allo stesso amido. Indipendentemente dal tipo di carboidrati, il metano prodotto diminuirebbe all’aumentare della sostanza organica fermentata. Moe e Tyrrell (1979) riportano che, al di fuori di un certo range di ingestione (20.7-22.9 kg s.s./d) la
produzione di metano/grammo di cellulosa digerita è pari a 3 volte quella delle emicellulose e a 5 volte quella della frazione solubile. Thomson e Lamming (1972) hanno registrato una maggiore produzione di metano in una dieta a base di cereali combinata con un fieno grossolano probabilmente perchè la presenza di particelle più grossolane nel rumine aumenta la velocità di passaggio di quelle più piccole favorendo così favorendo la produzione di acetato a scapito del propionato. La gascromatografia risulta il metodo maggiormente impiegato per misurare la composizione dei gas prodotti nel rumine. Tra le tecniche in vitro in grado di accumulare gas durante il processo di fermentazione per poterlo poi iniettare nel gas cromatografo, quella a nostro avviso maggiormente vantaggiosa risulta la tecnica della produzione cumulativa di gas (IVGPT) descritta da Theodorou et al. (1994). Questo sistema si basa sul presupposto che la fermentazione anaerobica dei carboidrati da parte dei microrganismi ruminali produce acidi grassi volatili, anidride carbonica, metano e tracce di H2; quindi la misurazione della produzione di gas durante la fermentazione in vitro degli alimenti, in bottiglie da siero, in condizioni di anaerobiosi con un opportuno inoculo può essere usata per studiare la velocità e l’entità del processo fermentativo (Calabrò et al., 2001, Calabrò et al., 2009). Un campione rappresentativo del gas prodotto viene prelevato con una siringa in vetro a tenuta, munita di un sistema (valvola o rubinetto) che consente di chiuderne l’uscita una volta prelevato il gas e conservare il campione al suo interno. Il campione di gas può essere prelevato direttamente dallo spazio di testa della bottiglia di fermentazione; assumendo che il campione prelevato ha una composizione uguale a tutto il gas prodotto. Successivamente, il gas è iniettato nel gas-cromatografo. Di seguito vengono discussi i risultati di una prova (Guglielmelli et al., 2011) che abbiamo effettuato, con la IVGPT, incubando (48 h) con liquido ruminale bovino quattro campioni di fieno di lupinella (Onobrychis viciifolia Scop.) raccolti a stadi fenologici diversi - inizio fioritura con fusti in accrescimento (LUP_1); comparsa
145
dell’infiorescenza (LUP_2); infiorescenza senza fiori aperti (LUP_3); fine fioritura con comparsa dei semi (LUP_4) - e un fieno di medica. Su tutti i campioni, oltre alla composizione chimica (AOAC, 2000; Van Soest et al., 1991) sono stati determinati i tannini condensati (CT) poiché diversi autori hanno descritto il ruolo svolto dai tannini sulla produzione di metano (Woodward et al., 2001; Puchala et al.; Patra et al., 2005; Waghorn e McNabb, 2003). Il contenuto in proteine grezze è risultato superiore nel fieno di medica rispetto al valore medio del fieno di lupinella nel quale esso è andato diminuendo con l’avanzare dello stadio vegetativo. Trend opposto ha mostrato il contenuto in NDF (tabella 3). Tabella 3. Composizione chimica (% s.s.) fieno i lupinella e di medica LUP_1
LUP_2
LUP_3
LUP_4
Medica
Proteine grezze
21.9
20.7
17.5
12.2
22.6
NDF
39.1
43.3
44.1
51.4
52.3
NSC (carboidrati non strutturali)
28.8
27.2
29.72
28.8
12.8
Mentre sul campione di fieno di medica non sono stati rilevati tannini condensati, il fieno ottenuto dalla lupinella raccolta ad inizio fioritura (LUP_1) ha mostrato valori significativamente (P<0.01) più elevati rispetto a quello da stadi successivi (fig. 2).
Figura 2. Contenuto in tannini condensati nel fieno di lupinella espresso in CT eq mg/g
147
Nel fieno di lupinella, durante le 48 h di incubazione il metano prodotto in funzione della sostanza organica sia incubata che degradata è aumentato, sebbene in maniera non significativa, con il progredire dello stadio vegetativo; per il fieno di medica sono stati −1 −1 registrati valori minori (20.4 mL g iSO e 39.4 mL g dSO) rispetto −1 −1 alla lupinella (28.2 mL g iSO and 45.49 mL g dSO) e le differenze sono risultate significative (P < 0.01) in funzione della SO incubata (tabella 3). Molto interessante appare la correlazione negativa quasi significativa (r = −0.932; P = 0.068) tra il contenuto in tannini e la produzione di metano, che indica una consistente diminuzione di CH4 all’aumentare del contenuto in CT. Inoltre, nei campioni di LUP_1 sono state rilevate contestualmente produzioni basse di CH 4 ed elevate di AGV, ad indicare che, nonostante una iniziale riduzione di produzione di gas, non sono avvenute inibizione delle fermentazioni. Pertanto, in vivo una bassa produzione di metano non riduce la disponibilità di energia per l’animale. Negli stadi vegetativi successivi, la relazione tra CT e produzione di CH 4 non sembra altrettanto diretta. La elevata produzione di metano registrata con il LUP_4 è probabilmente dovuta alla bassa quantità di CT m anche allo scarsa qualità del fieno. Lovett et al. (2006) riportano una correlazione positiva tra produzione di CH4 e contenuti in NDF; nella nostra indagine è stato riscontrato simile trend (r = 0·766) probabilmente non significativo a causa della numerosità non sufficientemente elevata dei dati. L’avanzamento dello stadio
vegetativo e la presenza di tannini condensati hanno, in conclusione, mostrato effetto significativo sulla fermentazione dei carboidrati e la produzione di metano in vitro. A nostro avviso risulta molto interessante il fatto che quest’ultima sia risultata inferiore nel LUP_1 (con contenuto in CT significativamente superiore) rispetto ai due stadi successivi, che hanno mostrata maggiore degradabilità della sostanza organica. Resta da stabilire entro quale limite di impiego i tannini, peraltro noti come fattori antinutrizionali, possano avere un effetto benefico sull’attività dei microrganismi ruminali e quindi sulle produzioni animali. La tecnica in vitro della produzione cumulativa di gas, infine, è apparsa strumento utile per la valutazione del valore nutritivo degli alimenti e per la stima della produzione di metano.
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149
Parte Terza 151
Nuovi indicatori e nuovi parametri
Essenze foraggere e qualità aromaticonutrizionale del latte Salvatore Claps e Lucia Sepe Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva – CRA-ZOE
Alimentazione dell’animale e qualità del latte Tra i fattori in grado di influire sulla qualità del latte, l’alimentazione riveste un ruolo fondamentale. Negli ultimi 30 anni, l’equipe del CRA – ZOE (ex Istituto Sperimentale per la Zootecnia) di Bella (PZ) ha studiato dapprima il sistema produttivo foraggero, per passare quindi all’influenza dell’erba e della singola specie sulla qualità nutrizionale e sensoriale del latte e del formaggio. I risultati qui presentati si riferiscono soprattutto all’erba allo stato fresco, così come la può brucare al pascolo l’animale, ma con le opportune riflessioni, li potremo traslare anche al foraggio affienato. Quali sono le classi di molecole che caratterizzano il latte? È stato già accennato nelle pagine precedenti. Ma qual è la loro origine? C’è un legame diretto o indiretto fra molecole e caratteristiche del latte? Vediamone alcune un po’ nel dettaglio, mettendole subito in relazione all’origine e all’influenza sulla qualità del latte. Legame diretto e indiretto Ben poche molecole, fra quelle ingerite dall’animale con l’erba, e col foraggio in generale, passano direttamente dall’apparato dirigente al latte, attraverso il flusso sanguigno. Fra queste molecole, nei numerosi studi effettuati sui possibili marcatori di un pascolo o di un’area specifica, è stato verificato un legame diretto per i caroteni e per alcuni composti volatili.
153
I caroteni sono i principali responsabili del colore giallo del latte, che è direttamente proporzionale al contenuto di caroteni nell’erba e del foraggio, a parità di specie animale e di razza [a tale riguardo, ricordiamo che il latte di capra è più bianco di quello ovino o bovino, per la sua limitata capacità di trattenere il beta-carotene nel latte]. Di conseguenza, la biodiversità del pascolo o erbaio è fondamentale per contribuire alla quantità di beta-carotene ingerito. Se, da un lato, le graminacee sono note come grandi apportatrici di fibra e zuccheri, e le leguminose sono i carrier privilegiati di proteina, le cosiddette “Altre”, considerate quasi specie neglette, definite agronomicamente “infestanti” delle coltivazioni intensive, proprio queste specie sono la fonte più interessante di “molecole della qualità”. Oltre alla biodiversità, la stagionalità (periodo di comparsa della pianta e suo decorso fenologico) gioca un ruolo cruciale nella qualità del foraggio e quindi del latte. Al ricaccio primaverile ed autunnale, essa si presenta ricca di acqua e zuccheri, passando ad uno stadio maturo, latore di fiori, semi e foglie ricche in sali minerali, vitamine e polifenoli. Avremo così, ad esempio, un latte con un colore più intenso, con riflessi avorio, da una vacca di razza Pezzata Rossa, che produce circa 15 litri di latte al giorno e si alimenta su un pascolo polifita in tarda primavera-inizio estate. Un altro componente del latte, l’alfa-tocoferolo (precursore della Vit. E), è influenzato dalla stagione sia in termini di composizione botanica del pascolo e sia di stadio fenologico delle piante ingerite (Fig. 1). In un’alimentazione in stalla, a base di unifeed, il contenuto è pressoché costante nel corso dell’anno, e sempre inferiore rispetto all’alimentazione al pascolo. Per il consumatore è un vantaggio questa monotonia o non è meglio credere, come dicono i Francesi, “Vive la différence”?
Fig. 1. Stagione e alfa-tocoferolo nel latte
300,0 250,0
Pascolo
ug/100g
200,0 150,0 100,0
155
Stalla
50,0 0,0 Mar Fin
Apr In
Mag In
Mag Fin
Giu Met
Giu Fin
Lug In
Lug Met
Ponendo a confronto 5 sistemi alimentari, di cui uno in stalla, con fieno e concentrato (ZG), due al pascolo (collina, GH, e montagna, GM) e due al pascolo di collina ma con livelli diversi di integrazione con concentrati (600 e 900 g rispettivamente), è stato osservato che fino a 600 g di concentrato non peggiorano il contenuto di tocoferolo nel formaggio, portando il suo livello poco al di sotto di quello del pascolo di collina; al contrario, 900 g riducono il tocoferolo al di sotto del sistema alla stalla (Fig. 2). Come a dire che un’adeguata e mirata integrazione con concentrati è necessaria per non “vanificare” l’effetto dell’erba sul suo contenuto.
1400
g/100 mg SS
Fig. 2. Alfa-tocoferolo nel formaggio di capra da diversi sistemi alimentari
1200 1000 800 600 400 200 0 ZG
GH
GM
G600
G900
Passando dall’erba verde allo stato secco (erba affienata) si ha una perdita di “molecole della qualità”, in percentuale diversa. Si stima, ad esempio, una perdita del 65-75% delle vitamine. E non solo quelle. Si ha un calo fino al 50-60% dei composti volatili, detti così
perché vengono rilasciati facilmente dal substrato, liberandosi nell’aria e contribuendo in buona parte all’odore dell’erba e, quindi, del latte e del formaggio.
Unità area
Un altro caso di legame diretto fra ingestione e qualità dell’erba e del latte riguarda alcune molecole volatili, responsabili in gran parte dell’aroma del latte. Si tratta, ad esempio, dei terpeni (come il limonene, odore dell’erba tagliata). L’apporto cambia a livello di singola specie e, in particolare, sono le specie “selvatiche”, come ad es. la cicoria e l’asperula, che contribuiscono maggiormente al contenuto di terpeni nel latte (Fig. 3). 450 0 400 0 350 0 300 0 250 0 200 0 150 0 100 0 50 0 0
Erba Latte
Loietto Erba mazzolina
Cicoria
Fig. 3. I Terpeni nel latte variano per effetto della pianta e della quantità di erba ingerita
Asperula
Caglio giallo
Ben più complesso è l’effetto dell’alimentazione quando esiste un legame indiretto: le piante ingerite dagli animali subiscono delle trasformazioni ad opera della microflora ruminale durante la digestione, e influenzano significativamente sia il metabolismo (sono capaci di fare la differenza fra disequilibrio alimentare o benessere dell’animale) sia nella composizione del latte, e quindi del formaggio. Basti pensare al contenuto in fibra, al profilo degli acidi grassi (ac. linoleico, linolenico, ecc.) o al contenuto in polifenoli o proteine, che attraverso la lipolisi e la proteolisi, danno luogo al profilo di acidi grassi del latte e a quelle molecole aromatiche come esteri, aldeidi e alcoli, che caratterizzano l’odore del latte. Gli acidi grassi presenti nelle essenze foraggere sono metabolizzati e bio-idrogenati nel rumine. La bio-idrogenazione, combinata con la
lipogenesi mammaria e l’attività della Δ-9 desaturasi, modifica considerevolmente il profilo acidico della dieta ingerita dall’animale e, di conseguenza, la composizione del latte. Nel formaggio entrano in scena altri protagonisti importanti, i batteri: lattici o caseari, essi rivestono un ruolo chiave nella caratterizzazione del sapore, della struttura e dell’odore di un formaggio.
Specie foraggera e qualità nutrizionale del latte Alla luce delle recenti sperimentazioni, il profilo acidico dell’erba costituisce un valido strumento per discriminare la qualità del latte proveniente da diverse specie ingerite.
Contenuto % di ALA, LA e Acido palmitico 100% 80% C16:0
60%
LA
40%
ALA
20%
lio ri ti ca le Ve cc ia T
rz o O
ri fo g
T
A ve n
a Lo ie tt o M ed ic a
0%
Fig. 4. Il contenuto percentuale di ALA (ac. alfalinolenico), LA (ac. linoleico) e ac. palmitico varia in sette specie da erbaio allo stato fresco
La composizione acidica del latte varia in modo significativo in funzione, ad esempio, del contenuto nell’erba dell’acido alfalinolenico (Fig. 4). Mettendo a confronto otto essenze foraggere allo stato fresco (quattro graminacee e quattro leguminose), è stato osservato il variare del contenuto di omega6 e omega3, e quindi il loro rapporto (Fig. 5). In generale, le leguminose (erba medica, ginestrino, veccia) danno luogo ad un rapporto omega6/omega3 nel latte inferiore al 3.
157
5
1
4,5
0,9
4
0,8
3,5 0,7
3 2,5
omega-6 w6 / w3
2 1,5 1
g/100 g FA
Omega-3 0,6 0,5 0,4 0,3
0,5
0,2
e
a
0,1
Ve cc i
Se ga l
.
In ca rn at o
Tr if .
a
se lv O rz o
et to
ed ic
Lo li
m Er ba
s. Av en a
G in es tri
no
0
0 Avena
Ginestrino
Loietto
Erba medica
Orzo selvatico
Trif. Incarnato
Segale
Veccia
Fig. 5 e 6. Il latte di capre, alimentate in purezza con ciascuna delle otto specie allo stato fresco, presenta valori diversi rispettivamente di omega3, omega6 e CLA
Un altro composto, il CLA (acido linoleico coniugato, che contribuisce alla protezione dallo sviluppo di neoplasie), varia in base alla specie ingerita, con valori più elevati per orzo e trifoglio incarnato (Fig. 6). Pur stimando una riduzione del 50% del CLA nel latte qualora le specie siano ingerite come fieno, un “piatto misto” di buon fieno contribuisce alla qualità nutrizionale del latte. Nel corso degli studi, il CRA-ZOE ha collaborato con la compianta Laura Pizzoferrato dell’ex INRAN (ora CRA-NUT di Roma) per studiare e validare il Grado di Protezione Antiossidante (GPA), inteso come la capacità di una sostanza (ad es. l’alfa-tocoferolo del latte) di proteggere dall’ossidazione un’altra molecola (ad es. il colesterolo). È stato rilevato che il GPA varia sensibilmente in base al sistema alimentare e che un’opportuna integrazione può migliorarne il valore. Ad esempio, nel latte è stato osservato che in un sistema al pascolo integrato con un concentrato a base di mais e favino, il GPA è maggiore di quello del solo pascolo (Fig. 7). Come a dire che non solo la scelta del fieno o del pascolo (quando disponibile) è determinante per la qualità del latte, ma anche la scelta del concentrato, in termini di materie prime e la loro qualità nutrizionale, oltre che alla quantità. A questo punto, non ci sorprenda sapere quanto è anche più saporito e avvolgente un bicchiere di latte o un formaggio ottenuto da animali alimentati al pascolo e con foraggi di qualità!
Gruppi
S
Fig. 7. Grado di protezione antiossidante del latte di capre allevate secondo quattro sistemi alimentari (S = stalla, P = pascolo, PMF = pascolo + concentrato mais-favino, POC = pascolo + orzo-ceci)
a
PM F PMF
b b
POC
b
0
0,002
0,004
0,006
0,008
0,010
Grado di protezione antiossidante
I test sensoriali hanno evidenziato una maggiore “personalità” olfattiva e gustativa del latte proveniente da animali al pascolo rispetto al sistema alla stalla, ed un maggiore grado di accettabilità globale.
Risultati della ricerca consolidati L’esperienza degli allevatori ci raccontava della diversa qualità del latte e del formaggio se gli animali pascolavano su un prato piuttosto che un pascolo o mangiavano fieno d’inverno nella stalla. Oggi quelle affermazioni sono avvalorate da risultati della ricerca ormai consolidati, e anche se la parola fine non è stata scritta, essi danno una buona misura di come una specie foraggera arricchisca in determinate molecole il latte, dando il giusto risalto alla biodiversità e alla qualità della dieta della lattifera. E la ricerca della biodiversità, unita a salubrità e qualità nutrizionale delle produzioni, fanno ormai parte delle aspettative del consumatore informato di oggi, che sarà disposto a riconoscere il giusto prezzo al prodotto, contribuendo così ad una filiera zootecnica sempre più sostenibile. ----------------§§§---------------Il gruppo di ricerca del CRA-ZOE (ex Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza) ha visto coinvolti molti collaboratori, a vario titolo, nel corso del tempo: oltre ai sottoscritti, ricordiamo Roberto Rubino, Vincenzo Fedele, Michele Pizzillo, Emilia Agoglia, Emilia Cogliandro, G. Francesca Cifuni, Anna R. Caputo, Maria Antonietta
159
di Napoli, Giuseppe Morone, Francesco Paladino, Domenico Rufrano. Per approfondimenti, si riporta una selezione bibliografica: Claps S., Rubino R., Fedele V., Morone G., Di Trana A. 2005. Effect of concentrate supplementation on milk production, chemical features and milk volatile compounds in grazing goats. Options Méditerranéennes, A67, p. 201-204. Fedele V., Rubino R., Claps S., Sepe L., Morone G. 2005. Seasonal evolution of volatile compounds content and aromatic profile in milk and cheese from grazing goats. Small Rum. Res. 59, 273-279. Pizzoferrato L., Manzi P., Marconi S., Fedele V., Claps S., Rubino R. 2007. The degree of antioxidant protection (DPA): a parameter to trace goat milk and cheese origin and quality. J. Dairy Science 90, p. 4569-4574. Claps S., Sepe L., Annicchiarico G., Fedele V. 2011. Prodotti caseari migliori da ovicaprini al pascolo. L'Informatore Agrario 67: 48, p. 5559. Di Napoli M.A., Di Trana A., Caputo A.R., Sepe L., Claps S. 2012. Effect of fresh and dry forage of two grasses and two legumes species on fatty acid profile and nutritional index of milk and cheese. Book of Abstract XI International Conference on Goats, Las Palmas, Gran Canaria, Spain, 23-27 September p. 249. Autori: Claps Salvatore, direttore incaricato Sepe Lucia, ricercatore Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva – CRA-ZOE Via Appia, Bella-Scalo, sn, 85054 Muro Lucano (PZ), www.entecra.it
Le componenti nutrizionali e aromatiche del latte: la complessità delle misurazioni e i possibili fattori di variazione Lucia Bailoni e Roberto Mantovani Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione - BCA Dipartimento di Agronomia Animali Alimenti Risorse Naturali e Ambiente – DAFNAE Università di Padova
Riassunto Diverse prove sperimentali sono state effettuate presso l’Università di Padova per la messa a punto di metodi per la determinazione delle componenti nutrizionali e aromatiche nel latte bovino e nei derivati e per la definizione dei fattori alimentari che possono influenzare queste caratteristiche. In particolare, per quanto riguarda gli aspetti nutrizionali, i principali studi hanno riguardato la componente lipidica e, in particolare, i coniugati dell’acido linoleico (CLA), il rapporto fra gli acidi grassi della serie omega 6:omega 3 e, infine, il contenuto di alfa-tocoferoli (vitamina E). Per quanto concerne invece il flavour, sono state identificate alcune sostanze aromatiche che possono essere percepite favorevolmente dal consumatore e, infine, sono stati valutati alcuni componenti, appartenenti al gruppo dei sesquiterpeni, da utilizzare come possibili marcatori di tracciabilità del prodotto. Sulla base dei risultati ottenuti da queste ricerche pluriennali, si può affermare che il tentativo di definire un indice sintetico in grado di caratterizzare il latte e i derivati dal punto di vista nutrizionale e aromatico, valorizzando anche il territorio di produzione, è un obiettivo auspicabile, raggiungibile però con tecniche analitiche innovative (rapide e poco costose).
161
Gli aspetti nutrizionali del latte I coniugati dell’acido linoleico (CLA) Gli isomeri dell’acido linoleico coniugato (CLA) rappresentano componenti bioattive del latte, particolarmente interessanti per l’uomo dal punto di vista nutraceutico considerati i loro effetti, ormai accertati, sull’inibizione della carcinogenesi, sulla riduzione della deposizione lipidica e dei trigliceridi ematici, per l’attività antidiabetica e antiaterogenica (Secchiari, 2014). Da un’indagine effettuata su 250 aziende del Veneto è emerso che il contenuto di CLA nel latte è legato al livello produttivo degli allevamenti, con valori che passano da 0.415 a 0.522 g/100 g di acidi grassi rispettivamente per aziende che producono oltre 3000 q.li/anno di latte, caratterizzate da sistemi di allevamento intensivi e per quelle con una produzione inferiore ai 200 q.li/anno, collocate prevalentemente nelle aree montane e pedemontane (Figura 1) (Bailoni et al., 2005b).
Figura 1.Contenuto di CLA nel latte in aziende con diversi livelli produttivi (Bailoni et al., 2005b)
Prove effettuate invece in Valle d’Aosta (Figura 2) hanno evidenziato come l’altitudine del pascolo delle bovine influenzi il contenuto di CLA nel latte e quindi nel formaggio, dove aumenta da 1.65 a 1.90, fino a 2.13 g/100 g di acidi grassi quando le bovine passano
rispettivamente dal piede d’Alpe a 1600 m s.l.m. a tramuti via via più alti (T1 a 2300 e T2 a 2550 m s.l.m.) (Mantovani et al., 2003). Va però ricordato che i CLA possono aumentare nel latte e nel formaggio anche attraverso opportune strategie alimentari come l’impiego di alimenti ricchi di precursori (acido linoleico), quali ad esempio la soia estrusa (Bailoni, 2004a).
2,5
2,13
CLA (% of total FA)
1,90
2
1,65
1,5 1 0,5 0
PA
T1
T2
Figura 2.Contenuto di CLA in formaggio Fontina prodotto in pascoli a diversa altitudine (Mantovani et al., 2003).
Il profilo acidico e il rapporto fra gli acidi grassi insaturi omega 6:omega 3 Come è noto, il profilo acidico del latte e dei derivati si discosta molto da quello raccomandato dai nutrizionisti nella dieta giornaliera dell’uomo, che prevede un apporto di acidi grassi saturi non superiore al 25% ed un elevato apporti di acidi mono- e polinsaturi. L’impiego del pascolo e di diete ad alto contenuto di foraggi può migliorare il rapporto saturi/insaturi nel latte come dimostrato in molte ricerche (Bailoni et al., 2005a; Secchiari, 2014). Nel latte, inoltre, l’apporto di acidi grassi della serie omega 3, e specificamente dell’EPA e del DHA, che svolgono importanti azioni nell’uomo, con particolare riguardo alla riduzione del rischio di
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malattie cardio-vascolari, è molto basso. L’adozione di strategie di ordine nutrizionale in grado di modificare il rapporto omega 6:omega 3 nel latte rappresenta una tematica di ricerca attuale e di grande interesse. Il rapporto omega 6:omega 3 è più favorevole nel latte ottenuto da allevamenti di montagna rispetto a quello rilevato in aziende più grandi e con più alto utilizzo di concentrati (1.692 e 5.155 in aziende di piccole e grandi dimensioni rispettivamente, Bailoni et al., 2005b) e nel latte ottenuto nei pascoli più alti (da 1.64 a 1.31 al piede d’alpe e ai tramuti più alti, Mantovani et al., 2003). L’impiego di alimenti ricchi di omega 3 può migliorare il contenuto di questi acidi grassi sia nel latte che nel formaggio, come recentemente dimostrato da Cattani et al. (2011, 2014). In questa prova l’aggiunta alla dieta di vacche in lattazione di 500 g/d di lino estruso ha ridotto nel latte il rapporto fra acidi grassi omega 6 e omega 3 che è passato da 9.68 a 5.54 rispetto alla dieta di controllo (Figura 3). 10,5 9,0
CTRL
L500
L1000
7,5 6,0 4,5 3,0 1,5 0,0
Omega 6
Omega 3
Omega 6:Omega 3
Figura 3.Contenuto di acidi grassi omega 6, omega 3 e rapporto omega 6:omega 3 nel latte ottenuto con la supplementazione di 0 (CTRL), 500 (L500), e 1000 (L1000) g/d di lino estruso (Cattani et al., 2014).
Livelli di inclusione di lino estruso più alti (1000 g/d) non hanno prodotto un ulteriore miglioramento di questo rapporto, indicando come il trasferimento degli acidi omega 3 dall’alimento al latte non sia linearmente correlato alla quantità di omega 3 introdotti con la
dieta. Risposte del tutto sovrapponibili a quelle ottenute nel latte sono state osservate nel formaggio ottenuto con processi di caseificazione standardizzati dopo 90 giorni di stagionatura. Va considerato che sia nel latte che nel formaggio, la supplementazione di lino non ha però mai permesso di raggiungere i livelli minimi di acidi grassi omega 3 (0.3 g di acido alfa-linolenico per 100 g di alimento) indicati dal Regolamento UE n. 116/2010 per poter riportare sulla confezione il claim “Fonte di acidi grassi omega-3”. Gli alfa tocoferoli (vitamina E) La vitamina E svolge diverse funzioni biologiche nell’’organismo umano ma è conosciuta prevalentemente per il suo ruolo di sostanza antiossidante. Mediamente il latte alimentare prodotto in Italia contiene 0.70 µg/g di vitamina E (INRAN, 2014). In prove effettuate presso 16 aziende zootecniche e 3 caseifici collocati nell’area montana veneta (altopiano del Cansiglio) sono state monitorate nel corso di un intero anno le caratteristiche qualitative, tra cui il contenuto di vitamina E, del latte di vacche allevate con metodo biologico e convenzionale. Il contenuto di vitamina E, sia nel latte pastorizzato che nel formaggio proveniente da aziende biologiche, è risultato significativamente più elevato rispetto a quello dei prodotti ottenuti in allevamenti convenzionali (0.83 vs 0.78 µg/g, P<0.05 per il latte e 7.23 vs 5.13µg/g, P>0.01 per il formaggio). Tuttavia nei campioni di latte (sia latte alimentare che latte di caldaia) provenienti da aziende biologiche, dove non sono consentite integrazioni vitaminiche nei mangimi, sono stati evidenziati dei livelli di vitamina E molto variabili nel corso dell’anno e più alti nel corso del periodo primaverile-estivo, quando gli animali usufruivano del pascolo, che in autunno-inverno, come risulta dalla Figura 4 (Miotello et al., 2008). Il ruolo delle essenze foraggere assunte con il pascolo sull’arricchimento del latte di questa vitamina è quindi ulteriormente confermato.
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Figura 4. Contenuto di vitamina E nel latte biologico prelevato in caldaia e in confezioni di latte pastorizzato da marzo 2007 a marzo 2008 (Bailoni et al., 2008)
Le componenti aromatiche del latte Profilo aromatico Le componenti aromatiche del latte (“flavour” nella dizione anglosassone) comprendono sia l’odore che il gusto, caratteristiche sensoriali legate rispettivamente alla presenza di sostanze volatili (di basso peso molecolare) e non volatili (con peso molecolare più elevato). Le prime sono sostanze liposolubili, presenti in quantità generalmente molto basse (ppb) caratterizzate ciascuna da una specifica soglia di percezione odorosa che dipende non solo dalla concentrazione della sostanza ma anche dalla matrice, dall’interazione con altri composti volatili e dalla sensibilità individuale (Bailoni et al., 1998). L’approccio metodologico agli studi dell’aroma del latte, utilizzato presso l’Università di Padova, è stato di tipo strumentale ed ha previsto la messa a punto di metodi di estrazione e concentrazione delle sostanze aromatiche (Purge and trap) e di successiva quantificazione (gascromatografia, GC) (Bailoni et al., 1998). La sperimentazione pluriennale condotta in collaborazione con il Parco Adamello-Brenta su bovine di razza
Rendena, ha avuto come obiettivo la valutazione del contenuto di sostanze aromatiche in campioni di latte prelevato durante l’alpeggio e durante la permanenza in stalla. Fra le diverse sostanze identificate (chetoni, alcoli, aldeidi, esteri, composti solforati), l’esanale e il dimetilsolfuro, che sono responsabili di un piacevole odore di erba fresca appena tagliata, sono stati rilevati in concentrazioni tali da poter essere percepite all’olfatto solo nei campioni di latte prelevati in alpeggio (Figura 5) (Bailoni et al., 2000a; 2000b).
Figura 5. Livelli di esanale e di dimetilsolfuro in campioni di latte raccolti in stalla (8 giugno e 16 ottobre) o durante l’alpeggio (3 e 30 luglio, 20 agosto). SP= soglia di percezione olfattiva (Bailoni et al., 2000a; 2000b).
Basandosi su esperienze precedentemente effettuate sui vini, Versini et al. (2000) hanno messo a punto una tecnica di determinazione delle sostanze aromatiche più complessa, basata sulla Solid-Phase Micro-Extraction (SPME) e successiva analisi in cromatografia abbinata a spettrometria di massa (HRGC-MS). Le analisi effettuate sui formaggi Puzzone di Moena e Nostrano hanno rilevato nei due formaggi sia analogie (tenore elevato in acido
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propionico e, in generale, in acidi grassi) che differenze in alcune sostanze (nel Puzzone maggior presenza di acido alchilico ramificato a C6 e acido isovalerianico) (Figura 6).
Figura 6. Profilo acidico del formaggio Puzzone di Moena e Nostrano (Versini et al., 2000)
Altri approcci agli studi dell’aroma del latte sono stati effettuati considerando l’analisi sensoriale o tecniche miste (strumentali e sensoriali) in grado di quantificare le sostanze aromatiche, caratterizzandole anche direttamente dal punto di vista della percezione odorosa.
La tracciabilità del latte Contenuto di terpeni I terpeni, oltre a conferire al latte un odore gradevole, possono essere considerati a tutti gli effetti dei “marcatori endogeni” in quanto sono in grado di trasferirsi dagli alimenti (essenze foraggere, specialmente degli areali alpini) al latte (e ai derivati) senza subire sostanzialmente alcuna modificazione chimica. Dopo le prime esperienze condotte da Bosset (Bosset et al. nel 1994), molte
ricerche sono state pubblicate per verificare la possibilità di identificare, attraverso l’analisi dei terpeni, l’origine del latte e il sistema di allevamento adottato. In questo ambito presso l’Università di Padova sono state condotte alcune prove per valutare i terpeni in campioni di latte di diversa provenienza. Dal confronto fra latte prelevato in diverse malghe dell’altopiano di Asiago e da aziende di pianura che praticavano l’unifeed è emerso un diverso profilo dei terpeni (Bailoni et al., 2004b) (Figura 7).
Figura 7. Contenuto di terpeni (aree evidenziate) nel latte prodotto in pianura (Agripolis) e in due malghe dell’altopiano di Asiago (Laste Manazzo e Mandrielle) (Bailoni et al., 2004b)
Un lavoro successivo sul formaggio Asiago ha identificato fra i diversi composti presenti nelle essenze foraggere (Tabella 1), due terpeni, il -cariofillene e l’ α-umulene, che sono in grado di trasferirsi dalle essenze foraggere, al latte e al formaggio, costituendo anche degli ottimi marcatori di tracciabilità per il formaggio d’alpeggio (Favaro et al, 2005).
Conclusioni Sulla base dei risultati ottenuti in questi anni, si può affermare che il tentativo di definire un indice sintetico in grado di caratterizzare il latte e i derivati dal punto di vista nutrizionale e della loro componente aromatica, valorizzando anche il territorio di produzione, è un obiettivo assolutamente auspicabile, ma sarà raggiungibile solo
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attraverso l’impiego di tecniche innovative, rapide e poco costose, applicabili su vasta scala.
Bibliografia BAILONI L., BATTAGLINI L. M., GASPERI F., MANTOVANI R., BIASIOLI F., MIMOSI A. (2005a). Qualità del latte e del formaggio d’alpe, caratteristiche sensoriali, tracciabilità e attese del consumatore. In “L’alimentazione della vacca da latte al pascolo: riflessi zootecnici, agro-ambientali e sulla tipicità delle produzioni” Quaderni SoZooAlp. No. 2, p 59-88. BAILONI L., BORTOLOZZO A., MANTOVANI R., SIMONETTO A., SCHIAVON S., BITTANTE G. (2004a). Feeding dairy cows with full fat extruded or toasted soybeans seeds as replacement of soybean meal and effects on milk yield, fatty acid profile and CLA content . ITALIAN JOURNAL OF ANIMAL SCIENCE, vol. 3, p 243-258. BAILONI L., MANTOVANI R., BITTANTE G. (1998). Determinazione delle sostanze ad azione aromatizzante nel latte mediante tecnica purge and trap abbinata a gascromatografia. Atti della Società Italiana delle Scienze Veterinarie. Vol. 52, p 535-536. BAILONI L., MANTOVANI R., GRIGOLETTO L., BITTANTE G. (2000a). Effect of alpine grazing pasture on milk flavour components in Rendena cows. SISVet Annual Meeting Selected Abstract. Anno II, 2000, Point Veterinarie Italie, Milano. p 163. BAILONI L., MANTOVANI R., MAGNO F., FAVARO G., DA RONCH F. (2004b). Impiego dei terpeni e di altri markers per la caratterizzazione dei formaggi tipici. In: GASPERI F.; VERSINI G.. Caratterizzazione di formaggi tipici dell'arco alpino: il contributo della ricerca. TRENTO: Istituto Agrario di San Michele all’Adige. vol. 1, p. 93-103. BAILONI L., MANTOVANI R., SIMONETTO A., BITTANTE G. (2000b). Valutazione dell'aroma del latte e dei formaggi prodotti in montagna mediante la tecnica del purge-and-trap abbinata alla
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Il Latte Nobile non è solo una buona idea, ma un modello che funziona 1
2
1
2
2
Roncoroni C. , Calabrò S. , Galli T. , Musco N. , Grossi M. , 1 Fagiolo A. 1
Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana M. Aleandri 2 Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali, Università di Napoli Federico II
Introduzione La preparazione, la lungimiranza e l’entusiasmo di un allevatore hanno consentito al team di ricerca costituito da ANFoSC, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana e Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali (DMVPA) di realizzare una prova sperimentale in un’azienda agro-zootenica sita a Segni (Roma), che produce e commercializza da quasi cinque anni Latte di Alta Qualità. In particolare, è stato effettuato un confronto in termini di benessere animale e qualità nutrizionale del latte, tra due sistemi di produzione del latte: il Latte Nobile ed il Latte di Alta Qualità. L’azienda interessata si estende su una superficie di circa 110 ha, dove alleva 340 capi bovini di razza Frisona Italiana; gli animali sono tenuti a stabulazione libera e per sei mesi l’anno le vacche in asciutta dispongono di quattro ha di pascolo su prato polifita. Le 150 vacche in lattazione hanno una produzione media di stalla pari a 25 litri/die. L’azienda è autosufficiente per la produzione di silomais, fieno di medica e alcuni erbai che contengono numerose essenze foraggiere (triticale, loietto, avena, medica, trifoglio spp.); per quanto riguarda i concentrati ne acquista l’80% tra mais granella e fonti proteiche.
173
Materiale e metodi La prova sperimentale è stata realizzata tra marzo e agosto 2014, utilizzando 40 animali omogenei per tipo genetico, numero di parti, stadio di lattazione e produzione di latte, nonché stabulati e gestiti nelle stesse condizioni di allevamento. In particolare, sono stati individuati due gruppi di 20 animali ciascuno (A: gruppo aziendale; LN: gruppo Latte Nobile), omogenei per numero di parti (media gruppo A: 3.3; media gruppo LN: 3.4), distanza dal parto (media gruppo A: 122 gg; media gruppo LN: 131 gg) e produzione di latte individuale (media gruppo A: 27,8 litri; media gruppo LN: 28,9 litri). Durante il periodo sperimentale, gli animali sono stati stabulati in due recinti adiacenti con pari densità (1 cuccetta/capo); tuttavia, per rispettare le indicazioni del Disciplinare, il gruppo LN aveva saltuariamente a disposizione anche un paddock esterno (m 200x100). Il piano di razionamento sperimentale (formulato previa analisi del fieno aziendale) è iniziato in seguito ad un periodo di adattamento della durata di 15 gg, dopo il quale è iniziata la raccolta dei campioni (latte, sangue, alimenti), ripetuta con frequenza mensile fino ad un totale di quattro controlli. Le analisi effettuate vengono di seguito riportate: – latte: parametri qualitativi ed igienico-sanitari (residuo secco magro, grasso, proteine, lattosio, cellule somatiche, carica batterica totale, pH, caseina e urea, aflatossina M1), profilo acidico del grasso; – sangue: esame emocromocitometrico, profilo glicolipidico (glucosio, NEFA, beta-idrossibutirrato o BHB, trigliceridi, colesterolo), profilo proteico (proteine totali, albumina, azoto ureico, creatinina), minerale ed elettrolitico (Ca, P, Na, K, Mg, Zn), stress ossidativo (metaboliti reattivi dell’ossigeno o d-ROMs e barriera all’ossidazione o OXY), profilo immunitario (battericidia, lisozima, complemento, aptoglobina, CD4 e CD8);
â&#x20AC;&#x201C;
alimenti: composizione chimico-nutrizionale (sostanza secca, proteine grezze, estratto etereo, fibra grezza, NDF, ADF, ADL, ceneri) e valore nutritivo (UFL).
Risultati e discussione La razione del gruppo LN è stata preparata seguendo le indicazioni fornite dal Disciplinare e si differenzia da quella del gruppo A per il rapporto foraggio:concentrato pari a 70:30 (60:40 nel gruppo A) e per lâ&#x20AC;&#x2122;assenza di alcuni alimenti (insilato di mais, farina di estrazione di soia e panello di girasole), vietati dal disciplinare (tabella 1). Di conseguenza, come era previsto, il livello proteico e la concentrazione energetica della razione LN risultano inferiori rispetto al gruppo A (Tabella 2). Gruppo Silomais
A
LN
25
-
Fieno misto
Tabella 1:Ingredienti delle razioni (kg t.q.) impiegate in azienda durante la sperimentazione
7.0
Fieno di medica
6.0
8.5
Crusca di frumento
1.6
1.0
Farina di mais
3.5
3.0
Triticale
1.5
1.0
-
2.0
Girasole panello
1.6
-
Soia f.e.
1.8
-
Favino
Tabella 2: Composizione chimica delle diete impiegate in azienda durante la sperimentazione % s.s.
Ceneri Proteine grezze
Gruppo A Gruppo LN
Estratto Fibra etereo
grezza
6.36
15.01
2.91
19.27
7.89
12.09
1.88
28.19
NDF
38.6 4 49.0 6
ADF
26.2 6 40.2 5
ADL
Amido UFL
7.92
13.79
10.3 0
9.64
/kg s.s. 0.8 6 0.7 6
175
Per quanto riguarda la produzione di latte, come c’era da attendersi, essa è fisiologicamente calata in entrambi i gruppi col progredire della lattazione (Tabella 3); il gruppo LN ha mostrato in tutti i prelievi un calo rispetto al gruppo A, anche se statisticamente significativo (P<0.01) solo nel terzo prelievo. Per quanto riguarda il tenore lipidico del latte, la maggiore quantità di foraggio della razione del gruppo LN, nonché il calo produttivo, ne hanno di certo favorito un maggior contenuto in tutti i prelievi, che risulta statisticamente apprezzabile (P<0.01) in corrispondenza del terzo prelievo. La percentuale di proteina del latte nei due gruppi non ha mostrato differenze significative durante tutto il periodo sperimentale, a differenza del contenuto in urea. Quest’ultima, infatti, si è mostrata inizialmente (primi due prelievi) più elevata nel latte del gruppo LN, probabilmente a causa di una minore concentrazione energetica della razione o di una prolungata fase di adattamento della popolazione microbica ruminale al cambio di dieta. Quest’ultima ipotesi sarebbe rafforzata dalla maggior possibilità di scelta degli alimenti da parte degli animali del gruppo LN, il cui unifeed, in virtù della sua minore umidità potrebbe aver causato ripercussioni sulla stabilità del pH ruminale. Comunque, già al terzo prelievo si è registrata una sensibile diminuzione, per arrivare a valori significativamente (P<0.01) più bassi rispetto al gruppo A al quarto prelievo. Inoltre, è stato osservato che, la condizione corporea degli animali (BCS) degli animali, anche se lievemente calato negli animali del gruppo LN, si è mantenuto complessivamente soddisfacente. Per quanto riguarda l’aspetto igienico-sanitario del latte, non si sono evidenziate differenze significative fra i due gruppi in termini di cellule somatiche e carica batterica totale. Il profilo acidico del grasso del latte, riportato in tabella 4, risulta alquanto interessante mostrando, in media, valori minori di acidi grassi saturi (SFA) e maggiori di acidi grassi mono-insaturi (MUFA) e poli-insaturi (PUFA) nel gruppo Latte Nobile rispetto al gruppo aziendale, anche se non sono emerse differenze statisticamente significative. Questi risultati, molto importanti dal punto di vista
nutrizionale, sono di certo una conseguenza del maggior contenuto in foraggio della razione somministrata al gruppo Latte Nobile (70%) rispetto a quella del gruppo Aziendale (60%). Tabella 3. Produzione quanti-qualitativa di latte nei due gruppi nei quattro prelievi
Produzione Kg
Grasso %
Proteine %
Urea mg/dl
Gruppo A LN A LN A LN A I 15.5 13.9 3.44 3.82 3.29 3.37 23.1B II 10.1 8.96 3.62 3.73 3.23 3.28 23.3B III 11.0A 7.98B 3.39B 3.83A 3.20 3.16 27.6 IV 9.23 7.63 3.36 3.40 3.22 3.24 29.0A Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01. Tabella 4. Profilo acidico del latte nei due gruppi SFA MUFA % % Gruppo A LN A LN I 74.54 73.00 21.39 22.83 II 74.80 72.74 21.24 23.02 III 73.95 74.39 22.45 22.03 IV 70.11 67.64 23.45 27.78
LN 38.2A 38.2A 27.1 21.6B
PUFA % A LN 4.07 4.17 3.96 4.24 3.60 3.58 4.43 4.58
Riguardo il profilo metabolico (Tabella 5), tutti i parametri hanno mostrato valori medi fisiologici in entrambi i gruppi probabilmente perché l’azienda già adottava un tipo di razione non con concentrazione energetica non elevata. L’azoto ureico conferma l’andamento dell’urea del latte con valori significativamente più elevati nei primi prelievi nel gruppo LN. I valori del BHB (Betaidrossibutirrato) indicano che l’eventuale deficit energetico del gruppo LN nelle prime fasi sperimentali non abbia comunque determinato squilibri metabolici, il che viene confermato dai valori dei NEFA (acidi grassi non esterificati) che non indicano una lipomobilizzazione e non significativamente diversi dal gruppo A, nonostante le differenze elevate. Anche colesterolo, nonchè
177
trigliceridi, calcio e glucosio (dati non riportati) sono risultati compresi nei range fisiologici in entrambi i gruppi. I parametri relativi allo stress ossidativo e alla competenza immunitaria, sono stati valutati perché intimamente connessi allo stato di welfare dell’animale. Per quanto riguarda lo stress ossidativo, la capacità ossidante del siero (d-ROMs), più comunemente nota come radicali liberi, si innalza, fra le altre cose, in caso di diete sbilanciate e sindromi metaboliche, mentre, la capacità antiossidante del siero (Oxy), rappresenta la difesa dell’organismo contro i danni causati dai primi. Si tratta di parametri che vanno valutati contestualmente (Tabella 6); nella presente sperimentazione, i livelli di d-ROMs si mantengono bassi nel corso della prova con un significativo, ma non cospicuo, aumento nel tempo, nel gruppo A; tuttavia, non si sono evidenziate differenze significative fra i gruppi; di contro il potere antiossidante (Oxy), partendo da uguali livelli nei due gruppi, si innalza significativamente solo nel gruppo LN al secondo prelievo e subisce un calo consistente al terzo e ancora al quarto prelievo. L’andamento degli Oxy nel gruppo LN potrebbe essere dovuto ad un’iniziale azione di efficace contenimento dei radicali liberi seguita da una normalizzazione. Invece, nel gruppo aziendale l’andamento degli Oxy manifesta una tendenza alla diminuzione. Tuttavia, nel gruppo A i valori sono sempre significativamente (P<0.01) più elevati rispetto al gruppo LN. Tali differenze, nei prelievi II e III, rispecchiano l’andamento di alcuni parametri relativi all’immunità aspecifica, ossia alla capacità dell’organismo di reagire ad insulti di varia natura (chimica, fisica, infettiva). Tali parametri sono utilizzati nella valutazione del benessere perché influenzabili dall’azione immuno-depressiva dello stress. Lo zinco è un parametro comune alla valutazione dello stress ossidativo, in quanto cofattore di antiossidanti enzimatici (SOD), e della risposta immunitaria aspecifica perché influenzante la capacità fagocitaria dei leucociti. L’andamento dello zinco, pur senza differenze significative fra gruppi, è sovrapponibile a quello degli
antiossidanti con differenze significative fra il secondo e il terzo prelievo. Un analogo andamento hanno mostrato la battericidia, il lisozima e l’attività del complemento, che per semplicità di esposizione non vengono mostrati tutti ma che denotano anch’essi una iniziale difficoltà di adattamento degli animali che si traduce in immunodepressione. Tabella 5. Alcuni parametri del profilo emato-chimico nei due gruppi nei quattro prelievi
Gruppo
Produzione
Grasso
Proteine
Urea
Kg
%
%
mg/dl
A
LN
A
LN
A
LN
A
LN
I
15.5
13.9
3.44
3.82
3.29
3.37
23.1B
38.2A
II
10.1
8.96
3.62
3.73
3.23
3.28
23.3B
38.2A
III
11.0A
7.98B
3.39B
3.83A
3.20
3.16
27.6
27.1
IV
9.23
7.63
3.36
3.40
3.22
3.24
29.0A
21.6B
Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01.
Tabella 6. Alcuni parametri immunitari nei due gruppi nei quattro prelievi d-ROMs
Oxy
Zn
Battericidia
U CARR
HclO/ml
%
Gruppo
A
LN
A
LN
A
LN
A
LN
I
52
49
412
404
107
105
94
95
II
52
31
396B
478A
95
85
86
88
III
78
73
334A
250B
161
166
93
93
IV
78
65
300A
98B
113
101
94
93
Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01.
179
Conclusioni Gli animali hanno reagito positivamente ed in linea con le aspettative; i primi dati ottenuti da questa prova sperimentale mostrano che, a fronte di un irrilevante calo di produzione quantitativa di latte nel gruppo Latte Nobile, la qualità nutrizionale del prodotto ottenuto rispetto a quello aziendale risulta migliore, soprattutto in termini di grasso e del suo profilo acidico. Per quanto riguarda gli indicatori di benessere alcuni parametri, l’Oxy primo fra tutti, hanno risposto in maniera interessante. Un ultimo aspetto da considerare è la convenienza economica del sistema Latte Nobile, che ha visto per ora un minor costo della razione, ma che si prevede porterà anche ad una maggiore longevità degli animali che vengono allevati con un sistema meno spinto. In futuro, si auspica di poter migliorare la qualità dei fieni prodotti in azienda, che prevedibilmente porterà ad un miglioramento di tutti i parametri relativi alla qualità del latte. Al momento della stesura della presente pubblicazione, i dati relativi al comportamento animale erano ancora in corso di elaborazione. Complessivamente, solo prolungando il periodo di osservazione e applicando il protocollo in altre aziende tali risultati potranno essere confermati.
Ringraziamenti Si desidera ringraziare il personale tutto dell’Azienda “Fattoria la Frisona” per la collaborazione entusiastica e competente e la Dott.ssa Maria Ferrara del DMVPA per la sua collaborazione tecnica.
Quando il latte valorizza il territorio Maurizio Ramanzin e Enrico Sturaro DAFNAE-Dipartimento di Agronomia Animali Alimenti Risorse Naturali e Ambiente Università degli Studi di Padova
181 Qualità del latte: diverse prospettive (finora) Nel corso degli anni, il concetto di qualità del latte si è evoluto, anche in funzione delle aspettative del consumatore e delle esigenze della filiera di trasformazione. Tra i parametri di qualità intrinseca del prodotto gli aspetti igienico-sanitari e la composizione chimica rappresentano gli indicatori di riferimento più utilizzati per i sistemi di pagamento latte-qualità, e gli studi condotti in questi anni hanno permesso di migliorare tali parametri lavorando sulla genetica e sulla gestione aziendale. Per quanto riguarda la filiera di trasformazione, negli ultimi anni è stata prodotta una ricca letteratura scientifica sulle caratteristiche tecnologiche del latte, con studi approfonditi sui parametri lattodinamografici e sullo sviluppo di metodologie innovative per studiarli (Bittante et al., 2012) Infine, sta aumentando sempre più l’interesse sul ruolo del latte e dei prodotti alimentari in genere sulla salute umana, nell’ambito del settore della nutraceutica (Bava et al; 2013; Spietsberg, 2005). Con il termine qualità estrinseca si identificano invece quei parametri non oggettivabili attraverso l’analisi del prodotto, che finora sono stati riferiti soprattutto alla percezione che il consumatore ha di aspetti particolari del suo processo produttivo. Per il latte i fattori considerati sono stati soprattutto la “qualità di filiera”, con l’attenzione ai modi di produzione e alla tracciabilità lungo le fasi di produzione. In questo senso, lo sviluppo di marchi certificati, come ad esempio il biologico (Krystallis e Chryssohoidis, 2005) o i presidi Slow Food (Petrini e
Padavoni, 2007) va incontro alle esigenze di un mercato sempre più attento all’origine dei prodotti. Anche l’attenzione all’ambiente, nell’accezione più ampia del termine, rientra nelle caratteristiche
estrinseche di un prodotto, e per quanto riguarda il latte i principali aspetti ambientali considerati finora sono stati il rispetto delle normative e dei limiti vigenti (vedi ad esempio la Direttiva Nitrati). Solo di recente gli studi si sono focalizzati su approcci integrati per la valutazione della sostenibilità dei sistemi di produzione, ponendo particolare attenzione alla quantificazione delle emissioni in atmosfera e alla definizione delle “best practices” per aumentare l’efficienza del sistema e ridurre l’impatto ambientale (De Vries and De Boer, 2010), anche nel nostro Paese (ASPA, 2012). Nell’ultimo decennio, tuttavia, l’approccio all’”ambiente” è stato rivoluzionato dal riconoscimento che i diversi ecosistemi sono in grado di fornire diversi tipi di benefici (MEA, 2005), denominati “ecosystem services” o servizi ecosistemici, al genere umano. Questi servizi sono stati codificati in servizi di approvvigionamento che forniscono i beni veri e propri, quali cibo, acqua, legname e fibra, servizi di regolazione, che regolano il clima e le precipitazioni, l'acqua (ad es. le inondazioni), i rifiuti, la diffusione delle malattie e la produzione primaria, servizi di supporto, che comprendono la formazione del suolo, la fotosintesi e il ciclo nutritivo alla base della crescita e della produzione, servizi culturali, relativi alla bellezza, all'ispirazione e allo svago che contribuiscono al nostro benessere spirituale. La loro valutazione può essere applicata a tutti gli ecosistemi, quindi anche agli agro-ecosistemi (Giupponi et al., 2009). L’approccio seguito per definire i “servizi ecosistemici” è stato poi integrato nell’analisi e nella pianificazione territoriali (de Groot et al., 2010), dato che ogni “territorio” (un’area relativamente omogenea per caratteristiche ambientali e socio-economiche) si caratterizza per comprendere diversi ecosistemi naturali, semi-naturali o artificiali. Tramite i suoi ecosistemi, un territorio può svolgere diverse funzioni per l’umanità (dette “landscape functions”), che in maniera molto simile ai servizi ecosistemici sono generalmente raggruppate in quattro categorie (de Groot, 2006): la funzione produttiva (alimenti per l’uomo da fauna e piante selvatiche ma soprattutto da agricoltura e zootecnia, legname e prodotti forestali, energia da fonti fossili e rinnovabili, risorse genetiche animali e vegetali allevate e coltivate,
ecc.), la funzione di regolazione (del clima, tramite la fissazione/liberazione di CO2, CH4 e altri gas serra, dei rischi naturali, tramite la protezione da inondazioni, valanghe, frane, incendi, ecc., idrica, tramite la disponibilità/sottrazione di acqua per le varie esigenze naturali e umane, di depurazione da inquinanti dell’aria, del suolo e delle acque, di prevenzione dall’erosione, di controllo biologico, come l’impollinazione, il controllo di parassiti e specie invasive, ecc.), la funzione di conservazione degli habitat naturali, della loro biodiversità animale e vegetale e dei processi evolutivi naturali, la funzione culturale, tramite la fruizione esteticoricreativa, culturale e artistica del paesaggio naturale e culturale. Queste funzioni sono fortemente influenzate dall’azione dell’uomo sull’uso del suolo e sulle attività produttive, e interagiscono tra loro, potendo risultare a seconda dei casi antagoniste (ad esempio la massimizzazione della produzione di cibo tramite l’agricoltura intensiva è in antagonismo alla conservazione di habitat naturali), o sinergiche (ad esempio la conservazione di un particolare habitat naturale può migliorare la godibilità estetica e la fruizione culturale di un’area). Il ruolo della zootecnia nel determinare le funzioni di un territorio non è certo trascurabile: il 46% della SAU italiana è gestito da aziende con allevamenti o è costituito da prati/pascoli (il 78% in montagna). In questa prospettiva, i sistemi di produzione del latte, per i quali il rapporto con il territorio e le materie prime che se ne ricavano è fondamentale, dovranno porre sempre più attenzione alle funzioni che essi sono in grado di fornire in relazione con gli agroecosistemi in cui si inseriscono. E’ infatti il complesso di queste funzioni che, in sostanza, definisce la qualità estrinseca del prodotto.
Produzione di latte e funzioni del territorio La tabella 1 riporta una sintesi, necessariamente semplificata, delle principali forme con cui i sistemi di produzione del latte possono contribuire alle funzioni del territorio. La distinzione tra sistemi intensivi ed estensivi si basa sul concetto generale per cui nei sistemi estensivi l’animale si adatta all’ambiente (uso di risorse foraggere locali, livelli produttivi adattati alle risorse disponibili,
183
pascolamento, etc) mentre nei sistemi intensivi è l’ambiente che si adatta all’animale (alti livelli produttivi con forti input esterni all’azienda e al territorio). Tab. 1 – potenziale ruolo dei sistemi zootecnici di produzione del latte per le “funzioni del territorio” Sistemi di produzione Tipo di funzione Produttiva
Intensivi
Estensivi
+++
+
Salvaguardia della biodiversità genetica allevata Emissioni di gas serra e nutrienti
--
+++
?
?
Protezione dagli incendi
--
++
Protezione dai dissesti idrogeologici
?/+
?/++
Conservazione
Conservazione di habitat e specie prioritari
?/+
+++
Culturale
Conservazione della qualità estetica e degli elementi tradizionali del paesaggio
?/+
+++
Conservazione di saperi tradizionali e folklore Offerta di elementi per la fruizione turisticoricreativa
?/+
+++
?/+
+++
Regolazione
Servizi forniti Produzione di latte e derivati
? = effetto potenzialmente negativo -- = servizio molto limitato o assente; +, ++, +++ = servizio di crescente livello di importanza
Non c’è dubbio che la gran parte della produzione nazionale di latte deriva dai sistemi intensivi, senza i quali la domanda interna del prodotto sarebbe ancora meno soddisfatta dalla già deficitaria offerta, e che questa produzione avviene con crescente efficienza (ASPA, 2012). Tuttavia, sono i sistemi zootecnici estensivi, basati sull’utilizzo di prati e pascoli, quelli che possono maggiormente contribuire ad una conservazione in situ, integrata in allevamenti economicamente sostenibili, della biodiversità animale domestica (Panella, 2011).
Considerando la funzione di regolazione, per il latte la letteratura scientifica più recente è incentrata soprattutto sul tema della ”Carbon footprint” e, meno, su quello della “Water footprint”, analizzate utilizzando l’approccio LCA (life cycle assessment, o “valutazione del ciclo di vita” in italiano). Si tratta di un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita (“dalla Culla alla Tomba”). A livello internazionale la metodologia LCA è regolamentata dalle norme ISO della serie 14040’s in base alle quali uno studio di valutazione del ciclo di vita prevede: la definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione dell’analisi, la compilazione di un inventario degli input e degli output di un determinato sistema, la valutazione del potenziale impatto ambientale correlato a tali input ed output e infine l’interpretazione dei risultati (ISPRA, 2014). L’applicazione di questa metodologia agli allevamenti è comunque ancora controversa (Pirlo, 2012), e, anche se le strategie per ridurre l’impronta ecologica della zootecnia sono numerose (ASPA, 2012), per implementarle efficacemente è necessario un approccio che consideri i diversi flussi e le loro interazioni a scala territoriale (de Vries e de Boer, 2010). Inoltre, mancano soprattutto studi sugli allevamenti estensivi, che, se da un lato sono svantaggiati dalla limitata produttività individuale, dall’altro sono favoriti dal ricorso a prati e pascoli invece che seminativi, dal minore input di alimenti extra-aziendali e di energia fossile, dalla densità di animali/ha più bassa. Invece, gli allevamenti, soprattutto quelli estensivi, possono contribuire positivamente ad altre funzioni di regolazione. Le superfici a prateria (non abbandonate) hanno un ridotto potenziale d’incendio rispetto alle aree coperte da arbusti o da foresta, e quindi riducono il rischio d’innesco e l’estensione degli eventi (Hocthl et al., 2005). L’abbandono delle pratiche di gestione delle praterie e di manutenzione di prati e pascoli posti in aree morfologicamente a rischio aumenta il rischio di dissesti idrogeologici, che si riduce solo quando, e se, la vegetazione arbustiva alta o quella arborea colonizzano i versanti abbandonati,
185
stabilizzandoli (Newesely et al., 2000; Tasser et al., 2003). D’altra parte, la gestione zootecnica se mal condotta può essere negativa: i fenomeni di sovrapascolamento predispongono all’erosione e ai dissesti (Newesely et al., 2000).
ricchezza media
25
Figura 1. Correlazione tra carico (UBA per ettaro) e ricchezza di specie sedentarie di farfalle su malghe pascolate da vacche da latte in Provincia di Trento (Klimeck et al., 2013)
20 15
10 5 0 0
0,5 1 1,5 carico (UBA/ha)
2
Ai fini dei servizi di conservazione degli habitat e della biodiversità il ruolo principale che possono svolgere i sistemi di produzione del latte è il mantenimento di praterie gestite in maniera estensiva, che sono fortemente diminuite negli ultimi decenni in tutte le aree rurali del Paese, e rappresentano spesso habitat prioritari per la Rete Natura 2000 che offrono inoltre ospitalità a invertebrati e vertebrati, fra cui vari anfibi, farfalle e uccelli anch’essi prioritari (EEA, 2010). Un recente lavoro condotto in provincia di Belluno tramite approccio GIS (Geographic Information Systems) (Cocca et al., 2012), ha evidenziato come, tra il 1980 e il 2000, circa il 40% delle aree aperte siano state rimboschite, in particolare nelle zone di versante dove esse sono maggiormente importanti per il paesaggio e più ricche di biodiversità. Il principale fattore in grado di contenere l’avanzata del bosco, fra una serie di fattori socio-economici, è stato il mantenimento di allevamenti bovini da latte tradizionali (mandrie di medie dimensioni, produzione moderata, utilizzo di prati e dei pascoli), mentre sia l’abbandono che la trasformazione in intensivi di
questi allevamenti non hanno contribuito a rallentare la perdita di aree aperte. Analisi più focalizzate dimostrano, inoltre, come l’intensità di gestione delle praterie sia legata anche alla biodiversità a scala locale di specie vegetali e animali. Ad esempio, in figura 1 viene riportato quanto osservato in un recente studi condotto su un campione di malghe trentine, dove emergeva che il pascolamento con vacche da latte condotto con carichi bassi garantiva una maggiore ricchezza di specie di farfalle rispetto a un carico elevato. In molte aree del Paese, gli assetti socio-economici, i moduli architettonici, i modelli culturali e i metodi di utilizzo delle superfici agro-forestali si sono storicamente definiti sulle esigenze dell’allevamento, costituendo un variegato patrimonio tangibile (architetture e manufatti tradizionali, caratteristiche e integrazione degli elementi naturali e semi-naturali del paesaggio, strumenti e attrezzi di lavoro, ecc.) e non-tangibile (conoscenze e saperi empirici tradizionali, linguistica, folklore, ecc.). Questo patrimonio è ovviamente in rapida evoluzione, ed è stato nell’ultimo cinquantennio fortemente intaccato sia dall’abbandono che dall’intensivizzazione delle forme tradizionali di allevamento che lo avevano creato. Quanto di esso rimane è però una ricchezza culturale per l’identità delle popolazioni locali e per tutta la comunità in genere, ma anche un valore economico per l’attrattiva turistica di molte aree. Al contributo della zootecnia per la gestione del “Paesaggio Zootecnico” l’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) ha dedicato recentemente un volume (Ronchi et al., 2014), cui rinviamo il lettore desideroso di approfondimenti. Come evidente dalla tabella 1, i sistemi intensivi sostengono la funzione produttiva, ma le loro forme attuali di utilizzo delle risorse del territorio ne riducono la possibilità di offrire altri tipi di servizi. In realtà, riteniamo che in futuro anche questi sistemi potranno, e dovranno, svolgere un ruolo maggiore per le funzioni di conservazione e culturale del territorio. Essi, infatti, sono diffusi in paesaggi molto antropizzati dove, se aumentassero l’attenzione
187
verso gli elementi che possono migliorare la naturalità e fruibilità estetico-ricreativa degli agro-ecosistemi, potrebbero fornire quei servizi di agricoltura urbana o periurbana la cui richiesta è in continua crescita (Biasi, 2014). E’ per questo che in tabella 1 viene indicata una potenziale funzione positiva anche per gli allevamenti intensivi. Inoltre, va rilevato come la suddivisione in sistemi intensivi ed estensivi, ancorché necessaria per la discussione in questa sede, semplifichi notevolmente la realtà Ad esempio, uno studio condotto nella provincia di Trento (Sturaro et al., 2013) ha messo in luce come le 610 aziende da latte esaminate possano essere suddivise in almeno quattro sistemi, che presentano diverse interazioni fra numerosità della mandria, livello produttivo, biodiversità delle razze impiegate, capacità di gestione delle risorse foraggere locali e del paesaggio, output di nutrienti per litro di latte, capo allevato e unità di superficie, destinazione e valorizzazione economica del latte prodotto.
Conclusioni Le relazioni tra allevamento, territorio e ambiente finora sono state considerate principalmente in funzione delle normative finalizzate alla mitigazione dell’impatto ambientale. Con l’evoluzione delle politiche comunitarie (vedi svolta verso il Greening della PAC 20142020) e la crescente attenzione dell’opinione pubblica nei riguardi della sostenibilità ambientale delle produzioni, diventa importante considerare anche le esternalità positive sugli agro-ecosistemi in cui gli allevamenti operano. Nonostante il crescente interesse per i servizi ecosistemici, sia a livello scientifico che politico, è ancora poco chiaro come misurarli e quantificarli. Ciò richiede infatti un approccio sistemico che consideri come essi sono generati dalle interconnessioni fra sistemi sociali ed ecologici, come interagiscono fra loro a scala globale e locale, e come un cambiamento nell’offerta complessiva influenzi il nostro benessere (Reyers et al., 2013). E’ anche necessario integrare diversi approcci e strumenti di analisi, come ad esempio analisi geo-statistiche (Burkhard et al., 2009), misurazione e/o stima di indici di biodiversità animale e vegetale
(Swift et al., 2004), valutazioni della qualità estetica e del significato culturale degli ecosistemi (Schaich et al., 2010), ecc. Non c’è però dubbio che, dopo la definizione dell’impianto teorico, si sta ora rapidamente passando alla fase della implementazione dei servizi ecosistemici nella pianificazione territoriale e nelle valutazioni economiche. L’individuazione di indicatori attendibili e possibilmente non troppo complessi da misurare deve essere sviluppata con una prospettiva che, oltre all’approccio tipico della ricerca applicata, tenga conto anche del processo di trasferimento della conoscenza al settore produttivo. Per un effettivo coinvolgimento di tutti gli “attori” della filiera, è necessario che la ricerca individui degli indicatori per i servizi ecosistemici, che gli enti preposti alla pianificazione territoriale li utilizzino e li propongano ai produttori come riferimento, e che il consumatore sia educato ad apprezzare e ricercare il latte “a servizio del territorio”.
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