INDICE
INDICE
INTRODUZIONE
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PARTE PRIMA La bigattiera di Villa Roncioni: premesse culturali e contesto storico. 1.1 Il sito: il lungomonte sangiulianese luogo di villeggiatura della nobiltà pisana
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1.2 Villa Roncioni e il Parco Romantico
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1.3 Francesco Roncioni: un imprenditore all’avanguardia
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1.4 La bigattiera nel modello del Dandolo. Tipologia e primi esempi di bigattiere in Toscana.
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PARTE SECONDA Indagine storico-architettonica 2.1 Il cantiere
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2.2 Il reimpiego di marmi dei conventi di S. Francesco e S. Caterina
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2.3 Progetto e realizzazione a confronto
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2.4 Abbazia o manufatto produttivo? Elementi e stilemi neogotici
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2.5 L’uso della bigattiera nel tempo
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INDICE
PARTE TERZA Analisi dello stato attuale
3.1 Descrizione del fabbricato
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3.2 Fattori e processo di degrado dei materiali e delle strutture nel complesso
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3.3 La cromia della facciata principale
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3.4 La sala di rappresentanza: fattori e processi di degrado degli affreschi.
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PARTE QUARTA Interventi di consolidamento e di restauro
4.1 Il consolidamento della volta del primo piano
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4.2 Operazioni di pulitura
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4.3 Aggiunte
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4.4 Operazioni di consolidamento
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4.5 La protezione delle superfici
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4.6 Drenaggio
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PARTE QUINTA Proposta di riuso
5.1 Ipotesi per un nuovo polo espositivo e manifatturiero
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INTRODUZIONE
INTRODUZIONE 1
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
L’elaborato si propone di condurre un’analisi storico-funzionale della Bigattiera neogotica progettata da Alessandro Gherardesca nei primi decenni del XIX sec, annesso di Villa Roncioni (strada dell’Abetone, comune di San Giuliano Terme, Pisa), al fine di recuperarne e tutelarne il valore architettonico. Partendo da una puntuale ed accurata analisi dello stato attuale, si è potuto giungere alla stesura di un progetto che mira al recupero dell’edificio. Il valore che, inevitabilmente, si apporta non ha la pretesa di sostituirsi a quello primitivo, ma vuole aggiungersi ad esso, nel rispetto della configurazione e dalle tecniche costruttive originarie, con il solo scopo di far scaturire un dialogo tra passato e presente, tra due realtà che siano l’una di supporto all’altra, in reciproca valorizzazione. L’analisi storica e territoriale è stata condotta sul materiale documentario e archivistico disponibile, a supporto e integrazione degli studi condotti in loco, per mezzo di rilievi fotografici e metrici diretti, e indagini diagnostiche sullo stato conservativo del manufatto. A corredo si è cercato di approfondire alcune tematiche attinenti alla natura tipologica del manufatto industriale, uno dei pochi esempi rimasti di bigattiera e filanda in Toscana, e agli stilemi architettonici neogotici che ne impreziosiscono il prospetto sul giardino, attribuendogli l’aspetto di un’antica abbazia piuttosto che di luogo d’allevamento di bachi e produzione di seta. La raccolta e l’analisi dei dati e documenti storici ha fornito le basi per la comprensione delle dinamiche evolutive dell’edificio e del parco, dati anche questi imprescindibili per la stesura di un progetto che s’impegni a rispettare la natura e la specificità del luogo. 1
INTRODUZIONE
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Il recupero del manufatto presuppone un adeguato intervento di restauro nel rispetto del quadro normativo vigente e delle nuove funzioni che la bigattiera accoglierà. Si prevede, come nuova destinazione d’uso, la realizzazione di una serie di ambienti a servizio della Fondazione Cerratelli, proprietaria di prestigiose e cospicue collezioni di costumi teatrali e cinematografici, a corredo dell’edificio Villa Roncioni attualmente in uso dalla fondazione, di cui la bigattiera rappresenta un annesso. Il progetto prevede il recupero della bigattiera attraverso una serie di interventi necessari a renderla adeguata – per qualità architettonica e funzionalità – all’importante patrimonio di abiti della fondazione, al fine di realizzarvi un polo ricettivo per attività espositive, di sostegno e rilancio dell’artigianato tradizionale sartoriale. Si prevede la progettazione di una serie di servizi per attività didattiche e di formazione di personale qualificato (laboratori di sartoria, stireria, ecc) e relativi servizi logistici (magazzini, passerelle per sfilate…).
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INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
PARTE PRIMA 2
La bigattiera di Villa Roncioni: premesse culturali e contesto storico.
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1.1 IL SITO. IL LUNGOMONTE SANGIULIANESE: LUOGO DI VILLEGGIATURA DELLA NOBILTÀ PISANA.
Con il suo ingresso nell’orbita fiorentina, agli inizi del Cinquecento, Pisa vede aprirsi una duratura fase di prosperità in forza del disegno mediceo di «beneficare et augmentare la Città et contado [...] con liberare quel paese dalle inundationi delle Acque [...] col tenerlo bene ordinato di Fossi, ponti, argini et Strade1». All’indomani della conquista fiorentina, infatti, nella prima metà del ‘400, la maggior parte del territorio pisano appare fortemente degradato a causa dello spopolamento e dei mancati interventi di manutenzione dei canali e delle fosse di scolo.
«In una curvatura, o piccola valle che forma il monte d’Asciano, sono belle tenute e ville di Cavalieri Pisani». Targioni Tozzetti
Con l’acquisto di terreni, già appartenenti ai Pisani esiliati e ribelli, da parte dei conquistatori fiorentini, si rilanciano lavori di bonifica, si favoriscono gli insediamenti e si pongono le premesse di un profondo rivolgimento dei patti agrari con la diffusione della mezzadria, sino ad allora sconosciuta nelle campagne del basso Valdarno. Si tratta di un vero e proprio risolutivo piano di bonifica che trova testimonianza negli imponenti lavori idraulici realizzati, tra cui spicca la costruzione dell’acquedotto di Asciano (1592-95), e negli stratificati interventi di prosciugamento, che migliorano in maniera significativa le condizioni agrarie e forestali dell’intera area. L’interesse per la produttività dei campi si accompagna, tuttavia, a bisogni meno materiali: l’amenità del luogo suggerisce la costruzione di ville destinate ad accogliere la corte nelle frequenti battute di caccia, luoghi di delizia dove abbandonarsi agli ozii. ..«Infatti, quale porto più sicuro, per sfuggire ai tanti flutti della cura dello stato, di questo angolo solitario e amenissimo del litorale tirrenico, dove pare che facciano a gara la natura e la grazia?2». In particolare, nella zona del Valdarno inferiore, la progressiva 1 2
FIASCHI RANIERI, Le magistrature pisane delle acque, editore Nistri-Lischi, Pisa,1938. NICCOLAI ALBERTO, Palazzi, ville e scene medicee in Pisa e dintorni. Saggio di ricerche e di studi di storia pisana, Mariotti, Pisa, 1914, p.54. 5
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PARTE PRIMA
affermazione delle famiglie fiorentine è evidente nella diffusa opera di conversione di strutture più antiche in “moderne” e funzionali residenze che, nell’ottica degli stessi proprietari e dei loro architetti, assolvono alla duplice funzione di tenuta agricola e luogo di delizie destinato allo svago. Alle proprietà dei fiorentini si vanno affiancando quelle dei Pisani, spesso meno estese e con residenze meno ricche e prestigiose. Del resto, nel 1758, il Cavalier S.B. nella sua “Relazione di Pisa e del suo territorio” sottolinea che «quasi quattro quinti del territorio pisano è di proprietà di non pisani» anche se alcuni di essi, come i «Roncioni, Lanfreducci, Seta, Rosselmini, Mecherini e pochi altri gentiluomini hanno fatto bellissime coltivazioni3». Se le ville di proprietà delle famiglie fiorentine nel Pisano assurgono a livelli di grandiosità e di prestigio, rispondendo al ruolo di soggiorno nel quale celebrare i piaceri della vita rustica e l’otium nella natura, oltre che di controllo sulla produzione agricola; le residenze di campagna dei cittadini pisani sembrano piuttosto inclini agli usi pratici di un’attenta gestione della proprietà. A differenza dei fiorentini, le nobili famiglie pisane pongono la massima cura nell’amministrazione delle loro tenute, da cui traggono la maggior parte del reddito: la socialità, gli svaghi e le ricreazioni rimangono a lungo sottotono. «I pisani, in effetti, sono generalmente economi perciò sono frugali nella tavola, modesti ma puliti nel vestire, più comodi che splendidi nell’alloggio. Per lo più villeggiano non per divertimento, ma per aver l’occhio ai loro pochissimi beni di campagna4».
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Il Bertolini, funzionario granducale, pare non accorgersene, ma proprio in quegli anni i costumi della sonnacchiosa aristocrazia pisana stanno rapidamente cambiando. Nel secondo settecento lo spirito di economia si arrende all’amore per il lusso, per il teatro e per le mode, ci si abbandona alle conversazioni, al desiderio di mondanità. Un mutamento che coincide con il rilancio dello stabilimento termale di San Giuliano. La proposta di valorizzare i Bagni facendone uno stabilimento alla moda che possa attirare l’affluenza dei forestieri arriva dall’abate Pompeo Neri e, ricevuta l’approvazione del granduca Cosimo I, diviene l’asse di un articolato piano di intervento: lavori di bonifica e di regimentazione delle acque, risanamento delle aree degradate e abbattimento delle costruzioni fatiscenti delle sponde dell’Arno. Le terme, dalla metà del Settecento, finiscono per attirare in loco una vasta ed illustre clientela cosmopolita. Si trovano menzionate le BERTOLINI STEFANO. CAVALIERE, Relazione di Pisa e del suo territorio, Pisa, 1976, p.93. BERTOLINI STEFANO. CAVALIERE, Relazione di Pisa e del suo territorio, Pisa, 1976, p.44. 3 4
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presenze di Gustavo III re di Svezia, dei principi reali di Inghilterra, di Percy Shelley, di Paolina Bonaparte; essi soggiornano nei palazzi delle terme fatti costruire dal Granduca oppure vivono ospiti in villa, come Benedetto Stuart che dimora nella villa Dal Borgo di Pugnano. L’esistenza di questo importante nodo turistico (il complesso termale comprende anche palazzi residenziali, casinò, caffè, sale da ballo) costituisce un incentivo a costruire, abbellire, decorare. La villa, già dimora per l’ozio nella natura e struttura per il controllo sulla proprietà, assume i caratteri dell’abitazione rurale di “delizia”, dove i villeggianti trasferiscono le abitudini e i costumi cittadini. La residenza di campagna si adegua, quindi, alle esigenze cittadine attraverso una trasformazione degli spazi interni ed esterni. Ne consegue una competitiva ricerca di esclusività; si tende a differenziare ciascun edificio dall’altro. Con le opere di ristrutturazione spesso si interviene nella composizione dei volumi, che vengono talora dilatati, per essere rimodellati secondo nuovi criteri proporzionali e distributivi assumendo forme aperte e più articolate. Il tipo Cinque-Seicentesco di villa pisana, prevalentemente di impianto rettangolare, con salone passante ed appartamenti laterali, stabilisce, con le ristrutturazioni sette-ottocentesche, un nuovo rapporto con il paesaggio circostante. All’interno, la ricerca è volta alla realizzazione di ambienti particolarmente accoglienti nelle forme e nelle dimensioni e ad una chiara individuazione funzionale degli spazi (avvalendosi della decorazione pittorica). All’esterno, l’intervento è, invece, volto ad arricchire con artifici formali (lesene, cornici, decorazioni, scale monumentali, portali di marmo) il prospetto principale, differenziandolo da quello opposto che rimane invariato nelle sue linee generali. Il riallestimento delle sobrie dimore di campagna diviene quasi competitivo tra le nobili e facoltose famiglie pisane e finisce per introdurre anche localmente progettisti di prestigio, primi fra tutti, Ignazio Pellegrini e Alessandro Gherardesca. A partire dal settecento maturo, che la zona lungo-monte a capo di San Giuliano terme acquisisca una sempre maggiore importanza, emerge ad esempio dall’interessante reportage grafico stilato dal fratello maggiore del letteratissimo Giovan Battista Niccolini (segretario dell’Accademia di Firenze), il cavalier Bartolomeo Niccolini, che nelle prime decadi dell’Ottocento mette a punto un’interessante cartella di disegni tra Asciano, Agnano e le terme. In allegato (A) un breve e sintetico campionario delle ville che insistono nel territorio di San Giuliano Terme. 7
1.1
PARTE PRIMA
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1.2
1.2 VILLA RONCIONI E IL PARCO ROMANTICO
Le prime notizie della proprietà di Pugnano risalgono al 1468, quando Antonio di Guelfo Roncioni (per informazioni sulla dinastia Roncioni vedi Allegato B) «comprò un pezzo di terra con casalini, noci, ed altri frutti...». Una successiva descrizione (1579) e uno schizzo planimetrico (1592) del fondo privato Roncioni, illustrano l’ordine e la chiarezza compositiva del palazzo e del giardino: un edificio ad impianto simmetrico, con salone passante, quattro camere da un lato e altre quattro stanze dall’altro. Un viale centrale coordina lungo lo stesso asse l’ingresso, l’edificio, il giardino. Ai lati dell’ingresso sono gli orti suddivisi con regolarità; sul retro due peschiere per i pesci e per le anguille, e al centro una fontana. Successivamente l’abitazione subisce un intervento che trasforma la semplice casa da cittadino, con la preminente funzione utilitaristica, in villa destinata alla villeggiatura: nel 1622 l’Estimo di Pugnano definisce la villa un «palazzo da signore con sue appartenenze, con giardino cinto da mura, con fonti e vivai di acque... che serve a loro per villeggiare» . Un altro disegno di fine cinquecento documenta l’architettura del palazzo: all’impianto regolare corrisponde la chiara tessitura della facciata scandita da due ordini di aperture con portale e scalinata, disegnata da cornici in pietra. Agli ultimi decenni del XVIII secolo risale l’ampliamento dell’edificio, come mostra la «pianta regolare della fattoria di Pugnano di attinenza del Nobile Cavaliere Bali Angelo Roncioni» del 1780, nella quale si legge: «Terreno parte ad uso di prato, con fonte, e parte ortale, con peschiere, sopra del quale esiste la villa, circondato da muro, ed un giardino a questo contiguo, con sua vasca, e diverse fabbriche servienti a diversi usi... » (in allegato D regesto delle piante/piantali recuperati dall’Archivio di Stato di Pisa e dalle varie pubblicazioni). Il palazzo, qui rappresentato con impianto a «T» per l’aggregazione del corpo-scala, è al centro della linea di visuale che dalla campagna 9
«L’arte deve essere talmente nascosta che si deve credere di vedere la semplice natura e talvolta le sue pretese bizzarre». Francesco Milizia
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PARTE PRIMA
penetra nella proprietà indirizzandosi verso monte; l’asse ortogonale che sfiora il fronte dell’edificio suddivide il giardino in porzioni dalla geometria impeccabile. Da un lato, in luogo della ottocentesca bigattiera, c’è una zona sistemata a parterre, disegnata da una griglia ortogonale che, secondo la consuetudine del tempo, doveva essere arricchita con statue e fontane. La fase settecentesca dei lavori è affidata all’architetto pisano Giuseppe Niccolai, che risulta altrove collaboratore del più noto Ignazio Pellegrini. Del Pellegrini è la soluzione del fronte, snellito dalla scansione delle lesene e dal taglio mediano delle aperture arricchite di decori plastici, così come il concetto di “spazio ambiguo” applicato all’interno, nel salone e nel vano-scala. Ambiguo, perché giocato sul limite tra reale e fittizio; non reale, né fantastico, si tratta di uno spazio inventato, allusivo e insinuante, che si avvale degli espedienti figurativi. Le pareti del salone si aprono verso loggiati laterali e la sontuosa scala a doppia rampa, quadratura attribuita a Pasquale Cioffo, lascia intuire la scala reale retrostante. Cioffo è tra i più notevoli rappresentanti del quadraturismo pisano. Rappresenta un tramite con il quadraturismo napoletano, insieme all’allievo Niccolini, che ritroviamo nei documenti, tra coloro che lavorarono per villa Roncioni. Tutta la scenografia napoletana, infatti, per i suoi addobbi, per la sovrapposizione degli apparati festivi, per gli apparati scenografici, può avere influenzato, tramite il Cioffo, le decorazioni pisane. Il soffitto del salone risulta, invece, decorato con una quadratura a lacunari, da cui si apre uno sfondato a cielo aperto con l’allegoria della Primavera. In quest’ovale è leggibile la 9
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1.2
mano di Giovanni Battista Tempesti: la decorazione del soffitto del salone di Villa Roncioni ricorda, infatti, l’allegoria dell’Estate, dipinta nella villa Belvedere di Crespina e l’allegoria della Pittura per il piano terra di palazzo Roncioni a Pisa. Giovanni Battista Tempesti è soprattutto un “figurista”. Il suo colore presenta delle lievi tonalità rosse e azzurrine, dei contrasti di gialli e viola chiari dalle delicate trasparenze pastello. Il suo stile pecca, al contrario, della mancanza di una vera caratterizzazione ambientale e di scuola. Le forme sono aeree, leggere. Dalla finta architettura del salone, come da un boccascena, si apre le serie di apparati pittorici che decorano le pareti e i soffitti dei piccoli salotti creando ambientazioni intimistiche e familiari: scene bacchiche e dionisiache mescolate a citazioni antiquarie, mitiche celebrazioni delle virtù domestiche (le filatrici che circondano le matrone romane), un’ambientazione campagnola che ritrae Isabella Roncioni insieme al fratello Francesco. Un momento essenziale nella vicenda di villa Roncioni è segnato dalla realizzazione del parco romantico, iniziata nel 1826 e protrattasi fino alla metà del secolo, che vede l’ampliamento dei limiti dell’antica chiusa muraria con l’acquisto della confinante proprietà dei marchesi Cosi Del Voglia; «un casamento ad uso di villa con giardino a disegno con piante ed agrumi parte in caschetto, e parte a spalliera ed in vasi, capannone, orto, cappella ed altre sue appartenenze e con terre lavorative, fruttate e vitiate...». L’ampliamento della proprietà si deve al dinamico imprenditore Francesco Roncioni: egli affida il progetto del nuovo giardino e dei suoi annessi all’architetto Alessandro Gherardesca (note biografiche dell’architetto in Allegato C). Alessandro Gherardesca, attraverso la sua scrittura architettonica e letteraria (autore di veri e propri trattati sul comporre architettonico), ci rivela l’inquietudine di un linguaggio estetico nei confronti delle regole classiche alle quali pure attinge con modelli particolari che adatta a determinate categorie di edifici. In questo senso, non è casuale il riferimento alla poetica palladiana quando l’Architetto tratta il tema della villa. Se questo è il riferimento culturale per la specificità del tema tipologico “villa”, l’invocazione dei principi della semplicità e della regolarità della natura, allineano il Gherardesca alle idee dell’architettura illuminista. Quando tratta di una «abitazione di delizia» mette in evidenza soprattutto il suo intorno, «un ameno e ridente giardino», «aggradevoli e variate coltivazioni», dove «ai comodi sia unita la decenza, la quale abbia se congiunto la semplice struttura della casa e fabbriche rurali», rivolgendosi ad un «facoltoso cittadino» che, attraverso i piaceri della campagna possa allontanarsi «dai clamori della città». La varietà delle ipotesi 11
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PARTE PRIMA
formali, che il Gherardesca solo in parte traduce in opere durante la sua trentennale attività, si rivela ricca di riferimenti eruditi che vanno ben oltre la citazione di modelli classici nelle loro componenti strutturali e decorative, pervenendo spesso a soluzioni del tutto originali. È evidente la ricerca di sintesi formale che si manifesta nella essenzialità delle linee architettoniche, nel pronunciamento dei volumi (che vengono scomposti ed articolati secondo le proprie funzioni interne e sottolineati con accorgimenti formali), nell’uso di ampie finestrature continue e di loggiati che acquistano una loro autonomia plastica e strutturale, e nella differenziazione grafica del partito di facciata, disegnato dal finto bugnato e dai fregi in cotto. In questo processo progettuale il Gherardesca riprende l’antico, talora con un atteggiamento di distaccata scientificità, mediante vere e proprie citazioni o traslazioni sul piano decorativo di motivi propriamente strutturali. Alla base si riscontra comunque una libertà del comporre, dello sperimentare che trova nella specifica realtà della casa destinata all’otium il proprio terreno di elezione. I volumi compatti degli edifici, rivelati nelle semplici tessiture di facciata, vengono disegnati dalla scansione regolare delle aperture, dove è evidente il trattamento a finto bugnato della superficie, e vengono conclusi con il coronamento che contiene le coperture. Questo costituisce una costante specifica dell’architettura del Gherardesca. L’impiego di cornicioni oltre la fascia marcapiano, estesi a tutta la copertura, lineari o gradonati, talora interrotti da piedistalli sormontati da statue o vasi, contenenti al centro decori o stemmi in cotto, consente di svincolare la villa dai connotati di rusticità dati dalle coperture a vista, che invece l’Architetto mantiene nel genere fattoria e negli annessi, conferendo agli edifici un maggiore slancio verticale, in equilibrio con il prevalente andamento orizzontale. La ricerca di repertori che si rileva nella progettazione delle ville di delizie, la cui valenza individuale comporta una maggiore libertà di forme e di stili rispetto all’ufficialità dell’edilizia urbana, va ad accrescersi nella progettazione di architetture da giardino ancora più legate al fervore del revival romantico: emblematico in tal senso l’intervento dell’architetto che coinvolge gli edifici di corredo alla residenza di Villa Roncioni e la sistemazione del parco. L’opera di Alessandro Gherardesca si inserisce all’interno di un clima culturale particolare: in questi anni attraverso una letteratura specialistica, che perviene con i primissimi dell’Ottocento agli esiti del Mabil e del Silva e sbiadisce poi all’interno delle accademie, si interpretano e si sviluppano i principi della trattatistica inglese; si giunge alla svolta in senso pittoresco di quelli che erano stati i temi dibattuti, del formalismo e del naturalismo, dalla cultura europea alla fine del Settecento. Con il diffondersi del gusto pittoresco e del giardino romantico nel passaggio tra Settecento e Ottocento, anche 12
nei centri periferici la tensione volge verso un’estetica della natura artificiosamente «naturale», una natura pensata e progettata. Nel filone di questa tendenza si annovera Alessandro Gherardesca, pubblico professore di Architettura Civile e Idraulica dell’Accademia di Belle Arti di Pisa, di cui diviene poi Direttore, Architetto principale della Deputazione delle Fabbriche pubbliche di Livorno, erudito, socio di varie Accademie tra cui quella di Firenze, e autore di numerose opere; nei suoi testi e nel suo progettare egli interpreta gli assunti del giardino-paesaggio, mediando l’istanza illuminista dell’utile legato al “bello” con il senso romantico del “sublime”. Nella villa dei Roncioni a Pugnano l’impianto del giardino mantiene l’originario viale di penetrazione in asse con l’edificio; a lato si sviluppa il parco ottocentesco con macchie di verde, vialetti tortuosi e manufatti eclettici. Il paesaggio della campagna viene idealmente catturato all’interno della villa e con essa partecipa alla formazione di un insieme paesaggistico fatto di «quadri deliziosi, prospettive variate dall’effetto delle acque pittorescamente scorrevoli, delle valli, delle pendici, dei boschi, delle praterie, delle coltivazioni». Passando ai progetti, l’idea del giardino non viene esemplificata nella sua organicità e unitarietà, ma sviluppata come accostamento di quadri caratterizzati da manufatti diversi, rivelando un taglio decisamente architettonico-compositivo: dalla residenza padronale al tempio, al ponticello, alla torre, l’architettura è protagonista e distinta per generi. Il Gherardesca propone, infatti, una casistica di manufatti che connota la varietà delle sistemazioni e imprime a ciascun quadro una specificità storica e topografica. Il riferimento è al giardino anglo-cinese, arricchito di «fabbriche e oggetti d’arte di ogni maniera», al quale l’architetto guarda però per la sua concezione compositiva, espressa da una elegante varietà. La natura impiega sempre quattro materiali nella composizione delle sue scene: il terreno, le piante, l’acqua e le rocce, mentre l’arte ha introdotto una quinta specie, gli edilizi, destinati alla comoda ritirata degli uomini. Ciascuna di queste specie ammette varietà nella figura, nelle dimensioni, nel colore, nella situazione; ogni paesaggio è composto unicamente da questi ingredienti e le bellezze dipendono dall’applicazione di queste varietà. Alla base della progettazione è l’idea della natura come modello: una natura costruita con l’artificio che decodifica le leggi naturali e i nessi per riprodurre la natura stessa. L’arte è talmente nascosta da arrivare a vederne la semplice natura e talvolta le sue pretese bizzarre. Il Gherardesca si trova quindi ad interpretare la cultura paesistica inglese facendo esplicito riferimento a Broun, Chambers, Wathely e Repton. L’insieme si genera attraverso la sequenza dei quadri: una varietà di fenomeni che vengono accostati per suggerire, evocare, dilatare le possibilità dell’immaginazione, la cui invenzione lascia trasparire un processo 13
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PARTE PRIMA
intellettuale ricco di suggestioni erudite. Spesso nei giardini pisani del Gherardesca i sepolcri vengono trasposti e rievocati attraverso la ricomposizione dei loro frammenti, così che il perenne verde, per memoria perenne, divenga paesaggio di storia e cultura. È immediato il rimando a Foscolo, ai soggiorni pisani di inizio Ottocento, al sentimento per Isabella Roncioni e al legame con la nobile famiglia pisana che si ritiene possa in qualche modo trovare riscontro nella concezione del giardino di Pugnano. Nella villa i resti di antichità sono disseminati nel verde, come il prezioso sarcofago strigilato scavato da Antonio Roncioni a San Rossore, oppure ricomposti nelle nuove architetture in stile gotico della «bigattiera» e della chiesa. Dal lato destro della villa si diramano i vialetti che si insinuano nelle boscaglie, modellando il percorso sul variare dei rilievi. Improvvisa è la rivelazione del piccolo lago con isolette, dall’andamento serpentino, sovrappassato da un rustico ponticello di legno. Nascoste tra la vegetazione e le ondulazioni del terreno, si trovano le strutture di un castello non completato, un maniero a scala ridotta [come rivela un progetto, a firma dell’architetto Pietro Bellini], che doveva suggerire atmosfere di caccie con forte suggestione letterario-cavalleresca. In una piccola radura schermata da piante sempreverdi di alto fusto è la chiesa neogotica. La sua architettura, connotata da un paramento decorato a graffito, decodifica lo stile gotico in maniera decorativa, accrescendo la verosimiglianza storica con l’impiego di materiale di spoglio, trasportato dalla facciata della chiesa di San Francesco di Pisa. Neoclassica è invece la facciata del ninfeo, situato su una radura vicino al palazzo, per la quale il Gherardesca aveva elaborato tre soluzioni sullo stesso tema dell’arco trionfale coronato da statue. Sulla parte più alta del monte è il romitorio, un edificio rustico con l’intonaco trattato a finto legno, annunciato dalla statua di un monaco. «Nell’estremità sinistra dall’ampio prato —scrive il Gherardesca — su cui giace la villa annunziandosi coll’esteriore di antica abbazia», sorge l’edificio della bigattiera: un opificio con le sembianze di una abbazia gotica, il cui ingresso è enfatizzato dal reimpiego di un’autentica porta medievale. Il riferimento gotico si carica qui di significati religiosi e sociali che legano l’espressione artistica, intesa come idea di cultura alla vita e alla società. Il medievalismo di questo monumentale opificio in villa decodifica una società comunitaria nella quale i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente, la vita e il lavoro si sviluppano in maniera organica. La bigattiera, spiega il Gherardesca, «compone un quadro grandioso colle varie coltivazioni che rivestono il pittorico andamento delle falde del monte, col continuo bosco, e ben ordinato giardino». Con questa espressione l’architetto sancisce l’idea del giardino come spettacolo che si svolge nel paesaggio e con questo si compenetra. 14
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1.3 FRANCESCO RONCIONI: UN IMPRENDITORE ALL’AVANGUARDIA
La costruzione della Bigattiera, o “Abbazia di San Luca”, all’interno della villa è il segnale del dinamismo imprenditoriale di Francesco Roncioni1, vicino alla cultura fisiocratica2 e amico di Raffaele Lambruschini, accademico georgofilo3. Lo stesso Lambruschini, che costruisce nel 1822 una bigattiera nella sua fattoria del Valdarno Superiore, la bigattiera di San Cerbone, elogia il Roncioni per aver introdotto un’utile novità, e per aver «unito alla laboriosità serica un nuovo abbellimento alla sua già bella villa di Pugnano»4 . Progettata dall’architetto Alessandro Gherardesca, la bigattiera, una struttura industriale metaforicamente trattata come un’abbazia gotica, si Francesco Demetrio Roncioni, figlio di Angiolo e Dorotea, è ricordato nelle cronache come un bon vivant, uomo curioso della vita, viaggiatore intraprendente e pure capace di gesti forti, come la partecipazione alla campagna di Russia a fianco delle armate napoleoniche. 2 Fisiocrazia: Scuola economica francese fiorita tra il 1750 e il 1780. Perno della fisiocrazia è la teoria del prodotto netto – o parte del prodotto che resta disponibile dedotte le spese di produzione –, su cui si fonda la giustificazione della superiorità dell’agricoltura, ritenuta l’unica fonte di ricchezza, perché in essa la natura moltiplicherebbe il rendimento dell’opera dell’uomo, mentre industria, commercio, trasporti ecc. sono considerati attività sterili, in quanto realizzerebbero soltanto la reintegrazione delle spese sostenute e sarebbero resi possibili dall’agricoltura che fornisce materie prime e nutrimento agli uomini in essi occupati. Di qui la necessità di favorire al massimo lo sviluppo dell’agricoltura con la libertà di coltivazione e di commercio dei prodotti agrari, libertà che è sostenuta quindi in funzione dell’ideale agrario e non per sé stessa, così come l’‘ordine naturale’, su cui si fonda la dottrina sociale della fisiocrazia, non va inteso nel senso di illuministica idealizzazione dello ‘stato di natura’, mistica fede nella uguaglianza e libertà, ma come affermazione della preminenza nello Stato della classe dei proprietari fondiari, unici produttori e unici contribuenti (imposta unica sulla rendita fondiaria), e come preferenza per i governi che siano disposti ad assumersi l’onere della messa in valore del patrimonio nazionale. Definizione tratta da Enciclopedia Treccani. 3 Georgòfilo, agg. e s. m. (f. -a) [comp. del gr. γεωργός «agricoltore» e -filo], letter. – Di persona che s’interessa all’agricoltura: Accademia dei G., accademia fiorentina fondata nel 1753 per iniziativa di Ubaldo Montelatici, canonico lateranense, e tutt’ora attiva, che promuove l’agricoltura e gli studi ad essa pertinenti. È il primo esempio in Europa di un’associazione pubblica per lo studio e il perfezionamento dell’agricoltura. Nel 1827 i georgofili fondano il “Giornale Agrario Toscano” per impegnarsi attivamente in un’opera di divulgazione e di insegnamento delle tecniche agrarie. Definizione tratta da Enciclopedia Treccani. 4 LAMBRUSCHINI, Corsa agraria, in Giornale Agrario Toscano, vol.V, 1831, pp.125-127.
«Tu entri e vedi che il piano terreno della Badia è una trattura di seta e il primo piano è una bellissima bigattiera. Un’esclamazione di sorpresa e di compiacenza ti fugge dalla bocca...». Raffaello Lambruschini.
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rivela in linea con le tendenze del culturalismo anglosassone esprimendo positivistica5 razionalità e religioso sentimento del lavoro e dell’attività umana: un opificio, dove «...un andare e venire di persone, il fumo dei camini ardenti, un sordo cigolio come di ruote ti sofferma, ti mette in curiosità. Tu entri e vedi che il piano terreno della Badia è una trattura di seta e il primo piano è una bellissima bigattiera. Un’esclamazione di sorpresa e di compiacenza ti fugge dalla bocca...».6 Si ritrovano qui, nell’atmosfera operosa che richiama quella della prima età industriale, la reciprocità dei temi di città e campagna, coniugati in una struttura che idealizza il lavoro attraverso l’aspetto di un luogo di pace e di preghiera inserito nella bucolica serenità campestre. Quello che colpisce è «una badia gotica le cui antiche forme contrastano piacevolmente con la moderna fabbrica della villa...ma la freschezza dell’edificio ti avvisa che esso è opera dell’età nostra...e tu allora stai in forse se tu debba lodare la splendidezza d’un lusso protettore delle arti, o sorridere fra te e te d’una servile imitazione de’ così detti giardini inglesi». La bigattiera è un episodio emblematico del nuovo assetto del parco, adeguato dallo stesso progettista A. Gherardesca, all’estetica del pittoresco: una suggestiva quinta che spicca con la sua monumentalità su di un tappeto erboso.
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La bigattiera di Pugnano si inserisce, perciò, all’interno di un particolare contesto culturale-produttivo che orbita attorno all’accademia dei Georgofili. Il «Giornale Agrario Toscano», fondato proprio nel 1827, rappresenta una delle più importanti riviste pubblicate dal gruppo dei riformatori liberali, raccolti intorno a G. Vieusseux e all’Accademia dei Georgofili, che nel cinquantennio fra la Restaurazione e l’Unità cresce fino a rappresentare il cuore del movimento costituzionale e unitario nel Granducato. L’abate Lambruschini rappresenta all’interno di questo gruppo uno degli animatori, attivo in diversi campi, quali specialmente l’agronomia e l’educazione popolare. L’apertura della bigattiera di Pugnano fa notizia perché una delle prime campagne da lui condotte è proprio quella per l’incremento della produzione serica nella regione. Nei primissimi anni della Restaurazione l’Accademia dei Georgofili adotta al riguardo due iniziative importanti: da una parte fa pressione sul governo per ottenere l’abolizione del divieto di esportazione della Indirizzo filosofico del 19° sec., il cui iniziatore è il francese A. Comte, e i cui maggiori rappresentanti sono in Inghilterra J. S. Mill e H. Spencer e in Italia R. Ardigò. Ne parteciparono scienziati, storici, letterati, nel quadro della situazione europea caratterizzata dagli sviluppi della società industriale e dalla crescita delle scienze e della tecnica. I filosofi positivisti sono pienamente consapevoli di essere interpreti del loro tempo e tracciano anche il disegno di una società industriale razionale, ossia regolata secondo criteri scientifici. Definizione tratta da Enciclopedia Treccani. 6 Cfr. nota 3 5
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seta «tratta»7; dall’altra inizia un’attività di informazione sui metodi più moderni di allevamento del baco da seta. Sul terreno della politica doganale l’Accademia ottiene il risultato sperato: la Tariffa, che viene promulgata il 6 luglio 1819, concede la libertà di esportare la seta prodotta in Toscana, dopo secoli di assoluto protezionismo, appena scalfito in età leopoldina. L’opera di ricerca e di propaganda intorno all’allevamento del baco da seta si prolunga per decenni: C. Ridolfi e R. Lambruschini acquistarono grande fama tra i «bacofili» italiani. Tra il secondo e il terzo decennio del secolo, comunque, la grande innovazione nel campo dell’allevamento del baco da seta è proprio legato alle «bigattiere» padronali, e cioè un allevamento non più disperso nelle case dei contadini e tutto affidato alle loro pratiche tradizionali, ma piuttosto concentrato in un unico grande locale e attuato seguendo regole più «scientifiche». Nel successivo capitolo si fa riferimento proprio alle tecniche e alle soluzioni diffuse a livello nazionale da uno dei principali studiosi delle innovazioni introducibili nell’ “arte di governare i bachi da seta” – il conte Vincenzo Dandolo - «così che per ogni mediocre attenzione che si metta in seguire le poche semplicissime regole, che emergono da questo Giornale, presto si cesserà di aver bisogno di chiamare da altri paesi che presieda al governo dei bachi e la poca scienza che è necessaria in questa faccenda, diverrà e più sicura, e domestica affatto8».
La «trattura», cioè l’operazione di dipanare il bozzolo, è la prima lavorazione necessaria per ottenere il filo di seta; ad essa fa seguito la filatura, dopodiché la fibra è pronta per la tintura o per il telaio. 8 VINCENZO DANDOLO, Il buon governo dei bachi da seta dimostrato col giornale delle bigattiere, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818 pp.9. 7
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PARTE PRIMA
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1.4 LA BIGATTIERA NEL MODELLO DEL DANDOLO. TIPOLOGIA E PRIMI ESEMPI DI BIGATTIERE IN TOSCANA.
«Queste compendiose istruzioni in tre CAPITOLI divise riguardano l’organizzazione delle Bigattiere , e gli utensili necessari in esse: poi le più opportune indicazioni sulla foglia, sull’area, da occuparsi dai bachi, sul Termometro ed Igrometro , sulla luce e sui profumi finalmente sopra tutto quanto ha rapporto alla preparazione della sement , ed alla camera calda… Chi attentamente leggerà, osserverà e seguirà di giorno in giorno quanto queste tabelle dimostrano essersi fatto, vedrà sempre più comprovato, che l’arte di governare i bachi si appoggia a’ determinazioni positive e ad elementi indipendenti dalla volontà e dal capriccio dell’uomo. Così pure vedrà verificarsi che chi ha una data quantità di foglia di gelso è sicuro di avere una data quantità di ottimi bozzoli, ogni volta che accuratamente governi i suoi bachi. Debbo poi primieramente avvertire, che coi metodi che raccomando…intendo… assicurare che costantemente si ottenga da ogni quattordici libbre grosse in circa di foglia una libbra grossa di ottimi bozzoli’, il che è quanto può ragionevolmente soddisfare ognuno, che a questo ramo di coltura si dedichi»1. Con le frasi sopra riportate si apre l’opera del Conte Vincenzo Dandolo2, “Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere”, una sorta di vademecum per tutti i proprietari terrieri progressisti, che vogliono intraprendere la strada della Bachicoltura con la costruzione di una bigattiera patronale, e per i contadini che, invece, adibiscono la loro abitazione a bigattiera colonica dal momento che «il sistema di governo seguito nelle Bigattiere padronali è perfettamente eguale a quello che si pratica VINCENZO DANDOLO, Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818 pp.8-9. 2 Vincenzo Dandolo nasce a Venezia il 26 (o 22) ott. 1758 da Abram Uxiel, ebreo battezzato con nome di Marc’Antonio Dandolo, e Laura Steffani, si laurea giovanissimo all’università di Padova e dal padre, chimico di professione, eredita un vivace interesse per le scienze applicate ed in particolare per la nascente chimica moderna. È ricordato come scienziato, politico e agronomo. Nel 1806 viene nominato da Napoleone Bonaparte governatore della Dalmazia e mantiene la carica sino al 1809. Introduce la coltivazione della patata e apre scuole ed accademie. Dopo la battaglia di Waterloo acquista un terreno a Varese e si dedica alla coltivazione dei campi. Suo figlio è il celebre scrittore Tullio Dandolo. 1
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«…l’arte di governare i bachi si appoggia a’ determinazioni positive e ad elementi indipendenti dalla volontà e dal capriccio dell’ uomo…». Vincenzo Dandolo.
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PARTE PRIMA
nelle coloniche». Vincenzo Dandolo crea la prima bigattiera patriarcale, dove pianta e coltiva centinaia di gelsi così da riuscire a fornire, sulla base di tutte le sue lunghe osservazioni, regole eterne sulla bachicoltura. Istituisce, inoltre, una vera e propria scuola a cui accorrono in ogni stagione «non campagnoli soli delle vicine provincie, ma uomini illustri per nascita, per possedimenti o per sapere e molti da lontanissime». Vengono a visitare le “dandoliere”, i nuovi locali fatti costruire “ad hoc” dai “padroni” che coll’impiego di manodopera specializzata e remunerata, permettono «di risparmiare oltre la metà della foglia di gelso e di razionalizzare la bachicoltura, prima dispersa nelle case dei contadini, ottenendo una quantità due-tre volte superiore di bozzoli. Questi (locali) prevenivano le malattie più diffuse del baco grazie ad ambienti sani, luminosi ed arcati, dotati di camini, di stufe a vapore per schiudere la semente, di sfogatoi e di nuovi strumenti tecnici, quali il termometro e Fendiometro per regolare la temperatura interna dei locali. Una cura minuziosa era dedicata ai ritmi vegetativi dei bachi, alla loro alimentazione, alla loro pulizia».3 Nel 1816 si assiste ad una sorte di “bacomania” che invade la nobiltà lombarda, piemontese e veneta, la ricca borghesia possidente e perfino alcuni parroci illuminati. Già nel 1816, la fama delle nuove bigattiere giunge fino in Veneto ed in Piemonte: vengono impiantate a Valdagno, nel vicentino, e nei dintorni di Torino, di Casale Monferrato, di Alessandria, di Acqui, nonché nel novarese. Ma esse si diffondono soprattutto in Lombardia, nella fascia dell’altopiano asciutto, dove molti bachicoltori istallano stufe, camini e sfogatoi, utilizzano le sementi del Dandolo e seguono tutte le sue indicazioni circa temperatura, alimentazione, areazione dei locali nelle varie fasi delle mute del baco. Ve ne sono a Como e dintorni e altre, di varie misure e dimensioni, sia nel Lecchese che nel Bergamasco e nel Bresciano. Ve ne sono nell’Alto Milanese e nel Varesotto, dove non pochi possidenti adibiscono a bigattiere, almeno per il periodo dell’anno tra maggio a giugno, i loro granai per l’allevamento del baco. Tra i principali bachicoltori vi sono: il marchese Federico Fagnani, il marchese Gerolamo D’Adda, il conte Gian Mario Andreani, il conte Ambrogio Caccia, i Visconti. Di fronte alla crisi agraria del 1817, il Dandolo suggerisce agli imprenditori lombardi la bachicoltura come la più importante delle «industrie agricole riparatrici dei danni prodotti dall’avvilimento delle nostre granaglie». La fama delle “dandoliere” raggiunge le colline dell’Astigiano, il Bresciano e vaste zone del Veneto, in particolare del Veronese. Ne esistevano perfino a Mantova e nelle Marche4. G. COMPAGNONI, Memorie storiche relative al conte Vincenzo Dandolo e a suoi scritti, pp. LXVI ss. 4 A Mantova due bachicoltori, un certo Faustino Parenti, agente del dottor Locatelli, medico in Milano, e l’avvocato Antonio Nobis acquistano le sementi del Dandolo e poi applicano i suoi metodi di allevamento, così come fanno anche nelle Marche, a Loreto, il marchese Solari e la signora marchesa Matilda, sua moglie. Vedi VINCENZO DANDOLO, Sulle cause dell’avvilimento delle 3
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Anche l’Accademia dei Georgofili partecipa a questo clima culturaleproduttivo inviando a proprie spese nel 1817 un giovane apprendista alla bigattiera del Dandolo a Varese e pubblicando l’anno seguente sugli «Atti» un’accuratissima relazione dell’allievo. In conseguenza di tale attività «promozionale» cominciano a spuntare anche in Toscana nuove bigattiere, munite di stufe, termometri e igrometri, così come il Dandolo prescrive: primo su tutti Giovanni Zauli di Modigliana, segue Raffaello Lambruschini a S. Cerbone5, quindi il conte Roncioni a Pugnano6 e dopo di lui molti altri, tra cui Cosimo Ridolfi nella fattoria di Bibbiani7. In linea con le indicazioni del Dandolo, la bigattiera di Pugnano dispone di tre camini angolari e di sfogatoi posti sotto ad ogni finestra che affaccia sul retro (presumibilmente ne erano state disposte alcune anche in copertura: di queste però non ne rimane traccia alcuna a seguito del rifacimento del tetto, nel 2002. Due stufe, acquistate nel 18278, sono collocate nelle due Sale che fiancheggiano la Sala di Rappresentanza al piano terra, «per riscaldar la medesima (bigattiera) a vapore, secondo il sistema di Tomas Tredgold9». «La stufa diventa preziosa tutte le volte che raffreddandosi molto l’aria esterna non sarebbe facile coi soli cammini riscaldare e mantener caldo l’ambiente, o quando, per riuscirvi, si esigesse molta legna. Talvolta la sola stufa non basta, e convien accendere anche qualche cammino. Le stufe debbono essere ventilatrici, cioè debbono condurre nell’interno aria calda10». Nel 1827 la badia neogotica di Pugnano attira l’attenzione dei più vigili tra i contemporanei per l’allevamento «scientifico» del baco da seta. Negli anni seguenti tale attenzione non viene meno, perché, mentre si esaurisce un po’ ovunque la moda delle bigattiere, il conte Francesco Roncioni incomincia ad ampliare ed ammodernare la filanda, o meglio quelle poche bacinelle iniziali, poste negli stanzoni a pianterreno usati in inverno come serra per gli agrumi. Sempre dal «Giornale Agrario Toscano» si apprende che già nel 1828, il Roncioni non si limita a “trarre” i bozzoli da lui prodotti, ma ne compra al mercato di Pontedera, «pagando assai cari i bozzoli nostre granaglie e sulle industrie agrarie riparatrici dei danni che ne derivano, p. 36 e p. 41. LAMBRUSCHINI RAFFAELLO, Seme di bachi della bigattiera di S. Cerbone. Avviso, Giornale Agrario Toscano, vol. III, 1829, pp. 328. 6 LAMBRUSCHINI RAFFAELLO, D’una nuova bigattiera del sig. cav. Francesco Roncioni, Giornale Agrario Toscano, vol. I, 1827, pp. 387-397. 7 LAMBRUSCHINI RAFFAELLO, Sui bachi della china, e sopra una nuova bigattiera del sig. marchese Ridolfi, Giornale Agrario toscano”, vol. IV, 1830, pp. 422-436. 8 Archivio di Stato di Pisa, Acquisto Roncioni, inventario 135, Ricevuta del 17 Febbraio 1827 firmata da Angiolo Cecchi. 9 GHERARDESCA ALESSANDRO, Album dell’architetto e dell’ingegnere, del paesista e del pittore, del giardiniere e dell’agricoltore, del meccanico & c., in nota alla tavola IX, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002. 10 VINCENZO DANDOLO, Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere, tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818 p.18. 5
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PARTE PRIMA
buoni e rifiutando affatto i cattivi»11. Nel 1831 nella filanda non si lavora col metodo di trattura tradizionale in Toscana ma col più avanzato procedimento “alla piemontese”; un meccanismo centralizzato per far girare gli aspi. Il direttore della lavorazione, scelto personalmente da Francesco Roncioni, viene, non a caso da Pescia, una delle città toscane nella quale l’industria serica ha più lunga tradizione ed anche più solido e recente sviluppo. Famosa la filanda degli Scoto a Pescia, innovativa nel suo uso di macchine a vapore nella filatura dei bozzoli12. Nei decenni successivi la trattura conosce un notevole sviluppo. Nel 1850, secondo la Statistica Industriale compilata da Filippo Corridi, è la maggiore trattura tra le tre attive nel compartimento pisano (Orlandini a Capannoli e Grassi a Pisa) ed impiega da 40 a 60 addetti per i due o tre mesi l’anno nei quali si concentra la lavorazione.
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Alla fine dello stesso decennio, in un’altra e più accurata rilevazione statistica compiuta da Attilio Zuccagni Orlandini, risulta che l’impianto lavora annualmente intorno alle 45.000 libbre (circa 150) di bozzoli: è, dunque, una delle dieci maggiori filande della Toscana, la più grande al di fuori del territorio di Pescia13. Le bacinelle in attività erano 40, come si può dedurre dalla quantità di bozzoli lavorati e come risulta anche da una terza rilevazione statistica, di pochi anni posteriore alla precedente, la quale registra anche il passaggio dal fuoco diretto al vapore per il riscaldamento delle bacinelle. Questa innovazione va sottolineata, sia perché allora solo il 7% delle filande italiane aveva adottato il vapore, sia perché l’impianto richiedeva un investimento di capitale non indifferente. Le difficoltà di reperimento del personale tecnico necessario per l’ordinaria manutenzione dimostrano il carattere pionieristico di attrezzature di questo tipo, in una economia industrialmente arretrata come era quella pisana del tempo14. Da una lettera di F. Roncioni a Raffaello Lambruschini del 25 giugno 1828, riportata in Appendice a R. Lambruschini, Trattura a vapore del sig. Carlo Scoti a Pescia, in Giornale Agrario Toscano, tomo VII, (1828), p. 401. 12 LAMBRUSCHINI RAFFAELE, Corsa agraria, in Giornale Agrario Toscano, vol.V, 1831, pp. 226-7: «La filanda non è a vapore, ma a caldajette con fornello a legna. I naspi (piccoli) sono posti in movimento da un rotone situato al centro della filanda e mosso da un uomo. Alle caldaje è stata anche adattata la “brilla” Scoti-Nucci...» 13 A. Zuccagni Orlandini, Prospetto statistico del setificio nella Toscana granducale, in «Annali statistici del Granducato di Toscana» 14 Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Statistica del Regno d’Italia, Industria manifattrice.Trattura della seta nell’anno 1863, Torino 1864. Il Roncioni si servì per la costruzione e manutenzione dell’impianto a vapore di un “meccanico” livornese, Vincenzo Calegari; due altri filandieri dei dintorni, invece, che adottarono il vapore qualche anno dopo, ricorsero ad una importante ditta napoletana, la Guppy: nell’Archivio Privato Ruschi a Calci si conserva la corrispondenza con la ditta napoletana, dalla quale risulta che non sono reperibili in loco anche i più semplici pezzi di ricambio. 11
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Per un lungo periodo, tra gli anni ‘60 e ‘70, a Pugnano si produce un tipo di seta assai ricercata, ottenuta con bozzoli di razza gialla locale, assai rari in tutta Europa perché decimati da una malattia epidemica del baco da seta, la pebrina15. Per questo motivo, pur lagnandosi spesso per la non perfetta filatura (d’ostacolo alle successive lavorazioni), ricercano la seta Roncioni acquirenti di Londra, di Lione o di Torino: «Le vostre sete toscane, che supponiamo sieno ancora composte in buona parte di giallo, dovrebbero trovare facile sfogo presso i nostri torcitori piemontesi, i quali vogliono la merce più scelta...», scriveva nel luglio del 1870 la ditta Siccardi. L’abilità dell’imprenditore Francesco Roncioni si coglie, perciò, in due distinte ma ugualmente vincenti scelte: nell’aver intrapreso la strada della bachicoltura seguendo le indicazioni del Dandolo e nell’aver applicato al passaggio successivo della produzione, la trattura, tutte le innovazioni, seppur costose, introdotte con l’avvento delle macchine a vapore. Un colto ed informato imprenditore, un esteta, se risaltiamo le qualità architettoniche del manufatto-abbazia, questo è stato Francesco Roncioni.
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Malattia (detta anche atrofia parassitaria o mal delle petecchie) del baco da seta, che si sviluppò in forma epidemica prima in Francia, poi in Italia nella seconda metà del 19° sec.; in seguito si diffuse in ogni paese sericolo del mondo causando danni rilevanti. È provocata dalle spore del protozoo ciliato Nosema Bombycis (Mixozoo Microsporide Nosematide), ingerite dal baco con le foglie; le spore invadono tutti i tessuti, anche gli ovari e le uova, attraverso le quali la pebrina può trasmettersi alle larve. Sulle larve infette talvolta si notano macchie simili a pepe macinato (provenz. pebre), da cui il nome. 25
1.4
PARTE SECONDA
PARTE SECONDA Indagine storico – architettonica. 2
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2.1 IL CANTIERE.
In questo paragrafo si cerca di ripercorrere le fasi del cantiere della Bigattiera, dalle prime notizie sino alla sua realizzazione, ricostruzione ipotetica ma presumibilmente veritiera in quanto basata sui dati raccolti nell’Archivio di Stato di Pisa e sulle piante e le mappe catastali che coprono il periodo dal 1775 al 1924-1928, con particolare riferimento al catasto leopoldino redatto tra il 1819 e 1825. Il cantiere parte con l’idea di realizzare una limonaia. Il primo riferimento in merito al nuovo “stanzone1” del giardino risale al 30 Giugno 1824, «a nuovo stanzone del giardino £1000.19.8» a cui fa seguito la ricevuta del 6 Gennaio 1825 indicante i soldi «spesi nella costruzione del nuovo stanzone per gli agrumi2 della villa di Pugnano, non compresa la valuta dei materiali e la manodopera». Sembra perciò plausibile ipotizzare un avvio del cantiere intorno al 1824 con una primordiale idea di “serra per limoni” cui segue, solo successivamente, l’intento di realizzare, estendendo il fabbricato, una bigattiera padronale in riferimento alle nozioni e ai suggerimenti del conte Dandolo. È possibile inoltre ipotizzare che la limonaia è stata attestata ad un precedente fabbricato, già presente all’interno della tenuta, probabilmente un annesso rurale. Infatti, osservando attentamente le coperture dei due ambienti che vanno a costituire quella porzione aggettante sul retro rispetto al rettilineo corpo di fabbrica, notiamo che la falda dell’ambiente più grande è stata Il termine “stanzone” viene impiegato da Francesco Roncioni in diverse ricevute del periodo 1824-1832 in riferimento tanto agli ambienti del piano terra, quanto a quelli del primo piano della bigattiera. Lo stesso vocabolo viene impiegato dal Lambruschini nell’articolo del Giornale Agrario “D’una nuova bigattiera del sig. cav. Francesco Roncioni”, vol. I, 1827, pp. 387-397. 2 Archivio di stato di Pisa, inventario 135, Acquisto Roncioni, ricevuta del 6 Gennaio 1825. Si rimanda anche alle ricevute del 18 Gennaio 1825 «a nuove fabbriche £700 pagati alla fornace Pecori in conto di materia e calcina levata per il nuovo stanzone degli agrumi» e alla ricevuta del 6 Febbraio 1825 «Nuovo stanzone per gli agrumi £145». Archivio di stato di Pisa, inventario 135, Acquisto Roncioni. 1
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«A nuove fabbriche £1308.1.8 pagate a diversi muratori per opere per la costruzione della nuova Bigattiera»
PARTE SECONDA
appoggiata sulla trave di colmo dell’ambiente più piccolo, coprendo di fatto una delle due falde a capanna della precedente copertura a cui si è andata a sostituire. Cfr. il disegno schematico. La limonaia ha una configurazione a “L” discordante con il resto del fabbricato, ad andamento pressoché rettilineo fatta eccezione per la porzione centrale del prospetto posteriore della fabbrica dove, l’attestarsi di un edificio, ora ad uso abitativo, ha condizionato l’andamento dei muri confinanti tanto al piano terra, quanto al piano superiore: questi deviano e si inclinano per accogliere l’edificio confinante costruito qualche anno prima dell’apertura del cantiere (non configura nella pianta del 17753, ma compare insieme alla bigattiera nel catasto leopoldino redatto dopo il 18264). Il 4 Giugno 1825 compare a fianco del “nuovo stanzone degli agrumi” la dicitura “nuove fabbriche”5, espressione che ritorna anche nella ricevuta del 30 Giugno 1825; in quest’ultima, vengono documentate le spese relative alla “nuova fabbrica” e al “nuovo giardino inglese”6. Forse andrebbe fatto risalire proprio a tale data il progetto di Francesco Roncioni di aprirsi alla produzione e al commercio serico con l’istallazione, all’interno del parco romantico, di una bigattiera patronale e di stanze per la trattura della seta. Il “nuovo giardino inglese” dai tratti tipicamente pittoreschi realizza a distanza di cinquant’anni il progetto di sistemazione esterna, cfr. pianta del 1775, che il padre Angiolo7, non riesce a portare a termine pur inserendolo nella lista degli interventi di ampliamento e restauro da lui intrapresi nella tenuta di Pugnano. I lavori alla “nuova bigattiera e stanzone” iniziano nel Marzo 1826. In questa stessa data esce una pubblicazione del Gherardesca, “La casa di delizie…”, dove è riportato il progetto della bigattiera in costruzione. Un progetto dissimile solo in alcune porzioni: tali variazioni sono da ascriversi alle preesistenze, annesso rurale e edificio attestato sul retro, che hanno inevitabilmente condizionato i lavori e spinto il progettista ad introdurre delle varianti al disegno iniziale. Inoltre, si ha testimonianza di una raccolta di bachi e della loro successiva trattura. Non essendo, in tale data, ultimata la costruzione della sala dei bigatti, si fa riferimento ad un allevamento Archivio di stato di Pisa, inventario 135, Acquisto Roncioni, Pianta c.a 1775, coll. 296. Consultabile on line http://web.rete.toscana.it/castoreapp/ comune di San Giuliano, comunità Bagni San Giuliano, sezione G Ripafratta e Pugnano, Foglio 2. 5 Archivio di stato di Pisa, inventario 135, Acquisto Roncioni, Ricevuta del 4 Giugno 1825 - «a nuove fabbriche £700- Contanti pagati a Francesco Pecori in conto di materiali levati dalla fornace fuori porta alle Piagge per il nuovo stanzone degli agrumi». 6 Archivio di stato di Pisa, inventario 135, Acquisto Roncioni, Ricevuta del 30 Giugno 1825 «Al nuovo giardino inglese £487. Alla nuova fabbrica £2304.5». 7 Angiolo (1748-1812), padre di Francesco, è stato il tipico esponente dell’aristocrazia illuminata settecentesca, studioso e viaggiatore, raccoglitore di centinaia di volumi delle opere recenti più recenti e collezionista di antichità e manoscritti. Si deve a lui l’avvio del radicale restauro della villa di Pugnano sotto la guida dell’ingegner Niccolai nel 1770. 3 4
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destinato alle case dei coloni che orbitano attorno alla tenuta di Pugnano e con trattura negli stanzoni degli agrumi. Lo stesso Lambruschini, nell’articolo del Giornale Agrario Toscano D’una nuova bigattiera del sig. cav. Francesco Roncioni, scrive: «Il sig. cav. Roncioni, persona che ad un vivo zelo per l’introduzione delle utili novità unisce non solamente l’istruzione, ma quella sagacità circospetta, e quel talento di esecuzione che fanno riuscire le intraprese, ha avuto la lodevole idea di dirigere a due utili oggetti un nuovo abbellimento della sua già bella villa di Pugnano. In una fabbrica di gusto gotico rappresentante un’antica abbazia, ha ricavato a pian terreno due stanzoni dove nell’inverno si ripongono gli agrumi, e in estate si tira la sera. Al primo piano è la bigattiera, sommamente ariosa, e illuminata, capace di contenere i bachi di 8 circa once di seme. Essa non è ancora affatto finita; e per primo anno il sig. cavaliere si è giudiziosamente contentato di allevarvi solo tre once scarse di bachi»8. La copertura della sala dei bigatti è realizzata in travi d’abete: si registrano «l’acquisto di 9 travi di legno da Antonio Pignatti», «7 travi di abete», «al sig. Lorenzo Bini per valuta di n. 8 travi di abeto», «a detti per segatura di braccia 8, 12 tavolacci di abeto a £1.10»9. Nel mese di aprile vengono acquistate ingenti quantità di gesso e chiodi per centine a prova dell’inizio dei lavori attinenti alla sala di rappresentanza e ai due catini absidali. I catini e la volta realizzati con mezzane disposte in folio richiede, infatti, un legame a presa rapida e, a questo scopo viene impiegato il gesso. «Valuta di libbre 7 di chiodi per le centine» (31 Marzo 1826), «Valuta di libbre 5 di chiodi» (4 Aprile 1826), «Valuta di libbre 4 di chiodi e carreggi di mattoni» (15 Aprile 1826), «Valuta di libbre 2 di chiodi per centine» (30 Aprile 1826)10. Il 23 Maggio 1826 si registra l’acquisto di 4500 mezzane impiegate per pavimentare la sala dei bigatti al piano superiore: operazione che richiede l’ultimazione degli elementi architettonici sottostanti. Nello stesso mese vengono acquistati pezzi di marmo di spoglio provenienti dal cantiere del convento di San Francesco e dal palazzo Pretorio di Pisa impiegati dal Gherardesca nelle colonnine delle bifore del secondo piano e per i davanzali dei finestroni del primo ordine. «al Gherardesca per valuta di braccia 6 di marmo usato dal pretorio a £1 1/3 al braccio» (3 Maggio 1826), «Valuta di pezzi di marmo antico prelevato dal convento di S. Francesco di Pisa…» (31 Maggio 1826), «Dato ai Fangioli che lavorano i marmi LAMBRUSCHINI RAFFAELLO, d’Una nuova bigattiera del sig. Cav. Francesco Roncioni, Giornale Agrario Toscano, vol. I, 1827. 9 Archivio di Stato di Pisa, inventario n.135, acquisto Roncioni, ricevute del 3 Maggio 1826, del 15 Maggio 1826, 31 Maggio 1826. 10 Ricevute conservate nell’archivio di Stato di Pisa, inventario n. 135, Acquisto Roncioni. 8
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2.1
PARTE SECONDA
di Pisa» (31 maggio 1826)11. Il cantiere procede con la realizzazione dell’ala Sinistra, che avanza parallela alla decorazione ad affreschi della sala di rappresentanza (come testimoniano gli acquisti di “careggia di rena”, libbre di gesso e la colla di cacio, caseina). L’ala sinistra è concepita dal committente Roncioni come magazzino per i bozzoli «un altro stanzone simile che serve in inverno al medesimo uso (filanda), fa in questa stagione da magazzino di bozzoli»12. Il 10 Aprile 1828 si registra l’acquisto di un termometro. I valori termo-igrometrici sono fondamentali in un ambiente come quello destinato all’allevamento dei bachi. Tali valori hanno condizionato alcune soluzioni formali e architettoniche come la disposizione dei caminetti in tre angoli dello stanzone al primo piano, le stufe istallate nelle stanze affianco alla sala di rappresentanza, i numerosi sfiatatoi posti sotto le finestre che affacciano sul retro. «Alla fabbrica Gignori per valuta di due stufe, pagate al Cecchi» (17 Febbraio 1827), «paga 4 quadroni e 2 caminetti13 (30 Marzo 1827)14. Nell’anno 1829 la bigattiera risulta quasi terminata. Si effettuano le ultime operazioni di finitura: affreschi, pavimentazioni…Dal 30 Marzo alla fine di Agosto si registrano i pagamenti al Braschi di varie tinte tra cui si rilevano: terra d’ombra bruciata, terra gialla di Siena, Giallorino, Terra gialla chiara fatta macinare apposta, terra verde di Siena, nero di chioma, nero di brace, terra gialla, arancione. Gli affreschi della Bigattiera si devono probabilmente al Braschi e al Crespoloni fatta eccezione per il gruppo di Statue e dei putti che sostengono lo stemma Roncioni sicuramente opera del Tempesti (a cui si devono diversi interventi nella villa di Pugnano. «Acconto di £40 al Braschi del lavoro che vado facendo alla fabbrica di Pugnano» (24 Aprile 1829), «Al Braschi e al Crespoloni per le facciate» (30 Giugno 1829), «Al Tempesti per pittura delle statue e altro…» (30 Giugno 1830)15. Il pavimento in lavagna e marmette di Serravezza viene posato nell’agosto del 1829, mentre il cantiere si chiude con l’istallazione degli infissi nel 1842.
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Cfr nota 9. A CURA DEI REDATTORI DEL GIORNALE AGRARIO TOSCANO, Corsa Agraria, Giornale agrario Toscano, n.19, 1931. 13 Consigliati dal Lambruschini perché i caminetti costruiti in “quadroni” rendono l’aria meno secca. 14 Cfr nota 9. 15 Ricevute conservate nell’archivio di Stato di Pisa, inventario n. 135, Acquisto Roncioni. 11 12
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2.2 IL REIMPIEGO DI MARMI DEI CONVENTI DI S. FRANCESCO E S. CATERINA.
Per capire la pratica del reimpiego di materiali di spoglio nelle opere «Da anni giacevano da un del Gherardesca, è bene introdurre un breve excursus del contesto lato della piazza pregevoli storico-culturale all’interno del quale tale attività si inserisce. avanzi di monumenti sepolcrali ricordanti illustri ed Negli anni in cui Alessandro Gherardesca inizia i lavori di ristrutturazione “romantica” del parco Roncioni a Pugnano, i bagni di antiche famiglie pisane, Pisa, l’attuale San Giuliano Terme, sono meta prediletta delle élites gettati là, qual vile ingombro». intellettuali non solo pisane, ma di tutta Europa. Particolarmente Simoni significativa è la presenza dei massimi esponenti del Romanticismo inglese del Gothic Revival; tra il 1820 e il 1821 vi soggiornano, infatti, Percy e Mary Shelley, accompagnati dagli amici del Pisan Circle, tra cui Lord Byron, chiamato a Pisa da Shelley, Edward e Jane Williams, che trascorrono a Pugnano l’estate del 1821, Claire Clairmont, sorellastra di Mary amata da Percy, e John Taaffee, esiliato irlandese che proprio i questi anni scrive una traduzione e un Comment on Dante1. È opportuno evidenziare il legame tra le anticipazioni neogotiche di Gherardesca e le teorizzazioni degli architetti inglesi di alcuni decenni precedenti; a poca distanza da villa Roncioni, Percy e Mary Shelley scrivono alcune delle loro più intense opere romantiche: liriche come “The boat on the Serchio” e “The Aziola”, ispirate alle gite in barca sul canale che collega il Serchio all’Arno. “Classico” e “romantico” convivono nelle opere del Gherardesca, come d’altronde anche l’utilizzazione frequente di elementi di spoglio medievali, ricavati dagli edifici religiosi recentemente soppressi associati a forme e decori rinascimentali “neoghibertiani” o “neoclassici”. Nel parco di Villa Roncioni troviamo: la Bigattiera con filande, straordinaria quinta scenica in forma di abbazia gotica sul lato sinistro della villa; la cappella, costruita con edicolette 1
A san Giuliano Terme gli inglesi si recano in barca, partendo dall’attuale piazza delle Gondole, lungo il canale che collega il Serchio all’Arno. Nel piccolo borgo termale gli Shelley risiedono una prima volta tra l’estate e l’autunno del 1820, in Casa Prini. 33
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tratte da monumenti funebri trecenteschi, anch’essa di spiccato gusto neogotico; e la facciata neoclassica del Ninfeo, posto dietro alla Villa. Nascoste tra la vegetazione del parco si trovano, infine, le strutture di un castello non completato, il cosiddetto Castello Manfredi, «che doveva assurgere al ruolo di maniero a scala ridotta con forte suggestione romantico-cavalleresca2». Per capire a fondo la questione dei reimpieghi medievali è opportuno introdurre la figura di Angiolo Roncioni e quella di suo figlio Francesco Roncioni. Il padre di Francesco, Angiolo (1748-1812), rappresenta il tipico esponente dell’aristocrazia illuminata settecentesca, studioso e viaggiatore, raccoglitore di centinaia di volumi delle opere più recenti e collezionista di antichità e manoscritti3. Si deve a lui l’avvio del radicale restauro della villa di Pugnano sotto la guida dell’ingegner Niccolai nel 1770. Avventuroso giramondo e uomo dai mille interessi, il giovane Cecchino (1789-1864) eredita dal padre anche gli ideali libertari: negli anni in cui in Toscana si diffondono le società segrete, favorite dalla fitta trama spionistica inglese, Francesco aderisce alla Carboneria, tra i cui sostenitori c’è notoriamente Lord Byron. Come risulta da alcuni documenti, il Roncioni è attivista della Giovine Italia, seppure per breve tempo, tra il 1830 e il 1831. Nella villa di Pugnano si fa peraltro propaganda, con riunioni segrete di liberali pisani e lucchesi e con la diffusione de “Il precursore”. Francesco finisce poi per uniformarsi alle scelte già seguite da molti altri intellettuali e patrioti toscani, che, dopo inutili tentativi insurrezionali, preferiscono rinunciare all’azione diretta per dedicarsi ai viaggi, soprattutto in M.A. GIUSTI, Le terme e le ville i luoghi di delizia del territorio di San Giuliano Terme, in San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990. 3 Lo straordinario fondo archivistico della famiglia, denominato Archivio Roncioni, ha subito negli anni alterne vicende, che hanno condotto infine al suo smembramento e alla conseguente perdita di molti dei suoi documenti. Una parte dell’archivio si trova attualmente depositato presso l’Archivio di Stato di Pisa (ASP, Acquisto Roncioni), contenente in maggioranza materiale relativo ai secoli XIII - XVIII e pochissime filze ottocentesche. Un’altra parte costituita manoscritti medievali e di un esiguo carteggio di Francesco Roncioni, si trova presso la biblioteca Universitaria di Pisa. 2
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2.2
Francia e in Gran Bretagna. Sembra, quindi, alquanto probabile che Alessandro Gherardesca conoscesse, direttamente o indirettamente attraverso l’aggiornata biblioteca paterna, il parco romantico di Strawberry Hill, straordinaria residenza neogotica che Horace Walpole (1717-1797) si fa costruire a partire dagli anni Cinquanta del Settecento. L’abbandono della simmetria dei giardini neogotici dell’architetto William Kent e l’adozione di modelli architettonici ecclesiastici anziché profani, con intenti di fedeltà archeologica, ad opera dell’architetto James Essex, inducono ad un confronto con il Parco Roncioni di Pugnano. In particolare, un elemento mostra stringenti e non casuali analogie: la Cappella, costruita nel bosco anche a Strawberry Hill con un prospetto che riprende il coronamento di un monumento funebre, e il reimpiego, all’interno, dei frammenti di un importante tabernacolo medievale. Questi frammenti provengono dal celebre Tabernacolo delle reliquie, già in Santa Maria Maggiore a Roma, acquistati nel 1768 da Sir William Hamilton per farne dono a Walpole4. Comune al Roncioni e al Gherardesca, entrambi giacobini, è l’esperienza del Musèe des Monuments Français di Alexandre Lenoir a Parigi. Qui, dal 1799, il parco dell’ex convento dei Petits Augustins viene convertito in eliseo dedicato ai monumenti funebri dei grandi personaggi storici francesi, indirizzandovi frammenti di sepolcri medievali provenienti da chiese e conventi soppressi. Anche il parco romantico di Villa Roncioni risulta costellato di statue 4
Nel 1768 Sir William Hamilton (1730 - 1803), rappresentante diplomatico inglese a Napoli, acquista alcuni pezzi del tabernacolo e ne fa dono a Horace Walpole (1717 - 1797) per la sua residenza neo-gotica di Strawberry Hill. In un primo momento Walpole pensa di utilizzarli per un caminetto, ma nell’Ottobre 1771 decide di destinarli al tabernacolo della cappella in costruzione nel bosco. Nel 1842 Strawberry Hill e i suoi arredi vengono venduti all’incanto e, a differenza di altri lotti, acquistati da un mercante antiquario di nome Webb, che li espone nella sua galleria al n. 8 di Old Bond Street fino al 1852, anno in cui cessa la sua attività e dona la collezione al Victoria and Albert Museum; il tabernacolo finisce a Wilton, Wiltshire, dove viene incorporato nella chiesa costruita da T. H. Wyatt nel 1844. Il disegno, cfr immagine, è presumibilmente realizzato in occasione di uno dei numerosi soggiorni di John Talman a Roma, documentati dall’aprile 1710 fino al febbraio 1717.
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antiche, quali il sarcofago strigilato scavato da Antonio Roncioni a San Rossore5. Si cerca di indagare l’identità dei frammenti medievali impiegati nel parco di Pugnano a partire dalle vicende degli smembramenti dai relativi complessi di appartenenza, fino a risalire, a ritroso, alla definizione storico-artistica dei manufatti. Punto di partenza è rappresentato dalle generiche note del conservatore Carlo Lasinio sulle vendite di «marmi vecchi» del convento di San Francesco ai nobili Pesciolini, Roncioni e Toscanelli e le sintetiche descrizioni contenute nella “Casa di delizia” di Gherardesca. Nella nota alla tavola relativa alla Bigattiera con filande presso villa Roncioni si fa riferimento «all’utilizzazione di frammenti di antiche sculture dei bassi tempi», nell’ultima relativa alla scenografia della Sala terrena della bigattiera del Nobile Signor Cavaliere Francesco Roncioni, già espressa con la tavola IX, si avverte che nell’atto dell’esecuzione è stata variata la forma dell’ingresso, avendovi impiegata un’antica Porta ornata di Sculture della Scuola di Niccola da Pisa6.
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A monte di tali reimpieghi, partendo dalle vicende che portano all’acquisizione e alla ricollocazione dei pezzi medievali, possiamo riscontrare le soppressioni lorenesi e napoleoniche degli ordini monastici (1786 e 1808-1810). È in tale occasione che si intensifica la raccolta di materiali antichi appartenenti alle principali chiese medievali pisane. Il camposanto monumentale diviene la sede privilegiata, una sorta di “museo della patria”, in cui raccogliere sculture e frammenti antichi, i cosiddetti “marmi vecchi”. Essi vengono considerati “reliquie” del passato vetusto della Repubblica pisana, testimonianze valide di per sé, delle scuole scultoree locali e dei grandi nomi di artisti, da Biduino a Giovanni Pisano. I nobili Pesciolini, Roncioni, Toscanelli e Prini Aulla contribuiscono alla raccolta fornendo indicazioni al Lasinio e procurando opere provenienti dalle proprie collezioni di antichità, nascoste negli orti cittadini; acquistano, inoltre, essi stessi opere, per arricchire di memorie storiche i giardini che vanno ristrutturando secondo il nuovo gusto romantico e pittoresco, come abbiamo visto, già ampliamente diffuso in Inghilterra. Poco è l’interesse alla provenienza dei pezzi e alla loro eventuale ricomposizione nei complessi di appartenenza. In questo quadro, particolarmente sfortunate risultano le vicende del convento di San Francesco, destinato a partire dal 1799, prima ad ospedale poi a caserma, e divenuto infine, un’enorme cava di marmi lavorati. Anche gli stessi monumenti funebri, tanto del convento di San Francesco quanto di quello di Santa Caterina a Pisa, vengono TAGLIOLINI ALESSANDRO, Il giardino italiano nell’Ottocento, nelle immagini, nella letteratura, nelle memorie, Guerini e Associati, Vicenza, 1990 p. 235. 6 A. GHERARDESCA, La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002, cit. tavola IX e LX. 5
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sottoposti a manomissioni ed espoliazioni. Il 26 maggio del 1826 si registra la ricevuta di pagamento al ministro provinciale dell’Ordine, Giuseppe Martellini, per «compra di marmi vecchi a lui rilasciati e consegnati7». Si legano a questo pagamento anche le ricevute, appartenenti all’Acquisto Roncioni, del 26 Maggio 1826 «Valuta di diversi pezzi di marmo antico prelevato dal convento di S. Francesco di Pisa…» e del 31 Maggio 1826, «Dato ai Fangioli che lavorano i marmi di Pisa…»8. Resta traccia della cappella neogotica del parco romantico di Pugnano, dove le edicole cuspidate, materiale di spoglio, individuano sul prospetto una specie di scenografia teatrale; non resta, invece, alcuna traccia della «Porta ornata di sculture della Scuola di Niccola di Pisa» reimpiegata all’ingresso della Bigattiera. Si presume che le edicole impiegate nella cappella Roncioni provengano dal monumento funebre, che si trovava a lato della facciata di San Francesco, come documenta un’incisione di Ferdinando Fambrini. Nel prospetto della cappella sono riconoscibili l’edicola a quattro colonne, anche se frammentaria, e l’altra, singola, posta su mensole, che funge da cella campanaria, oggi scomparsa9. È lo stesso Gherardesca a rendere noto il reimpiego di «una antica Porta ornata di sculture della Scuola di Niccola di Pisa», nell’ingresso della Bigattiera. Si può, dunque, ipotizzare che il Roncioni abbia attinto ai marmi del distrutto portale gotico della chiesa di San Francesco, che da almeno due secoli giacevano nei depositi del convento, considerando che la facciata è stata rifatta all’inizio del Seicento, come ricorda Alessandro Da Morrona. Non si scarta neanche l’ipotesi che alcuni rilievi provengono da monumenti funebri, anticamente presenti nel chiostro o nel cimitero del convento. Questi spazi subiscono, infatti, pesanti manomissioni a partire dalla seconda metà del Quattrocento, quando viene edificato il chiostro attuale in sostituzione di quello due-trecentesco. A questo proposito, citando le vendite di marmi vecchi ai nobili pisani, il Simoni menziona quelli che «da anni giacevano da un lato della piazza di San Francesco […] pregevoli avanzi di monumenti sepolcrali ricordanti illustri ed antiche famiglie pisane, gettati là, qual vile ingombro, fino da quando volessi attuare l’insano progetto di manomettere il magnifico chiostro interno e di convertire in piazza il cimitero da secoli estinto davanti alla chiesa»10. Le vicende dell’altro importante convento mendicante di Pisa, quello domenicano di Santa Caterina, coinvolgono il secondo caso 7 8 9 10
MARTELLI, Il monumento sepolcrale, pp.24-25. Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 135, Acquisto Roncioni. Come riscontrava E. TOLAINI, Le città nella storia, Pisa, 1992, p. 147-148. D. SIMONI, Medaglioni storici pisani, Pisa, 1932, pp.157-158. 37
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macroscopico di reimpiego medievale nel territorio di San Giuliano. La sorte della chiesa e del convento di Santa Caterina è stata in realtà assai diversa da quella del complesso di San Francesco. In seguito alle soppressioni leopoldine del 1785, il convento domenicano viene trasformato in seminario arcivescovile e la chiesa viene eretta a parrocchia. Qui, inoltre, nel 1828-1830 officia il clero della Primaziale, essendo chiusa per restauri la cattedrale. Tali circostanze fanno sì che la chiesa e il convento conservino in gran parte i propri arredi. Per far posto al nuovo seminario viene distrutto l’ampio chiostro, di cui resta oggi in situ solo qualche frammento. È presumibile che alcuni frammenti del cantiere siano giunti, tramite acquisti da parte del Gherardesca, nella villa e recuperati secondo la pratica del pastiche compositivo tipico di questa fase storica, che si identifica con un vero e proprio revivalismo storico.
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2.3
2.3 PROGETTO E REALIZZAZIONE A CONFRONTO.
Dal confronto del rilievo effettuato con il progetto pubblicato dallo stesso architetto progettista, Alessandro Gherardesca nel suo volume “La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere”, emergono non evidentissime ma copiose variazioni, in corso d’opera, tanto in pianta quanto in alzato.
«...avvertendo che nell’atto dell’esecuzione è stata variata la forma dell’ingresso, avendosi impiegata una antica porta ornata di sculture della scuola di Niccola da Pisa»
La prima differenza che si riscontra riguarda il portone d’ingresso e la sovrastante apertura centrale. Nel disegno del Gherardesca è un portone a tutto sesto, ornato da sculture, che invita all’ingresso e conduce alla sala di rappresentanza. Di fatto, però, viene realizzato un portale di dimensioni ridotte, a sesto acuto, affiancato da due aperture concepite per ospitare due statue di crociati in cotto, andate perdute.
A. Gherardesca
Si tratta della «antica porta ornata di sculture della scuola di Niccola da Pisa» cui il Gherardesca fa riferimento nella nota alla tavola LX del suo volume “La casa di delizia…”. Al piano superiore, allineate al portale d’ingresso, due finestre trilobate sostituiscono il finestrone a sesto acuto previsto da progetto. Tale variazione introduce una valorizzazione estetica dal punto di vista decorativo: le due aperture, infatti, vengono raccordate da un rosone, a richiamare i rosoni posti sul frontone delle aperture laterali con l’intento di volerle evidenziare. Una variazione dimensionale investe, invece, gli accessi alle ali laterali. I portoni risultano, in fase realizzativa, dilatati e accentuati rispetto alle aperture del progetto. La guglia centrale, oltre a presentarsi più accentuata, rispetto a quella precedentemente prevista dall’architetto, dal punto di vista dimensionale, presenta anche una diversa caratterizzazione stilistica gradonata e non più comprensiva di ornati marmorei. 41
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Il trattamento decorativo del prospetto, subisce una profonda rivisitazione: le ali, trattate presumibilmente a graffito, subiscono una scansione verticale che contrasta con l’andamento orizzontale del corpo centrale, sottolineato da un’articolazione bicromatica a fasce orizzontali. In fase realizzativa, invece, si finisce con l’adottare un trattamento omogeneo esteso all’intero prospetto. Nelle ali, degli archetti a graffito di color arancione coronano le grandi finestre emulando gli archetti che coronano le grandi finestre centrali. Nel disegno di progetto Alessandro Gherardesca, prevede un trattamento bicromatico delle paraste e del corpo centrale; soluzione che non trova corrispondenza in fase realizzativa. Si opta per decorazioni policrome a graffito ad imitazione di conci in pietra squadrata. Gli archetti pensili decorativi, al di sotto del cornicione di coronamento delle ali, si interrompono, nel progetto, in corrispondenza delle paraste più esterne del corpo centrale. In fase realizzativa, invece, initerrotti, proseguono e corrono, senza soluzioni di continuità, sotto il cornicione marcapiano del corpo centrale. Nel disegno, a richiamare le maschere in cotto degli archetti delle bifore dell’ordine superiore, delle teste accordanogli archi a tutto sesto delle aperture inferiori; nella realizzazione, però, si perdono restando solamente le otto teste del piano superiore. In linea con gli ornamenti decorativi marmorei delle guglie, i davanzali dei finestroni del primo ordine, nel progetto, presentano un trattamento decorativo più raffinato e curato rispetto a quelli poi effettivamente realizzati. Questa variazione è diretta conseguenza del reimpiego dei marmi provenienti dai conventi di S. Francesco e S. Caterina a Pisa. Nel progetto del Gherardesca, un più raffinato trattamento, è riservato al coronamento delle paraste del corpo centrale: nella bigattiera realizzata, le paraste corrono senza soluzione di continuità, fin sotto il cornicione di coronamento, accogliendo, al secondo piano, delle statue, previste inizialmente a coronamento dei pinnacoli (al cui posto sono stati installati gigli decorativi). Anche il coronamento del corpo centrale, a mascherare le falde a capanna retrostanti, trova, in cantiere, un trattamento più semplice e geometrico di quello previsto da progetto. Anche le guglie, in fase di realizzazione, subisco un trattamento semplificato rispetto a quanto ipotizzato in fase progettuale: vengono a mancare le decorazioni marmoree. A livello di pianta, da progetto il Gherardesa prevede una sala di rappresentanza di impianto quadrato con vestiboli triangolari, ai lati 42
dell’arcone di ingresso, che introducono ai due scaloni simmetrici, posti sul retro dell’edificio, per l’accesso al piano superiore. La sala di rappresentanza realizzata, molto più dilatata e rettangolare, perde la simmetricità di progetto. Solo una scala, sulla destra della sala conduce al piano superiore e non trova una sua corrispettiva a sinistra. La simmetria resta, però, nelle stanze poste dietro ai catini absidali del salone d’ingresso: stanze di servizio contenenti caldaie per scaldare a vapore la sala superiore allestita per l’allevamento dei bigatti. Le campate prossime al corpo centrale, subiscono, in entrambe le ali, una variazione dimensionale: i due ambienti frammentati da un arco a tutto sesto, previsti da progetto, vengono sostituiti, in fase realizzativa, da un unico ambiente, più spazioso e grande delle campate limitrofe, che, invece, si ripetono modulari. Tutte le campate dell’ala di destra risultano più strette, se confrontate, a quelle di sinistra. Variazione dettata dalla decisione, presa a livello di cantiere, di annettere alla bigattiera un vecchio manufatto, probabilmente una rimessa, che il Gherardesca ingloba e preserva dalla demolizione. La simmetria d’impianto, prevista nella fase preliminare, non trova riscontro in cantiere. L’intera ala destra, oltre alla variazione dimensionale in fase di realizzazione, perde la connotazione a stecca per assumerne una ad “L”. Si decide di preservare, inglobandolo, un vecchio annesso agricolo con copertura a falda presente all’interno della tenuta prima dell’inizio dei lavori, databile intorno al 1824; aggiunta che modifica di fatto l’impianto previsto dal Gherardesca nell’idea di progetto pubblicata nel volume “La casa di delizia”.
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PARTE SECONDA
DISEGNO A. GHERARDESCA
tratto dalla pubblicazione “La casa di delizia, il giardino e la fattoria”
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RILIEVO
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2.4 ABBAZIA O MANUFATTO PRODUTTIVO? ELEMENTI E STILEMI NEOGOTICI.
Da una stima sommaria delle differenze riscontrate in fase cantieristica rispetto al progetto iniziale1, si evidenzia una complessiva variazione stilistica: una meno evidente caratterizzazione neogotica rispetto al disegno iniziale, quasi a voler rispettare, in corso d’opera, la tipologia produttiva piuttosto che richiamare, in maniera lampante, un edificio ecclesiastico, una abbazia. Ad una lettura meno forzata, è probabile che questioni economiche dettate dalla volontà di risparmio spieghino le variazioni introdotte in cantiere. Alessandro Gherardesca rinuncia, in riferimento al disegno di progetto, ad una serie di elementi puramente decorativi che avrebbero contribuito ad enfatizzare la già evidente caratterizzazione neogotica della Bigattiera con Filande: a 8 colonnine marmoree (previste a coronamento delle paraste, d’appoggio alle guglie terminali), al trattamento bicromatico, agli ornamenti marmorei delle guglie centrale e laterali, alle dentellature dei conci dei davanzali delle grandi finestre del primo ordine e alle maschere previste fra le imposte d’arco dei sei finestroni a tutto sesto del corpo centrale. Tuttavia la veste neogotica dell’edificio, seppur depurata, porta ad associare, immediatamente, l’opificio ad una cattedrale: «è indubbiamente un’opera singolare ed importante, in quanto rappresenta forse il primo esempio italiano di applicazione di stilemi neogotici ad una tipologia manifatturiera. Questo notevole reperto di archeologia industriale in sembianze “di antica abbazia” (che sarebbe opportuno salvaguardare dalla progressiva ruderizzazione) compone “un quadro grandioso con le coltivazioni che rivestono il pittoresco andamento delle falde del monte, col contiguo bosco, e ben “ordinato giardino” e, proprio dalla parte prospiciente il prato su cui prospetta anche la villa, la facciata della bigattiera presenta gli elementi di caratterizzazione che non lascerebbero supporre la destinazione d’uso, ossia il corpo di fabbrica mediano traforato 1
Per approfondimenti cfr. paragrafo 2.3 Parte Seconda pp.41 47
« è indubbiamente un’opera singolare ed importante, in quanto rappresenta forse il primo esempio italiano di applicazione di stilemi neogotici ad una tipologia manifatturiera». A. Gherardesca
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di bifore, decorato di statue di terracotta e coronato al centro da una cuspide memore, in qualche modo, di quelle absidali della chiesetta di S. Maria della Spina a Pisa. Anche l’ornamentazione della sala d’ingresso alla bigattiera, come si può dedurre dalla prospettiva disegnata dal Gherardesca2, tendeva a dissimulare, con le apparenze di un decoro di rappresentanza, la vera funzione della fabbrica, facendo intuire la realtà di un originario rapporto di lavoro a conduzione familiare e paternalistica»3. Si individuano sul prospetto principale, che dà sul parco romantico, una serie di stilemi tipicamente neogotici, in particolare: - i pinnacoli traforati che fanno da cappello alle paraste giganti del corpo centrale sovrastati da gigli decorativi; - guglia centrale a gradonata con rosone e bassorilievo scultoreo in cotto; - guglie sopra i portoni lignei di ingresso alle ali inquadrate da gruppi di statue in terracotta; - rosoncini marmorei delle finestre del primo ordine; - finestroni centrali con rosone al primo livello del corpo centrale; - fasci di colonnine ai lati dei due portali d’ingresso alle ali della Bigattiera. L’effetto scenografico, e quindi effimero, rappresenta una vera e proprio cifra stilistica all’interno delle opere del Gherardesca: si portano ad esempio il casino di caccia nel parco della villa Scotto-Corsini a Crespina, un revival feudale per i soggetti delle illusioni prospettiche raffigurate in facciata e anche per i connotati dell’ambiente interno dell’armeria con quadrature che propongono scenari medievali; il progetto della «facciata postica» per la scuola nel giardino Puccini4, indirizzato ad assecondare il convincimento del committente (patrizio pistoiese, filantropo e patriota) che la lezione della storia e l’esempio dei ‘grandi defunti’ potevano essere strumentalizzati a fini propagandistici ed educativi. La costruzione a Padova, del Pedrocchino di Giuseppe Jappelli, indicato di solito come “il manifesto” architettonico del neogotico Cfr A. GHERARDESCA, La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002, TAV LX. 3 CRESTI CARLO, La Toscana dei Lorena: politica del territorio e architettura, Banca Toscana, 1987 pp. 158-159. 4 A. GHERARDESCA, La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002, TAV XXXVIII. 2
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italiano (1837), fa emergere il carattere “avanguardisticoâ€? delle esperienze neogotiche toscane. La cultura architettonica toscana della prima metĂ dell’Ottocento si dimostrava dunque un humus disponibile a recepire con sufficiente tempismo ed originale interpretazione, gli stimoli del rinnovamento in atto, un rinnovamento in nome del revival storicistico.
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2.5 L’USO DELLA BIGATTIERA NEL TEMPO.
La produzione di bozzoli in Italia comincia a declinare nel periodo tra le due guerre fino a scomparire dopo la seconda, a causa della produzione di fibre sintetiche e della concorrenza estera sempre più insostenibile.
« l tempo dirà tutto alla posterità. E’ un chiacchierone, e per parlare non ha bisogno di essere interrogato»
Anche a Pugnano “la Bigattiera con filanda” cessa la sua attività Euripide attorno al 1930. L’ala di destra continua ad essere utilizzata, come Limonaia, uno degli scopi per la quale è stata progettata dall’architetto Gherardesca. L’ala sinistra viene, invece, suddivisa per ricavare, al suo interno, stalla e teatrino. La porzione più vicina al vestibolo d’ingresso viene utilizzata a teatrino, e ne è testimonianza la parete di testata dell’ultima campata con affresco raffigurante un giardino romantico che fa da sfondo alle rappresentazioni. Un tendaggio separa l’ultima campata, quella più prossima al corpo centrale, affrescata e adibita a palcoscenico, dalle altre due campate destinate ad accogliere il pubblico. La stalla è, invece, ricavata nelle due campate alla sinistra del 40
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PARTE SECONDA
portone d’accesso. L’ultima in particolare viene soppalcata, come testimoniano le tracce ancora visibili sulle pareti di vecchi fori per l’appoggio dell’orditura primaria e secondaria del solaio, così da ricavare più spazio. Durante la seconda guerra mondiale, il teatrino lascia posto ad un magazzino del grano. Per utilizzare lo stanzone come granaio vengono tamponate le quattro finestre sul giardino con mezzane disposte di taglio e tolti gli scuri (di cui rimangono solamente le cerniere a muro). Negli anni ‘501 vengono chiuse tutte le aperture esterne, posteriori e laterali. Negli anni ‘60, invece, le vecchie finestre lignee della limonaia vengono sostituite da finestre vasistas in ferro saldato e vetro, tinteggiate di rosso vermiglio. Relativamente recenti sono gli interventi di consolidamento delle fondazioni e il totale rifacimento delle coperture, opere urgenti e di messa in sicurezza il cui progetto è stato presentato nel 20012. Le stesse sono state finanziate dalla società Villa Roncioni S.p.a. che nel maggio del 2001 ha acquistato la proprietà dagli eredi Camici Roncioni, discendenti naturali dei Conti Roncioni, con l’intento di riutilizzare l’intero complesso come struttura alberghiera e del benessere di lusso3. La villa e il parco sono attualmente in vendita, ma ospitano temporaneamente la Fondazione Cerratelli4, proprietaria di una cospicua collezione di costumi teatrali e cinematografici, oltre 30.000 manufatti di straordinario valore storico. Il progetto di recupero, qui presentato, si rivolge proprio alla fondazione che la villa di Pugnano ospita nei suoi locali. Riallacciandosi alla vecchia vocazione manifatturiera del fabbricato, si propone un’idea di intervento volta alla realizzazione di un nuovo centro espositivo e manifatturiero in uso alla Fondazione Cerratelli.
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Con la realizzazione dell’opificio Cerratelli, si prevede di integrare le attività attualmente presenti in villa, all’esterno della sede principale, con una serie di servizi per laboratori e attività didattiche e di formazione legate alla tradizione delle attività sartoriale artistica (laboratori di sartoria, lavanderia, stireria ecc…).
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Dato raccolto dalla tesi di VANNUCCI FRANCESCO La “bigattiera Roncioni” di Pugnano: nuove indagini e proposta di riuso. A sua volta fonte orale. E depositato in Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Artistici, Storici ed Etnoantropologici per le province di Pisa e Livorno. Piano di recupero presentato in comune con D.C.C. n.87 del 05/08/02. Per informazioni sulla Fondazione cfr. Allegato E. 52
2.5
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PARTE TERZA
PARTE TERZA Analisi dello stato attuale.
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3.1
3.1 DESCRIZIONE DEL FABBRICATO.
Varcando il cancello d’ingresso della tenuta di Villa Roncioni, la Bigattiera, disposta alla sinistra della villa, in asse con l’ingresso, riesce a colpire l’attenzione del visitatore nonostante la sua posizione decentrata. Con il suo apparato formale neogotico, esaltato dal tappeto verde sul quale si adagia, colpisce per la sua eleganza e per la cura di dettagli. Nonostante l’edificio sia abbandonato all’incuria del tempo da anni1, conserva tutto il suo fascino e l’interesse nei suoi confronti, non può che crescere quando si scoprono le ragioni per le quali è stato costruito: Bigattiera patronale con filande per l’allevamento dei bachi e la trattura della seta. L’edificio dall’andamento spiccatamente orizzontale, si compone di tre volumi: due laterali, con accesso proprio dal giardino, di altezza media pari a 6 m e un corpo centrale su due livelli. Avendo solo ricevuto nel 2001 interventi d’immediata urgenza per la messa in sicurezza dell’edificio a livello di coperture e fondazioni
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«...una villa presso la quale fu pur di recente costruito un grandioso edifizio per bigattiera e filanda di seta, che non poco contribuisce alla agiatezza del paese». Giovanni Nistri
PARTE TERZA
L’ala di sinistra consiste in un parallelepipedo dall’andamento rettilineo di volume (32 m lunghezza, 6,40 m profondità, 6,50m altezza media) con copertura a falda inclinata verso il retro dell’edificio con cui è messo in comunicazione tramite un’apertura di testata, murata, che testimonia un dislivello tra l’interno e l’esterno di circa 60cm, e un’ampia apertura posta in asse con l’accesso dal giardino. Consiste in 6 campate di area modulare pari a 4,35 m x 6,40 m ad eccezione delle due di testata, leggermente più grandi, di lati 5,62 m x 6,40 m la campata all’estrema sinistra, 6,05m x 6,40 m l’area della campata più vicina al corpo centrale. Quest’ultima è annessa al corpo centrale, come la corrispettiva dell’ala destra, visto l’impianto simmetrico dell’edificio, non ha perciò copertura a falda ma solaio piano in legno con mezzane, calpestio della sala al primo piano, la Stanza dei Bigatti. La falda di copertura è in orditura, primaria e secondaria, di legno e mezzane, completamente rifatto nel 2001 insieme al consolidamento delle fondazioni, operazioni urgenti al fine di mettere in sicurezza l’edificio che versava in precarie condizioni strutturali. L’intervento alle fondazioni, si è limitato solo alla realizzazione di cordoli armati perimetrali, connessi alle murature portanti e cordoli di collegamento, irrigidimento trasversali. Restano visibili i piani di spicco delle fondazioni, i lavori non sono giunti alla realizzazione del gattaiolato, del massetto armato e della successiva pavimentazione. L’infilata di campate risulta frammentata da una serie di arconi di imposta 2,60 m e altezza max 5,40 m. La parete di fondo, comunicante con la parte centrale dell’edificio, è affrescata. Tale campata, infatti è stata utilizzata come palcoscenico del teatrino allestito all’interno dell’ala sinistra, nel periodo tra le due guerre, quando oramai l’attività serica era tramontata all’interno della tenuta.
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A differenza di quanto previsto nel progetto, l’impianto dell’edificio non si mostra simmetrico. L’ala destra, pur assimilabile alla sinistra, per il mancato completamento dell’intervento sulle fondazioni (anche qui è visibile lo spiccato delle fondazioni), per la copertura a falda inclinata, ad eccezione della campata più vicina al corpo centrale e contrafforti smussati dai quali si sviluppano gli archi di sostegno della copertura, presenta delle differenze dovute all’attestarsi della bigattiera a due edifici preesistenti la data di inizio lavori per la filanda. Un annesso è disposto sul retro, nella zona centrale, proprio in corrispondenza della scala di accesso alla sala dei bigatti, scala ricavata dagli ambienti dell’edificio preesistente: i muri, infatti, si inclinano ad abbracciare la preesistenza. Situazione non dissimile in corrispondenza delle ultime due campate che si aprono verso un vecchio annesso agricolo con copertura a falde 56
3.1
e con quota di fondazione differente, inglobato alla Bigattiera su progetto del Gherardesca. L’ambiente più piccolo dei due rappresenta la preesistenza, informazione che è possibile trarre dalla lettura delle tracce sulla muratura. Esso è stato congiunto al confinante tramite una coperture a falde che poggia sul colmo della vecchia copertura della preesistenza. L’ala destra, quindi, per via di queste variazioni, assume una conformazione a “L”. Rispetto all’ala sinistra, è separata dal corpo centrale da un dislivello maggiore rispetto a quello riscontrabile tra corpo centrale e ala sinistra (di circa 70 cm), dell’ordine di 1,30 m circa. Il corpo centrale, su due livelli, consiste in un parallelepipedo di lunghezza 26,40 m, profondità 6,30 m e altezza fino al livello di gronda di circa 11 m. Appena varcata la soglia, si apre di fronte al visitatore la “Sala di trattenimento” 2, così definita dallo stesso architetto progettista, Alessandro Gherardesca. Consiste in un ambiente voltato rettangolare, affiancato da due absidi con catino che si attestano sui due lati corti. Vi si accede tramite un’inferriata bassa, una cancellata di un metro di altezza; a destra e sinistra, a creare una suggestiva prospettiva secondo un preciso punto di vista, due vestiboli dalle pareti affrescate a finti conci squadrati sulle tonalità del giallo di Siena - di terra bruciata, trompe-l’œil che richiama nella decorazione il trattamento murario del prospetto sul giardino. Questi vestiboli, che indirizzano alle due ali della Bigattiera, danno anche accesso a due stanzine poste dietro i due absidi della Stanza di trattenimento, nelle quali si situavano «le caldaje per riscaldare la medesima [la bigattiera] a vapore, secondo il sistema Tomas Tredgold»3. In corrispondenza di questi due ambienti, il solaio della sala bigattiera presentava, (ora non più perché i solai sono stati rifatti nel 2001) due grosse grate di ferro, la cui funzione era quella di favorire il ricambio d’aria, far passare il calore prodotto e scaldare così l’ambiente sovrastante. ”La sala di trattenimento”, coperta da volta a crociera in folio e catini absidali con mezzane apparecchiate, anch’esse in foglio, è totalmente affrescata. Sull’intradosso della volta si conserva solo il medaglione sulla vela raffigurante una donna (probabilmente una discendente Roncioni) raffigurata come protagonista di un’imprecisata opera teatrale, forse opera del Braschi4. I costoloni, con decorazioni geometriche, sono appoggiati su foglie d’acanto GHERARDESCA ALESSANDRO, La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002 TAV IX. 3 Cfr. nota 2. 4 Archivio di Stato di Pisa, inventario n.135, Acquisto Roncioni, ricevuta del 19 Aprile 1829, «acconto di £.40 del lavoro che vado facendo alla fabbrica di Pugnano. Braschi.» 2
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PARTE TERZA
all’altezza di imposta della volta. Sulla parete di fondo vi sono due statue allineate alle sculture di crociati dell’apertura di Niccola da Pisa, portone di accesso alla Filanda, opera del Tempesti5 che lavora alla villa di Pugnano. Opera del Tempesti, anche il rettangolo posto sotto la finestra, decorato con putti che sostengono lo stemma della Nobil Famiglia Roncioni6. Gli absidi, presentano, invece, colonnine affrescate a tortiglione alternate a capitelli con volti umani, archi a tutto steso che sostengono archetti trilobati, trabeazione e, infine, 11 cuspidi. Le calotte sono affrescate con raggi di soli stilizzati e stelline su sfondo verde. La pavimentazione della sala, l’unica conservata, assieme a ridotte porzioni di pavimenti in pianelle, nei vestiboli e nei pianerottoli d’accesso alla stanza del primo piano, è Archivio di Stato di Pisa, inventario n.135, Acquisto Roncioni, ricevuta del 30 Giugno 1829 1829, «al Tempesti per pittura delle statue e altro…». 6 Il nome “roncione” ci riporta a “cavallo”, precisamente nel senso di “cavalcatura di guerriero”, così come vediamo attestato nel Pulci e nel Boiardo. L.PULCI, Morgante Maggiore, c. XV, ottava 65; M. M. BOIARDO, Orlando innamorato, p.III, c. VIII, ottava 22. Cfr. anche La Tavola rotonda o l’Historia di Tristano, a.c. di F.l.POLIDORI, I, Bologna 1864, passim, II, ibid.1865, p.168 (“Roncione: cavallo forte e però atto alla guerra”). Per l’etimo cfr. DEI, V, p.3282. La presenza di un cavallo inalberato nello stemma della famiglia, sul quale non si hanno notizie anteriori al secolo XVI, potrà esser dovuta ad un recupero colto. “Roncione” era forse un soprannome, o addirittura un nome, non diversamente da altri, di analogo conio e variamente diffusi, come “Lupus”, “Ursus”, “Pardus”, “Falco”, “Ciconia”, “Gattus”, etc., e il riscontrare l’esistenza, a Pisa come fuori Pisa, di persone con tale nome non implica che si debbano in ogni caso postulare legami con la nostra famiglia. 5
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in marmette e lavagna e listoni di lavagna7. Dall’arco di ingresso, decorato a cassettoni ottagonali, tramite una scala a “s”, consistente in 31 scalini in pietra serena e pianerottoli con pavimento in pianelle, si accede dapprima ad un piano ammezzato delle stesse dimensioni della stanza sottostante, quella posta dietro all’abside destro della sala di trattenimento, poi alla sala dei bigatti. Lo stanzone al primo piano, rappresenta il cuore della Bigattiera, l’ambiente dove venivano allevati i bachi da seta. Sul lato fronte, 6 bifore con colonnine e davanzali in marmo, sul lato retro 13 finestre con sfogatoi posti in prossimità del pavimento, per garantire una buona ventilazione all’ambiente e un continuo ricambio d’aria, ora murate con mattoni posti di fascia. Agli angoli dello stanzone, fatta eccezione per quello d’ingresso, tre caminetti in mattoni e quadroni (consigliati dal Lambruschini perché costruiti in modo tale da rendere l’aria meno secca), capaci di mantenere durante le giornate più rigide la temperatura più adatta ai bachi da allevare. La copertura del salone si presenta come un padiglione allungato, con struttura a capriate semplici con al centro un padiglione a 8 falde costruite su 4 puntoni che si attestano al centro, tramite staffe incrociate, alla trave di colmo e ad una messa trasversalmente rispetto a quest’ultima. Struttura secondaria in arcarecci e travicelli che ne costituiscono l’ardito. Pianelle interrotte da due abbaini situati sulla falda posteriore. Copertura in embrici e coppi alla Toscana. Il prospetto sul giardino, dai tratti neogotici, conferma l’immediata suddivisione dell’edificio in tre volumi: pur essendo il paramento totalmente intonaco e trattato in maniera uniforme, le paraste del corpo centrale creano degli arresti sugli elementi decorativi, 7
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Archivio di Stato di Pisa, inventario n.135, Acquisto Roncioni, ricevute del 25, 27,29 Agosto 1827, «acquisto di piastre e ottagoli di lavagna fatti arrivare da Genova.».
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3.1
PARTE TERZA
cornicioni e archetti pensili, rendendo la mentale scomposizione in volumi semplici ancora più evidente. Il prospetto è interamente trattato a graffito a simulare conci di pietra squadrata e originariamente dai toni bruni8. Poche sono le tracce cromatiche rimaste, tutte poste in zone protette da aggetti. Tali porzioni, pur ridotte, consentono di ipotizzare un trattamento chiaroscurale molto suggestivo, ancora in parte leggibile nel trattamento dei vestiboli e negli sguanci delle aperture. Le aperture delle due ali consistono in vani rettangolari protetti da scuri di castagno. Quattro delle complessive otto aperture rettangolari dell’ala sinistra, risultano murate con pianelle disposte di taglio, intervento risalente agli anni della seconda guerra mondiale quando le campate sono state utilizzate come granaio. Le altre 4, nascoste dalla vegetazione, affacciano su una proprietà privata. Conservano ancora i vecchi scuri di castagno, degradati e bisognosi di profonde operazioni di restauro.Le otto aperture rettangolari dell’ala destra conservano tutte gli scuri di castagno. Tali scuri si differenziano da quelli dell’ala simmetrica per un particolare meccanismo di sollevamento a carrucole che consente di sollevare per circa 1,30 m gli scuri grazie a cerniere scorrevoli lungo perni verticali. Le quattro aperture più vicine al corpo centrale, sono state chiuse, intorno agli anni 60 del secolo scorso, da finestre a vasistas in ferro saldato e vetro di color rosso vermiglio. Le bifore ad arco acuto, separate da pilastrini di pietra serena, del primo ordine, sono raccordate da archi a tutto sesto modanati e rosoncine a 4 fori nel centro. Al secondo ordine le bifore a tutto sesto sono intervallate da una colonna di marmo; sovrastate da un arco a tutto sesto che le raccorda, presentano delle maschere di cotto, solo una ben conservata. Poggiano su davanzali in marmo con rosoncine a quattro fori. I portali d’accesso alle ali sono affiancati da paraste quadrilobate e sono sovrastati da archetti pensili sotto cornicione. Al centro tre aperture ad ogiva, una porta e due finestre occupate da statue di crociati, creano un ingresso monumentale alla fabbrica. A coronamento dell’edificio un cornicione impreziosito da “merlatura” ad elementi ogivali (stilema tipico del “gothic revival”).
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Numerose ricevute (Archivio di Stato di Pisa, inventario n.135, Acquisto Roncioni) testimoniano l’acquisto da parte del Braschi di varie tinte tra cui si rilevano: Terra d’ombra bruciata, terra gialla di Siena, giallorino, terra gialla chiara fatta macinare apposta, terra verde di Siena, nero di chioma, nero di brace, terra gialla, arancione. 60
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PARTE TERZA
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3.2
3.2 FATTORI E PROCESSO DI DEGRADO DEI MATERIALI E DELLE STRUTTURE NEL COMPLESSO.
La bigattiera versa in uno stato di degrado piuttosto consistente, almeno per quanto concerne i materiali e le finiture: urgenti lavori, rivolti alla messa in sicurezza dell’edificio, sono stati eseguiti nel 2002 e hanno riguardato il rifacimento degli orizzontamenti ed il sistema di copertura. Prima dell’intervento del 2002, il sistema di copertura risultava collassato in vari punti, per l’incuria protratta per anni, innescando diversi processi di degrado ancora oggi leggibili. Grazie ai recenti lavori, le cause di maggiore entità sono state arginate: attualmente quindi, le patologie riguardano, quasi esclusivamente, finiture e materiali.
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I lavori condotti nel 2002, regolarizzati con D.I.A. del 28.02.02 prot. N. 7473, hanno interessato dapprima le fondazioni. Lo spiccato delle fondazioni a vista, suggerisce un intervento di consolidamento tramite ampliamento della fondazione mediante cordolo in c.a. realizzato solo sul lato “interno all’edificio” della fondazione. Il nuovo cordolo è reso solidare alla fondazione preesistente tramite spezzoni f 20/40 mm con miscela cementizia1. Le coperture sono state sostituite e rifatte del tutto, dato il pessimo e irrecuperabile stato di conservazione rilevato prima dell’intervento. La copertura del primo piano, rispecchia per sommi capi la copertura precedente. Almeno la geometria delle pendenze delle falde e la loro inclinazione è stata rispettata, realizzando un tetto a padiglione con struttura a capriate semplici con al centro un padiglione a 8 falde costruite su 4 puntoni che si attestano al centro, tramite staffe incrociate, alla trave di colmo e ad una trasversale a quest’ultima. Struttura secondaria in arcarecci e travicelli che ne costituiscono l’ordito. Pianelle interrotte da due abbaini situati sulla falda posteriore; copertura in embrici e coppi alla Toscana. 1
I dati sono stati tratti dalla relazione tecnica depositata in Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Pisa e Livorno. 63
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PARTE TERZA
La nuova copertura si sostituisce alla precedente a padiglione con capriate in legno a doppia pendenza collegate da arcarecci a loro volta portanti l’orditura secondaria costituita da travicelli ad interasse di 25 cm e sovrastante scempiato d’appoggio al piano di copertura. Il nucleo centrale consisteva, invece, in due capriate d’abete incrociate diagonalmente, prive di catena (funzione assolta dalle catene laterali) con al centro una grande ghianda di legno a coprire l’incrocio dei quattro puntoni. I nuovi appoggi delle capriate sono stati previsti di scarpa in acciaio zincato così da ripartire le pressioni di contatto muratura/legno e per ridurre possibili trasferimenti di azioni orizzontali alla struttura. Sono ancora visibili le lesioni a taglio (45°) poste sotto l’appoggio della capriata alla muratura, lesioni da schiacciamento dovute a carichi concentrati ora ripartiti grazie alle scarpe previste dall’intervento. La nuova copertura in legno di castagno ha, inoltre, previsto l’introduzione di guaina impermeabile, dato che il solo manto non era in grado di garantire la tenuta all’acqua piovana, la sostituzione delle converse, delle scossaline e del canale di gronda precedenti con analoghe in rame. Il solaio del piano primo è stato consolidato per ovviare al sottodimensionamento delle travi originali con attenzione rivolta al mantenimento dei piani di calpestio e delle quote d’imposta delle strutture originali. Gli interventi del 2002 sono riusciti, quindi, ad arginare e risolvere gran parte delle questioni di instabilità strutturale registrate nel tempo annullando i conseguenti cedimenti, infiltrazioni di acqua piovana e degrado. La maggior parte dei fenomeni e delle patologie di degrado riscontrabili oggi, connessi principalmente ad infiltrazioni di acqua piovana conseguenti al crollo, in più punti, del manto di copertura, sono stati già in parte risolti o limitati dagli interventi sopra riportati.
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Al piano primo risultano particolarmente compromesse le pareti sul fronte giardino: l’inefficiente sistema di raccolta delle acque piovane, nascosto dietro il cornicione “merlato” del prospetto principale, ora riprogettato a seguito dell’intervento sulle coperture, e il collasso del manto di copertura hanno consentito all’acqua piovana di entrare, percolare lungo le pareti, compromettendo la loro efficienza strutturale, fino ad infiltrarsi all’interno del solaio sottostante determinando distacchi, mancanze, lacune negli ambienti affrescati sottostanti. Numerosi sono i fenomeni di efflorescenza riscontrati proprio su queste pareti, accompagnati da mancanze di materiale, distacco e lacune, macchie d’umidità, depositi di polvere diffusi sullo strato superficiale d’intonaco. Gli scuri delle bifore sono andati 64
3.2
perduti, fatta eccezione per un’unica anta, ancora montata che ci consente di leggere e capire il funzionamento dei vecchi infissi. Davanzali e colonnine di marmo di spoglio risultano, invece, in buono stato conservativo. La parete opposta, che affaccia sul giardino privato sul retro, si presenta “affetta” da minori processi degenerativi, a dimostrazione di come i cedimenti si siano verificati principalmente sulla falda di copertura inclinata verso il prospetto principale della Bigattiera. Si riscontrano più o meno gli stessi processi della parete prospiciente, distacchi, lacune, mancanze, fessurazioni da schiacciamento, macchie d’umido e deposito di polveri, presenti però in porzioni più limitate e circoscritte ed imputabili principalmente all’umidità che percola sul fronte che affaccia sul retro per assenza di calate, probabilmente sottratte al termine dei lavori poiché in rame. Le aperture e i relativi sfiatatoi, posti a filo pavimento in corrispondenza di ogni finestra, secondo la lezione del Dandolo2, sono stati tamponati da pianelle disposte di costa e si prevede in fase progettuale il loro ripristino. Le due pareti di testa, versano, entrambe, in un pessimo stato conservativo: maggiormente diffusi ed estesi i fenomeni fin ora riscontrati. Le mancanze di muratura si traducono in questi muri in veri e proprio “fori” attraverso i quali si intravede l’esterno. I tre camini hanno perso in parte la loro canna fumaria, ora chiusa a seguito del rifacimento delle coperture, mentre la fuliggine depositata testimonia che gli intonaci non sono mai stati rifatti né ripuliti dopo la dismissione del manufatto ad edificio produttivo. La stanza manca totalmente del pavimento dal momento che gli interventi del 2002 si sono limitati alla parte strutturale, non completando i lavori a livello di finiture. Le due ali al piano terra presentano fenomeni simili e quindi analizzabili contemporaneamente: l’unica differenza riscontrabile si evidenzia nella minore umidità di risalita presente, soprattutto, sulle pareti nord-ovest e ovest dell’ala destra, per presenza di scannafosso, non rilevato, ma in parte visibile dall’apertura del fronte nord-ovest. Inoltre l’ala sinistra ha perso metà del portale d’accesso consentendo alla vegetazione infestante di entrare e invadere una buona porzione della campata d’accesso. I fenomeni di degrado riscontrabili nelle ali della Bigattiera sono principalmente legati all’umidità e alle infiltrazioni d’acqua piovana risalenti a prima dell’intervento del 2002. La fascia bassa dell’edificio, fatta eccezione per le pareti sopra descritte, risulta interessata 2
DANDOLO VINCENZO, Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818. 65
PARTE TERZA
da fenomeni di risalita con distacco d’intonaco anche a livello di arriccio, con affioramento di porzioni di paramento sottostante, ed efflorescenze. Le efflorescenze si riscontrano, ancora più diffuse, nella fascia alta delle pareti assieme a fenomeni di colatura e deposito di polveri. Gli scuri di castagno ancora presenti, si presentano restaurabili seppur attaccati da funghi xilofagi e carie, gelo e vento. Fessurazioni longitudinali ed alterazioni cromatiche sulle tonalità del giallobiancastro e macchie di colore azzurro-violacee fino a nerastre, marciume e friabilità, sono le patologie maggiormente riscontrabili. Anche nelle ali, gli interventi di consolidamento fondale si sono limitati alle procedure di consolidamento strutturale, lasciando scoperte le operazioni di finitura: mancano gattaiolato, massetto e pavimentazioni essendo ancora visibile lo spiccato fondale. I processi di degrado che riguardano le decorazioni “ a fresco” della sala di rappresentanza sono trattati nel paragrafo 3.4. Il prospetto sul giardino presenta estesi fenomeni di degrado che interessano principalmente l’intonaco di rivestimento, ormai privo dei pigmenti originali che fornivano all’utente una suggestiva lettura chiaroscurale del manufatto. Le tracce della cromia originale, ancora riscontrabili, sono limitate alle zone più protette del fronte: sguanci delle finestre, porzioni sotto davanzali e cornicioni aggettanti3. Le specchiature sono interessate da fenomeni quali mancanza, distacco, patina biologica (deposito di terriccio, guano e polveri), colaticcio, polverizzazione, fessurazione degli angoli con incipiente distacco di grandi porzioni d’intonaco: patologie legate essenzialmente all’acqua (fenomeni di risalita, per le porzioni basse, in prossimità del basamento; piogge, inadeguato dimensionamento degli elementi di intercettamento delle acque meteoriche, umidità).
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Ampie zone d’intonaco sono interessate dalla presenza di microflora (batteri, funghi), macroflora (licheni, muschi, vegetazione infestante edera e glicine -) e guano; si tratta delle specchiature maggiormente esposte ai fenomeni atmosferici. Sotto i davanzali delle finestre di destra si sono verificate, in più punti, delle rotture ramificate del film pittorico. Si tratta di screpolature a ragnatela dell’intonaco: attraverso queste micro-fessure, l’acqua penetra nella muratura creando un sottile alone d’umidità attorno alla cavillatura e piccoli alloggiamenti per i semi delle piante infestanti. Gli scuri di castagno sono affetti dall’attacco di funghi xilofagi, sfociato in alterazioni cromatiche “azzurramento”, ossia macchie di 3
Per un maggiore approfondimento dell’argomento cfr. paragrafo 3.3 66
colore azzurro-violaceo fino a nero, e “alterazioni cromatiche” del legno, che schiarisce diventando biancastro e/o giallastro. Il legno ha mantenuto la sua struttura fibrosa ma è divenuto ormai molle e friabile. La pietra serena dei pilastrini delle aperture centrali del primo ordine, è interessata dal fenomeno di scagliatura, tipico della pietra arenaria: gli stipiti, i davanzali e le paraste delle aperture si presentano in alcuni punti sotto forma di scaglie di forma irregolare e di spessore inconsistente; distacchi dovuti a formazioni saline. Le finestre vasistas dell’ala destra presentano il telaio in ferro saldato ossidato, con la ruggine che in alcuni punti ha fatto saltare la vernice rosso vermiglio con la quale sono state trattate attorno agli anni ’60, nel momento stesso in cui sono state introdotte. Per quanto riguarda l’apparato decorativo neogotico, questo si presenta tutto sommato ben conservato: vi sono mancanze a livello dei rosoni, delle teste decorative del secondo ordine di aperture, degli elementi scultorei a decorazione degli accessi. Si tratta, tuttavia, di mancanze, ridotte a livello di estensione e facilmente colmabili con operazioni integrative.
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PARTE TERZA
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3.3
3.3 LA CROMIA DELLA FACCIATA PRINCIPALE.
Ad un rapido colpo d’occhio il prospetto sul giardino si presenta come una superficie riccamente decorata da archetti pensili, guglie, gruppi scultorei, colonnine in marmo, rosoncini risaltati da una stesura d’intonaco piatta sui colori neutri dell’ocra: come se la caratterizzazione neogotica dell’edificio fosse affidata solo alle decorazioni scultoree. Solo in un secondo momento, notando piccole porzioni d’intonaco sfuggite agli agenti atmosferici, ci si rende conto che la raffinatezza della fabbrica era stata, in realtà, affidata, non solo all’apparato decorativo, ma anche ad un attento e ben studiato trattamento cromatico delle specchiature; un effetto chiaroscurale che doveva rivelarsi, all’epoca, alquanto suggestivo, rievocativo di vecchi palazzi fortificati, di antichi cantieri ecclesiastici. Studiando e analizzando le porzioni di specchiatura che ancora conservano le cromie originarie, collocate in punti del prospetto protetti dagli agenti atmosferici (sguanci delle aperture, sotto cornicioni, sotto davanzali, sotto archetti pensili aggettanti, nelle modanature degli archi a tutto sesto decorativi delle aperture centrali), si può con presunta veridicità, ipotizzare un trattamento a finti conci squadrati, dipinti e incisi a graffito sul prospetto principale della Bigattiera. D’altronde, anche nel progetto originario, Alessandro Gherardesca aveva previsto una decorazione “tridimensionale”, affidata alle modanature marmorie dei davanzali e delle guglie, ma anche un trattamento bicromatico del corpo centrale e una scansione verticale delle ali, realizzata con fitte incisioni, ossia un apparato decorativo bidimensionale a corredo di quello scultoreo. Dalle ricevute conservate nell’archivio di stato di Pisa è possibile risalire agli autori, «…al Braschi e Crespoloni per le facciate…»1, e alle tinte acquistate per la realizzazione delle specchiature che effettivamente corrispondono alle tracce ancora leggibili, 1
Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 125, Acquisto Roncioni, Ricevuta del 30 Giugno 1829. 69
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comparando i documenti d’archivio e le porzioni cromatiche ancora rintracciabili sul fronte. Le decorazioni policrome e la tecnica a graffito vengono qui utilizzate sapientemente dal Braschi e dal Crespoloni, per la realizzazione di una superficie a finti conci squadrati dalle tonalità neutre e brune. Sopra una tinta uniforme color ocra vengono stesi a calce vari colori: dal giallo arancio, alla nocciola pigmentata con ocre gialle, alla terra di Siena bruciata con aggiunta variabile del nero brace a seconda della tonalità voluta2. A queste stesure cromatiche, se ne aggiungono altre più superficiali, sottili tinteggiature a calce (velature) con il solo scopo di sporcare o schiarire i vari conci attribuendo al tutto un effetto dinamico di luce-ombra. Braschi e Crespoloni riservano lo stesso trattamento ai vestiboli Sinistro e Destro che affiancano l’arcone di ingresso: i conci squadrati, sono qui ancora ben leggibili anche se degradati in porzioni estese per via delle infiltrazioni d’acqua meteorica dal tetto del primo piano dovuti a crolli del manto di copertura. Le piogge non si sono limitate a rovinare le decorazioni parietali ma hanno, anche, gravemente lesionato e degradato le specchiature delle due volte a schifo che controsoffittano i corridoi lasciando a vista il sovrastante solaio in putrelle e tavelloni, anch’esso duramente compromesso dalle precipitazioni meteoriche. Le decorazioni dei vestiboli sono ottimi esempi dell’abilità quadraturiste del Braschi: da un punto di vista privilegiato le decorazioni parietali completano e riprendono su un livello di sfondo, indietreggiato rispetto al prospetto principale, le decorazioni tridimensionali che sono presenti sulla sua facciata in un unicum prospettico davvero suggestivo.
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Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 125, Acquisto Roncioni, Ricevuta del 30 Marzo 1829 «Dieci libbre di Nero […] …£2.10.0, otto […] giallo chiaro che ho fatto macinare apposta…£ 2.00.0, dieci […] giallo di Siena…£1.06.08, cinque […] verde di […]…£3.03.04…» - , Ricevuta del 30 Marzo 1829 - «Terra d’ombra bruciata…£6.8, […], dieci detta giallo di Siena…£1.06.08, giallorino …£3.03.04, sommano…£4.13.00» - , Ricevuta del 30 Marzo 1829 - « […] detta Gialla chiara … £ 2.06.08, Nero Brace 10 …£2.10 […]» - , Ricevuta del 30 Marzo 1829 - «Terra gialla chiara dieci libbre £1.06.08, cinque libbre nero di chioma £ 1.05.00, due libbre terra Gialla £2.00.0, quattro libbre terra gialla […].., due libbre terra d’ombra detta arancione £0.12.00» - . 71
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PARTE TERZA
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3.4
3.4 LA SALA DI RAPPRESENTANZA: FATTORI E PROCESSI DI DEGRADO DEGLI AFFRESCHI.
Le decorazioni “a fresco” della sala di rappresentanza eseguite nel 1829 dal Braschi e dal Tempesti1, versano in un grave stato di degrado e necessitano di mirati e specifici interventi di restauro. Gli affreschi sono realizzati su fondo a intonaco di malta di calce a due strati: un primo strato d’arriccio e un ulteriore strato con inerti a granulometria fine. I Pigmenti utilizzati (Terra di Siena, Giallorino, Terra d’ombra Bruciata, Nero di Brace, Terra Gialla chiara fatta macinare apposta, terra verde di Siena, Nero di chioma, arancione2), sono “stabili alla calce” e di origine minerale naturale, trattandosi principalmente di ossidi di terra e di silicati. Le infiltrazioni d’acqua dal piano superiore hanno causato notevoli distacchi. La volta, porzione affrescata della sala maggiormente degradata, presenta una sola vela leggibile: numerosissime sono le lacune, che non consentono una lettura puntuale e precisa dell’apparato decorativo e le cadute di colore, che interessano principalmente il verde di fondo non steso “a fresco”. Le pareti della sala sono interessate da fenomeni di condensa con conseguente formazione di muffa, localizzata principalmente sule pareti absidali, deposito di polvere e colatura di acqua dal piano superiore (prima del rifacimento del manto di copertura) e sotto la finestra per la scarsa tenuta dell’infisso. Diffusi fenomeni di erosione superficiale e polverizzazione. Le lesioni che interessano la volta, nella mezzeria delle pareti perimetrali, sono del tipo “da schiacciamento”, dovute al solaio che poggia direttamente sulla volta. In fase progettuale si prevede di sgravare la volta da tale carichi di esercizio, fatta esclusione del peso proprio, realizzando un solaio in lamiera grecata, in corrispondenza della volta, in folio di mattoni e gesso, gravante sulle murature perimetrali e non direttamente sull’estradosso della struttura voltata. 1 2
Cfr. Cap.2.1. Archivio di Stato di Pisa, Inventario n.135, Archivio Roncioni, Ricevuta del 30 Marzo 1829. 75
PARTE QUARTA
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Interventi di consolidamento e restauro.
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4.1
4.1 IL CONSOLIDAMENTO DELLA VOLTA IN FOGLIO DEL PRIMO PIANO.
La volta in foglio e gli adiacenti catini absidali della Sala di Rappresentanza mostrano un quadro fessurativo piuttosto consistente tanto da suggerire la necessità di un intervento di consolidamento rivolto, non solo alla struttura voltata in oggetto, ma esteso anche alla porzione di solaio su di essa gravante. Le lesioni presenti nella mezzeria dei muri perimetrali, soprattutto in corrispondenza dei raccordi della volta con i catini absidali, sono del tipo “da schiacciamento”: il solaio del primo piano poggia direttamente sulla volta, lesionandola. La volta in mattoni apparecchiati con malta di gesso in foglio si presenta come una struttura autoportante, contenuta negli spessori, quindi, molto leggera: la snellezza non la rende, tuttavia, una struttura in grado di sopportare carichi di modeste entità. Anche in vista del progetto finale, con l’idea di riutilizzare lo stanzone superiore della Bigattiera e destinarlo ad ambienti d’uso alla Fondazione Cerratelli, si rende necessario un intervento di consolidamento volto a sgravare la volta dal peso del solaio sovrastante in modo che debba solamente affrontare il carico dovuto al peso proprio. L’intradosso affrescato rende obbligatorio un intervento estradossale. Il primo step dell’intervento consiste nella stuccatura di tutte le eventuali lesioni e fessure localizzate nell’intradosso della volta con l’impiego di malta idraulica. In secondo luogo si rende necessario un puntellamento della volta: un sostegno consistente in centine non dissimili da quelle che furono impiegate per la sua costruzione con l’accortezza di proteggere le porzioni affrescate a contatto con i puntelli. Si ritiene necessario prevedere anche delle operazioni di preconsolidamento delle pitture murali così da garantire la riadesione del pigmento della pellicola al supporto. Il preconsolidamento si basa sull’applicazione di sospensioni, direttamente sulle superfici, di soluzioni stabili d’idrossido di calcio in solventi inorganici; le particelle 77
PARTE QUARTA
veicolate dal solvente penetrano all’interno delle porosità superficiali così da produrre un nuovo processo di presa all’interno della matrice. E’ preferibile l’impiego di solvente all’acqua dal momento che quest’ultima tende a rendere la sospensione nettamente più instabile provocando una velatura biancastra sulle superfici trattate. Le velature sono rimovibili con spugnature o tamponature di acqua distillata o con impacchi di polpa di cellulosa inumidita da acqua distillata. Il trattamento viene eseguito con l’ausilio di pennello a setola morbida con interposizione di fazzoletti di carta giapponese sui punti particolarmente decoesi. Una volta puntellato l’intradosso della volta, si procede con la rimozione di tutto il materiale sovrapposto alla volta, operazione che va effettuata manualmente avanzando gradualmente, per strati successivi fino al vivo dell’estradosso. Si procede poi con operazione di pulitura rimuovendo (mediante spazzole di saggina, raschietti, aria compressa) le malte leganti degradate, i detriti inconsistenti e tutto ciò che potrebbe ostacolare le successive operazioni di consolidamento. Terminate le operazioni preliminari, si procede con l’intervento di consolidamento. Si tratta di un consolidamento a secco al fine di ridurre al minimo la bagnatura estradossale, che potrebbe influire negativamente sul sottostante intradosso affrescato, e con un ridottissimo incremento del peso delle strutture che potrebbe, altrimenti, stressare eccessivamente la struttura voltata. Si utilizzano nastri di tessuto, di quindici centimetri1, in fibre secche di carbonio bidirezionali con elevate prestazioni a trazione, applicati direttamente alla struttura; questo consente di costituire un materiale “composito” direttamente in opera, mediante l’impiego di una matrice a base di resine che assicura sia il trasferimento delle sollecitazioni alle fibre di rinforzo, sia la protezione della fibra da attacchi di tipo chimico o meccanico o da variazioni di temperatura. L’intento è quello di realizzare un intervento non invasivo, rimovibile, adattabile al supporto curvilineo, conservando gli schemi statici originali con aumento delle capacità portanti della volta senza consistenti variazioni del suo peso proprio. Dopo un’accurata pulitura dell’estradosso della volta al fine di eliminare depositi superficiali, polveri e materiale incoerente, In realtà, nel consolidamento di volte in muratura, il dimensionamento dei nastri si può ritenere un fattore marginale, in quanto il grado di resistenza a trazione, necessario per aumentare la resistenza di una volta, è comunque sempre al di sotto delle prestazioni minime delle FRP. Conviene, comunque, predisporre un doppio strato di nastro non tanto per fornire alla struttura una maggiore resistenza (già sufficiente quella fornita da un solo nastro), quanto piuttosto per garantire una miglior risposta ad eventuali sollecitazioni “passive”, normali alle fibre che possono intervenire a causa delle irregolarità della superficie di supporto. Un doppio strato si rivela più efficace negli angoli dal momento che le sollecitazioni vengono frazionate per la presenza di maggiore quantità di resina. 1
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si procede alla preparazione della superficie stuccando e livellando eventuali fessurazioni ed irregolarità con malta a base di calce, cercando di disporre superfici il più regolari possibili. Successivamente si procede con la stesura di due strati preparatori: un primer di resina epossidica fluida a bassa viscosità, da stendere a pennello, al fine di migliorare l’efficacia d’aggrappaggio delle fibre al supporto e, successivamente, una rasatura dello spessore di 1-2 mm costituita da stucco epossidico compatibile con il primer e con il successivo adesivo. Segue la stesura uniforme sulla superficie, sopra le zone precedentemente trattate con il primer e con la rasatura, di un adesivo. Vengono poi applicati immediatamente i nastri di rinforzo facendo in modo che non si creino bolle e che risultino ben stesi e ancorati e che le eventuali sovrapposizioni, nella direzione longitudinale siano di almeno 20-30cm, più ridotte nella trasversale, sull’ordine di 2-5 cm. Segue seconda stesura di adesivo. Le strisce disposte lungo il perimetro devono essere ancorate bene al supporto sottostante; si ricorre a un dormiente di malta idraulica, ad una piastra d’acciaio inox munita di un cuneo di acciaio e da un tirante di ancoraggio costituito da una barra filettata di acciaio inox inserita in un perforo diagonale per una profondità sufficiente a garantire un idoneo ancoraggio (minimo 90 cm). La barra viene sigillata mediante betoncino di malta idraulica a ritiro compensato; l’ancoraggio risulta, inoltre, vincolato alla piastra tramite doppio dado in acciaio. Per evitare il formarsi di cerniere in chiave, soprattutto in presenza di una volta dalla sezione così ridotta, si ricorre all’aumento dello spessore in chiave attraverso la messa in opera di archi di rinforzo sull’estradosso, in laterizio ad una testa, ovvero di frenelli in laterizio. Si riduce la spinta sui piedritti attraverso l’asportazione delle masse non strutturali di rinfianco, più o meno pesanti, che insistono sulla volta e si ristabilisce l’equilibrio della curva delle pressioni interne attraverso la messa in opera di frenelli (muretti leggeri e di modesto spessore) localizzati ortogonalmente alle generatrici delle falde cosicché si possano distribuire omogeneamente i carichi e, allo stesso tempo, irrigidire complessivamente il sistema voltato. L’operazione consiste nella messa in opera dei rinfianchi cellulari (frenelli) costituiti da mattoni forati allettati con malta idraulica in entrambe le direzioni, visto che si tratta di una volta dalla luce rilevante, sui 5 m, così che il secondo ordine perpendicolare al primo eviti eventuali spostamenti laterali. Al fine di impedire i naturali scorrimenti fra la superficie della volta e il rinfianco, questo viene ancorato all’estradosso della volta tramite spillature metalliche (sporgenti dall’estradosso per almeno 10 cm, almeno 4 per metro) 79
4.1
PARTE QUARTA
annegate nella muratura. Per consentire una buona circolazione d’aria tra estradosso della volta e pavimentazione sovrastante è opportuno predisporre dei fori di areazione sui frenelli cellulari. Una volta consolidata la volta si procede alla realizzazione del nuovo solaio riguardante la parte centrale della sala dei bigatti, quello posto in corrispondenza della volta consolidata. Il nuovo solaio si imposta ad una quota superiore di calpestio, che si differenzia dalla precedente di una decina di centimetri, scarto che si prevede di colmare tramite gettata di calcestruzzo alleggerito così da creare un massetto predisposto alle nuove canalizzazioni impiantistiche di acqua, gas e elettricità. Il solaio che si prevede di realizzare, grava totalmente sulle murature portanti e consiste in un solaio metallico in putrelle e lamiera grecata con bordi ad incastro dello spessore di 10mm sulla quale viene gettata una soletta di 4-5 cm, precedentemente armata con rete in acciaio elettrosaldata (f6 passo 20cm). Il nuovo solaio prevede la messa in opera di cinque putrelle HE180 (interasse 1,50m circa) che andranno a costituire l’orditura primaria del nuovo orizzontamento. Le putrelle appoggiano con un’estremità sul muro retrostante della bigattiera e con l’altra su una trave IPE120 collocata sopra l’arco che all’ingresso introduce nella stanza di rappresentanza. Questa trave, che a sua volta sostiene anche i solai in putrelle e tavelloni sopra l’arcone d’accesso, viene saldata tramite fazzoletti angolari a due profilati “connettori” UPN 220 ancorati tramite bulzoni di testa ai muri trasversali della bigattiera. Si ottiene, perciò, un telaio meccanico connesso tramite saldature e piastre alle due travi UPN 220, a cui vengono saldati non solo la trave IPE di appoggio ai due orizzontamenti centrali così da connetterli tra loro e, al contempo, alle murature portanti dell’edificio, ma anche due profili angolari a L, introdotti per evitare che le putrelle del nuovo solaio nervato (le cinque HE180 di cui si fa riferimento sopra) e le putrelle del solaio in tavelloni si sfilino dal muro. Per il solaio posto sopra i catini absidali si prevede un tipo di intervento differente: dopo il puntellamento in contromonta tramite cristi regolabili e la rimozione del massetto presente, si procede con lo smontaggio del solaio esistente seguendo in senso inverso le fasi esecutive del montaggio. Si rimuove lo scempiato, avendo cura di evitare rotture, dal momento che i laterizi vengono reimpiegati nel successivo rimontaggio e, infine, si sfilano i travetti. Si procede con la messa in opera di due putrelle HEA 140, di ausilio ai due profili UCN220 che oltre alla funzione di “connettori” del nuovo solaio nervato alle murature portanti, offrono la loro ala a sostegno dei 80
travetti della porzione di solaio di copertura dei catini absidali della stanza di rappresentanza Una volta messe in opera le putrelle di ausilio alle UCN220, si procede con il rimontaggio del solaio: dapprima i travetti, che vengono ricollocati nei vani già predisposti, successivamente le mezzane e, infine, il massetto portante con successivo riempimento in cls alleggerito porta-impianti atto a colmare il dislivello creato con l’intervento sulla volta a crociera. E’ previsto anche lo smontaggio dei solai in ferro e laterizio posti a copertura dei vestiboli d’ingresso. Una volta puntellata la volta a schifo in foglio sottostante, si procede allo smontaggio manuale della struttura sovrastante le putrelle (il massetto di riempimento) fino al rinvenimento dell’estradosso in laterizio. Smontato il solaio si ha modo di procedere con la ricostruzione delle porzioni mancanti delle volte a schifo crollate a seguito delle infiltrazioni dal tetto del primo piano. Si opera una rincocciatura con materiale compatibile così da ripristinare la volta. La malta di connessione deve essere similare a quella presente per rapporto legante-inerte. Dopo la messa in opera del materiale di risarcitura, si deve provvedere al ripristino del solaio sovrastante e alla finitura dell’intradosso della volta. Il rappezzo d’intonaco deve essere realizzato con un intonaco compatibile con il supporto e similare a quello esistente per spessore composizione e traspirabilità; i coefficienti di dilatazione termica e di resistenza meccanica devono essere similari a quelli dei materiali esistenti così da poter garantire lo stesso comportamento alle diverse sollecitazioni (vapore, umidità ecc.). La formulazione della malta per realizzare il nuovo intonaco deve presentare le caratteristiche tecnologiche dell’intonaco rimasto sulla superficie ovvero, dall’analisi della rimanenza si devono dedurre le varie stratificazioni, i diversi componenti e in che modo sono stati combinati tra loro: rapporto aggregato-legante, granulometria inerte e il tipo di legante. Prima di procedere con il rappezzo la superficie deve essere preparata; la muratura interessata dall’intervento deve essere sufficientemente asciutta (esente da fenomeni d’umidità), scabra (mediante picchiettatura, bocciardatura ecc.) e pulita (priva di sali e/o patine) in modo da consentire la totale aderenza della nuova malta al supporto; dopodiché si esegue l’inumidimento della muratura tramite pennello imbevuto d’acqua. Compiuta la pulitura e il consolidamento dei margini del vecchio intonaco, si procede all’applicazione, sull’intradosso della volta, del rappezzo stendendo dapprima l’arriccio, tramite cazzuola, in strati successivi fino a raggiungere lo spessore dell’intonaco preesistente. 81
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PARTE QUARTA
La finitura, viene realizzata con tinteggiatura di color neutro per evitare una ricostruzione poco filologica e che rischia di declinare in “falso storico”. Particolare attenzione deve essere riposta nella messa in opera in prossimità delle zone d’unione tra le due superfici, poiché la loro corretta esecuzione può evitare l’insorgenza di punti di discontinuità.
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PARTE QUARTA
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4.2
4.2 OPERAZIONI DI PRECONSOLIDAMENTO E PULITURA.
Escludendo l’intervento di consolidamento sul sistema voltato descritto nel paragrafo precedente, gli interventi di restauro che si prevedono consistono in mere operazioni di pulitura, consolidamento, aggiunta e protezione delle finiture, dal momento che i problemi strutturali sono stati affrontati e risolti nel 2002, con lavori di urgenza di messa in sicurezza della Bigattiera1. In questo capitolo si cerca di elencare le principali operazioni di preconsolidamento e pulitura previste dal progetto di restauro architettonico, mirato alla conservazione e al recupero della Bigattiera. La pulitura di una superficie consiste in operazioni di rimozione di sostanze estranee patogene, causa di degrado, tramite loro asportazione. Tenendo conto che anche la soluzione meno aggressiva causa sempre una seppur minima azione lesiva sul materiale, è opportuno calibrare bene le operazioni, orientandosi verso tecniche idonee e poco invasive. Rimuovere le sostanze estranee da un manufatto che presenta un degrado molto avanzato può comportare un aggravarsi dello stato di fatto, per cui, prima dei lavori di pulitura, è opportuno intervenire con un preconsolidamento puntuale delle parti precarie così da evitare di danneggiare frammenti decoesi, esfoliati o indeboliti e, allo stesso tempo, di attaccare una superficie instabile con acqua e/o prodotti chimici che potrebbero peggiorare la situazione. Trattandosi di operazioni con funzione preventiva e conservativa, occorre preferire adesivi deboli e chimicamente reversibili, prodotti che possono essere ridisciolti e asportati facilmente. Operazioni previste di preconsolidamento sui materiali lapidei: Applicazioni di sospensioni di idrossido di calcio. Gli intonaci di calce 1
I lavori regolarizzati con D.I.A. del 28.02.02 prot. N. 7473. 85
PARTE QUARTA
e le pitture murali della bigattiera presentano fenomeni diffusi di polverizzazioni del colore ed esfoliazione di strati pittorici. Si interviene con il fine di garantire la riadesione del pigmento e della pellicola al supporto. Il preconsolidamento pensato si basa sull’applicazione di sospensioni, direttamente sulle superfici, di soluzioni stabili di idrossido di calcio in solventi inorganici; le particelle veicolate dal solvente penetrano all’interno delle porosità superficiali, così da produrre un nuovo processo di presa all’interno della matrice. Si preferisce il solvente all’acqua, in quanto quest’ultima rende la sospensione nettamente più instabile provocando una velatura biancastra sulle superfici trattate, inoltre, il solvente ha il vantaggio di far decantare l’idrossido di calcio in tempi più lunghi (circa 16-18 ore contro gli appena 30-40 minuti delle soluzioni acquose). Sulle pitture murali e sulle porzioni particolarmente decoese si interpongono fazzoletti di carta giapponese2 che vengono rimossi dopo circa un’ora dall’applicazione. Le possibili velature bianche (che possono emergere anche dopo poche ore dal trattamento) possono essere eliminate con spugnature o tamponature di acqua distillata o con impacchi di polpa di cellulosa inumidita da acqua distillata della durata di qualche ora (circa 6-10 h). Velinatura con carta giapponese. Questo tipo di intervento, viene impiegato nelle porzioni di intonaco particolarmente decoese (esfoliate, erose e disgregate) e sui dipinti murali al fine di preservarli da, se pur lievi, abrasioni causate dal passaggio del pennello nel trattamento preconsolidante. Le scaglie vengono assicurate mediante bendaggi provvisionali di sostegno: si procede in modo progressivo mettendo in opera fogli di carta giapponese3 di pochi centimetri di lato (da 6 a 12 cm) fermati con resina acrilica in soluzione (Paraloid4 B72 in acetone). Operazioni previste di pulizia sui materiali lapidei: Pulitura mediante spray di acqua a bassa pressione. Per rimuovere polveri e per asportare depositi superficiali sottili, si ricorre a questa operazione che consiste in getti d’acqua a bassa pressione Cfr procedura di preconsolidamento successiva. La carta giapponese è una carta molto leggera a base di fibre di riso, dotata di robustezza, disponibile in commercio in diversi spessori e pesi minimo 6 gr/m2 massimo 110 gr/m2. Queste carte si rilevano utili oltre che per le velinature, anche come “filtro” per operazioni di pulitura su superfici delicate o in avanzato stato di degrado. 4 Paraloid B72: resina acrilica solubile in vari tipi di solvente: etanolo, acetone, acetato di butile. Anche se la soluzione risultante può assumere un colore lattiginoso, il film che si forma sulle superfici trattate è trasparente. La superficie trattata può assumere un aspetto lucido (“caramellato”), soprattutto se la resina è stata usata a concentrazioni piuttosto elevate. Viene utilizzato nel campo del restauro come consolidante a basse concentrazioni (2-4%) o come collante in concentrazioni maggiori. Permette un’ottima resa impermeabile e ha il vantaggio di essere reversibile e stabile sul lungo periodo. 2 3
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(2-3 atm) proiettati con l’ausilio di ugelli, indirettamente, dall’alto verso il basso, in modo tale da giungere sul materiale in caduta. Quest’operazione di pulitura, oltre all’azione chimica, svolge anche una moderata azione meccanica e dilavante (dovuta al moderato ruscellamento), grazie alla quale gran parte dei sali solubilizzati vengono rimossi. Si prevede di utilizzare una quantità d’acqua tale da non inumidire troppo la muratura, così da evitare la movimentazione dei sali presenti all’interno del materiale. Si evitano i cicli di pulitura a base d’acqua nei mesi freddi per non incorrere negli inconvenienti connessi, sia all’azione del gelo sia alla lenta evaporazione. Pulitura mediante acqua atomizzata. Si ricorre a questa tecnica sulle porzioni particolarmente delicate, ossia sugli apparati decorativi, sui fregi, sulle modanature ecc., e sulle superfici molto degradate (decoese): lo spruzzo d’acqua utilizzato consiste, infatti, in goccioline d’acqua piccolissime poco invasive. Mediante l’uso d’apposite camere di atomizzazione, l’acqua viene ridotta in un aerosol costituito da un numero elevato di finissime goccioline che fuoriescono da ugelli connessi alle camere; ad un aumento dell’azione solvente dell’acqua nei confronti dei sali solubili e dei leganti, corrisponde una diminuzione dell’azione meccanica, che viene limitata ad un debole ruscellamento sulle superfici sottostanti. Tale pulitura, che richiede lunghi tempi di applicazione, è in grado di asportare dalle superfici lapidee (anche porose), di natura carbonatica, parte dei sali solubili, e i depositi polverulenti e/o carboniosi. Pulitura meccanica. La dicitura “pulitura meccanica” comprende tutte quelle operazioni che consentono la rimozione di depositi ed incrostazioni più o meno aderenti alla superficie, ricorrendo a strumenti di vario tipo: spazzole di saggina o di nylon, bisturi, piccole spatole metalliche, microspazzolini in fibre vegetali o nylon (per asportare depositi più o meno aderenti), microfrese (atte all’asportazione di incrostazioni dure e di modeste dimensioni), micromole in gomma abrasiva (ovviano l’inconveniente di lasciare tracce da abrasione grazie al supporto relativamente morbido), microscalpelli (adatti per la rimozione di depositi calcarei), vibroincisori, (eliminano incrostazioni molto dure e coese come scialbi, stuccature cementizie ecc.), la carta abrasiva fine o la pomice impiegate in presenza di superfici piane o poco irregolari. Pulitura mediante impacchi assorbenti. Per l’asportazione dei sali solubili, per la rimozione, dalle superfici lapidee, di strati omogenei di composti idrosolubili o poco solubili, di macchie originate da sostanze di natura organica, di strati biologici (batteri, licheni e algali) e per la riduzione di macchie di ossidi di rame o di ferro, si ricorre a questo tipo di pulitura, che consiste in impacchi di argille assorbenti di polpa di cellulosa (fibra organica ottenuta da cellulose naturali). 87
4.2
PARTE QUARTA
Mescolata con l’acqua, questo tipo di sostanza, è in grado di formare una sorta di fango capace di esercitare, una volta a contatto con le superfici lapidee e opportunamente irrorato con acqua (o con sostanze chimiche), un’azione di tipo fisico, di assorbimento di liquidi in rapporto al proprio peso. Il vantaggio del suo utilizzo risiede nella possibilità di evitare di applicare direttamente sulla superficie sostanze pulenti (in special modo quelle di natura chimica) che, in alcuni casi, possono risultare troppo aggressive per il substrato. Se applicata su porzioni di intonaco poco coese, si interpone sulla superficie carta giapponese, al fine di non rendere traumatica l’operazione d’asportazione. Questa operazione segue quella di lavaggio con acqua atomizzata in grado di asportare i depositi meno coerenti ed ammorbidire gli strati carboniosi più consistenti. In presenza di efflorescenze si provvede alla loro asportazione meccanica tramite lavaggio con acqua deionizzata e spazzolino morbido prima di procedere con l’operazione che prevede l’uso degli impacchi. Pulitura mediante apparecchi aeroabrasivi. Si ricorre alla pulitura mediante apparecchi aeroabrasivi per rimuovere dalle superfici lapidee particellato atmosferico, incrostazioni calcaree, croste nere, graffiti, alghe, muschi e licheni. Sfruttando una spirale di tipo elicoidale (sistema Jos) a bassissima pressione (0,1-1 bar) si operano interventi di pulitura a secco. Questo sistema può essere utilizzato per la pulitura delle pietre naturali presenti nella Bigattiera, in particolare la lavagna e il marmorino del pavimento della sala di rappresentanza; la pietra serena delle colonnine del primo ordine di aperture centrali, il marmo dei davanzali delle bifore centrali del primo piano. Per i manufatti delicati (sculture, rilievi, ceramiche) si ricorre al sistema Rotec caratterizzato da un mini vortice rotante usato a secco. Pulitura a secco con spugne Wishab. Prevista per l’asportazione della fuliggine dalle canne fumarie dei camini della Sala dei Bigatti. Questo tipo di pulitura, eseguita su superfici perfettamente asciutte e non friabili, impiega particolari spugne costituite da due parti: una massa di consistenza più o meno morbida e spugnosa, di colore giallo, supportata da una base rigida di colore blu. L’intervento di pulitura risulta estremamente semplice: esercitando una leggera pressione (tale da produrre granuli di impurità) si strofina la superficie da trattare con la spugna (con passate omogenee a pressione costante), seguendo sempre la stessa direzione dall’alto verso il basso, partendo dalle aree più chiare passando, successivamente, a quelle più scure; in questo modo lo sporco e la polvere si legano alle particelle di spugna, che si sbriciola con il procedere dell’operazione senza lasciare rigature, aloni o sbavature di sporco. A pulitura ultimata si procede con la spazzolatura, mediante pennelli 88
e spazzole di nylon a setola morbida, in modo da eliminare i residui del materiale spugnoso. Per la pulitura delle superfici dipinte, al fine di evitare l’asportazione del pigmento polveroso e disgregato oppure di quelli più deboli (azzurri, verdi, tinte scure) si opera prima della procedura di pulitura, un sistematico intervento di preconsolidamento. Macroflora. Appartengono alla macroflora tutti quegli organismi microscopicamente visibili (alghe, muschi, licheni, vegetazione superiore, ecc.) il cui sviluppo sulle superfici lapidee è favorito dalla presenza di dissesti dell’apparecchio (come lesioni, cavità, interstizi, ecc.), all’interno dei quali si può accumulare dell’humus e su questo, i depositi di spore trasportate dal vento agevolano la riproduzione di alghe muschi e licheni. Le alghe provocano sulla superficie un’azione meccanica corrosiva agevolando l’impianto di ulteriori micro e macrorganismi; i licheni creano fenomeni di copertura, fratturazione, decoesione e corrosione; i muschi coprono la superficie e, penetrati in profondità, svolgono un’azione meccanica di disgregazione. La comparsa d’alghe, muschi e licheni, implica la presenza di un elevato tasso d’umidità e ne incrementa ulteriormente la persistenza agevolando l’accumulo e il ristagno delle acque. La vegetazione superiore ha un’azione distruttiva operata dalle radici radicatesi all’interno delle discontinuità e può comportare dei danni meccanici che portano, in molti casi, alla caduta del materiale. - Diserbo da piante superiori. Lo scopo della pulitura consiste nell’asportare, dai materiali lapidei, vegetazione erbacea, arbustiva ed arborea. L’asportazione viene fatta sia meccanicamente, mediante il taglio a raso con l’ausilio di mezzi a bassa emissione di vibrazioni (seghe elettriche, seghe manuali, forbici, asce, accette ecc.), sia ricorrendo all’uso di disinfestanti liquidi. L’uso dei biocidi non va fatto nei periodi di pioggia, di forte vento o eccessivo surriscaldamento delle superfici allo scopo di evitare la dispersione o l’asportazione stessa del prodotto. La verifica dell’efficacia dei biocidi, indispensabile per procedere all’estirpazione della radice, avviene dopo 30-60 giorni dalla loro applicazione. L’operazione termina con un accurato lavaggio delle superfici con acqua pulita a pressione moderata, così da garantire l’eliminazione di ogni traccia residua di biocida. - Disinfestazione da alghe muschi e licheni. Alghe, muschi e licheni crescono su substrati argillosi depositati sulle pietre, dove si manifestano con escrescenze più o meno aderenti e spesse; la loro asportazione viene fatta, sia meccanicamente (difficilmente risolutiva) mediante l’ausilio di spazzole rigide, bisturi, spatole ecc. facendo attenzione a non intaccare la superficie, sia 89
4.2
PARTE QUARTA
con biocidi. Dove i licheni risultano molto spessi e tenaci, la rimozione meccanica viene preceduta dall’applicazione sulla superficie di una soluzione di ammoniaca diluita in acqua al 5% al fine di ammorbidire la patologia e facilitarne l’asportazione. L’uso dei biocidi, ad azione immediata come l’acqua ossigenata 120 volumi, prevista in correlazione alla rimozione meccanica, ha un’efficace risoluzione per l’asportazione di alghe, muschi e licheni. Trascorso un tempo variabile tra i 5 e i 15 giorni dall’ultimo trattamento biocida, si procede all’asportazione delle patine biologiche e depositi humiferi (i quali si manifestano fragili, ingialliti, secchi e/o polverulenti) mediante spazzolatura con spazzole di saggina. Dopo l’applicazione del biocida, si esegue un ripetuto lavaggio della superficie con acqua pulita e, con l‘eventuale utilizzo d’idropulitrice, così da garantire la rimozione completa del prodotto. Operazioni previste di pulizia sui materiali lignei: Pulitura meccanica manuale. Gli strumenti occorrenti per la pulizia manuale sono costituiti da spazzole metalliche, raschietti, spatole, scalpelli, lana di acciaio e carta abrasiva di varie grane, oppure utensili speciali (tipo sgorbie) sagomati in modo da poter penetrare negli interstizi da pulire tutti questi strumenti vengono impiegati, alternativamente, in base alle condizioni delle varie superfici. A lavoro completato, la superficie viene spazzolata, spolverata e soffiata con getto d’aria compressa al fine di rimuovere tutti i residui e le parti di materiale distaccato, quindi trattata con leggera carteggiatura con carta abrasiva a secco. Levigatura manuale. La levigatura consiste nell’asportazione manuale meccanica di un sottile strato di materiale che si presenta seriamente compromesso: la procedura prevede un’operazione di sgrossatura eseguita con l’ausilio di carta abrasiva di grana semigrossa atta a rimuovere i depositi incrostati e le eventuali macchie o patine. Eseguiti questi primi passaggi, si passa a quelli operati con grana sempre più fine, così da eliminare gli eventuali segni lasciati dalla sgrossatura iniziale. La levigatura si realizza a secco prevedendo la successiva asportazione delle polveri prodotte con l’ausilio di spazzole o scopini di saggina e, con idonei aspirapolvere. Al termine della procedura si esegue un passaggio con straccio, o spugna, leggermente umidi, al fine di rimuovere ogni residuo di polvere.
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4.2
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PARTE QUARTA
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4.3
4.3 AGGIUNTE.
Come precedentemente fatto per le operazioni di preconsolidamento e pulizia, si elencano le principali operazioni di stuccatura, integrazione previste dal progetto di restauro architettonico mirato alla conservazione e al recupero della Bigattiera. Operazioni di stuccatura, integrazioni previste sui materiali lapidei: Stuccatura di elementi lapidei. Operazione da eseguire sulle basi dei pilastrini in pietra serena delle aperture centrali del primo ordine, interessate da fenomeni di esfoliazione, scagliatura. Dopo aver eseguito le operazioni preliminari di preparazione (asportazione di parti non consistenti e lavaggio della superficie) e bagnatura con acqua deionizzata si effettua l’applicazione della stuccatura in strati separati e successivi secondo la profondità della lacuna da riempire: per le parti più arretrate si utilizza una malta a base di calce idraulica naturale a basso contenuto di sali e pietra arenaria in granuli. La stuccatura di superficie viene eseguita con grassello di calce la cui carica è composta da pietra serena macinata. Il colore dell’impasto si raggiunge amalgamando, a secco, frammenti di pietra arenaria fino ad ottenere il tono esatto ma leggermente più scuro per bilanciare il successivo schiarimento dato dall’ aggiunta della calce. A presa avvenuta, al fine di ottenere una stuccatura opaca, la superficie interessata viene lavata e tamponata (esercitando una leggera pressione) con spugna inumidita di acqua deionizzata, così da compattare lo stucco, far emergere la cromia della punteggiatura ed eliminare eventuali residui di malta. Rappezzo d’intonaco. Operazione di protezione rivolta alle porzioni scoperte del muro e volta al ripristino delle parti d’intonaco mancanti. Il rappezzo è realizzato con intonaco compatibile con il supporto e similare a quello esistente per spessore (arriccio e finitura), composizione e traspirabilità; i coefficienti di dilatazione 93
PARTE QUARTA
termica e di resistenza meccanica sono similari a quelli dei materiali esistenti così da poter garantire lo stesso comportamento alle diverse sollecitazioni (pioggia battente, vapore, umidità ecc.). Prima di procedere con il rappezzo, la superficie deve essere preparata; la muratura interessata dall’intervento deve essere sufficientemente asciutta (esente da fenomeni d’umidità), scabra (mediante picchiettatura, bocciardatura ecc.) e pulita (priva di sali) in modo da consentire la totale aderenza della nuova malta sul supporto, dopodiché si esegue l’inumidimento della muratura tramite pennello imbevuto d’acqua. Compiuta la pulitura e il consolidamento dei margini del vecchio intonaco, si procede all’applicazione sulla parete del rappezzo. Particolare attenzione va riposta nella messa in opera del rappezzo in prossimità delle zone d’unione tra le due superfici affinchè la loro corretta esecuzione può eviti l’insorgenza di punti di discontinuità. La presenza del rappezzo sulla superficie muraria non si mimetizzerà del tutto con la preesistenza così da tutelare le diverse stratificazioni storiche; a tale riguardo i rappezzi esterni saranno rilevabili perché differenziati dall’uso di granulometria di inerti leggermente differenti. Integrazione cromatica. Operazione che consente di colmare le lacune esistenti nella pellicola pittorica che ricopre l’intonaco, in modo tale da ripristinare la continuità cromatica e, allo stesso tempo ristabilire la funzione protettiva propria dello strato pittorico. Prima di procedere al ripristino il supporto viene, necessariamente, preparato mediante pulitura e successivo consolidamento. Sul supporto così preparato si procede all’integrazione cromatica nel rispetto della tinteggiatura presente sulla parete. Integrazione di stucchi e modanature. La procedura si pone lo scopo di consolidare e ricostruire le modanature (cornicione di gronda ,cornice marcapiano, profilo di archi ecc.) presenti sull’apparecchio murario dove non è possibile intervenire con una semplice integrazione-stuccatura poiché la modanatura risulta particolarmente degradata. La procedura operativa prevede, dopo l’ accurata asportazione sia di materiale incoerente (polveri e detriti) sia d’eventuali materiali d’alterazione (pellicole, efflorescenze saline ecc.), la regolarizzazione dei bordi della lacuna e l’asportazione, con l’ausilio di mazzetta e scalpello, delle parti disancorate o fortemente degradate, al fine di produrre una superficie scabra che faciliti il successivo ancoraggio dei materiali aggiuntivi. L’integrazione è eseguita con un impasto a base di grassello di calce o, nel caso di elementi interni, di gesso con aggiunta di resine acriliche e cariche di inerti selezionati di granulometria compatibile con il materiale da integrare. L’impasto viene additivato con pigmenti minerali al fine di avvicinarsi maggiormente come grana e colore al materiale originario. La reintegrazione viene eseguita per strati successivi. 94
Al fine di ricostruire le modanature delle cornici viene preparata preventivamente una sagoma in metallo (lamiera di alluminio di 3-4 mm) che riproduce in negativo il profilo della cornice da ripristinare. La modellazione della malta con le sagome viene eseguita solo quando questa comincia a far presa ma risulta ancora modellabile. La sagoma deve essere tenuta sempre pulita recuperando la malta in abbondanza e pulendo accuratamente il profilo della lamina. Integrazione della pavimentazione della sala di Rappresentanza. Trattandosi di fratture e piccole cavità, si procede con una semplice stuccatura, eseguita con materiali in pasta costituiti da un legante di tipo organico (resine acriliche) e da una carica (polvere di marmo e di lavagna). Si applica la pasta, della consistenza voluta, sulle parti mancanti adoperando piccole spatole metalliche o bacchette di legno esercitando una modesta pressione al fine di otturare la cavità; in caso di fessure più profonde si possono stendere più strati di materiale intervallati tra loro con un tempo di attesa necessario per l’essiccazione. In questo caso, inoltre, si rende vantaggioso, ai fini di un corretto aggrappaggio tra gli strati, graffiare la superficie di quello sottostante, prima del suo indurimento. Al fine di eludere il fenomeno del ritiro e di permettere le successive operazioni di arrotatura, levigatura si impiega una quantità di stucco moderatamente eccedente il volume da riempire. Rincocciatura. La rincocciatura è l’operazione che consente la ricostruzione di mancanze o lacune murarie, nella massa e nel volume, tramite l’inserimento di nuovi materiali compatibili con quelli presenti allo scopo di ripristinare la continuità della parete. Si differenzia dall’integrazione muraria poiché coinvolge porzioni limitate di muratura e, dallo scuci e cuci perché non prevede la rimozione delle parti di muratura degradate. L’operazione di rincocciatura si rende necessaria per evitare il progredire e l’insorgenza dei fenomeni di degrado (infiltrazioni d’acque meteoriche, di radici infestanti ecc.) che possono attecchire all’interno della lacuna. Dalla cavità vengono rimosse tutte le parti incoerenti o eccessivamente degradate tramite l’utilizzo di mezzi manuali (martelli o punte) facendo cura di non sollecitare troppo la struttura evitando di provocare ulteriori danni. La cavità viene, successivamente, pulita ricorrendo a mezzi manuali come spazzole, raschietti o aspiratori in modo da rimuovere i detriti polverulenti e grossolani. Per la rincocciatura si ricorre a materiali affini agli originali in modo da evitare l’insorgenza d’incompatibilità fisico-chimiche: anche la malta di connessione deve essere similare a quella presente sul paramento murario per rapporto legante-inerte e granolumetria dell’inerte. Dopo la messa in opera del materiale di risarcitura si esegue la finitura.
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4.3
PARTE QUARTA
Tassellatura. Operazione che interessa tutte le mancanze riscontrabili, soprattutto nel prospetto principale in riferimento ai rosoni delle guglie. Il tassello posto in opera deve riprodurre con esattezza la parte mancante. L’adesione di tasselli di piccole dimensioni è realizzata con una malta di calce idraulica naturale. Nei casi, invece, in cui l’intervento presenti delle dimensioni considerevoli e il tassello risulti particolarmente aggettante si ricorre all’uso di sostegni interni come perni in acciaio inossidabile saldati con l’ausilio di resine. Le fessure in corrispondenza dell’unione del tassello vengono stuccate con polvere dello stesso materiale, legato con calce naturale. Operazioni di stuccatura, integrazioni previste sui materiali lignei: Operazioni di integrazioni, stuccature dei materiali lignei. La procedura prevede, come primo step, la spolveratura, con un pennello morbido, della fessura e il successivo trattamento con tampone imbevuto d’alcool denaturato al fine di eliminare velocemente l’umidità così da favorire l’adesione dell’impasto. Si passa, poi, a riempire il vuoto con lo stucco. Questa operazione avviene con l’ausilio di piccole spatole o bacchette, premendo bene e passando più volte in tutte le direzioni, in modo da avere la certezza di una perfetta otturazione del foro. Generalmente lo stucco tende, se pur in minima parte, a ritirarsi durante l’essiccazione, pertanto ne si applica una quantità sovrabbondante. In seguito, si procede alla carteggiatura manuale con grana media al fine di eliminare l’eccesso di prodotto. Si utilizza come stucco un impasto composto da colla di coniglio e da un inerte (con funzione di antiritiro e colorante) costituito da polvere di legno. All’interno di questo impasto vengono inseriti, in percentuali non superiori a 5%, pigmenti al fine di avvicinarsi alla tonalità cromatica originale. Nel caso in cui le dimensioni delle lacune sono tali da non rendere conveniente operare delle stuccature si interviene attraverso la procedura della tassellatura1.
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Vedi voce precedente. 96
4.3
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4.4
4.4 OPERAZIONI DI CONSOLIDAMENTO.
Operazioni di stuccatura, integrazioni previste sui materiali: Consolidamento dello strato corticale mediante impregnazione con consolidanti organici. Questa procedura si basa sul principio fisico della capillarità, ovverosia la capacità dei fluidi di riuscire a penetrare naturalmente, per adesione, dentro lo spazio tra due superfici molto vicine di una cavità. Grazie all’impiego di sostanze organiche, che penetrano all’interno del manufatto, si ristabiliscono e si migliorano le proprietà fisiche (riduzione della porosità e aumento della coesione) sia meccaniche (incremento della resistenza a compressione) dei materiali trattati. Il consolidante entra all’interno del manufatto, in una prima fase, per capillarità e solo in un secondo tempo si distribuisce per diffusione. Prima di iniziare il trattamento si predispongono opportune protezioni sulle superfici limitrofe a quelle da consolidare, in modo da evitare che queste vengano a contatto con il prodotto consolidante. Quest’ultimo viene applicato su superficie perfettamente pulita e sgrassata (in modo da evitare che depositi superficiali impediscano la penetrazione) e, in presenza di scaglie in fase di distacco o superfici particolarmente decoese, si prevede un preconsolidamento al fine di evitare che l’eventuale passaggio ripetuto del pennello possa rimuovere tali frammenti. Si utilizza la resina acrilica tipo Paraloid B-72: resina solida, diluita in acetone, impiegata per il consolidamento di manufatti in legno, marmo, ceramica ecc. Presenta buona resistenza all’invecchiamento, alla luce, agli agenti chimici dell’inquinamento; ha però il problema della scarsa capacità di penetrazione; è, infatti, difficile raggiungere profondità superiori a 0,5-1 cm. Possiede in genere buona idrorepellenza che tende, però a decadere nel tempo; se il contatto con l’acqua si protrae per tempi superiori alle 90 ore, tende, inoltre a dilatarsi, perciò, è consigliata per le superfici interne mentre per quelle esterne si fa seguire, al trattamento consolidante, l’applicazione di una sostanza protettiva, una velatura 99
PARTE QUARTA
a base di calce, salvaguardando le caratteristiche di traspirabilità e di permeabilità al vapore acqueo dei materiali lapidei, garantendone la conservazione nel tempo. Ci si serve di pennelli a setola morbida di medie dimensioni, rulli e tamponi (gli stracci o i tamponi saturi di prodotto vengono mantenuti in contatto prolungato al fine di assicurare l’assorbimento nella superficie). L’applicazione procede dall’alto verso il basso per settori omogenei con uso di addetti in numero appropriato alla natura e alla tipologia del manufatto; tra una mano e l’altra il prodotto non deve essere lasciato asciugare. Gli attrezzi (pennelli, rulli o tamponi) devono essere sempre ben puliti e il consolidante non deve risultare “contaminato” da eventuali residui rimasti sul pennello o rullo da trattamenti operati su aree limitrofe. Nel caso di consolidamenti di superfici lapidee particolarmente disgregate ed esfoliate o pellicole pittoriche in fase di distacco, si esegue una velatura provvisoria della zona da trattare, utilizzando fogli di carta giapponese, precedentemente fissata con resina acrilica in soluzione. Per l’impregnazione di elementi particolari come decori, cornici, capitelli lavorati ecc. particolarmente degradati che presenteranno la necessità di essere tenuti a contatto, per un determinato periodo, con la sostanza consolidante, si prevede un consolidamento mediante impregnazione a tasca od impacco. La procedura prevede la messa in opera, intorno alla zona da trattare, di una tasca: chiusa con particolari guarnizioni in poliuretano, così da renderla stagna; nella parte inferiore viene posizionata una piccola “gronda impermeabilizzata” allo scopo di recuperare il prodotto consolidante in eccesso. La zona da consolidare viene ricoperta da strati di materiale bagnante (ad es., cotone idrofilo, carta giapponese ecc.) che vengono alimentati dall’alto molto lentamente dalla soluzione consolidante e coperti da teli di polietilene, allo scopo di ridurre, l’eventuale troppo rapida, evaporazione del solvente. L’operazione di distribuzione viene interrotta quando la quantità di prodotto immesso dall’alto è uguale a quella del prodotto recuperato dal basso. L’eccesso di prodotto è raccolto nella grondaia, e rimesso in circolo; per la buona riuscita di questo metodo è necessario assicurarsi che il materiale assorbente sia sempre perfettamente in contatto con la superficie interessata. Ad assorbimento avvenuto (in genere 8-10 ore) le tasche vengono rimosse e il manufatto viene ricoperto con cellofan al fine di isolarlo dall’atmosfera per almeno 10-12 giorni. Consolidamento in profondità mediante iniezioni con miscele leganti. La procedura è eseguita al fine di consolidare strati di intonaco, anche affrescato, distaccato dal supporto, così da risarcire le eventuali lesioni e riempire le sacche perimetrali presenti tra il substrato e l’apparecchio retrostante. Prima di procedere al consolidamento vero e proprio è necessario effettuare delle operazioni di “saggiatura” preventiva eseguite mediante leggera, ma accurata 100
battitura manuale, (tramite martelletto di gomma o semplicemente con le nocche della mano) sulla muratura, al fine di individuare con precisione sia le zone compatte, sia delimitare il perimetro di quelle in fase di distacco (zone gonfiate e formanti “sacche”). In assenza di piccole fessure, lacune o fori già presenti sulle superfici intonacate attraverso le quali operare l’iniezione, si eseguono delle perforazioni, tramite piccolo trapano a mano ad rotazione con una punta di circa 2-4 mm (in caso di microconsolidamento si può ricorrere all’utilizzo di punteruoli), rade nelle zone ben incollate e più ravvicinate in quelle distaccate. Il numero dei fori è proporzionato all’entità del distacco (sui 8-10 fori per m2); in genere la distanza tra loro è di circa 40-60 cm mentre, la loro localizzazione, è tale da favorire il percolamento della miscela da iniettare, pertanto è necessario iniziare la lavorazione a partire dalla quota più elevata. In caso di distacco d’estensione limitata si può procedere all’esecuzione di un unico foro ed eventualmente, di un secondo, se necessario, per la fuoriuscita dell’aria dalla sacca di distacco durante l’immissione del consolidante. Dopo aver eseguito le perforazioni si rende necessario aspirare, attraverso una pera di gomma, gli eventuali detriti della foratura, le polveri e quanto altro possa ostacolare la corretta immissione e percolazione della miscela. In seguito si esegue una prima iniezione di acqua deionizzata ed alcool con lo scopo di creare dei canali nella parte retrostante e di verificare allo stesso tempo l’eventuale esistenza di lesioni o fori da dove la miscela consolidante potrebbe fuoriuscire; in presenza di queste fessure si procede alla loro puntuale stuccatura (che viene rimossa a presa avvenuta) tramite malta “magra”, a bassa resistenza meccanica di ancoraggio al supporto, cotone idrofilo, lattice di gomma, argilla ecc. In presenza di forti distacchi e di supporti in buono stato di conservazione, si possono inserire nel foro piccole guarnizioni in gomma a perfetta tenuta, opportunamente sigillate per impedire la fuoriuscita del prodotto. Per distacchi di lieve entità, fra strato e strato, con soluzioni di continuità dell’ordine di 0,5 mm, non essendo possibile iniettare miscele idrauliche, si effettuano micro-iniezioni di resina acrilica in emulsione acquosa. Previa umidificazione del foro e della zona circostante con acqua pulita, si eseguono le iniezioni con una normale siringa di plastica (da 10 cc o 60 cc) procedendo attraverso i fori posti nella parte più bassa per poi avanzare, una volta che la miscela fuoriesce dai fori limitrofi, verso quelli situati in alto (questo per favorire la distribuzione uniforme del consolidante); nel caso in cui la miscela non penetra in profondità si passa al foro successivo. Ad infiltrazione del formulato avvenuta, passati circa 30-35 minuti, si procede con il consolidamento di un’altra area di distacco. Dopo l’ indurimento del consolidante (minimo 7 giorni) si rimuovono manualmente le stuccature provvisorie e si sigillano i fori con stucco costituito da grassello di calce e polveri di marmo. 101
4.4
PARTE QUARTA
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4.5
4.5 LE OPERAZIONI DI PROTEZIONE.
Si procede con l’elencazione delle operazioni di protezione previste da progetto architettonico. Applicazione di impregnante idrorepellente. L’applicazione, da destinare ai gruppi scultorei in cotto posti a decorazione delle guglie degli accessi della Bigattiera, si effettua irrorando le superfici dall’alto verso il basso, in maniera uniforme ed abbondante fino a completa saturazione del supporto. Si utilizzano prodotti dal basso peso molecolare e dall’ elevato potere di penetrazione; buona resistenza all’attacco fisico-chimico degli agenti atmosferici; buona resistenza chimica in ambiente alcalino; con assenza d’effetti collaterali e di formazione di sottoprodotti di reazione dannosi (produzione di sali); con perfetta trasparenza ed inalterabilità dei colori; con traspirazione tale da non ridurre, nel materiale trattato, la preesistente permeabilità ai vapori. Si ricorre, in particolare, a Sillossani (Alchilsilossani oligomeri): polimeri reattivi a basso peso molecolare; in funzione della loro particolare struttura chimica sono in grado di infiltrarsi all’interno dei più fini capillari con elevata diffusività; offrono, inoltre, sufficienti garanzie contro l’aggressione delle soluzioni alcaline, presentando alta resistenza a temperature elevate e ai raggi ultravioletti. Il trattamento modifica lo stato di tensione superficiale del sottofondo in modo tale che le gocce di pioggia scorrano sulla superficie verticale senza inibirla; inoltre, il trattamento non crea una pellicola continua sul supporto, lasciando in questo modo al sottofondo la possibilità di traspirare, senza modificare l’equilibrio. Tinteggiatura alla calce – Scialbatura. I vantaggi della tintura alla calce risiedono nell’alta compatibilità con i materiali del supporto, nel “rispetto” dei colori e dei toni cromatici dell’ edificio storico, nella sanificazione dell’ambiente con conseguente prevenzione di muffe grazie alla naturale basicità e all’elevato tasso di traspirabilità; 103
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per contro è soggetta all’azione degradante dell’anidride carbonica combinata con l’acqua e dei gas inquinanti dell’aria. La procedura, da destinare a tutte le specchiature della bigattiera, prevede che il grassello di calce, stagionato almeno 24 mesi, (o calce idrata), venga stemperato in una quantità d’acqua necessaria al fine di ottenere un composto sufficientemente denso (rapporto grassello acqua 1:2), che viene lasciato riposare da un minimo di 6-8 ore ad un massimo di 48 ore. A stagionatura avvenuta il composto viene passato al setaccio allo scopo di eliminare le impurità presenti nell’impasto (parti insolubili o corpi estranei). L’acqua utilizzata per l’impasto deve essere esente da impurità di carattere organico (acidi, sali e alcali) causa di incompattezza delle tinte, alterazioni dei colori e macchie. La coloritura dell’impasto si ottiene tramite l’aggiunta di pigmenti minerali e terre naturali. I pigmenti prima di essere amalgamati al latte di calce, al fine di poter ottenere la dispersione omogenea dei colori, devono esser immersi in una quantità d’acqua (pari al doppio del loro volume); lasciati riposare per alcune ore e passati al setaccio (in modo da trattenere i grumi più grossi). Prima di procedere all’operazione di tinteggiatura devono essere verificate le condizioni del supporto che deve presentarsi pulito, ben aderente, privo di depositi superficiali e macchie di umidità e patine di smog; a tal fine vengono eseguiti uno o più cicli di pulitura così da rimuovere eventuali efflorescenze saline o presenze di muffe ed altri infestanti biologici e nel caso l’intonaco si presenti disgregato o distaccato, ad un eventuale consolidamento (riadesione di distacchi mediante iniezioni), facendo cura di ovviare ad ogni lacuna, cavillatura o fessurazione tramite rappezzi e/o stuccature. Per ottenere una superficie compatta, duratura e colorata uniformemente, sull’intonaco ancora fresco si stende una mano di fondo, composta da latte di calce molto grasso, dopodiché, prima della completa asciugatura, si applica il colore molto diluito; in questo modo si assicura una maggior capacità legante al tinteggio senza dover ricorrere ad additivi. Quando la tinteggiatura a calce viene impiegata come integrazione pittorica è opportuno aggiungere al composto utilizzato per la stesura della seconda mano, un additivo (legante) allo scopo di migliorare le caratteristiche fisiche della tinta; si ricorre al caseinato di calcio con aggiunta di ammoniaca (antifermentativa). Prima di applicare la tinta su tutta la parete, al fine di ottenere la tonalità di colore desiderata, si eseguono delle prove campione poiché la tinta a base di calce schiarisce notevolmente una volta essiccata; inoltre la tinta, seccando, aumenta il proprio potere coprente, fattore che deve essere tenuto in conto in funzione dell’effetto che si intende ottenere. Per la stesura della tinta sul supporto si utilizzano pennelli a setola animale con stesura sempre nella stessa direzione. Prima di iniziare l’operazione di tinteggiatura accertarsi che il supporto sia esente da fenomeni d’umidità poiché potrebbero generare, ad 104
operazione ultimata, l’insorgenza di macchie. Dal momento che la tinta a calce viene applicata su tinteggiatura a calce preesistente, deve essere preceduta dall’imbibizione, a più riprese, di tutta la superficie da trattare, con uno strato d’ancoraggio realizzato con una mano di latte di calce grassa su cui applicare, a bagnato, la tinta a calce. Operazioni di protezione previste sui materiali lignei: Trattamento con prodotti vernicianti. Il trattamento deve, necessariamente, essere preceduto da un’adeguata preparazione del supporto, realizzata mediante pulitura sgrassante al fine di rimuovere ogni traccia di sostanze incoerenti, unti, grassi ecc.; successivamente vanno eseguite le necessarie stuccature, con colla di legno, delle fessurazioni e la carteggiatura della superficie con carta abrasiva a secco (grana 80-100), al fine di eliminare il materiale eccedente e favorire l’adesione del trattamento protettivo. Eseguite le operazioni preliminari, si applica, tramite pennello a setola morbida o mini-rulli, il primo strato di pittura trasparente, coprendo uniformemente il supporto e evitando di lasciare colature di materiale. Quando lo strato di fondo è asciutto al tatto si procede ad eseguire la mano di finitura. Trattamento con sostanze antitarlo, antimuffa e antifungo. Prima di effettuare il trattamento preservante, la struttura deve essere puntualmente ispezionata (per tutta la superficie in maniera puntuale) ricorrendo a strumenti come punteruolo, scalpello e martello al fine di saggiare la consistenza del legno, asportarne piccole porzioni da analizzare in laboratorio e battere il materiale al fine di individuare le zone, eventualmente, attaccate dagli insetti o funghi; se necessario si può ricorrere all’uso della lente d’ingrandimento per osservare gli eventuali fori di sfarfallamento e il rosume riscontrati (elementi in grado di rivelare la specie d’insetto e se l’attacco è ancora attivo). Attraverso l’igrometro elettrico da legno è possibile misurare il contenuto d’umidità in modo da poter determinare se esiste o è in atto un attacco fungicida. Eseguito l’eventuale, consolidamento della superficie (stuccature, sostituzioni parziali ecc.), si potrà eseguire la procedura. Il prodotto utilizzato per la protezione o disinfestazione presenta un bassissimo grado di tossicità, non forma una pellicola superficiale, non produce alterazioni cromatiche e consente l’eventuale applicazione di una successiva verniciatura. L’applicazione del prodotto, è fatta a pennello. Ad essiccazione del prodotto avvenuta (in media 4-6 ore) la parte trattata viene carteggiata (nel senso della venatura del legno ricorrendo all’uso di carta abrasiva di grana 100, 120), al fine di eliminare le eventuali fibre legnose rialzate durante l’applicazione del prodotto. Nel caso 105
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in cui all’interno del materiale si riscontri la presenza d’insetti si deve procedere alla disinfestazione puntuale. Disinfestazione del legno. Dopo aver individuato con esattezza la tipologia d’insetto presente nel materiale, si procede con il trattamento disinfestante; questo deve essere fatto nel periodo di maggiore attività dell’insetto (generalmente primavera o inizio estate). I prodotti utilizzati presentano una buona capacità di penetrazione all’interno del legno, in modo da eliminare le larve e le crisalidi e, allo stesso tempo sono in grado di impedire la penetrazione di altri insetti, per questo il prodotto viene applicato anche in superficie. L’applicazione del prodotto avviene a pennello per la superficie, mentre si ricorre ad iniezioni (a siringa) per garantire la penetrazione all’interno dei fori creati dagli stessi insetti, in modo da assicurare il trattamento anche in profondità. Il trattamento varia in relazione alla tipologia di insetto presente (Anobiidi, Termiti del legno secco, Cerambicidi ecc.); i disinfettanti più comuni sono a base di naftalina clorurata. Nel caso di termiti sotterranee non è sufficiente limitare il trattamento alla struttura colpita ma deve essere interrotto il flusso degli insetti dal nido presente nel terreno dell’immobile; intorno a questo deve essere realizzata una barriera costituita da preservanti immessi direttamente nel terreno, in modo che le termiti sopperiscano al momento della muta. Per ovviare l’attacco del materiale da parte dei funghi, le sostanze utilizzabili sono miscele a base di floruri (miscele di floruri con sali arsenicati di sodio). L’efficacia della procedura di disinfestazione è in ogni caso, vincolata dall’accuratezza della messa in opera e soprattutto dal reale sviluppo su tutta la superficie: i punti delicati sono le sezioni di testa, le giunzioni, gli appoggi e in genere le alterazioni dovute ad incastri, tratti di sega, buchi per chiodi; in questi tratti è essenziale porre la massima attenzione affinché il trattamento li coinvolga completamente. Si opera inserendo tra le due superfici di contatto, oppure sulle sezioni di testa, una pasta composta al 50% da sale biocida e 50% d’acqua e ripassando tutte le connessioni e sezioni di testa con la medesima soluzione salina. La procedura operativa deve essere seguita dopo 2 anni da un intervento a spruzzo con gli stessi sali, intervento che va ripetuto dopo 5 anni dal primo.
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4.6 DRENAGGIO.
Le due procedure d’intervento, qui proposte, vengono adottate al fine di fronteggiare la presenza dell’umidità e il fenomeno di risalita capillare che riguarda principalmente il prospetto sul giardino. Parallelamente alla realizzazione di un marciapiede a battere sul fronte, si prevede un sistema di drenaggio delle acque: l’intervento ha lo scopo di evitare il contatto diretto tra la muratura ed il terreno umido. Drenaggio. Questa tecnica, infatti, è in grado di convogliare, lontano dalla muratura, le acque di scorrimento e quelle derivanti dalla falda freatica. Il dispositivo, localizzato in aderenza alla muratura richiede il posizionamento, a contatto con il muro, di una barriera impermeabile costituita da membrane di bitume polimero elastomeriche. Si realizza uno scavo (eseguito a mano o con l’ausilio di piccoli escavatori a cucchiaio) per piccoli cantieri successivi, al fine di creare una trincea di profondità 1,2 m e larghezza 4,5 m eseguendo gli eventuali sbatacchiamenti in presenza di terreno incoerente o con terreno che non offre assolute garanzie di sicurezza. Successivamente, dopo aver ripulito accuratamente la parete controterra con acqua deionizzata ed energica spazzolatura con l’ausilio di spazzole di saggina, al fine di rimuovere ogni traccia di terreno ed eventuali residui umiferi, si procede alla stuccatura dei giunti con malta di calce idraulica. Tirato e consolidato l’intonaco si applica la guaina isolante bituminosa liquida data a pennello (prodotto a consistenza liquida a base di bitumi con elastomeri e filler in dispersione acquosa). Il drenaggio è costituito dal riempimento a secco della trincea, precedentemente scavata, con ciottoli, scheggioni (costituiti da materiali poco porosi ed assorbenti come pietre laviche) disposti a mano su terreno ben costipato mediante spianatura, bagnatura 111
PARTE QUARTA
e battitura, al fine di evitare cedimenti; in ogni caso il piano è tirato in modo da avere una pendenza intorno ai 2% così da favorire il deflusso delle acque. Il drenaggio è integrato con un tubo drenante (f 200-400 mm) in materiale cementizio forato, avente la corona superiore molto permeabile e la parte inferiore compatta ed impermeabile, posto sul fondo della fossa, con la funzione di raccolta dell’acqua in serbatoio interrato predisposto per il recupero delle acque meteoriche. Il materiale di riempimento, sopra il primo strato di ciottoli e scheggioni di grosse dimensioni (100-150 mm), è di granulometria diversificata, sempre più fine a mano a mano che ci si avvicina alla superficie. Al fine di impedire infiltrazioni d’acqua piovana si rende necessario creare un marciapiede sul fronte dell’edificio di 4,5 m di profondità, in lastroni di pietra serena e d’inclinazione tale da allontanare l’acqua dalla parete. In tal modo l’assorbimento d’umidità sarà ridotto al solo piano di appoggio della fondazione. L’ intervento è affiancato all’interno dell’edificio dalla messa in opera di un gattaiolato areato.
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Gattaiolato con casseri prefabbricati. L’intervento può essere considerato la variante moderna del gattaiolato; il supporto della pavimentazione viene gettato direttamente su casseri a perdere, prefabbricati in polipropilene riciclato di dimensioni (60x60 cm alti 55cm), dalla forma ad igloo, quadrilateri svuotati ai fianchi al fine di consentire la circolazione d’aria nelle quattro direzioni. I moduli, dotati di nervature per potenziare le caratteristiche meccaniche e il sistema d’incastro rapido senza necessità di fissaggio, vengono accostati per ricavare l’intercapedine ed, al tempo stesso, il piano per il getto della soletta (di 15 cm armata con rete elettrosaldata di acciaio Fe B 38 K f 6 mm e maglia 200x200 mm). Si procede con la messa in opera dei pannelli termoisolanti (spessore 5 cm), del massetto in cls alleggerito porta impianti di 15cm e del parquet in legno di rovere. I moduli poggiano su sottofondo di livellamento realizzato in ghiaia e magrone di calce idraulica di almeno 10 cm armato con rete elettrosaldata f 6 mm maglia 200x200 mm. Sono previste perforazioni sulle pareti perimetrali per aprire bocchette di areazione.
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4.6
PARTE QUINTA
PARTE QUINTA Proposta di riuso.
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5.1 IPOTESI PER UN NUOVO POLO ESPOSITIVO E MANIFATTURIERO.
Villa Roncioni ospita, nei suoi locali, la Fondazione Cerratelli nata con lo scopo di restaurare, ripristinare, catalogare e conservare, nonché di esporre e far conoscere il patrimonio in abiti che furono confezionati dalla celebre Casa d’Arte Cerratelli; una collezione inestimabile ed unica al mondo, nella quale è sedimentata tanta storia del teatro di prosa, del cinema e soprattutto della lirica italiana e mondiale. La sartoria Cerratelli vanta collaborazioni di alto calibro da cui scaturiscono abiti di straordinaria fattezza, oggi conservati dalla fondazione, che hanno permesso la produzione di opere quali “La bisbetica domata”, “Romeo e Giulietta”, “Fratello sole e sorella luna”, “Otello” di Franco Zeffirelli, “La Venexiana” di Bolognini, “Camera a vista” di James Ivory e molte altre. In linea con gli «obiettivi della fondazione legati alla creazione di un museo/polo espositivo dello Spettacolo, dove i beni di valore artistico e/o storico pervenuti a qualsiasi titolo alla Fondazione, possano essere ammirati e mantenuti in perfette condizioni1», si propone un recupero progettuale/architettonico della Bigattiera, volto alla realizzazione di una serie di ambienti, a corredo di quelli presenti nella Villa, che si inseriscano all’interno del progetto di apertura dell’Opificio Cerratelli. Il progetto generale, infatti, prevede la realizzazione di un’adeguata sede per la Fondazione Cerratelli, che integri al suo interno aree espositive, servizi logistici e produttivi, al fine di ottenere una costruzione che diventi polo d’eccellenza, di sostegno e rilancio dell’artigianato sartoriale tradizionale. Ovviamente la Fondazione costituisce di questo progetto il cardine fondamentale, con il suo patrimonio di costumi teatrali e cinematografici ora conservati in locali che necessitano di profondi interventi di adeguamento e ottimizzazione. Con la realizzazione dell’Opificio Cerratelli, le attività presenti all’interno della villa si integrano, all’esterno dell’edificio principale, con una 1
Cfr sito ufficiale della Fondazione Cerratelli - http://www.fondazionecerratelli.it/home.html 115
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PARTE QUINTA
serie di servizi per laboratori e attività di formazione (laboratori di sartoria, lavanderia, stireria), aree espositive e ambienti logistici (spogliatoi e locale per le sfilate). La bigattiera, ex manufatto industriale, torna ad assolvere il ruolo di opificio conservando l’antico legame con l’arte tessile: a distanza di un secolo accoglie nuovi ambienti legati al mondo della produzione artigianale. I dislivelli presenti tra i tre volumi della Bigattiera hanno inevitabilmente suggerito la distinzione di tre grandi aree funzionali, con il foyer centrale che funge da cerniera e perno degli spostamenti spaziali: l’area espositiva sulla sinistra, per allestimento di opere museali temporanee tematiche con magazzini aperti che consentono al visitatore di cogliere con un rapido colpo d’occhio l’entità della collezione Cerratelli; l’area dei laboratori al piano superiore, per la formazione di personale qualificato e il restauro degli abiti storici; l’area funzionale alla presentazione e vendita dei prodotti, a destra, con sala conferenze, passerella per sfilate e servizi connessi (stireria/lavanderia, spogliatoi per i modelli). D’altronde l’impianto stesso della Bigattiera, costituito da due lunghe stecche di ambienti infilati, frammentati da arconi a tutto sesto e salone libero da tamponamenti e pareti divisorie (al primo piano), ben si presta ad un recupero in questi termini. Nessun intervento invasivo è messo in atto: non sono previste demolizioni, fatta eccezione per il ripristino filologico di alcune aperture successivamente tamponate, mentre pochi sono i diaframmi murari inseriti ex novo a servizio, principalmente, dei bagni e dei locali tecnici. Nel rispetto della normativa vigente, soprattutto nei termini del superamento delle barriere architettoniche e della sicurezza anti-incendio e anti-sisma, il progetto ben si inserisce all’interno della preesistenza, nel chiaro intento di esaltarla e ridarle vita attraverso nuove destinazioni produttive. Per quanto concerne le questioni tecniche, si prevede la realizzazione di un impianto di riscaldamento, condizionamento e ventilazione meccanica a tutt’aria con terminali istallati a soffitto, soluzione tra le più indicate in presenza di luoghi espositivi e di lavoro, con macchina di trattamento dell’aria (di dimensioni stimate pari a 38,28 mq) installata all’interno di un vecchio annesso della villa, la casa del custode, collocata in prossimità del muro di recinzione della proprietà, vicino al cancello di entrata. Si tratta di un locale, con accesso dall’esterno, in rispetto della normativa antincendio2, realizzato all’interno di un edificio ormai dismesso che si prevede, a tal fine, di restaurare. Per la produzione di acqua calda 2
D.M. 20 MAGGIO 1992, “Norme di sicurezza antincedio per gli edifici storici e artistici destinati a musei, gallerie, esposizioni e mostre. 116
sanitaria, si progetta l’istallazione di un boyler con serbatoio pari a 2.000 l e caldaia nell’ambiente ammezzato, accessibile dalla scala che conduce al piano superiore dei laboratori. La cabina elettrica, comprendente trasformatori e quadro generale, viene collocata nell’ambiente di servizio posto dietro all’abside destro della Sala di rappresentanza. Si prevede, quindi, la realizzazione dell’intero apparato impiantistico, di cui la Bigattiera risulta ad oggi sprovvista: le canalizzazioni di acqua e luce trovano collocazione nel massetto predisposto a pavimento, dal momento che tutti gli ambienti, fatta eccezione del corpo centrale, presentano massetto portante (ambiente al primo piano) e spiccato fondale a vista, poiché i lavori di consolidamento compiuti nel 2002 si sono limitati ad interventi strutturali lasciando incompiute le operazioni di finitura. Il fine ultimo ed esclusivo che l’intervento si pone è quello di avviare una serie di operazioni e trasformazioni che rilancino la Bigattiera, senza mai mortificarla, ma al contrario esaltandola, nel tentativo di renderla adeguata al patrimonio culturale e artigianale che si troverà ad ospitare, la collezione Cerratelli, un unicum sul fronte artistico e culturale. 72
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Nell’ampio panorama delle ville che insistono nel territorio di San Giuliano ne sono state scelte alcune a mò di campionario del vastissimo patrimonio architettonico che impreziosisce questo luogo di già alto valore paesaggistico. 1. VILLA AGOSTINI DELLA SETA (VILLA CORLIANO) - CORLIANO «un palazzo da signore con sua scala di fuora con suo ballatoio davanti la porta maggiore con fonte e con terra intorno ad uso di detto palazzo...»1. Una delle più belle ville sangiulianesi, Villa Agostini si presenta come un volume compatto con una facciata rigorosamente simmetrica, sulla quale campeggia la scala a doppia rampa che inquadra i due grandi portali del piano terra e del piano primo. La semplice struttura dell’edificio risulta nobilitata da una sottile e raffinata decorazione a graffito che doveva originariamente occupare tutti i prospetti. Di questi sono oggi conservati solo frammenti sul fronte posteriore e su un fianco. La tecnica del graffito, assai durevole e adatta a configurare facciate di semplice tessitura, è elemento distintivo dell’architettura pisana di tardo cinquecento. (Ne troviamo esempi in città, nel palazzo dei Cavalieri e in altri coevi di via S. Maria e dei Mille). Nella villa la decorazione scandisce lo spazio contribuendo ad alleggerirlo e al tempo stesso, con un programma figurativo allegorico, annuncia le virtù domestiche e i buoni auspici per la campagna. Nella parte alta del fronte posteriore si leggono i simboli delle virtù (la fortezza con l’albero, l’abbondanza con un pomo, la fortuna con il velo), intercalate dai consueti motivi delle arpie, corone di fiori e frutta, vasi da giardino, uccelli e animali adatti al lavoro nella campagna (il mulo con le bisacce per esempio). All’interno il salone e i vestiboli comunicanti e passati risultano, invece, decorati da un bellissimo ciclo di affreschi del fiorentino Andrea Boscoli (su incarico di Jacopo Della Seta nel 1592) come testimonia la firma e la data che compare sulla volta del salone principale. Edificata a partire dal 1448 dalla famiglia Spini di Firenze nel 1536 viene ceduta a Pietro Della Seta, fino al 1745 quando per via ereditaria passa a Cosimo Agostini, marito di Teresa della Seta. Già nel seicento la villa viene indicata come la più elegante dei dintorni di Pisa, con le sue facciate arricchite da figure allegoriche graffite. Nella seconda metà del settecento la villa subisce l’intervento dell’architetto Ignazio Pellegrini. Il progetto a noi pervenuto della facciata del palazzo fa parte di un riassetto complessivo basato su un diverso modo di rapportare il costruito con il giardino, la natura e il paesaggio agricolo, la dimensione privata dalla campagna circostante. Allo schema rigorosamente determinato secondo assi prospettici, di matrice classicista, si sovrappone la costruzione di spazi artificiali che realizza 1
Archivio di Stato di Pisa, Fiumi e Fossi, n. 2515.
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fondali evocativi di spazi immaginari. La tensione decorativa di matrice barocca, a cui si perviene con l’intervento del Pellegrini, si accompagna alla ricerca di effetti spaziali che coinvolgono l’architettura dell’edificio rispetto al suo intorno. La sequenza delle architetture, intercalata dai viali e dal verde, si svolge secondo un climax ascensionale che, attraverso lo spazio del salone-vestibolo, dilatato da illusorie prospettive, coordina i due opposti fronti culminando nel ninfeo. Questo, nella geometria dell’intera composizione, rappresenta il vertice del cono ottico che centra il palazzo e si espande lateralmente con i due rispondenti corpi di fabbrica destinati a rimesse e scuderie. La riconnotazione complessiva della villa crea un raccordo architettonico-spaziale tra tutti i manufatti che incorniciano il palazzo; alle due ali laterali si innesta il paramento di chiusura del giardino, scandito da nicchie con statue e fontane. Si viene in questo modo a realizzare un invaso semicircolare che emblematicamente culmina al ninfeo.
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2. VILLA DAL BORGO – PUGNANO La villa viene realizzata nei primi anni del XVIII secolo da Giovanni Saladino Dal Borgo. Sul finire ingloba anche la residenza dei Ceuli, documentata fin dal 1618 come «casa da signore con colombaia et altre appartenenze...2» che, adibita poi a foresteria e riconfigurata in stile eclettico, diviene elemento pittoresco del parco. L’edificio residenziale, dalla volumetria complessa e dal carattere incompiuto, è stato realizzato in più momenti. Una memoria dell’originaria architettura è conservata nella decorazione di un sopraporta (primo piano, salotto laterale) di metà settecento: a quella data il palazzo si presentava a impianto rettangolare con le facciate regolarmente scandite da tre ordini di semplici finestre disegnate da spesse cornici in pietra. Il portale centrale appare inquadrato da colonne che sostenevano il balcone sovrastante. L’assetto attuale, con un avancorpo laterale e la struttura incompiuta di quello corrispondente, articolato secondo uno schema a «U», è il risultato di un intervento dei primi decenni di questo secolo progettato dall’ingegner P. Studiati. A lui si devono tre diverse soluzioni stilistiche della facciata: una neorinascimentale (sulla quale ricade la scelta finale), una neo-manierista con allusioni palladiane e, infine, una dal gusto rococò . Il corpo principale dell’edificio conserva i caratteri settecenteschi. Il grande salone passante che immette nel vano-scala con il monumentale scalone in posizione laterale, realizzato su idea dell’architetto Ignazio Pellegrini, ricorda la soluzione adottata per la villa Roncioni a Pugnano. La ristrutturazione interna deve essere stata conclusa nel 1754, data apposta sulla parete del vano scala. L’allestimento decorativo dell’interno è attribuito a Da Morrona e a Domenico Tempesti, padre di Giovanni Battista, con il quale collaborano Iacopo Donati e Ranieri Gabrielli, «architetti» pisani che operano anche a palazzo Ruschi. Per quanto concerne il rapporto del palazzo con il suo intorno, l’assetto compositivo di villa Dal Borgo rivela assonanze con quello di villa Agostini pensato dal Pellegrini. A un’analoga situazione morfologica fa riscontro un’univoca ricerca compositiva (in questo caso le opere furono più modeste), con la stessa direttrice assiale che penetra attraverso il palazzo per culminare al ninfeo, emblematicamente rappresentato dalle icone dei miti acquatici. Il giardino si sviluppa nella parte retrostante della villa, dilatandosi lateralmente verso le architetture di corredo al verde: la limonaia, la piccola cappella a pianta centrale in stile eclettico tardo-ottocentesco e la suggestiva foresteria ricavata nell’ex-villa Ceuli, con stilemi neorinascimentali, nascoste tra la vegetazione, dichiarano il gusto «pittoresco» di una sistemazione di tardo ottocento. 3. VILLA DETTA «LE MOLINA». MOLINA DI QUOSA In data 29/12/1623 la proprietà, composta da «una casa da signore con una casa scoperta con chiesa fabbricata di nuovo con pergolato con colonne et altre sua appartenenze e con giardino e ragnaia...» passa dagli Urbani ai Campiglia3. Questa descrizione attesta l’esistenza di un complesso di un certo prestigio, inserito in un intorno che distingue la zona del giardino da quella destinata alla caccia (insieme alla villa Ceuli-Pini di Molina sono queste le uniche proprietà con ragnaia4 presenti nell’area del lungo-monte ai primi del seicento) e con la cappella indipendente dalla residenza. Dalla fondazione, che si può far risalire almeno alla seconda metà del XVI secolo, un primo importante Archivio di Stato di Pisa, Fiumi e Fossi, 2515, p. 54. Archivio di Stato di Pisa, Fiumi e Fossi, n. 2546 e Archivio di Stato di Firenze, Atto Notaro Guadagni, 29/12/1623, n. 102. 4 Un boschetto con alberi ad alto fusto, piantati abbastanza fittamente, tra i quali venivano stese delle reti per la cattura di piccoli uccelli, dette “ragne. 2 3
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intervento è realizzato intorno al 1640 - data dipinta su un sovra-porta del salone centrale, sul quale campeggia lo stemma della famiglia quando l’edificio presentava un impianto rettangolare con apertura sul loggiato. L’attuale configurazione dell’edificio è il risultato di diversi interventi che tra il XVIII e il XIX secolo si sono sovrapposti. L’articolazione degli spazi con la formazione della pianta a «U» che racchiude l’hortus conclusus o giardino dei fiori (riconducibile agli ultimi decenni del settecento). Fino a tutto l’ottocento furono diversi i proprietari che si alternarono: dagli Alliata agli Scotto, ai Principi Corsini (1840), ai Pozzo di Borgo. Al sovra-porta datato 1640 con stemma Campigli, si affianca quello datato 1853 con stemma dei nuovi proprietari che probabilmente documenta l’ultima fase dei lavori. Risale alla fase ottocentesca dei lavori la sistemazione del parco con l’ampia radura erbosa antistante la chiusa del palazzo.
4. VILLA MAZZAROSA PRINI AULLA – PONTASSERCHIO La villa della famiglia Mazzarosa Prini Aulla, viene realizzata nella seconda metà del settecento. Distrutto il palazzo durante l’ultima guerra (i ruderi sono stati recentemente occultati), il complesso comprende oggi il parco, la fattoria, i fabbricati colonici, la cappella. Di particolare interesse è l’assetto distributivo dell’insieme che vede la residenza padronale con le sue pertinenze schermata da un muro di cinta lungo il quale si articola un percorso semicircolare sul quale si attestano le costruzioni agricole e le cappelle. Questi fabbricati si integrano con il villaggio, ai cui margini fu costruita la villa. I ruderi del palazzo, uniti a un’esauriente documentazione fotografica di primo novecento, attestano un’architettura di chiara impostazione settecentesca: il rigido involucro del palazzo appare scandito e riquadrato dalla sequenza di lesene che si raccordano alla cornice di coronamento. Questa ricercatezza dei prospetti trova corrispondenza con quella degli allestimenti interni. Le foto documentano un salone passante coperto a volta con le pareti disegnate da cornici e riquadri in stucco destinate ad alloggiare dipinti e statue e le restanti sale del primo piano decorate, l’una con ornati geometrici di gusto ottocentesco l’altra con motivi di architetture in trompe-l’oeil. All’esterno, in asse con l’ingresso, si conservano ancora dalle demolizioni, due gazebi e due limonaie in posizione simmetrica rispetto ad un viale allineato all’ingresso. Il parco, oggi completamente alterato rispetto all’originario assetto, progettato nella seconda metà del settecento con modifiche ottocentesche, coniugava istanze del gusto pittoresco e del giardino all’inglese, con le costruzioni geometriche proprie del giardino all’italiana: geometria dell’impianto nell’area prossima al palazzo, casualità di percorsi, micro-architetture ecclettiche, statue (allusive dei consueti temi del villeggiare ossia danze, giochi, esecuzioni musicali…)… nel bosco. Nella parte posteriore al palazzo, il percorso, ancora oggi visibile, che diaframma la residenza padronale dai luoghi del lavoro, collega una serie di edifici allineati, prospicienti la via pubblica, in parte destinati ad alloggi dei contadini, in parte usati come annessi agricoli. L’allineamento è interrotto dall’accesso, marcato da una struttura tardo-barocca con pilastri bozzati sormontati da leoni in marmo, e arricchita da una cornice a volute. Affiancata all’ingresso è la cappella intitolata a San Ranieri, internamente affrescata con motivi di quadrature e decorata con medaglioni in stucco. IV
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5. VILLA TADINI BUONINSEGNI, TOBLER, CYBO, MEDICI - AGNANO Residenza di caccia di Lorenzo il Magnifico, la villa di Agnano esprime in maniera paradigmatica il significato umanistico della vita campestre e del rapporto con la natura: luogo ideale per cacce al falcone come per incontri e colloqui eruditi, luogo scelto soprattutto «ad ri- creandum animum solitudine»5. La proprietà dei Medici ad Agnano è anche il segnale dell’interesse governativo verso la messa a coltura di nuove terre che troverà la consistenza di un vero e proprio programma con le successive iniziative medicee. Lorenzo sembra aver soggiornato a lungo ad Agnano in compagnia della consorte Clarice Orsini, della madre Lucrezia, di Angelo Poliziano e forse di Luigi Pulci. Alla sua morte, nel 1494, quando le proprietà dei Medici vengono confiscate dai fiorentini, la villa di Agnano sfugge a questa sorte, poiché passa per via ereditaria al genovese Francesco Cybo. Dal 1519 la villa diviene proprietà del cardinale Innocenzo che inizia l’ampliamento e la riconfigurazione dell’originario casino di Lorenzo. (La data incisa sui balaustrini in pietra della fontana, «1621 A.D.», attesta probabilmente il completamento dei lavori del giardino). A questo intervento è ascrivibile il disegno attribuito a Giovan Battista Da Sangallo, fratello del più famoso Antonio, che realizza un impianto a «U», di chiara impostazione rinascimentale. L’impianto del palazzo si proietta sull’organizzazione del giardino: un rettangolo regolarmente ripartito da due assi ortogonali, che individuano percorsi alberati. Conclude la sequenza delle geometrie la vasca rettangolare contenuta nella larghezza del fronte dell’edificio. Le misure sono perfettamente armoniose: l’ampiezza del costruito corrisponde esattamente all’ampiezza dell’insieme del giardino con la peschiera. Verso la fine ottocento, l’originario assetto rinascimentale del giardino subisce una trasformazione in chiave pittoresca. Un percorso irregolare ad anello si allontana dall’edificio per sfumare nel verde di una folta vegetazione di tigli, cedri del libano, acacie, magnolie, alternati a boschetti di camelie, radure erbose e arbusti, e proseguire quindi oltre l’antica peschiera, assurta a episodio di un quadro paesistico. I percorsi si fanno sinuosamente intrecciati, labirintici, scoprono improvvise architetture di gusto esotico, come la grande voliera che era stata commissionata da Vittorio Emanuele II per il giardino di Boboli. Il parco si sviluppa seguendo l’inclinazione del terreno, iniziando oltre la grande terrazza che proietta la visuale verso il paesaggio. Questo nuovo assetto del parco è opera di Maximilian Hahn, giardiniere del duca di Modena, chiamato ad Agnano dal duca Ferdinando Carlo nel 1847. La villa passa, infatti, dai Cybo, duchi di Massa Carrara, alla famiglia Este, signori di Modena. In particolare Maria Beatrice, ultima discendente degli Este, nuora dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, si impegna in opere di riorganizzazione produttiva della proprietà terriera e di abbellimento della casa6. Intorno agli anni 1816-1819 viene riconfigurato il fronte lato-giardino, impaginato dalla trama di lesene che inquadrano la successione verticale delle aperture, con l’ampia terrazza-belvedere. Se tuttavia i prospetti mantengono la rigorosa geometria rinascimentale, gli interni vengono continuamente aggiornati al gusto dei proprietari che si succedono. Alla fine dell’ottocento, quando diviene residenza di Oscar Tobler, professore di agraria all’università di Pisa, la villa viene riallestita e adeguata a uno stile di vita intimo e familiare. La varietà delle stanze di uso comune, di dimensioni contenute e raccolte, si distingue per la specificità degli schemi decorativi e cromatici, opera del pittore pisano Nicola Torricini7: motivi architettonici in trompe-l’oeil alternati a ripetitive trame da tappezzeria, bordure floreali, geometrie in monocromo e stucchi. 5
A. Niccolai, Palazzi, ville e scene medicee, Pisa, 1914, p. 54.
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Archivio privato Tadini.
7
Il Torricini risulta attivo in altre ville del territorio pisano. Si veda: M. A. Giusti, L’età moderna, cit. pp. 285, 300. VI
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6. VILLA POSCHI - PUGNANO. La settecentesca architettura del palazzo svolge un tema consueto nelle ville di questa zona che ritroviamo in quella degli Agostini a Corliano, dei Prini a Pontasserchio, nelle ville di Molina e nel palazzo delle terme: un impianto bloccato il cui fronte è segnato dalla sequenza delle aperture, profilate da cornici in pietra serena. La ritmica delle aperture si fa concitata al centro enfatizzando l’asse mediano sul quale campeggia lo stemma della famiglia. Il palazzo è il risultato di un’elaborazione di preesistenze databili tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. Gli estimi seicenteschi documentano infatti l’esistenza di una «casa da cittadino con colombaia e sue appartenenze con chiostra avanti e con casa separata per il lavoratore»8. Una lapide in marmo apposta sopra il portale d’accesso ricorda la data di conclusione dei lavori: 1791. In quel periodo la villa fu riprogettata, ampliata, e ornata sulla preesistente di più modesta entità, da Vincenzo Poschi. Sempre destinata a uso rustico, ma resa più comoda e adatta al villeggiare, la villa svela ancor oggi, attraverso le residue decorazioni interne, la ricchezza e la preziosità comuni alle limitrofe dimore settecentesche. 7. VILLA BERNI STUDIATI, GAETANI - MOLINA DI QUOSA La costruzione della villa risale agli ultimi anni del XVI secolo, quando la modesta proprietà di Leone e Clemente, figli del capitano Roberto Del Rosso De Medici, consistente in una casa padronale e una per il lavoratore, viene ingrandita, trasformata e ridotta in villa. L’atto di vendita a favore di Altobianco Buondelmonti, in data 10 giugno 1596, rende conto della trasformazione che deve essere avvenuta intorno agli anni ottanta del cinquecento: «una casa per uso suo et una per il lavoratore oggi fattine di tutto un casamento da signore con staiora sei di terra...». Pochi decenni dopo la stessa proprietà, divenuta di Camillo Gaetani, passa in dote al monastero di San Matteo di Pisa tramite donna Elena Vittoria Gaetani, monaca professa. Risale agli inizi del settecento l’appartenenza alla famiglia Berni e quindi, per via ereditaria, agli Studiati, attuali proprietari.9 Nonostante i diversi passaggi di proprietà, dalla fine del XVI secolo agli inizi dell’ottocento la villa non sembra aver subito consistenti trasformazioni. La struttura architettonica e stilistica che l’edificio acquisì con Leone e Clemente Del Rosso De Medici, è confermata dal rilievo dell’ingegner Giovanni Andreini del 1805: un impianto simmetrico con una chiara distribuzione degli ambienti che si proietta esternamente nella nitida tessitura degli alzati. L’ingresso al piano residenziale è evidenziato dall’importante scala a doppia rampa e dal portale centinato sul quale campeggia lo stemma dei Gaetani. Le finestre sono distribuite ai lati in rigorosa rispondenza. L’estrema misura con cui è composto l’edificio è accentuata dalla sottolineatura delle aperture con cornici di quarzo e carbonato di calcio (oggi visibili sul prospetto sud) che rimandano al tema della roccia artificiale di gusto manierista. L’adeguamento dello spazio ai criteri abitativi tardo ottocenteschi ha comportato un sostanziale ridisegno dell’impianto che è stato suddiviso in più ambienti, con la conseguente modifica dei prospetti: le originarie aperture con cornici rustiche sono state tamponate e sostituite da semplici tagli sulla superficie muraria trattata a finto bugnato.
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Archivio di Stato di Pisa, Fiumi e Fossi, n. 2515 pp. 50-51. Archivio di Stato di Pisa, San Matteo, piantista della Val di Serchio, 46, 1101.
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8. VILLA CRISTIANI, GRASSI, MARIANI - MEZZANA A differenza delle altre ville descritte sopra, Villa Grassi non è collocata nella zona pedemontana tra le Terme e Lucca, lungo la statale dell’Abetone. La bella villa Cristiani-Grassi di Mezzana, edificata (o riedificata?) dal Gherardesca nel 1828, ha un aspetto prettamente neoclassico con il suo canone borghese arricchito da terracotte all’esterno e da pitture di gusto cinese all’interno.
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ALLEGATO B.
Stralci tratti dalla pubblicazione “LE ORIGINI DI UNA FAMIGLIA NOBILE PISANA: I RONCIONI NEI SECOLI XII E XIII” di Michele Luzzati, Siena Accademia degli intronati, 1968 per offrire alcune informazioni sulla nascita della dinastia Roncioni 1) Una falsificazione : i Roncioni Nobili di Ripafratta “Eppure in una continuità che dura dalla fine, almeno, del secolo XII, c’è stata una crisi nella consapevolezza dei Roncioni di appartenere a un ceto nobile; un momento, verso la fine del secolo XV, in cui la famiglia, tornata dopo incerte vicende ad una posizione sociale di primo piano, ha creduto insufficienti i propri titoli di nobiltà e li ha ampliati, fatti indietreggiare nel tempo e trasformati, riuscendo addirittura ad annodare, attraverso un’opera paziente di acquisti di beni, il nuovo titolo di Nobili di Ripafratta agli antichi altrui possessi terrieri” (pag.4)1. Alla metà del quattrocento un Roncioni si univa in matrimonio con una Cattani dei Nobili di Ripafratta, antichissima famiglia feudale che si riteneva discendesse da uno dei “sette baroni” del seguito di Ottone I stabilitesi nel Pisano, secondo la tradizione, alla fine del decimo secolo 3 e che vantava la concessione di ben tre diplomi di Ottone III (pag.4). 3 “et venne a Pisa Octo imperadore tedesco, et piandoli lo stare in Pisa rimaseno dei suoi sette baroni delle quali disciese i sette chasati doni dall’imperatore” (RANIERI SARDO, Cronaca di Pisa, a c. di O. BANTI, Fonti per la storia d’Italia, n. 99, Istituto storico per il Medioevo, Roma, 1963, p.11). 3 “Ripafrattesi nominati dalle sette chase” (Cronache di Giovanni Sercambi lucchese, a c. di S. BONGI, Fonti per la storia d’Italia, n.19, Istituto Storico Italiano, I, Roma, 1892, p.164). 2) Ipotesi sull’origine della famiglia Il nome “roncione” ci riporta a “cavallo”, precisamente nel senso di “cavalcatura di guerriero”, così come vediamo attestato nel Pulci e nel Boiardo 10 (pag.7). 10 L.PULCI, Morgante Maggiore, c. XV, ottava 65; M. M. BOIARDO, Orlando innamorato, p.III, c. VIII, ottava 22. Cfr. anche La Tavola rotonda o l’Historia di Tristano, a.c. di F.l.POLIDORI, I, Bologna 1864, passim, II, ibid.1865, p.168 (“Roncione: cavallo forte e però atto alla guerra”). Per l’etimo cfr. DEI, V, p.3282. La presenza di un cavallo inalberato nello stemma della famiglia, sul quale non si hanno notizie anteriori al secolo XVI, potrà esser dovuta a un recupero colto. Si fa riferimento alla pagina della pubblicazione di MICHELE LUZZATI, Le origini di una famiglia nobile pisana: i Roncioni nei secoli XII e XIII”, Siena Accademia degli intronati, 1968 qui riportata letteralmente. 1
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“Roncione” era forse un soprannome, o addirittura un nome, non diversamente da altri, di analogo conio e variamente difusi, come “Lupus”, “Ursus”, “Pardus”, “Falco”, “Ciconia”, “Gattus”, etc., e il riscontrare l’esistenza, a Pisa come fuori Pisa, di persone con tale nome non implica che si debbano in ogni caso postulare legami con la nostra famiglia ( pag.7). 3) Ramo di Gheraldo di Roncione I Roncioni tuttora esistenti prendono origine da Gheraldo di Roncione, uno dei tre beneficiari del diploma del 1197, vivo ancora nel 1233, a cui successe il figlio Marco che appare, come capo del gruppo, sia nel diploma del 124, sia in un atto del 1253, in cui un pezzo di terra è detto confinante con beni “Marci Roncionis et consortum” 71 , sia nel giuramento di fedeltà all’Arcivescovo nel 1254, sia infine nel contratto del 1264 per la torre “de granellis” (pag.30). 71 Cfr. ASP., Dipl.Roncioni, 1254 dicembre 27. Per l’albero genealogico di questo ramo cfr. Tav.III, p.40-41. Sulle spalle appunto di questo Guelfo doveva restare il peso della famiglia: egli compare come capo del gruppo nell’atto consortile del 1301 con il fratello Tommaso e con alcuni nipoti fra i quali almeno Giovanni di Gaddo e Forese di Vanni. Venuto a morte fra il 1310 e il 1317 83 lasciò sei figli: Giovanna, badessa del monastero di San Silvestro di Pisa, Tedda, sposata a Vanni di Lando Zubidei dei Gualandi, Vannuccia, moglie di Cerio Upezzinghi da Massagamoli, Marco, Maso e Jacopo. Appunto Maso e Jacopo sono all’origine dei due rami dei Roncioni che sopravvissero in Pisa oltre la metà del Trecento (pag.31-32). 83 Il termine ante quem per la morte è il 1317 (cfr. ASP, Dipl.Roncioni, 1317 gennaio 14: “Terra hortalis heredum Guelfi Roncionis”in cappella di San Martino in Guazzolungo). Da un ricordo sepolcrale cinquecentesco contenuto nelle carte Roncioni (ASP, Acq.Roncioni, n.2 : ne è stata tratta la falsa epigrafe) risulta che Guelfo sarebbe morto nel 1312 (stile pisano?) o che comunque in quell’anno scelse come sepoltura il Convento domenicano di Santa Caterina, dove sarà più tardi Priore quel Marco Roncioni, poi Vescovo di Urbino, che di Guelfo era forse nipote. I vari gruppi familiari Roncioni mantennero legami molto stretti fino alla metà del secolo XIV, fino a quando cioè non si ridussero numericamente e non suddivisero i beni in comune i componenti dei due rami superstiti e, contemporaneamente, non vennero a tramontare le condizioni che avevano dato impulso e sviluppo alle “consorterie”. Di una “consorteria” Roncioni è legittimo parlare, anche se il termine “consortes” servì nell’uso contemporaneo, e serve tuttora nell’uso storiografico corrente 92 , per designare fenomeni di associazione di gruppi nobiliari (ma non soltanto) che hanno molte, troppe facce diverse per essere tutti ricondotti ad un unico tipo: dall’altra parte soltanto attraverso l’esame minuto dell’interna struttura e della composizione di singole consorterie si potranno chiarire le incertezze che sussistono (pag.33). ss.
92 F: CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale, Milano 1949, pp.101 X
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La consorteria Roncioni sembra nulla più che una famiglia, suddivisa in non molti rami, i cui membri sono “consortes” – ed è questo un termine puramente tecnico 93 – nella proprietà di alcuni beni, sono legati da comuni interessi, risiedono tutti in una determinata zona della città e seguono per lo più una medesima linea politica: di fronte alla cittadinanza pisana essi sono un tutto unico, definito attraverso quel “quel” cognome, mantenuto coeso dai soli fortissimi vincoli di sangue e solidarietà tipici della famiglia medievale. La piattaforma, per così dire, su “questa associazione” si muove è esclusivamente famigliare: non v’è traccia di assorbimento di elementi estranei alla famiglia che abbiano aggiunto al loro cognome quello dei Roncioni, non v’è traccia d’una organizzazione interna, non vi sono capi eletti, consoli o rettori; i singoli membri non agiscono mai in qualità di rappresentanti dell’”Associazione”, ma per conto, e per conto, se è il caso di tanti altri singoli individui quanti sono i membri della famiglia. Non v’è neppur l’ombra d’una qualsiasi veste giuridica, non si dà il caso di trovar nominati alcuni Roncioni con la tipica e stereotipa formula “qui sunt maior et sanior pars etc.” usata per tanti enti politici, religiosi ed anche nobiliari. Ciò che mantiene uniti tutti i rami dei Roncioni è essenzialmente il legame familiare, il quale ha ancora nel XIII secolo un valore e un significato, per quanto riguarda la lotta politica e lo svolgersi della vita cittadina, che andranno affievolendosi nei secoli successivi. La “domus nobilis” dei Roncioni agì e si mosse per tutto il Duecento come un unico blocco, pur nel frazionamento dei diversi rami; e come un tutto unico sarà qui seguita nelle sue vicende pubbliche e private, cosa che sarebbe arrischiato fare per alcune grandissime consorterie nobiliari pisane, i cui numerosi gruppi familiari possono essere unitariamente considerati (e non sempre) soltanto sotto il profilo della comune azione politica. La distanza che separa i Roncioni dalle grandi consorterie pisane dei Gualandi, dei Lanfranchi, dei Sismondi, dei Visconti, degli Upezzinghi, etc., è immensa: queste ultime appaiono quasi come delle “confederazioni” (ci si consenta il termine) di numerosissime consorterie alla scala dei Roncioni. E i Roncioni, venuti molto tardi alla ribalta, sembrano o aver mutato modi di organizzazione e tipi di comportamento dalle grandi consorterie, o aver spontaneamente ripetuto un processo che le altre famiglie avevano iniziato molto tempo prima. Nell’un caso e nell’altro essi erano in Duecento ne bloccò inesorabilmente l’evoluzione in quanto “consorteria”: troppo forti e troppo individuati per essere assorbiti da una consorteria maggiore, ma anche troppo recenti e troppo poco numerosi per imporsi da soli all’interno di uno schieramento nobiliare già prossimo a smobilitare, i Roncioni sembrano rappresentare soltanto un esito tardivo nel processo di formazione e di affermazione della nobiltà cittadina (pag.34-35). 93 E’ proprio il pisano Leonardo Fibonacci ad affermare agli inizi del Duecento nella sua Practica Geometriae (in Opere, a c. di B. BONCOMPAGNI, II, Roma 1862, p.110) che le regole per la suddivisione dei terreni sarebbero state di particolare utilità per i “consortes”; egli si riferisce indistintamente a tutti coloro che essendo comproprietari, per diritto d’eredità o per altre cause, di determinati beni, desiderino suddividerli. Vero è d’altra parte che la proprietà consortile fu soprattutto caratteristica dei gruppi nobiliari, gli unici a lungo coesi; la vendita o la suddivisione del patrimonio consortile, il che avvenne per i Roncioni verso la metà del secolo XIV, è il più appariscente documento dello spezzarsi della coesione del nucleo nobile a base familiare.
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4) Le attività pubbliche Tutti i tre diplomi caddero nel cinquantennio fra la fine del secolo XII e la metà del XIII: e le tracce che ci sono rimaste d’una salda situazione politico-sociale dei Roncioni sono anch’esse pressappoco di questo periodo, al termine del quale, nell’elenco dei “fideles” che prestano il giuramento all’Arcivescovo Visconti, i Roncioni compaiono, significativamente, ai primissimi posti, ancora in posizione di forte rilievo. In seguito i Roncioni appariranno sempre meno alla ribalta, e non v’è traccia, agli inizi del Trecento, di riconoscimenti imperiali da parte di un Enrico VII, pur tanto legato nella sua breve avventura italiana alla fedeltà di Pisa, o di un Ludovico il Bavaro, cui non invano ricorsero, al tempo del soggiorno pisano, altre antiche famiglie nobili, anche di tradizione guelfa, come gli Upezzinghi (pag.36). 5) Orientamenti politici: il guelfismo dei Roncioni Nonostante questa assenza dalla scena politica “ufficiale”, si hanno tracce, a nostro parere sufficientemente chiare, del fatto che i Roncioni non siano rimasti sufficientemente chiare, del fatto che i Roncioni non siano rimasti passivamente in una posizione d’attesa, estranei ai grandi conflitti interni della fine del secolo, dai quali usciranno comunque indeboliti e costretti ad una posizione subalterna: del fatto insomma che il loro declino sia dovuto non solo al trionfo del Popolo (che se è vero che non scalzò – come ha dimostrato il Cristiani – grandi concentramenti di potere nobiliare, dovette pur avere i suoi effetti almeno sulle consorterie meno potenti), non solo ad un progressivo esaurimento numerico ed economico, ma anche a una scelta politica che doveva condizionare per molto tempo i rapporti dei Roncioni con i gruppi e i ceti dirigenti cittadini. I Roncioni, o almeno la grande maggioranza dei Roncioni, si sarebbero schierati – secondo questa ipotesi- con la fazione ugoliniana, e avrebbero seguito, forse anche fuorusciti, la parte guelfa (pag.39). Ma sono poi da esaminare i rapporti dei Roncioni con i Gherardesca Conti di Donoratico e con i loro consorti. La torre dei Roncioni, nella cappella di San Sepolcro in Chinsica, confinava con le case del Conte Ugolino ed era prossima alle abitazioni degli altri della Gherardesca e dei loro consorti. Questa vicinanza di abitazioni può forse spiegare agevolmente alcuni rapporti con i Gherardesca (pag.43). 107 Cfr. ASP, Acq.Roncioni, n.12, c.2 (1354 ca.): “…lato uno in terra con chiostra murate, la qual fu de li heredi del Conte Ugolino, lo quale si chiama lo venaro, chissatello piubico mediante”. Cfr. anche N: TOSCANELLI, I Conti della Gherardesca Signori di Pisa, Pisa 1937, pp.201 ss. Per il “venaro” cfr. R. SARDO, Cronica,ed.cit.,p.47: il palazzo del Conte Ugolino “dove è la vena che si scharica pe’ maschani”; e ASP, Comune A, n106, c.11 (1340): pagamento al conte Matteo di Donoratico della pigione per il suo “casalinum…” in quo retinetur vena psiani comunis” si tratta, naturalmente, del ferro elbano. Se con i Gheraldesca e con i loro consorti i rapporti di parentela dei Roncioni possono essere soltanto supposti, alcuni dei matrimoni della famiglia ci riportano in ambienti indiscutibilmente guelfi E’ vero che accanto ai matrimoni con Visconti e Upezzinghi ne incontriamo coi Sismondi, coi Gualandi e coi Lanfranchi, ma una serie di alleanze matrimoniali con esponenti di casate guelfe può XII
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considerarsi molto più qualificante nella situazione politica pisana alla fine del Due e agli inizi del Trecento (pag.45). I Roncioni verrebbero dunque ad aggiungersi a quello schieramento guelfo pisano che per la verità non è finora molto ricco di nomi e anzi per lo più non va oltre gli Upezzinghi, i Visconti, i Gaetani e i Gherardesca Ugoliani (pag.45). Se è vero che molto elastica era la legislazione antimagnatizia è altrettanto vero che chi fosse stato nobile e guelfo non trovava scampo alla fine del Duecento e agli inizi del Trecento. E i primi sottoposti al sospetto di guelfismo erano sempre i nobili: tanto che se si dà il caso di una formula come quella di “nobiles gibellini” non si incontrano mai a Pisa, a quanto risulti, dei “gibellini de Populo”. Già il Cristiani ha osservato, in un contesto diverso dal nostro, che “guelfo” a Pisa aveva ormai verso il 1315-1320 soltanto il significato di “nemico dell’intera città, così come ormai “ghibellino” è sinonimo di vero pisano, alleato dei pisani” non era poco per chi aveva la disgrazia di appartenere a una famiglia guelfa. (pag.47). Come gli Upezzinghi, come i Visconti, i Roncioni avevano verso la partita, con conseguenze tanto più gravi, quanto più debole, economicamente e numericamente, era la loro consorteria. Alcuni di essi si dispersero fuori Pisa, altri rimasero, destinati a dover attendere quasi due secoli per tornare sì che fra i “maiores pisane civitatis”, ma soltanto attraverso la routine di attività economiche e professionali che per buona parte del Trecento continuarono a rifiutare, mantenendo intatta una fisionomia di famiglia nobiliare che verifichiamo per tutto il Duecento e oltre, con una coerenza non altrettanto riscontrabile presso le famiglie nobili che avevano aderito alla politica del Popolo (pag.47).
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GHERARDESCA ALESSANDRO1 - Nasce a Pisa l’11 marzo 1779, da famiglia di origine
israelita. Dopo aver usufruito di un pensionato di studio a Roma, entra a fare parte della pubblica amministrazione pisana e, nel 1805, viene nominato secondo ingegnere della Camera delle Comunità, luoghi pii, strade e fiumi; nel 1811 diviene ingegnere ordinario per il dipartimento dell’Ombrone del Servizio imperiale di ponti e argini e, nel 1822, ingegnere dell’Ufficio generale delle Comuni di Toscana. Nel 1827 riceve la nomina a maestro di geometria pratica, architettura civile e prospettiva all’Accademia di belle arti di Pisa, incarico che mantiene fino alla morte. Complessa e ancora da chiarire in sede critica è l’attività e la figura del Gherardesca che, fedele portavoce della cultura eclettica e accademica, aderisce al neogotico e al “pittoresco” divenendo un protagonista del dibattito architettonico pisano di quegli anni. Assai ricco è il”curriculum” dei suoi interventi, non sempre sufficientemente chiariti nella cronologia e nei contenuti a causa delle lacune documentarie. L’esordio è legato alla ricostruzione della chiesa di S. Giovanni Evangelista a Ponsacco, vicino a Pisa (Tolaini, p. 241; diversamente Cresti - Zangheri, p. 113) di cui lo stesso architetto pubblica i disegni nell’Album dell’ingegnere, dell’architetto, del paesista, del pittore, del giardiniere, dell’agricoltore, del meccanico etc. (Pisa 1837, tavv. XXXV s.); mentre senza esito, è il progetto per il restauro della cinquecentesca chiesa dei Cavalieri di Pisa, varato nel 1840 dall’Ordine di S. Stefano. Ben più cospicui e di maggiore interesse gli interventi sul tema di ville e giardini, dove il G. trova la più congeniale espressione per la sua vena romantica e neomedievalista. Sovrintese alla trasformazione in parco di un lotto di terreno della famiglia Venerosi Pesciolini (passato poi ai Rosselmini) dove ambienta, fra gli altri inserti, una singolare ”aedicula” assemblata con avanzi trecenteschi, provenienti dalla vicina chiesa di S. Francesco (Tolaini, p. 241), ricuciti insieme così da creare, fra cuspidi e archi acuti trilobati, una riedizione di forme gotiche: l’idea risale alla prima metà degli anni Venti, dal momento che il disegno si trova nel libro del G. La casa di delizia, il giardino e la fattoria, edito a Pisa nel 1826 (tav. XVII); mentre una didascalia alla tavola XXIII del suo ”Album” annota come nel 1837 i lavori sono già in corso di esecuzione. Il parco della villa Roncioni a Pugnano (sempre nei pressi di Pisa) è sottoposto a partire dal 1826 a una puntuale rivisitazione da parte del G. che qui realizza il più compiuto esempio di giardino romantico, tuttora esistente, in area pisana. Numerosi gli interventi e le trasformazioni volute, fra cui la bigattiera con filanda (1827) che propone a ritmo serrato un coagulo di stilemi saccheggiati dal repertorio gotico. Sempre sul tema paesaggistico, si segnala l’organizzazione del giardino della villa Bianchi a Pagliaia (nel Senese) documentata dal G. nella”Casa di delizia…”(tav. XXVI). Tappa fondamentale nel percorso del G. è il coinvolgimento alla fine degli anni Venti nel complesso programma di allestimento del giardino Puccini di Scornio (fuori Pistoia). 1
Viene riportata, letteralmente, la voce Gherardesca A. tratta dall’Enciclopedia Treccani. XIV
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Evento quant’altri mai significativo nella cultura borghese e agraria della Toscana dell’Ottocento, il giardino Puccini si propone insieme come percorso pedagogico e come sintesi delle nuove idee di R. Lambruschini e G.P. Vieusseux, cui N. Puccini era particolarmente legato. Difficile allo stato attuale delle ricerche, definire l’estensione del contributo del G.; certa è la sua paternità del Pantheon (Di Giovine - Negri). Nato tra 1827 e 1828 come “Scuola di mutuo insegnamento per benefizio di quella Borgata”, ossia Scornio (le date si desumono dalla corrispondenza fra il G. e N. Puccini, conservata nel ”Fondo Puccini” della Biblioteca Forteguerrina di Pistoia, basata su commenti alle modifiche da apportare alla fabbrica in costruzione), l’edificio si fonda su moduli di stretta osservanza neoclassica. Pesantemente alterata per interventi successivi, la fabbrica “ab origine” si impostava sulla compenetrazione del cubo, fulcro centrale, e di semicilindri, che si innestavano lateralmente. In esterno l’ingresso era sottolineato da un loggiato costituito da sei colonne di gusto ionico, poi ripetute nell’interno a delimitazione delle tribune. Di carattere restaurativo le prove del G. su residenze private; fra queste, i lavori in palazzo Venerosi Pesciolini, in via S. Gilio a Pisa (La casa di delizia…, tav. XXXIII), gli interventi nelle ville Grassi a Mezzana, nel Pisano (ibid., tav. XXV), e Scotto a Vallisonzi (Tolaini, p. 241). Nel campo dell’edilizia pubblica, è attribuibile al G. l’intervento sul palazzo pretorio di Pisa (1825) di gusto neogotico, decorato in facciata da M. van Lint a bassorilievo con emblemi e stemmi cittadini e dotato di campanile nel 1826. Ancorché architetto alieno da contaminazioni funzionalistiche, nella terza decade del secolo il G. è protagonista di un progetto, rimasto sulla carta, per un grandioso “Stabilimento di associazione civica per la città di Pisa” (Album…, tav. XXIV) da ubicarsi fra la piazza dei Cavalieri e via S. Frediano, che prevede un teatro diurno e notturno, portici, bagni, scuole, stanze civiche e ancora altre funzioni. In tema esclusivamente teatrale, al G. sono da ricondurre due interventi: l’attribuzione del restauro del settecentesco teatro dei Rossi (1824), gestito dall’Accademia dei Ravvivati succeduti all’Accademia dei Costanti, e dell’arena Garibaldi che, sorta nel 1807 come anfiteatro, sotto la spinta di Sabatino Federighi viene trasformata, per volontà del figlio Giuseppe e con la guida del G., in teatro diurno dotato di palchi e gallerie con loggione (1831). Nel 1833, in occasione della visita a Pisa dei granduchi Leopoldo II e Maria Antonia, al G. viene offerta l’occasione di interessarsi degli allestimenti urbani. Luogo per le celebrazioni diviene la nuova piazza S. Caterina, riorganizzata sulle demolizioni della chiesa e del convento di S. Lorenzo (1815) e destinata a luogo di passeggio alberato (1826).”Focus” delle celebrazioni è il monumento dedicato a Pietro Leopoldo, eretto nella piazza, alla cui realizzazione parteciparono L. Pampaloni, per la statua scolpita in marmo di Carrara, E. Senterelli, autore dei bassorilievi, e il G., che si occupa del basamento di stile ionico in marmo di Serravezza, e che a questo lavoro dedica una pubblicazione corredata da tavole illustrative (Monumento a Pietro Leopoldo granduca di Toscana eretto in Pisa…, Pisa 1833). Il contributo del G. è tuttavia assi più ampio, avendo infatti il ruolo di organizzatore della “festa campestre”, tenuta il 18 giugno nella piazza S. Caterina e, di maggiore impegno, della festa del 16 giugno di cui si ha memoria per un disegno di Sarah Butler Hancock (Pisa, collezione Venturi-Hancock) realizzando anche un baldacchino di ispirazione neoclassica che, impiegato per l’arco di trionfo, è poi riutilizzato in cerimonie nella chiesa dei Cavalieri e nella piazza del Duomo (Tolaini, p. 237).
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Al G. è attribuita l’esecuzione a Pisa della residenza e archivio del capitolo canonicale del duomo, ubicati dietro la tribuna maggiore del duomo, dove sorgeva l’antico locale di S. Spirito (1836). Nel settore del restauro di residenze private risalgono al 1838 l’intervento sulla cinquecentesca facciata del palazzo Lanfranchi, passato poi ai Toscanelli, e quello del palazzo Prini Aulla, ubicati sui lungarni pisani. Parallelamente assai fervida è l’attività di studioso del G. che, fra gli altri, pubblica a Pisa un manuale pratico,”La geometria applicata all’agrimensura. Livellazioni, divisioni di terreno” (1831), nonché tre saggi legati alla natura dei terreni e, in particolare, alle vicende della torre pendente (Dialogo sulle cause e ripari alla motilità dei terreni, 1836; Appendice alle considerazioni sulla tendenza del campanile della primaziale pisana, 1838; Narrativa sul prosciugamento della base del campanile della primaziale pisana…, 1839). Alla fine degli anni Trenta il G. lascia Pisa per proseguire la sua attività a Livorno; ma restano ignote le ragioni di questo trasferimento. Nel 1839 è eletto membro di una commissione per la valutazione e la scelta di un’area da destinarsi a futuro ospedale (Arch. di Stato di Livorno, ”Opere di pubblica utilità” , c. 46). Nel 1841, dietro la spinta di N. Corsini e di G. Carpanini, viene incaricato di dirigere un progetto per l’edificazione di un ricovero per poveri. Il 16 ott. 1844 il progetto è approvato, e viene anche stabilito per la futura fabbrica il nome di S. Andrea. I lavori, iniziati nel 1845, vengono però sospesi. Nel 1852 risulta compiuta l’ala destra; alla morte del G., gli subentra A. Della Valle che porta a compimento il corpo centrale della fabbrica. Il G. presenzia, inoltre, alla posa della prima pietra (1839) e alla consacrazione della chiesa di S. Giuseppe (1842) realizzata dal fiorentino G. Puini. Come architetto della Deputazione delle opere di pubblica utilità di Livorno, fa parte nel 1842 della commissione esaminatrice del progetto di P.G. Gherardi per la chiesa di S. Andrea. Il G. muore a Livorno l’11 gennaio 1852.
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LA FONDAZIONE CERRATELLI 1 Presidente Franco Zeffirelli Presidente Paolo Panattoni Amministratore delegato Floridia Benedettini Un Grande Patrimonio dell’Umanità La Fondazione Cerratelli nasce nel 2005 per volontà della Casa d’Arte Cerratelli, di Floridia Benedettini titolare della celebre sartoria Carnet, del Comune di San Giuliano Terme e della Provincia di Pisa raccogliendo una delle più storiche, prestigiose e cospicue collezioni di costumi teatrali e cinematografici esistenti: 30.000 manufatti di straordinario valore storico e testimonianza di un patrimonio artigianale inimitabile che colloca nel mondo questa collezione come il massimo esempio di made in Italy per quanto riguarda il costume storico e di scena. Oggi i costumi sono conservati presso Villa Roncioni, a San Giuliano Terme in Provincia di Pisa, dove si susseguono mostre sugli abiti di scena. La Casa d’Arte Cerratelli è nata all’inizio del ‘900 per volontà di un artista lirico, il baritono Arturo Cerratelli, uno dei primi interpreti della “Boheme” di Giacomo Puccini, ed è divenuta col tempo la più antica e più bella gemma dell’arte sartoriale italiana a servizio della scena. La sua attività infatti, fu iniziata nel 1914 ed è un secolo che si perpetua non solo come tradizione rispettata di padre in figlio, ma anche come attento ed appassionato impegno da parte dei membri della famiglia che in questo periodo si sono succeduti. Successi interminabili! E nel 1969 il primo premio Oscar per i costumi di Romeo e Giulietta di Zeffirelli firmati da Danilo Donati, questo riconoscimento conferì alla storica Casa d’Arte Cerratelli il marchio dell’eccellenza mondiale. Dal teatro lirico e di prosa, agli spettacoli televisivi, al cinema, al balletto, è stato un susseguirsi di titoli divenuti famosi, di registi e figurinisti di risonanza mondiale con cui la Sartoria Cerratelli ha collaborato per la realizzazione di costumi che hanno contribuito a rendere 1
Informazioni tratte dal sito della Fondazione Cerratelli http://www.fondazionecerratelli.it/home.html.
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famosi moltissimi lavori. Tra i registi ricordiamo fra gli altri: Mauro Bolognini, Silvano Bussotti, Renato Castellani, Georges Chazalet, Edoardo De Filippo, F. Enriquez, Ugo Gregoretti, J. Miller, Jean Pierre Ponnelle, Luca Ronconi, Otto Schenk, Giorgio Strehler, Luchino Visconti, Franco Zeffirelli. Tra i figurinisti italiani e stranieri possiamo citare, senza voler omettere volontariamente nessuno: Anna Anni, M. Balò, A. Buti, S. Blane, C. Cagli, P. Cascella, F. Casorati, V. Colasanti, P. Conti, L. Coutaud, S. Dalì, E. d’Assia, Maria de Matteis, Danilo Donati, M. Escoffier, L. Fini, E. Frigerio, L. Ghiglia, P. Grossi, E. Guglielminetti, Renato Guttuso, P. Hall, P. Halmen, E. Job, M. Kamer, O. Koloschka, E. Luzzati, M. Maccari, E. Marini, M. Monteverde, O. Nicoletti, W. Olandi, P. L Pizzi, J. P. Ponelle, J. Rose, U. Santicchi,, Gino Carlo Sensani, Piero Tosi. Tra i lavori eseguiti ne citiamo solo alcuni: Risale al 1939 il primo film “Un’avventura di Salvator Rosa” poi seguito da altri importanti produzioni come “El Cid”, “La Caduta dell’Impero Romano”, “55 Giorni a Pechino”, e con Franco Zeffirelli: “La Bisbetica Domata”, “Romeo e Giulietta”, “Fratello Sole e Sorella Luna” e “Otello”. Fra i più recenti: “La Venexiana” di Bolognini, “Camera con vista” di James Ivory, “Les Dames Galantes” di Tacchella e “Hamlet” di Zeffirelli. Prestigiosi allestimenti di opere liriche sono stati realizati per i maggiori teatri di tutto il mondo, quali il Metropolitan di New York; il Liric Opera di Chicago, la Comedie Francaise di Parigi, il Royal Opera House Covent Garden di Londra, il Bundestheaterverband di Vienna, il Wuttemberische Staatstheater di Stoccarda, l’Hamburgische Staatsoper di Amburgo, il Grand Theatre di Ginevra, e i teatri italiani Alla Scala di Milano, Comunale di Firenze (Maggio Musicale Fiorentino), La Fenice di Venezia, il Regio di Torino, l’Arena di Verona, Il San Carlo di Napoli, l’Opera di Roma, il Teatro Bellini di Catania, Il Teatro Massimo di Palermo, ecc... Per quanto riguarda la prosa, sono stati realizzati costumi per importanti spettacoli sia per la TV che per i teatri in Italia e all’estero. Tra questi ne citiamo alcune come “I Borgia” perla BBC, “Maria Stuarda” per la RAI, come pure la “Maria Stuarda” di Zeffirelli per il teatro della Pergola di Firenze. Sempre per Zeffirelli è stato realizzato il “Lorenzaccio” in occasione della riapertura alla Comedie Francaise a Parigi. Finalità della Fondazione: -
restaurare, ripristinare, catalogare e conservare, nonché esporre e far conoscere il patrimonio in abiti che furono confezionati dalla celebre Casa d’Arte Cerratelli, inestimabile ed unico al mondo, nel quale è sedimentata tanta storia del teatro di prosa, del cinema e soprattutto della lirica italiana e mondiale;
- promuovere la diffusione della cultura in special modo legata al teatro di prosa, al cinema ed alla lirica, attraverso un programma di iniziative, organizzate direttamente anche in collegamento con altri enti, associazioni o fondazioni, oppure patrocinate dalla Fondazione; diffondere e far conoscere la Fondazione, le sue attività ed i suoi scopi attraverso la promozione e organizzazione di seminari, corsi di formazione, manifestazioni, convegni, incontri, procedendo alla pubblicazione dei relativi atti o documenti, ed attraverso tutte quelle iniziative idonee a favorire un organico contatto tra la Fondazione, i relativi addetti e il pubblico. Per il raggiungimento di tali scopi, la XXII
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Fondazione indirizzerà le proprie risorse per la realizzazione, tra gli altri, di tre progetti fondamentali: 1. Creazione di un museo/esposizione dello Spettacolo, dove i beni di valore artistico e/o storico pervenuti a qualsiasi titolo alla Fondazione, possano essere ammirati e mantenuti in perfette condizioni; 2. Utilizzazione dei beni suddetti, per nuove manifestazioni, spettacoli ed eventi nell’ambito lirico, teatrale televisivo e cinematografico. 3. Realizzazione e sviluppo di tutte le forme di computerizzazione finalizzata alla creazione di archivi e delle comunicazioni telematiche ritenute utili e funzionali per gli scopi di cui ai punti precedenti; La Fondazione intende inoltre raccordarsi e sviluppare sinergie e collaborazioni con altri organismi, pubblici o privati, italiani od esteri, che operino nei settori d’interesse della Fondazione o che ne condividano lo spirito e le finalità .
INDICE DELLE IMMAGINI: 1 Alessandro Gherardesca, Bigattiera con filande nel giardino della villa Roncioni a Pugnano (Pisa), 1826-1831. 2 Relazione visuale tra la villa Roncioni, il parco romantico e la bigattiera con filanda, Pugnano, S. Giuliano Terme. 3 Acquedotto di Asciano (1592-1595). Fu fatto costruire su iniziativa del granduca Ferdinando I de’ Medici e fu completato, nel 1613, sotto il granducato di Cosimo II de’ Medici. 4 1757. «Veduta delle fabbriche e Bagni di Pisa per la parte del monte». Individuazione grafica degli assi prospettici. Immagine tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990. 5 1750. «Alzato e pianta generale dell’imperiale palazzo e fabbriche dei Bagni di Pisa». A.S.L. Fondo Stampe 1146. Particolare. individuazione grafica del raggio proiettante. Immagine tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990. 6 Le ville con Parco. FERNANDO VALLERINI “Il territorio pisano. Con 381 disegni e 16 cartine a colori. Torri e castelli – pievi romaniche – ville – paesi e città storiche”, Pisa, 1976. 7 Campionario delle bellezze sparse nel territorio pisano. FERNANDO VALLERINI “Il territorio pisano. Con 381 disegni e 16 cartine a colori. Torri e castelli – pievi romaniche – ville – paesi e città storiche”, Pisa, 1976. 8 Archivio di Stato di Pisa, Inventario n-135, Acquisto Roncioni, pianta c.a. 1775 9 Villa Roncioni, Pugnano. Interno. Salone, piano terra, dec. (XVIII sec. fine) tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.663. 10
G. Bacchini, villa Roncioni, Storie di Bacco. Tratta dal volume ADDOBBATI ANDREA – RENZONI STEFANO – BALBARINI CHIARA, Estate in villa. Il lungomonte sangiulianese luogo di villeggiatura della nobiltà pisana, San giuliano terme attraverso i secoli, 2007 p.22.
11
G. Bacchini, villa Roncioni, Paesaggio con Isabella e Francesco Roncioni. Tratta dal volume ADDOBBATI ANDREA – RENZONI STEFANO – BALBARINI CHIARA, Estate in villa. Il lungomonte sangiulianese luogo di villeggiatura della nobiltà pisana, San giuliano terme attraverso i secoli, 2007 p.22.
12°, 12b, 12c A. Gherardesca, Soluzioni per il fronte del Ninfeo di Villa Roncioni, Pugnano, San Giuliano Terme. Tratta dal volume TAGLIOLINI ALESSANDRO, Il giardino italiano nell’Ottocento, nelle immagini, nella letteratura, nelle memorie, Guerini e Associati, Vicenza, 1990, pp.231-232. 13 14
Villa Roncioni, Pugnano. “Abbazia di San Luca”. Tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.666. JEAN-BAPTISTE DESMARAIS (Parigi 1756 – Carrara 1813), Ritratto di Francesco Roncioni, olio su carta incollata su tela. Il ritratto è l’unico della serie dei Roncioni del Desmarais ad essere stato riportato in modo sostanzialmente identico “nell’espressione e nella postura”
nel grande ritratto di famiglia. 15
Copertina del Giornale Agrario Toscano, Vol. V, 1831.
16
DANDOLO VINCENZO, Vecchia Bigattiera, tav.I del volume “Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere”, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818.
17
Ritratto del conte Vincenzo Dandolo.
18
DANDOLO VINCENZO, Strumenti, tav.II del volume “Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere”, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818.
19
DANDOLO VINCENZO, Strumenti, tav.II del volume “Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere”, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818.
20
DANDOLO VINCENZO, Stufa di Pieropan, tav.III del volume “Il buon governo dei bachi da seta dimonstrato col giornale delle bigattiere”, Tipografia di Gianbattista Sonzogno, Milano, 1818.
21 22
GHERARDESCA ALESSANDRO, Bigattiera con filande presso la villa Roncioni, tav.IX del volume Album dell’architetto e dell’ingegnere, del paesista e del pittore, del giardiniere e dell’agricoltore, del meccanico & c , , edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002. Disegno schematico.
23
Archivio di Stato di Pisa, Inventario 135, Acquisto Roncioni, Ricevuta del 17 Febbraio 1827.
24
Catasto Leopoldino, Sezione G, Comunità dei Bagni di S. Giuliano, Ripafratta – Pugnano, 1819-1825.
25
Archivio di Stato di Pisa, Inventario 135, Acquisto Roncioni, Pianta del 1857, coll.294.
26
Tabernacolo delle Reliquie, Santa Maria Maggiore a Roma acquistato da utilizzato come materiale di spoglio nel giardino di Stawberry Hill.
26
Tabernacolo delle Reliquie, Santa Maria Maggiore a Roma acquistato da utilizzato come materiale di spoglio nel giardino di Stawberry Hill.
27
Ritratto di Mary Shelley.
28
Villa Roncioni, Pugnano. “Castello Manfredi”. Tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.666.
29
Villa Roncioni, Pugnano. “Sarcofago di marmo a cassa rettangolare con decorazioni a strigilature e tabella centrale anepigrafe. Età imperiale Romana”. Tratta dal volume MARIO NOFERI “Pugnano con appendice di XXV documenti. Analisi conoscitiva della pieve di santa maria e di san giovanni battista”
30
Villa Roncioni, Pugnano. “Oratorio”. Tratta dal volume GIUSTI MARIA ADRIANA – RASARIO GIOVANNA, Un itinerario per le ville pisane, a cura della Soprintendenza per i beni A.A.A.S. di Pisa, Lucca, Livorno, Massa Carrara, Università degli studi di Pisa, Comune di Pisa, a
cura dell’Ufficio Stampa e P. R. del Comune di Pisa. 31
Villa Roncioni, Pugnano. “Ingresso Bigattiera, Antica porta con sculture di Nicola Pisano, oggi perdute”. Tratta dal volume CRESTI CARLO, La Toscana dei Lorena: politica del territorio e architettura, Banca Toscana, 1987.
32, 33 Villa Roncioni, Pugnano. “Ingresso Bigattiera, Antica porta con sculture di Nicola Pisano, oggi perdute. Particolari”. Tratta dal volume CRESTI CARLO, La Toscana dei Lorena: politica del territorio e architettura, Banca Toscana, 1987. 34
Prospetto di progetto, ALESSANDRO GHERARDESCA tratto dalla pubblicazione “La casa di delizia, il giardino, la fattoria.
35
Prospetto rilevato.
36
Pianta di progetto, ALESSANDRO GHERARDESCA tratto dalla pubblicazione “La casa di delizia, il giardino, la fattoria.
37
Pianta rilevata.
38
ALESSANDRO GHERARDESCA, “Casa alla rustica”, Assonometria. Tratta dal volume DANIELE EMILIA, Le dimore di Pisa. L’arte di abitare i palazzi di un’antica Repubblica marinara dal medioevo all’Unità d’Italia, a cura di ADSI (associazione dimore storiche italiane sezione toscana), Alinea Editrice, Firenze, 2010.
39
ALESSANDRO GHERARDESCA, “Casa alla rustica”, Pianta. Tratta dal volume DANIELE EMILIA, Le dimore di Pisa. L’arte di abitare i palazzi di un’antica Repubblica marinara dal medioevo all’Unità d’Italia, a cura di ADSI (associazione dimore storiche italiane sezione toscana), Alinea Editrice, Firenze, 2010.
40
Dipinto murale “a fresco” presente nell’ala sinistra della Bigattiera. Veniva utilizzato come scenografia alle rappresentazioni teatrali che si tenevano all’interno della filanda negli anni del primo dopoguerra.
41
Tracce dell’asta di sostegno del sipario.Ala Sx, Bigattiera, Pugnano.
42
Vani del solaio realizzato durante le due guerre, quando l’ala sinistra veniva utilizzata come magazzino del grano.
43
Aperture tamponate dell’ala Sinistra della Bigattiera. Finestre vetrate nell’ala Destra.
44
Relazioni visuali tra la Bigattiera e Villa Roncioni, Pugnano, San Giuliano Terme.
45
Veduta d’insieme della Bigattiera.
46
Vista interna, ala sx, Bigattiera, Pugnano
47
Annesso alla Bigattiera, probabilmente un vecchio manufatto agricolo, Ala Dx.
48
Stemma della famiglia Roncioni (puledro), opera del Tempesti, collocato sotto la finestra centrale della Sala di rappresentanza.
49
Sala della rappresentanza.
50
Camini della Sala dei Bigatti.
51
Studio degli scuri della bigattiera.
52a, 52b, 52c Foto della vecchia copertura della Bigattiera (presente prima del suo rifacimento nel 2002), foto tratte dalla tesi VANNUCCI FRANCESCO, La “Bigattiera Roncioni” di Pugnano: nuove indagini e proposte di riuso. 53
Foto della nuova copertura della Bigattiera.
54
Distacco e lacune d’intonaco sul fronte del giardino.
55
Attacco fungino sugli scuri della Bigattiera.
56
Fenomeno della scagliatura sui pilastrini in pietra serena delle aperture centrali del primo ordine.
57
Mancanze sul bassorilievo decorativo della guglia centrale.
58
Tracce cromatiche riscontrabili sul prospetto del giardino.
59
Analisi delle tracce cromatiche individuabili sul prospetto del giardino.
60
Fotoraddrizzamento del prospetto principale della Bigattiera.
61
Fotoraddrizzamento e analisi del degrado dell’abside destro della Sala di Rappresentanza.
62
Vista della villa dalla Sala dei Bigatti.
63
Sfogliato della volta in foglio della sala della Rappresentanza.
64
Sezioni delle volta in foglio della sala della Rappresentanza. Intervento di consolidamento.
65
Analisi materica e del degrado del prospetto principale.
66
Gattaiolato di progetto
67 Drenaggio 68
Abiti della collazione Cerratelli esposti nella Villa Roncioni, Pugnano, San Giuliano Terme in occasione dell’esposizione “Le donne di Verdi” per il bicentenario dalla morte di Verdi
69
Logo della Fondazione Cerratelli, San Giuliano Terme (PI).
70
Cassapanca contenete abiti od oggetti di scena, Casa d’Arte Cerratelli, San Giuliano Terme (PI).
72
Abiti della collazione Cerratelli.
73
Schemi di progetto.
74
Progetto di recupero della Bigattiera al fine di realizzare nuovi ambienti in uso alla Fondazione Cerratelli.
INDICE DELLE IMMAGINI (Sessione ALLEGATI): I Scenografia. Disegno tratto dal volume GHERARDESCA ALESSANDRO, La casa di delizia, il giardino e la fattoria. Progetto seguito da diverse esercitazioni architettoniche del medesimo genere, edizioni ETS s.r.l., Pisa, 2002, TAVOLA IX. II
Villa Agostini della Seta (Villa Corliano), Corliano, San Giuliano Terme.
III
Villa Dal Borgo, ipotesi per facciata, progetto Ing. Pietro Studiati, sec.XX inizio, Pugnano, San Giuliano Terme. Disegno tratto dal volume GIUSTI MARIA ADRIANA – RASARIO GIOVANNA, Un itinerario per le ville pisane, a cura della Soprintendenza per i beni A.A.A.S. di Pisa, Lucca, Livorno, Massa Carrara, Università degli studi di Pisa, Comune di Pisa, a cura dell’Ufficio Stampa e P. R. del Comune di Pisa.
IV
Villa Mazzarosa Prini Aulla, resti della vita Pontasserchio, San Giuliano Terme. Foto tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.637.
V
Villa Tadini Buoninsegni, già Tobler, già Cybo, già Medici, pianta della villa con giardino, Agnano, San Giuliano Terme. Foto tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.630.
VI
Villa Tadini Buoninsegni, già Tobler, già Cybo, , già Medici, pianta topografica, giardino e villa di Agnano, San Giuliano Terme. Foto tratta dal volume San Giuliano Terme. La storia, il territorio, vol. I-II, Giardini Editore, San Giuliano Terme, 1990 p.631.
VII
Stemma della famiglia Roncioni, Cappella Roncioni, parco di Villa Roncioni, particolare porta d’ingresso, Pugnano, San Giuliano Terme, Pisa.
VIII
Stemma della famiglia Roncioni, Cappella Roncioni, parco di Villa Roncioni, particolare prospetto laterale, Pugnano, San Giuliano Terme, Pisa.
IX
Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 135, Acquisto Roncioni, Pianta c.a.1775, coll.296.
X
Catasto Leopoldino, redatto tra il 1819-1825.
XI
(a), (b) Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 135, Acquisto Roncioni, Pianta 1857, coll.294.
XII
(a), (b), (c) Archivio di Stato di Pisa, Inventario n. 135, Acquisto Roncioni, Piantario 1861, coll.354.
XIII
Catasto d’impianto 1928.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: ADDOBBATI ANDREA – RENZONI STEFANO – BALBARINI CHIARA, Estate in villa. Il lungomonte sangiulianese luogo di villeggiatura della nobiltà pisana, San giuliano terme attraverso i secoli, 2007. ANDREANI ISIODORO, Costruzioni lesionate: cause e rimedi, Hoepli, Milano 1912. ANDREANI ISIODORO, L’arte dei mestieri. Il muratore, Hoepli, Milano 1926. BALDASSARRI FRANCESCA, Pittori attivi in Toscana dal trecento al settecento, Galleria Moretti, Polistampa, 2001. BERTOLINI STEFANO CAVALIERE, Relazione di Pisa e del suo territorio, Pisa, 1976, p.93. BIANCHI FELICE, De’ Bagni di Pisa posti a pie’ del monte di San Giuliano, Giardini Editore, San Giuliano Terme,2001. BOSSAGLIA ROSSANA – TERRAROLI VALIERO, Il neogotico nel XIX e XX secolo (atti del convegno), Vol. I-II, Milano Mazzotta, Milano, 1989. C. F. Dizionario Del Bigattiere Ossia Spiegazione Di Tutti I Vocaboli Adoperati Nell’ Arte Di Coltivare Il Gelso A Di Educare Il Baco Da Seta,Giovanni Silvestri editore, Milano, 1923. CARBONARA GIOVANNI , Trattato di Restauro Architettonico :Atlante del restauro , Vol.1-4, UTET, Torino, 1996. CARBONARA GIOVANNI , Trattato di Restauro Architettonico, Vol.1-4, UTET, Torino, 1996. CAZZATO VINCENZO, Tutela dei giardini storici: bilanci e prospettive , Roma 1989. CAZZATO VINCENZO, Ville, parchi e giardini. Per un atlante del patrimonio vincolato, a cura del ministero per i beni culturali e ambientali – ufficio studi d’intesa con il comitato nazionale per lo studio e la conservazione dei giardini storici, Istituto poligrafico e zecca dello stato, libreria dello stato , Roma 1992. CHIOSTRI FERDINANDO, Parchi della Toscana, Sagep Editrice, Genova, 1982. CIARDI ROBERTO PAOLO – PINELLI ANTONIO – SICCA CINZIA MARIA, Pittura toscana e pittura europea nel secolo dei lumi, atti del convegno, Pisa, 1990. CIARDI ROBERTO PAOLO Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nel secolo XVIII, Cassa di risparmio di Pisa, Pisa, 1990. CIARDI ROBERTO PAOLO, L’immagine immutata: le arti a Pisa nell’ottocento, cassa di risparmio di Pisa, Pisa, 1998. CIGNI GIUSEPPE, CODACCI-PISANELLI BIANCANEVE, Umidità e degrado negli edifici: diagnosi
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RINGRAZIAMENTI
-Ai ricordi, inesauribili cariche motivazionali, in grado di allietare le lunghe nottate pre- tesi: le zingarate estive, il conero, la Pandina di Marta, le compilation di Ila, il pinguino di casa Ghibellina, i dolci di Picchio, “fumo blu”, il baffo di nonno Moretti, la moussaka, le serate cinebox, il pollo alla “Leopoldo”, le pause gelato, i pomodorini secchi e le melenzane di Man, i capperi di Carlo, le chiacchiere a Sant’ambrogio, i concertini e le seratine al Glue, i dolci di Chiara, la suora della porta rosa, i divani “soporiferi” di casa Lazzarini, il cortile di SV, l’albereta, le murate, Crawl, i pomeriggi davanti a Team Viewer, il frigo sempre pieno dopo la visita di mamma, le conserve, la bici che fu e la nuova arrivata, i liquori, il riso rosso, gli abbracci rubati e quelli “stritolanti” …e molti ancora. -A coloro senza i quali non sarebbero diventati tali, meravigliosi attimi di vita condivisa: Davide, Angela&Rosa, Fabrizio, Federica, Grace, Carlo, Eloisa, Annalisa, Curtis, Erika, Erika B., Majlend, Chiara, Giacomo, Cristina, Caterina&Bro (Tommaso), Eleonora, Giada, Marta, Ilaria, Valeria, Cecilia. -A Mamma e Papà, alle loro parole di conforto. -A Paola, instancabile consigliera, modello di vita. -A zia…alle revisioni alla Sapienza, alla passione che ci accomuna. -All’affetto dei nonni. -A Massimiliano, alle sue coccole e alla comprensione che ha saputo dimostrarmi. -Alle instancabili correzioni del relatore e dei correlatori senza i quali questo lavoro non avrebbe raggiunto pieno compimento. -Alle mie jemelle, alla meravigliosa amicizia che ci lega; alla presenza di Cristina, in grado di colmare ogni distanza; ai consigli della Fede; ai compagni sventurati senza i quali non sarei arrivata fin qua, Giacomo e Davide, che hanno saputo accogliere “un’Arpy” esagitata. -A Fabrizio che mai mi nega una mano. -A Davide, fratello ritrovato. A VOI VA IL PIU’ SINCERO GRAZIE
In ultimo… A Santa Verdiana, alle nottate, alla musica in loop, agli albori di Luglio con l’immancabile pile… tanto devastanti quanto fonti di dipendenza…Mancherete!