il coyote liberò le stelle (completo)

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RIMMEL narrativa italiana

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direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Daniele Ceccherini utili consigli: Giulio Mozzi

ISBN 978-88-96999-45-5 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright Š 2013 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - info@laurana.it


Daniela Brancati il coyote liberò le stelle

Le passioni di una donna nel labirinto della politica italiana

LAURANA

EDITORE


Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. La storia e i personaggi sono inventati. Se qualcuno si riconosce... è un problema suo.


Dedico questo libro a mio padre



Elenco dei personaggi principali Luisa Alunni: giovane dirigente di Sinistra Unita Marco Segranti: amico del cuore di Luisa Alunni Lorenzo Pippoli: concorrente di Luisa Alunni Eugenio Rispoli: segretario della Sinistra Unita Giuseppina Sforzi: segretaria di Eugenio Rispoli Mara Bonamici: moglie di Eugenio Rispoli Alfonso Corradi: dirigente di Sinistra Unita Giustina Simoni: responsabile femminile di Sinistra Unita Adelmo Pieri: sindaco di Prato Anna Laura Proietti: giornalista Giovanni Mustacchi: giornalista



I

Il coyote – povera bestia – gode di cattiva fama. Chissà perché. Anche i politici godono di cattiva fama. Chissà perché.

Luisa Lei è bellissima. Biondissima. Giovanissima. Ma ha una piega amara all’angolo sinistro della bocca. Tende una mano. Con l’altra regge il solito cartello: VENGO DALA MOLDAVIA. O 4 FRATELI. O FAME. AIUTATEMI 50 CENT. Evidentemente è il suo minimo sindacale. Le do un euro tondo tondo. Mi guarda stupita e contenta. Sorride e fa una smorfia: ha una lacerazione all’angolo della bocca. Non è una piega amara, è vera sofferenza. “Come ti chiami?” Mi sembra spaventata mentre sussurra un nome incomprensibile guardandosi intorno. Qualcuno la sorveglia. Non voglio nuocerle, ma sono attratta dalle storie personali. “Non ho tempo per parla”, e fa cenno a un omone che si sta avvicinando. “Neanche se ti do due euro, se ti aiuto”. “Nessuno può aiutare me”. Inutile insistere. Proseguo. Passa la coppia dei poliziotti 9


di quartiere. Camminano su e giù a guardia della nostra felicità. L’infelicità di quella povera ragazza non li riguarda. Le passano davanti come se fosse trasparente. Fino a quando non ruba non è un problema loro. Per me invece è un problema. Mi sento in colpa per tutta la società occidentale. Per non aver fatto niente per lei e quelle come lei. Per avere tutti i vestiti che voglio. Tutti i dischi e i libri e i biglietti del teatro e dei concerti. Per poter scegliere gli uomini con cui andare. Per poter dire dei no. Per non dover portare in giro un cartello bugiardo e un’infinita paura. Ho cominciato a fare politica che avevo più o meno l’età di quella poveretta. Quindici anni? Avrei accarezzato uno a uno tutti i poveri e i derelitti della terra. Volevo cambiare il mondo. Sono passati meno di vent’anni, vorrei ancora accarezzare tutti i poveracci. Però ora il mio sentimento più forte è la nausea. Mi dà nausea camminare in mezzo allo smog del centro di Roma e a torme di stranieri coi vestiti estivi anche a dicembre, perché tanto qui fa caldo per definizione, siamo in Italia. Fra piccoli uomini vestiti di grisaglia che oscillano da un ufficio a un bar e da questo a un ristorante, nella speranza di chiudere un affare vantaggioso con uno dei palazzi del potere di questa cinica città. Fra signore che camminano a piedi tenendo i cagnolini in braccio: nonsiamai si sporchino le zampe. Fra ragazzoni che vengono dalla borgata vestiti come i protagonisti di Arancia meccanica o Beautiful, per sentirsi parte della Roma che conta. E ragazzette che masticano chewing gum a bocca aperta vestite come in un cinepanettone. Fra impiegati in pausa caffè e 10


commessi che la pausa se la prendono solo quando li licenziano. Fra deputati che tramano e trìgano da case da scapoli a ristoranti, flash di fotografi e tv, in un eterno scadente filmetto, tanto per tutta la legislatura la pacchia è garantita. Fra giornalisti pettegoli che amano inciuciare con i deputati per il gusto di sentirsi importanti, per avere la loro parte nel filmetto, e qualche vantaggio pratico: la casa di un ente, l’anelata promozione. Il consenso di uno che conta. Più di tutto mi dà la nausea il mio partito. Indigeribile complicato e kitsch come una torta nuziale. Sopra, il presidente e il segretario, soli uno affianco all’altro come i pupazzetti che raffigurano gli sposi. Subito sotto, in un cerchio poco più grande, i massimi dirigenti. Sotto ancora, quelli che sgomitano per salire al livello superiore. Infine, alla base, quelli che continuano a credere nell’ideale – ma quale? – solo perché le illusioni aiutano a vivere e tutti dobbiamo campare. Tutt’intorno, una massa di ingordi che non vedono l’ora di agguantare il loro pezzo di torta. Io sto al terzo strato, i palazzi romani sono il mio regno, vado dall’uno all’altro ogni giorno non so quante volte. A piedi, perché difficilmente un taxi accetterebbe di accendere il motore per quel breve tratto: a signo’ magari me fa perde’ ’na corsa all’aeroporto pe’ sei euro! Di fretta, perché la gente pensa che i politici non fanno nulla, ma è pur sempre un nulla accelerato e la nostra vita è convulsa. Un giorno senza un’assemblea, un’intervista a radio o tv, e ti senti come se ti mancasse qualcosa, come un tossico in crisi d’astinenza, come un cane senza padrone, come un occhiale senza gli occhi. Perciò il miglior amico di un politico spesso è un compiacente giornalista al quale affidare almeno una volta al giorno una frase sciocca, che alimenterà polemiche a manovella e lo terrà a galla. 11


Non è il mio caso: sono nella direzione di Sinistra Unita, ma nessuno mi conosce. Oggi è un giorno no. Oggi la mia pigrizia vorrebbe avere il sopravvento e mi parla in un orecchio dicendomi: Luisa lascia perdere tutto. Riposati. Fatti un massaggio ayurvedico. Brucia delle erbe aromatiche. Comprati una gonna. Gonna e non pantaloni, perché ho solo quelli nell’armadio. Da anni indosso pantaloni, sportivi, eleganti, a tailleur, ma quasi sempre pantaloni. La gonna è un indumento da vacanza. Così frivola e poco agevole per alti palchi e sedili improvvisati che lascerebbero le mutande a vista. Sono una pigra mancata. La mia aspirazione profonda è alla pigrizia. All’ozio romano. Quello degli avi che se ne stavano sotto un olivo a meditare ed erano filosofi, mentre se lo facciamo noi siamo sfaticati. Penso: faccio tutto ora, mi sbrigo, e domani mi riposo. Magari non sotto all’olivo, ma sulla poltrona che è più comoda, o davanti alla finestra se piove. O a un quadro che mi piace. O al cinema. Che importa dove. Ma quel domani non viene mai. Poi arriva il giorno talmente pieno di impegni che mi stanco solo all’idea. In quel momento sento di essere utile alla società. Mi viene anche una fitta allo stomaco, il medico dice che dovrei ascoltare di più il mio corpo... e arriva il down. Avanza il cedimento, cerco il senso della vita, mi interrogo sulla mia. Finalmente prendo il sacrosanto riposo, con una tecnica graduale che tiene lontani i sensi di colpa. Annullo il primo impegno, perché provo dieci diversi abiti e mi sembra che non sopporterei di tenerne addosso nessuno più di un minuto. Questo mi stringe in vita. L’altro sul seno. Cambio camicetta e ne metto una larga, ma di conseguenza devo cambiare i pantaloni che non stanno 12


con quel colore. Non parliamo delle scarpe: quelle sono troppo accollate, le altre troppo a punta... oggi non se ne parla nemmeno, ma in pantofole non posso uscire. Pensando, provando e tergiversando ho fatto tardi. Annullo anche il secondo impegno, perché non è giornata, e per parlare con quel tale mi ci vuole tutt’altra energia. E via così fino a sera. Dopo aver fatto il vuoto dentro e intorno a me, sono in pace. Ma questo succede al massimo una volta ogni sei mesi. Oggi sarebbe uno di quei giorni, ma non me lo posso permettere. Così stamattina di malavoglia mi sono vestita con quello che ho di più comodo, meno femminile e più punitivo per il mio fisico. Io, i miei orribili vestiti e il mio malumore arriviamo alla sede di Sinistra Unita. Marco Segranti è il secchio dei miei pensieri spazzatura, il troppopieno dei miei sentimenti. È paziente, ironico e affettuoso. Quello che mi ci vuole per sfogarmi: “Vedi questo marciapiede? Lo odio. E questo portone: lo detesto. E il portiere? Che palle”. “Povero Dino, è sempre gentile... di’ che ti gira storto”. “Molto storto. Non ne posso più. Mi sento in un frullatore sempre più veloce che mi riduce in poltiglia”. “Proprio vero, le donne non sono adatte a fare le dirigenti politiche”. Marco mi stuzzica, ma non reagisco e lui continua: “Se hai da fare ti lamenti. Se non hai incarichi ti lamenti lo stesso. Insomma sei una grandissima rottura di coglioni. Va’ dal parrucchiere e falla finita”. “Il parrucchiere, come ti viene in mente? Se c’è un posto che non frequento...” “E fai male. Impacco alle erbe, maschera all’olio balsamico, massaggio profondo alla cute, torni tranquilla, sven13


tagliando i capelli come quella di LiberaeBella, e con un sacco di magnifici pettegolezzi da raccontarmi”. “Questo pensi di me? Che sono...”, non mi viene la parola. Ma a lui sì: “Un’insoddisfatta cronica. La gente ti invidia: sei giovane e già ai vertici del principale partito al governo. Ti lamenti per il gusto di farlo”. “Capirai. Sono in direzione, un’assemblea di cinquecento persone molte delle quali non riusciranno mai a prendere la parola”. Marco continua imperterrito senza considerare la mia interruzione: “E senza doverla dare a qualche vecchio babbione”. “Sarà per questo che il partito di babbioni non si fida di me”. “Fai finta di non disprezzarli. Magari sono più contenti”. “Non giudico nessuno, ma quello che vedo non mi piace: narcisi vivi solo davanti a una telecamera e a un pubblico anche esiguo. Alla continua ricerca di donne che smuovano i loro genitali altrimenti privi di entusiasmo, mentre predicano il culto della famiglia”. “Lo dici a ogni incazzatura e poi stai sempre qua”. “E dove vuoi che vada: ho investito anni in questo partito di affaristi nel nome di un interesse superiore, ipocriti, conformisti, incapaci di un pensiero che si elevi sopra lo stomaco... non li sopporto, però mi sembra di nasconderlo abbastanza bene, no?” “Come no. In certi momenti hai nello sguardo puro disgusto”. “Sei ingiusto”, lo dico ridendo, ma torno subito seria: “Non sono io che li respingo, sono loro, anche se a parole: come è brava Luisa, come è seria Luisa, come è affidabile Luisa... troppi complimenti per una a cui vogliono stroncare la carriera”. 14


La politica è una rappresentazione. A volte geniale, altre volte scadente. Dipende dagli attori e dal copione. I miei genitori erano protagonisti e pubblico contemporaneamente. Ne discutevano in continuo, apparentemente litigando. La lettura del giornale era fonte d’eccitazione e di competizione. Non ricordo una sola questione su cui fossero d’accordo, tranne l’etica. Erano due politici puri, la politica produceva in loro adrenalina. Sono quasi certa che dopo ogni discussione avessero voglia di fare l’amore: lui era su di giri, sembrava più alto. Lei aveva gli occhi lucidi e brillanti e un sorriso intrigante. Da bambina non lo capivo e mi spaventavo moltissimo a sentire le loro voci alterate, pensavo che litigassero. Pensavo che si sarebbero separati e avrebbero lasciato sole me e mia sorella. La politica per me, piccola, era come una nube che incombe e minaccia pioggia anche se poi non piove. Era come lo strappo di una tenda dal quale puoi guardare fuori e quello che vedi ti attrae e ti spaventa. Oggi per me, adulta, la politica è il mare in cui nuoto. Le ragioni della politica sono imperscrutabili, come quelle divine. E come quelle alle volte è davvero difficile accettarle. Guardo i magnifici occhi verdi di Marco. Vivaci e placidi. Tristi e allegri. Sereni. Mi tranquillizzano. Ed è con tono meno duro che continuo: “Ogni volta Rispoli mi liquida come una petulante ingrata: che problema hai, ti occupi di cose importanti, come se fossi una ragazzetta egocentrica, una che pretende che il mondo ruoti intorno a lei”. 15


“Infatti. Devi dare tempo alle persone. La tua carriera è importante per te. Quello che fa il segretario è importante per tutti. Lascialo in pace”. “Se mi desse un incarico lo lascerei definitivamente in pace”. “Gradi e distintivi non farebbero di te una persona migliore e più stimata”. “Se la stima si spendesse al supermercato sarei ricca. Così devo aspettare e aspettare. Senza un incarico e dovendo inventare il lavoro ogni giorno, se non voglio stare senza fare niente”. “Stavolta però hai strappato un impegno a Eugenio: la nomina a portavoce della segreteria. Ne parlano tutti, l’ho sentito anche in ascensore...” “I nomi si fanno circolare per bruciarli”. “Ricominci! Ti ha detto di sì, che lo trova un posto adatto a te. Preferivi che dicesse no o prendesse tempo?” “Hai ragione, ma dopo tanto attendere questa sua arrendevolezza mi sembra strana”. “Sei paranoica. Si è impegnato. Basta. Falla finita”. Cambio registro: “Secondo te sarò all’altezza di una responsabilità così grande?” “Tu insicura? Da quando?” “Ho una sensazione... c’è come un’energia negativa intorno a me. Ci scommetto: non succederà. E io resterò al palo”. “Butta Riza psicosomatica e le altre robe alternative che leggi. Non fare la vittima, piuttosto datti un po’ da fare... mettiti in vista. Fai parlare di te. Fai sentire il bisogno di una come te. Anche per il segretario: non potrà essere solo a sostenere la tua candidatura”. 16


“Quando vuole non ha bisogno di sostegni... Cosa dovrei fare secondo te?” “Che so, parla con qualche giornalista amico, fa’ uscire un bell’articolo a tuo favore, un’intervista...” “E come si fa ad avere un giornalista amico, gli regalo i cioccolatini a Natale?” “Regalagli piuttosto una notizia. Magari una succulenta, gustosa, pettegola notizia su un tuo avversario politico, o... concorrente. Su una riunione riservata, su qualcosa che hai sentito in corridoio”. “Gli potrei raccontare del segretario che tiene la mano sotto il tavolo a Cecilia Marini durante le riunioni ristrette. Che tenerezza, se lui non avesse Mara, l’implacabile moglie”. “E se questo non fosse l’unico motivo per cui la Marini partecipa a delle riunioni in cui non ha nulla da dire”. Marco ride della piega che sta prendendo la conversazione: adora i pettegolezzi e le battute sarcastiche, e con Luisa si passa in un istante dal tono serissimo a quello ironico. Ci mette il carico da undici: “Lascia perdere, il povero Eugenio ha già i suoi guai. Piuttosto il vicesegretario: ti ricordi la scorsa settimana che casino! Gli uomini della vigilanza, richiamati dai lamenti, sono entrati di corsa nella sua stanza, l’hanno trovato piegato in due sulla scrivania... si sono avvicinati per soccorrerlo credendo che stesse male, invece stava benissimo e sotto di lui la segretaria mugolava soddisfatta!” “I vigilanti, mortificati, balbettavano: credevamo avesse bisogno di aiuto. E lui furibondo, e memorabile: in questi affari non ho mai bisogno di aiuto. Marco, sei terribile, raccontale tu a un giornalista queste cose, se ci riesci”. 17


“Sono le cose che i lettori adorano, e noi pure. Ma se gliele dico io, favori a te non ne faranno. La vita, cara mia, è uno scambio”. “Hai una visione cinica e mercantile”. “Semplicemente realistica. E tu lo sai. Non fare la mammola e non negare a te stessa la possibilità di essere normale, oppure non lamentarti mai più”. “Per una buona causa faccio tutto. Ma per una causa così personale...” “La politica cammina sulle gambe degli uomini – e donne, naturalmente – perciò non si può prescindere dalle loro ambizioni. In questo caso dalle tue. Solo che tu non hai il coraggio di ammetterlo e di metterti in gioco”. “Balle. Se ci sono le condizioni lo faccio eccome”. “Cioè se hai la pappa pronta, il piatto pulito e la tavola apparecchiata... Dove vivi? Ti regalo un disco e poi ne riparleremo”. “Che c’entra un disco?” “Vedrai”. Ci salutiamo uscendo dal palazzo dove entrambi lavoriamo. Marco va a un appuntamento, io alla riunione. Ci abbracciamo e io esito a lasciarlo andare. Ha la solita espressione irridente. Fa il cinico per nascondere la sua amarezza. La sua difficoltà di vivere. È il mio unico vero amico, di lui mi fido davvero, ne sento la sensibilità nascosta dietro le frasi al vetriolo, dietro il sorrisetto sarcastico. Lo invidio per la sua capacità di farsi una ragione di tutto ciò che gli capita, e di scherzarci su. Lo compatisco per lo stesso motivo: dietro al sarcasmo, dietro all’ironia, si nasconde una rinuncia, quasi una mancanza di volontà di affermarsi davvero. La nostra comune irrequie18


tezza ci fa sentire un po’ estranei a ogni situazione. Autonomi e critici, non c’è spazio per quelli come noi, né nel mio partito né in nessun partito. Marco ha ragione: mi è sempre più difficile nascondere il mio disgusto. A giorni alterni mollerei tutto. Ma quando incontro Irina o la sfiga del mondo penso che devo stare lì dove ho la possibilità di battermi per cambiare le cose: la politica. Avevo la sua età – ma che età avrà sotto quell’espressione sofferente? – quando cominciai a capire che per i politici come per i preti vale il detto “fate quello che dico e non quello che faccio”. La politica è l’incoerenza di quelli che dai loro scranni – che occupano saldamente a sessanta o ottant’anni – dicono: largo ai giovani. È lo schiaffo di mio padre quella volta che, nel piccolo salotto di casa, parlava con un amico di attenzione verso i giovani, della necessità di tenere aperto il dialogo perché loro sono il futuro. E io, quindicenne impertinente, intervenni non richiesta: io e Lalla (mia sorella) siamo giovani, perché con noi non parli mai? Un ceffone sulla guancia destra: ancora me lo ricordo. L’unico ceffone della sua vita. Me ne andai offesa. Ma era offeso anche lui. Con la logica rigorosa dei giovani avevo messo in forse la sua credibilità politica, la sua autorità paterna. Lui si sentiva con la coscienza a posto. Le sue idee erano giuste. Che poi fossero diverse dai suoi comportamenti, questo non contava. Vorrei poter pensare alla politica come a una grande madre. Invece per me è come mia zia Elvira: mi ha nutrito, cullato, accarezzato, anche sgridato, come una madre. E io l’ho amata molto, ma non sono riuscita a odiarla come un’adolescente odia la madre. Non sono riuscita a entrare in quella profonda intimità, a sentirla veramente mia. Col 19


tempo mi ha dato uno stile di vita e un posto nella società, in cambio di tanta solitudine. Mamma... in certi giorni mi è difficile parlarne. Di papà posso dire che i pochi frammenti di intimità con lui erano sempre turbati dal dubbio che da un momento all’altro lo chiamassero per la riunione con i compagni. Che questo me lo portasse via ancora un’altra sera, l’ennesima sera. Col tempo però ho smesso di detestare la politica e le ho consentito di colmare i vuoti della mia vita. Non è stata proprio una scelta, quanto la naturale prosecuzione della routine familiare. Si è insinuata poco alla volta, l’ho assunta a dosi. E mi sono mitridatizzata. Il fatto che fosse per me cosa naturale mi doveva far riflettere. Invece solo quando mi ha lasciata all’improvviso ho sentito un vuoto incolmabile. Dietro ogni situazione, dietro ogni questione piccola o grande vedevo allungarsi l’ombra della politica. È duro sentirsi respinta da un uomo. Molto più duro sentirsi ai margini della politica. Marco è l’unico che mi capisce e mi sta vicino e condivide i miei pensieri. Vorrei trattenerlo, spiegargli quello che provo, ma anch’io devo andare. Mi avvio senza voglia verso Montecitorio. Attraverso alcune fra le zone più belle della città, cioè del mondo. Fin dalla nascita, quando Romolo uccise Remo, e Bruto uccise Cesare, questa città è fatta per i forti. È una città brutale dentro un’apparenza regale e placida. Qui sono ancora visibili i simboli del potere di ogni epoca. I palazzi portano le insegne di lusso e arroganza, glorie antiche e antiche prepotenze. Attraverso il selciato dove milioni di persone hanno posato i piedi, ma non i nobili, che andavano sulle 20


spalle dei poveracci. Guardo le finestre, il segno delle differenze è anche lì. Al secondo, il piano dei nobili, finestre grandi e balconi. All’ultimo, sotto i tetti, finestre piccole per la servitù: neanche del sole, che non costava niente ai padroni, i servi potevano avere la stessa quantità. Poso l’occhio sui sampietrini, rincalcati lì da poveracci sudati e affaticati. E poi lo alzo sui passanti, sempre con un libricino in mano, che senza guida non riescono a trovare neanche se stessi. Ma anche con la mappa chiedono spiegazioni: perché i percorsi di Roma sono contorti come le sue strade, contorti come il potere. Questa città ruffiana – che tutti chiama, a tutti risponde con lusinghe, perché ne ha viste e sopportate tante – a tratti è troppo confusa. Anche per me, che pure il potere lo voglio. Non me la godo più questa passeggiata. Sarei tentata via facendo di fermarmi a comprare la gonna e le scarpe di Giosi Romualdi, ma non posso. Alla riunione presenza obbligatoria. E la puntualità è un favore che faccio al mio stomaco: ogni minuto di ritardo è ansia, dannoso acido gastrico. Prima o poi un’ulcera vera e propria. Pazienza, gli abiti aspetteranno. Ma non molto. Ho bisogno di qualcosa di elegante da indossare quando sarò nominata portavoce. Li avrei voluti già nell’armadio, pronti per l’annuncio ufficiale. Invece, sempre che accada domani, l’affronterò con quel che ho e nella pausa pranzo correrò a comprare scarpe e vestito. In fondo è meglio: mai festeggiare prima, brindare prima, vendere prima la pelle dell’orso e dare per avvenuta una nomina che ancora non c’è. L’umore negativo mi condiziona. Camminando ripenso allo sciagurato giorno di un anno fa quando è iniziata la mia 21


disgrazia e la politica mi ha mostrato la sua faccia cinica e opportunista. Io che l’avevo idealizzata non potevo immaginarla come una puttana. Il colpo è stato violento. Il dolore immenso, anche se ormai i dettagli perdono nitidezza. Ricordo di sicuro che ero in ufficio, preparavo una riunione con i segretari di federazione quando è arrivata la notizia. Al congresso c’era stata gran battaglia sul mio nome. Giovane, laureata bene e in fretta, avevo fatto politica con successo all’università, alle spalle una famiglia artigiana dalla fede comprovata. Avevo tutte le carte in regola per piacere ai compagni che contano. Tutte tranne una: pensavo che la politica richiedesse autonomia, dedizione e sincerità. Per questo ero stata considerata immatura, inadatta a incarichi nazionali. Ma il segretario di federazione credeva in me e nel rinnovamento. Era riuscito a piazzare il mio intervento al congresso, tacendomi che ero l’ottantunesima, a rischio di essere cassata per mancanza di tempo. Ricordo ancora la cocente umiliazione. Era la fine della seconda e penultima giornata. La noia era l’unica presenza in una sala praticamente vuota. La presidente di turno (una donna per una sessione che non contava nulla) chiamava al podio uno per uno gli iscritti dicendo: non tutti potranno intervenire domani davanti al segretario, prego compagni presentatevi ora. Sembrava l’elenco dei caduti dell’ultima guerra: tutti assenti. Nessuno con un minimo di dignità riteneva giusto parlare in quelle condizioni: un congresso è una vetrina, se nessuno ti vede che vetrina è? La compagna aveva un tono mesto e cantilenante, eppure era tenuta a continuare. Arrivata al mio nome, non immaginava che dal fondo della sala deserta mi alzassi io, avviandomi al podio. Non so perché l’ho fatto, forse per spirito di contraddizione, o forse 22


perché era la mia prima volta. Lei quasi non credeva ai suoi occhi. Il suo sorriso era più di stupore che di incoraggiamento nel darmi la parola. Avevo scritto un intervento con tutti i crismi. L’ho buttato. Ho parlato a braccio con aggressività, con rancore quasi: “Non stupitevi se il partito non piace ai giovani: a noi giovani destinate solo sedie vuote”. Fra quelle sedie vuote si aggirava Tonino Majani cercando gli occhiali che aveva dimenticato. Sentendomi accorata – incazzata, diciamo pure – è emerso da sotto un sedile. Ha alzato gli occhi miopi, buoni e saggi, e mi ha guardato. Si è seduto, lui solo in tutto il settore destinato ai dirigenti, e mi ha ascoltato fino in fondo. Quando ho finito di parlare ha applaudito a lungo, convinto. Mentre scendevo dal podio si è avvicinato e mi ha detto con semplicità: “Noi vecchi abbiamo bisogno di un po’ d’indulgenza, di tempo per capire il nuovo. Il compagno Giuliani della federazione l’ha sempre detto che sei in gamba. Ma prima d’ora no, non ti avevo davvero messo a fuoco. Hai ragione sulle sedie vuote. È un errore. Mi impegnerò, vedrai”. E si è impegnato davvero. Grazie a lui sono entrata in direzione e ho iniziato a lavorare al partito. Mi ha appoggiato fino in fondo. Al punto da far dire a qualche stupido che si era innamorato di me. Povero Tonino: un uomo più fedele di lui alla moglie e al partito non esisteva. Ero stata assegnata alla sezione Organizzazione, una grande responsabilità in epoca di riflusso. Ho avuto quelle due o tre idee che hanno dato impulso alle tessere. Tonino non perdeva occasione per vantarsi di me come di una sua scoperta. Ma il mio capo mi detestava: con il mio lavoro avevo reso evidenti tutti i difetti del suo. Me l’aveva giurata e non perdeva occasione per sottolineare le mie stupidaggini da neofita. Fu la prima amara lezione: in politica se fai 23


bene dai molto, molto più fastidio che se non fai proprio nulla. Il compagno Genova, il capo, non vedeva l’ora di uccidermi – politicamente, s’intende – e me l’aveva dichiarato: fa’ che Tonino levi gli occhi da te e sei finita. Non poteva immaginare, credo, che Tonino ben presto avrebbe levato gli occhi dal mondo. Una curva maledetta. Un guidatore distratto. Un pranzo pesante con qualche buon bicchiere. Un viaggio fatale. Gli occhi, i suoi occhi buoni, non si sono più aperti sul mondo che amava tanto, sulla moglie che amava tanto, sul partito che amava tanto. E su di me. La figlia che non aveva avuto. Con lui è morta una parte di me. Lui era la barriera fra il mio idealismo e il cinismo degli altri. Era la mia possibilità di arrabbiarmi e restare nell’alveo del grande fiume. Era anche la mia possibilità di fare una veloce carriera. Distratta dai ricordi ho fatto la strada come i muli, senza rendermene conto. Sono arrivata. Chiedo il passi: che fastidio, l’usciere di via degli Uffici del Vicario mi vede molte volte a settimana, tanto che mi saluta cordialmente, eppure è sempre la stessa solfa: metal detector, documento, nome del referente interno. Ligio alle procedure che con il rischio terrorismo sono più stupide che mai. Non sopporto che lui sorrida mentre chiede: è qui per una riunione? Sono tentata di rispondere: no, per una visita medica. Sarebbe un errore: l’ironia è estranea alle burocrazie, la mia battuta si trasformerebbe in un’ulteriore perdita di tempo. Sento la pazienza sfuggirmi mentre passo la porta blindata, ma attacco il badge VISITATORE alla borsa dove è ben visibile e faccio un gran sorriso. Per le scale mormoro fra me, come un mantra: fa’ che sia breve, fa’ che sia breve, fa’ che sia 24


breve... spero di trovare l’energia per affrontare tre ore di noia sicura. Tutti diranno che sono d’accordo con la relazione. Ma lo faranno con dispendio di leccate di culo tipo: “bene ha detto”, “giustissime le osservazioni del segretario”. Frasi vuote di senso e piene di consenso, immerse in un brodo di parole inutili. Queste riunioni plenarie non servono a decidere, ma solamente a comunicare decisioni ai dirigenti di grado intermedio. Alle riunioni in cui si decide partecipano non più di sei persone, e a quelle di solito io non vengo invitata. In corridoio davanti alla sala c’è Lorenzo Pippoli. Belloccio, quarant’anni da poco, gran raccomandato. Il detto “non importa cadere, l’importante è rialzarsi” l’hanno inventato per lui. Dopo ogni scivolone c’è sempre qualcuno che lo aiuta a rimettersi in piedi. “Come sta la più bella della politica italiana?”, chiede col tono supponente di chi pensa che io non sia minimamente alla sua altezza. Nel dirlo mi cinge le spalle e poi la vita con nonchalance. Mi scanso brusca e lo fulmino con lo sguardo: detesto queste forme di confidenza, quanto mai inopportune in una sede istituzionale. Se passasse qualcuno che non conosce bene Lorenzo e la sua mondanità da puttaniere, penserebbe chissacché. Ma lui è il tipico esemplare del maschio in carriera. Allunga la mano e prende qualunque cosa sia alla portata: potere, denaro, donne. Io preferisco essere considerata una stronza misantropa, come si dice alle mie spalle, piuttosto che una con cui spendere un po’ di tempo in allegria nelle pause. Intendiamoci, l’allegria piace anche a me, però non sopporto i tipi per cui io o un’altra non fa differenza, purché respiri. 25


Lorenzo non si scoraggia, mi segue mentre mi allontano dal gruppo che sosta in ingresso. Entriamo nella sala riunioni ancora semivuota. Mi si siede accanto: “Cena con me stasera, voglio parlarti”. “Ma no, sono stanca e devo prepararmi per domani. C’è una riunione importante...”, lascio le parole sospese, per prudenza o per scaramanzia. “Domani, domani, che succederà mai domani...” “Ma le nomine... sai, si parla di me come...” Lui non mi lascia finire: “Sì, come portavoce della segreteria, ma chi te lo tocca quel posto. Sono solo rogne. Quanti si sono bruciati... se parli troppo e appari troppo, partono i siluri. Se parli poco ti accusano di non saper comunicare. In caso di smottamento elettorale invece, quando nessun dirigente importante vuol dare il lieto annuncio della catastrofe, ti scaraventano in prima linea. Il primo incidente di percorso lo fanno pagare a te. Comunque, se davvero ci tieni, il posto è già tuo. Non risultano altri concorrenti. E poi non è l’ultima spiaggia”. “Per me sì. Non pretendo che tu capisca, tu trovi tutte le porte aperte, ma io non mi chiamo Pippoli e mio padre non ha finanziato il partito, ha lavorato cinquant’anni come idraulico. Per me quel posto è importante”. “Quello che fai non è già abbastanza importante?” “Cioè cosa? Mi occupo di tutta la sfiga del mondo. Ma l’ultima parola spetta a Corradi. Lui è in segreteria e neanche sa che esisto. Oddio, prima o poi avrò un’altra grande chance: la sezione femminile, ma solo quando Giustina sarà stufa e io alle soglie della pensione. Già me ne frega poco e alle volte odio le donne, i loro problemi e il loro modo di fare e di atteggiarsi”. 26


Lorenzo sospira e con gli occhi che ridono dice: “Ah, io invece no. Adoro le donne e le loro complicazioni, sentimentali e su ogni cosa. I meandri della vostra contorta intelligenza mi affascinano. Vieni a cena con me stasera e parleremo male di tutte le donne che conosciamo”. “Sei proprio stronzo. Va bene, mi prendi per sfinimento, solo cena, ricordatelo”. “Ma certo, sono un ragazzo per bene, non farti illusioni”. Lo scambio di battute è interrotto dall’ingresso del segretario con l’abituale codazzo di gente che fa a gomitate per salutarlo ed essere salutata. Lo blandiscono, salvo dirne peste e corna appena gira la testa. Ma come può sentirsi a proprio agio in mezzo a loro? Lorenzo naturalmente è il primo a scattare. Rispoli si siede al centro della nomenklatura: di qua il presidente del gruppo parlamentare alla Camera. Di là quello del Senato. Al lato, volutamente eccentrico rispetto alla rappresentazione del potere, ecco Corradi. Lui non ha bisogno di essere al centro per sentirsi importante. Non ha bisogno neanche di essere visibile. Lui è il potere e tutti lo sanno. Non riesco a ricordare il suo nome, per forza (mi giustifico): nessuno osa chiamarlo per nome. Nessuno ha tanta familiarità con lui, a parte la moglie, il segretario e pochi altri. Secondo i punti di vista è l’ultimo esemplare di una razza in via di estinzione. Un pezzo di quello che fu e ora non è più il glorioso partito da cui discende l’attuale Sinistra Unita. Una sorta di anomalia difficile da inquadrare. Per altri è un mito: conosce a perfezione e ricorda a perfezione fatti e protagonisti degli ultimi sessant’anni di storia patria, di storia politica e di storia del partito. Un archivio vivente, una memoria di ferro che spesso usa per sbara27


gliare gli avversari. Un uomo da temere e rispettare, che nessuno può dire di conoscere veramente: parla poco e mai del suo privato. Nessuno pensa che sia amabile, e non cerca di essere simpatico. Ha legato il suo nome a tante leggi e a tanti accordi noti, segreti o semplicemente riservati. Per lui la politica sembra una sfera totale, la misura di tutte le cose. Dicono che non valuti tanto la morale quanto la capacità, eppure passa per uomo integerrimo e parco, che quasi non ha bisogno di denaro per vivere. Ministro nella passata legislatura, ha dato il suo nome a una legge che io detesto. Come d’altronde detesto Corradi, simbolo del vecchio che non demorde, che non lascia mai spazio ai giovani, del passato che incombe. Sta dritto sulla sedia eppure ha un atteggiamento totalmente rilassato: misteriosa postura imparata in anni di allenamento. La leggenda dice che può dormire a occhi aperti durante un convegno o una conferenza stampa che lo annoiano e, se interpellato, rispondere come fosse sempre stato sveglio e vigile. La riunione comincia. Ordine del giorno: una nuova legge sull’immigrazione. D’improvviso è urgente. Il partito ne ha bisogno e il governo ne ha bisogno, la destra strumentalizza i clandestini per fomentare il razzismo nel paese. E noi, spiega il relatore, perdiamo almeno sei punti nei sondaggi. Secondo alcuni siamo troppo tolleranti. Secondo altri troppo reazionari. Che rabbia, per mesi ho bussato cento porte per ottenere attenzione. E ora riconoscono che ci vuole un colpo d’ala. Questo chiede il segretario. Se lo aspetta dai presenti, cade male. Già so cosa diranno, saranno le solite parole, luoghi comuni tipici di chi da un bel po’ ha perso il contatto con la realtà. D’altronde lo stesso Rispoli, un 28


uomo capace, va in giro con due portaborse, l’autista-guardia del corpo e forse da domani anche con me come portavoce. Quando non è in viaggio o in riunione, la moglie non gli permette di parlare con nessuno, esercita su di lui una pressione terrificante, lo condiziona in ogni scelta privata e pubblica e poi... le sfuggono le amanti. O meglio lui sfugge al suo controllo per andare con l’amante di turno, ma viene sempre scoperto da qualche fotografo, da qualche giornalista. Qualcuno dice li chiami lui stesso per incrementare la fama di sciupafemmine. Tanto lei lo perdona sempre, in cambio dell’ultima parola su nomine e incarichi che coinvolgano donne. Chissà cosa avrà da dire su di me. Non molto, credo: nella complicata geografia del partito, da tempo sono schierata con il marito. Anche se qualcosa in lui mi mette in allarme ogni volta che lo avvicino. Eugenio resta sempre alla superficie delle cose, perfino quando parla a tu per tu con qualcuno, quasi tema di doversi impegnare troppo. Il suo tono è costantemente comiziante, anche nelle riunioni riservate. I suoi occhi guardano ma non vedono: galleggiano. Quanto agli altri dirigenti, difficile capire cosa interessi loro veramente. A parte il potere, s’intende.

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II

Il coyote è un canide di media dimensione, con il muso stretto e allungato, grandi orecchie e lunghe zampe, una folta pelliccia grigia e rossa e una macchia sulla punta della coda. I politici il pelo ce l’hanno prevalentemente sullo stomaco.

Luisa Mi annoio da morire. Da domani se Dio vuole sarò portavoce e farò un falò di tutte le carte accumulate in questi anni. Sto alla riunione con metà cervello e un solo orecchio. Quel che basta per sentire che i miei compagni si accapigliano sui nomi. La metà vuole che si parli di chiusura dei famigerati centri di identificazione ed espulsione. L’altra metà di superamento. Sai che differenza. Spesso penso che per gli uomini la Guerra mondiale o il RisiKo, fa lo stesso. Ci mettono uguale impegno, hanno bisogno di competere per sentirsi qualcuno. Io non partecipo. Non mi va di giocare. “Luisa, tu non hai niente da dire?” Il segretario mi chiama direttamente in causa. Mi sento come uno scolaro che non ha seguito la lezione. Come se tutti potessero leggermi in faccia i pensieri che Eugenio ha interrotto. Farei bene a dire anch’io, come tutti: sono d’ac30


cordo con chi mi ha preceduto, ma vorrei precisare che... oggi però davvero non mi va. Sarà il caldo, sarà la stanchezza. Sarà la tensione della vigilia. “La mia posizione la conoscete. La conosci tu, segretario, e la conoscono tutti quelli che sono qui. Non si possono tenere segregate in un campo di concentramento persone che sono venute illegalmente nel nostro paese ma non hanno compiuto reati. Questi centri sono solo superlavoro per la polizia, le organizzazioni umanitarie e una vergogna per noi tutti. Quando vedo quelle immagini in tv io mi vergogno. Sì, mi vergogno proprio”. È la prima volta che mi esprimo così in una riunione ufficiale. Che mi è preso? Gli sguardi dei presenti sono tutti rivolti a Corradi – sua è la legge istitutiva dei centri – per capire se si è offeso. Vergogna è una parola davvero fuori dal comune. Una parola che si può usare per gli avversari in un comizio, ma è troppo forte se riferita a un guru della politica del proprio partito. A un’icona come Corradi. Odiato, da criticare ferocemente in privato, ma da rispettare in pubblico. Da lui, come sempre, nulla traspare. Gli altri si guardano interdetti, si scambiano battute sottovoce: pazza o kamikaze? Visto che la frittata è fatta, continuo: “Guardate qua. È estate, e come sempre la situazione si aggrava. Ecco il giornale di oggi: Mohammed, 33 anni. Venuto dalla Tunisia per sfuggire alla fame, provvedere alla famiglia lontana. Carcerato senza che nessun magistrato abbia emesso sentenza di condanna. Non ha rubato, non ha rapinato né violentato. Né ucciso. Mentre noi abbiamo ucciso lui. Quando era entrato nel centro aveva detto di soffrire di cuore. È scritto sulla sua cartella. 31


Da quel momento, una settimana senza notizie del medico. Ieri mattina Mohammed si lamentava, i suoi compagni hanno chiesto aiuto agli infermieri. Invano. È morto senza che nessuno gli prestasse soccorso. Fra le braccia impotenti dei suoi compagni di sventura, che piangevano e gridavano Allah akbar, Allah è grande, mentre davano fuoco ai materassi. E noi? Abbiamo promesso la visita di una delegazione di parlamentari. Io sento la responsabilità di questa situazione che disapprovo profondamente. Per discutere seriamente partiamo da qui. I centri vanno chiusi. E poi?” Un unico, singolo applauso accoglie il mio discorso accorato – sicuramente diranno che è poco politico e troppo viscerale. Alzo la testa e guardo con la coda dell’occhio chi ne ha avuto il coraggio. Resto esterrefatta: è Corradi. Come se non avesse capito che l’attacco era a lui e a quella sua terribile legge. Forse mi prende in giro? O forse vuole sottolineare la propria superiorità? È ironico? Nel dubbio quegli opportunisti dei miei colleghi non mi guardano neanche, e restano immobili con gli occhi fissi alla presidenza. La riunione va avanti stancamente, tutti si comportano come chi cammina sulle uova. Molti rinunciano a parlare: il mio intervento li costringerebbe a schierarsi e questo per gli opportunisti è quanto di peggio. A riunione conclusa mi si avvicina Corradi in persona: “Complimenti per la passione, ti pensavo un funzionario, un impiegato di partito come gli altri. È vero, il futuro è delle donne”. Il gesto distensivo di Corradi si rivela liberatorio, a quel punto e solo a quel punto sono in molti a complimentarsi con me. Mi danno la mano, qualcuno mi bacia due volte sulle guance come se non ci vedessimo ogni giorno molte 32


volte al giorno. Solo il segretario se ne va palesemente perplesso. Lo seguo a distanza e quando il solito codazzo si è disperso mi avvicino: “Ti vedo contrariato Eugenio, ce l’hai con me?” Lui è insolitamente garbato e tranquillo nel rispondere: “Ti pensavo pronta a un incarico più alto, ma vedo che le emozioni dominano te e non viceversa. Come potrai fare il portavoce se non sai mantenere la freddezza?” “Vuoi dire che un discorsetto sincero mi ha fatto perdere il posto?” “Voglio dire che Corradi ha gran seguito. Forse non era il caso di attaccarlo alla vigilia di una nomina per la quale il suo parere è determinante”. Sorrido sollevata: “Ma come, non hai visto? Per la prima volta mi ha notato ed è venuto personalmente a congratularsi”. “Allora preoccupati davvero. Ora lasciami andare. Mara ha organizzato una cena e non posso tardare”. “Sempre schiavo delle donne!” La battuta m’è uscita così, spontanea e stupida, viste le circostanze. Ovvero l’eloquente servizio fotografico di un settimanale: Tutte le donne del segretario, sottotitolo: L’Eugenio conteso non sa decidere fra le amanti e la moglie tiranna. Venti foto con pose molto intime fra bionde rosse o brune – il segretario, un vero collezionista, non discrimina –, chissà che terremoto in famiglia. Lui però sembra non farci caso e sorride mentre si allontana. Non sono bacchettona, ma... come può fare politica se ha sempre quella fissazione in testa? La cattiveria che ho appena pensato non mi procura la soddisfazione sperata, la mia testa è piena di nulla, confusa. Torno indietro a piedi come sempre. 33


Al solito angolo spero di incontrare Irina. Ma non c’è. La sua giornata dev’essere finita. Poveretta. Un’altra giornata senza speranza. Alla morte di Tonino sono seguite settimane e mesi senza che nessuno si ricordasse che esistevo. O mi chiedesse di lavorare. Esattamente come i padroni che tanto criticavamo. Ero un’epurata. All’inizio non pensavo che fosse così dura. Non fare niente ti consuma. Prima dici a te stessa: ho tanto tempo, mi occuperò del mio fisico, leggerò, scriverò. Poi trascorri le ore nel vuoto, aspettando che il telefono suoni, che qualcuno si affacci alla tua porta. Dopo un po’ prendi atto che non esisti e non ti buttano fuori perché sarebbe uno spreco di fatica. A fronte dello stipendio ti chiedono solo di non uscire dalla tua stanza. Un anno è lungo se, mentre cerchi di dimenticare una perdita tanto grave, galleggi nel nulla. Un anno è troppo lungo se passi il tempo a misurare le meschinità dei tuoi compagni. Gli stessi che mi avevano blandita, corteggiata, mi avevano chiesto ogni giorno “ti prego, vieni a lavorare con me”; morto Tonino non mi rispondevano più al telefono. Se possibile non mi avrebbero neanche salutato in ascensore. Tonino era il mio nume tutelare: finché era vivo servivo per arrivare a lui. Morto lui, non servivo più a niente. Parlavo con la donna delle pulizie, con Dino il portiere. E con Marco, che non mi ha mai tradita. Quando lui era fuori sede ammazzavo il tempo cercando di ammazzare anche il senso di inutilità e la solitudine. Sì, un anno è lungo se tutto ti crolla intorno e non sai da che parte ricominciare. Nelle mani ti passa solo acqua e 34


non stringi nulla. Leggi un giornale. Ne leggi due. La frustrazione aumenta: i quotidiani riportano mille cose che non vanno. Sono le mille cose che potresti fare e non te lo consentono. Sono le mille cose che nessuno fa, ma se provi a metterci un dito... L’immigrazione era un tema odioso a tutti. Ho iniziato a occuparmene per disperazione. Sono diventata un po’ competente e non davo fastidio a nessuno. Hanno cominciato a consultarmi e poi a invitarmi alle riunioni. Non mi appassionava, ma mi teneva occupata. Riempiva il vuoto in me e il vuoto politico. In questo anno ho fatto molto e realizzato poco. Ma ho analizzato a fondo la mia situazione. Ho imparato a nuotare senza salvagente. Ho imparato che lavorare per un partito non vuol dire lavorare per la stessa causa. Mi sono fatta un po’ più furba. Fino a oggi. Un quarto d’ora di sincerità può mandare tutto all’aria? Non posso credere che Corradi voglia vendicarsi. E se fosse, di sicuro Eugenio glielo impedirà. Ho una casa piccola: un salotto con angolo cottura, una camera da letto e un bagno. Una casa da zitella, parola antiquata, ma sempre meglio di single. Per me e i miei quattro abiti è sufficiente, ma per tutte le mie carte no davvero. Perciò ogni volta, anche se è tardi, torno al partito e lascio i dossier in ufficio. Saluto il solito Dino, che a quest’ora forse è l’unica presenza nel palazzo. Salgo ed entro nella mia stanza. Mi guardo intorno per la prima volta con una lucidità da estranea. Spartana è dir poco, non ho mai avuto il coraggio di personalizzarla. Dall’abbigliamento al comportamento, 35


ho sempre fatto di tutto per mimetizzarmi, confondermi in quel club per soli uomini che è la politica. Anche l’arredo è asettico, quasi non ci vivessi più tempo che a casa. Il resto è un tributo al gusto dell’amministratore del partito e alla mia posizione nella scala gerarchica. La sedia per esempio è imbottita e girevole, lo schienale di media altezza. Non basso come quello di una segretaria, non alto come quello di un vero dirigente. I poster delle campagne pubblicitarie del partito ai muri. Il disordine delle carte è consentito, perché indica che il lavoro ferve. Qualcosa di personale – a parte le foto dei figli, per chi ne ha – è tacitamente sconsigliato, quasi che l’effetto voluto sia di precarietà: oggi sei qui, bella mia, ma domani se mi va ti mando altrove. Il partito non si discute. Neppure vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino. Oggi però d’improvviso sento il bisogno di un vaso con dei fiori, per rendere quei dieci metri quadri un po’ meno angoscianti. Abbandono sulla scrivania la cartellina di plastica con gli appunti della riunione, nella speranza di archiviarli nella spazzatura da domani. Nomina o non nomina, porterò una stampa di quelle coloratissime dell’avanguardia grafica degli anni ’20, ricordo di una vacanza, e l’appenderò. E porterò dei fiori. Critichino pure se vogliono. Non ce la faccio più a vivere senza colori, soffocando le sensazioni per non dare nell’occhio: rischio lo sdoppiamento della personalità. Sfioro con le dita il piano dell’armadietto basso su cui sono ammonticchiate tonnellate di carte. È un gesto quasi affettuoso verso questi mobili che detesto, grigi di ferro, con la targhetta oramai sbiadita dell’economato. 36


Sono soprappensiero. Non mi accorgo che qualcuno entra. D’improvviso la sagoma di Corradi si materializza, e girandomi resto a bocca aperta. Sono sbalordita, non è mai successo che mi abbia degnata di attenzione prima d’oggi e adesso è addirittura nella mia stanza, davanti a me, e mi guarda con un sorrisetto enigmatico. “Lo so, sei stupita. Qualcuno ti avrà detto che ti sono ostile, che mi opporrò alla tua nomina. Ma non è da me che devi guardarti”. “Veramente io non so...” Sorride solo con gli occhi mentre dice: “Sei confusa? Giusto. Non è da tutti avere Corradi in visita”. “Forse dovrei scusarmi con te”. “Non farlo. Oggi hai avuto palle, e io apprezzo chi le dimostra. Sei contro di me, non importa, hai argomenti dalla tua. Per me il semaforo è verde, l’ho detto al segretario, spero che te l’abbia riferito. Personalmente detesto i tipi demagogici e sinistrorsi come te, e non capivo perché una persona come Tonino Majani, sempre così intelligentemente moderato, ti avesse scelta. Oggi, ascoltandoti, ho pensato che fosse per quel fuoco, quella passione che si intuisce sotto la tua scorza barricadera. Questo partito rischia la crescita zero: zero cervelli, zero carattere, zero personalità. Punto su di te, se ti aiuto forse un giorno capirai che la politica è ben più complicata...” Lo interrompo: “Guarda che io rispetto molto le tue posizioni. È che oggi è stata una giornata strana, non volevo intervenire, il segretario mi ci ha praticamente costretta, non ero preparata e vedi... la solidarietà... i poveri della terra... mi hanno preso la mano”.

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“Per carità, i poveri resteranno poveri e sfruttati anche se li leviamo dai Cie e li facciamo sciamare per la penisola in cerca di riparo sotto un cavalcavia, con un fazzoletto di carta da vendere o un grammo di roba per alzare qualche euro. Ma non sono qui per discutere di questo. Quando arriverai alla mia età capirai che il tempo è il bene più prezioso, e dedicarlo a convincere te che sei molto giovane, e di tempo ne hai molto, anche per sbagliare... be’, quello è tempo sprecato. Sono venuto a verificare se il lampo d’intelligenza e autonomia che ho visto oggi è stato un’eccezione”. Io non rispondo, ma i miei occhi sì. Allora lui prosegue: “Un dirigente deve saper gestire se stesso a prescindere dagli umori”. “Quando sei entrato stavo pensando il contrario: fin qui mi sono sforzata di reprimere le mie emozioni, di adeguarmi al conformismo imperante. Ora voglio fare politica da persona intera: carne e sangue, oltre al cervello. Non so”, guardo timidamente Corradi, “se sono disponibile a reprimermi ancora. Non credi che la politica abbia bisogno anche di emozioni?” “A patto di tenerle a bada, sì. Questa politica emofiliaca ha bisogno di sangue nuovo. Allora d’accordo, fai la portavoce e guardati bene le spalle”. “Da chi?” “Dovresti capirlo da sola”. Non fa in tempo a finire che alla porta si affaccia Lorenzo. “Disturbo? Sono venuto a esigere il mio credito: andiamo a cena? O è troppo presto... devi finire con Corradi?” Sfacciato come sempre. Avvampo: come si permette, un mito come Corradi e lui irrompe con quella vocina insolen38


te. Ci pensa l’anziano dirigente a rompere l’imbarazzo. “Ma figurati, stavo appunto spiegando a Luisa che i vecchi hanno bioritmi totalmente diversi, e per me l’ora è tarda. Divertitevi voi che potete. Addio”. Esce silenziosamente come era entrato. Mi volto come una furia: “Ma che ti è preso, sei impazzito, farmi fare una figura così con Corradi. Lo sai che lui è rigoroso, moralista, stessa moglie da cinquant’anni: ora che penserà di me?” “Quello che pensano tutti, che sei troppo carina per passare le tue serate da sola tra queste orride mura o in casa con una tisana e le pantofole. Dai, andiamo”, e così dicendo mi prende la mano e mi trascina fuori dall’ufficio. “Ma aspetta, devo prendere la borsa. Le chiavi di casa...” “Se dai retta a me le chiavi di casa non ti servono. Non perdiamo altro tempo”.

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III

Il coyote è un predatore opportunista. Si può nutrire di carogne in avanzato stato di decomposizione, come di conigli, di insetti e di frutta. Anche i politici sono onnivori e predatori, spesso opportunisti, capaci di non mollare la presa neanche davanti a un cadavere.

Luisa Intorno a un tavolino quadrato, talmente stretto che sembra quello di un bar, e in un rumore assordante, Lorenzo mi guarda negli occhi e sembra la parodia di un latin lover. Rido e lui non capisce: “Perché?” “Perché non ti rendi conto che sei proprio lo stereotipo del macho. Cinquant’anni di femminismo non ti hanno sfiorato. Comunque tranquillo, fra i tanti modi di conquistare una donna c’è anche tenerla allegra”. “Ti preferirei romantica e appassionata. Pazienza. Che voleva Corradi?” “Non l’immagineresti mai. Voleva complimentarsi con me. Mi ha notata”. “Vecchia scuola, incredibilmente astuto: si complimenta con la pischella che gli ha sparato addosso in pubblico. 40


Dopo aver fatto la figura del vero democratico potrà privatamente segarti. Di’ pure addio alla nomina”. “Lui non è meschino”. “Ha conquistato pure te! Tutto è perduto, non ci resta che un brindisi”. “A che?” “Al tuo incarico di domani o al nostro amore”. “Il nostro amore non esiste e l’incarico neanche, per ora. Dunque facciamo un brindisi meno impegnativo. A qualche buon consiglio che vorrai darmi, per esempio”. “Uno te lo do: guardati da quelli che credi alleati”. “Sei la seconda persona che me lo dice, oggi”. “Io e chi altro?” “Corradi. Proprio lui, era venuto a dirmi questo”. “Che faccia tosta, ti mette in guardia dagli amici per isolarti. Certo i vecchi sono straordinari”. “Io invece penso che fosse sincero. Al suo livello perché sprecare energie fingendo con me che non conto niente? Piuttosto, mi chiedo chi potrebbe essere il mio falso amico”. “Io, e chi se no? Non hai miglior amico di me, perciò solo io posso tradirti”. “Veramente non siamo mai stati tanto vicini. Il tuo interesse si è scatenato all’improvviso”. “Sottovaluti il potere dei tuoi occhi”. “Non sono una che si sottovaluta. Ma non pensavo di piacerti tanto. E dopo più di un anno che ci conosciamo”. “Oggi avevi un non so che di malizioso e lontano che mi ha acchiappato. Dai, andiamo a ballare”. La serata va avanti a lungo fra le insistenze di Lorenzo, sempre più pressanti. È di me che parla continuamente. Col 41


solito tono da stronzo indaga quasi per strapparmi delle confidenze e fa il vago se gli chiedo qualcosa. Mi rendo conto benissimo che suona come una moneta falsa, ma non so se lo scopo è portarmi a letto o carpirmi qualche informazione che gli serve. I bicchieri non sono mai vuoti, e decido di rilassarmi. Mi fa ballare come un damerino di periferia: girando vorticosamente e poi attirandomi a sé e stringendomi e avanzando col bacino al punto che... insomma, sento il contatto con una parte di lui molto eloquente. Sono tentata, non è un uomo da buttar via, la mia vita sessuale è un deserto da troppo tempo, e sono così tesa... potrebbe essere piacevole. Lo lascio fare e al primo lento mi s’incolla addosso e mi bacia. La sua lingua lavora dentro di me come per darmi un assaggio di cosa farebbe con un’altra parte del suo corpo. Non male, ma troppo tecnico per essere sexy. Non che pensassi di averlo fatto innamorare, ma così è troppo. Mi stacco con delicata fermezza, o almeno spero che lui la interpreti così. Ci resta male e chiede perché con lo sguardo. “Scusami, sono troppo tesa: ho il pensiero fisso a quel lavoro. Lo voglio a tutti i costi e voglio pure prendermi una rivincita, fargliela pagare a quelli che mi hanno boicottata, allontanata, esasperata. Il sesso non vuole pensieri, e stasera ne ho troppi”. Spero che la battuta sdrammatizzi il rifiuto. A giudicare dall’espressione non ci riesco: ha l’aria di uno che ha ricevuto una bastonata e insiste più per dovere di bandiera che altro. Non me ne libero presto. Quando finalmente ci riesco è tardissimo e non arrivo a prendere sonno. Sola nel letto mi giro e mi rigiro. Forse se avessi accettato la proposta del collega belloccio a quest’ora sarei più 42


rilassata e dormirei già. O forse no, perché non è a lui che penso, ma all’anziano Corradi. L’ho sempre temuto e detestato da lontano, invece mi è piaciuto conoscerlo, è tosto, ha uno strano fascino misterioso, i modi signorili e sicuri, ma non affettati o contorti. Sarà anche astuto come dice Lorenzo, ma mi è sembrato sincero, sia quando si è complimentato, sia quando mi ha messa in guardia. Verso chi? Lorenzo ha scelto il momento sbagliato per entrare, come se l’avesse fatto apposta. Sono paranoica: lui non è così intelligente e neanche così diabolico da spiarmi. Prenderò la tisana. Così dormirò almeno un paio d’ore: malva, camomilla, alloro, semi di finocchio per rilassarmi, mischiata a liquirizia per un buon sapore. E l’escolzia per dormire di sonno ininterrotto fino al mattino. Alla faccia di Lorenzo. Per lenire la mia ansia non c’è di meglio: non sono tipo da pasticche. Oppure sì? Sì. Sarà almeno un’ora che la luce filtra dalla persiana. Mi ferisce gli occhi appena provo ad aprirli e come una lancia arriva dritta al cervello. Non riesco ad alzarmi. Il corpo non obbedisce. Maledetta pasticca. È un po’ che cerco di mettere i piedi fuori dal letto, ma pesano un accidenti, non riesco neanche a intuire l’ora, dev’essere una giornata nuvolosa, di quelle che cielo e asfalto hanno lo stesso colore. Il colore del mio umore: grigio... Accidenti al telefono, e a me che lo lascio lontano dal comodino e adesso devo alzarmi per rispondere, ma chi sarà: la sveglia è appena suonata. “Ti avevo detto di non fidarti. Quando c’è una nomina in ballo non si dorme, perché gli altri non dormono, al contrario di te”. 43


La voce di Corradi è molto severa, eppure il tono non sembra ostile. “Che cosa è successo?”, chiedo con un filo di voce roca. “Quello che prevedevo. Non è certo una conversazione da fare al telefono. Vieni immediatamente, oppure rinuncio ad aiutarti, detesto gli incapaci”. Le sue parole come una doccia fredda mi svegliano definitivamente. Oddio, le dieci... corro in bagno e mi vesto a precipizio. Prendo il motorino, e alle dieci e quarantacinque sono al partito, trafelata e ansiosa. Tutti mi sembrano un po’ sfuggenti, anche Dino a pensarci bene, ma non ho tempo per i dubbi esistenziali. La riunione è finita. Passo da Giuseppina, la fedelissima segretaria del segretario, l’unica donna che a lui interessi veramente, non come femmina s’intende, ma come essere umano al suo servizio, affidabile e dunque indispensabile. Lei non gli nega mai nulla, dal pagamento di una bolletta al commento sulla cravatta. Sa liberarlo dagli scocciatori e trovare la persona che gli è necessaria in quel momento. Può consentirgli la fuga amorosa all’insaputa della moglie e organizzargli il viaggio di lavoro più complicato. Senza Giuseppina sarebbe un uomo finito. Lei è molto protettiva, e al tempo stesso consapevole di avere un ruolo solo perché lui è un uomo importante. Sono reciprocamente grati, complici, intimi eppure discreti. Una vera coppia, molto più di quanto lo siano Rispoli e la moglie. Manca l’unione carnale, ma forse il rapporto dura proprio per questo. La fedeltà sessuale non è una caratteristica del segretario. D’improvviso provo imbarazzo a stare lì di fronte a lei, quasi le avessi fatto un’ingiustizia. Sono sollevata quando 44


alzando gli occhi dice: “Puoi entrare, il segretario ha più volte chiesto se eri arrivata”. “E perché non mi hai chiamato, scusa?”, chiedo piccata, come se fosse colpa della poveretta se non mi sono svegliata nel giorno più importante della mia vita. Lei non si scompone, mi guarda autorevole ed efficiente come sempre: “Gliel’ho chiesto, ma lui mi ha detto di non farlo, che non era necessario, voleva solo sapere se c’eri e dov’eri”. Già, voleva sapere quanto sono stupida e inaffidabile. Entro nella sala delle riunioni alla quale si accede sia dall’ufficio di Rispoli che dal corridoio. A incontro finito si sono trattenuti a parlare in quattro, faccio segno a Eugenio, bisbigliando: mi cercavi? Il segretario si alza, mi assento solo un attimo, dice. Mi prende per il gomito confidenzialmente e mi porta nel suo ufficio. “Ma dov’eri? Io mi batto per te e tu diserti? Sei matta?” “Scusa. In fondo meglio parlare della mia nomina senza di me, in libertà, no?” “Bel risultato: ora c’è una seconda candidatura”. Mi tiene in sospeso, vuole che sia io a domandare chi è. Metto l’orgoglio sotto le suole delle scarpe e glielo chiedo. “È Lorenzo”. “Lorenzooo! Non ci posso credere, quel verme. Ecco perché...”, e divento rossa come la bandiera dei vecchi comunisti. “Perché che? Lo sapevi allora o lo sospettavi, e non sei venuta anche con due gambe rotte? Ma sei in un partito o all’asilo infantile? Credi che gli altri debbano lottare per te e tu passi all’incasso dopo? Mi deludi. Ora fammi tornare dentro, la coda delle riunioni è più importante delle riunioni stesse. E rifletti sul da farsi”. 45


“Ma allora... come è finita?” “Non è finita, ti farò sapere”. Si allontana. Io invece resto lì, basita. La botta è troppo grossa, non riesco a riprendermi. Un verme, sì, è un verme e da oggi in poi questo sarà il suo nome. Purtroppo ci sono cascata: voleva carpirmi informazioni, tenermi impegnata mentre qualcuno lavorava per lui, perciò gli occhi e la passione e tutte quelle stronzate, e il vino e la danza. È la spiegazione alla frase sibillina di Corradi. Già, Corradi, eccolo spuntare dal corridoio. Cerco di ricompormi. “Era ora. Dovrai ringraziarmi a lungo. Naturalmente Eugenio ti ha detto... Sono riuscito a ottenere che se ne riparli la prossima settimana. Per ora tutto sospeso. Ma adesso datti da fare. Dimostra ciò che vali”. “Ma chi mi ha votato contro? Quali voti ha Lorenzo?” “Eugenio naturalmente, ma non ha bisogno di votarti contro. Lui tesse una rete e tu ci caschi dentro. Per quale motivo credi che ieri ti abbia spinto a parlare?” “...era una trappola!” “Certo, ti conosce bene. Aprendo la riunione oggi ha avuto la sfacciataggine di ricordare a tutti il tuo intervento imprudente, dicendo che era indignato che una persona giovane e inesperta avesse sferrato quell’attacco contro di me, e che si scusava e forse doveva ripensare alle candidature perché non ci si può fidare di una che non capisce i rapporti di forza e non rispetta l’autorevolezza dei compagni. Insomma: ha tentato di incastrarmi, puntando sulla mia suscettibilità, sulla mia vanità. Non sa che per me la cosa peggiore è la sua mediocrità, è semmai il suo appoggio che mi impensierisce”. “Io... grazie, ma come hai saputo?” 46


“Se fai politica da tanti anni come me interpreti anche i segni. Pippoli senior è superattivo in questo periodo. Eugenio non sa e non può dirgli di no”. “Ma si era impegnato con me!” Sospira, come dire devo spiegarti proprio tutto: “Eugenio è un mediocre che si atteggia a grand’uomo. Si dà un tono perfino con il libertinaggio, che esercita pubblicamente, incapace a tutelare la dignità di sua moglie. Tu mi sembri di un’altra pasta. Ma passerai per stupida, se non ti aiuto. Lascia che lui candidi Lorenzo. Ci divertiremo. Ora andiamo nel mio ufficio”. Sono troppo sbalordita per articolare bene le frasi: “Ma allora perché? Perché sono settimane che mette avanti il mio nome per quel posto?” “Il suo primo candidato era destinato a essere bruciato, io non l’avrei fatto passare. Per questo ha proposto te per prima: ti avrei cassata e lui avrebbe fatto il nome di Lorenzo per mediare. A quel punto sarei stato obbligato a votarlo. Ti aveva destinata al sacrificio, mentre tu pensavi che fosse il tuo migliore alleato. Ieri ho cercato di fartelo capire, speravo che capissi”. “Lorenzo non è in grado di fare quel lavoro!” “Ciò che lo rende adatto è il padre: fondatore del partito in Toscana, grande finanziatore, titolare delle cliniche private più importanti della sua città e proprietario di grandi immobili un po’ ovunque. E poi un farfallone mentalmente semplice come lui è del tutto controllabile... E tu, del resto. Ti senti adatta a fare la dirigente politica? Se non avessi lasciato campo libero a Eugenio avresti già la nomina in tasca. Ora mettiamoci al lavoro. Ho un amico al Corriere del Mattino. Troverà interessante tutta questa storia”. 47


“Davvero vuoi darla ai giornali? Come ci resterà Eugenio? Ancora non posso credere che mi abbia giocato un tiro di questo genere”. “Siamo stati anche troppo in corridoio. Seguimi e ascolta: hai bisogno di imparare in fretta se non vuoi compromettere del tutto la situazione”. Taci e ascolta. Impara ad ascoltare. Non parlare prima di aver contato fino a cento. Lo diceva mamma, è stata anche l’ultima raccomandazione prima che il male portasse via la sua capacità di occuparsi di noi. “Ascolta il tuo corpo, ascolta il rumore dei tuoi pensieri, il suono dei tuoi affetti. Non li sopraffare con la voce e la ragione, altrimenti non riuscirai mai a essere felice. Non sono riuscita a insegnarti la felicità. Delle mie figlie sei sempre stata la più tormentata”. Ma io so ascoltare, mamma. Ho sempre saputo ascoltare. Ascoltavo il rumore della serratura quando rientravi tardi dalle riunioni e ascoltavo il rumore dei tuoi passi. Due, tre, quattro, cinque, ti avvicinavi al mio letto per darmi un bacio al buio e rimboccarmi la coperta. Finalmente potevo dormire. Ascoltavo quando discutevi con papà per i soldi, che non bastavano mai, e l’indomani cancellavo il desiderio di un giocattolo nuovo perché avevo capito la difficoltà di arrivare alla fine del mese. Ascoltavo il mio dolore di bambina che cresceva sola e rubava i momenti di vita familiare alla politica. Crescendo ascoltavo la pena del mendicante all’angolo, il dolore del mondo. Ascoltavo il dolore delle madri che vedevano i figli partire in guerra e tornare nelle bare, quando li vedevo al telegiornale. O di quelle che uscivano a 48


comprare il latte e al ritorno trovavano la casa distrutta da un esercito armato fino ai denti che combatteva un popolo disarmato. Tutto quello che ascoltavo entrava dentro di me. Parlare è l’unico modo che ho sempre avuto di far uscire da me il dolore del mondo e sopravvivere all’ingiustizia e alla sofferenza degli altri. Perciò a tacere non ho mai imparato. Perciò ho deciso di fare politica: volevo che dalle mie parole anche altri capissero la sofferenza diffusa. L’ingiustizia diffusa. Il dolore diffuso. Chi mai poteva pensare che la politica fosse questa strana cosa che scopro giorno dopo giorno. Taci e ascolta: sii prudente. Lo diceva sempre anche Tonino. Me l’aveva detto anche prima di mettersi in quella maledetta macchina. Perché dovrei tacere quando la politica è fatta per parlare, per comunicare agli altri come potrebbe essere il mondo e come non è? Perché se vuoi ottenere il risultato devi essere più furba degli altri, mi rispondeva lui. Perché se parli troppo ti scopri, resti indifesa, diceva mamma. Perché se parli troppo gli altri conoscono il tuo gioco e possono contrastarlo, diceva Tonino. Perché possono ferirti, diceva mamma, e tratteneva il respiro come se mi stessero ferendo veramente. E ora mi trovo in questo ufficio ostile, fra gente ostile che credevo amica. E gente amica che credevo ostile. Non ho la forza di fare chiarezza. Diceva mamma: non fare l’asino in mezzo ai suoni. Ma io sono stordita come quell’asino. E senza la sua pazienza. L’ufficio di Corradi è una sorpresa. La stanza è piccola, la scrivania del tutto sgombra, come se nessuno ci lavorasse. Un ordine monacale. Nulla ricorda la vita quotidiana di un 49


essere umano. Tranne le pareti. Mi avvicino incuriosita a vecchie fotografie in bianco e nero ingiallite dal tempo. Foto storiche? In un certo senso. Resto col naso quasi appiccicato al vetro e la bocca aperta. Corradi è giovanissimo e irriconoscibile senza la grisaglia e gli occhiali dalla montatura pesante che indossa ora. Stringe la mano a Joan Miró, il grande pittore spagnolo. Riconoscerei i suoi quadri anche al buio. Mi fa pensare agli anonimi graffitari delle metropolitane. Corradi è molto fiero, accanto al grande vecchio che rifiutò onori e committenze dal regime franchista. Nella foto a fianco è con Pablo Picasso, che tiene in mano un disegno preparatorio di Guernica, un’opera che m’ha sempre turbata, quasi disturbata. Ed eccolo con Italo Calvino. Sorride al mio stupore: “Adoro il bello, ammiro la capacità di modificare la materia e piegarla alla volontà di esprimersi. Di trasformare il suono in musica. Vorrei saperlo fare anch’io, perché l’arte quando è davvero grande emoziona, commuove, penetra nel profondo. Ma non ho in me altra scintilla che la politica. Che a suo modo richiede creatività e talento. Non in tutti: in alcuni è solo mestiere. Ma della mia vita parleremo un altro giorno”, e tronca così ogni possibilità di domande. Si siede e mi indica la sedia di fronte a lui. Compone un numero di cellulare. “Enrico, sei tu? Ciao. Non crederesti che cosa è successo oggi in direzione... Eugenio voleva nominare portavoce Lorenzo Pippoli... come non te lo ricordi, era caposervizio di turno al Tribuna, il giornale del partito, due anni fa, all’epoca di quello scandaletto che ci ha coperti di ridicolo... arrivò la notizia del pentito che accusava Ribonati del sequestro Tulino. Pippoli la mise in 50


prima con titolo d’apertura a nove colonne. Dopo un’ora si capì che era una bufala, ma lui in una giornata così importante aveva abbandonato la postazione nelle mani di un praticante, con l’ordine di non chiamarlo per nessun motivo, era con una donna chissà dove, e così finimmo per pubblicare la notizia falsa... sì proprio lui. Pensa, un cialtrone, una persona inaffidabile come portavoce... certo, può fare tutti gli errori che vuole, ci pensa il padre a coprirlo. E a spingerlo. Sì c’è un’altra candidata... non la mia candidata, ma una persona più presentabile: Luisa Alunni. Però al segretario non piace. Lui preferisce quelli ricattabili e con un padre potente... anche lei è giovane, ma ha stoffa e non ha un passato da nascondere. Questo partito è su una strada scivolosa... finita la mia generazione Dio ci aiuti... sono laico, ma anche i laici hanno un dio. Ciao caro... no, non è il caso di parlare con lei. La nomina è ancora in ballo. Sostenerla io? Quando mai, il vecchio Corradi non sostiene nessuno, sono perfido, ricordi? Non mi far passare per buono che lo detesto. Solo i cattivi possono fare il bene della nazione. I buoni al più possono offrire caramelle. Comunque, domani pomeriggio c’è quel convegno al quale sarò anch’io, lei è fra i relatori. Non mi stupirei che avesse il coraggio di attaccarmi pubblicamente, come ha già fatto ieri in una riunione interna... una donna con le palle, te lo dico io. Peccato che politicamente siamo così diversi. Fisicamente? Carina, se ti piace il tipo: bionda, snella, lineamenti delicati, look da suora laica o da ragazzina del collegio Chateaubriand. È vero che io non ho più l’età per valutare l’appeal femminile. Ciao caro, ti saluto, ci vediamo al Residence Ripetta domani alle diciasette. Te o qualcuno dei tuoi... ricordati, per questa dritta mi devi un favore”. 51


Riattacca. Comincio a capire: “Devo fare in pubblico lo stesso intervento di ieri e...”, esito, “cambiare look?” Ride: “Di’ quello che ti pare. E non badare a quello che ho detto: sii sobria come sempre, ma indossa un dettaglio che si noti, che so, una spilla grande sulla giacca, un fiore all’occhiello. Sii autorevole, ma brillante. Attaccami con il rispetto che mi è dovuto, e con i giornalisti no comment. Ti guiderò alla nomina, ma non ammetto sgarri. Ricorda”, aggiunge ironico, “tu non hai un padre in posizione strategica”. Sorrido. Ho capito il gioco. Mi sembra pericoloso, ma non oso fare osservazioni. “Machiavelli non era nessuno in confronto a te”. “Machiavelli dava consigli a dei principi ignoranti, che vivevano con un sistema di comunicazioni primitivo e restavano all’oscuro delle novità per settimane o mesi. Noi siamo nell’epoca del sempre connesso e possiamo reagire in tempo reale. Io uso questa possibilità perché la politica è comunicazione. Azione e reazione devono arrivare subito e bene all’opinione pubblica, altrimenti...” “Altrimenti?” “Altrimenti fai filosofia, non politica”. “E se il giornalista con cui hai parlato riferisce la tua conversazione?” “Non gli conviene, non avrebbe più notizie da me. E poi vorrebbe passare alla Rai come direttore di un tg. Credi che possa farcela senza o contro di me? Ora vai che ho da fare”. Non vorrei avere Corradi come nemico. E forse neanche come amico: gioca sporco, è troppo spregiudicato e mi usa. Sono allergica alle strategie arzigogolate. E non capisco perché le donne abbiano fama di essere complicate quando tutti gli uomini che conosco lo sono più di me. Io ho un cer52


vello lineare. Distinguo il bene e il male. Amici e avversari. Detesto la passione tutta maschile per la guerra. Per loro la politica è come per i bambini giocare a indiani e cowboy, russi e americani, buoni e cattivi, una perenne sfida a volte tragica e spesso poco seria. Per me la politica è avvicinarmi ai bisogni di chi ha bisogno e risolvere i loro problemi. Alessandro, lui sì che sarebbe stato a suo agio con Corradi. Quando l’ho incontrato la prima volta ho pensato che era molto intelligente. Capiva le cose nel profondo. Una frase e aveva già colto tutti i retroscena. Mi sono illusa: ecco un uomo che può capire anche me. Faceva l’avvocato, l’ho conosciuto per caso, in un bar. Non mi piaceva particolarmente all’inizio, ma mi intrigava. Era – dovrei dire è, in fondo è morto solo per me – bello, grigio di capelli e di baffi. Un gran portamento e delle mani da impazzire. Un tocco leggero ed elegante. Sempre asciutte, mai sudate, dita lunghe da pianista. Tutto in lui diceva: guardami e ammirami. In effetti lo ammiravo. Non come uomo, ma come un bell’oggetto, che si guarda volentieri. In realtà era un ragno: mi ha avvolto in una ragnatela fine e robustissima, dalla quale a un certo punto non ho saputo più uscire. Lui era un costruttore di strategie e di consenso. Un’intelligenza preventiva. Preveniva qualunque mossa altrui. Ha prevenuto anche la possibilità che potessi rifiutarlo. L’ha fatto con sapiente, apparente indifferenza. Mi ha letteralmente catturato e ha cercato per tre anni di insegnarmi l’arte della strategia, ma io ero una cattiva allieva. Rifiutavo l’idea di ridurre tutta la vita, tutte le vite a un gioco di ruolo. Rifiutavo di censurare le mie emozioni e diventare la mummia inespressiva che lui voleva. Ho resi53


stito e mi sono ribellata per non diventare come lui mi chiedeva di essere. Gli davo affetto, comprensione, compagnia, sesso, a tratti anche entusiasmo. Ma lui voleva di più, sempre di più. Un giorno ha detto: sposami. Mi ha colto di sorpresa, avevo molti dubbi, ma quella pappa fredda durava da troppo tempo, non sapevo come rifiutare e ho accettato. Da quel momento ho pensato di risarcirlo della sua gentilezza, diventando più arrendevole, più buona con lui: un matrimonio non può essere un Campo di Marte. Mi dicevo che in fondo la mancanza di vera passione era quasi una garanzia: quel che non c’è non può spegnersi, e nulla sarebbe mai mutato. Non avremmo avuto un futuro entusiasmante ma neanche brutte sorprese, delusioni e rotture. Non lo amavo, ma ero talmente lusingata che lui così elegante mi avesse chiesto in sposa da provare un forte sentimento che volendo si poteva scambiare per amore coniugale. Vivevo tutta la vicenda come se mi avesse fatto un favore concedendosi e mettendomi al riparo da me stessa, dalle forti emozioni che si sa, ti rovinano la vita. In quell’occasione ho imparato che anche in una come me una richiesta di matrimonio fa scattare ataviche idee, l’orgoglio di pensare: ha scelto me, ora dovrò essere all’altezza di ciò che ci si aspetta da una moglie. Il fatto che accettassi di mettermi i tacchi, di andare dal parrucchiere e di incrociare le gambe stando seduta in poltrona gli ha fatto pensare che fossi pronta a tutto. Ed è stata la fine. Era troppo logico e intelligente per capire una come me.

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IV

Il coyote segue la preda a distanza ravvicinata o da lontano, anche per quindici minuti. Il politico ti segue anche per tutta la vita se ritiene che tu gli possa essere utile, e ti molla all’istante appena non gli servi più.

Luisa La mattina è buona. Il ponentino nella notte ha spostato l’aria. Una bella sorpresa: la brezza a Roma un tempo era di casa, ma ormai riesce raramente a superare la barriera dei palazzoni di periferia. Stamattina mi sono alzata bene. Corradi m’inquieta, ma mi piace e mi fa comodo. A passi lunghi ma senza fretta affronto il solito percorso. E al solito posto c’è lei. Bellissima. Biondissima. Giovanissima. Con la solita piega amara all’angolo sinistro della bocca. “Siniora oggi me lo dai un iuro?” La guardo: ha occhi limpidi e infelici. “Sì, te lo do, ma dimmi come ti chiami... il nome vero”. “Irina”, dice lei con la voce improvvisamente più profonda, abbassando lo sguardo. Ne approfitto per guardarla meglio senza apparire indiscreta. All’angolo della bocca ha 55


sempre lo stesso segno. Un arrossamento che è quasi una piaga. “Irina, voglio aiutarti. Tu hai una malattia della pelle, capita a chi lascia il posto dove è nato e vive un po’ così... in mezzo alla strada. Prima che si allarghi voglio farti vedere da un dermatologo, un medico adatto”. “Siniora”, Irina sorride storcendo un po’ la bocca, evidentemente la piaghetta le fa male, “non ha malattia mia pelle. Non preoccupa. Dammi solo un iuro”. Nel dirlo tende la mano guardandosi intorno. Spaventata, cerca con gli occhi il suo sorvegliante. Ci sto mettendo troppo tempo a darle questo benedetto euro. Per salvare la mia coscienza rischio di combinarle un bel guaio. Glielo do e mi allontano. Mi aspettano i palazzi del potere, dove si danno un gran da fare uomini indifferenti ai drammi che si consumano fuori. Una strana calma occupa tutta la mattina. Il segretario non mi chiama mai, il vigliacco mi evita. Mangio il solito boccone al solito posto senza incontri degni di nota. Oggi non c’è neanche Marco. Potrei andare a comprare le famose scarpe di Giosi Romualdi, ma una leggera agitazione mi frena. Oggi il convegno. Domani le scarpe. Se Dio vuole, come dice Corradi. Inch’Allah, come dicono i miei amici emigrati. Se Dio vuole... Dio per me è lontano lontano. È uscito dalla mia vita in quel giorno di maggio quando è morta mia madre. L’avevo implorato tanto nei giorni della sua malattia, quando speranza e disperazione si alternavano velocemente, giravano e sparivano se mamma sorrideva o se faceva una smorfia di dolore. Quel dolore che neanche la mor56


fina riusciva più a lenire. Lo chiamavo. Ma non rispondeva. E allora ho imparato a farne a meno, poi a ignorarlo. Poi a negarlo. Se Dio vuole è diventato un modo di dire e nulla più. Quello che Dio vuole per me non è niente di buono. Le cose buone devo procurarmele da sola. Ogni tanto sì, mi piacerebbe affidarmi a Dio. Mi piacerebbe pensare che c’è qualcosa oltre me, oltre noi, oltre la terra. Qualcosa per cui valga la pena lottare e penare, invece di pensare che tutto questo sbattimento finisce con noi. Ma Dio mi ha punito quando non avevo fatto nulla di male. E non lo ha fatto invece quando me lo sarei meritato. Adesso per distinguere il bene e il male mi regolo da sola, sulla base del buon senso e di ciò che mi conviene.

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V

Il coyote come il lupo è estremamente leale, ed è un genitore mite e premuroso. I politici, be’... le analogie finiscono qui.

Luisa Al Residence Ripetta la sala è piena e i giornalisti accreditati sono molti. Arrivo in anticipo, non si sa mai. E meno male. Nonostante sia fra i relatori, alla presidenza manca il cavaliere con il mio nome. In segreteria mi dicono che Rispoli in persona l’ha fatto levare. Quello di Lorenzo invece è in bella vista. In un altro momento mi sarei scoraggiata. Oggi ho bene in mente le aspettative di Corradi. Perciò prima che la segreteria dica qualcosa afferro il cavaliere abbandonato, occupo l’unica sedia vuota al tavolo dei relatori e me lo piazzo davanti in bella vista. Corradi presiede, neanche alza gli occhi a salutarmi. Eugenio gli occhi li alza, non ha modo di dirmi niente, né potrebbe davanti a tutti, ma fa una smorfia di disappunto. Io invece gli sorrido come se niente fosse. E il verme? Non mi guarda, è troppo occupato a leccare il culo al segretario. 58


Mentre gli interventi si succedono combatto la noia sfogliando il Corriere del Mattino. D’improvviso mi blocco. Che stupida, me ne ero proprio dimenticata. Imperdonabile non averlo ancora letto. Al centro della seconda pagina, con grande evidenza, c’è un pezzo firmato da Giovanni Mustacchi: Sinistra Unita si spacca sul nome del portavoce. Il segretario abbandona la Alunni e punta sul giornalista della “Tribuna” che falsificò le prove del sequestro Tulino. E via così con tutta la storia, esattamente come l’avevo sentita da Corradi. Ecco spiegata la freddezza di Eugenio. Avrei bisogno di sedermi in un angolino nascosto per mettere in ordine i pensieri, che sono mille. Invece sono qua bene in vista e devo fare la faccia indifferente mentre chiudo il giornale. Eugenio penserà che sono l’ispiratrice del pezzo. No, sa che è opera di Corradi, ma non potendo attaccare lui che è troppo forte se la prende con me: sono il loro terreno di battaglia. Che penseranno gli altri membri della direzione? Pensino pure ciò che vogliono, se sono così potente da far uscire a mio comodo un articolo sul Corriere del Mattino vuol dire che il posto di portavoce è mio di diritto. Prenderò esempio dal segretario: invece di sentirsi in difetto per aver proposto la candidatura di un verme incapace, se la prende con me che sono la parte lesa. Lo terrò a mente. Io imparo presto. Anche se il sistema mi fa schifo. Indosso la maschera di quella sicura e strafottente, eppure ho l’impressione che tutti mi guardino e commentino. Ho un senso di colpa, e perché poi? Questa guerra non l’ho iniziata io. L’agitazione mi torna utile: il convegno è di una noia tale che solo l’adrenalina mi tiene sveglia. Guardo il pub59


blico: distratto, di sicuro resta in sala solo per qualche incontro utile con il conforto dell’aria condizionata. Anche Eugenio e il verme parlano fitto fitto fra loro. Il brusio fra platea e tavolo dei relatori è intollerabile. Corradi interviene, invitando al rispetto per chi parla. Per un po’ tutti tacciono. Anche il segretario e il verme. Poi tocca a me. E i due vistosamente riprendono a parlare, come per rendere esplicito il loro disinteresse. Non sopporto di essere ignorata in modo così aperto, ingiusto e villano. E se penso alla lingua del verme dentro di me vorrei affondarlo in un blocco di cemento vivo in stile mafia Novecento, prima di intossicarmi ingoiando la mia rabbia. Aggiusto il microfono adattandolo alla mia altezza, e taccio. Non inizierò l’intervento senza il dovuto rispetto. Sono lunghi i secondi quando una persona sta in piedi al podio pronta a parlare e non lo fa. La sala si chiede che succede, dapprima con un mormorio pieno di domande: sta male? Le è preso il panico da pubblico? La mia espressione sicura, quasi spavalda, lo sguardo rivolto al segretario, ben presto rendono chiaro cosa significhi il mio atteggiamento. Il pubblico tace a sua volta con un silenzio carico di attese e tutti gli sguardi sono rivolti alla presidenza dove anche i due finalmente si rendono conto di quanto accade e tacciono. Allora dico, con voce calma e decisa e una punta di ironia: “Segretario, per carità, se hai delle cose importanti da dire al tuo collaboratore io aspetto. Quando hai finito, fammi un cenno e inizio”. Eugenio è diventato rosso e gonfio, gli occhi sembrano volergli uscire dalle orbite, una cosa del genere nella storia 60


di Sinistra Unita non si è mai vista: un’oscura dirigente che riprende in pubblico il boss! Lorenzo, da vero verme, vista la mala parata si allontana. Il segretario mormora qualcosa come: prego, inizia pure. E la sala a questo punto è tutta per me, che ho osato sfidare il segretario. Mi sento come una che ha studiato tutta la vita per questo momento, anche se fino a dieci minuti fa quasi non sapevo cosa dire. Alzo la mano destra stretta a pugno, un gesto che i dirigenti di Sinistra Unita hanno abbandonato da tanto di quel tempo, la sala mormora ancora: che strana ragazza, un’estremista, evidentemente... Ma ora che tutti gli sguardi sono per me, con l’altra mano indico ciò che tengo nel pugno: una ghianda, che reggo fra pollice e indice per mostrarla a tutti. Un mormorio interrogativo, e perfino Corradi alza lo sguardo. “Vedete, questa ghianda è in tutto simile a quelle che un giorno John Lennon decise di inviare ai potenti del mondo. Ne raccolse tante insieme a Yoko Ono perché le ghiande hanno una forma che ricorda le vecchie bombe. Ognuna fu adagiata in una scatolina con un biglietto destinato a un Capo di Stato: Give Peace a Chance, proprio come il titolo di quella sua magnifica canzone. Una canzone diventata storia per una generazione importante e qui ben rappresentata dal nostro segretario. Una ghianda non è che una ghianda, fino a quando non diventa un simbolo. Ma una ghianda può diventare un modo per dire: date una possibilità alla pace. Sì, diamo una possibilità alla pace. Facciamolo anche noi che siamo nati nella parte giusta del globo, quella in cui una casa, un buon pasto e un reddito sia pur piccolo ci sono per tutti. Per mantenere il nostro livel61


lo di vita e di benessere abbiamo bisogno di quelli che trattiamo da ospiti sgraditi. Per mantenere il nostro livello di vita e di benessere abbiamo bisogno di mantenere la pace. Ebbene, pensiamo che la pace si mantenga umiliando ed emarginando i deboli? Distruggendo le loro economie e poi scacciando quelli che scappano dalla miseria che noi stessi abbiamo procurato loro? “Ogni tg, ogni notizia pubblicata parla degli immigrati come di un rischio, reale o potenziale. Guardate il giornale di oggi: Rapina in villa, secondo le vittime non erano albanesi, ma italiani. Come dire: strano, stavolta loro non c’entrano, l’eccezione che conferma la regola. “Abbiamo un’enorme responsabilità nel modo di parlare e scrivere di queste persone che girando per il mondo in cerca di una vita migliore scelgono noi. Scelgono di costruire e pulire le nostre case, accudire i nostri vecchi. “Oggi aspettavo l’autobus e mi sono seduta alla fermata sotto la pensilina, appoggiando sul sedile le mille cose che avevo in mano. Un giovane marocchino mi si è seduto accanto. Fra me e lui c’era la mia borsa, aperta e straboccante. Lui la guarda e poi mi guarda con un sorriso rassegnato: non chiudi la borsa, non la levi, che io sono seduto qui? I marocchini rubano, no? Sono sorpresa e gli dico: macché. Lui mi fa un enorme sorriso. Un sorriso indimenticabile. Forse erano settimane che qualcuno non si rivolgeva a lui in modo normale, senza paura di essere derubato, senza guardarlo come un diverso, uno da tenere lontano. Uno da isolare e se possibile chiudere in quella specie di lager che sono i Cie. La mia posizione è nota: li considero una vergogna e un problema. Di certo non una soluzione. Voglio però aggiungere che, se non possiamo tenere reclu62


se come in un campo di concentramento persone che non hanno compiuto reati, non possiamo neanche lasciarle in apparenza libere e in realtà schiave della loro miseria e di trafficanti: di armi, di droga, di sesso. Ecco perché voglio riconoscere pubblicamente al compagno Corradi di aver per primo sottolineato i lati oscuri di una libertà solo apparente. I problemi di pubblica sicurezza esistono, ma l’immigrazione ha altri aspetti che devono essere studiati e risolti: la garanzia di serena convivenza per noi e dei diritti fondamentali e della dignità della persona per loro”. Applausi fortissimi, almeno un minuto, più che a ogni altro oratore. Dopo il mio discorso gli altri sembrano microfoni spenti. Lo capisco da come mi guardano, da come parlottano indicandomi. La parola è potere se usata bene. Ne sono consapevole e come un po’ brilla. Sì, capisco che un successo possa dare alla testa. Il convegno ripiomba nel grigiore, poi per fortuna si conclude. Non sto nella pelle dalla curiosità: vorrei chiedere subito a Corradi che ne pensa. Ma non riesco a raggiungerlo prima che se ne vada perché molti del pubblico mi vengono incontro, mi stringono la mano, si complimentano con me. Anche i giornalisti, con un mucchio di domande: quanti anni ho, che esperienza ho fatto sinora, perfino cose molto private, del tipo se sono sposata o fidanzata e da chi compro i vestiti. Ora che li ho tutti per me scopro che me ne frega poco delle loro domande stupide e delle loro attenzioni destinate a durare pochi minuti per morire il giorno dopo. Invece vorrei conoscere Giovanni Mustacchi, il giornalista che ha firmato l’articolo sul Corriere del Mattino, quello che il direttore-longa mano di Corradi ha scelto per eseguire i suoi desiderata. Mi ha fatto un piacere natural63


mente, ma vorrei chiedergli come ci si sente a fare il killer per conto terzi. Come può uno fare il suo mestiere in nome della libertà di stampa e poi scrivere su commissione. Sarà un giornalista complice e consapevole, oppure ignaro e stupido? Giovane e arrivista o anziano e rassegnato? Lo capirei guardandolo negli occhi, ma non riesco a trovarlo, e dunque mi metterò l’animo in pace tenendomi i miei dubbi. E le curiosità sull’etica e la correttezza, di cui non gliene frega niente a nessuno, e veramente non capisco perché ne freghi ancora qualcosa a me. È la lobby, meglio riderci su, sui nostri guai e sulle mie illusioni. Finalmente fuori, esausta: la tensione è calata lasciandomi come un’ovatta dentro, ed è troppo caldo per rilassarmi. Passerò in ufficio. Ho portato con me un vaso e voglio sistemarlo sul mobile di fronte alla scrivania, così domani comprerò da Rosalba un bel mazzo di fiori di campo e il nuovo corso avrà inizio. Sbircio da Corradi, ma è tutto buio. Delusa, riaccendo il cellulare che è spento da quando sono entrata al convegno, non ho molta simpatia verso l’invadente congegno, e non capisco quelli che sviluppano una vera e propria dipendenza. Il display indica che c’è un nuovo messaggio. “Ho investito bene il mio tempo”. Dunque Corradi è soddisfatto. Anch’io. Al segretario ho dimostrato che ha fatto male a non puntare su di me. Al verme (sono ossessionata dal pensiero di quella sua linguaccia) che sono in grado di schiacciarlo. Al maestro che non sono una marionetta: interpreto la parte, la elaboro, la faccio mia. Diventerò una comprimaria, non farò la spalla come quel poveretto di un giornalista, 64


Mustacchi. Corradi non è Dio, deve trattarmi con rispetto. Ma meno male che c’era lui, se no sarei stata fregata. Oggi è una data da segnare a memoria futura. È il giorno dell’autostima ritrovata. Il mio pride personale, dopo anni di orgoglio depresso. Alessandro si era insinuato come un tarlo e aveva rosicchiato dall’interno la mia sicurezza. Aveva fatto leva sulla mia pigrizia esistenziale, che aveva subito intuito – lascia fare a me, riposati, era la sua frase preferita – creando, giorno dopo giorno, delle abitudini, quasi delle dipendenze. A me, che per tradizione familiare di abitudini non ne avevo mai avute. Mai una volta che si cenasse alla stessa ora, a casa mia. O non c’era papà o non c’era ancora mamma. O non c’era niente di pronto da mangiare. Ogni giorno era diverso. Ogni sera un’improvvisata. Per quanti si apparecchia oggi? Chissà. Invece Alessandro era come Kant (o almeno come dicono che fosse): ci potevi regolare gli orologi, e non sopportava il mio disordine. Viveva per i simboli e le convenzioni. Il caos è creativo, dicevo io. Il caos è solo disordine mentale, ribatteva lui, dapprima con ironia, poi con aperta disapprovazione. Poco alla volta avevo iniziato ad affidarmi alle sue scelte, espresse con una certezza così adamantina. Poco alla volta mi ha drogato con la sua incredibile, rassicurante ripetitività. Quasi non sentivo più la noia. Aveva intaccato il mio carattere. Il mio modo di stare al mondo stava cambiando senza volerlo. A furia di dirmi che non potevo vivere in quel modo sregolato mi aveva condizionata. Risultato: stavo male con me stessa e me ne facevo una colpa. Non ripiegare l’asciugamano dopo 65


averlo usato? Segno d’imprevidenza: lo troverai bagnato e puzzolente di umido. Non lavare i piatti subito dopo aver mangiato? Sporcizia dell’anima. Fare l’orlo con lo scotch? Devi essere pazza. E via così. Sulle prime gli rispondevo per le rime e lo accusavo di essere un maniaco. Lui si faceva una risata, non mi affrontava di petto, non mi rispondeva male. Mi portava dolcemente dove voleva. Ma c’era un che di fortemente coercitivo nella sua dolce, noiosa fermezza. Era come se si fosse assunto il compito di riportarmi sui binari. Come un educatore di collegio dell’Ottocento non cedeva di un millimetro, e la mia pigrizia mi suggeriva: se vuole fare lui, che te ne importa. Così, un po’ alla volta, impercettibilmente ho cominciato a cambiare: d’altronde se intere generazioni di donne si erano comportate come lui riteneva giusto, un motivo doveva pur esserci. I miei genitori mi avevano insegnato a vivere la sostanza della vita e non pensare al resto. Lui al contrario esigeva da me una forma che rasentasse la perfezione. Sballottata fra i due poli non sapevo più chi dovevo essere, la mia insicurezza aumentava ogni giorno. Cercavo di imparare da lui. All’inizio giustificavo i miei cedimenti: voglio imparare anch’io a costruire ragnatele, voglio raggiungere il suo livello di intelligenza strategica. Mi dicevo che imitarlo sarebbe servito per entrare nella parte, mi avrebbe aiutato ad assumere il suo punto di vista, il suo sguardo sul mondo. Ma in sua presenza mi sentivo sempre più inadeguata e questo mi impediva di vedere dove mi stava portando e dove stava andando lui. Sentivo che gli appigli mi sfuggivano, che la mia dipendenza psicologica era grave. Un giorno ha fatto il gesto di un ceffone. Poi mi ha dato un ceffone e un altro ancora. E 66


io che avevo sempre detto: il primo uomo che mi tocca va in galera. Io l’ho guardato e non ho reagito. Mi ha mollato con semplicità. Il giorno prima mi aveva chiesto: lasceresti il tuo lavoro per me? Ho risposto: sì, ma non chiedermelo per favore. Ha aggiunto: c’è qualche cosa che non faresti per me? Ho risposto d’istinto: nulla. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. Avrei dovuto capire: diventata la bambina modello che lui voleva non lo interessavo più. Ci ha pensato lui a spiegarmelo. Il giorno dopo il fioraio mi ha recapitato un enorme mazzo di rose, gialle, non rosse, per lui la simbologia è importante. È arrivato con un biglietto: l’amore è conquista e sfida. Non posso vivere con una della quale non ho più niente da scoprire. Una schiava sottomessa non m’interessa. Neanche picchiarti mi dà soddisfazione. È finita. Nel suo stile: non si manda un biglietto a una signora senza accompagnarlo a un mazzo di rose. Stronzo sì, ma molto elegante.

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VI

Dice una leggenda Pueblos che i Gemelli della Guerra, capostipiti della razza umana, risalirono il fusto di un alto albero, portando con sé gli animali sacri: il ragno, il falco, il coyote, la rondine e la locusta. Giunti in superficie il coyote liberò le stelle. Erano altri tempi, anche per i coyote, chiamati a imprese più gloriose delle attuali.

Luisa Ancora il telefono. È insopportabile cominciare così ogni giornata. Numero privato. Bisogna rispondere. “Complimenti, i giornali parlano molto di te, particolarmente il Corriere del Mattino. Godi di buona stampa”, mi sembra di sentire una risatina da Corradi, “ma questo non ti consente di stare a letto a sognare come una quindicenne. Il nemico non sta fermo. Che pensi di fare. Che strategia hai in mente. Che ci fai ancora lì”. Il crescendo mi spiazza e la mancanza di caffè mi punge il cervello. Non riesco a dire niente di intelligente: “Cosa mi suggerisci?” “Tanto per cominciare telefona ai giornalisti che hanno scritto di te. Ringrazia senza esagerare o protesta. 68


Garbatamente, mi raccomando. Falli sentire importanti e sempre al centro della tua attenzione, e butta lì che sarai disponibile per loro. Da’ il tuo numero di cellulare come facessi una concessione, ma dallo a tutti”. “Lo troveranno spento: io lo uso poco e malvolentieri”. “Non importa. Le manie personali, i capricci dimenticali se vuoi fare carriera. Noi politici”, è una mia impressione il tono ironico?, “siamo al servizio dei cittadini, dell’opinione pubblica e naturalmente delle nostre ambizioni. A proposito di ambiziosi, Eugenio ha chiesto di incontrarmi, ci vedremo al Caffè Greco in via Condotti alle diciannove. Speriamo che non ci siano giornalisti in giro. Sono tanto indiscreti, non lo pensi anche tu? A proposito, alla stessa ora ti aspetta al partito Massimo Bruni”. “Bruni? Per fare che?” “Sai come la pensa, è un tradizionalista: nel nostro partito non c’è mai stato bisogno di professionisti della comunicazione, bastano i dirigenti. Devi convincerlo che un partito moderno non può fare a meno di un portavoce professionale. E naturalmente che la persona giusta sei tu”. “Come dover convincere un pilota a servirsi del radar”. “Esatto. Questo pilota ha sempre navigato a vista, sta a te convincerlo a cambiare. Non essere saccente o non ci riuscirai. In riunione Bruni – ma tu non c’eri, non puoi saperlo – è stato chiaro: per quel posto serve un membro della segreteria”. “Un altro candidato oltre a Lorenzo?” “Qualcosa di più: un’opposizione di principio, la sacralità della politica che non si può ridurre a mestiere. Eccetera. Menate, di cui ci riempiamo la testa da sessant’anni. Perciò presentati da Bruni alle diciannove in punto”. 69


“Oggi speravo di uscire un po’ prima, devo comprare delle scarpe da una settimana, fra un po’ non sarò più presentabile”. “Credimi, al momento a nessuno interessa se hai le scarpe bucate. C’è una parte del partito che ti detesta con o senza tacchi nuovi. Un’altra che ha bisogno di conoscerti meglio. L’appuntamento con Bruni l’ho chiesto io, non credo tu voglia farmi fare cattiva figura. Vai e cerca di conquistarli. Il suo gruppo non ha la forza di proporre un proprio candidato, ma ha diritto di veto. Insieme all’opposizione di Eugenio fanno un vero e proprio muro. Divide et impera. In questo caso i tuoi avversari sono talmente diversi che non è neanche difficile. L’ora è tassativa”. Farò come dice. Il vecchio è astuto e pratico. Non insisterebbe così senza una buona ragione. Bruni, un dinosauro sopravvissuto alla morte di tutti gli altri dinosauri, non mi faceva paura quando pensavo di essere protetta dal segretario. Ma ora... Mara Bonamici, la moglie del segretario, mi viene incontro con aria cordiale e nasconde la sua cattiveria sotto l’accento emiliano, leggermente strascicato e fintamente pacioso. Mi prende sottobraccio e mi fa fare dietrofront: “Carissima, cercavo appunto un’amica con cui prendere un caffè. Accompagnami. Entrerai al partito dieci minuti dopo. O hai fretta?” “Fretta no. Ma la mattina ho bisogno di tempo... per riorganizzare le idee”. “Ti capisco. E mi preoccupo per te. Essere portavoce richiede prontezza in ogni momento, e bella presenza. Sembri tanto trascurata, i capelli a coda di cavallo, eterni 70


jeans, come se non avessi tempo di comprare vestiti decenti. E hai così poco da fare. Al seguito di mio marito, superoccupata, temo che diventerai addirittura impresentabile. Peccato per te che sei giovane e devi ancora farti una vita, trovare un compagno... è un bel problema per il partito, che deve mantenere una certa immagine. Guarda Eugenio. Grazie a me nonostante la vita che fa è sempre impeccabile. E, ti assicuro, è una vita frenetica, per intere giornate ho difficoltà a parlargli perfino io. Poiché tu non puoi avere una moglie perfetta come me, fa’ qualcosa che aiuti il tuo bioritmo. Perché non disponi la tua casa secondo il Feng Shui? Aiuta tanto”. La guardo sbigottita: il marito mi vuole segare e lei fa finta di nulla e parla di sciocchezze? Falsa e giuda. “Hai ragione, ci vorrebbe una brava moglie anche a me, ma finora non ne ho trovata una adatta. Il Feng Shui... la mia casa è tanto piccola che funziona a incastro, tocco una cosa e devo muovere tutto. Sembra il gioco del quindici, quello che facevamo da ragazzini, o forse dovrei dire facevi tu, io sono di un’altra generazione... ma mi occuperò ugualmente del mio bioritmo, te l’assicuro. Mi aiuta molto sapere che fai il tifo per me e ti preoccupi del mio aspetto, perché ho proprio bisogno del tuo aiuto. Sembra che Eugenio non mi voglia più. Potresti sondarlo, capire il perché: credevo di essere io la persona di sua fiducia”. “Cara... non so nulla di preciso, lui non parla mai con me di nomine e altre faccende delicate, ma ho sentito dire... ahimè questo partito a parole è paritario e nei fatti è ancora così maschilista – Eugenio no, anzi –, ma qualcuno pensa che una donna giovane non sia adatta a quel ruolo. Girare sempre col segretario. Giorno e notte. Senza tregua 71


né privacy. Darebbe fiato a tremendi pettegolezzi e poi, anche per te... quando potresti farti una famiglia?” Siamo arrivate al bar, lo storico baretto di Vezio al centro di Roma. È talmente frequentato da funzionari e dirigenti di Sinistra Unita che a ogni tornata elettorale i giornalisti ci vanno per raccogliere i pensieri del proprietario come se fosse un opinionista. Qui dovrei stare attenta a come parlo, perché c’è sempre un orecchio pronto ad ascoltare. Vorrei essere cauta, invece scatto come una molla. “Questi sono affari miei. Se voglio un uomo so come fare. Quanto all’intimità col segretario, figurati, ha quasi l’età di mio padre, non mi permetterei di toccarlo con un dito. Se non temessi di fare una scortesia a te che me ne hai parlato in gran segreto, sarei tentata di farne un caso e di andare diritta da Giustina. La responsabile femminile non può consentire che si discrimini una donna perché giovane. E con insinuazioni volgari”. La voce di Mara è quasi un sibilo: “Questo, cara, sarebbe la fine delle tue aspirazioni. Se metti gli affari tuoi in piazza e non riesci a sbrogliarteli da sola, credimi, sei finita”. Lo sguardo di Mara si è fatto cattivo, il tono mondano e svagato è svanito. Batto in ritirata. “Hai ragione. Come sempre da te buoni consigli. E Lorenzo ti pare adatto?” “A me figurati, cosa conto io. Da quando Eugenio è segretario ho dovuto praticamente rinunciare alle mie ambizioni – e tu sai a quale carriera brillante ero avviata –, ma l’amore e la solidarietà verso di lui sono più forti. Così sono relegata a occuparmi solamente di piccole cose, dettagli: secondo lui nessuno deve ipotizzare una mia ingerenza negli affari del partito. Ogni tanto penso che sia molto 72


ingiusto: marito e moglie in carriera nello stesso partito? Che male c’è: abbiamo fatto la stessa scelta e siamo in totale sintonia. Lorenzo... certo è un bel ragazzo, molto curato anche quando veste casual, e un portavoce deve fare bella figura in tv. Opinioni sue meglio non ne abbia. Come in tutti i lavori, di geni ne basta uno e noi per fortuna abbiamo Eugenio. Due sarebbero di troppo”. Fortunatamente il caffè è finito e la conversazione anche. Altri due minuti e le saltavo alla gola. Ecco dunque da dove viene la recente avversità del segretario. Dalla mogliettina adorata, che lui cornifica ogni due giorni, facendone poi pagare il prezzo al partito intero. La guardo mentre si allontana: cammina lenta e maestosa, ha ancora un gran bel viso, sembra un cammeo antico, ma con gli anni il sedere ha preso il sopravvento e le tira indietro il baricentro. La chiamano “la zarina” non per caso: il legame più forte fra lei ed Eugenio è il potere. Lui le lascia campo libero fino a che gli fa comodo. La compensa così dei tradimenti frequenti. Lei lo ricatta facendo leva sulle sue debolezze, servendosi di una corte di dame di compagnia e servizievoli spioni. Giustina Simoni, è a lei che devo rivolgermi. Nel pomeriggio busserò alla sua porta: la responsabile femminile non potrà dirmi che preferisce Lorenzo, un uomo. La giornata passa fra le solite minuscole difficoltà e un insolito intimo combattimento. Inutile nasconderlo: le parole di Mara hanno aperto un varco nel mio sistema di autodifesa. Mi sento inadeguata, disordinata, sciatta. La mia vita senza un uomo d’improvviso non mi sembra più una scelta ma un disastro. Un baratro destinato ad allargar73


si e a inghiottirmi. Davvero vale la pena vivere alla mia maniera, sempre di corsa, sempre in affanno? Sempre sola. Una vita senza vuoti, solo pieni. E pieni di che? Di inutili difficoltà, di barriere erette da chi dovrebbe stare dalla mia parte e non sa o non vuole starci. Ho più nemici fra i miei compagni che fra gli avversari politici. Forse dovrei adeguarmi, come fanno tutte. Vestirmi, truccarmi e impormi con l’aiuto di una generosa scollatura e delle scarpe tacco dodici di Giosi Romualdi, accessorio indispensabile per una dirigente di peso. Questo è ciò che vogliono, questo potrei dare loro. E smettere di nuotare controcorrente. Non una donna pensante e autorevole, ma una figurina di classe e ben curata, politicamente poco ingombrante, che sa stare al suo posto e dice sempre sì. D’improvviso il ricordo della lingua del verme interrompe i miei pensieri. La sua lingua grossa e umida che mi penetra la bocca, l’idea che per un momento ho pensato di lasciarlo fare... mi dà una scarica di adrenalina. Non posso essere come le altre. Non sono come le altre. D’altronde, per avere Mara dalla mia dovrei solo invecchiare vistosamente, e renderle omaggio a ore alterne. Inutile anche tentare. Dopo Alessandro, un lungo, lungo periodo di vuoto. E un lungo, lunghissimo percorso per il recupero dell’autostima. Per giustificarmi ho pensato di tutto: che mi avesse ipnotizzata, che mi avesse plagiata. Ora che ho recuperato me stessa so qual è la verità: avevo sentito la sirena della normalità, che non c’era mai stata prima nella mia vita. Mi ero fatta affascinare dai giorni, dai gesti, dalle parole sempre uguali, che prima mi erano sembrati noiosi, poi rassicuranti, poi indispensabili. Ho 74


giurato che la normalità non dovrà mai più entrare dalla mia porta, visto che, non per mia volontà, ne è uscita. Ho buttato gli abiti femminili, le scarpe con i tacchi. I mille oggetti di cui lui aveva riempito la mia casa e il numero di telefono del parrucchiere che mi faceva quella testa tutta ordinata. Sono stati anni rabbiosi, poi dolorosi, poi solo amari, spesi a ricreare il disordine intorno a me, cancellare le abitudini, dimenticare di essere una donna, affermarmi come dirigente politica, punto e basta. Ero determinata a trasformare la mia delusione in nuova ragione di vita, la mia disponibilità verso gli altri in indifferenza, a imparare l’arte del sospetto. Avevo gran voglia di una rivincita professionale, dopo la sconfitta nel privato. Tonino mi ha aiutato, valorizzando tutto ciò che facevo. Mi sono appoggiata a lui come un glicine al muro. No, il glicine è forte, io non lo ero. Mi sono appoggiata come una che scivola e acchiappa il primo appiglio, una ginestra in montagna, un arbusto elastico con radici profonde che è in grado di reggerti fino a quando ritrovi l’equilibrio. Come un naufrago acchiappa un pezzo di legno solo perché galleggia, fino a quando non arriva vicino alla riva. Mi ero illusa di essere in salvo, grazie al suo aiuto e alle mie capacità. Invece, insieme alla sua morte, la nuova batosta: chi mi elogiava lo faceva per avere il suo consenso, non perché mi credesse in gamba. Ci ho messo qualche mese a capirlo. La mente rifiuta ciò che non vuole sapere. Senza amore e senza un vero lavoro. Ho resistito, tirando con i denti per non lasciarmi andare. Mi sono ricavata una nicchia e lì ho aspettato che passasse la tempesta. 75


Qualcuno mormorava alle mie spalle: bisogna essere proprio disperati o eroici per occuparsi dell’immigrazione. Se devo essere sincera fino in fondo non l’ho fatto per calcolo, ma perché era terra di nessuno e perché il contatto con tutta la sfiga del mondo mi faceva sentire utile. E soprattutto mi impediva paragoni poco lusinghieri: in confronto a quei poveri cristi la mia vita era una passeggiata sui petali di rosa. E ora, vicina alla meta, mi sento di nuovo vulnerabile. Perfino le parole di Mara mi feriscono. Ne sento l’ingiustizia e il fondo di verità al tempo stesso. Ambiziosa com’è, rinfaccia a me di esserlo. Poco impegnata – tranne che a individuare e combattere le concorrenti – mi rinfaccia l’eccessivo impegno. Se avessi un marito come il suo sarei disperata e lei pensa che la mia principale ragione di vita debba essere trovarne uno il più possibile simile a lui! Vero: di vita privata ne ho troppo poca. Amici, conoscenti, Marco soprattutto, mi aiutano a superare il vuoto dei giorni di festa. Ma rinunciare alla lotta, mettersi l’animo in pace, trovare un fidanzato o un compagno, fare con lui un figlio e dedicare loro la mia vita e le mie energie... va bene che il tempo passa, ma ogni volta che ci penso una voce dal fondo del cervello mi dice “poi, non ora”. Adesso devo ottenere quel posto. Guardo l’orologio. Si sono fatte le sei del pomeriggio, devo sbrigarmi, Giustina è una che va via presto.

L’amore di Giustina La Simoni si sente vittima di un ruolo che non le piace, ma le sta comodo. Lavora poco, teorizzando che bisogna dare 76


il buon esempio, prendersi cura dei figli e non allungare i tempi di lavoro come fanno gli uomini, con l’alibi dell’eterna riunione per essere esonerati da ogni pratica domestica. Marco in privato aggiunge altri dettagli, meno politically correct, ma più gustosi. Giustina era innamorata di Eugenio fin da ragazzina. Lui era bassino, ma proporzionato e assai affascinante, con una massa di capelli lisci e fini che gli cadevano sugli occhi dandogli un look da intellettuale creativo. Lei era bruttina anche allora, afflitta da una discreta scucchia, capelli color topo che ora sono diventati platino, e il sedere tendente a dilagare. Aveva solo quella che si definisce comunemente la bellezza dell’asino: la freschezza dell’età. Eugenio aveva ormoni esuberanti ed era molto lusingato dalla sua adorazione incondizionata. Una sera aveva avuto successo con un discorso davanti ai massimi dirigenti del partito. Nulla eccita un uomo più della propria vanità soddisfatta. In privato lei aggiunse lodi ad applausi. Adorante come sempre, aveva in più qualcosa negli occhi che lo attrasse in modo speciale. E indossava una camicetta bianca che le tirava un po’ sul seno. Nel dirgli “come sei stato bravo!” il bottone cedette concedendo una visione panoramica sull’ampio seno di lei, a malapena trattenuto da un austero ma leggerissimo reggiseno di lycra. Fu così che lui finalmente l’accontentò, e per la verità non gli dispiacque affatto: la dedizione totale di lei suppliva bene alla carenza di attrattive fisiche. Nulla era stato detto fra loro, né in un senso né nell’altro. Giustina era libera di interpretare l’accaduto come la prima puntata di una love story. Ed Eugenio come un episodio senza seguito e senza importanza. Era indeciso – fermarsi o continuare con lei –, ma nulla lo costringeva a deci77


dere, la situazione in assoluto preferita dagli uomini dei cinque continenti. I giorni passavano e il colpo definitivo alle oscillanti intenzioni del giovane aspirante segretario avvenne al bar. Era il classico dopo riunione quando gli uomini, conclusi i giochi di potere, diluiscono le tensioni nel cazzeggio e nella malignità. Giustina sperava che Eugenio la raggiungesse in camera. Si alzò e salutò garbatamente, sperando che lui capisse il tacito invito mentre gli altri, ignari della loro storia, erano contenti di rimanere fra maschi, con le loro convenzioni, le battute pesanti, le allusioni. Uno di loro, ingenerosamente, mentre se ne andava aveva commentato: “Brava ragazza ma poverina, ha un culo che fa provincia”. Un giudizio drastico e definitivo. Una frase che Eugenio non avrebbe più dimenticato. Era già ambiziosissimo all’epoca, e non poteva neanche ipotizzare di avere al suo fianco una donna poco rappresentativa ed esposta al ridicolo. Dopo qualche giorno scelse Mara, all’epoca un vero tipo: occhi di taglio quasi orientale. Espressione dolce ma enigmatica e decisa. Bassina come lui, ma armoniosa. E dotata di un tale carattere che nessuno avrebbe mai detto nulla di sconveniente su di lei. In memoria del momento di debolezza in cui aveva ceduto il suo corpo e, a quanto lei sostiene (ma lui non lo ricorda), qualche promessa mai mantenuta, la carriera di Giustina avrebbe ricevuto in seguito grandi benefici. Eugenio ha sempre amato sentirsi generoso con le donne, soprattutto se a pagare non è lui, e Giustina ha potuto perciò ritagliarsi un ruolo senza eccessiva fatica, senza entusiasmi e senza fantasia, oscillando fra atteggiamenti massi78


malisti e altri del tutto rinunciatari. Una politica ciclotimica, che non disturba troppo né gli uomini né i potenti. Basta darle un contentino in pubblico ogni tanto, e in cambio assolve ai propri compiti con noiosa diligenza, più al servizio del capo ex amante che al servizio delle donne. Tanto di lì nessuno la leva. Non fino a quando sarà segretario Eugenio. Per consolarsi e circondare il suo intimo lutto con una facciata di normalità si è sposata con un uomo qualunque dal quale ha avuto un figlio. Il fatto più notevole – e più suscettibile di pettegolezzi – è lo strano rapporto di Giustina e Mara, la moglie mancata e la moglie vera. Temendo che si lamenti del suo rapporto privilegiato con Eugenio, Giustina si mostra affezionata e leale verso chi le ha sottratto l’amore della sua vita. Mara, a sua volta, normalmente aggressiva e competitiva nei confronti dell’universo mondo, si sente molto generosa nel trattare così la concorrente, esempio vivente della sua profonda umanità nei confronti di chi non le fa ombra. Col tempo l’intera storia e i dettagli sono diventati di dominio pubblico, e non diverte più nessuno parlarne a mezza bocca. Tranne quando – e succede ancora spesso – Giustina piange le sue lacrime perché Eugenio, distratto dai suoi doveri o dai suoi piaceri, si rivolge a lei in modo frettoloso o scortese.

Luisa Sono alla porta di Giustina. Busso ed entro, come sempre: tranne che dal segretario e da pochissimi altri non si usa aspettare, il partito non ha segreti. 79


La responsabile femminile è al telefono e io faccio per sedermi davanti a lei. Che invece mi fa cenno con l’indice della mano destra alzato: un minuto, ti dispiace aspettarmi fuori un minuto che finisco la telefonata? Arretro sorpresa tornando dietro la porta. Forse parlava di me con qualcuno. Ma no, più probabile che le stiano leggendo i risultati del pap test al telefono. La conversazione è praticamente unilaterale: qualcuno parla e lei reagisce con poche calme parole. Finalmente ecco il rumore della cornetta posata sul telefono e Giustina che si affaccia al corridoio. È cordiale, quasi allegra. “Carissima, vieni dentro, stavo giusto per chiamarti. Mi hai anticipato. Un sesto senso”. Non ho voglia di convenevoli e vado dritta al punto: “Sono in difficoltà e credo che tu possa aiutarmi”. “Dimmi pure”. “Lo sai, come tutti nel palazzo: sono in pista per diventare portavoce, e un gruppo di uomini vuole farmi le scarpe”. “Uomini? Sbagli. Me ne stava parlando Mara quando hai bussato. Lei ritiene che tu non sia matura per accompagnare il marito in frangenti complessi. Io le ho detto che sei irruente e per questo a volte sembri immatura, ma non lo sei veramente”. “Credo che Mara voglia dire che non ho abbastanza rughe e cellulite per accompagnare il marito, ma spiegaglielo tu che potrebbe essere l’ultimo uomo sulla terra e non mi indurrebbe in tentazione: è più basso di me e più vecchio di me. Ha lo stomaco prominente e un gran bisogno di ginnastica. Ma ti pare”, m’interrompo bruscamente: sto descrivendo come un mostro l’uomo che Giustina ama di eterno e incondizionato amore. 80


Non me la lascia passare: “Il fascino, cara, non è legato al fisico da atleta, altrimenti metà della gente del pianeta starebbe sola. Torniamo a te. Hai un’avversaria temibile, non mi hai mai degnato di fiducia, sembrerà un po’ strano che sia proprio io a sponsorizzarti. Tuttavia ci proverò. Magari mentre faccio la calza a casa”. Arrossisco. Qualcuno le ha riportato le mie battutacce. Da lei nessun aiuto. Torno in ufficio con uno scoraggiamento globale. Una specie di down, dopo l’euforia del giorno prima. Credevo di aver acchiappato il successo per la coda, invece oggi il telefono tace in modo preoccupante mentre aleggiano solo voci ostili. Dopo gli articoli di ieri mi sarei aspettata altra attenzione, aver conquistato uno scalino, un passo sia pur piccolo verso la vetta, e invece è proprio vero che i giornali il giorno dopo non servono più a niente. Se bisogna ricominciare daccapo ogni giorno non ce la posso fare. Guardo l’oggetto muto sulla scrivania e, come se reagisse, quello inizia a suonare. Non ho voglia di rompiscatole. Numero privato, tocca rispondere. “Sono io. Come va la mia candidata? Ormai sei talmente lanciata che non merito neanche una breve consultazione?” La voce di Corradi mi sottrae alle elucubrazioni, così indirizzo il mio intimo malumore sulla sua mania di non dire il nome al telefono: lo fa per supponenza o perché non si sa mai chi è all’ascolto? Opto per la prima: tutti sanno che qualunque ragazzino smanettone può spiarti senza problemi. Pensieri che certo non posso riversare su lui. Ma una punta di acido mi resta nella voce: “Non pren81


dermi in giro. Sono autorizzata a romperti le scatole con i miei problemi?” “Dal momento che mi sono schierato, il tuo successo è il mio obiettivo, e come ottenerlo il mio problema. Non ne posso uscire sconfitto”. “Nessuno sa che mi stai aiutando. Io non l’ho raccontato e tu neanche, di sicuro”. “In politica le cose non dette, i gesti contano. Non c’è bisogno di alzarsi e dire voto per lei. Sono sul finale della mia carriera. Voglio una prestigiosa carica istituzionale: credi che mi serva puntare sul cavallo sbagliato? La mia legge, quella che tu detesti tanto, mi ha procurato una certa benevolenza nell’opinione pubblica moderata. Ora devo rendermi gradito a quella di sinistra. E poi, forse, è fatta. Tornando a te, guarda che ti stanno preparando un bel piattino. Qualcuno ha commissionato un attacco al Corriere del Mattino. Datti da fare. Ci sentiamo più tardi. Ora devo rispondere a un altro telefono. Non perdere tempo”. “Dammi almeno un indizio”. “Chi vuoi che scriva di te? Mustacchi, no? Solo che questa volta ha un altro mandato. Ciao. E ricorda, la riunione delle 19, puntuale”. Già, che scocciatura. Compongo il numero di Bruni per avvertirlo che sto arrivando. Darsi da fare, dice il maestro, e come. Chiamo un giornalista sconosciuto e gli dico: scusa, è vero che stai per darmi una pugnalata senza neanche sapere chi sono? Oppure: scusa sei tu il killer che ha accettato di ammazzarmi per quattro spiccioli di carriera? Come approccio è un po’ aggressivo. E poi quale sarà di tutte quelle facce che ieri 82


pendevano dalle mie labbra, e volevano a tutti i costi una dichiarazione sul colore delle mie mutande? Chiamerò e mi farò guidare dall’ispirazione del momento. Tanto, peggio di quel che si prepara... Opto per l’approccio diretto. “Buongiorno, vorrei parlare con Giovanni Mustacchi”. “Sono io, chi è al telefono?” “Non so se ci siamo conosciuti ieri, al Ripetta... con tutta quella folla, sono Luisa Alunni”. Mi interrompe: “Ah, sì. Certo. Come va? Mi fa piacere che tu mi abbia chiamato, ero in dubbio se farlo io stesso”, registro il tono mondano e il tu senza preamboli, “prima di ucciderti devo almeno concederti l’ultimo desiderio”. “Condannata a morte da chi?”, chiedo, e aggiungo mentalmente: meno male che questo è un cinico, non servono troppi giri di parole. “Amici del direttore, persone che ti conoscono bene anche nel privato”. “Persone così non ce ne sono, a parte mio padre”. “Ah, dunque sei una misantropa. Una che non ama la compagnia?” “Ma no, frequentare e conoscere sono due concetti diversi. Non inventarti nulla per favore...” “...guarda, ho già in mente l’attacco del pezzo: bella e inattaccabile da qualunque sentimento. L’unica cosa al mondo alla quale tiene molto è il suo motorino, un vespino d’epoca, almeno questo dicono di lei. Non ha amici, non ha affetti”. “Sciocchezze. Se vuoi conoscere i miei veri difetti vieni a parlarmi di persona. Dopo avrai ampia scelta e potrai parlarne a ragion veduta. Ti aspetto in ufficio domani pomeriggio. Va bene alle diciotto?” 83


“Benissimo incontrarci, anche se... vediamoci alle quindici, altrimenti non faccio in tempo a scrivere neanche domani. E da dopodomani devo lavorare a un’inchiesta a cui tengo moltissimo”. Meno male, penso, la pena è rinviata e forse ho un piccolo margine di manovra: “No, guarda, prima è impossibile. D’altronde l’ultimo desiderio della condannata è parlarti di persona”. “Quando è così devo accontentarti. Ci vediamo domani alle diciotto. Nel tuo ufficio?” “Certo non a casa mia”. “Peccato”, dice lui con una punta di malizia, “nel tuo habitat ti avrei inquadrata meglio. A domani, mi suona un altro telefono: in questo mestiere si chiacchiera da morire, ma non puoi mai chiacchierare con qualcuno se ti fa piacere”. Parlare con Mustacchi è stato meno difficile di quanto pensassi. Devo prepararmi bene per domani. Lo accoglierò seduta o dovrò alzarmi in piedi al suo arrivo? Una signora lo fa? Meglio: mi farò trovare già in piedi. Mi do un’occhiata intorno e cerco di guardare il mio ufficio con gli occhi di un estraneo. Terribile. Scrivania e libreria dozzinali. Tutto, pareti comprese, in colore can che fugge. Meno male quel vaso da fiori che ho portato ieri da casa. Me l’aveva regalato un’amica con dentro un tronchetto della felicità. Nelle mie mani la pianta è morta presto (forse era un segnale), ma mi è rimasto il vaso. Troppe carte alla rinfusa sulla scrivania, se Mustacchi si siede di fronte a me rischio di vederlo solo dagli occhi in su. Le ammucchio sul purgatorio, cioè sul classificatore, un mobile che dall’avvento dei computer non serve più a niente, dove io appoggio quello che non ho il coraggio di but84


tare subito. Una specie di purgatorio delle carte, la tappa prima del cestino. Se avessi l’ego di un maschio conserverei tracce del mio lavoro. Invece nulla, non ho conservato nulla di quello che ho scritto o che dirigenti importanti hanno scritto a me. Vorrei essere capace come quelli che vanno nei salotti a sfoggiare intimità con i potenti: Osvaldo mi ha mandato un biglietto, oppure ieri Claudio mi ha telefonato. Tutto un chiamarsi per nome, montagne di confidenza esibita per gente che confidenza vera non te ne dà. Già solamente il tono mi irrita al punto da sfiorare l’ulcera. Io non vengo dal loro ambiente, chic, chiuso e demagogico. La mia famiglia non è mai stata ricca, ma molto appassionata. Mai ambìto ai circoli esclusivi. Mai stata interessata ai giochi di ruolo e di società. Ma per salire più in alto nella gerarchia del partito, ora lo vedo bene, questi circoli sono indispensabili. Ed è bastato affacciarsi appena a questo mondo per esserne subito respinta: attacchi laterali o dietro le spalle, pericoli da cui difendersi in continuazione, tradimenti senza un vero perché. Gente che sembra ti appoggi e invece ti affonda. Assenza completa di ideali, presenza consistente di interessi. È ora di salire da Bruni. Mi do uno sguardo involontario allo specchio dell’orrendo ascensore di alluminio. Una sorta di bara verticale, piena di graffi e graffiti, segni evidenti dei disturbi dei passeggeri. L’immagine che lo specchio rimanda è di un volto stranamente rilassato. Incredibile rispetto alla tensione e all’incertezza della situazione. Busso ed entro. Bruni non è solo. C’era da aspettarselo. Da quando un suo amico è stato accusato di molestie sessuali senza colpe 85


e senza prove, lui non riceve più una donna se non ha dei testimoni. D’altronde è quello che Corradi voleva. Dunque, benissimo. “Caro Bruni”, esordisco con euforia che suona finta anche alle mie orecchie, “sarò franca con te”. Mi guarda dritto negli occhi e risponde senza alcuna simpatia: “A quanto pare è il tuo nuovo corso. Franchezza per franchezza, se sei venuta per farmi cambiare idea perdi tempo”. “Sono venuta per questo, ma spero di non perdere tempo. Non la pensiamo allo stesso modo, ma siamo dalla stessa parte. Sinistra Unita si chiama il partito, e io ti dichiaro che se non riesco a convincerti, in nome dell’unità mi ritirerò”. Sono parole adatte a suscitare il suo interesse, Bruni si accende come una lampadina: “Ti ascolto, per quel che mi è possibile, senza pregiudizi”. “Bene. Ti ringrazio. Il portavoce è un mezzo, uno strumento, esattamente come un microfono, un computer, internet o il televisore. Però è un mezzo intelligente. Non deve creare la voce, ma solo portarla. Non deve partecipare alle riunioni di segreteria, ma solo assistervi per conoscere i fatti e le sfumature. Per prevenire i pericoli e creare consenso. Capisco la tua obiezione: il portavoce deve essere un dirigente. Infatti io sono in direzione. In ogni caso, se mi farete portavoce, il mio sarà solo un ruolo tecnico, che implica conoscenza della politica, ma anche della comunicazione. Se pensi che questo mi attribuisca un potere eccessivo considera un altro punto di vista. Sarò il parafulmine quando le cose si faranno scomode. Quando sarà brutto per un dirigente uscire e affrontare 86


impietose telecamere. E tutti sapranno che la voce esprimerà una linea definita da altri”. Bruni resta qualche secondo assorto e in silenzio. Poi: “Chi ci garantisce che non manovrerai i giornalisti per dirigere i loro favori verso alcuni e le stilettate verso altri?” “Nessuno. Tantomeno siete garantiti ora. Credi che i dirigenti non parlino con i giornali? E tu stesso non lo fai mai? Se il portavoce sarò io, saprete a chi attribuire la responsabilità e la maternità di certe strumentalizzazioni. Ora potete solamente guardarvi in cagnesco l’un l’altro e sospettarvi reciprocamente”. “Non è sbagliato. Ci penserò. Prima della riunione per le nomine mi farò vivo con te”. Si alza e mi tende la mano. Altrettanto fanno i due testimoni muti. Guardo l’orologio: fra una schermaglia e l’altra è passata una quindicina di minuti. Posso andare forse, Corradi mi ha dato indicazioni sull’ora di inizio e non su quella della conclusione. Pazienza, spero di non sbagliare.

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VII

L’unità sociale del coyote è la coppia. In genere fanno parte del gruppo anche dei giovani aiutanti. Questo vale anche per i politici, che però, sulla coppia, si concedono molte distrazioni.

Eugenio e Alfonso e uno scomodo testimone Ore 19. Al Caffè Greco si sta svolgendo una conversazione molto animata fra il segretario e Corradi. Che a un certo punto sbotta: “Eugenio, io non ti capisco. Ma che interesse hai per Lorenzo Pippoli? Lo ritieni un’intelligenza brillante? Hai debiti con lui o la sua famiglia?” In un altro momento il segretario avrebbe reagito in malo modo alla provocazione del vecchio dirigente. Ma col congresso alle porte meglio stare calmi. Gli risponde senza alzare la voce, ma con una nota stridula che denuncia l’incazzatura. “Caro Alfonso, che Pippoli non è un genio lo so anch’io. Ma il padre controlla molti voti e molti contributi in Toscana. E di quei voti avrò bisogno al prossimo congresso. Lorenzo mi ha chiesto espressamente di fare il portavoce, già si vede fra i lampi dei fotografi o davanti a una telecamera. Se lo nomineremo, dovrà parlare meno possibile, 88


altrimenti si capirà presto che è stupido. Già avrò i miei problemi con Bruni e la sinistra interna, che non lo digerirà facilmente. Sono dei tali rompicoglioni... ma credimi, è il male minore. All’inizio il padre voleva che lo mandassi alla Rai come caporedattore del Tg1, un posto per il quale ho altri progetti”. Corradi fa un gesto di fastidio, come per scacciare la visione di intrallazzi e relative rogne, e chiede brusco: “E Luisa?” “Quella!”, il segretario ride sotto i baffi come un ragazzino che l’ha fatta grossa a una povera demente. “È un’ingenua, pericolosamente fiduciosa nel partito. Non ha nessuno alle spalle. Se la scontento al massimo resterà delusa lei. Il padre è un anziano idraulico. Credi che mi possa servire? Il mio cesso non si rompe mai!” Corradi risponde durissimo: “Qui non parliamo di cessi, ma di persone e delle loro legittime aspettative. E del bene del partito. Ti saluto, sono vecchio e mi stanco facilmente: noccioline, aperitivi e parole in libertà mi fanno male. Devo andare a casa. Tina mi aspetta per cena”. Si allontana e dopo poco anche la persona seduta al tavolino accanto al loro se ne va. Ha un viso familiare, ma Eugenio non lo associa a un nome, una situazione, a nessuno in particolare. Magari è un vicino di casa, o qualcuno che gli ha chiesto un autografo, qualcuno che incontra spesso in pubblico o in uno studio televisivo. Peccato si sia già alzato, altrimenti gli avrebbe fatto un sorriso, un piccolo investimento per un voto in più alle prossime elezioni. Ora che il vecchio, con tutto il suo moralismo e le pippe mentali sui compagni di base se n’è andato, si rilassa. 89


Sarà l’atmosfera primi del Novecento dello storico bar, un tempo meta di artisti, oggi prevalentemente di turisti o potentati. Sarà l’ambiente chic con i tavolini tondi piccolissimi e i divanetti in velluto rosso un po’ rétro. Sarà il prosecco che ha bevuto. Sarà la gran quantità di stranieri che sembra garantire l’anonimato, sarà che il lusso a lui piace molto. Nel lusso sta bene, ritrova un calore uterino, un richiamo atavico, un gran benessere. Figlio di un imprenditore, ricorda ancora la rabbia del padre quando gli disse che entrava nel Partito Comunista. “Invece l’attuale Sinistra Unita gli piacerebbe, se fosse ancora vivo”, pensa Eugenio: “piace a quasi tutti gli imprenditori, a quelli che contano, a quelli del salotto buono. Grazie a me il mondo della finanza ci accoglie ci ascolta. Grazie a me Sinistra Unita è un partito duttile e moderno, al passo coi tempi, senza ingombranti ideologie. A me che nel lusso sono nato e cresciuto. E ora, dopo anni di micragna, finalmente l’ho ritrovato. Brindo silenziosamente al popolo italiano per lo stipendio da deputato, e ai miei compagni di partito per la vita praticamente gratis, sempre in giro fra pranzi, cene e auto blu. Brindo anche al mio dio per la mancanza di impegni, di figli, di genitori anziani da mantenere”. Pacificato e agganciato dall’atmosfera, abbassa il bicchiere e si guarda intorno distratto. Si concentra sulla turista bionda due tavoli più in là. Le sorride e lei lo ricambia. Questo basta a rassicurarlo: la sua presa sulle donne è intatta.

Luisa, il giorno dopo Mi sveglio di buon’ora, carica di energia e fermi propositi: 90


oggi comprerò le scarpe di Giosi Romualdi. Mara è sgradevole, ma ha ragione. Non ho più l’età per fare la ragazzina. E non ho bisogno di dimostrare niente a me stessa: Alessandro ormai è un capitolo chiuso. Sto bene adesso, la prova è finita. Sono adulta e vaccinata. E devo recuperare un aspetto da signora. Lo farò per me e per nessun altro. Per rispetto verso me stessa e non per assomigliare a un modello. Lo farò perché è giusto essere presentabile. Lo farò e basta. Me lo ripeto per aumentare la determinazione. Cresci. Cresci. Cresci, dico come un mantra, ma incazzata non so perché. Mi guardo allo specchio ovale che tengo in un angolo. Forse dovrei iniziare il restyling dai capelli, con un taglio non proprio corto, ma di certo più corto. Vorrei un look spettinato ma ordinato. Levo l’elastico e i capelli mi piovono davanti. Abbracciano il mio viso, sembrano chiedermi: perché? Ok, rispondo alla massa leggera e voluminosa, non lo so perché. Forse aspetto e per ora non vi taglio. Intanto leverò le cioce che ho ai piedi. Afferro la borsa quasi con ferocia. Guardo che dentro ci siano il telefonino e il portafoglio. Esco. Al solito angolo incontro Irina. “Ciao, come va oggi?”, le dico, giusto per attaccare discorso. Giusto per rallentare la mia corsa forsennata verso gli acquisti. Per distrarmi da quella rabbia che sento dentro e non so perché. La ragazza, tanto bionda, tanto carina e tanto giovane tende subito la mano e si guarda intorno, come sempre, con aria intimorita. “Sto bene. Mi dai un iuro? Io oggi fa dieci iuro per le scarpe”, e mostra quelle che un tempo erano state delle scarpe da ginnastica. Ora sono sformate, ma anche tagliate sul davanti, per piedi più grandi. La rabbia svanisce 91


all’istante. Pena e senso di colpa mi assalgono al pensiero che mi stavo avviando a spendere più di duecento euro per un solo paio di scarpe alla moda. “Di quanto hai bisogno? Anzi, guarda, vieni con me, te le compro io le scarpe”. La ragazza reagisce con vero terrore, alzando il braccio col gesto istintivo di una che si prepara a parare dei colpi. “No, questo non possibile, io non può muovere da qui”. “Irina, posso aiutarti, ma non ti darò denaro che va a finire nelle mani di un altro... nelle mani sbagliate”. “Tu che sai di me... tu non può aiutare. Può solo dare iuro e poi va via veloce... io non può parlare per strada”. “In Italia tutti possono. Non siamo schiavi. Nessuno può costringerti, ricordalo. Nessuno. Se no mi chiami e io ti difendo”. “Tu non uomo, tu non può difende me. Lui forte e grosso”. “Io sono forte anche se non sono grossa e non sono un uomo. Conosco gente che ti aiuta, se lo vuoi. Posso portarti in un posto dove lui non ti troverà”. Irina scuote la testa e fa cenno di allontanarsi. Allora le do un euro, le ho fatto perdere troppo tempo, se non le do niente il suo guardiano la picchierà. Ma chi sarà e dove sarà. Vieni fuori, mascalzone... Cerco con gli occhi una faccia che possa essere quella del violento, dell’aggressore, dello sfruttatore. Non ho più voglia di scarpe. Indossandole penserei a Irina con senso di colpa, ansia e tristezza. Piuttosto andrò dal parrucchiere. Meglio, andrò subito al lavoro. La vita di tutti i giorni, i problemi, l’ambizione, sono un anestetico per la coscienza. 92


Nel punto in cui la ferita si rimargina la pelle diventa più spessa, più resistente. La cicatrice ti difende dalla possibilità di ferirti nello stesso punto un’altra volta. La rottura con Alessandro mi ha procurato una cicatrice proprio lì: no, non sul cuore. Sull’orgoglio. Essere lasciata da uno che all’inizio neanche mi piaceva. Essere lasciata per posta a mano, da uno che quasi mi infastidiva e mi opprimeva. Essere lasciata da uno che voleva essere il mio maestro di vita oltre che un fidanzato, un amante, un marito. Essere lasciata da uno col quale mi ero messa con sufficienza, quasi per fargli un favore. Essere lasciata da Alessandro mi ha procurato una profondissima instabilità, un taglio profondo da coltello zigrinato all’amor proprio. Sono tornata nel mondo con la sensazione di non reggermi più sulle gambe da sola. Di non poter parlare senza lui come suggeritore. Di aver perso la guida mentre camminavo in un sentiero sconosciuto. Pensavo che non ce l’avrei fatta. Quando mi sono resa conto che respiravo meglio, molto meglio senza di lui, mi è venuto un desiderio selvaggio di rivalsa. Ho giurato che non avrei permesso più a nessuno di condizionarmi come aveva fatto lui. Di alzare le mani su di me. Di rendermi schiava. Ho giurato che avrei schiacciato chiunque si frapponesse fra me e l’obiettivo. E l’ho fatto. Marco spesso mi rimprovera: secondo lui voglio tutto e non mi batto a sufficienza per nulla. Secondo lui il mio lato razionale mi porterà al disastro. L’altro giorno, che era infuriato con me, mi vedeva infelice e voleva scuotermi, mi ha urlato dietro: hai deciso di scadenzare gli affetti come le cambiali o le rate della tv? Be’, cara, non è possibile. La vita è sangue e merda. La politica è sangue e merda. Se pensi di governarle con la forza del ragionamento non farai 93


bene né l’una né l’altra. Aveva perso il suo tradizionale ironico distacco, forse parlava con me per parlare a se stesso. Ma lui non sa che questo concetto del sangue e merda io l’ho capito a fondo. E l’ho sperimentato, anche. E tanto quella volta ho giurato: mai più.

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VIII

Coyote per molte tribù indiane del Pacifico è un eroe, un trasformista, un viaggiatore, valoroso e potente. Molti politici sono trasformisti, tutti viaggiano moltissimo, molti sono potenti. Qualcuno forse valoroso. Eroi non ce n’è più.

Luisa Nel palazzo c’è una strana agitazione, l’ho sentita già nell’atrio. Sono sicura: parlano di me. Mi indicano alle spalle. Si danno di gomito. Perché? Non sono paranoica, qualcosa non va come ogni giorno. Mi guardo allo specchio dell’ascensore: nulla di strano o di diverso. Mi tocco gli abiti: sono a posto. La mia stanza mi restituisce alla routine. Sto per sfogliare i giornali, quando vedo la spia rossa del telefono: ci sono dei messaggi in segreteria. “Complimenti. Eri al posto giusto, al momento giusto”, Corradi, come sempre, non si presenta. Poi Lorenzo, faccia di culo: “Cara mia, siamo stati presi in giro tutti e due. Ma gliela farò pagare. Dobbiamo allearci, tu e io”. A cosa si riferisce il verme? E ancora: “Luisa, sono Giacomo Bruni. Ho riflettuto, e 95


dopo quello che ho letto sul giornale, ho deciso. Per me va bene: fai la portavoce”. Ma che hanno tutti? Il giornale? Questi maledetti giornali dovrei leggerli prima. Come ogni giorno inizio dal Corriere del Mattino. Nulla che giustifichi l’agitazione. Niente di interessante. Apro il Giornale dell’Urbe e resto folgorata. Occhiello: “Esclusivo scoop del nostro giornale: conversazione segreta fra due massimi dirigenti di Sinistra Unita”. Titolo: Toni da osteria al bar più elegante della capitale. E nel sommario il carico: “Il segretario confessa: al mio fianco voglio un cretino. La sinistra interna è rompicoglioni e alla Rai mando chi voglio io”. Oddio, fa’ che non sia vero. Il partito da una figuraccia così non si rimetterà facilmente. Chi sia il secondo personaggio l’articolo non lo dice, Corradi non compare mai, prova evidente che ne è l’ispiratore. Perché l’ha fatto? È davvero perfido come si dice, e cinico. Ogni parola è stata registrata e il dischetto è in possesso del direttore. Impossibile smentire. Continuo a leggere e il sangue mi sale al cervello: come può Eugenio essere al tempo stesso così stupido, ingenuo, infido, opportunista e inarrivabile mascalzone? E perché non l’avevo capito? Quelle frasi su mio padre! Lorenzo è un libro aperto, un furbetto da quattro soldi, ma il segretario... Ecco il senso dei loro sguardi e ammiccamenti. Ecco perché Corradi mi aveva imposto la riunione con Bruni proprio a quell’ora: tutto il partito può testimoniare che io ero impegnata in tutt’altro. Ma lui... lui è... pazzesco. A tal punto che non riesco nemmeno a essergli grata. Venderebbe la madre centenaria, se l’avesse ancora e non avesse cent’anni lui stesso. Che schifo. Cosa ho a che fare io con questa gente. 96


Il telefono suona e interrompe i miei pensieri: “Ciao. Il tuo avversario è morto, me lo dai ancora l’appuntamento?” Anche Mustacchi adesso prende il vizio di non salutare e non dire chi è. Ma davvero questi uomini sono così egocentrici da pensare che una stia lì ad aspettare la loro telefonata? “Ma che morto e morto. Abbiamo letto che invece è potentissimo. Piuttosto ora con questa aria da scoop, farò bene a incontrarti?” “Penso proprio di sì. Se esce un articolo negativo tu e Lorenzo sarete alla pari”, e nel dirlo ride. “Ricorda, alle sei, non più tardi”. “Va bene, tanto sono qui. E chi si muove”. Ancora il telefono, numero privato, sarà Corradi: sono combattuta fra la voglia di chiedergli dettagli e retroscena e quella di vomitargli addosso la mia disapprovazione. Tanto già so che non succederà né l’una né l’altra cosa: lui dirà quello che gli sembra opportuno con tono che non ammette domande e io, vigliacca, tacerò. Ma non è lui. “Luisa, sono Eugenio. Quando puoi vieni un attimo da me”. Mi chiama personalmente? Un evento. E che faccia tosta, il piglio leggermente autoritario come se niente fosse. Come se io e altre quattrocentomila persone non avessimo letto. “Arrivo”. “Non c’è fretta, più tardi, verso fine pomeriggio”. Come glielo dico che non posso? Sia pur sputtanato, è pur sempre il capo. Mi faccio coraggio: “Scusa, ma avevo preso un impegno per le sei, non immaginavo che tu avessi bisogno... se vuoi disdico”. 97


Sarebbe una sciagura disdire, Mustacchi non capirebbe. Per fortuna lui non se la prende: “Non importa. Come dici tu: sono abituato alla tirannia delle donne. Vieni verso le cinque e mezzo”. Ha voluto restituire al mittente la battuta. Ciononostante il suo tono era più formale del solito, più pesato. Ha abbandonato la confidenza, la naturalezza che mi aveva illuso di potermi fidare di lui. Forse ha solo paura di inciampare in Corradi. Ricomincio a leggere i giornali, oggi le cattive notizie non finiscono mai: quattrocento immigrati in un barcone che affonda al largo della costa siciliana. Quasi tutti salvi tranne dieci dispersi in mare. Giro pagina: per quindici euro al giorno adolescenti schiavi nella raccolta dei pomodori. E ancora: nel Cie di Lampedusa per protesta dieci tunisini si sono cuciti le bocche con ago e filo. Ne ho abbastanza. Il mal di stomaco è tornato e non ho neppure mangiato supplì! Abbandono il quotidiano e chiamo Marco. “Perché non ti fai più sentire?” “Mi sembra che tu abbia parecchio da fare e da pensare”. “Perciò ho bisogno di una voce amica. Mi sento soffocare, impigliata in una rete. E il mio migliore amico mi tradisce non so con chi”. “Finiscila, sono stato molto impegnato a raccogliere informazioni per te”. “Ma non a riferirmele”. “Lo farò al momento giusto. Sentiamoci più tardi”. “Ciao traditore”. “Ciao malfidata”. “Pensami”. “Sempre”. 98


La schermaglia tanto familiare mi rimette in sesto. Si è fatta l’ora di andare. Nell’anticamera del segretario Giuseppina mi accoglie con aria misteriosa: “Eugenio ti prega di aspettare un po’, ha una riunione ancora in corso”. “Ma gli avevo detto che alle sei ho un impegno”, dico sconcertata. Non posso andarmene senza aspettare che lui si liberi. Di sicuro lo ha fatto apposta per scombinare i miei piani. “Che posso farci. Dentro ci sono Corradi e Lorenzo Pippoli. Come faccio a interromperli?” Mi guarda con la chiara intenzione di dire: bella mia, hai perso il treno. D’altronde lei trasferisce esattamente gli umori del suo capo. Che, pubblicamente, si è dichiarato. Dunque l’articolo non ha spostato nulla: m’ha fatta venire a quest’ora apposta perché voleva che sapessi della riunione. Non mi resta che attendere, assalita da pensieri tutt’altro che positivi: di fronte al pericolo che Corradi come Pietro mi stia tradendo, prima ancora che sorga il nuovo giorno, dimentico le mie remore morali. Se lui mi molla posso dire addio a qualunque progetto. Il vecchio è capace di mille tranelli, è capace di tutto. Ma, decido, è leale con me. Cerco di cogliere le voci di là dalla porta e qualche altra informazione dagli umori di Giuseppina. Da dentro sembra di sentire grande cordialità, un clima da pacche sulle spalle. Questo mi tranquillizza. Corradi non affronterebbe mai una discussione seria con quel tono. Quello è il tono riservato agli scemi. Allora mi rivolgo a Giuseppina: “Dura la vita, eh? Povero Eugenio, pensava che la mia candidatura a portavoce fosse una passeggiata, e invece...” 99


L’altra alza gli occhi appena, visibilmente imbarazzata. “Lorenzo gli ha ricordato che lui e suo padre erano insieme all’università”, lascia che la frase dondoli in aria e poi cada fra noi. Non raccolgo: “Tempi eroici, perché loro hanno fatto Giurisprudenza a Roma negli anni Settanta, vero? Piena di fascisti da non poterci entrare. Mi hanno raccontato di quando Eugenio sollevò un banco di legno e lo lanciò dalla finestra contro un gruppetto di destri che cercavano di entrare armati di coltelli. A vederlo ora, così compassato...” “E con pochi capelli e un po’ di pancia da commendatore. Se me lo avessero detto allora che quel bel ragazzo sarebbe diventato questo signore che conosciamo...”, sono gli unici argomenti che strappano un sorriso a Giuseppina. Ne approfitto: “È una riunione preparata da tempo, o un incontro improvviso?” “Non dovresti farmi queste domande. Comunque no, niente di predefinito. Sai oggi, dopo quell’articolo, è stato tutto un viavai”. “Già, l’articolo, come l’ha presa?” “Alle prime credevo che gli prendesse un infarto. È diventato tutto rosso e ha iniziato a bestemmiare come non l’avevo mai sentito. Urlava: quel giuda, chi è quel giuda che aveva una faccia così perbene. Sai il giornalista: lui aveva capito che era qualcuno che conosceva, ma non l’aveva individuato subito... e come c’era capitato proprio lì in quel momento?” “Anche lui però, dire...” “Ma è tutta una montatura. Non ci crederai, spero. Poi figurati, le cose che si dicono davanti a un bicchiere non hanno valore. Certo se le ritrovi sul giornale sembrano 100


diverse. Comunque, dopo mezzora che urlava ha ricevuto alcune telefonate e si è calmato. Ha convocato te pensando che ci fosse la tua mano. Ma Bruni ti ha difeso strenuamente: gli ha detto che era impossibile, che eri a colloquio con lui e che sei una persona molto perbene e in gamba. Insomma, è schierato con te. È entrato Lorenzo e gli ha parlato di qualcosa. Poi ha chiamato Corradi e gli ha chiesto di scendere. Un happening direi. Ma ora fammi finire questa lettera, sto convocando la direzione. Riguarda anche te”. Mi risiedo. Guardo l’orologio insistentemente. Sono ormai quasi le sei, Mustacchi starà per arrivare, io non ho neanche avvertito la portineria. “Senti Giuseppina, fammi un favore, ho una cosa urgentissima. Vado giù nel mio ufficio. Quando hanno finito chiamami. Vengo in un minuto”.

Luisa “C’è un signore per te”, mi avverte Dino dalla portineria. “Fallo salire”, rispondo senza neanche chiedergli chi è. Sospiro. Appena in tempo per evitare a Mustacchi un’attesa che l’avrebbe di sicuro indispettito. Ma troppo tardi per incipriarmi il naso, pettinarmi e, insomma, rendermi più gradevole per un incontro che inciderà sul mio futuro. Un aspetto curato dà sicurezza e fa buona impressione. Come dice Mara. Nell’attesa mi dedico alla scrivania: prendo tutte le carte alla rinfusa e le ammucchio da un lato, almeno c’è spazio per un taccuino. Quando alzo gli occhi vedo stagliarsi nel vano della porta un tipo alto e atletico, bruno, con dei ricci scuri morbidi che gli incorniciano la faccia. Il giornalista – 101


non può che essere lui – indossa una t-shirt nera a maniche lunghe con la scritta: YOU BASTARD! Ha un sorriso dolce e ironico al tempo stesso. Un gran figo dalla bellezza maschia e tenera. Com’è che non l’ho notato l’altro giorno? Forse non c’era? Interpreta male il mio sguardo fisso sui suoi pettorali: “Mi scuserai ma non ho avuto tempo di cambiarmi, sono venuto vestito com’ero, forse non ho il look giusto per presentarmi a una donna così importante”. Mi concentro sui suoi occhi, è davvero un bel tipo ma non posso fare la parte dell’ipnotizzata, e sul suo tono: è definitivamente una presa in giro o lui pensa davvero che io sia una che conta? Gli faccio il gesto che in tutto il mondo significa prego siediti. Lui si accomoda e intanto prosegue: “Vedo che neanche tu ti sei messa in ghingheri per me”, e nel dirlo annota qualche cosa su un pezzo di carta che sembra se lo sia mangiato il gatto. “Hai bisogno di scrivere che non sono andata dal parrucchiere per il nostro incontro fatale? Non te lo ricordi senza annotarlo?” Dico a me stessa che il tono acido è sbagliato e tento di correggerlo con uno sguardo giocoso. “Adoro le donne semplici e senza trucco, longilinee eppure formose, bionde e non lattiginose, e annoto tutto quello che mi serve per capire il carattere, quello che le persone non dicono”. Ignoro la descrizione, penserò dopo se voleva essere un’offesa, una provocazione o un semplice complimento: “Ma io te lo dico volentieri: non penso si debba venire in ufficio come a una sfilata di alta moda. Né con gonne cortissime o scollature dove gli occhi cascano per legge di gra102


vità. Ogni ruolo richiede un abbigliamento e un comportamento. Non sono moralista, la minigonna mi piace nel posto giusto e nel posto giusto la indosso. Ma in ufficio bisogna andare col dovuto rispetto per sé e per gli altri. Il mio primo capo era solito dire che al lavoro si va come in chiesa: secondo la religione devi avere il cappello in mano oppure in testa, le scarpe ai piedi o entrare scalzo. Aveva ragione. Quanto a me, anche volendo interpretare la donna fatale, e non lo voglio, ho talmente da fare che tutto ciò che riguarda la mia persona è confinato a qualche ora nei sabati che non lavoro, cioè davvero pochi”. “E non si stufa una donna giovane e carina come te di questa vita grama?” “Grama perché? Ho scelto io di fare un lavoro che mi piace e continua a piacermi nonostante...” “Nonostante che?” “Nonostante a volte sogni un prato e uno scorcio di mare”. “O volevi dire nonostante sia pieno di insidie che non sai mai da dove verranno. Nonostante i giornali e i giornalisti e gli attacchi a ogni angolo di corridoio?” “Già, andiamo dritto al cuore della questione: chi ti ha commissionato un pezzo contro di me e perché?” In un attimo ho buttato a mare la prudenza e gli insegnamenti di Corradi. Per fortuna Mustacchi ride, gettando la testa un po’ indietro, un gesto che ripete spesso come quello di mettersi di tre quarti per guardarmi. “Accidenti, questo si chiama parlar chiaro. Dicono che sei una donna scomoda, ingombrante, con la mania di dare una spiegazione a tutto. Una che mette la ragione davanti ai sentimenti. Ma non mi avevano detto che sei un carrarma103


to”, cambia tono e aggiunge serio: “Il direttore mi ha chiamato dopo aver letto tutti quei pezzi sui giornali di ieri e mi ha detto: ho delle curiosità su questa ragazza. Ma chi crede di essere, l’unica che ce l’ha – scusa, te lo riferisco come l’ha detto, i giornali non sono posti per educande – e ha aggiunto: degli amici mi hanno detto che è una vera stronza. Una che si atteggia a dura e pura. Una che non sa campare. Facciamole un ritrattone e diamole una lezioncina. Capirà che deve fare i conti anche con noi. Che se poi ce la ritroviamo a fare la portavoce, non credo, ma se succedesse, chissà che palle. Questo mi ha detto e nulla di più. Io posso intuire, ma non voglio perdere un posto che ho conquistato da poco e a gran fatica. Dopo quattro anni di precariato. Perciò, mettiamoci al lavoro e raccontami tutto di te. A cominciare dalla tua candidatura. Chi l’ha proposta?” Ho il viso in fiamme: vorrei alzare il telefono, chiamare il noto direttore che crede di poter manovrare le persone come marionette in un teatrino e fargli una parte. Ma devo controllarmi, per me e per questo poveretto che ci rimetterebbe non solo il posto ma anche qualsiasi altro posto per essersi lasciato andare a dirmi cose di tale riservatezza. O forse non è vero nulla e mi sta solo provocando? Nel dubbio sorrido con tutto il self-control di cui sono capace e ho la voce appena un po’ incrinata, se ne accorgerebbero solo i miei intimi, mentre gli rispondo: “Come sai l’ha proposta il segretario, ed è giusto visto che diventerei la sua più stretta collaboratrice. A proposito, se mi chiama, e dovrebbe farlo da un momento all’altro, dovrò lasciarti per qualche minuto. Ti dispiace?” “Ti aspetterò, ma prima mettiamoci d’accordo: io ti ho detto la verità e tu farai altrettanto con me. Quello che non 104


vuoi che io scriva, me lo dici lo stesso con questa clausola”. Allora questo mi crede proprio scema, glielo dico e poi mi ritrovo sul giornale: “La Alunni ha detto, ma ha chiesto di non scriverlo”. Nascondo i miei pensieri dietro una cortesia formale: “Ovviamente. Infatti le cose stanno proprio come ti ho detto. Se ti riferisci al rinvio della nomina, credo sia una richiesta di Corradi, vuole pensarci meglio”. “Questo spiegherebbe qualcosa, visto che Corradi è molto amico del direttore. Non spiega però l’uscita della seconda candidatura. Anzi, cerchiamo di essere franchi, non spiega l’uscita del Giornale dell’Urbe di oggi. O forse tu non credi a quello che hai letto?” Mi tremano le gambe al pensiero che Corradi m’abbia tradita: ha fatto uscire un attacco a Lorenzo e poi commissionato un attacco a me facendo finta di difendermi. Mi controllo e con la voce più neutra che trovo dico: “È figlio di un compagno di università del segretario. Persona di cui lui si fida quanto si fida di me. Se non dovesse passare la mia nomina, ce ne sarebbe almeno un’altra di sua fiducia”. “Prudente, anzi prudentissima. Una vera donna di ghiaccio. Ma quanti anni hai? Novanta? Ti provoco e tu niente”. “Si vede che non mi conosci. Ho passioni vere io”. “Dimmene qualcuna: assaporare il sangue dell’avversario...” “Preferisco il cuore... Sciocchezze. Per esempio amo la natura e l’arte contemporanea”. “E gli uomini? Bella e sola, vorrà pur dire qualcosa”. “Gli uomini mi piacciono. Non sono lesbica, se è questo che vuoi sapere. Te l’ho già detto, non ho tempo per la vita privata. Esco quasi sempre tardi da questo palazzo e rifiuto 105


per principio di mischiare lavoro e amore. Tutti quelli che contravvengono la regola si mettono nei guai, prima o poi”. “Allora il segretario è nei guai”. “Non tentare di incastrarmi. C’è chi come lui è in grado di gestire tutto, ma generalmente parlando, i casi sono due. Se le cose vanno avanti, la storia personale si mischia con quella del partito e il tutto rischia di somigliare a quella serie tv, Dinasty. Se invece le cose finiscono male, veti personali e veti politici s’incrociano, con le complicazioni che puoi immaginare. Perciò: dal momento che questo lavoro non lascia spazi, non intendo avere un compagno, fidanzato o marito con il quale spostare le discussioni dalla loro sede naturale alla camera da letto o al salotto. In queste condizioni è un po’ complesso fidanzarsi”. “Suona come una rinuncia”. “Diciamo che per il momento ho altre priorità. Penso alla carriera. Poi, quando sarò troppo vicina ai quaranta e l’orologio biologico mi dirà se vuoi un figlio sbrigati, allora mi guarderò intorno. Adesso sto meglio così, senza complicazioni”. “Molto saggio, inizio a capire cosa intendi quando dici che sei passionale. Vuoi fare la guerra al gruppo dirigente attuale, figlio... come l’hai chiamata?... della politica nelle camere da letto. Chissà che impressione farà a Rispoli leggerlo”. “Mi vuoi rovinare: io non ho detto questo”, rispondo ridendo con un fondo di preoccupazione. “Come no, l’ho segnato qui sul taccuino, sono esattamente le tue parole”. “Il senso era un altro. Io faccio parte di questo gruppo dirigente. Non ci starei se pensassi che non li stimo”. “Non ti preoccupare, troverò un modo carino di scriverlo. Andiamo avanti con i lati oscuri della tua personalità. 106


Dunque per te passionale vuol dire che sei determinata. Che hai un progetto in testa. Tipico della tua generazione”. “Perché tu di che generazione sei?” “Leggo che sei del 1978, perciò hai trentaquattro anni. Io quattro di più. Ma è inutile che tenti di sviare il discorso. È di te che dobbiamo parlare. È vero che sei una maniaca delle due ruote, e addirittura una volta sei andata al Quirinale in motorino scortata dall’autista?” “Qui dovrei essere io a intervistare te: perché questa sciocchezza ha fatto il giro del mondo e le cose serie nessuno se le ricorda? È successo una volta sola: dovevo accompagnare il segretario a una cerimonia al Quirinale, sai di quelle che devi entrare dall’ingresso principale e farti vedere mentre scendi da un’auto blu e il corazziere fa il saluto militare. Eugenio mi ha imposto di lasciare il motorino a un uomo della scorta perché secondo lui non era dignitoso scendere da un cinquantino nel cortile del Quirinale con i fotografi, le troupe e il resto”. “E lo era? Dignitoso, intendo”. “Bisogna accordarci sul termine. Dignitoso sì, inconsueto anche. Sarebbe stato anticonvenzionale, non sconveniente. Per me, io ci sarei andata”. “E gli avresti rubato la scena, avrebbero parlato solo di te”. In quel momento, mentre Giovanni accenna a un sorriso larghissimo, squilla il telefono. È Giuseppina. “Eugenio ha detto che fra qualche minuto finisce, fatti trovare su”. E riattacca senza darmi il tempo di reagire: è un ordine, non un invito. E ora? “È arrivata la chiamata dal segretario. Se vuoi resta qui. Non credo sia una cosa lunga. Se invece tardassi vai pure, ci sentiamo più tardi, tanto ormai so che faccia hai”. 107


Gli scocco un gran sorriso, ma sono preoccupatissima. Sul più bello mi tocca salire. Lo guardo dritto negli occhi, poi guardo le sue mani dalle dita lunghe ed eleganti che tamburellano con la penna sul block notes. Mi sento stranamente rassicurata dalla sua bellezza: uno tanto bello non può essere troppo cattivo. “Ti aspetto, vai tranquilla. Dopo avrai qualcosa in più da dirmi”, e sorride di tre quarti. Ha un sorriso che scalda.

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IX

Oltre al linguaggio corporale, per comunicare tra loro i coyote utilizzano anche un vasto repertorio vocale, ululano come i lupi. Abbaiano come i cani. Anche i politici hanno un vasto repertorio vocale, ma le cose più temibili sono quelle che non dicono.

Luisa “Eccomi, Giuseppina. È solo?” “No, ma mi ha detto di avvertirlo subito del tuo arrivo”. Pochi minuti dopo esce Corradi e mi guarda con espressione indecifrabile. Esce anche Lorenzo, con un sorriso vincente. Mille ipotesi mi passano per la mente in un attimo. Corradi ha detto sì a Lorenzo? Sono spacciata? Coraggio. Indosso la faccia da guerriero e affronto la situazione. “Ciao Luisa, devo comunicarti un po’ di cose, siediti. Ti avrei fatto partecipare alla riunione precedente. Ma mi è sembrato che Corradi, quando l’ho accennato, non fosse favorevole”. Ci risiamo con i messaggi trasversali. Sto per reagire dicendo qualcosa del tipo “non importa, figurati”, quando sento vibrare il telefono a cui ho messo il silenziatore. Un 109


messaggio: “Non cambio cavallo in corsa”. Corradi è con me. È con altro spirito che rispondo al segretario: “Dimmi pure Eugenio, scusa se ti metto fretta, ma ho una persona che mi aspetta di sotto”. Freme dalla curiosità di sapere chi è, ma non può chiedere quello che palesemente non ho intenzione di dire. Lo sento oltremodo indispettito. Decide di ricambiarmi con la stessa moneta: logorarmi i nervi. Io ho fretta e lui la prende calma e alla lontana. “Dopo la riunione dell’altro giorno mi aspettavo che tu tirassi fuori qualche buona idea. La destra ha realizzato una campagna ambigua sul voto agli immigrati, mobilitando l’opinione pubblica moderata, e ci ha spiazzati. Dobbiamo studiare qualcosa di forte, che non tradisca la nostra anima solidale con i più sfortunati, ma rassicuri l’elettorato di centro e insomma, hai capito. Qualcosa di inconsueto e molto, molto equilibrato. Che parli a tutti. E non solo ai nostri elettori. Potresti lavorare intorno all’idea de: la lobby degli ultimi”, mi guarda palesemente fiero di sé. “Che te ne pare?” La tentazione di rispondergli “fa cagare” è fortissima. Ma ovviamente non posso esprimermi così. Lui tiene molto alle forme, in questo è un uomo all’antica. “Eugenio, credo che la parola lobby sia maldigerita dal nostro elettorato. Evoca oscuri gruppi di pressione, interessi poco leciti. Ultimi poi perché? Quelli che partono dai loro paesi non sono gli ultimi, ma spesso i più intraprendenti, i più istruiti. Gli ultimi semmai restano lì a morire di fame. Per carità, gli ultimi mai”. “Ma lo diceva anche Gesù: gli ultimi saranno i primi”. 110


“Era un altro millennio. Se Gesù facesse politica oggi troverebbe molto scorretta questa parola riferita agli immigrati. Il problema non è come chiamarli, ma come dare loro una rappresentanza che conti. Il voto, insomma. Ma per questo non siamo ancora pronti, immagino. Comunque, vuoi chiamarla lobby, se sta bene a te... D’altra parte ormai le lobby impazzano nella politica italiana. Ma ultimi, questo davvero no”. “Me l’ha proposta Lorenzo e a me sembrava una buona idea”, si difende lui. Ecco cosa ci faceva il verme nel suo ufficio, incurante dell’articolo e di come è stato sbeffeggiato, si arruffianava il capo portandogli una pessima idea orecchiata chissà dove. Devo pensare in fretta e reagire decisa: se il segretario riconosce che l’idea non è sua vuol dire che non ne è così sicuro. Meglio tirare un affondo: “Ah, i buoni consigli di Lorenzo, l’hai già nominato portavoce? A proposito, non ero io la tua candidata? Devo venire a sapere dai giornali che hai cambiato cavallo?” Oddio, parlo come Corradi. Ma quando mai, Corradi non si scoprirebbe così. Imbarazzo e minuto di riflessione del segretario. Quando riprende a parlare ha il tono condiscendente che si usa con una bambina deficiente. “Per favore, non parlarmi dei giornali, oggi non è proprio il giorno giusto. Un essere immondo ha colto una conversazione privatissima, l’ha travisata completamente – chiedi conferma a Corradi – e l’ha pubblicata privandola del suo contesto, facendo del male a me, al povero Lorenzo e alla sua famiglia... e sì, anche a te, naturalmente”. Tipico di Eugenio preoccuparsi del disagio che è venuto a lui, dispiacersi per Lorenzo e, bontà sua, in extremis 111


anche per me. Lo guardo negli occhi, quasi ammirata per la sua capacità di simulazione. Il segretario continua: “Quanto a te, vedi, sei troppo irruente. E sempre oltremodo critica. Possibile che io non pensi nulla di buono senza il tuo aiuto?” Non so da dove mi venga la forza, ma reagisco come mai prima: “Dipende, in certi campi è possibile, sì. Io non pretendo di elaborare strategie politiche. Tu non metterti a fare strategie di comunicazione, perché non è il tuo forte. Io ho studiato molto per questo, ho la preparazione giusta, capisco di politica e conosco questo partito. Lorenzo, dici? Se preferisci uno yes man, è l’uomo per te. Ma non so che favore fai a te stesso prendendolo, a parte i favori che il padre può fare a te. Comunque. Decidi presto e ti prego, voglio saperlo prima degli altri. Da te e non dalla stampa. Chiamami anche la notte, ma dimmelo. Chiamami anche se ti si rompe il cesso, naturalmente”. La sfuriata ha il suo effetto. Eugenio mi guarda come tutti gli umani avevano guardato la Gorgone prima che Perseo le tagliasse la testa. Con stupore e orrore, mentre diventavano di marmo. E con faccia di marmo e voce di marmo replica: “Stai drammatizzando, come al solito. Non ho mai detto quelle frasi su tuo padre, e non c’è nulla di deciso sulla nomina. Quanto alla campagna, Lorenzo era venuto a trovarmi quando è entrato Corradi per la riunione e ho pensato di trattenerlo. Che c’è di male?” “Nulla, ma non mi hai ancora detto cosa ne pensa Corradi, né chi o cosa ti ha fatto cambiare idea sul portavoce”. “Alfonso non è tipo da scoprirsi. Quanto a te, non ho cambiato idea. Però parlandone ho trovato opposizione, cosa che 112


non mi aspettavo. Incredibile quanto le donne siano poco solidali fra loro”. “Chi, Mara? È gelosa perché staresti più vicino a me che a lei”. “Ma no, le donne del partito. Lascia stare mia moglie, tutti se la prendono con lei. È logico che io l’ascolti: è intelligente e acuta, e oltretutto ha sacrificato la sua carriera politica per me...” “Sacrificato cosa?”, rispondo abbandonando definitivamente la prudenza. “La imponi come candidata a ogni campagna elettorale, salvo che non la vuole nessuno”. “Perché la temono, in quanto mia moglie. Ma insomma, lo vedi che non siete mai solidali fra donne?” “Eugenio, tua moglie non ha bisogno di solidarietà femminile perché gliene dai molta tu. Non ti accorgi che un sacco di gente ti critica per questo?” “Le critiche ai capi non mancano mai”. “A maggior ragione quelle di familismo potresti risparmiartele. Forse nessuno ha il coraggio di dirtelo, ma questo si dice alle tue spalle. Che le tue decisioni vengono più influenzate dalla zarina che dalla direzione del partito. Sì, lo sai anche tu che la chiamano così. Proprio lei, la tua zarina, mi sta scatenando contro le donne a cominciare da Giustina, e tu mi vieni a parlare di solidarietà? Ma dai”, in quella vibra un’altra volta il telefonino per un messaggio. Guardo il display del telefono. Oddio, è passata più di mezzora e Mustacchi tutto solo nel mio ufficio mi avrà fatto la radiografia completa grazie alle carte lasciate sul tavolo. “Hai altro da dirmi?” “No, volevo consultarti. Ma ora devo ricominciare tutto daccapo. Un pomeriggio perso”. 113


“Se mi avessi chiamato subito... Comunque, se quella campagna ti piace, chi sono io per impedirtelo? Sono solo la voce della tua coscienza, non ancora la tua portavoce”, e gli scocco un sorrisone sdrammatizzante. Mentre mi alzo lo guardo: ha accusato il colpo. “Ti saluto segretario. E comportati bene con me, non stare a sentire la tua signora”. Leggo il messaggio: “Questo è il mio numero di cellulare. Devo scappare al giornale. Dovrò affrontare le urla del caporedattore centrale e il biasimo del direttore per non avere ancora scritto il pezzo su di te. Se non glielo faccio trovare sul desktop almeno domani mattina, quando arrivano sono guai. Alle 21 e 30 finisco. Vieni a cena con me altrimenti sarai responsabile del mio licenziamento. Chiamami. Giovanni Mustacchi”. Forse è meglio così, forse alla fine dovrò ringraziare Eugenio: a cena avrò più tempo per farmi capire e rendermi interessante. “Pronto, sono Luisa Alunni, vorrei Mustacchi”. “Sono io, chi vuoi che risponda al mio cellulare?” “Che ne so, un collega. Qualcuno di passaggio. Eccomi qua. Reduce da un colloquio difficile, ma tutta intera”. “Difficile perché?” “Ma fai il giornalista a tempo pieno, tu. Rilassati. Non mi hai invitato a cena? Te lo racconto dopo”. “Visto che mi hai lasciato a fare lo stoccafisso in un ufficio non propriamente ridente, devo recuperare il tempo perduto: ho tre pagine da chiudere con relativi pezzi da passare, titoli e notizie da scrivere. Dunque, non posso rilassarmi ora. Va bene se ci vediamo alle dieci e mezza da Cesarone?” 114


“Chi è Cesarone?” “Una trattoria verso piazza Fiume. A quell’ora non c’è neanche bisogno di prenotare, i primi avranno finito e noi saremo gli ultimi. Beati noi, così l’oste non avrà fretta di passare ad altri il nostro tavolo e potremo chiacchierare con calma. Ma non farti illusioni. Io sono un ragazzo serio. Niente dopocena, intesi?” “Spero che tu stia scherzando, perché ho avuto una giornata complessa e non sono in grado di capirlo”. “Ci mancava anche questa: a cena con una donna che non capisce se scherzi o no. Sarà una serata orrenda e dovrò farmi pagare gli straordinari dal giornale. Ma per la carriera questo e altro. A dopo. Mi chiamano”, e attacca. Rientrata a casa spero di sentire Corradi. Poi rompo gli indugi: lo chiamo io. Una volta potrò pur prendere l’iniziativa. “Pronto, maestro?”, ho preso l’abitudine di non dire il suo nome: compagno Corradi suona malissimo, Alfonso troppo confidenziale. Maestro mi pare la definizione più appropriata. “Ciao, stavo aspettando la tua telefonata. Com’è andata?” “Con Mustacchi o con Eugenio?” “Con entrambi. Eugenio poverino era molto provato dal deplorevole incidente. Ma anche lui, non rendersi conto che aveva un giornalista alle spalle, e parlare ad alta voce in un locale pubblico, davvero inopportuno. Alle sette e mezza stamattina mi aveva già chiamato pensando di trovare solidarietà e voleva preparare una smentita. Ma io l’ho sconsigliato, una smentita è una notizia data due volte, gli ho ricordato, e così ha ripiegato su una versione da vittima del cattivo giornalismo. Patetico e 115


banale. Il politico stretto all’angolo se la prende sempre con i giornalisti che non hanno capito. Tu invece avrai capito che Mustacchi è un’occasione che ti ho creato io. Comparire nella sua rubrica è il massimo. Ma stai attenta a non farti massacrare. Quel ragazzo ha un’aria così perbene, ma è una iena. Un moderato attacco dalla stampa suscita attenzione e crea il personaggio. Un attacco radicale e violento ti distrugge. Immagino che il risultato lo leggerò domani”. “No, dopodomani, ho conquistato un giorno per conquistare lui, ma come ci si procura un moderato attacco?” “Puoi chiederlo ai tuoi amici dei salotti romani. Per loro il Corriere del Mattino è come la Bibbia”. “Io non ho amici nei salotti, e non frequento quasi nessuno”. “Questo è un problema, perché il direttore di quel giornale ne fa parte, li anima, li stuzzica, li aizza. È gente chic che diventa crudele con chi è fuori dal giro. Predicano la non violenza ma sono di una ferocia inaudita. È bene che non abbiano pregiudizi su di te. Male che tu sia fuori dal clan: almeno lascia immaginare che faresti carte false per entrarvi. Sono tanto cari al tuo segretario, che è il re dei salotti, sia quando è accompagnato dalla sua signora, sia quando è accompagnato dalla signora di qualcun altro. Allora, come è andata con lui?” Gli racconto tutto. Corradi sembra moderatamente soddisfatto. “Lorenzo è un cretino e come tale piace molto al segretario. È importante demolire le idee che lui propone perché Eugenio si senta insicuro quando segue i suoi consigli. Come abbiamo letto, gli piacciono i lacchè, ma essendo un 116


insicuro a sua volta, insicuro e arrogante, non vuole sbagliare. Deve pensare che Lorenzo può indurlo a gravi errori quando meno se lo aspetta. “Veniamo al giovanotto Mustacchi. Mi raccomando, una cena è la prova del nove: non lasciarti andare a confidenze. Lui cercherà di carpirle. Un contesto rilassante, le luci basse, le difese calano... Non dico che sia una trappola perché non poteva prevederla. Ma può diventarlo. Nel dubbio prudenza, prudenza, prudenza. Ricorda: a costruire un buon nome ci vuole una vita. A distruggerlo pochi minuti. E quel giornale è uno specialista”. “Dal momento che mi hai dato in pasto alla belva fidati di me, e aiutami dicendomi qualcosa di più di Mustacchi”. “È un giovane brillante, determinato a emergere. Il direttore si rivolge a lui quando vuole un pezzo ben scritto, a metà tra cronaca e commento. Che, del resto, lui mischia sempre molto volentieri, ed è il segreto del suo successo. Per avere uno dei suoi ritratti ci sono persone che fanno la fila. Per i servizi sporchi di solito il direttore si rivolge a Pietro Vannucchi. Non questa volta: la cronaca del convegno l’ha firmata Mustacchi, sarebbe stato scorretto levargli il servizio. E così ero abbastanza tranquillo quando gli ho parlato, suggerendo che sei una da tenere d’occhio, spocchiosa ma interessante. Una che gioca in proprio. Ambiziosa. Una che io affosserei volentieri. Ed Enrico, che mi giudica diabolico come se stesso e un uomo di potere proprio come lui, un pezzo piccante su una donna in carriera non se lo fa sfuggire. E neanche l’opportunità di fare un piacere a me. In ogni modo oggi ti ho lanciata nel firmamento dei notiziabili, quelli di cui vale la pena parlare”. “Ha ragione il direttore, hai una mente diabolica”. 117


Si schernisce al mio complimento. “Se solo il diavolo ha cervello...”, poi prosegue con evidente entusiasmo: “Io sono un giocatore di scacchi. La partita a volte si vince prima di iniziare a giocare, cogliendo la psicologia e le debolezze dell’avversario. Inutile muovere se non hai una strategia, se non intuisci quali aperture, difensive o di attacco, ti porteranno a controllare i quattro quadrati fondamentali della scacchiera, due bianchi e due neri, che stanno esattamente al centro. Il controllo di quelle caselle ti permetterà di bloccare il gioco degli altri e sviluppare il tuo, proprio come nelle battaglie tradizionali se occupi la collina vedi e anticipi le mosse dell’avversario. Lì sta il cuore della partita. Ma per arrivarci bisogna prevenire le mosse dell’avversario o neutralizzarle. Anche per fare bene la politica bisogna avere in testa un progetto e le possibili conseguenze di ogni azione. Certo, chi non vede che se stesso non può far bene la politica, né fare del bene alla politica, cioè al paese. Per questo in una partita a scacchi gli attuali dirigenti possono, al più, reggere per tre mosse. Poi subiscono lo scacco del barbiere, quello che un esperto dà ai principianti. Te l’immagini il povero Eugenio controllare la scacchiera, quando non riesce a controllare neanche il suo basso ventre? Morto io, della mia generazione non c’è più nessuno che faccia politica con passione e lucidità. Sto puntando su di te perché mi sembra che impari presto. Vedremo se sarà davvero così. Chiamami anche a mezzanotte, per informarmi sulla cena. E ricorda, Mustacchi è perbene, ma ambizioso. Come te, che vuoi fare la portavoce e non hai contatti con la stampa. Roba da matti. Dagli qualcosa che gli faccia fare bella figura, altrimenti te lo farai nemico, ma non ti scoprire. 118


Ricorda: l’apertura può determinare la vittoria. Se sbagli quella... A dopo”. Duro e paterno al tempo stesso, Corradi mi ha garantito un appoggio talmente esplicito da lasciarmi a bocca aperta. Devo credere alla sua fama o al mio istinto? Decido per l’istinto. Dunque ora tocca a me. Non so giocare a scacchi, ma imparerò. Innanzitutto devo cambiarmi. Mustacchi, come Mara, mi ha fatto notare che il mio look non è abbastanza curato. Meglio essere più autorevole o più femminile? Femminile, è pur sempre una cena, siamo entrambi giovani e lui è un bel tipo, mi piacerebbe fargli buona impressione. Elegante no, che locale sarà questo Cesarone? Opto per un pantalone nero di raso e una maglietta nera di cotone molto grezzo, con lo scollo a barchetta, che fa contrasto e valorizza il collo. Mi guardo allo specchio in cerca di rassicurazioni, è lungo e ancora senza l’ombra di una ruga, fino a quando posso permettermelo... Poso i vestiti sul letto, pronti a essere indossati. Raccoglierò i capelli a chignon, invece della solita coda di cavallo. Indosserò gli orecchini di corallo: sono i miei preferiti, mamma diceva che il corallo porta fortuna. Ho il tempo di vedere il telegiornale e poi di vestirmi e truccarmi. Oggi è la politica estera a tenere banco. Dopo il Medio Oriente la seconda notizia è lo sbarco di altri trecento immigrati a Lampedusa. Purtroppo venti sono morti prima di riuscire a toccare terra e fra loro sette bambini, che pena, poveretti. L’Italia ha chiesto aiuto alla Commissione Europea. E i soliti cretini dicono che è un problema di polizia. Che bello per una volta prendersela con calma. Allungo le gambe e chiudo un momento gli occhi per riposarli, peccato non avere in casa un cetriolo, la zia diceva sempre che 119


due fette di cetriolo levano le occhiaie e l’espressione stanca allo sguardo. Come è comoda la mia poltrona. “Pronto, Luisa?”, un breve silenzio carico di tempesta dà alle parole di Mustacchi un’enorme aggressività. “Sono qua da trenta minuti e sto per morire di fame: sei andata a cena con qualcun altro?” Sono stordita, ma riesco a realizzare che sono le dieci e mezza passate, il giornalista è fuori dalla grazia di Dio e mi sta maltrattando al telefono. Maledetta stanchezza che m’ha tradita facendomi addormentare e scombussolando i miei piani. “Scusa Giovanni. Arrivo subito. Poi ti spiego”, e attacco prima di dover dare spiegazioni per le quali non sono abbastanza pronta: penserò qualcosa di credibile per strada. E adesso? Non c’è tempo per i preparativi, niente trucco e parrucco, devo fare più in fretta che posso per recuperare un ritardo ingiustificabile. Mentre infilo gli abiti chiamo un taxi, non avrei tempo per parcheggiare, né posso usare il motorino coi tacchi alti. Il nastro del radiotaxi dà l’arrivo in tre minuti. Infilo le scarpe, acchiappo gli orecchini, li metterò mentre vado. Le Chanel mi impediscono di correre giù per le scale come dovrei. E i capelli sfuggono da tutte le parti, tanto vale scioglierli. Mi sento estremamente inadeguata e insicura proprio quando avrei voluto dare di me l’immagine migliore e vincente. Finalmente arrivo. Trafelata, vorrei fare ampi passi ma non posso: non sono abituata alle scarpe con tacchi da signora. Per non cadere ai piedi di Giovanni devo rallentare. L’andatura lenta e un po’ oscillante a cui sono costretta mi irrita e rassicura al tempo stesso. Mio malgrado sembrerò 120


una donna di classe. Non faccio in tempo ad aprire bocca per scusarmi con le frasi preparate durante il tragitto che lui mi aggredisce sarcastico: “Preziosa ok, le signore si fanno aspettare. Un po’. Non tutta la sera. Ho lavorato tutto il giorno. Ho subito una cazziata pubblica per colpa tua e sto per morire dalla fame. Non ti dispiace se mangio pane e olive mentre aspetto da, vediamo... quasi un’ora? Comunque, benarrivata”, mi dice indicandomi la sedia di fronte a lui, senza neanche alzarsi. Uno sgarbo che mi sgretola, mi mortifica, non so più che dire, provo a riprendere in mano la situazione, ma il labbro superiore trema e mi esce una vocetta simile a un miagolio che mi innervosisce più della sua aggressività. “Non te lo dico neanche cosa mi è successo, è un ritardo imperdonabile, lo so. Credimi, non sono quel genere di signore: è la prima volta in vita mia...” Non mi lascia finire: “Ci conosciamo da poche ore e farmi aspettare è già diventato un vizio. Mi hai tenuto in ostaggio mezzo pomeriggio nel tuo orrendo ufficio. Ora qui. Sei fortunata che devo tornare a casa con il pezzo in testa e detesto cenare da solo. Se no ti avrei mollata”. Mi vuole mollare. Ma come si permette di parlarmi così? Sarà anche un bell’uomo, fa un mestiere importante, io sono in torto, ma c’è un limite che non gli consento di oltrepassare. Ora l’offesa sono io e quasi quasi l’intervista non gliela concedo più. Se mi vuole mollare, lo mollo prima io. Non ho il coraggio di dirgli quello che penso. Gli sorrido con aria da regina oltraggiata e contrattacco: “Sì, sono davvero fortunata ad averti conosciuto: brillante, simpatico, bello, e talmente gentiluomo da non rinfacciarmi nulla. Per farmi perdonare, la cena la 121


offro io. Perciò non mangiare troppo”, gli sibilo come uno schiaffo. Si controlla e riporta la conversazione su un tono più accettabile: “Sarebbe giusto che offrissi tu. Ma sono un uomo all’antica e non farei mai pagare una signora”, poi mi guarda come un animale esotico allo zoo. “Mai visto prima di stasera una che si presenta all’appuntamento con un uomo che praticamente non conosce senza un filo di trucco e senza essersi pettinata”. Colpita e affondata. Mi viene in mente solo una frase stupida: “Ma tu non sei un uomo, sei un giornalista!” “Grazie a nome della categoria. Pensi di farti perdonare così?” “Intendo dire che l’appuntamento è con il giornalista, non con l’uomo Giovanni Mustacchi. Invitami di nuovo senza dover scrivere di me e vedrai che look da pantera”. Quei tre segni di espressione, che Giovanni ha proprio sopra il naso (invecchiando diventeranno rughe, ma ora gli danno fascino) si stanno distendendo. Mi guarda di tre quarti come nel pomeriggio, curioso e irridente. Bene, la sua indole ha preso il sopravvento. Il clima migliora. Ottenuta la tregua, per la prima volta da quando sono entrata mi guardo intorno: c’è un camino proprio in mezzo alla sala, d’inverno ci saranno delle belle braci pronte per bistecche e bruschette. L’ambiente è accogliente, rustico ma non trascurato. Nessun altro avventore. “Hai riservato tutto il ristorante per noi”, scherzo io. “Se tardavi ancora un po’ avrei dovuto servire a tavola personalmente, i lavoratori a un certo punto smontano e hanno diritto di riposare. O i dirigenti di Sinistra Unita sono schiavisti?” 122


Fa un cenno e chiama l’unico rimasto. “Cesarone, la nostra gran dama è pronta per ordinare, ma tu hai ancora qualcuno in cucina?” In realtà non è il cameriere, ma il proprietario, che risponde con cordialità e un largo sorriso quasi contrito: “Per un primo sì, ma il secondo non so se facciamo in tempo, il cuoco alle undici e mezzo se ne va, ha lasciato acceso un fornello solo, peccato me dispiace, ma tu lo sai Giova’ non è come ’na vorta, adesso me fanno ’na multa che me lecco le ferite per sei anni...” Ricambio il sorriso e scelgo in meno di un secondo: “Io mangerei volentieri una carbonara, è una vita che non la mangio, e per dopo qualsiasi verdura già pronta. Va bene?” “Benissimo, e per te dotto’?” “Mi associo, non possiamo chiedere due cose diverse a quest’ora. Se poi starò sveglio per il pasto pesante chiamerò la signora e le farò scontare la mia insonnia al telefono”. “Giova’, ma tu ce lo sai che come fa la carbonara il nostro Mohammed digeriscono anche i malati”, e dondola via portandosi il peso di un notevole addome. Quando torna a rivolgersi a me Giovanni è di nuovo brusco: “Come hai iniziato a fare politica? Cosa ti ha spinto a sceglierlo come mestiere?” “Non è facile risponderti. La politica mi è sempre piaciuta, ma non pensavo che potesse diventare un’occupazione stabile. Ho cominciato all’università, come tanti. Era un’epoca di grandi illusioni, c’era la coda del movimento della Pantera... io volevo combattere le ingiustizie del mondo, e non pensavo al lavoro”. “Dunque eri una leader del movimento”. 123


“Leader è una parola che non mi piace. Ero me stessa, ed ero convincente, evidentemente. Gli altri mi seguivano, avevo una discreta presa. Ma il movimento non aveva un solo capo. Un giorno era in corso un’assemblea. Entro nell’Aula magna del Rettorato occupato. E un ragazzo dell’ultimo anno ad alta voce fa: oh, è arrivata la ragazza-pantaloni-acqua e sapone che gliele canta a tutti. Ha fatto la mia fortuna. Da quel momento è diventato il mio secondo nome, quello con cui tutti mi riconoscevano. Di Luisa ce n’è tante. Ma di ragazza-pantaloni-acqua e sapone c’ero solo io”. “Sei diventata popolare, interviste in tv e così via”. “Lo sai meglio di me, ai mass media basta poco per creare un personaggio”. “Certo, è il nostro potere. Ma tu a quel punto avevi un obiettivo no?” “Non proprio. Seguivo l’istinto, la mia principale risorsa in quel momento: non avevo esperienza né cultura politica. La popolarità mi pesava. Fino a quel giorno. Avevamo organizzato un’interfacoltà. Eravamo più di mille. Una cosa esaltante. Si era presentato Livio Capezzi, il capo del potentissimo sindacato di sinistra, con l’intenzione dichiarata di normalizzare il movimento. Alcuni di noi avevano cercato di convincerlo che non era tanto sicuro per lui venire lì. Ma l’arroganza gli impediva di considerare seriamente le nostre parole”. “Me lo ricordo. La sinistra ufficiale tuonava contro di voi: a lui che rappresentava i lavoratori italiani, una storia di cinquant’anni, proprio a lui impedivate di parlare all’università?” “Ne discutemmo tanto. Sapevamo che sarebbe stato un disastro. Ma non ci fu verso. Venne comunque alla nostra 124


assemblea e disse più o meno: avete giocato abbastanza, adesso tornate a casa. La contestazione iniziò in sordina, dal fondo della sala. Come un temporale che si prepara in lontananza. I compagni più irruenti si avvicinavano minacciosi e incalzanti e come una valanga il gruppo si ingrossava via facendo. Non tolleravano che Capezzi e il suo codazzo invece di fare gli ospiti rispettosi pretendessero di darci lezioni a casa nostra. Seguirono momenti drammatici, di tensione incredibile. Non so se Capezzi se ne rendesse conto: continuava a parlare nello stesso tono, coraggioso a suo modo, ma oltraggioso. Un compagno interpretò il sentire comune lanciando una bottiglia di plastica vuota e come se avesse dato un ordine preparato in precedenza, ma ti giuro che non era così, tanti seguirono il suo esempio. Mi sentivo male pensando alle conseguenze. In quel momento feci la cosa più azzardata della mia vita. Presi il microfono davanti al tumulto e come per miracolo riuscii a sedarlo”. “Avrai detto qualche frase memorabile”. “Macché. Non ricordo neanche di preciso cosa dissi. So che iniziai a parlare con voce molto alta e molto perentoria, ma calma. E stranamente, un po’ alla volta, tutti mi ascoltarono. Per Capezzi fu una via d’uscita onorevole e anche per il movimento: prendere a bottigliate il capo del sindacato rosso non era come accanirsi con i fascisti. All’uscita, quando tutto il caos si era sciolto e restavano solo piccoli gruppi, mi si avvicinò un dirigente della Sinistra Unita chiedendomi se volevo collaborare con lui”. “E così hai scalato la montagna”. “Mi avevano comprato per tenermi in panchina. All’inizio il partito spense le luci su di me. Invece di sfruttare la mia popolarità la smorzò. Mi impegnavano in infini125


te riunioni interne abbastanza prive di senso. Non lo facevano apposta, penso, era il loro modo di essere. Il peso della loro storia li spingeva avanti e li tirava giù al tempo stesso. Ogni giorno mi dicevo: che diavolo c’entra tutto questo con me? Eppure restavo. Volevo dimostrare a me stessa e ai compagni che mi avevano criticato e avvertito Te ne pentirai!, che invece avevo ragione io. Bastava insistere e resistere. Ma non ce l’avrei fatta senza Tonino Majani, una persona straordinaria. Un napoletano saggio, ironico, assolutamente leale. Da lui ho imparato quasi tutto quello che so”. Vorrei aggiungere il resto lo sto imparando in questi giorni da Corradi, ma non lo dico: “Tranne la saggezza, per quella forse non sono portata. Tonino, l’hai conosciuto o ne hai sentito parlare”, abbasso il tono di voce per celare quella piccola incrinatura che mi viene sempre quando parlo dell’amico scomparso, “era un uomo talmente eccezionale... Quando mi vedeva alterata o mi sentiva sopra le righe mi sorrideva con i suoi occhi buoni e mi diceva: Luisa o munno ’cca sta e ’cca resta. Nun o puo’ cagna’ tu... e nun o puo’ portà tutto n’goppa a e spalle tue. E se io gli obiettavo che faccio politica proprio perché le cose le voglio cambiare, mi diceva che sì, è vero, ma per ogni cosa c’è il suo modo e il suo tempo. Mio padre aveva troppo da fare per insegnarmi a vivere. Tonino è stato il padre che avrei voluto, pur senza nulla togliere al mio. È morto per un incidente d’auto mentre lo stavano portando a una riunione a Vico Equense. Ho scritto una lettera a sua moglie. Spero che i miei figli possano un giorno avere un amico così intelligente e sensibile e buono come lui”. “Ma se non hai figli”. 126


“Quando li avrò vorrò per loro il meglio, e il meglio era Tonino”. “Che tipo sei, auguri un futuro a dei figli che per ora non hai neanche in mente di concepire. Lui era un moderato, che c’entra con te?” “Che vuol dire moderato? La differenza è fra chi alla politica crede, e chi la fa per opportunismo. Il resto è solo metodo, da scegliere secondo l’obiettivo. Ma il cinismo no, è una malattia gravissima della politica. Col cinismo io non so convivere”. “E allora che ci fai in quel partito di cinici?” “Questo lo dici tu, non io di certo. Oh, ecco la carbonara, direi che arriva al momento giusto, no?” “Troppo tardi, se penso al mio stomaco, troppo presto, se penso alla conversazione che ha interrotto”. Affronto la carbonara con entusiasmo, Giovanni osserva e commenta: “Sei magra ma non inappetente. Sai cucinare?” “Fammi pensare: pane e prosciutto lo consideri cucinare?” Rido e aggiungo: “Guarda che ti sto prendendo in giro. Certo che so cucinare, o credi che la famiglia di un idraulico possa permettersi un cuoco?” “Ah, già, quello che il tuo segretario chiama quando gli si rompe il cesso. Che volgarità, non ti pare?” “Infatti Eugenio non può averla detta. Lui non è un uomo volgare. Come d’altra parte non può avere un giudizio così terribile di Lorenzo e volerlo come portavoce. Vedi bene che di voi giornalisti non ci si può fidare”. “Tuo padre ti ha chiamato dopo aver letto l’articolo di oggi?” “No, e facciamo in modo che non mi chiami dopo aver letto il tuo”, accidenti a me, non riesco a smorzare i toni. 127


Riprendo il discorso cercando di non far trapelare la mia ansia. “Come pensi di impostarlo? Che idea ti sei fatto di me? So che non dovrei domandartelo, ma la curiosità è forte”. “È presto per dirlo. Sto accumulando informazioni e sensazioni. Poi la scrittura mi verrà quasi naturalmente. Offro al lettore un ritratto, una foto d’autore non una fototessera. Credo che sia più onesto”. “Non parlarmi di onestà, di oggettività. Voi giornalisti scrivete solo il vostro punto di vista. E va già bene se non c’è dietro un suggeritore”. “Faccio finta di non aver sentito. Dovrei offendermi: il megaritardo e ora questa insinuazione. Di’ pure che detesti i giornalisti. Anche questo farà parte del ritratto”. “La battuta non era riferita a te, né a qualcuno in particolare. Voglio dire che non puoi dividere il mondo in politici cattivi e giornalisti buoni. Perdonami e vai avanti. Stavi parlando del tuo metodo”. “Il mio metodo, sì: racconto l’idea che ho di te, descrivo la tua personalità e non i dettagli della tua persona. Questo è il mio modo di lavorare. La realtà d’altra parte può essere molto ingannevole. La sensazione lo è molto meno”. “Davvero?”, il ragazzo per rendersi interessante le spara grosse. Ma lui non si fa bloccare dalla mia incredulità: “Pensa se pubblicassero la nostra foto ora: un uomo e una donna, seduti da soli al tavolo di un ristorante. Il lettore potrebbe pensare che siamo fidanzati, innamorati, che ti corteggio, che è un preliminare per portarti a letto. L’immagine è vera, ma non dice la verità: che io voglio fare un articolo su di te, che ho fame e che tu non avevi altro tempo disponibile per 128


consentirmi di svolgere al meglio il mio lavoro. E ora la carbonara si è freddata, e anche questo dovrò metterti in conto”. “Interessante. La foto mostra la realtà, ma non la spiega. Sta al giornalista farlo. Questo rende il vostro lavoro tanto importante e delicato. Vedi? Imparo volentieri”. Giovanni sorride soddisfatto e io decido di approfittare del piccolo vantaggio: “Parlami di te, come hai cominciato, perché hai fatto quattro anni di precariato?” “Perché anche io sono figlio di un idraulico. No, è una battutaccia. In realtà non ho voluto che mio padre intervenisse per me”. “Tuo padre è uno potente?” “Questa è una faccenda complicata. Mio padre è il proprietario del Quotidiano di Pavia, un editore. Ma io non porto il suo cognome. Trent’anni fa, quando ha saputo che mia madre era incinta, nonostante stessero insieme da anni è letteralmente fuggito”. “Ne conosco che di fronte alla paternità hanno attacchi di panico”. “Mia madre avrebbe potuto pretendere alimenti e agi, ma non l’ha fatto. Mi ha cresciuto da sola, con gran fatica: lui era ricco, lei viveva del suo lavoro di segretaria alla redazione romana del Quotidiano. Mi ha dato il suo cognome e ha cercato un altro posto. Come puoi immaginare, non aveva molta scelta: non sono tanti i datori di lavoro che assumono una donna già visibilmente incinta. Le sono molto grato, ha lavorato giorno e notte, letteralmente, salvo le ore che dedicava alla nostra vita insieme, a parlare con me e a giocare con me. È stata una donna straordinaria: mai un lamento, mai una recriminazione”. 129


“E lui, si è mai fatto vivo?” “Sono cresciuto senza conoscerlo, fino a che ho compiuto diciotto anni. A quel punto è piombato nella mia vita: pranzi, cene, regali. Voleva a tutti i costi riconoscermi. Gli ho detto chiaramente che per nessun motivo avrei preso il suo nome. Che preferivo mille volte quello di mia madre, del quale sono orgoglioso. Più lo rifiutavo, più diventava insistente. Ha anche messo in mezzo un avvocato per rivendicare i suoi diritti paterni, ma ha rinunciato quando ho minacciato di non parlargli mai più. Ha continuato a blandirmi in ogni modo, senza successo”. “E tua madre?” “Mamma mi ha sempre consigliato di non avere rancore. Ma a me basta guardarla, invecchiata per la fatica e l’ansia, per il provare un astio terribile verso di lui. Avremmo potuto avere tutti e tre una vita migliore. Anche lui, che ora è solo”. Lo guardo. È un po’ triste e un po’ incazzato, sembra molto giovane in questo momento. Continua: “Una sera lui era a cena dal mio direttore – al giornale nessuno sapeva che fosse mio padre – gli ha chiesto di me, ha detto che sono suo figlio, tecnicamente non mi ha raccomandato, ma fra gente di potere non serve chiedere. Ecco come sono stato assunto. Sono forse l’unico della mia generazione. Un po’ me ne vergogno, e lì per lì mi sono molto arrabbiato, ma poi ho riflettuto con calma. Per una volta mio padre mi è stato utile, me ne farò una ragione e andrà a parziale compensazione di tutto il male precedente. Ma perché racconto tutto questo a una che vedo per la prima volta?” “Perché sai che non lo userò contro di te. Per pareggiare i conti con l’idraulico”. 130


“Già, l’idraulico, che tipo è?” “Un padre meraviglioso, ma molto assente. Un esempio per me. E per mia sorella Lalla, che ora lavora in Canada. Anche mia madre era meravigliosa, ed è morta troppo presto. Noi siamo cresciute sole col senso del dovere e della responsabilità. Una vita come tante. Forse la necessità di cavarcela ha spinto me e mia sorella ad applicarci al lavoro in modo calvinista. Qualcuno dice eccessivo”. “Amori?” “Sono zitella e questo lo sai, mi piacciono gli uomini, ma via via che passano gli anni divento più difficile e diffidente”. “Perché?”, chiede con tono leggero. “Qualcuno ti ha ferito, bambina?” Gli perdono l’appellativo stupido e proseguo: “Come tutti, anch’io sono rimasta scottata. Fino a qualche anno fa cercavo l’uomo perfetto. Poi l’ho trovato: era l’ideale, fisicamente e moralmente. Ma era più grande di me e forse per questo voleva un altro genere di donna, una che gli si affidasse completamente. Una che vivesse in adorazione della sua intelligenza e capacità. L’avevo avvertito, non mi ha creduto. Immaginava che, andando avanti la nostra relazione, per lui avrei messo in secondo piano la carriera, il lavoro, le amicizie. Quando si è reso conto che non sarebbe mai stato così il rapporto si è fatto difficile. Mi accusava di essere arida e poco femminile, di mettere gli affetti in secondo piano. In altre parole, era egocentrico e possessivo. A un certo punto si è stancato e ha optato per la perfetta mogliettina”. Divento rossa per le bugie su Alessandro, ma per nessun motivo direi la verità. Voglio apparire a Mustacchi come una vincente, non una povera sfigata sedotta e mollata. Per fortuna non c’è 131


abbastanza luce, non può accorgersene. Continuo: “Ci sono rimasta molto male, ma non intendo rinunciare al mio lavoro e alla vita che ho scelto”. “Neanche per il principe azzurro?” “Chi mi chiede di rinunciare al mio lavoro non lo è”. “E dunque qualche storia qua e là in attesa di invecchiare?” “Qualche storia qua e là per non perdere l’abitudine, in attesa di trovare la persona giusta. Magari non quella che ti fa perdere la testa e aggrovigliare lo stomaco, visto che ormai ho passato i trenta. Un uomo con cui avere un buono scambio intellettuale, un grande affetto, condividere l’amore per il bello, la buona musica, il cinema...” “Un amicone, insomma. Stai per rassegnarti e diventare una monaca”. “Niente affatto. Penso che da un certo punto in poi l’amore sia altrettanto importante, ma non altrettanto passionale. Non credi?” “Assolutamente no. Ma qui non si parla di me. Francamente ti compatisco. Perdi molto pur di non mettere in discussione il tuo arrivismo”. È una vera cattiveria. Arrossisco ancora, ricordando le parole di Corradi. “Questo non me lo merito. Detesto le persone ciniche e tutte calcoli, quanto detesto le persone ingenue e velleitarie. Non sono né l’una né l’altra. Ma al mio lavoro tengo enormemente. È il lavoro più bello del mondo”, aggiungo enfatica, per reazione alle accuse di carrierismo, “lo farei anche se non mi pagassero, non c’è nulla di più importante che governare una comunità, indirizzare l’economia e la società, curare l’interesse generale”. 132


“No: il lavoro più bello del mondo è il mio. Il giornalista è il cane da guardia del potere, per conto dell’opinione pubblica. Un ruolo centrale. Senza la libera stampa voi politici diventereste dittatori”. “Fosse vero. La politica per te è il mondo dei cattivi e il giornalismo dei buoni, nel tuo ambiente non ci sono compromessi, nessuno vi manovra. Se vuoi dico di sì per compiacerti”, penso a Corradi e alle sue relazioni intricate e intense con giornali e giornalisti. Giovanni è calmo e deciso: “Non te lo chiedo. Anzi, ammetto: ogni volta che affronto un tema o un personaggio importante, ogni volta che il direttore mi chiama sento che c’è dietro qualcosa. Ma ciò che conta è quanta chiarezza si fa per il pubblico. Il resto non importa”. “Eppure dietro ogni scoop c’è l’interesse di un avversario”. “L’importante non è chi fa la soffiata, ma chi è in grado di pubblicare per primo la scomoda notizia perché ha le fonti e la credibilità per farlo. Chi detta l’agenda”. “Come il tuo direttore”. “Sì, proprio come lui: può vantarsi di aver fatto cadere tre governi, di aver distrutto o sostenuto politici. Di aver governato più di tanti ministri. Lui è capace di creare da una banale notizia un caso nazionale. Molti fatti senza il suo intervento sarebbero rimasti fuori dal cono di luce”. “Lo fa nell’interesse del paese, per la propria fama o per gli interessi dell’editore?” “Per tutti questi motivi. È la democrazia, così imperfetta e così insostituibile”. “Su questo siamo d’accordo. Sul resto meno, ma ne discutiamo un’altra volta. Domani non è vacanza”, aggiungo un sospiro e un purtroppo. 133


“Hai detto purtroppo?” “Anche le rocce crollano. Paghiamo e andiamo”. “Piano, piano. Come corri, una signora invitata da me non può pagare. Ne va della mia immagine”. “Ok, grazie, la prossima volta ti invito io e andiamo in pari. Cesarone mi chiamerà un taxi?” “Se vuoi che ti accompagni a casa dillo. O le donne del tuo stampo non chiedono mai?” “Giusto per chiarire, se metto i tacchi o sono stanca non prendo il motorino. Così non restano che due alternative: o mi fai chiamare il taxi o mi accompagni a casa. Scegli”. “Dipende da dove abiti. Anch’io sono molto stanco”. “In via delle Marmotte undici”. “Mi sei di strada. E poi a quest’ora trovare un taxi richiede più tempo che portarti. Andiamo. Ciao Cesarone”. “Arrivederci Giova’. Signorina torni presto, magari entro le dieci così assaggerà qualche altra specialità del nostro Mohammed”. “Volentieri, è un posto davvero simpatico il suo”. E rivolta a Giovanni aggiungo: “Senza gli immigrati non mangeremmo più neanche la carbonara”. “Hai ragione, se tutti assaggiassero questa carbonara nessuno più sarebbe contro gli stranieri”. Ridendo ci allontaniamo. Forse il peggio è passato: finalmente Giovanni si è fatto una risata.

Luisa e Giovanni “Un quartiere popolare. I tuoi compagni di partito in genere preferiscono costosissimi palazzi del centro storico”. 134


“Non discuto le scelte degli altri. Io sono come sono e mi trovo molto bene qui. Era l’appartamentino di mia nonna, la mamma dell’idraulico. A pochi passi da casa c’è ancora il mercatino rionale. La mattina scendo e anche se non devo comprare nulla faccio quattro chiacchiere con la signora Assunta che vende le uova. O con Rosalba dei fiori. O con Mario del pesce. Mi aiutano a restare con i piedi per terra. Col nostro lavoro rischi sempre di perdere il contatto con la realtà. Anche col tuo, no?” “Sì. Spesso finisci per vedere solo gli intrighi di palazzo. Ma io ho vissuto troppo tempo con due lire per poter perdere il buon senso. Siamo arrivati. Lasciami dire che è stato un piacere”. “Anche per me. Ci sentiamo, e grazie per la cena e la compagnia”. “Figurati, aspetta a ringraziare quando avrai letto...”, scherza, ma ha una luce maliziosa negli occhi scuri e profondi, che non promette niente di buono. Inch Allah penso, mentre i miei di occhi si chiudono per l’effetto combinato di vino, carbonara e stanchezza. Eppure non posso ancora dormire, devo chiamare Corradi, che me l’ha chiesto esplicitamente. “Pronto, maestro? Scusa l’ora ma sono tornata soltanto adesso. Non so valutare come sia andata, ma non mi sembra di aver detto nulla di sconveniente”. “Ti ha chiesto qualcosa dei tuoi rapporti con gli altri dirigenti, col segretario?” “Battute. Nulla di specifico mi sembra. Però, devo confessarti, sono talmente stanca...” “Vai a letto allora, e domattina, appena arrivi al partito, sali da me. Io sarò già lì”.

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X

Nei miti della creazione dei Nativi americani Coyote compare nelle vesti del creatore stesso. Alcuni politici a volte si sentono Dio, ma non hanno la sua clemenza.

Luisa Maledico Mohammed e la sua carbonara. E me stessa per tutto il casino che ho combinato: ritardo, senso di colpa, scelta di un piatto sbagliato... La mattina arriva con un carico di mal di stomaco e mal di testa, e il pensiero di ciò che m’aspetta aumenta il macigno sullo stomaco. Mi guardo allo specchio. Faccio la smorfia che mille volte ho visto fare a mamma: tiro fuori la lingua per vedere se ha la patina biancastra da cattiva digestione e fegato stressato. Infatti. Una tazza di acqua calda con una buccia di limone è l’unica cosa che sopporto quando mi alzo in queste condizioni. Mi sento uno straccio e mi vedo come uno straccio strizzato da poco: colorito grigiastro e aspetto stropicciato. Mi ucciderò andando avanti così. Come in quei film francesi, ma quelli almeno morivano da gourmand, io morirei di carbonara, non è neanche fine. Forse ha ragione Mara, è il momento di dare ordine alla mia vita, 136


farmi una famiglia e stare a casa la sera a mangiare minestrine coi figli. Scuotendo la testa sciolgo i capelli che il mollettone non riesce a trattenere: “Prima la nomina, poi si vedrà”. Il telefonino vibra. È un sms: dice che è stato mandato all’una e quarantacinque. Incredibile, il gestore telefonico l’ha recapitato sei ore dopo: “Buona notte. Sono stato benissimo. Peccato non mi hai detto nulla di sconveniente! Giovanni”. Carino il ragazzo, ha del garbo. Oppure è un sadico che m’illude per poi darmi una mazzata con l’articolo? Anche col dubbio il messaggio migliora il mio umore. Arrivo al partito. Un’occhiata ai giornali prima di andare a rapporto da Corradi, e poi chiamerò Lorenzo che m’ha cercata a raffica. Acque agitate, evidentemente. Fidarsi del verme mai più, ma sapere cosa vuole può essere utile. Attacco i quotidiani di malavoglia: da quando so che qualcuno potrebbe scrivere di me ho una certa resistenza alla lettura. Non ci posso credere, ululo sola nella stanza. Come i ghetti ebrei dell’antichità, come a Berlino dopo la guerra, come in Palestina con Sharon: a Prato il comune ha alzato un muro. Pannelli d’acciaio su un basamento di cemento. La barriera è alta tre metri e lunga ottantaquattro intorno a due caseggiati in via Soriano, il quartiere degli immigrati. Me lo sentivo che lì sarebbe successo qualcosa: ci sono stata due mesi fa. Sono tornata sconvolta, dicendo al segretario: occupatene in prima persona, lì c’è una bomba a orologeria. Inutilmente. Eugenio aveva fatto spallucce e nascondendo il cinismo sotto quella che secondo lui è saggezza politica: “Ti preoc137


cupi troppo. Abbiamo dei capaci amministratori, lascia che se la sbroglino loro”. Aggiungendo: “Quella degli immigrati è una faccenda molto delicata: se va bene non porta voti, se va male te ne leva a quintali. È un pannolino intriso di merda, come lo tocchi ti sporchi le mani e ne schizzi ovunque”. Una risposta chiara, di quelle che lui normalmente evita. Dunque ecco perché mi ha lasciato scorrazzare: se le mani me le sporco io, a lui che gliene frega. In quel momento ho deciso di cambiare settore. Non sono il paria di Sinistra Unita, trovino qualcun altro per il gioco del pannolino. Ma la mobilità nel partito è a incastri. È veloce solo se fai molto male o pesti piedi molto influenti. In tutti gli altri casi è lentissima e comporta il movimento di un’intera catena: quelli che avranno vantaggi e quelli che resteranno fregati. Così, nonostante le sue dichiarazioni e le mie intenzioni, ho continuato a occuparmi della sfiga del mondo, del pannolino merdoso. Sono stata stupida: avrei dovuto capire allora che tipo è Eugenio e quanto scarsa fosse la sua considerazione per me. Un uomo sleale, degno compare del verme. In coscienza forse io non potrei parlare di coerenza e di lealtà. La mia coerenza non ha retto alla prima prova. Io e Marco eravamo studenti, pieni di speranze, pieni di entusiasmo e di illusioni. Un po’ gradassi, molto generosi. Sempre insieme. Il partito ci guardava con interesse. Io non ero convinta di uscire dal movimento. Ma il segretario della federazione ci lusingava. Ci diceva: non importa se non avete la tessera, venite a vederci da vicino, magari ci piacciamo a vicenda. 138


La prima volta che l’ho tradito l’ho fatto quasi senza accorgermene, con naturalezza. Ero sola quel giorno, Marco non c’era non so come mai, eravamo inseparabili. Il segretario provinciale mi dice: “Uno di voi due può rappresentarci in una grande convention internazionale. Ci saranno i segretari dei partiti di tutta l’Europa, un buon modo per conoscere e farvi conoscere. Chiedi a Marco, parlatene. Decidete voi chi partirà”. “Che gliene parlo a fare”, gli dico di botto. “Scegli me. Sono già stata all’estero, mia sorella vive a Bruxelles fino al mese prossimo, mi faccio ospitare da lei e il partito risparmierà l’albergo. E poi”, aggiungo subdola, “Marco non ha neanche il passaporto, non parla le lingue, inutile chiederglielo”. Il segretario mi guarda e commenta: “Sì, sei il tipo giusto per competere. Lasciamo stare Marco, ha troppo buon carattere”. Lo amo come un fratello, ma fra lui e la carriera non ho esitato: non si può ottenere qualcosa di grande senza sacrificare qualcuno. Sono andata. Tornando gli ho portato un orribile oggetto: l’Atomium formato 10 per 10, come una turista qualunque. Via Soriano entra a pieno titolo nella categoria pannolini sporchi, ed è un luogo indimenticabile per chiunque. Non c’era ancora il muro quel giorno. Ma c’era già tanta sofferenza. Ero entrata nel quartiere con Alì, un giovane egiziano, tipo sveglio, ragioniere al suo paese, pizzaiolo da noi, che fa politica e si batte come un leone per i diritti degli immigrati e perché la gente capisca la loro condizione. 139


Alì m’aveva avvertita: “Ti porto a vedere l’inferno dall’interno. Non ti piacerà”. Si era fermato davanti a un portoncino stretto cercando con gli occhi il mio consenso. Scesi pochi scalini, due o tre al massimo – il tempo di abituare gli occhi alla semioscurità, e il naso a un odore insopportabile – quello che si era presentato davanti a noi era uno spettacolo orrendo e difficile da descrivere. In un unico locale di cento metri circa, un gran mucchio di persone aveva diviso gli spazi in un tentativo di convivenza. I ricchi che potevano permettersi il séparé avevano appeso un qualunque pezzo di stoffa lurida a un filo steso tra un pilastro e l’altro. I più non avevano nulla per delimitare lo spazio di un metro tutto intorno al letto: il loro spazio. Moltissimi i letti: il colpo d’occhio non bastava a contarli. Un unico lavandino di acqua fredda per le pulizie personali e delle stoviglie. Accanto a ogni letto o gruppo di letti, sacchi e sacchetti di plastica, residui alimentari e un fornellino acceso per più e più ore al giorno. Infatti ogni letto serviva due turni di sonno. Giovani adulti, perlopiù della stessa etnia, dividevano il giaciglio ma non la spesa. Perché il proprietario del locale, un italiano senza coscienza, affittava il letto a turni. Ogni turno gli fruttava trecento euro al mese. Il gabinetto era uno solo, come il lavandino. Ogni religione ha le sue esigenze alimentari, e ogni etnia le sue abitudini. Ecco perché tanti fornelli. Il risultato era una puzza stantia e mista di aglio, zenzero, curry, spezie fortissime, che restava pesante in sospensione nella poca aria di quel posto senza finestre e con una sola porta, impregnando gli abiti, le lenzuola e ogni altra cosa. Lo stesso proprietario del locale era anche il fornitore di ombrelli, fazzoletti, accendini, insomma la merce che i 140


poveretti erano costretti ad acquistare da lui che così lucrava ugualmente sul loro lavoro e sul loro riposo. Finito il turno di sonno gli inquilini-venditori sciamavano per le strade con la mercanzia. Mentre il padrone di quella casa indecente stava comodo ad aspettare di riscuotere. Appena uscita avevo cominciato a respirare a pieni polmoni per ributtare indietro il senso di nausea che mi aveva stretto lo stomaco. “Sono contento che tu abbia visto con i tuoi occhi”, mi dice Alì portandomi via. “Come possono accettare questa vita?” “Qui stanno meglio che a casa loro, e comunque hanno impegnato risparmi e i prossimi tre anni di lavoro per i visti, il viaggio. Tutti s’illudono di fare fortuna, come gli amici e parenti tornati indietro con i soldi per comprare casa e mantenere tutta la famiglia. Ognuno racconta il proprio successo, nessuno racconta cosa gli è costato. E poi l’Italia è lontana, molti guardando la tv di là dal mare pensano che la gente viva come negli spot, o nelle trasmissioni tutte lustrini, belle donne, premi facili. Non ridere, purtroppo è così. Ti ho mostrato una situazione, ma non è la peggiore. La peggiore vieni con me e la vedrai”. Pochi metri e arriviamo a uno dei ponti sul Bisenzio, quasi nella periferia cittadina. Ci affacciamo. C’è un incredibile numero di persone, tutti giovani uomini, nascosti agli occhi dei passanti. Stanno accalcati a contendersi un posto sotto l’arcata, che li ripari un minimo dall’umidità, tutti nello stesso verso come le barche allineate dalla corrente nel porto, come le bare quando i soldati morti tornano a casa. Sono di età indefinibile, fra i venti e i quaranta, circondati 141


da stracci e sacchetti di plastica. La povertà, la miseria, la mancanza di pulizia quotidiana e di pasti caldi regolari rendono difficile individuarne l’età precisa: sembrano tutti vecchi. Ma non lo sono, non possono esserlo: se non si è giovani e forti e determinati non si può resistere a certe condizioni. Eppure, cercano di mantenere una qualche dignità. Hanno accanto tutte le loro cose, dai vestiti di ricambio a una copia di vecchi giornali, qualche scatoletta: il loro kit per la sopravvivenza. Si sente il fiume che scorre abbastanza placidamente sotto di loro, anzi accanto a loro. Alì spiega: la cosa peggiore è quando dal fiume, attratti dall’odore, salgono dei topi giganteschi. Perciò, e per difendersi dai razzisti e violenti di vario genere, dormono a turni, mentre altri fanno la guardia. Quando ci riescono mangiano un piatto caldo alla Caritas o da suor Teresa di Calcutta, e si vestono grazie alla carità di qualcuno. Quando i vestiti sono troppo sporchi li buttano. I vestiti glieli regalano, lavarli costa. Ero senza parole. Con quelle immagini negli occhi. E quegli odori. E pensieri amari: la vita è la lotteria degli spermatozoi. Nasci dalla famiglia giusta nel paese giusto e sei salvo. Nasci nel posto o nel momento sbagliato, e sei condannato. Pietà e rabbia si fondono. L’indifferenza degli altri è un vero tormento. Torniamo in via Soriano. Gli appartamenti erano nati per essere affittati agli studenti universitari a un prezzo assolutamente più caro del loro valore, ma alla portata di ciò che le loro famiglie stanziavano per farli studiare. Accessibili quindi anche a nuclei numerosi e poveri. Più poveri dei 142


poveri sono gli extracomunitari poveri, gente per bene e gente per male, lavoratori e spacciatori, lavoratrici e prostitute. Un campionario umano insediatosi alla spicciolata. Tutti un po’ alla volta hanno trovato in via Soriano una casa, un luogo per i loro affetti, per i loro affari, a volte leciti, a volte no. Attratti dal basso costo e dal richiamo dei loro simili. Oggi sono più di mille. Fra loro, come spesso accade, una minoranza prepotente e urlante soffoca le aspirazioni della maggioranza perbene, silenziosa e impaurita. Risultato: una situazione certamente insostenibile per i vicini italiani e per gli extracomunitari onesti. Avevo provato a parlare con il sindaco, che mi aveva ricevuta per pura educazione di partito. Nessuna apertura, nessuna concessione, “Io ho il dovere di pensare innanzitutto ai cittadini di Prato”, aveva detto. “Le questioni umanitarie vengono dopo”. No, Pieri non mi era piaciuto, superficiale e arrogante. Un trombone. M’aveva liquidata con una raccomandazione: fatti gli affari tuoi. Avevo replicato che in una comunità se una parte sta male anche l’altra ne risentirà. Poi avevo taciuto. Se c’è una cosa che ho imparato a decifrare all’istante, sin da bambina, è la natura di ogni interlocutore. Pieri è impermeabile a ragione e sentimento, capisce solo i rapporti di forza. Meglio risparmiare le energie per il segretario: ci penserà lui a convincerlo. Con Eugenio non era andata meglio. Ricordo ancora il suo sorriso di sufficienza al mio racconto. Di fronte alla mia indignazione aveva scosso le spalle come a dire: ti rendi conto che ho cose più rilevanti di cui occuparmi, ricordandomi il discorso del pannolino. Liquidata anche da 143


lui. Con una raccomandazione differente: scegli nemici alla tua portata. Pieri non lo è. Inutile controbattere, Eugenio è sordo quando non vuol sentire. Oggi, a distanza di un mese da quella visita, mi parla di emergenza. La soluzione invece non gli era chiara allora e non gli è chiara nemmeno oggi. Un muro d’acciaio. Per nascondere il problema. Per non infastidire i bravi cittadini di una città ricca in uno stato ricco e senza pietà. Se potesse la sera il sindaco li chiuderebbe tutti dentro col catenaccio, liberandoli la mattina per farli lavorare. Poi si stupiscono quando la rabbia fa perdere la testa alla gente e scatta la ribellione. Qualcuno pensa che un muro sia una difesa, per me è un’offesa. Qualcuno pensa che lo difenderà dai malintenzionati. Io penso a tutto quello che mi impedisce di vedere. La natura e la gente con le sue speranze e le angosce. Le fragilità e le grandezze. Il muro è un’offesa alla mia vista. Il muro era un no detto da mio padre quando ero piccola. Oggi è un rifiuto ingiusto, come quello di Eugenio. Un muro è quel buco nero che inghiotte le persone care quando muoiono. Un muro è un ostacolo fra me e la felicità. Detesto i muri. È arrivato il momento di affrontare Corradi e riordinare le idee. Sono ancora sotto shock per quello che ho letto. “Posso?” “Vieni, vieni. Sono curioso”. “Non so dare un giudizio sulla serata: ho i nervi a fior di pelle e un nodo allo stomaco. Quei poveretti di Prato...” 144


“Il sindaco sì è un poveretto, stretto fra i benpensanti e quelli come te. Mi fa piacere che tu senta disagio. Quando ti dicevo che bisognerebbe far entrare solo le persone che siamo in grado di accogliere in modo conveniente, a questo mi riferivo. Ma capisco che la demagogia è più attraente. Dimmi di te”. Il riferimento alla nostra prima discussione è chiaro. Corradi è in grado di farmi sentire una stupida senza insultarmi. Non è il momento di controbattere, adesso devo riportargli fedelmente l’incontro con Mustacchi. “Che dire? La serata è iniziata con difficoltà, ma non mi sembra sia finita male”, e decido di fargli leggere l’sms del giornalista. Il maestro sorride sornione e mi guarda come se volesse leggermi nel cervello: “Se non hai fatto nulla di sconveniente mi sembra che la cosa sia andata bene. Forse è meglio che io faccia una telefonata al direttore per garantirmi che il pezzo esca. Visto che, a quanto mi sembra di capire, non sarà poi così cattivo. Resta qui e ascolta in silenzio”. Compone il numero dal suo cellulare. “Carissimo Enrico. Ma quando uscirà il pezzo su Luisa Alunni? Domani? Ti conviene. Sai, oggi con questa questione del muro... lei è quella che più di tutti si è occupata dell’emigrazione, per noi. E credo stia anche preparando una campagna su questo tema. Sì, il muro è una nefandezza, il risultato di politiche sbagliate: troppo permissive da una parte e troppo restrittive dall’altra”, il direttore dice qualcosa che non posso sentire, ma Corradi continua, rispondendogli: “è un tipo intrigante. A volte sembra un soldatino obbediente, poi d’improvviso scatta e non si trattiene più. Sì, tienila d’occhio, è una che farà carriera e a me tutto sommato non 145


dispiace. Siamo pieni di zombie, lei almeno è viva. Non posso dire che sia nella mia squadra, ha delle posizioni troppo radicali, ma vedrai che crescendo ci ripenserà. Ciao, stammi bene”. Mi guarda evidentemente soddisfatto: “Ecco, anche se hai fatto qualche sciocchezza dovrei aver rimediato. Verrà ben collegato al pezzo su Prato che, a meno di nuovi sconvolgimenti in Medio Oriente, avrà ancora un bello spazio in prima”. “Come fai a saperlo?” “Non puoi fare politica se non sai pesare tutti gli elementi. E l’informazione è uno dei più importanti”. “Tu non la analizzi, la manipoli”. “Quello che scambi per manipolazione è semplicemente il mio modo di condurre il gioco – gli scacchi, ricordi? – su più tavoli e con più tattiche, come i campioni. Non manipolo, dispongo i pezzi e stabilisco la strategia. L’altro ha piena libertà di scegliere come contrastarmi. Se non è all’altezza, che c’entro io? Manipoli quando inventi fatti o prove che non esistono, ma io ho sempre giocato corretto. Certo, come protagonista della politica sono anche una fonte di fatti, non li invento, al più li creo”. “Come la trappola del bar...” “Per carità, non andiamo su sciocchi dettagli. Non ho indotto nessuno a parlare”, e ridendo sotto i baffi aggiunge: “semmai qualcuno ad ascoltare. A dopo, ora ho da fare”. Non sono ancora disposta ad andarmene: “Se lasciamo questa faccenda di Prato in mano al segretario che succederà?” “Hai ragione. Farò in modo che ci chiami per una riunione. Ora davvero lasciami lavorare un po’”.

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Luisa e Giovanni Passo il resto della mattinata a leggere articoli e documenti e a pensare a come uscire dall’impasse del maledetto muro. Il segretario non c’è, tornerà a ora di pranzo, ho lasciato la chiamata. In questo momento Mustacchi starà scrivendo e mentre ci penso mi viene una nuova botta di gastrite. Per Corradi è un gioco, per me molto meno. Ne va della mia carriera. Decido di ignorare il mal di stomaco e chiamare. Dal tono della voce capirò il tono dell’articolo. Forse. “Giovanni? Sono Luisa. Non voglio sapere cosa scrivi ma chiederti ancora scusa per ieri sera. Sono stata imperdonabile. Ora che il panico mi è passato confesso: ero così in ansia al pensiero di incontrarti, e che mi avresti trovato insopportabile e sciatta, come già avevi notato, che lo stress mi ha fatto addormentare davanti alla tv, e meno male che mi hai telefonato. Altrimenti non sarei proprio arrivata, mi sarei svegliata stamattina e pensando a ciò che avevo combinato sarei emigrata in un altro continente”. L’ho detto tutto di getto, senza riflettere o aspettare che lui risponda. Per fortuna lo sento ridere: “Prendi fiato. Mi dispiacerebbe fare di te un’emigrata... di questi tempi. La tua confessione mi fa piacere. Ero molto indispettito: pensavo che fossi rimasta impigliata in chissà quali faccende mega, e che il povero cronista non meritasse neanche di essere avvertito. Sono contento di sapere che sei umana, col sonno e la fame e tutto il resto. Comunque, a parte l’attesa, sono io che ringrazio te. Mi hai fatto scoprire una donna interessante”. “Guarda, di me pensa ciò che vuoi, ma l’idraulico mi ha dato un’educazione rispettosa del prossimo. Se capiterà di 147


vederci ancora, sappi che solo un gravissimo impedimento o un sonno profondo possono impedirmi di essere puntuale. Comunque grazie a te. Sono stata benissimo. Domani ti leggo e poi ti chiamo”. “Se il pezzo ti piacerà, altrimenti non telefonare per insultarmi. Chiama quando sei pronta per portarmi a cena. Come uomo, e non come giornalista. Ti vesti da pantera e andiamo da Cesarone che è rimasto molto colpito da te. Ciao”. Il tono è abbastanza amichevole. Ma non c’è da fidarsi, è un carrierista a cui hanno chiesto un pezzo maligno. Farà quello che gli hanno commissionato fregandosene di me. Poi penso ai suoi occhi, castano scuro color liquirizia, profondi e non cattivi: non è possibile che sia così perfido come dicono. Inutile pensarci ancora. Meglio concentrarsi sul muro d’acciaio. Devo essere pronta quando il segretario mi chiamerà. Sia per impedire al verme di farsi avanti. Sia per evitare che il partito abbracci ricette sciagurate.

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XI

Il coyote non ha memoria. Il politico ha memoria di amici e nemici. Le cellule del nostro corpo hanno memoria del dolore.

Luisa Spesso mi tornano in mente voci e volti delle donne di via Soriano. Con il loro carico di ansie personali, la preoccupazione per il presente e il futuro dei figli, dei mariti e degli anziani. Le donne con il loro carico di umanità. Con la giornata terribilmente faticosa sulle spalle, come badanti di vecchi astiosi per la malattia e la solitudine o collaboratrici di famiglie che neanche le vedono. Donne che alla fine di una giornata estenuante preparano un piatto caldo per il marito che ogni giorno ha una ruga in più. Facce come rami di ulivo, dure ed espressive come rami di ulivo. Anime forti e generose come l’ulivo che non si piega e non si spezza, ma muore solo col gelo. Una caramella per il più grandino, una carezza per il più piccolo che è stato troppe ore senza madre e padre in un posto che non li ama. Le donne con la loro richiesta di una vita normale e di speranza.

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Le donne. Mio padre faceva finta di disperarsi: tre donne in casa! Ma sotto sotto era contento di non avere la concorrenza di un altro maschio. Credeva nella parità. Ma soffriva un po’ della grande personalità della mamma. Lei era il centro del nostro mondo. Non del mondo domestico, anzi forse di quello il vero centro era lui. Ma per tutto il resto era inarrivabile secondo noi tre: mio padre, mia sorella e io. Era forte perché credeva nella forza delle donne, nella tenacia delle donne, nella sensibilità delle donne. La sua forza era nella ragione, ma soprattutto nella convinzione che un mondo migliore bisogna prima di ogni cosa volerlo. Nei momenti peggiori, più bui, non l’ho mai vista scoraggiarsi. Mia madre era forte come la terra. Mutevole come il mare. Con l’energia di un vulcano spento che non butta fuori distruzione ma buone correnti calde e curative. Mia madre aveva una personalità che prescindeva da ciò che faceva. Si imponeva con un sorriso o uno sguardo. Pochi minuti, alcune frasi e l’attenzione degli altri era per lei. Aveva un fascino indipendente dalla bellezza. Ed era anche bella. Non carina. Non graziosa. Proprio bella di quella bellezza che viene da dentro e illumina i lineamenti. Mia madre era invincibile e diceva che una donna non ottiene solo ciò che non vuole: non c’è nulla che una donna non riuscirebbe a fare per uno qualunque dei suoi figli. Smuoverebbe le montagne e rivolterebbe i governi, sconfiggerebbe i generali. Se un figlio chiama, una madre c’è sempre, diceva lei. Le donne sognano la perfezione e l’armonia. Sognano di piacere ed essere compiaciute. I conflitti, il sangue di cui è fatta la politica non piacciono alle donne. 150


Lei invece era una brava politica. Molto molto più brava di papà, che amava piuttosto discutere, era a suo modo un comiziante. Al primo incontro tutti prendevano a riferimento lui: così brillante, capace di fulminare l’avversario con una battuta e di avvolgerlo nei suoi ragionamenti. Dal secondo in poi lei era vincente, a volte suo malgrado: per l’equilibrio interno alla coppia avrebbe volentieri lasciato a lui la scena, ogni tanto. Il marito, il compagno di una vita, un po’ era orgoglioso di lei e un po’ soffriva. E si sbracciava e urlava per contestarla. Subiva il suo fascino come il primo giorno. Non era più la biondina che l’aveva folgorato. Ma era la donna che l’aveva definitivamente conquistato. Nessun’altra reggeva al suo confronto. Di una sola cosa aveva paura, per modo di dire. Temeva i deboli. Alle volte lo diceva ridendo. Altre volte lo diceva serissima, l’umore dipendeva dagli incontri della giornata: se torno a nascere farò la svenevole, la damina bisognosa d’aiuto. Ricordatevi, figlie mie, di guardarvi dai deboli. Con la scusa che non ce la fanno, che il mondo è troppo cattivo e duro per loro, ti risucchiano in un vortice. Ti dicono o ti fanno capire che sono venuti al mondo per essere protetti e proteggerli è un tuo compito. Ti succhiano ogni energia con la scusa che non ce la fanno e devono appoggiarsi a te. Ti spremono come un limone dandoti l’opportunità di dimostrare la tua bontà d’animo, la tua efficienza. Ti eleggono a paladino della loro causa, tanto tu sei forte, e così facendo la tua forza nutre la loro debolezza. Si placano solo quando sei diventato troppo debole per soccorrerli. Sì, i deboli sono devastanti. Un po’ del suo spirito ha resistito anche alla malattia che l’ha devastata, resa irriconoscibile, deturpata e uccisa, ma non del tutto sconfitta. 151


D’improvviso l’idea prende corpo. Quando si pensa agli immigrati si pensa agli uomini: gli invasori, i guerrieri, il pericolo. Le donne al contrario sono l’accoglienza, il sostegno. Mobilitare loro contro l’ottusità del sindaco e la crudeltà dei delinquenti, questa è un’idea. Chiamo Giustina, un passaggio obbligato: è la responsabile femminile, non posso scavalcarla. “Scusa Giustina, c’è una rete di donne a Prato?” “Non forte come in altre zone della Toscana, ma sì. Perché?” “Mi è venuto in mente... devo sapere se vuoi aiutarmi”. “È già la seconda volta in due giorni che mi chiedi aiuto. Che ti succede?” Le spiego per sommi capi. L’altra non si sbilancia a parte un mugugno che potrebbe anche essere di approvazione. Comunque decido di prenderlo come tale: “Parlo col segretario e se lui mi dà il via ti richiamo subito”.

Luisa e il segretario Il segretario è tornato. Ma ancora non telefona. Ho bisogno di parlargli al più presto, perciò salgo senza preavviso. Ho fortuna: Giuseppina è andata a mangiare. Niente pretoriani, niente anticamera. Busso ed entro. “Buongiorno Eugenio. Ho l’idea che cercavi: sarà una forte campagna d’opinione, e un modo di arginare il fattaccio”. “Quale fattaccio?” “Il muro di Prato, ovviamente. Roba da fascisti”. “Non ti consento di parlare così di un compagno come Pieri”. 152


“Davvero sono l’unica a pensare che quel muro non ha nulla da spartire con la nostra storia?” “Siamo un partito nuovo, non capisco perché una giovane come te debba sempre guardare al passato. Dobbiamo rispondere al presente, che è fatto di problemi troppo seri per la demagogia. E costruire un futuro migliore...” Il comizio no. Non lo sopporto. Perciò lo interrompo col mio tono più conciliante: “Non sono venuta a disturbarti per discutere di presente o di passato, anche se spero che prima o poi ce ne sarà l’occasione. Ti porto un’idea. Le donne non fanno paura. Organizziamo le immigrate che formino insieme alle nostre compagne una catena umana intorno al muro di via Soriano. Ne chiederanno l’abolizione, assieme a un’azione decisa per punire i delinquenti. Abbracceranno l’isolato sotto la protezione della polizia e la lente dei media per tre giorni, costringendo così gli spacciatori a disperdersi e andare da qualche altra parte. Che ne pensi? Dimmi di sì, ti prego. Organizzo tutto io, ma tu dimmi di sì”. Mi guarda con aria stupita e un po’ divertita: “Vedo che hai preso a cuore un’altra causa persa. Questo è tipico di te. E cosa pensi che risolva la catena femminile, ammesso che tu riesca a farla?” “So che è una cosa complicata. Ma voglio provarci: con la catena di donne richiameremo l’attenzione dei media, le dirette tv, tutto scoraggerà e metterà in fuga gli spacciatori. E convincerà l’amministrazione a fare qualcosa di concreto e più umano. Ti prego, Eugenio, fammi tentare. Non sopporto che un nostro sindaco faccia concorrenza alla destra xenofoba. È un anno che mi tieni a far nulla studiando questi problemi. Ora dammi credito”. 153


“Pensavo che tu volessi abbandonare gli immigrati al loro destino e a un altro dirigente. Che concentrassi ambizioni ed energie nel diventare portavoce, ma chi ti capisce. Se vuoi provaci. Naturalmente se Corradi è d’accordo. E la campagna d’opinione che ti ho chiesto?” “Se la mia azione riesce, in pratica una campagna d’opinione l’avremo già cominciata. Si intitolerà Fermezza e solidarietà”. “Se non riesce, se mancherà anche una sola donna per chiudere la catena, ti e ci coprirai di ridicolo fino allo stomaco. Hai pensato anche a questo?” “Chi non risica non rosica dice mio padre, l’idraulico”. Ho lanciato la frecciata di proposito per troncare la discussione. Eugenio alza le spalle e bofonchia “come vuoi”, chiama Corradi e gli chiede di raggiungerlo. “Arriva. Hai alcuni minuti a disposizione per trovare argomenti che convincano quel gran rompiballe, perché su questa materia se lui dice no, io non posso oppormi e tu diventerai la barzelletta del palazzo”. Evidentemente Eugenio non sospetta del nuovo legame fra me e Corradi, o forse sì e mi provoca apposta. In ogni caso io non reagisco. Mi appoggio comodamente allo schienale della sedia e inizio a pensare alle parole da usare per fargli capire, senza dirglielo, che parlando con il segretario non intendevo mancare di rispetto a lui. Corradi arriva e si siede senza aspettare l’invito del segretario. Mi guarda interrogativo e non mi rivolge la parola. Eugenio inizia con prudenza.

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“Luisa ha avuto un’idea che potrebbe rispondere all’esigenza di cui parlavamo prima io, te e Lorenzo. Luisa, spiegala tu stessa al compagno Corradi e sii concreta”. Non mi faccio condizionare né dal suo sorriso scettico, né dalla faccia di sfinge di Corradi. Anzi, parlo rivolgendomi esclusivamente a lui e concludo guardandolo diritto negli occhi: “Ti prego, lasciami tentare. Sono stata a via Soriano, è durissima... Non condanniamo quei poveretti a uno stato di polizia. Non se lo meritano e non ce lo meritiamo”. Passa qualche secondo, lungo e pesante, poi Corradi finalmente parla con voce bassa e dura, guardando alternativamente il segretario e me: “Sarei tentato di dirti di no: io sono il responsabile e tu mi hai scavalcato. Ma siamo in emergenza, perciò d’accordo, proviamoci. Però d’ora in poi lavorerai a stretto contatto con me: non voglio essere trascinato nel ridicolo. Già vedo i titoli dei giornali: Sinistra Unita manda allo sbaraglio un gruppetto di donne contro le pallottole degli spacciatori”. “Non li leggerai”, lo interrompo, “perché titoleranno: Sinistra Unita abbandona la linea repressiva e sceglie le madri coraggio”. “Non sarà facile. E ti avverto, non sopporto le persone sleali e approssimative. Dal momento che il segretario è d’accordo andiamo da me e iniziamo a lavorare”. Uscendo abbassa la voce ancora di più: “Eugenio pensa di aver dato una doppia fregatura: a me, mollandomi una gran gatta da pelare e una pivellina per aiutarmi. E a te perché ritiene che ti rovinerai con le tue stesse mani. Vedremo. Cerchiamo di capire su quali forze possiamo contare. Visto che l’input viene dall’amato boss magari Giustina si convincerà ad alzare il telefono”. 155


Ho un momento di esitazione, Corradi si arrabbierà di nuovo: “Se pensi alle donne del partito, poche chance, mi sembra. Gliel’ho chiesto prima dell’ok del segretario”. “Non è poi un grave danno. Non più grave di quello che provochi sovvertendo l’ordine gerarchico ogni cinque minuti. Non voglio ripeterlo: lealtà e precisione”. La giornata prosegue meglio di come è iniziata: per la prima volta dopo tanto tempo ho un incarico concreto, posso realizzare una mia idea, e con le spalle coperte dalla grandissima esperienza di Corradi. Ogni tanto lo guardo di sottecchi e osservo il suo modo di lavorare metodico, quasi maniacale, eppure con un guizzo di divertimento negli occhi. Raccoglie i documenti, li legge e li analizza. Li commenta facendo delle note a margine con una penna rossa e una scrittura ordinatissima, minuta e decisa. Poi ci torna ancora su e chiede a me di annotare le telefonate da fare, le persone da contattare. Alla fine risulta un piano d’azione al quale aggiunge date e priorità. Le ore passano senza che me ne accorga o ne senta il peso. Corradi ha voluto la rassegna stampa degli ultimi giorni sull’emigrazione, poi tutti i documenti politici prodotti negli ultimi tre mesi sul tema. Mentre li studia compila tre fogli. Sul primo, con la solita grafia aguzza e a tratti stranamente curva scrive: attori. Su un altro: compartecipi. Sul terzo: avversari. Me li mostra e spiega che gli attori sono quelli che devono acconsentire, altrimenti non se ne fa nulla. I compartecipi garantiscono il potenziale successo perché aderiscono solamente se fiutano aria di vittoria. Gli avversari, be’, non c’è nulla da spiegare, vanno semplicemente neutralizzati. 156


Mi sembra strano non averlo praticamente conosciuto fino a pochi giorni fa: ha un modo di essere che ti entra dentro. Mi starà plagiando? Misuro la differenza con tutti coloro che conosco e con i quali ho lavorato. Sono fiera di essere in squadra con lui. Poi, d’improvviso, mentre faccio questi ragionamenti ho un sussulto: e se fosse tutto un tranello? Chi mi garantisce che non mi stia conducendo a grandi passi verso il baratro? Nessuno. Devo fidarmi. L’uomo è impenetrabile, eppure così diretto. Non è buono, ma è il contrario di cattivo, il contrario di maligno, non mi viene l’aggettivo per definirlo. Contenuto e passionale. Un uomo davvero speciale, di fronte al quale gli altri dirigenti del partito diventano sagome su uno sfondo. “Chiama Giustina. Per quanto sgradevole e inconcludente è necessario. E devi farlo tu”. “In quale foglio la scrivi?” “Nel numero due spero. Ora hai un’arma in più. Se non collabora è come se dicesse no a Eugenio. Faglielo pesare”. “Ma se collabora dice no a Mara”. “Non è un problema nostro. Se invece non la chiami quello diventerà un problema per noi”. “A te non direbbe di no”. “Lascia a me le questioni più grandi, e sbrigati il resto da sola. Ricorda, io non sono tuo padre. D’altronde non so aggiustare cessi”, lo dice ridendo, una chiara presa in giro del segretario. “E un’altra cosa, se saprai fare bene la portavoce della nostra iniziativa, potrai candidarti di diritto al ruolo di portavoce tout court. Non credi?” Sì, lo credo, lo credo. Anche se l’idea di lavorare fianco a fianco con Eugenio non è più così attraente. La giornata 157


si conclude con un’enorme mole di carte catalogate, e tutti gli scacchi sulla scacchiera. I miei genitori dicevano che gli oggetti si rompono e se sono preziosi qualcuno può rubarteli, invece i ricordi non può prenderteli nessuno e ti accompagneranno tutta la vita. Sono i più bei regali che un padre e una madre possano dare ai figli. Perciò a casa mia non c’era l’abitudine ai regali per compleanni e feste comandate. In quei giorni facevamo insieme delle meravigliose gite o passeggiate o visite. Costruivamo ricordi felici. Fino al giorno in cui ero tornata a casa in lacrime. Mamma mi aveva chiesto perché, chi mi aveva fatto piangere e io le avevo risposto: Giulia ha compiuto gli anni e i genitori le hanno regalato una bambola. E perché piangi?, dovresti essere contenta per lei. Ma io non ho mai regali al mio compleanno. Mamma mi aveva abbracciato forte forte e mi aveva detto: non è il consumismo che può farti felice. Ma io non voglio il consumismo, avevo sette anni, e pensavo che il consumismo fosse un oggetto a me sconosciuto. Voglio il Lego! Andò così che mamma e papà fecero un’eccezione e a Natale mi regalarono il Lego. La sera a tavola spiavo l’espressione di papà, notavo se guardava l’orologio, segno che sarebbe uscito, oppure no. Che festa se restava a casa: lo tiravo giù per terra e passavamo le serate insieme con i mattoncini di plastica colorati. I miei preferiti erano quelli bianchi, a lui invece piacevano i rossi. Il rosso è sempre stato il suo colore. Mi diceva: dai, giochiamo a costruire la Casa del popolo. Ero affascinata dalla sua meticolosità, dall’ordine mentale che usava. Diceva che se uno fa qualcosa, qualunque cosa, anche gio158


care, deve farla al meglio. Sotto le sue mani vedevo nascere casette, fabbriche, ma anche animali e robot. L’atteggiamento di Corradi, la sua cura nel costruire l’azione politica dalle fondamenta, mi ricordano proprio quelle serate con mio padre. I miei sensi sono tesi, sono emozionata, quasi commossa, Corradi è una sorpresa da ogni punto di vista. E poi, per la prima volta da tanto tempo, mi sembra di aver rimpiazzato il grande vuoto di Tonino Majani, di avere di nuovo un maestro, una guida, qualcuno che mi metta in guardia dalle insidie. Qualcuno con cui poter dialogare senza dovermi per forza difendere. Finalmente, oggi esco dal lungo esilio politico, e lo devo a quest’uomo che fino a qualche giorno fa detestavo cordialmente senza conoscerlo. Devo parlargli di Marco. Di sicuro mi aiuterà, e lo aiuterà. E io potrò saldare i conti con me stessa. Non ho più pensato all’articolo che apparirà domani. Ho solo una piccola fitta alla bocca dello stomaco ora che mi avvio verso la rosticceria sotto casa per comprare qualcosa di già pronto e mangiarlo davanti alla tv. Ma scaccio presagi e cattivi pensieri. Finalmente le mie giornate hanno uno scopo. Se pure domani iniziasse con un articolo sfavorevole, grazie al lavoro con Corradi di sicuro finirà meglio. In quel momento chiama papà: “Ho letto solo adesso il pezzo che ci riguarda. Da due giorni non compravo i giornali: per fortuna il barbiere l’aveva conservato nel caso mi fosse sfuggito. Sono l’idraulico più famoso d’Italia”. Ride perché vuole saggiare il mio umore. Quando capisce che non sono offesa, sferra il suo attacco: “È ignobile che Eugenio dica quelle cose di me per attaccare te. Ma è ancora più ignobile che un cretino di questo genere sia alla guida di un grande partito. Te l’avevo detto io che il Nuovo 159


Partito Comunista era meglio, ma tu sei fissata con questa Sinistra Unita...” “Papà, io non me la sono presa, non te la prendere neanche tu. Capisco che sei rimasto male. Anch’io, credimi, lì per lì. Ma non posso buttare a mare la mia coerenza e le mie idee per un personaggio scorretto”. “Non è uno qualunque, è il capo”. “Non importa. Piuttosto, sto lavorando con Corradi. Eravate insieme nel partito un tempo, non me l’avevi mai detto che è un tale personaggio”. “A me non è mai piaciuto. È di destra”. “Buonanotte, papà. Sei incorreggibile. Mandami un bacio e fatti sentire più spesso”. Entro in casa. Il supplì puzza di fritto perfino chiuso dentro il sacchetto, ma è l’unica cosa commestibile in tutta casa. Apro il frigo per conferma: è un deserto senza oasi. Non ho alternative. La stanchezza mi acchiappa e, mentre crollo addormentata davanti alla tv, abbracciata a un cuscino del divano, ho una visione: i supplì che ballano nel mio stomaco tutto unto.

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XII

Quando Coyote chiuse la porta, gli spiriti dei morti vagarono sulla terra alla ricerca di un qualche posto dove andare... Coyote scappò e non tornò più perché aveva paura dopo quello che aveva combinato. Da allora corre da un posto all’altro, voltandosi indietro a guardare se qualcuno lo insegue, e ha sempre patito la fame poiché nessuno vuole dargli qualcosa da mangiare. Il coyote sa cos’è la vergogna. I politici raramente.

Luisa Oddio, il telefono, anche stamattina! Parlare prima del caffè è uno sforzo sovrumano. Forse davvero non ho il fisico per la politica. Forse dovrei dedicarmi ad altro: un lavoro con orari certi, magari part time, tornare a casa in tempo per cucinare e non soffrire di incubi notturni con malvagi supplì che ghignano prendendo a pugni il mio apparato gastrico. Che avrà dentro Corradi che non dorme mai? Sarà la vecchiaia, una tempra d’acciaio o una motivazione che a me manca? Numero privato: devo rispondere. “Buongiorno, ancora addormentata... hai fatto tardi stanotte. L’immaginavo. 161


Anch’io quando ero giovane aspettavo le due per comprare la prima edizione del giornale all’edicola di piazza San Silvestro”. Balbetto: “Veramente non ci ho pensato... hai ragione, avrei dovuto...” Non è neanche incazzato, ma semplicemente incredulo quando, dopo qualche secondo, mi dice: “Sai che un quotidiano importante pubblica una paginata su di te e non hai curiosità di sapere come uscirà? Cambia mestiere mia cara, fino a che sei in tempo a impararne uno”. Mi sento un’idiota, sono un’idiota: “Hai ragione, ma... mi viene l’ansia al pensiero che centinaia di migliaia di persone nello stesso giorno leggano ciò che scrive di me un signore che a stento sa che faccia ho. È un problema. Lo supererò. Ho bisogno di tempo. Però dimmelo tu: sarà un buon giorno per me oppure no?” “Giudica tu: Luisa Alunni, una giovane dirigente della Sinistra Unita, tutta cervello e niente emozioni, aspira al posto di portavoce, ma è completamente sconosciuta al mondo giornalistico e ai più: non ve la possiamo mostrare perché non abbiamo trovato neanche una sua foto negli archivi e nelle agenzie. Cosa avrà fatto finora? I vecchi mormorano: non si può lasciare tanta responsabilità a una dilettante della politica. E poi continua con la solita tecnica del ritratto agrodolce. Non brutto, se prescindi dall’inizio al vetriolo: dilettante è la cosa più insultante che si possa scrivere di un politico. Per il resto solo punture di spillo che danno un po’ di colore al pezzo”. “Mi ha rovinato!” “Guardala da un altro punto di vista: hai avuto una grossa apertura a pagina quattro. Non male per la prima volta. 162


E ora sbrigati: la catena umana dovrà essere un successo. A cose finite voglio leggerti in prima e gli faremo rimangiare tutto, al giovanotto”. Ormai sono sveglissima e così pure la mia gastrite. Immagino i lazzi, gli sguardi stupiti e ironici, le battute di condoglianze come se mi fosse morto qualcuno, la finta indignazione di qualcun altro. Le risate del verme e la sua disgustosa lingua. E Mara: “Ve l’avevo detto io che non è in grado”. E Marco, che dirà e perché è uscito dalla mia vita senza preavviso? Avrei voglia di prendere una giornata libera, non leggere il giornale, anzi lasciare che diventi vecchio e innocuo sul tavolo. Quando, come diceva Majani, sarà buono solo per incartare le uova – cioè da domani in poi – non potrà più farmi del male, e allora seduta in poltrona lo leggerò con calma, mi arrabbierò con quel tale e deciderò il tono con il quale apostrofarlo la prima volta che lo incontrerò. Tanto prima o poi succederà. Sì, sarebbe bello arrivare direttamente a domani. Però le uova non si possono più incartare con il giornale, perché è proibito dall’Unione Europea e il mio maestro è un altro, molto meno comprensivo: l’umanità e l’amicizia di Majani non ci sono più. E se lo chiamassi e dicessi che ho mal di stomaco, che poi è anche vero? Escluso. Farnetico. E se gli chiedessi un consiglio? Chiamare il giornalista e ringraziarlo facendo finta di niente o dirgli quello che penso? Ora mi alzerò come se fossi tutta intera e leggerò il pezzo al bar mentre faccio colazione. Poi deciderò. Unica consolazione, magra consolazione, neanche a Corradi tutte le ciambelle riescono con quel che segue... bell’aiuto, lui e il suo amico direttore.

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Nino, un ragazzo simpatico che si paga gli studi universitari con un turno alla macchina del caffè nel bar sotto casa mia, mi fa un sorriso largo e complice, e indica il giornale, già passato per molte mani e abbondantemente stropicciato. Come tutti i giorni è su un tavolino a disposizione dei frequentatori, che guardano i titoli fra un sorso di cappuccino e un morso al cornetto. “Ce l’hai fatta a venire stamattina. Ora che sei famosa te la prendi comoda”, vede la mia smorfia e aggiunge un: “brava”. Non rispondo e abbozzo un sorriso, ormai non posso più fare a meno di leggere il pezzo, Nino si aspetta un commento ad alta voce, perché i clienti sappiano che dà del tu a una vera celebrità. Essere in pubblico mi aiuterà. “Mi sono alzata tardi e non l’ho ancora letto, quindi fammi il caffè, e mi raccomando, macchiato come al solito, ma bello forte. Mi serve un sostegno”. Acchiappo il giornale e lo apro a pagina 4. Ecco l’occhiello: “Qualcosa di nuovo nella sinistra italiana”. Titolo: Luisa Alunni, una donna in carriera che non crede alle quote rosa. Qui Giustina sarà già arrabbiata senza neanche andare oltre. Io invece vado avanti. L’articolo inizia male, col brano che Corradi mi ha anticipato al telefono: rileggerlo mi provoca una nuova fitta, ma temevo peggio. Politicamente non mi gioverà: sottolinea tutto quello che Marco mi raccomanda di sfumare, ciò che penso del modo corrente di fare politica, il familismo, il cinismo. Mi ci riconosco. E bravo Mustacchi, non posso neanche mandargli una smentita. Figuriamoci come la prenderanno i miei colleghi, e il segretario, naturalmente. Rileggo il pezzo e mi soffermo sulle molte punture di spillo. È come se mi guardassi allo specchio con gli occhi di un altro. 164


Chiedo a Nino, studia Scienze della comunicazione, è l’unico esperto che ho a portata di mano: “Sinceramente: ne esco con le ossa rotte?” “Ammaccate qua e là. Ma lui scrive così, è famoso per questo. Mica poteva dipingerti come la Madonna. Però avere un ritratto da lui equivale a un passaggio di categoria: ora sei in serie A. Il pubblico ti vedrà come una specie di Zorro della politica italiana: la vendicatrice dei poveri e degli oppressi, contro gente che ha tradito iscritti ed elettori. La figlia della classe operaia. Insomma, bene”. È un ragazzo intelligente, sincero e disinteressato, di lui mi fido. D’altronde, ripensandoci, è quello che ha detto anche il maestro. Devo assolutamente sentire Marco. Poi chiamerò Giovanni. Occhi di liquirizia e dente avvelenato.

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XIII

All’inizio, prima che arrivassero gli uomini, c’erano solo animali sulla terra. Lavoravano tutti, tranne il coyote. Lui era pigro ma curioso. Mentre gli altri dormivano, il coyote volle vedere ciò che avevano fatto. Annusò quegli oggetti, osservò attentamente dei piccoli pezzetti scintillanti. Non riuscì a capire a cosa servissero e li scagliò in alto, nel cielo. Ecco come le stelle trovarono posto dove le vediamo noi adesso. (Leggenda degli Indiani d’America)

Luisa Vado in ufficio a piedi, ho bisogno di aria e di tempo. Al solito angolo c’è Irina. Le porgo una moneta senza guardarla, non ho la testa per dedicarmi a lei. Ed è anche inutile, visto che non vuole il mio aiuto. La mia distrazione ha invece un effetto imprevisto. “Ho fatto qualcosa sbagliato? Io amica”. “No, Irina, non sei tu. Il mondo è duro”. 166


Non ho neanche finito la frase che sono pentita. Che diritto ho di lamentarmi di fronte a una giovane che nasconde chissà quali e quante sofferenze. Le faccio un sorriso e la guardo: quella ferita all’angolo della bocca è sempre più lacera. Ma cosa posso fare se lei non si apre, non si confida... “Anche io ti sono amica, Irina”. “Io parla con te oggi... oggi io sola... lui sorveglia altra ragazza nuova. Primo giorno per lei”. Mi aggrappo a questa dichiarazione: “Vuoi che ti aiuti? Vuoi fuggire? Posso portarti in una casa sicura con altre ragazze come te che ora sono libere”. “Io non fuggi se no amici suoi uccide mia madre a mio paese. Ma io tanto triste”. “Conosco persone importanti, possono proteggere la tua famiglia”. “Tu buona siniora, io penso poi dico. Tu torna domani? Io ora regalo questo”, e mi porge un nastrino con una goccia di plastica rosa tutta sfaccettata a forma di pendente. Vorrei piangere in mezzo alla strada. Irina è immensamente sfortunata e tanto generosa. È la voce della coscienza che mi dice: smettila di pensare a te stessa e compatirti. Fai qualcosa per chi è veramente disgraziato. Sì, devo salvarla a tutti i costi. Le sorrido. “Grazie. È il regalo più bello che ho avuto da quando è morta mia madre. Porterà fortuna a me e anche a te, vedrai”. Mi avvicino per abbracciarla, dirle mille cose, chiederle di cosa ha bisogno subito, ma la ragazza mi scansa con un gesto brusco, come se non volesse contatti fisici. In un attimo è già tornata al suo lavoro. Mi saluta con un mezzo sor167


riso. Me ne vado con il cuore gonfio e la goccia di plastica stretta nella mano. Metterò la goccia di Irina nella mia scatola di latta. Quando me l’hanno regalata, tanti anni fa, era piena di biscotti da tè, ora è piena dei miei ricordi e amuleti. Ci tengo la foto di mamma, quando era ancora giovane e bella, non quando il male l’aveva mangiata dentro e gonfiata fuori, resa sorda a tutto tranne che al suo dolore. Ci tengo anche l’ultimo biglietto di Tonino, me l’aveva mandato il giorno prima di quel maledetto incidente. Mi hanno detto che era morto mentre leggevo l’ultima riga. Perciò penso che sia il suo testamento spirituale. “Cara Luisa, oggi mi hanno fatto uno scherzo orrendo. Stavo salendo in macchina per andare a Vico Equense per una delle solite riunioni. Uno mi ha riconosciuto, si è avvicinato e mi ha detto: Senatore, ho lo slogan giusto per il tuo partito, potreste metterlo nella nuova tessera. Io non ho capito subito, e mi sono rivolto incuriosito – sai che parlo sempre volentieri con la gente per strada: Qual è? Si è fatto una risata volgare e mi ha risposto: Va dove ti porta il culo... tu e i tuoi compagni vi muovete solo quando pensate di trovare una bella poltrona da occupare. Non ho avuto la forza di reagire. Sono rimasto di sasso. Questo, si dice di noi. Questo il risultato per aver messo in sella certi personaggi. Poi ho scrollato le spalle e mi sono detto che fino a quando nel partito ci sono giovani come te c’è speranza. Giurami che non mi farai mai vergognare della Sinistra Unita. Giurami che faremo qualcosa per uscire da questo orrido nel quale siamo precipitati. Ho dei progetti. Ne parliamo domani quando torno. Tuo Tonino”. E invece non ne abbiamo mai parlato. Guardo il biglietto e lo 168


interrogo: Tonino, che ne pensi di Corradi? Ma il biglietto non mi risponde. Richiudo la scatola. Per ora la goccia di Irina la terrò nel portafogli. Fino a quando non avrò fatto qualcosa per lei, la porterò con me. Il quarto d’ora di ritardo è sufficiente perché trovi in segreteria già molte telefonate. La prima è di Marco, finalmente: “Bene, bene. Vedo che cominci a seguire i miei consigli. È una vita che non ti sento. Chiama”. Tre sono di Mustacchi: “Devo assolutamente parlarti. Richiama”. Giuda: non ha il coraggio di cercarmi al cellulare. Sa di avere approfittato della mia schiettezza. Non richiamerò nessuno e salirò subito dal maestro. Mi accoglie con una risatina: “Come ti pesa la notorietà? Mi ha chiamato Eugenio per sfogarsi: ma chi si crede di essere. Ho sempre pensato che fosse una ragazzetta arrogante e supponente, ma così stronza! E voleva sapere da me come sei arrivata a Mustacchi. Poi Giustina: nemmeno morta collaborerò con una stronza come lei. Non so se l’aggettivo era spontaneo o concordato con Eugenio. Anche Lorenzo gira per tutti i corridoi invocando su di te, così stronza, la vendetta divina. Invece un discreto numero di dirigenti toscani li ho chiamati io perché capissero con chi avranno a che fare da oggi in poi, dal momento che vuoi abbattere il loro muro con la tua catena umana. Ora sei un personaggio. Comportati di conseguenza”. “Un personaggio negativo o positivo?”, chiedo. Ancora stranita dallo sguardo di Irina fatico a rientrare nella mia parte. “Negativo, positivo, che importa. Sei un personaggio e non molti possono dire la stessa cosa”. 169


“Come si comporta un personaggio?” Corradi mi guarda: “Io ti ho dato l’accensione, come far marciare la macchina devi saperlo tu. In questa storia io interpreto il cattivo, non do buoni consigli. E ricorda che mi hai trascinato nell’operazione Fermezza e solidarietà. Ora devi portarla al successo”. Mi siedo alla scrivania. Il giornale – naturalmente l’ho comprato – mi chiama come se dicesse leggimi ancora. Non resisto, riprendo in mano l’articolo e a ogni passaggio sento una nuova puntura di spillo. Mustacchi mi ha fatto pagare ogni minuto di ritardo con gli interessi. Stupida io che avevo creduto al tono simpatico. Non ci si può fidare, non si può parlare al giornalista sperando che sia umano. Tanto vale chiamarlo, come dice il maestro, e far finta che non mi abbia ferita a sangue. Faccio squillare a lungo, fino a quando non entra la segreteria. Non vorrei lasciare un messaggio, ma so che il numero gli comparirà sul display, se attacco farò una figuraccia esagerata. Controllo la voce al meglio: “Giovanni buongiorno, ho letto il tuo pezzo. Avevi ragione sulla tecnica: dal tuo ritratto d’autore esce chiarissimo cosa pensi di me. Comunque grazie dell’attenzione. La prossima volta, se ce ne sarà una, le foto chiedile direttamente a me. O all’idraulico”. Del tono sono soddisfatta: ironico, un po’ mondano e un po’ serio, non deve credere di avermi fatto del male o nociuto in qualche modo. Ma neanche pensare di passarla liscia. Che vigliacco: chiama alle otto del mattino quando al partito non c’è che il portiere. Evita il cellulare e non risponde quando telefono io. La coscienza gli rimorde, con 170


tutta evidenza. O forse quelli come lui la coscienza non ce l’hanno affatto. Molto maschile fuggire e aspettare che mi sia sbollita la rabbia. “Ma anch’io so attendere. E ti farò ballare, caro mio”.

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XIV

Fino a quando il coyote vagherà per la prateria la natura parlerà, non con la voce della forza bruta, bensì con quella dell’opportunismo prudente. (Donald Woster, Storia delle idee ecologiche)

Luisa Fermezza e solidarietà si rivela un’impresa complessa. Bisogna fare i conti con la paura della città, tanto per cominciare. E con la Liga autonomista che soffia sul pregiudizio. Fin quando erano pochi, venditori ambulanti di biancheria, tappeti o chincaglieria, oppure braccianti spersi nelle campagne, gli immigrati erano ben accetti. Ora hanno preso casa, si sono fermati in periferia e nei sobborghi, sono tanti e si notano: hanno un aspetto diverso, culture, abitudini e cibi diversi. E i toscani, si sa, al loro cibo ci tengono. Unico punto di contatto: il cellulare che, come gli italiani, portano sempre con sé. E poi, a ben guardare, a Prato fra sinistra e destra su questa questione non ci sono tante differenze. I politici locali sono quasi tutti d’accordo col segretario della federazione e col sindaco: a loro il muro piace. Non serve a niente, ma piace. 172


Per fortuna neanche i potentissimi dirigenti di Prato possono dire un no frontale a Corradi. Marco mi manca, la mia vita ha avuto un’accelerazione improvvisa, e l’ho lasciato indietro. Lo chiamo. Come sempre, quando ho bisogno di conforto: “Vieni a mangiare un panino con me oggi?” “Ti brucia l’articolo e vuoi farti consolare?” “Lo ammetto, non fingo con te”. “Vorrei vedere. Va bene, dallo zozzone fra un quarto d’ora, non più tardi, che nel pomeriggio ho una riunione importante”. Meno male, Marco almeno è sempre lo stesso. Devo affrettarmi. Sono pochi passi, ma a quest’ora si incontra un mare di gente. Chiamo l’ascensore e resto diversi minuti in attesa. È bloccato al secondo piano. Tanto vale scendere a piedi. Sul pianerottolo del terzo piano m’inchiodo: in fondo al corridoio c’è Eugenio, che accompagna all’uscita Giovanni Mustacchi chiacchierando amabilmente. Quando mi vedono hanno reazioni assai diverse: il segretario fa ampi gesti di richiamo, mentre il giornalista ha un sussulto. Dimentico la fretta. Mi avvicino con il mio sorriso più falso. Eugenio enfatico e ad alta voce mi rivolge un: “Carissima, ho appena finito di rimproverare il nostro amico Mustacchi: non si fanno certe cattiverie a una signora. Noi vecchi lupi della politica siamo abituati e abbiamo il callo, ma la nostra giovane Luisa non ha pelo sullo stomaco, e d’altra parte sarebbe un peccato, con uno stomaco così grazioso. A proposito, devo dirti una cosa, fermati un attimo”. 173


“Segretario, ho un appuntamento...” “Ormai è impossibile parlarti, c’è sempre qualcuno che ti aspetta. Un altro giornalista? Lo verrò a sapere leggendo il giornale di domani? Arrivederci Mustacchi. Mi fermo un momento con la nostra star, prima che sgusci via”. Mustacchi saluta con un cenno e si allontana. Per la breve durata dell’incontro non ha aperto bocca. Rimasti soli il tono di Eugenio è assai diverso: “Stavo per chiamarti. Non ci siamo proprio. Non mi hai detto che Mustacchi ti cercava per un ritratto, né prima né dopo averlo incontrato. Le battutine su me e tuo padre... hai sbagliato, ti avevo detto che non ho mai parlato male di lui”. Lo interrompo: “Ti prego, risparmiamoci ipocrisie”. “Giusto. Dunque dimmi, a cosa serve il pezzo, ad accreditarti come portavoce? A farti conoscere dal grande pubblico? A farmi capire che ce la fai anche senza di me? E come hai fatto a ottenerla? Hai venduto i nostri segreti? Hai trovato un aggancio importante?” Lo interrompo ancora: “Non sai quello che dici: la mia lealtà al partito è fuori discussione. Il traditore cercalo altrove, fra persone molto vicine a te”. “Ce l’hai con Lorenzo”. “Certamente. È un verme. Strano che tu non te ne sia accorto”. “Non sviare il discorso. Solo i membri della segreteria possono dare interviste, con poche eccezioni autorizzate. D’ora in poi voglio essere informato sui tuoi contatti con i giornalisti. Chiaro?” Lo ha detto con voce tagliente e in un crescendo di rabbia che non gli conoscevo, m’ha provocata per obbligarmi a una giustificazione, ma non ne ho la minima intenzione. 174


E ho anche fatto tardi. “Messaggio ricevuto, ora se permetti scappo”. Me ne vado furibonda e inseguita dalla voce di lui del tutto priva di ironia: “Ricorda, io ti ho fatto e io ti distruggo”. L’impossibilità di rispondergli come avrei voluto mi fa sentire come una pentola a pressione sul punto di scoppiare, ho un groppo in gola come Giustina quando pensa al suo amore perduto, o quando lui non le rivolge la parola. È stato indegno quello che ha detto e ancor più come lo ha detto, in piedi in corridoio, perché tutti sentissero. No, tu non mi hai aiutato, Eugenio. Hai solo lasciato fare a Tonino Majani, perché ero una giovane studentessa che volevi aggiungere alla tua personale collezione femminile. C’era un’assemblea. Ho parlato quasi subito dopo la relazione. Subito dopo di me, Marco. Mi hanno presentato come quella che ha rimesso in piedi l’organizzazione giovanile nell’epoca difficile del rampantismo. Hai detto che volevi complimentarti personalmente. Per me eri un mito, lontano e inarrivabile. Ho accettato con entusiasmo di vederti l’indomani. La sola idea di stringerti la mano di persona mi metteva in agitazione. Appena sono entrata nel tuo ufficio ho intuito che c’era qualcosa di strano: per quanto poco avessi frequentato il partito di cui eri e sei segretario, mi è sembrato irrituale che mi ricevessi morbidamente sdraiato nella posa in cui Canova ha reso immortale Paolina Borghese. Ti ho trovato buffo, con quelle gambe corte rannicchiate sul divano e l’aria del conquistatore, e mi sono messa a ridere. Eri incerto se offenderti oppure perseverare nel tuo disegno. Hai scelto la seconda. Mi hai guardata di sbieco, hai fatto un 175


elegante, imperioso cenno con la mano destra, come dire: siediti qui accanto a me. Ti ho risposto: il divano non è abbastanza grande per tutti e due. Non ti sei scoraggiato: meglio, sarai costretta a starmi molto vicino. Neanche io mi sono scoraggiata, ma incazzata sì: non mi siedo vicino a un uomo dell’età di mio padre che sta sdraiato ad aspettarmi con la patta aperta e mi ha attirata con un tranello. Ti sei tirato su, guardandoti la lampo dei pantaloni. Hai capito l’antifona e hai detto qualcosa come: volevo solo vedere di che stoffa sono fatte le giovani compagne. Ho fatto finta di crederti: scusa, perché ti interessa il mio carattere? Mi hai risposto: vogliamo svecchiare l’apparato. Mi dicono che le due promesse siete tu e Marco Segranti, ma non ho ancora capito chi di voi due merita di più. Certo, siete entrambi intelligenti, ma in più lui sa stare al mondo, ha buon carattere... deciderò presto. Non l’ho neanche lasciato finire, dimenticando il divano, il tranello, la patta: scegli me, ho detto di botto. Perché? Perché anch’io ho buon carattere, e non mi interessano le tue debolezze. Perché sono discreta e riservata. Perché sono la più brava, molto meglio di Marco da tutti i punti di vista. Ma lui è disponibile, mi hai obiettato. A cosa?, ho risposto come una furia. Da quello che mi dicono non si fa tante seghe mentali. Io neanche, se voglio posso essere molto spregiudicata. Fino a che punto?, mi hai chiesto guardandomi di sbieco. Mettimi alla prova e lo saprai. Credevo che foste amici, mi hai detto mentre prendevi la mia mano. Sono diventata rossa e il viso mi scottava, ma ti lasciavo fare. Ho balbettato qualcosa del tipo: io e Marco siamo amici, ma non voglio perdere l’occasione. Ti sei avvicinato. Mi hai detto: eccola la tua occasione, prendendomi la mano e portandola proprio dove potevo 176


sentire la tua virilità. Ero troppo frastornata per reagire. E infatti non ho reagito, come se fosse la mano di un’altra. Non provavo nulla e non facevo nulla. Facevi tutto tu. A un certo punto la coscienza sottovoce mi balbettava qualcosa, mentre mi chiedevo come sarebbe andata avanti tutta la faccenda, ti saresti spogliato, mi chiedevo cosa fare per non offenderti... mi hai allontanata con una stoccata di perfidia pura: non lo faccio con uno stoccafisso. Non ti chiedo entusiasmo, ma almeno la minima partecipazione: sai come si fa o vuoi farmi credere che sei una verginella? O pensi di salvarti la coscienza facendo la mummia. Ma non mi interessi poi tanto, non credo di potermi fidare di una disposta a vendere il migliore amico. Ora ho da fare. Torna quando sarai cresciuta. È seguito un lungo, lungo periodo di purgatorio. Anche nel nostro ambiente ci sono proposte che è meglio non rifiutare. Ma da allora lui si è ben guardato dal farmene ancora. Non mi degna neanche di quelle disgustose battutine da cabaret che rivolge a tutte le donne viventi. Credevo fosse rispetto, invece mi ha semplicemente cancellata dal suo orizzonte umano. Forse la finta di volermi come portavoce era un altro modo di vendicarsi. Dovrei lasciare questo partito. Dovrei lasciare la politica. Dovrei lasciare che il mondo vada dove cazzo vuole. Un pensiero si fa strada fra le emozioni. Se Eugenio l’ha presa così male, evidentemente, nonostante tutto, l’intervista non era controproducente per me. Colpa e merito di Mustacchi, vigliacco e traditore. Ma utile. Pensi al diavolo e spunta la coda, eccolo Mustacchi, evidentemente in attesa dietro l’angolo. Tiro dritto come se non l’avessi visto. Mi chiama. Non mi volto. Lui accellera 177


il passo per raggiungermi. Sono costretta a prendere atto della sua presenza. “Ti cerco da stamattina all’alba”. “Non mi risulta”. “Sbagli, ti ho cercato ovunque, anche sul telefonino, ma sei irraggiungibile. Volevo dirti che quella frase, quella iniziale che ha cambiato il senso di tutto l’articolo, non l’ho scritta io”. “Per favore, non cercare scuse. Hai fatto un bel pezzo brillante prendendo in giro la gonza, benissimo e buon per te. Ora lasciami in pace”. “Puoi rallentare e calmarti per favore?” “Neanche per sogno. Primo, non intendo parlarti. Secondo, come hai sentito – lo dicevo al segretario – ho un appuntamento a cui tengo moltissimo. Terzo, per favore non mi dire balle, preferisco uno che mi attacca frontalmente e chiaramente, a un giuda che fa il finto amico e mi pugnala. Perciò addio. E quanto al telefonino, se mi avessi cercato ci sarebbe il tuo numero sul display, invece guarda”. Lo tiro fuori dalla tasca, ma è spento. Si è scaricato dopo la telefonata con Corradi e non me ne sono resa conto. Che figura, e neanche posso far finta di niente perché glielo sto mostrando. La tensione si scioglie e mi scappa da ridere. Ride anche lui. “Va bene, sul telefonino hai ragione, su tutto il resto no. Ora guarda, io sono arrivata”. “Anch’io devo mangiare qualcosa, posso unirmi a te e a...” “Marco, l’uomo dopo mio padre a cui voglio più bene al mondo”. Nel dire questo abbraccio ostentatamente Marco che mi è venuto incontro. Lo stringo a lungo. Mi è mancato, ma 178


voglio sopratutto far sentire Giovanni estraneo e indurlo ad andarsene. Il giornalista resta a guardare la scena un po’ sorpreso: Marco è bellissimo, ha tagliato i capelli e la barba e questo fa risaltare i suoi occhi chiari e intensi. Anch’io lo noto e glielo dico, osservando che è leggermente abbronzato: “In questi giorni mi hai lasciato talmente solo che per consolarmi sono andato spesso al bar del tennis. Cara, tu invece hai un aspetto orrendo. È colpa di quest’uomo? Se ti tormenta ti difenderò io. Come sempre”. Mi tiene per mano teneramente e Giovanni ha la faccia a punto interrogativo, evidentemente non capisce se siamo amanti, fidanzati o solo vecchi amici. “Mi ha già tormentato con quell’articolo che sembra abbiano letto tutti”. “Ah, il giornalista, ma allora va trattato bene, se no domani parlerà male anche di me. Raccontami, Giovanni – ti chiami Giovanni Mustacchi, no? – com’è che la mia amata Luisa ti è rimasta così sulle palle?” “Ma non è vero. Stavo tentando di spiegare alla tua...”, esita sperando che qualcuno vada in suo soccorso chiarendo i ruoli, ma non succede, “...a Luisa, che stamattina ho avuto di buon’ora una discussione terribile col direttore e con il caporedattore. Ho letto il giornale come sempre, appena sveglio. E ho trovato che qualcuno aveva fatto una pesante aggiunta al mio pezzo. Ma l’articolo è firmato da me, ho protestato, per toccarlo dovevate chiedermelo e avvertirmi. Non posso venirlo a sapere a cose fatte. Il caporedattore ha detto che sono il solito rompicoglioni e che quando lui aveva la mia età se lo sognava di firmare uno spazio così importante. E che devo ringraziare Dio, anzi il direttore, se ho tanta visibilità. E ha concluso con una fra179


setta maligna circa i rapporti molto amichevoli e per me vantaggiosi fra mio padre e il capo. Allora non ci ho visto più. Ho chiamato Enrico, il direttore. Mi ha risposto: reazioni importanti?, sai le persone oggetto dei miei articoli mi chiamano sempre dopo la pubblicazione. Non credeva alle sue orecchie quando gli ho detto che il mio contratto era a sua disposizione, che il suo intervento aveva leso la mia professionalità. Poi ho chiamato mio padre e gli ho rinfacciato quello che ha fatto da quando sono nato. Poi ho chiamato te, ma sei l’unica con cui non sono riuscito a parlare. Devi credermi. Tu mi credi, Marco?” Marco resta qualche secondo a fissarlo e poi, rivolto a me: “Sì, io ti credo. Credigli anche tu”, dice rivolto a me. “Sai che sulle persone non mi sbaglio. Stringetevi la mano e amici come prima”. Prende le nostre mani e le unisce. “Dio mio, mi sento l’officiante di un rito. Magari matrimoniale, guai a voi. Finiamola qui e mangiamo finalmente, che fra mezzora devo tornare al lavoro. Che volevi dirmi piccola? Che hai sentito tanto la mia mancanza o qualcos’altro?” “Forse sono di troppo”, dice Giovanni che fa il gesto di andarsene. Taccio perché nonostante le spiegazioni mi è rimasto come un rancore sordo dentro, ed è ancora Marco a salvare la situazione: “Resta, Giovanni. Luisa si confiderà più tardi. E poi non vorrei perdermi la faccia del segretario quando le solite spie gli diranno che lei era a colazione con te. Penserà a un complotto in grande stile, perché cara, il pezzo del giovanotto era maligno ma ha fatto di te una stella. Giovanni, se e quando vorrai parlare anche di me, mi trovi nello stesso palazzo dove hai trovato Luisa 180


oppure a questo cellulare”, gli porge il biglietto da visita e aggiunge: “cercami pure quando vuoi. Non dormo quasi mai e ho cose molto interessanti da dirti. Nel frattempo ti consiglio il panino caprese, qui lo fanno con la vera mozzarella di bufala e l’origano. È buonissimo. Se va bene per tutti rimanete seduti, vado io a ordinare”. Mentre Marco va al banco e alla cassa, Giovanni cerca i miei occhi. Ma mi è venuto come un broncio infantile e li tengo ostinatamente fissi su un punto del muro. “Non mi credi. Lo vedo. Allora vado, non c’è ragione che resti a disturbarvi. Permettimi solo di darti un consiglio: le donne vedono l’albero e non la foresta. Non capiscono che ci sono le regole del gioco, il mio gioco è scrivere in agrodolce. Il tuo è far scrivere di te, perché sei un personaggio pubblico, con tutto ciò che comporta. Il gioco non ti piace? Rinuncia a giocare, piuttosto che giocare male. Qualunque cosa io scriva di un uomo, mi chiama e mi ringrazia infinite volte. Se in aggiunta gli pubblico una foto mi sarà grato per la vita. Se scrivo di una donna se la prenderà per uno stupido dettaglio e non capirà che comunque le ho fatto un favore. Un uomo al tuo posto mi avrebbe invitato a pranzo da Andrea dietro via Veneto. Tu mi negheresti volentieri il panino dello zozzone. Anzi, se non fosse un locale pubblico mi avresti proibito l’ingresso. Ti rendi conto? Stai esagerando, oltretutto con uno che è stato vittima dell’ingerenza gerarchica e si è esposto per essere leale con te. Il tuo maestro non ti ha insegnato niente?” Di fronte a questa tirata mi sciolgo – come ha capito che detesto i vizi tipici del mio genere? – e finalmente lo guardo e gli sorrido: “Il mio maestro di un tempo no, ma quello di ora... se sapesse come ti ho trattato rinuncerebbe a 181


insegnarmi altro. Pace allora. A patto che mi giuri che niente di quello che saprai da me verrà usato per il tuo giornale, a meno che io non sia d’accordo”. “Giuro”. “Bene. Hai ragione sulle donne. Hai dato fiato a un pensiero che ho anch’io da tanto tempo. Però un giorno ce la faremo, e quel giorno porteremo nella politica qualcosa di diverso, di più umano, affettivo, reale”. “Nel mio mestiere le donne che ce l’hanno fatta sembrano delle iene, come e più degli uomini”. “Se succederà a me, ti autorizzo a darmi appuntamento in questo stesso bar e a rinfacciarmelo ad alta voce davanti a tutti”. In quella arriva Marco che ha colto solo l’ultimo brano della frase. “Siamo già ai rinfacci? Mangiate che il panino dello zozzone è il migliore di Roma, forse perché lo prepara senza lavarsi mai le mani. Vedo che il ghiaccio si è sciolto. Peccato, con questo caldo tornava utile. Luisa parlami della tua marcia, la cavalcata delle walkirie bianche gialle e nere che ha messo in agitazione tutto il palazzo del potere”. “Quale marcia?”, chiede Giovanni. “Ma che marcia. Hai sentito male. Pettegolezzi, come sempre. Ho pensato a una catena di donne italiane e immigrate che tenendosi per mano circondino il muro della vergogna di Prato. Il muro è di ottantaquattro metri, dunque ci vorranno moltissime donne. E molti, molti giornalisti che accendano i riflettori su loro. Mi aiuterete?” Mi rivolgo a entrambi. Ma soprattutto a Giovanni: “Vi prego, devo farcela. Non per me, ma per il partito che sta perdendo il senso della solidarietà, dell’essere di sinistra”. 182


Marco è tassativo: “Per carità, non fare la demagoga con me che detesto la retorica. Quelle donne le mandi allo sbaraglio, saranno prese in mezzo fra polizia e delinquenti”. “No. Se ci saranno le tv, le radio, i giornali, le donne parlamentari, le consigliere comunali e regionali, e naturalmente la polizia. Nessun rischio, se riuscirò a mobilitare l’attenzione pubblica per almeno due giorni. Ho pensato a turni di sei ore che mi richiederebbero la presenza di quattrocento donne. Per tutto quel tempo gli spacciatori potranno superare il muro umano solo dando molto nell’occhio, perciò dovranno andarsene, sciogliendo l’orrendo grumo che hanno formato, lasciando in pace le famiglie oneste che vivono lì”. “Oh, ma è una proposta de core”, scherza Marco. Giovanni invece risponde serio: “Sembra affascinante, ma il partito?” “Il segretario mi ha detto sì. Alfonso Corradi sta già lavorando con me. Ed è una forza della natura, quell’uomo mi dà una sicurezza indicibile”. Giovanni m’interrompe: “Corradi con te? Credevo fosse stato lui a chiedere il pezzo al direttore. Allora Enrico a cosa si è prestato?” Mi riprendo subito, è stato sciocco pronunciare quel nome davanti al giornalista: “Dei rapporti fra loro non so nulla, non ho nessuna confidenza con Corradi e di certo lui non me ne parla. Ma è il titolare del settore di lavoro”. “Forse per questo ha chiesto al direttore di darti una lisciata, perché non ti montassi la testa. O forse... Senti, non è che tu, Corradi e il direttore mi state usando, o come dici tu manipolando, e io ingenuo a momenti ci rimetto anche il posto?” 183


“Che dici, il tuo direttore neanche lo conosco. Con Corradi ho iniziato a lavorare da due giorni. Quanto a te, ti ho visto per un totale di sei ore e guarda già che bello scherzo mi hai combinato. Allora, me la dai una mano o no?” “Non saprei come. Al giornale, se non accettano le mie dimissioni, certo non potrò scrivere di te. È vero che avrò molto tempo libero... l’inchiesta che stavo preparando prima che tu irrompessi nella mia vita è finita nel cestino”. “Per un po’ è bene che nessun giornale si occupi di me. Ma la manifestazione è la prossima settimana. Potresti darmi silenziosamente aiuto a trovare qualche collega che venga con noi a Prato. Noi, intendo anche con te”. “Hai una gran faccia tosta. Va bene, ti aiuterò. Però metti in carica il telefonino, e se ti chiameranno per parlare della manifestazione fai la grazia, rispondi”. Il panino è finito, Giovanni saluta promettendo di farsi vivo presto, io e Marco ci avviamo insieme al palazzo. “Quando ti ho detto di far parlare di te i media, non pensavo che saresti riuscita a fare tanto e tanto in fretta. Sei un vero fenomeno sorellina. Ho più bisogno io dei tuoi consigli che tu dei miei: verrò a lezione”. “Non da me Marco, sbaglierei se prendessi il merito. Ho un grande maestro. Mi sta dando una mano insperata facendomi capire cose che fino a qualche giorno fa non avrei neanche immaginato. È solo e tutto merito di Corradi”. “Corradi? L’uomo passionale come un cono gelato? Quello che ti ha rivolto la parola per la prima volta qualche giorno fa? Quello che fino a ieri detestavi? Non mi dire. Le cose corrono”. “Proprio lui. Mi piacerebbe che tu gli parlassi, sono certa che entrereste in sintonia. Non è affatto come lo 184


dipingono. È a suo modo generoso. Devi avere chiaro l’obiettivo, chiedergli di occuparsene e non fargli perdere tempo”. “La politica è il mio unico desiderio”, sospira Marco, “e non mi dire che lo faccio già di mestiere. Non è politica quella che faccio. È una sorta di mega difensore civico. Ma io mi sento stretto in questo ruolo”. “Non capisco. Hai sempre detto che i diritti dei gay sono calpestati quotidianamente, che vuoi sconfiggere i pregiudizi”. “Lo confermo. Ma quella è emergenza, la necessità del momento. Il mio sogno è la politica per tutti. È fare il sindaco, il ministro, qualunque cosa mi metta in condizione di governare una comunità tutta intera, gay lesbiche ed etero. Ho tante idee. D’altronde tu dovresti capirmi: anche tu sei stufa di occuparti degli immigrati. Figurati se posso dire a Corradi che ho delle ambizioni. Quello mi risponde chissenefrega, ragazzo pedala”. “È qui che ti sbagli. Appena finita la manifestazione di Prato, e che Dio mi aiuti, voglio farvi incontrare. A proposito: verrai a Prato? Anzi, vieni a lavorare con noi questa settimana, così lui imparerà a conoscerti e io avrò un aiuto vero”. “Chiedi a Eugenio se è d’accordo e poi chiamami. Se per lui va bene da domani e per una settimana sono tutto per te. Ciao. A proposito, penso che Giovanni sia una bella persona e che ti abbia detto la verità. Penso anche che sia proprio carino, però mi sembra che con lui abbia più chance tu che io, perciò te lo lascio, ma non maltrattarlo tanto: dovresti essergli grata. Fino a ieri eri una sconosciuta dirigente del partito come me. Oggi sei una di cui tutti parlano. 185


C’è gente che pagherebbe per questo. Tu invece vorresti fargliela pagare... non c’è giustizia a questo mondo”. Mi bacia e se ne va, lasciandomi interdetta a pensare che forse ha ragione lui e Mustacchi non meritava tutto quel risentimento. Su un’altra cosa ha senz’altro ragione: il giornalista è davvero carino. Ha un certo sguardo quando viene maltrattato che suscita gran tenerezza: è mite e fermo. Uomo e bambino. Già, gli uomini restano sempre un po’ bambini fino a sessant’anni.

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XV

In principio tutto era ricoperto dalle acque. Il cielo era chiaro e senza nuvole. Improvvisamente comparve una nuvola che si trasformò in coyote. Poi salì la nebbia e da essa uscì la volpe argentata. Entrambi cominciarono a pensare e dal pensiero si formò la barca.

Giovanni L’incontro con Luisa m’ha scombussolato. Non sono alle prime armi, ogni mio articolo punge qualcuno, eppure non riesco a smaltire un gran senso di colpa verso questa strana donna, che mi ha trattato come l’ultimo dei traditori per aver fatto visita al segretario del suo partito. Che mi fa sentire debitore nei suoi confronti di chissà quale risarcimento. E poi strani anche i suoi rapporti con Marco: molto confidenziali e al tempo stesso non proprio intimi. E che gran bugiarda, tutte quelle lamentele... “Lavoro tanto neanche un minuto per me stessa, per incontri interessanti”. Quasi le credevo, mentre ha un uomo accanto che sembra un modello della pubblicità. E le balle – “Mai sul posto di lavoro” – quando Marco ha detto chiaro e tondo che lavora alla Sinistra Unita come lei. Forse non stanno 187


proprio insieme in modo fisso, o forse è solo dissociata, oppure bugiarda e convincente come un politico consumato. D’altronde perché dovrebbe essere diversa dagli altri, cosa me l’ha fatto credere, sperare... meglio metterci una pietra su. È pericolosa con quella faccia acqua e sapone che sembra dire “guarda, sono una vittima del sistema, onesta, pulita”, altroché. È carina, con carattere da vendere e la stoffa del dirigente. Ne ho incontrati tanti negli ultimi tre anni, riconosco il cavallo di razza. Per colpa sua e della sua bella faccia (anche il fisico veramente non è male) mi sono ficcato in un casino e non so come e quando ne uscirò. Il caporedattore è stato chiaro: lascia perdere l’inchiesta, siamo sotto organico ci servi al desk. Balle spaziali, mi vuole tenere in purgatorio, giornate inchiodato alla sedia, scrivendo al massimo delle didascalie. Chiederei pietà subito, ma non sarebbe dignitoso. Devo resistere fino a quando al direttore non sarà sbollita l’incazzatura, cercando almeno di capire perché si interessa di una giovane sconosciuta dirigente, con ordini contraddittori a poche ore di distanza. Che cosa gli ha chiesto Corradi, suo storico amico e compagno di perfidie e che parte ha la stessa Luisa, la santarellina. Di sicuro è quella che ci guadagna di più, mi ha provocato casini a catena e fa anche l’offesa. Ma devo essere sincero con me stesso: volevo sentirmi dire grazie da lei, essere apprezzato, raccoglierne la gratitudine. Entro al giornale con pensieri annuvolati e la prospettiva di affrontare una situazione spiacevole. Non sono più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta. Evito l’ascensore per rimandare eventuali incontri e intanto mi chiedo se ho fatto 188


la figura del paladino delle cause perse o del coglione strumentalizzato da un paio di volponi. Sfogata la rabbia provo un forte disagio al pensiero della scarsa freddezza con cui mi sono comportato e del faccia a faccia che si avvicina col capo e con i colleghi: chi me l’ha fatto fare, come mi è venuto in mente di espormi così per una qualunque, fino a poco tempo fa una perfetta estranea? Ma ormai sono in ballo e non posso fare altro che ballare, perciò è meglio andare diritto a sostenere che mi batto per la mia professionalità violata e la libertà d’informazione, e non per la bella faccia di Luisa. L’unica cosa di cui sono davvero convinto è che stamattina voleranno gli stracci. Invece al giornale è tutto calmo. Stranamente calmo. Talmente calmo... I colleghi mi salutano e stanno alla larga. Provo ad attaccare discorso con qualcuno per sapere se in redazione già si spettegola, e nulla. Dopo aver passato alcuni pezzi, foto e didascalie, controllando che non ci siano errori e tentando di renderli attraenti con titoli azzeccati, non ne posso più di far finta di niente. Me la prendo col mondo intero: con la segreteria che non funziona, l’archivio che è lento, e perfino con i lettori: tanto masochisti da leggere pezzi noiosi come questi. Intanto mi guardo intorno in cerca di una vittima da azzannare, ma vedo solo il fattorino, il grafico, la segretaria: che senso avrebbe prendersela con uno di loro. Finalmente la fortuna mi assiste, sta passando Sabino Giurato, uno dei membri del comitato di redazione, un giornalista di non grande talento, ma un ruffiano di vero talento. Il direttore ha perciò molto caldeggiato la sua nomina nella rappresentanza sindacale. Poiché ogni suo 189


desiderio è un ordine, Sabino è diventato sindacalista. È la persona giusta per sapere cosa pensi davvero Enrico, e per sfogarmi. Tanto non fa una piega. La sua tattica abituale è il muro di gomma. Come di gomma devono essere quelle sue guanciotte che lo fanno più grasso di quanto sia in realtà. E di gomma quel cerchio intorno alla vita che ridendo chiama le maniglie dell’amore, ma una donna che gliele acchiappi con voluttà proprio non ce la vedo, e comunque non s’è mai vista in pubblico. Mi lecco i baffi come un gatto davanti a un pesce appena pescato, pregustando il piacere del sangue. Il suo, naturalmente. “Dai, andiamo a prendere un caffè”. L’altro mi guarda come se aspettasse il mio approccio, mi prende sottobraccio e dice: “Ok, ma arriviamo al bar all’angolo, devo comprare le sigarette”. Una scusa, visto che in redazione non si può fumare. Un segnale per dire: fuori da orecchie indiscrete. Ma non sono in vena di prudenza e appena in corridoio già lo interrogo provocatorio. “Hai saputo e vuoi far finta di niente o intendi occupartene?” “Far finta di niente, dici? Mi piacerebbe, ma la vedo difficile. Quando il grande padre-padrone è incazzato qui anche i muri tremano. E tu l’hai fatto incazzare alla grande”. “Veramente io ho ragione, da ogni punto di vista. Perciò mi aspetto di essere difeso dal sindacato”. “Formalmente, forse, hai ragione. Nella sostanza... scusa se te lo chiedo, a te che te ne frega? Mica ha toccato il culo alla tua fidanzata...” 190


“Toccare il culo alla mia fidanzata non avrebbe rilievo sindacale. Invece sono certo che cambiare un pezzo come ha fatto lui meriti la vostra attenzione”. “Non so a chi convenga alzare un polverone su cui la concorrenza inzupperà il biscottino. Non al giornale di certo, e neanche a te. È una cosa complicata da giudicare e da spiegare, un comportamento al limite, se vuoi, ma insomma, non hai fatto anche tu qualche ritocchino ai pezzi che hai passato oggi? Come distingui il ritocco e la censura?” “Sabino, mi prendi in giro o che? Io faccio interventi tecnici, certi pezzi non so perché li pubblichiamo, sono di una noia mortale...” “Ecco, vedi, il direttore, che fra parentesi ti ricordo è capo assoluto della piramide gerarchica, ha pensato che il tuo pezzo mancasse di quel pepe che anche per merito suo ti ha reso noto fra i lettori. Forse nel farlo ha calcato la mano, non so se ha violato il contratto, però quante volte la stessa mano ha coperto te e tutti i colleghi con la sua autorevolezza?” “Tutte le volte che gli conveniva per evitare al giornale processi per diffamazione dal costo stratosferico”. “Ora sei amareggiato, ma se ti raffreddi un po’ converrai che non è opportuno sputtanarlo, proprio lui che ha fama di grande giornalista di sinistra. Già li vedo gli avversari che gongolano, che sbandierano chissà quali trame politiche dietro un banale intervento redazionale. Una volta resa pubblica questa faccenda può essere raccontata come una censura, anzi peggio, come una vera e propria manipolazione, una violazione del contratto e della deontologia”. “Se lo ammetti anche tu, perché dovrei stare buono e zitto?” 191


“Perché quando volano gli stracci pieni di merda, qualche schizzo colpisce tutti e poi io ho detto solo che può sembrare tale, come membro del comitato di redazione non posso pronunciarmi personalmente”. “Spiegami il senso di quello che stai dicendo”. “Nulla di preciso, solo che il direttore ha legami con ambienti importanti, gran presa sull’opinione pubblica e grande possibilità di farsi ascoltare su tutti i mezzi. Credi che si terrebbe l’accusa o che cercherebbe di ribaltarla in qualche modo su di te? E poi, ascolta un amico: ti conviene inimicarti un potente, che si dice andrà a fare il direttore generale in Rai? Non pensi alla tua carriera?” “Io no, ma voi sì, a quanto pare. Comunque ho capito il messaggio. Il sindacato può essere molto agguerrito solo quando si parla di rivendicazioni economiche, ma guai a toccare il direttore”. “Non esagerare. Te l’ho detto, se ci chiami in causa prevedo che non finirà bene per nessuno. Quando stamattina ci ha chiamati di buon’ora, dopo la tua telefonata, è stato chiaro. È fuori di sé dalla rabbia, ma è disposto a metterci una pietra sopra, se lo farai anche tu. E credo di poterti dire che in tal caso ci guadagnerai qualcosa”. “Ah, dunque mi riporti un’offerta del direttore”. “Praticamente sì”. “Il quale pensa che io debba dar prova di buon carattere per fare carriera”. “Vedo che cominci a capire”. “Anche troppo bene. Ti farò sapere”. Il messaggio è chiaro. Se il comitato di redazione non mi appoggia, non ho alcuna possibilità. Ma non mi arrenderò subito. Mi toglierò la soddisfazione di lasciare tutti sulle 192


spine per un po’. Sindacalisti intrepidi. Richiamati all’ordine, non hanno avuto neanche il coraggio di telefonarmi. Hanno preferito attendere che mi facessi vivo. Magari speravano che rinunciassi ancor prima di arrivare in redazione. Duri e puri solo quando glielo ordinano. Mentre, nonostante tutto, a Enrico non dispiace la gente di carattere. Come tutti quelli che si sono affermati con la propria capacità, prova a sopraffare gli altri, ma se trova resistenza rispetta l’avversario, altrimenti lo domina e lo schiaccia. “Io non rientrerò nella schiera dei molli. Stavolta mi hanno isolato e sarò costretto ad abbozzare, ma troverò il modo di prendermi una rivincita, prima o poi. Come diceva mia madre: chi pecora si fa lupo lo mangia. Io non mi farò pecora. Voglio rispetto e lo otterrò”.

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XVI

Il coyote è protagonista di molti miti nei quali con trasgressione, ribellione, allegria, imbroglio, malizia e altro ancora, a volte aiuta l’uomo, più spesso porta disordine. Anche i politici portano più spesso disordine che aiuto alla società, ma di solito senza allegria.

Luisa Al partito la vita scorre stranamente tranquilla. Con l’aiuto di Alì sta crescendo la mobilitazione degli immigrati e delle loro organizzazioni. Intanto cerco di interpretare i desideri di Corradi: precisa e creativa e cos’altro ancora? “Abbiamo bisogno di qualcosa a effetto, una coreografia come quelle che fanno allo stadio. Per le televisioni, sai, voglio far trovare alle troupe un bel colpo d’occhio, allegro ed eloquente. Mi piacerebbe che nella catena si alternassero un gruppo di donne italiane a un altro di donne immigrate nei costumi delle loro terre di origine. Che ne pensi?” “Chiedi molto. Già sarà terribilmente difficile far superare a quelle donne la diffidenza e la paura. In più le vuoi in costume come se andassero a una passeggiata festiva. Ci provo, ma non garantisco il risultato”. 194


“Se ci provi, già mi basta. E mi raccomando, Alì, niente dettagli coi dirigenti di Prato”. Scoppia a ridere. “Vuoi dirmi che prepariamo una manifestazione pubblica che deve restare segreta?” “Non ridere, l’effetto sorpresa mi serve: se il sindaco e i suoi capiscono che ce la possiamo fare organizzano il boicottaggio. Quando sarà troppo tardi per fermarci, solo allora li coinvolgeremo. Fra un paio di giorni penso. In quel momento dovremo fare il massimo clamore possibile. Dimostreremo a tutti che un’altra strada c’è. Basta volerlo, e lui purtroppo non lo vuole. Ormai si è irrigidito nella difesa di questa sua stupida trovata”. “Come conti di contrastarlo?” “Io? Fossi matta, ci penserà Corradi. Forza ora diamoci da fare”. Abbasso la testa e ricomincio a lavorare. Alla trentesima telefonata sempre uguale non ne posso più di ripetere le stesse parole: il mio ottimismo si è sciolto in una stanchezza insopportabile. Forse Corradi aveva ragione quando ha detto che non ho le qualità giuste per la politica. Come ho potuto credere che ce l’avrei fatta?, che razza di illusa sono stata. Eugenio e il padre di Lorenzo sono sulla stessa barca, hanno frequentato le stesse scuole, gli stessi salotti. Io non frequento nessuno, sono andata a una scuola pubblica qualunque e mio padre, mio padre era l’Alunni, passionale, anarchico, idraulico. Nulla a che vedere con le stanze ovattate e la buona educazione. Mi ha regalato un’infanzia strana e un’adolescenza ancor più strana: molta solitudine e autonomia. Illusioni e 195


delusioni a giorni alterni, e una pericolosa fiducia nel genere umano. La sua gerarchia di valori non aveva nulla in comune con quella degli altri. Solo ora, dopo vent’anni, mi torna in mente una discussione con la mamma. Erano nella loro stanza, ed era tardi. Immaginavano che io e Laura fossimo addormentate. Era il venti del mese, i soldi già finiti. Nulla di drammatico, i negozi ci facevano credito perché avevano un gran rispetto di papà e soprattutto della mamma. Quello però non era un mese qualunque: le nostre compagne di scuola facevano la prima comunione, mi serviva un vestito per andare alla festa. Volevo a tutti i costi andare a quella festa. Volevo sentirmi normale, essere come le altre, uguali e solidali fra loro. Noi invece – io e mia sorella – eravamo le comuniste. Quelle che durante l’ora di religione uscivano dalla classe. Ogni volta che entrava l’insegnante di religione la maestra diceva: su, da brava Alunni, vieni con me, poverina, che ti accompagno fuori come vogliono i tuoi genitori. Uscendo sentivo gli occhi di tutti i compagni su di me. Me li portavo addosso come un fardello, come la croce di quel Gesù del quale parlavano in classe le mie compagne tutte insieme. Tutte tranne me. A volte la maestra mi accarezzava la testa e mi diceva: cara, io ti farei restare, ma poi tuo padre chi lo sente. Tornavo in classe l’ora dopo e i miei compagni mi dicevano: “Che culo c’hai, ci siamo talmente annoiati”. Nei crocchi invece mormoravano che continuando così da grande sarei stata scomunicata. L’insegnante – un prete – alimentava le voci, scuotendo il capo appena la porta si richiudeva dietro di me: povera ragazza. E a volte faceva il segno 196


di una benedizione. Quella compassione esibita era una ferita che mi bruciava per un’ora. Il mio più grande desiderio era dimostrare alle mie compagne che c’era qualcosa di normale nella mia famiglia e nella mia vita. Perciò volevo a tutti i costi il vestito della comunione come le altre, anche se la comunione la facevano solo loro. Papà e mamma dunque litigavano: “Chi se ne sbatte della comunione e di Giulia. Chi se ne sbatte dei vestiti”. “Infatti”, gli ribatteva mamma: “è di tua figlia che ti devi preoccupare. E se non lo capisci vuol dire che ho sbagliato a sposarti, sei un insensibile, un sasso”. “E cosa vuoi che faccia, che vada a chiedere la carità?” La mamma con tono improvvisamente suadente e conciliante: “Ma vai dal Pippoli, sta cercando idraulici per la manutenzione delle cliniche. Sei un compagno, lui è un compagno. Capirà”. Papà protestò e smoccolò, poi andò. E fu terribile. Il Pippoli accettò di malavoglia: “Io di rompicoglioni non ne assumo mai, ma se me lo chiede il partito”. Maligno e intrigante, perché il partito in questo caso era mia madre, che aveva preceduto papà con una telefonata. Glielo faceva molto pesare, e non mancava occasione per rinfacciargli qualcosa. Lo incontrava e davanti a tutti: “O Alunni, t’ho salvato dalla merda, eh? E ringraziami almeno”. Oppure sghignazzando: “Ma guarda tu se mi tocca assumere ’sti comunisti che so boni solo a chiacchierare”. Quando erano soli invece erano gran manate sulle spalle e gran parlare dei bei tempi del partito che una volta era così e colì e oggi invece un grande schifo. Fino al giorno che la manata il babbo gliele diede per davvero. La mamma aveva finito 197


presto ed era andato a prenderlo. Il Pippoli come la vede inizia la sua solfa paternalistica e sfottente. Concludendo con: “Alunni, finisci alla svelta e vai su nel mio ufficio che mi s’è otturato il cesso. Io intanto offro un aperitivo alla tua signora”. Il babbo non fiatò, gli diede solo un gran colpo in pieno petto, come ai fascisti ai bei vecchi tempi. Prese la borsa degli attrezzi in una mano e la mano della mamma nell’altra e la trascinò via. Se ne andò senza neanche prendere il dovuto. Passò poi lei in amministrazione, senza dirglielo, anche per garantirsi che Pippoli non l’avrebbe denunciato. A casa non se ne parlò mai più. Colpa del verme se m’è tornato in mente. Sì, caro mio, siamo stati sempre su fronti opposti. I padri, e ora i figli che si fronteggiano come i padri. Siamo nati su sponde diverse, tu sei un cinico arrivista linguaccione. Io no. D’improvviso mi sento meschina, mi tornano in mente le immagini di quel giorno a via Soriano e lungo il Bisenzio: esseri umani in condizione drammatica, donne che mi chiedevano aiuto come se fossi la loro ultima speranza. E Irina, poco più che bambina, alle prese con una vita crudele. Io che in confronto sono tanto fortunata, non posso perdere tempo a odiare qualcuno.

Eugenio Quando ho un problema grave mi viene una specie di prurito dalla nuca alle orecchie e riesco a smaltirlo solo camminando. Se capita in ufficio percorro chilometri intorno alla scrivania. È un po’ ridicolo, ma funziona, e ovviamente nessun testimone a raccontarlo. In questi casi Giuseppina, santa donna, gioiello prezioso, accessorio indispensabile della mia vita, mi costruisce una 198


barriera difensiva insormontabile tutto intorno: nessuno passa, né col telefono né dalla porta. Fra noi non servono parole. Lei mi osserva con discrezione. E sa. Quando mi siedo, mi dondolo per un po’, poi metto il fermo, assumo posizione a busto eretto, è il segno che ho recuperato la mia proverbiale lucidità. Lei allora compare con le questioni che le sembrano urgenti. Per ora continuo a camminare in tondo ed elenco i miei fastidi, per capire come neutralizzarli. Problema numero uno: come liberarmi di Lorenzo, che bussa direttamente e continuamente alla porta. In un momento di stupido entusiasmo l’ho autorizzato a non passare attraverso Giuseppina e lui ne approfitta. D’altra parte era rimasto malissimo per l’articolo e pensando al padre ho cercato di blandirlo. Come potevo immaginare che quello avrebbe subito rinunciato a fare l’offeso, optando per la marcatura a uomo, molto molto stretta. Avrà capito che non sarei morto di dolore se si metteva in disparte. Oppure è stata decisiva la frase di Pippoli senior: vedi, se ne è accorto anche Eugenio che sei scemo. Cerca di capire a che punto stanno le cose e vieni a riferirmi. È l’ultima cosa che faccio per te. Se mi deludi ancora, arrangiati. E lui, stupido davvero, è anche venuto a raccontarmelo. L’ho sguinzagliato dietro a Luisa per avere qualche informazione in più. Non l’ha trovata e lei non lo richiama. Così l’unica sua vittima al momento sono io. Mi tampina petulante e senza tregua. Sono esasperato dalla sua invadenza, eppure non posso cacciarlo. Meglio non tirare la corda: alla vigilia del congresso voti e soldi servono in quantità. 199


Ora Lorenzo se n’è appena andato, ho qualche minuto di pace – prurito a parte – prima che torni. Ne approfitto per riorganizzare le idee. Mi sono impegnato con quello scemo a nominarlo portavoce e a questo punto non so se, come e quando riuscirò a onorare l’impegno. Se mi tirassi indietro Pippoli senior non me la farebbe passare. Problema numero due: mi sono impegnato anche con Luisa – e lei è un grandissimo fastidio, anzi una vera rottura di coglioni – e tutto sarebbe andato liscio senza quel maledetto articolo, che ha scoperto il gioco. Solo per distrarla ho acconsentito alla manifestazione contro il muro, che già si preannuncia come fonte di grattacapi a non finire. Come se non bastasse mi sono impegnato con Corradi – problema numero tre, e rischia di diventare il più serio – a dare spazio a quella sconsiderata rivoluzionaria da bar. Per qualche motivo ha preso a benvolerla. I compagni di Prato adeguatamente istruiti potrebbero impedire a Luisa di portare avanti il suo progetto, ma quel vecchio occhiuto riesce sempre a sapere tutto. E poi Mara: problema numero quattro. Mi ha fatto giurare che avrei bloccato Luisa. Lì per lì la sua impuntatura mi tornava utile, e l’ho alimentata. Ma ora che la ragazza ha un potente alleato saranno cazzi amari, mi troverò fra due fuochi. Che avrà poi Mara per dichiararle guerra? Certo Luisa è molto carina e giovane, cosa che Mara non è più. Sospiro al ricordo: quanto era sexy Mara. Sexy e forte, femminile e mascolina al tempo stesso. C’è stato un breve periodo che rappresentava tutto ciò che io chiedevo all’universo femminile. Ma un uomo come me non resiste alle tentazioni e al momento di Mara mi attrae solo il ricordo di 200


come era bella e di come eravamo giovani. Ora per sentirmi giovane ho bisogno di carne fresca. Come Luisa. Quella stronza calvinista con la passionalità di un direttore di college inglese e il calore di un iceberg. È bastato un contatto ravvicinato per rattrappirmi gli attributi, mentre la sua faccia mi diceva: non verrei con te neanche se fossi l’ultimo uomo al mondo. E pensare che all’inizio mi era sembrato... La mente femminile è incomprensibile. Da quella mi aspetto di tutto: fra me e lei lascio sempre almeno mezzo metro, ma questo anziché rassicurare Mara la scatena: ricordati bene che la Alunni è incontrollabile, il mio intuito è imbattibile, mi ha notificato. Lasciar fare a Luisa la sua iniziativa, significa scontentare Mara. Cioè la differenza fra tornare a casa e sentirsi a casa, oppure tornare a casa e sentirsi in mezzo alle bombe come a Baghdad. E, per concludere l’elenco dei grattacapi, Giustina è alleata con Mara. Non che costituisca un vero problema, mi caverò d’impaccio col solito teatrino: sei l’unica che mi capisce, aiutami almeno tu. Lei si farà un pianterello e poi tornerà nei ranghi. Il tutto si risolverà con qualche fastidio – e Dio solo sa che non ne ho bisogno – e una gran perdita di tempo. Che se ne avessi preferirei impiegare con qualche bella donna, non in un gioco insulso. Giustina conta poco, perciò le dirigenti giovani la ignorano e la feriscono senza neanche accorgersene. Mara soffia sul fuoco, riportandole tutte le malignità che si dicono sul suo conto, arrotonda i pettegolezzi con dettagli che li rendono più credibili, e aizza Giustina a scopo preventivo, per fare terra bruciata intorno a qualunque donna. Negli ultimi tempi il suo principale obiettivo è Luisa. 201


Mi serve una grande idea per liberarmi dalla ragnatela. Giuseppina interrompe il corso dei miei pensieri. La guardo male, ma lei sa quello che fa e non si lascia intimidire: “Posso passarti la telefonata di Adelmo Pieri, il sindaco di Prato? È meglio se ci parli”. Detto da lei non è neanche una domanda. Ha sentito odore di rogne. Infatti il sindaco è agitatissimo, urla al telefono: “Pronto segretario, guarda, non ti chiedo neanche come stai, tanto sei sempre in tv e lo vedo da solo. Quindi vengo subito al punto, dal momento che sono fuori di me. Sento dire che il mio partito prepara nella mia città una grande manifestazione, della quale io non so nulla. Sono stati informati il prefetto, le forze di pubblica sicurezza, i cittadini di via Soriano e dintorni, i miei compagni, perfino gli uffici comunali, ma non io. Tutti, dal primo all’ultimo sfigato, pensano che sia contro di me: come hai potuto autorizzarla e pensare che il partito sopravviva a una provocazione così grande contro me che qui sono il leader, che controllo la zona, i voti, il consenso?” “Non esagerare Pieri, nessuno ti ha dichiarato guerra. Dobbiamo semplicemente far capire al paese che il muro è una tragica necessità, non la nostra linea preferita. Certo, sarebbe stato meglio se non ci fossimo trovati di fronte al fatto compiuto, se ti fossi consultato con qualcuno prima di fare una scelta di questo genere... anche tu oggi non saresti in difficoltà”. “Che discorsi, c’è un’autonomia delle amministrazioni locali, mica siamo in Unione Sovietica, buon’anima”. “Appunto, c’è anche un’autonomia del partito. O credi che la nostra azione si esaurisca nel far eleggere qualcuno, avallare a priori le sue scelte e non occuparci più di nulla? Sì, lo so che hai voti tuoi, ma onestamente devi riconosce202


re che senza le nostre bandiere... Ora tu devi tener conto dei tuoi elettori, ma pensa anche a noi: il tuo muro ha avuto il consenso pieno e plateale dell’opposizione, e il dissenso di gran parte del nostro elettorato tradizionale, per non parlare dei giovani, il che ci mette in un certo imbarazzo”. Il messaggio arriva al bersaglio e il sindaco capisce che non gli conviene proseguire su quel tono. Continua, controllandosi: “Ma allora io chi sono, l’ultima ruota del carro o il primo cittadino?” Poi, alterandosi nuovamente: “Chi cazzo è questa stronza, questa Luisa... una tua creatura, sento dire, una che per la sua carriera vuole affossare la mia... una pazza che vuole dimostrare che io faccio una politica da nazisti. Ma siamo impazziti... blocca tutto o io cambio partito”. Adelmo Pieri ha già avuto la sua parte di fiele, è arrivato il tempo di dargli un contentino. “Ma stai tranquillo, Adelmo, sai come sono i giovani, sempre entusiasti e con l’entusiasmo si rischia di sbagliare. Luisa – una stronza, come dici tu – è una di queste donne belle, ambiziose e senza umanità che pensano solo alla carriera e sono disposte a tutto pur di soddisfare la propria ambizione. Detto fra noi: se scopasse un po’ di più farebbe meno danni. Guarda però che non è una mia creatura... semmai... organizza la manifestazione con Corradi, è una sua collaboratrice stretta. È con lui che dovresti lamentarti. Io preferisco gente come Lorenzo Pippoli, un bravo ragazzo, molto più prudente e malleabile, che come sai viene da una famiglia affidabile. Se me lo chiedi posso affiancarlo a lei per limitare i danni. Meglio non andare apertamente contro Corradi, i vecchi a volte prendono delle sbandate, delle impuntature ostinate, quasi degli sbandamenti, se mi 203


capisci. Prudenza, fra non molto ci sarà il congresso. Poiché sono sicuro che avrò il tuo appoggio, ti prometto che per il momento le farò una risciacquata e poi – dammi un po’ di tempo – cercherò una soluzione più adeguata, sopratutto se... la manifestazione non dovesse riuscire, come prevedo. Hai fatto bene a chiamarmi, bisogna mettere un argine a questa generazione di irresponsabili che non capiscono la fatica del governare e del costruire il consenso. Hanno avuto la strada spianata, non sanno quello che ha penato gente come noi”, sento un mugugno che mi incoraggia a continuare questa filippica interminabile: “noi che abbiamo dovuto farci spazio in un’opinione pubblica ostile, che ci scatenava i cani contro quando andavamo per le campagne a fare comizi. Eh, caro mio, loro che ne sanno. Noi siamo della stessa età e della stessa pasta. Perciò dobbiamo tenerci uniti. Dietro le quinte io farò di tutto perché Luisa non ti danneggi, tu però falle vedere che collabori, è meglio non prenderla di petto, se no la spaccatura sarà evidente anche ai media e allora... ci siamo capiti, sta’ bene e sta’ tranquillo. Tienimi informato su come procede e suggeriscimi le mosse che potrebbero rendere la manifestazione, diciamo così, un po’ impopolare. Io farò altrettanto. Se non trovi me parlane con Lorenzo Pippoli. E, a proposito, se senti Corradi mettigli qualche dubbio sulla sensatezza di questa iniziativa, sulle scarse possibilità di successo. Ma non dirgli che te l’ho detto io. E non farne un caso. Se la signorina in questione non avrà più l’appoggio del vecchio, la facciamo fuori in due minuti. Ma fino a quando c’è lui alle sue spalle, non abbiamo spazio di manovra, almeno apertamente. Come al solito, prima separare, poi colpire. Mi raccomando, prudenza”. 204


Molto soddisfatto attacco il telefono. Il Pieri, non ho bisogno di vederlo in faccia per capirlo, è tutt’altro che placato. Bene, darà filo da torcere alla stronzetta, e nessuno potrà dire che l’ho aizzato. Ora posso smettere di girare in tondo come un toro ubriaco. Il risultato della telefonata è soddisfacente, come sempre io e Giuseppina siamo una coppia imbattibile: lei alza e io schiaccio. Potrebbe quasi fare politica al posto mio, per come è intuitiva e pronta. Ma è meglio che io non lo pensi nemmeno, casomai possa leggermi nel pensiero. Pieri e Corradi non si sono mai amati, ora poi... a quella stupida di Luisa ho scatenato Adelmo contro, posso smettere di occuparmene, non è più un problema. Anche Lorenzo è un grattacapo in meno: ha qualcosa da fare, si renda utile e soprattutto non mi rompa più le palle. Altrimenti pagherà per tutti. Capirai, a quarant’anni ha già fatto mille lavori e ancora deve spingerlo il padre. Già pregusto di dire al vecchio: contavo su di lui per sapere e prevenire, ma non è stato in grado, trovagli un altro genere di mestiere. Se Pippoli insiste sciolgo il Pieri contro di lui. E tutti contro Corradi. Splendido. Un progettino piccolo, ma suscettibile di grandi sviluppi. Il congresso è ormai prossimo. Pieri è un rappresentante molto autorevole e molto contestato del potente partito toscano: se vuole il mio aiuto deve darmi prova del suo. Sì, era ora che cominciassi a occuparmi di cose serie. Ho perso fin troppo tempo con quella stronzetta e le sue voglie di protagonismo. Impari a stare al suo posto, saprei ben io dove. E invece trova sempre qualche vecchio rincoglionito da infinocchiare che l’appoggia a spada tratta. Prima Tonino Majani, ora Corradi. Già, Corradi. Non capisco cosa ha in mente, ma 205


devo fargli terra bruciata intorno: non vorrei che candidasse qualcun altro a segretario. Fra noi non c’è mai stata grande simpatia, ma da quando Pippoli mi ha dichiarato il suo appoggio, Alfonso me l’ha giurata. Sempre col suo sorrisino del cazzo, sempre con quell’aria da vecchio saggio al di sopra delle parti, al di sopra delle cose del mondo. Sì: saggio, distaccato, e ti pugnala sorridendo e fa gli affari suoi alla grande. Speriamo che dia una sveglia a Pippoli. Perché poi un damerino azzimato come quello voglia fare politica e non l’indossatore o il ballerino, chissà. Giusto per rompere le scatole a me. Se non fosse che il padre è così generoso, glielo darei un buon consiglio... Ci risiamo, c’è di nuovo Lorenzo alla porta. Stavolta sono chiaro: “Senti Pippoli, finora abbiamo scherzato. Ma da questo momento in poi si fa sul serio. Fammi vedere se hai i coglioni. Bisogna che controlli la coppia CorradiAlunni per mio conto. Se senti qualcosa che va contro il buon nome di Adelmo Pieri, tieni presente che non possiamo permetterci di sputtanare il nostro massimo rappresentante a Prato. Perciò vieni subito a riferirmelo. Non fare critiche, commenti, battute, che poi non verresti a sapere più nulla. Non ti scoprire, anzi fai finta di lavorare per loro e poi mettiti al telefono con le tue fidanzate. Non voglio che la manifestazione abbia troppa visibilità. Chi si occupa dell’ufficio stampa?” “Luisa, in prima persona”. “Benissimo. Allora sono certo che uscirà poco o nulla: anche per questo conto su di te, i giornalisti devono capire che la manifestazione interessa a qualche dirigente, non al partito. Lei dimostrerà la sua inadeguatezza a trattare con la 206


stampa e il posto di portavoce se lo scorda. Come vedi ragiono sempre nel tuo interesse. Per concludere: rema contro e riferiscimi anche quando respirano. Vai ora, che abbiamo già perso troppo tempo. E ricorda: costi quel che costi, la catena umana deve essere un flop”.

Lorenzo Esco dall’ufficio di Rispoli come uno che ha respirato gas di scarico. Mi chiede di fare il doppio gioco, mentre mi fa capire che gli sto sulle palle, e se non fosse per mio padre con me non ci parlerebbe neanche. Ma i soldi e i voti del Pippoli gli fanno comodo. Potrebbe far finta di ascoltarmi, di apprezzarmi. Invece ha sempre quell’aria da “allaprimachemifai”. Chi si crede di essere, vecchio bavoso, che secondo me manco ce la fa, e usa le ragazze per un po’ di autopromozione a buon mercato. Si crede furbissimo e insostituibile. Non mi sopporta perché ho l’età per divertirmi e infatti mi diverto. Perché se lui avesse un padre come il mio non dovrebbe dire grazie a nessuno invece deve ingraziarsi il mondo intero. Perché le donne cercano me e non il contrario. Tranne Luisa, che non cerca né me né lui. Anzi, non gliene passa una, non gli fa gli occhi dolci, è distante e tenace. E molto molto carina. Lui è la volpe e lei l’uva. Non ci arriva e la disprezza. In verità saremmo alleati naturali io e lei, se non fosse per quel maledetto posto. Devo ottenerlo: non ce la farei a sentire la disapprovazione di mio padre. Mi segue come una maledizione fin da quando ero ragazzo. Ero adolescente e non lo sopportavo, figuriamoci ora. Il suo ritorno dopo periodi di assenza più o meno lunghi era un incubo: non 207


c’era gioia o complicità nel nostro stare insieme. Solo un eterno predicozzo. Lui era quasi maniacale, concentrato su due passioni esclusive: fare soldi con le sue cliniche e accumulare potere con la politica. Non vedevo nobiltà nella sua vita, non sopportavo la distanza fra quello che aveva sempre predicato e quello che aveva realmente fatto. Non sopportavo il pensiero che avesse preferito soldi e potere a me. Ora è tanto invecchiato. Le sue prediche, nei giorni in cui non mi perseguita, mi fanno perfino tenerezza. Ha sacrificato la famiglia perché è uno di quegli uomini nati per costruire. Al contrario di me, che sono nato per consumare. A modo suo ha sempre creduto di essere nel giusto, di avere una missione. Io invece amo sperperare giornate e occasioni. Ma ho ragione: il partito a cui ha dato tanto è diventato un coacervo di intrighi e interessi personali. Quanto è stata inutile la mia sofferenza di bambino cresciuto senza padre, visto che la sua causa si è persa per strada. Inutile la depressione e i pianti di mamma: non ce la faccio, da sola non ce la faccio. Tutto inutile. Perciò meglio evitare contorcimenti mentali e strategie impegnative. Sì, se non fosse per mio padre direi a Luisa: bella mia, di quel posto non so che farmene, prenditelo tu e in cambio torna a ballare con me come quella benedetta sera che ancora non so cosa è andato storto sul più bello. Invece siamo su due fronti opposti: lei con Corradi, io con Rispoli. Di ballare insieme non se ne parla, mentre devo far finta di lavorare con lei e intanto spiarla. Che schifo di compito. Come ha detto il segretario? “Costi quel che costi, costruirò una ragnatela dalla quale la poveretta non riuscirà a liberarsi e tu mi aiuterai”. Rideva all’idea e ha aggiunto qualcosa del tipo: beato te che vedrai un maestro all’opera. 208


Quanta sbruffoneria e accanimento contro una ragazza. Non vorrei e non dovrei prestarmi al suo gioco. Suo e non mio, anche se fa finta di avere a cuore la mia carriera e Sinistra Unita. In realtà mi disprezza perché adoro mondanità e pettegolezzi, mentre lui adora l’intrigo. Adoro la bella vita, lui adora il potere. Adoro le donne e lui pure. Però lui è un cinico e io no. Lui è disposto a tutto e io no. Agli altri dice che sono un bamboccione, solo perché non sono disposto a qualunque sacrificio personale o a qualunque compromesso. Chi se ne frega. A me piace l’easy life, però sono in grado di apprezzare chi, al contrario, ha chiari gli obiettivi e li persegue con tenacia. Come Luisa, che difende la propria carriera, posizione e prospettiva. Peccato che non me la dà. Sembra disinteressata al sesso e alla seduzione. È seducente suo malgrado. Figuriamoci se ci mettesse dell’impegno. Anche la sua competitività mi stuzzica, ma è una donna complicata, che richiede un impegno troppo grande, scoraggiante. La porterei volentieri a letto, e poi chissà, qualche volta al cinema o da amici. Ma non è quel genere di donna, lei vuole sapere qual è la prospettiva oppure vuole prendere l’iniziativa. No. Non è la stronzetta che dice il segretario. Non me la sento di fare la spia. Magari collaborerò poco, ma non le remerò contro subdolamente. L’importante è che Eugenio non se ne accorga. Busso alla porta dell’ufficio di Luisa.

Luisa “Marco?” “Sorellina, dovrai fare a meno di me per questa volta”. “Come sarebbe? C’è un gay pride fuori programma?” 209


“Non essere volgare. Il segretario non mi ha dato il permesso di aiutarvi. Mi ha risposto che vi ha già assegnato il verme e che non può sguarnire il partito per una manifestazione dagli esiti incerti. Sì, ha detto proprio incerti. Ho provato a insistere, spiegando che proprio per questo ci vuole grande lavoro se non vogliamo fare tutti cattiva figura. Ma non mi è sembrato per nulla preoccupato. Anzi, guarda, faresti bene a riferirlo a Corradi. Credo che lui debba sapere. È quello che rischia di più”. “Veramente penso di essere io quella che rischia di più. E ora, senza te...” Lui la butta a ridere e canticchia la canzone degli anni Sessanta – ogni tanto questa fissazione di Marco per i fabulous 60’s mi dà veramente fastidio: “Senza te, non vivrò, senza te morirò. Senti amica mia, Corradi rischia di più perché ha più da perdere. Tu non hai ancora nulla che faccia gola a qualcuno. L’emigrazione è un pretesto. È cominciata la lotta per il congresso”. Abbasso la voce, dal momento che è entrato Lorenzo: “Ma Corradi non si presenta per cariche di partito, che gliene importa”. “Se vuole correre per il Quirinale deve avere l’appoggio del segretario di Sinistra Unita. Di certo Rispoli non lo farà. Pippoli sta con Eugenio e perciò Corradi vuole segare il figlio, per rompere il fronte”, sospira e continua autoironico: “e io come sempre resterò ai margini. Ti pare giusto? Io che sono un genio prestato alla politica devo restare nell’angolino”. “No, ma la vita è ingiusta”, dico guardando fisso Lorenzo, in questo momento lo identifico con i miei guai. “Ora non c’è nulla che io possa fare, ma ti prometto che appena potrò...” 210


“Lascia perdere sorellina, pensiamo a te. Anzi, alla tua manifestazione. Il telefono nel mio ufficio c’è. Dammi un elenco di nomi e di cose da fare e io le farò, ma non dire niente a nessuno, tranne, se credi, a Corradi. Se no il segretario me la giura. Ci vediamo a pranzo al solito posto. Porta il foglietto con nomi e numeri di telefono. Ciao”. Mi rivolgo a Lorenzo come una furia: “A quanto pare ci sei stato assegnato al posto di Marco. È la prima volta che ti vedo comparire dalla porta, non hai ancora parlato con Corradi e non sai nulla dell’organizzazione che stiamo mettendo in piedi. Come pensi di esserci utile? Trotta bello mio, se no sei nei guai”. “Non ho chiesto io di sostituirmi al tuo prezioso Marco. Il vostro sembra un rapporto esclusivo che non ammette altri ingressi. Se non sapessi che è gay direi che hai una relazione con lui”. Sono furiosa: la sua frase mi ricorda la sua lingua e il mio attimo di debolezza. Perciò continuo col tono da maestrina che dà fastidio anche a me, ma non riesco a frenarmi. La voce stridula e i nervi tesi: “Marco è soltanto un amico, il mio più caro amico, ma dubito che tu possa conoscere il significato di questa parola. Per te le relazioni sono solo utili: il tale per fare carriera, la tale per fare sesso. Sei profondo come una pozzanghera”, questa frase l’ho sentita in un film e non vedevo l’ora di dirgliela. Ora che l’ho fatto comincio a sentirmi meglio. Lorenzo invece si fa stranamente serio, quasi offeso: “Sono in concorrenza con te, ma non per questo sono il diavolo. Mi giudichi male perché ho le tue stesse ambizioni e cerco di realizzarle. Conosco il ritornello: voi donne siete migliori, più intelligenti, più sensibili, più colte, più istrui211


te e via così. E per questo dovreste avere tutto. Ma che bisogno avete di sentirvi migliori, non vi basta essere uguali e battervi alla pari? No, preferite crogiolarvi nel vittimismo. Meglio piangersi addosso che imparare a lottare. Nessuno regala la vittoria, e perché dovremmo assegnarvela a tavolino? Tira fuori le tue armi e combatti, non puoi averla vinta solo perché sei donna. Noi da secoli ci scontriamo e vinciamo e perdiamo: lo impariamo da bambini. Fatelo anche voi e lasciate le vostre comodità e protezioni. Sì, guardami come se fossi il lupo di Cappuccetto rosso, credi di spaventarmi? Ho vissuto in casa con una madre depressa e quindi a tratti molto aggressiva, una sorella in carriera e quindi sempre aggressiva e un padre che l’aggressività ce l’ha nel DNA: pensi che possa preoccuparmi per uno sguardo truce? Ti sbagli bellezza, io sto al gioco e combatto come so, non faccio il santo, la vergine o l’eroe. Sono un raccomandato stronzo figlio di papà. Anche questa è vita. Se sei più brava dimostramelo. Comunque è l’ultima volta che ne parlo con te. Questa conversazione è troppo spiacevole e impegnativa per me che sono superficiale e scemo. Dammi degli ordini, boss, e facciamola finita. Se dobbiamo giocare al buono e cattivo, facciamolo fuori dall’orario di lavoro. Magari sul mio divano. Così poi giochiamo anche a medico e ammalata. Coraggio, che devo fare?” Taccio, spiazzata da questa inattesa tirata del verme. Ha trasformato la mia furia in stupore. In qualche modo me la sono cercata: sono stata eccessiva, e anche imprudente visto che mi è stato mandato dal segretario in persona. Non intendo scusarmi: è stato duro, ha tirato a far male, e ha detto un mucchio di sciocchezze. Però è stato onesto: dunque anche i vermi soffrono. 212


Il Pippoli-pensante è una novità che mi farebbe sorridere se non fossi ancora molto irritata. Ormai tutti si siedono in cattedra e mi danno lezioni. Tuttavia scelgo un tono più conciliante per rispondergli. “È sempre utile sapere come la pensa l’avversario, anche quando”, sorrido per fargli capire che sto scherzando, “è un vanesio vuoto come te. Non era mia intenzione offenderti, ma sono sotto pressione. A tratti penso di essermi imbarcata in un’impresa impossibile. Tu da dove cominceresti?” La tirata ha destabilizzato anche Lorenzo, ed è l’esatto contrario di ciò che gli ha chiesto Eugenio, perciò coglie la mano tesa e risponde serio alla domanda: “Dall’ostacolo maggiore, il partito”. “Il partito di Prato meno è coinvolto e meglio è”. “Sei matta. L’unica cosa sensata che puoi fare è chiamarli subito. La lotta politica non si fa giocando a nascondino, ma discutendo. Magari viene fuori qualcosa a cui non hai pensato. Noi da qui vediamo la foresta, ma non sappiamo se sotto un cespuglio c’è una trappola”. “Buffo, di solito si dice il contrario”. “Da lontano vedi il panorama, ma non i singoli uomini che vivono e soffrono e gioiscono e fanno la storia. Guarda che è una citazione dal pensiero di Pippoli senior. A lui piace dispensare massime di filosofia spicciola e la sua vita è tutto un inno all’equilibrio. Ne ha speso tanto con gli altri che per noi di casa gliene è rimasto pochino. E comunque non puoi operare a Prato contro il partito di Prato. Non puoi arrivare lì un giorno e dire: eccomi, ho qui pronta una certa manifestazione per voi, oggi vi aspetto tutti in piazza. Neanche gli amici di Corradi la prenderebbero bene”. 213


“In effetti sto rimandando il momento del confronto perché spero che se ne faccia carico lui”. “Hai paura e aspetti che papà ti levi dall’impaccio? Credi a me, che di padri ingombranti me ne intendo: se pensi di diventare qualcuno all’ombra di Corradi, sbagli. Te l’ho detto, devi batterti per ottenere ciò che vuoi”. “Da quando sei diventato così saggio e sincero?” “Da quando hai chiarito che non sono il tuo tipo, ho deciso che non la passerai liscia, ti dirò tutto ciò che penso. Riuscirò a levarti quell’arietta supponente e ti dimostrerò che non sei migliore di me”. Non rispondo alla provocazione. Scelgo la sincerità. “Sarà molto sgradevole, dovrò affrontare un mucchio di perché e percome e di obiezioni. Per questo rinvio il momento. Farò come dici e poi naturalmente me ne pentirò. Prima però devo consigliarmi con Corradi: non per mettermi sotto il suo ombrello, ma in questo momento è lui il capo e pretende di essere al corrente di tutto. E, Lorenzo, grazie”. Non mi risponde, tira su le spalle per minimizzare e si immerge nella lettura di chissacché. Ma il boss è uscito per una riunione e dicono che non tornerà per questa sera. Niente maestro, niente padre. Come dice Lorenzo, non mi resta che agire da sola. Si è fatta l’ora del panino e dell’appuntamento con il mio amico del cuore. La giornata è bella e un po’ più fresca, il che non guasta. Inforco gli occhiali da sole, e me la prendo comoda, camminando come ogni giorno verso lo zozzone, occhi puntati in alto, verso il cielo e la punta del campanile di Santa Maria del Popolo. Per questo non vedo subito il volto, ma riconosco la voce femminile. 214


“Me lo dai oggi un iuro?” “Sicuro che te lo do. Come stai Irina? Ti vedo sempre più magra. Hai pensato a quello che ti ho detto l’altro giorno?” “Io sta bene, allora mi dai un iuro intero?” Glielo porgo e aggiungo: “Ti regalo anche questa”, mi levo una spilletta di smalto tutta colorata fatta dal partito per l’anniversario dell’unità d’Italia e gliela porgo. “Così ti ricorderai di me se sarai in difficoltà. Se vuoi aiuto chiamami, su questo biglietto c’è il mio numero”. “Sei buona e bella, siniora. Non posso, non posso. Però dimmi tuo più grande desiderio ti assicura io succede”. Sorrido all’adolescente disperata e disgraziata che mi promette la luna. “Vediamo”, scherzo, “il mio più grande desiderio è far tornare in vita Otis Redding”. “Tuo fidanzato? Morto? Sei sola, perciò fermi e parla con me? Io non fa miracolo, ma lui lassù te protegge. Io promette”. Sono quasi pentita, non volevo prenderla in giro. “Scherzavo. Otis era un grandissimo autore e cantante. È morto giovanissimo al massimo del successo. Ha una voce che quando lo sento mi si scioglie qualcosa dentro, e so benissimo che tu non puoi fare nulla, non m’importa. Non mi aspetto niente da te, mi fermo a parlare perché sono una politica e spero che potrò cambiare il mondo. Che tutto quello che faccio serva a qualcosa per chi non ha niente, come te”. Serissima Irina le risponde: “Politica io non sa. Ma tu sbaglia, io qualcosa fa per te. Tu buona, tu amica, tratta bene me e parla con me”. 215


Sono gratificata dal giudizio di Irina, ma mi sento ridicola a tentare di spiegarle concetti difficili ed esistenziali. La saluto: “Ciao Irina, e se hai bisogno chiamami. Ricordati, a volte possiamo cambiare anche le cose peggiori. Io ti posso aiutare”. Irina sorride di un sorriso da vecchia: vorrebbe credermi, ma la sua vita smentisce la speranza. Non so nulla di lei, non so quanti anni ha, se è schiava di un italiano o di un’organizzazione straniera. Non so se davvero minacciano i genitori o i fratelli, o se sono stati loro a venderla. In queste condizioni e senza la sua volontà, aiutarla è impossibile. Forse – mi consolo con consapevole ipocrisia – Irina nella disgrazia è perfino fortunata: altre ragazze belle e giovani come lei sono costrette a prostituirsi. A lei chiedono solo di mendicare. Umiliante, ma sempre meglio che dover vendere il proprio corpo. Se Eugenio non fosse circondato da chi gli dà sempre ragione. Se ogni tanto guardasse negli occhi le persone davvero sfortunate, non avrebbe più la forza di abbandonarle al loro destino. Forse io non sono migliore: ora girerò l’angolo e dirò addio a Irina, il suo mondo sparirà e il mio prenderà il sopravvento. Cancellerò dai miei occhi la sua immagine e le sue sofferenze e mi ritroverò alle prese con la mia solita vita, aggredita dalla mia stessa competitività, ferita da eventi che per quella povera ragazza sarebbero un miraggio. A poco più di trent’anni mi lecco ferite che paragonarle al suo strazio sembra un gesto osceno. Dovrei vergognarmi. Non voglio diventare come Eugenio, Corradi, Giustina, Mara, tutti gli altri. Ma, se non farò come loro, non entrerò 216


mai nella stanza dei bottoni. La goccia di plastica rosa di Irina mi brucia nel palmo della mano. “Giovanni sei tu?” Ho visto di spalle il giornalista e l’ho chiamato d’istinto. Che fortuna: lo inviterò a pranzo con Marco, e forse riuscirò a rimettere sui binari un rapporto avviato male. Meglio che telefonare apposta, chiedergli un appuntamento, dare spiegazioni... non che mi interessi tanto, è per seguire i consigli di Marco e di Corradi: farsi amici i giornalisti. Nulla di meglio che un buon panino nel luogo della prima litigata. “Giovanni, aspettami”, urlo, ma lui non risponde, sta parlando al cellulare, si gira appena, fa un cenno con la mano come per dire ti chiamo dopo, e si allontana a grandi passi verso via del Leoncino. Evidentemente vuol farsi pregare, darsi le arie da giornalista impegnato. “Quando sarò portavoce le cose cambieranno molto. Sarò trattata con maggior rispetto e temuta, e non dovrò correre appresso a un Mustacchi qualunque. O forse aveva davvero fretta?”

Giovanni L’ho vista di lontano e ho deciso di evitarla. Perciò ho fatto finta di parlare al telefono. Sono successe troppe cose e troppo in fretta da quando l’ho conosciuta. È totalmente diversa dalle persone che frequento: giornalisti e giornaliste sempre in polemica con capi e colleghi, agitati per una firma mancata, per un servizio mancato, per una promozione mancata. Gente che gesticola e parla ad alta voce nei bar e pensa di essere al centro del mondo. Li conosco bene e so 217


come rapportarmi a loro. Luisa invece è una sconosciuta, una minaccia alla mia stabilità. Dopo avermi maltrattato, m’incontra per strada – di sicuro starà andando dallo zozzone all’appuntamento quotidiano con Marco – e mi chiama, come se niente fosse. Non ha nessuna delle caratteristiche del politico a cui siamo abituati: non è diplomatica, non è mediatrice, non è formale, non è prevedibile, e purtroppo non è brutta, ed è fidanzata con un bell’uomo che non la molla mai. Meglio evitarla. Che si tenga Marco e lasci in pace me. Allungo il passo: non voglio fare tardi all’appuntamento con Piera Trivelli, una parlamentare del centrodestra, il nome giusto per iniziare la serie donne in politica che il caporedattore mi ha proposto per siglare la pace e uscire dal limbo. Però... riprendo in mano il telefono.

Luisa “Marco, non sai cosa mi è capitato”. Mentre lo saluto con un rapido bacio mi confido, gli racconto la sparata di Lorenzo e la fuga di Giovanni. “Il giornalista è saggio a starti lontano. Il verme è verme”, sentenzia Marco, “ma tu passi come un carrarmato sulle teste degli altri. Anche con me, non mi chiedi come sto, cosa provo, se ho dei problemi. L’importante è come stai tu, cosa è capitato a te. Io ti perdono, perché senza di me saresti finita, ma non tutti sono disposti. Se Corradi è il tuo maestro, io sono il tuo padre spirituale. E ascolta bene: per una volta il verme ha ragione. Coinvolgi il partito di Prato prima di andare avanti. Altrimenti potresti girare l’an218


golo e trovare un grande, robusto muro, tutto per te. Adesso pensiamo al panino che ho una riunione fra venti minuti. Il segretario non mi chiamava da un mese, ma per essere sicuro che non ti aiuti ha scoperto che gli sono indispensabile. Poi ci vediamo stasera per una pizza: il mio fidanzato è volato a Milano per lavoro. Cioè, questo è quello che mi ha detto. In realtà credo che mi abbia raccontato una balla, e stia iniziando un’altra storia. Comunque, sono solo. Non sei il mio genere, però mi darai la spalla e mi asciugherai le lacrime. A proposito, anche se sei un’ingrata egoista sono uscito un po’ prima e sono passato da Ricordi. L’altro giorno te l’avevo promesso”. Mi porge un pacchettino. “Te la ricordi quella canzone di Lucio Dalla della stella che fa a gara con il coyote per chi sa raccontare la storia più fantastica che sia mai stata inventata?” “Certo che me la ricordo, delle sue è la mia preferita. Ma che c’entra con me?” “Tu vuoi fare la parte della stella. Ma nella gara per la vita vince il coyote, perché la vita è lotta dura, e il coyote è allenato alla lotta. Nessuno lo corteggia, nessuno lo guarda sospirando. Al più lo temono e lo scacciano, e lui impara a vivere, a lottare, a vincere. Nessuno ti regala niente, e perché dovrebbero, se ciascuno si è fatto largo con fatica? Pensaci, intanto che ti prendo il solito”. Ho tutto il tempo per pensare. Mentre va a prendere il panino per entrambi gli suona il telefono, si allontana dal bancone affollato e sta via un po’. Torna con un’aria sorniona e gli occhi che ridono. La telefonata l’ha messo di buonumore. “Pensato: grazie del regalo, ma non ci tengo a diventare coyote. Se devo vincere con il metodo sbagliato, preferisco perdere”. 219


“Ti prego, non dire sciocchezze o mi riprendo disco e panino. Sai perché il coyote era sacro, un semidio per i pellerossa d’America, tanto che alcuni gli attribuiscono la creazione della terra, altri quella del cielo? Perché avevano una gran considerazione per chi combatte la lotta della vita. Ce l’hai con lui perché ulula o perché mangia carogne? Poveretto, se non trova altro... e poi è una funzione ecologica”. “Non dire schifezze. Non ho nulla contro il coyote, ma non gli voglio assomigliare”. “Ascolta il disco e rifletti bene. Ciao, a dopo”. “A dopo dove, quando?” “Inaugurano il Cacio e vino al Testaccio, un locale di tendenza, con cibo a chilometro zero e musica rigorosamente anni ’60. Vediamoci alle venti davanti all’ingresso del partito”. Vedendo la mia faccia dubbiosa aggiunge: “O hai di meglio da fare?” Lo saluto affettuosamente: “Stupido, mi sono impegnata ad asciugarti le lacrime. A dopo. Grazie per il disco e per tutto”. Dopo il panino, spazzolino e dentifricio. Una vecchia abitudine imparata da mamma, che stava fuori giornate intere e diceva: se dovessi lavarmi i denti solo quando sto a casa, mi sarebbero già caduti tutti. Mi blocco davanti al bagno delle donne, sentendo le voci di Mara e Giustina. Interessante. La signora del segretario ha il solito tono melenso, ma con una punta di eccitazione e una nota alta che mi permettono di sentire distintamente. 220


“Povera stupida, pende dalle labbra di ogni uomo che le dia un po’ d’importanza, Majani, Corradi. Ma Eugenio le sta preparando un piattino: il Pieri la vede come il fumo negli occhi, e fosse per lui non metterebbe piede in Toscana. Per la faccenda di via Soriano si era permessa di disturbarlo già in passato. Figurati, una perfetta sconosciuta che rompe le palle a uno dei nostri sindaci più importanti, grande sostenitore di Eugenio. Così mio marito, che di solito è troppo buono e difende tutti i suoi collaboratori, stavolta è stato chiaro: ho autorizzato la Alunni a fare la manifestazione, perché è fortemente appoggiata da Corradi – gli ha detto – ma non è persona mia. Io la subisco, come te. Non ti chiedo di aiutarla. Il sindaco gliene è stato grato e tutto il partito a Prato ha tirato un sospiro di sollievo, e gli ha garantito che anche questa volta lo appoggerà al congresso. La poverina non immagina quanto le sarà difficile arrivare fino in fondo. Col Pieri non si scherza”. L’altra la interrompe: “Però l’idea è buona”. “Giustina, non vorrai appoggiarla. Le nostre compagne, le deputate, le donne che ci seguono, non devono aderire a questa catena umana”. L’altra si sente punta nel vivo: alleate sì, ma le donne sono una sfera di sua diretta competenza. “Me lo stai dicendo ufficialmente? Perché guarda, io la trovo un’iniziativa mica male, e poi Luisa stavolta ha avuto il garbo di venire a chiedere il mio parere e il mio aiuto. Non che il mio parere conti quanto il tuo, naturalmente”. “Non mi dire che quella stronzetta ha intortato anche te. E non essere ridicola, chi sono io per darti un ordine? No, la mia è una considerazione personale. Quella è un’irre221


sponsabile: se riuscirà a organizzare la manifestazione ci troveremo il partito spaccato”. “E lei portavoce”, aggiunge Giustina malignamente. Mara non raccoglie. “Credimi, non ce ne libereremo mai più”. “Tu non te ne libererai, per me un quadro femminile che avanza è una medaglia in più”. “Certo, lasciamola libera di prendere il sopravvento, hai dimenticato come parla di te e di me?”. Poi, vedendo che Giustina ha un’espressione più incerta, tira l’affondo: “Dovremo inventare qualcosa di importante per sabotare la stronzetta e per neutralizzare il suo potente alleato”. “In sessant’anni non c’è riuscito mai nessuno. Corradi è troppo astuto”. “Prova a parlargli, cerca di capire se è disposto a sfilarle l’iniziativa in cambio del tuo appoggio”. “Il mio appoggio? Sai cosa gliene frega”. “Eugenio potrebbe essergli molto riconoscente e dargli il via libera per la presidenza. Quel vecchio non demorde mai, è assatanato di potere. Spiegaglielo bene: se la Alunni continua, Pieri farà fallire la manifestazione e Corradi può mettere una pietra sulle sue smodate ambizioni. Senza la Alunni invece tutto il partito collaborerà, la manifestazione sarà un successo e il merito se lo prenderà tutto lui”. “Corradi è un uomo all’antica, se ha preso un impegno va fino in fondo. Proverò, ma non ci spero”. “Se parti con questo entusiasmo... Vedi anche se il vecchio sa qualcosa di interessante su Luisa. Come è riuscita ad avere il ritratto da nostra signora della politica da quel Mustacchi...” 222


“Che c’è da capire, i giornali cercano facce nuove e poi a leggerlo non era tanto cortese”. “Certe volte sei esasperante. Fai l’ingenua con me? Voglio sapere perché hanno pensato proprio a lei, se ha fatto qualche passo falso, si è lasciata andare a qualche confidenza, qualche imprudenza che lui non ha pubblicato. Se così fosse, capisci, il partito ha diritto di saperlo. L’ho suggerito anche a Eugenio, ma lui è troppo signore. Ha parlato col giornalista e non gli ha cavato nulla. Bisogna essere più brutali, un po’ volgari per ottenere qualcosa”. “Grazie, quindi pensi che io sia brutale e volgare. Vedrò cosa riesco a sapere. Ma lei non è una che si lascia andare, e Mustacchi chi lo conosce”. “Mustacchi non è fidanzato con Anna Laura, quella che scrive sullo stesso giornale e ti telefona sempre per avere notizie?” “Fidanzati non so, ma lei ne parla spesso. Hai ragione, ci proverò, poi ti farò sapere”. Si salutano. Non posso farmi scoprire mentre le spio, devo andarmene. Faccio appena in tempo a girare un angolo, come se stessi arrivando in quel momento. Quasi sbatto la faccia su Giustina e faccio appello a tutte le mie risorse per sorriderle da un orecchio all’altro. “Carissima, quando possiamo vederci? Vorrei aggiornarti. Come di certo già saprai, il segretario mi ha dato l’ok per Prato”. “Quando vuoi. Entro il mio solito orario, ti aspetto. Oggi non ho riunioni”. “A più tardi, allora”. Entro in bagno con una gran voglia di vomitare: che ipocrita, lei che dovrebbe essere l’amica delle donne per eccel223


lenza. Meglio Lorenzo, quasi quasi. Almeno difende il suo futuro. E lei cosa difende? Piccoli favori da parte di Eugenio e Mara, il segretario e il segretario ombra, lo zar e la zarina, il potere e la sua stampella. Interessante però quello che si viene a sapere frequentando i bagni. Per esempio, a quanto dicevano le due streghe, Mustacchi ha una fidanzata: gli uomini, tutti uguali, sembrava attratto da me. Corradi fortunatamente è tornato. Ed è molto interessato a ciò che gli racconto. Alla fine fa cenno di aspettare in silenzio e chiama il sindaco: “Carissimo compagno Pieri... figurati, è sempre un piacere... Vengo subito al dunque. Dobbiamo vederci quanto prima. Lo so che sei molto impegnato, vengo io da te. Ho una persona da presentarti. Sì, Luisa Alunni, ne hai sentito parlare già molto, lo credo. Anche lei di te, e ti ammira talmente che è in soggezione: da giorni mi aveva chiesto di chiamarti e realizzare il contatto. Ma io scioccamente non l’ho fatto subito e poi, sai com’è l’età, me ne sono dimenticato. Oggi mi chiedeva conto e devo scusarmi con tutti e due. Spero che questa mia trascuratezza non lascerà ombre, non potrei perdonarmelo. Allora a venerdì. Benissimo. Ciao”. Chiusa la telefonata si rivolge a me: “Ecco fatto. Credo che ora sia tutto sistemato. Nella forma, s’intende. In effetti ho sbagliato a non chiamarlo prima”. Abbassa gli occhiali sul naso e aggiunge: “Mi sorprendi, inizi a pensare da politica”. Sarei tentata di dirgli che non è una mia idea, ma la telefonata di Giustina mi leva dall’incertezza: “Alfonso, come stai? Sempre sulla breccia. Bella questa iniziativa di Prato”. “So che la Alunni te ne ha parlato”. 224


“Solo accennato, ma mi piacerebbe chiacchierarne un po’ con te”. “E allora vieni, ti aspettiamo”. “Intendo solo noi due”. “Va bene”. “Dieci minuti e sono da te”. Appena chiusa la comunicazione Corradi continua a interrogarmi come se niente fosse. “A che punto siamo con le altre organizzazioni? E Mustacchi, ci aiuterà?” “Non credo. Forse avremmo più chance chiedendolo a una certa Anna Laura. A domani maestro, ti lascio alla responsabile femminile, che vuole parlarti senza testimoni”. Lui si limita a ricambiare il saluto, solo mentre sono già sulla porta ribadisce: “Stai serena. L’ho già detto, non cambio cavallo in corsa”. Lasciando la stanza ripeto a me stessa come un mantra: andrà bene, andrà bene, andrà bene. Ma sono agitata. La giornata densa di colpi di scena, la conversazione colta in bagno. Una quantità di fastidiosi segnali. Come la relazione di Mustacchi con la sua collega. Devo saperne di più. Domani lo chiamerò.

Corradi È sempre una signora. Mi alzo per accoglierla, poi mi siedo allo stesso lato della scrivania. Giustina è sensibile a queste piccole cortesie: il suo amico Eugenio non l’ha di certo abituata a riceverne e a me non costa nulla. “Carissimo Alfonso, non sai come ti sono grata. Nessun altro dirigente come te promuove i quadri femminili”. 225


“Valuto le persone sulla base delle capacità e non del genere, come dite voi, che non mi interessa affatto”. Ma Giustina è venuta con uno scopo preciso e non si fa sviare. “Gli esiti delle mie battaglie nel partito ormai si vedono e questo mi gratifica. Anni fa sarebbe stato impensabile candidare una donna a portavoce. La Alunni è determinata e in gamba a modo suo, non so se ce la farà adesso con quella sua acerba rigidità, ma prima o poi sfonderà”. “Mi stai suggerendo di non aiutarla?” “Secondo me ha bisogno di un altro po’ di gavetta, di acquisire moderazione, tolleranza verso le idee altrui. Ha passato i trent’anni da un pezzo e si comporta ancora da giovane radicale. Non ti sembra presto per darle una così grande responsabilità?” “Non è una mia idea, non gliel’ho proposto io l’incarico”. “Eugenio a volte è troppo generoso. Quanto alla manifestazione, ci sentiremmo tutti rassicurati se fossi tu in prima persona, con la tua esperienza e autorevolezza, a condurre i giochi. I compagni di Prato daranno più volentieri credito a te”. Dovrei risponderle: vergognati. Ma la vecchiaia mi impedisce di fare fatiche inutili come invitare la sua coscienza a battere un colpo. Sarò più chiaro e meno offensivo. Forse. “È un’idea di Luisa. Non sono così miserabile da impadronirmi delle idee altrui. Il tuo idolo forse lo fa, io no”. “Il mio idolo, cioè il tuo segretario?” “Sì, il nostro segretario. Puoi riferirglielo se credi, a lui e alla sua signora: fino a quando lavora con me, se fate la

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guerra a Luisa è come se la faceste a me. E questo è un genere di ragionamenti che voi capite bene, mi sembra”. Giustina se ne va senza quasi salutarmi. Dall’imbarazzo e dalla rabbia inciampa in una cassettiera e nemmeno può lamentarsi per dignità. In questo momento mi odia, ma farebbe meglio a odiare Mara che l’ha messa in quella situazione. Un giorno le farò un discorsetto: lascia che la zarina se la sbrighi da sola. Dopo tutto sono beghe sue. La politica non c’entra. E tu che ci guadagni? Mah. Anch’io che ci guadagno a impicciarmi delle loro storie?

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XVII

È più facile sentire un coyote che vederlo. Anche i politici li sentiamo facilmente (ce n’è uno in ogni programma radio, tv, dal varietà al festival musicale al tg), e di persona non li vediamo mai.

Luisa Se non avessi promesso a Marco di accompagnarlo andrei diretta a casa: non desidero altro che le pantofole. Tanto meno ho voglia di mondanità chiassosa. Ma lui è solo: una sera a casa senza amici e si sente abbandonato. Devo andare e devo rendermi presentabile: il mio look nature urta il suo senso estetico. Una ravviata ai capelli, un’ombra di rossetto, un tocco di cipria compatta sul naso, di più stasera non me la sento. Meno male che la scorsa settimana ho lasciato in ufficio una magliettina di viscosa color perla, che mi dona. È la mia riserva nell’eventualità mi si macchi la camicetta e non possa tornare a casa a cambiarmi. La indosso e mi guardo riflessa nel vetro della finestra: non male, ma devo levare il reggiseno di pizzo rosso, un regalo di Lalla. Eravamo andate insieme per vetrine in una delle sue rare venute in Italia. L’ha visto e mi ha detto: “Se hai il coraggio di metterlo te 228


lo regalo”. Io le ho risposto rilanciando: “Se tu indosserai il completo tanga rosso e reggicalze”. Abbiamo riso come due ragazzine per il regalo incrociato. Sarà la seconda volta che lo indosso, la prima per la scommessa con Lalla e oggi perché non ho avuto tempo di fare il bucato. Nel cassetto mi era rimasto solo quello, che spara anche in trasparenza. Meglio niente, tanto ci sarà poca luce e nessuno baderà a me. Scendo: Marco è già al portone. Mi aspetto il solito commento acido sulla mia mise, invece per fortuna nota altro. “Bellezza, che è quella faccia da sorcio in bocca?” “Devo assolutamente raccontarti”. “Per favore, non stasera, non parlarmi di lavoro se no mi uccido oppure ti uccido”. Ma io implacabile gli riferisco l’episodio del pomeriggio in bagno e già che ci sono lo colorisco un po’. Sono sicura che gli piacerà moltissimo. Infatti ride divertito. “Bisogna festeggiare l’evento storico: i bagni delle signore sono diventati strategici come quelli degli uomini. Complimenti, cara, è soprattutto merito tuo. Se le due arpie non avessero visto in te un pericolo, non saremmo qui a celebrare il primo episodio di lobby nei cessi für damen: sono fiero di te. Hai avuto il tuo battesimo del fuoco, sei brava come un uomo. Hai tanti nemici come un uomo. Hai le tette, è vero, e un po’ si vedono, ma col tempo se continuerai a non usarle si atrofizzeranno, potresti perderle e allora saresti perfetta. Andiamo, prendimi sotto braccio fammi sentire un po’ di calore umano. E rilassati. Ti divertirai”. “Ne dubito. Chi ti ha invitato?” “Sorpresa. Lo saprai quando arriviamo”. 229


L’aria è dolce e c’è un buon profumo di tigli. Seguo il suo consiglio: mi rilasso. “Hai fatto bene a forzarmi per uscire. Sto diventando sempre più pigra e appartata. La sera sono stanca e non vedo l’ora di chiudere i rapporti col mondo. Faccio una vita da monaca, che tristezza”. “Lo so, ti vedo invecchiare da sola. Diventerai come quelle democristiane di una volta, con i polpacci da calciatore e le scarpe da suore laiche. Basta che ti guardino che ti spaventi e ti senti nel peccato, anche se non peccheresti mai con loro. Fatti un bel fidanzato, finché sei in tempo. Un omaccio con cui dividere le tue serate lo puoi ancora trovare. Quando ti saranno cresciuti i baffi e calate le tette sarà troppo tardi”. “L’unico uomo che sento affine a me come spirito, cultura, l’unico con cui voglio dividere le mie serate sei tu. Che posso farci se l’uomo che desidero ama un altro?” Marco si fa serio. “Sorellina, io non scherzo. Ti stai giocando troppo per il lavoro. Pensa a te. Il partito non è tutto, la carriera non è tutto”. “Per favore, non usare quel termine osceno, carriera, altrimenti ritiro tutto quello che ho detto su di te. Ho assunto un impegno con me stessa e con gli altri. E lo porterò in fondo. L’amore può attendere”. “Non è vero. L’amore non può attendere, ma nessun uomo ti si avvicinerà se non appendi il cartello: disponibile. Sei acida come una zitella acida. E dai il meglio di te solo per cazziare gli altri. Quando ti ho conosciuta eri una deliziosa pigra ragazza sempre oscillante fra l’entusiasmo e l’ironia. Oggi hai il passo del garibaldino e il cipiglio di un 230


prete di campagna. Nessuno può sopportarti più di dieci minuti. Basta, stasera fai la carina e distendi quella ruga in mezzo alla fronte, non troveremo il plotone d’esecuzione là dentro”. Il locale è pieno all’inverosimile. Peggio di un plotone d’esecuzione per me, che ho voglia di scappare. Impossibile: Marco mi tiene saldamente per un gomito e, dopo essersi guardato un po’ intorno, mi conduce verso un angolo più tranquillo: si orienta facilmente in mezzo alla mondanità. Lì, a un tavolino, è già seduto Giovanni Mustacchi. Con una giovane signora. Appena ci vede si alza senza alcuna sorpresa in volto, dunque era tutto architettato, e presenta la sua accompagnatrice: Anna Laura Proietti, una collega. Piacere, piacere. Dopo le formule di rito Marco si siede accanto a lei e Giovanni accanto a me, che nel frattempo ho drizzato il pelo come un gatto. Non avrei mai immaginato di incontrarlo stasera, e non mi fa piacere vederlo in compagnia della mia potenziale nemica. Conferma i pettegolezzi di Mara e Giustina. Tuttavia quando mi chiede: “Sembri sconcertata: non ti piace qui?”, cerco di non far trasparire la mia delusione. “È carino, ma i rumori forti, gli arrembaggi per prendere un pezzo di parmigiano o un ravanello non fanno per me. Guarda quelli, stanno facendo una lotta greco-romana per arrivare al vino”. Giovanni ride: “Non giudicarli male, quelli sono professionisti dell’FPC, food, people, celebrities, la magica ricetta per una serata ben riuscita. I pierre li usano per riempire le sale e trasformare ogni inaugurazione in un evento affollato”. 231


“Cioè lo fanno di mestiere?” “Non proprio. Nessuno li paga. Il loro vantaggio è svoltare la serata, vedere, farsi vedere, mangiare, e il giorno dopo poter dire c’ero anch’io”. “Come li distingui dagli invitati semplici come noi?” “Dai gomiti larghi”, spiega Giovanni con aria seria e gli occhi di liquirizia che ridono, “per farsi strada verso l’agognato tavolo. Dall’abilità e l’equilibrio con cui tengono in una mano bicchiere e piatto, e nell’altra tovagliolo e posate”. Vede la mia espressione e aggiunge ironico: “Non sottovalutare queste capacità, ci vuole un lungo allenamento, forza fisica, tenacia e resistenza. Si servono per primi, e nonostante gli attacchi delle orde avverse che premono per accedere al buffet non perdono mai la posizione, incuranti delle occhiate dei camerieri e delle pressioni della fila che incalza. E hanno un fegato d’acciaio, a prova di crema fritta, olive ascolane e fiori di zucca, cibo prediletto, che non richiede scomodi coltelli e volendo neanche la forchetta. Disdegnano le tartine – non ci si fa cena – amano i risotti, anch’essi molto adatti all’equilibrio precario del piatto e bicchiere nella stessa mano. Insomma, sono professionisti a tutti gli effetti, affidabili e selezionati dai pierre, ai quali garantiscono la sala piena”. “E che vantaggio ne hanno i pierre?” “Che domanda ingenua. Un’inaugurazione o una serata, per diventare un evento, un successo insomma, ha bisogno di gente che si accalca per entrare, e di un certo numero di vip. I primi fanno numero, i secondi fanno notizia. Se la quantità è garantita dai professionisti del buffet, loro possono concentrarsi sui pochi nomi che contano”. “Vip come attori, cantanti?” 232


“O politici. Se c’è un pubblico abbastanza folto il politico accetta l’invito. In cambio il pierre convoca i fotografi per ritrarlo nel profilo buono, quello umano. Il riposo del guerriero che, stanco delle mille battaglie parlamentari, finalmente si gode la compagnia della velina o della modella o del comico di cabaret televisivo. Ora la notorietà si è spostata a favore dei personaggi dei reality. Vedi quello: è il fidanzato di Amalia del Big One, e quell’altro è stato espulso dall’Isola dei vip pochi giorni fa. Le luci della ribalta sono tutte per loro. Il politico, messo in questo frullatore, non può fare il difficile, perché la visibilità, indispensabile per farsi eleggere, ha le sue spietate leggi. Così si piega a ogni circostanza, purché sia presente un obiettivo, una telecamera anche amatoriale”. “Lo scambio è tutto qui o c’è dell’altro?” “Dipende. Se chi paga è una grande azienda il lobbista si presenterà al politico e farà il possibile per sederglisi accanto. Poi lo metterà in contatto con la stellina di turno e a quel punto lo lascerà solo a godersi compagnia e flash di fotografi, dai quali lui avrà cura di stare lontano”. “A che scopo lo farebbe?” “Farsi ricordare. Quando il Parlamento discuterà leggi che potranno far prosperare o chiudere la sua azienda, la simpatia o gratitudine di politici influenti diventa strategica”. “Tutto lecito?” “Perché no? Quello che faranno dopo non è responsabilità degli organizzatori. Qui sono tutti adulti e vaccinati”. “E se invece è l’evento di una piccola azienda?” “Allora l’amministratore delegato sarà già contento di potersi vantare con i colleghi del Lyons o apparire sulle cronache mondane. La gente vive anche di questo”. 233


“Non ti facevo così esperto”. “Altroché. Se vuoi, posso lanciarti nel firmamento dei vip, ecco là Materazzi, il fotografo del Giornale dell’Urbe che è un mio amico, vado a dirgli di riprenderti accanto a Sebastiano Gemelli, il più ambito dei partecipanti al Tocco di classe. Diventerai segretario del partito, altro che portavoce”. Faccio l’espressione terrorizzata: “Non dirlo neanche per scherzo. Potrei levarti il saluto a vita”. Intanto Anna Laura si è liberata da Marco, che l’ha tenuta impegnata fino a quel momento. E si concentra su di me. “Che piacere conoscerti! Da quando Giovanni ha fatto il tuo ritratto, al giornale non si parla d’altro”. “Questo mi sembra un po’ esagerato”, rispondo vaga e sulle difensive. Giustina sarà già riuscita a ingaggiarla come spia? Nel dubbio cerco di portare il discorso su di lei: “Noi donne che facciamo politica ti siamo debitrici per quello che scrivi: i tuoi pezzi sono gli unici che ci rendono giustizia”. Uno scambio di complimenti che non corrisponde allo stato d’animo di nessuna delle due, ma è un buon preliminare di guerriglia. Nella luce scarsa e colorata ci studiamo con determinazione e impegno. L’abbia o no concordato con Giustina, negli occhi di Anna Laura c’è scritto a chiare lettere: appena posso, ti distruggo. Mi guarda attenta e preoccupata e fa qualche battuta sulla bellezza acqua e sapone che non va più di moda. E qualche altra sul fatto che Giovanni la trascura e si è già dedicato troppo a me. Non sa da che parte cominciare il massacro, ma vuole il sangue. Sento crescere in lei una miscela di invidia, rancore e gelosia. L’incoraggiamento di Giustina era superfluo. 234


A mia volta l’ho immediatamente detestata a pelle: così atteggiata e artificiale che se le levi una forcina hai l’impressione che si smonti tutta. Sorridiamo per convenienza, o meglio lei sorride a me, perché sa che il miglior modo per far parlare una persona è metterla a proprio agio. Ricambio fredda e formale. Ma non riesco a tenerla lontana dal suo argomento preferito: io. “Chissà quante storie ha da raccontare una donna come te, sempre in giro per lavoro, libera, senza legami affettivi stabili, se non erro?” Interviene Giovanni: “Anna Laura, non essere indiscreta. Magari davanti a Marco Luisa non ha piacere di parlare di queste cose”. Lo interrompo: “Figuriamoci, se c’è una persona alla quale dico tutto è Marco. La verità, carissima, è che la mia vita non ha molto da offrire a orecchie come le tue, abituate a confessioni più interessanti: lavoro e casa, casa e lavoro. Sono contraria ai rapporti occasionali. Non per ideologia, per rispetto di me stessa”. “Bacchettona?” “Nient’affatto. Lo stile che ho scelto io è piuttosto rigoroso. Trovo che passare da un letto all’altro sia un buttarsi via. Non condivido il lassismo in nessun campo. Ma chiunque voglia fare il contrario, faccia. A proposito di legami, di voi due si dice...” E indico lei e Giovanni come coppia. Anna Laura ride soddisfatta, e risponde con ambiguità. “Questo, si dice di noi? Una bella coppia, no? Due giornalisti affermati... condividere il lavoro è importante: consente un dialogo continuo, la comprensione vera dei problemi dell’altro. E il nostro lavoro occupa una parte enorme della vita”. 235


Giovanni apre bocca per dire qualcosa, ma non gli lascio spazio. Non mi va di sentire mezze verità o balbettii. “Ti capisco, io invece ho sempre escluso di avere storie con persone del mio stesso ambito. Le complicazioni si sprecano, prima, durante e soprattutto dopo la fine del rapporto. Inoltre, non smetti mai di parlare di lavoro. A casa e fuori casa, per carità, non fa per me”. Stavolta Mustacchi interviene con ironia contro di me: “La coerenza è il tuo forte”. Chissà a cosa si riferisce. Poi si rivolge alla collega: “Anna Laura, non sarei all’altezza di una donna come te”, e prima che una di noi due possa replicargli, mi chiede di accompagnarlo al buffet. Mentre mi porge un bicchiere di vino ne approfitta per chiarire: “Guarda che fra me e Anna Laura non c’è proprio nulla”. “Vergogna, sei come Pietro: prima ancora del canto del gallo già tradisci?” “Lei fa tutto da sola, si autoconvince di una cosa che non esiste e la spiffera ai quattro venti. Io non ci penso nemmeno. Sogno una donna che mi capisca e mi stia accanto, condividendo i miei gusti, i piaceri, i dispiaceri, non certo un permanente comitato di redazione, Dio ne scampi”. “E allora, come mai stasera...” “Il direttore – forse per continuare a punirmi – ha avuto l’idea di affidarmi altri ritratti dopo il tuo, scegliendo donne che fanno mestieri tradizionalmente maschili. Vuole un affresco della nuova femminilità al comando, parole sue. Non vincerò il Pulitzer, ma sempre meglio che stare in redazione a fissare un computer per ore e ore. Per non avere grane da Anna Laura, il direttore le ha chiesto di darmi una mano. Lei le conosce tutte, di tutte ha il numero di cellulare e le sente periodicamente. Però è gelosa, teme che le 236


soffi il ruolo. Così pretende di accompagnarmi e di presentarmele per far capire che lei resta il loro punto di riferimento. Siamo per l’appunto reduci da uno di questi incontri. Tu piuttosto, e Marco. Come fai a dire mai sul posto di lavoro?” Rido di cuore. “Io e Marco, ma dai, sei davvero l’unico a non sapere”. “Cosa dovrei sapere?” Mi allontano ridacchiando col bicchiere in mano. Lo guardo come se fosse un marziano, cambio argomento e lo lascio nel dubbio. Mi sa che è geloso. Mi stavo preparando alla festa di comunione di Maria Rosa da più di una settimana. Quando nessuno mi vedeva aprivo l’armadio e guardavo di nascosto il mio bel vestito. Mi sentivo in colpa per tutte le discussioni fra papà e mamma, e al tempo stesso mi sentivo bellissima in quell’abito di tulle color avorio e inserti di seta che mi provavo tutti i giorni. L’avevo voluto così, come se la prima comunione la facessi io. Un giorno, mentre lo indossavo davanti allo specchio, è apparsa mamma. Non l’avevo sentita. Ho avuto una reazione come se mi avesse colta sul fatto mentre facevo qualcosa di male. Lei mi ha sorriso, con un sorriso dolcissimo indimenticabile, mi ha accarezzato i capelli e mi ha detto piano: “Desiderare è sempre meglio che avere”. Io le ho detto: “Ma io desideravo il vestito e sono davvero contenta di averlo”. Lei allora: “Il vestito, o essere alla festa con le tue amiche, mischiarti a loro, confonderti con loro?” Non ho capito lì per lì e le ho detto: “Tutto, voglio tutto, il vestito, la festa, le amiche. Ma non voglio che tu e papà litigate”. 237


Mi ha dato un bacio sulla testa. Ha mormorato: “Nulla è gratis, figlia mia. Spero che tu te ne accorga il più tardi possibile”. Invece era questione di ore. Finalmente il gran giorno era arrivato. Era la prima volta che mi vestivo come tutte le altre ragazzine. Quando sono uscita di casa mia madre mi sorrideva incoraggiante e mio padre scuoteva la testa. Avevo addosso il suo sguardo turbato e non capivo la sua contrarietà. Chiusa la porta mi sono sentita subito sollevata e così a mio agio... Ero uscita da quella enclave di duri e puri che era casa mia, dove mio padre considerava un personale fallimento che la figlia desiderasse una cosa tanto borghese come un abito di tulle. Papà aveva tanti pregi, ma il suo dogmatismo a volte lo rendeva cieco. Non è che andando a una festa di prima comunione io rinnegassi lui, ero troppo piccola per capire tutte quelle cose. Volevo solo essere uguale alle mie compagne, senza nessuna differenza. Sarebbe stata una giornata speciale, indimenticabile. Maria Rosa mi viene incontro e mi prende per mano. Sa che mi trovo sempre in soggezione nella sua magnifica casa con la vista che domina la città. Mi porta subito a salutare i genitori e io mi avvicino garbata e timida. Normalmente so come comportarmi, ma con quel vestito mi sento diversa, la mia naturalezza è sparita. Nelle orecchie ho la disapprovazione di papà: la porteranno su una cattiva strada, quella ragazza diventerà una piccolo-borghese (per lui era il massimo dell’insulto, a parte fascista che era una condanna alla dannazione eterna). I genitori di Maria Rosa sono gentili come sempre. Il padre è un dirigente degli Affari Riservati del Ministero degli Interni. Non so cosa significa, ma la mamma quando lo dice abbassa la voce. La madre fa la casa238


linga, ma non come le amiche di mamma. Fa la casalinga con la colf e l’autista, l’impianto stereo e tanti libri e il personal trainer per la ginnastica e la massaggiatrice a casa. Maria Rosa mi dice: “Come sei bella con questo vestito. Aspettami qui che vado a chiamare il fotografo, ci facciamo una foto insieme e la mettiamo in due cornici gemelle, una in camera mia e una in camera tua. Non ti muovere, che con tutta questa gente non ti trovo più!” Resto ad attenderla, seminascosta dietro a una colonna del grande salone. Da lì posso vedere senza essere notata. Neanche la madre della mia amica può vedermi. Sento una persona chiederle: “Chi è quella ragazzina che tua figlia teneva per mano?” E lei: “Un’amichetta di scuola di Maria Rosa, che ci tiene tanto”. L’altra: “Come è buffa, cammina sulle uova”. “Che vuoi, poverina, è figlia di due comunisti. La vestono come un maschio, la educano come un maschio pronto per la Rivoluzione d’ottobre. Naturale che a una festa con un abito decente si senta a disagio. Giuseppe non voleva che si frequentassero, capirai, lui è stato promosso a capo degli Affari Riservati al Ministero. Se si viene a sapere che nostra figlia frequenta gente simile e va anche a casa loro... però Maria Rosa ha una specie di infatuazione infantile, abbiamo deciso che è meglio non affrontarla di petto, è l’età delle sbandate, aspettiamo che le passi. Prima o poi capirà che apparteniamo a classi sociali diverse. L’hai vista, con quella gonna non sa neanche sedersi, poverina”. Sono scappata senza dare spiegazioni a Maria Rosa. E cosa avrei potuto dirle? Avevo capito d’improvviso che i miei genitori erano persone poco raccomandabili e che io potevo mettere a rischio la carriera di suo padre. E che il mio meraviglioso abito di tulle mi stava uno schifo. 239


A scuola da quel giorno la evitavo e non ho mai più indossato un vestito da cerimonia. Quel vestito era costato ai miei genitori liti e mortificazioni, e a me la più cocente umiliazione della mia breve vita. Da allora non amo le feste. E non amo le gonne. Anzi, le sopporto a malapena. Se sono nata per fare il maschio e la rivoluzione, così sia. Non posso raccontare tutto questo a Giovanni e spiegargli così il mio odio per la mondanità. Siamo molto vicini e un po’ imbarazzati. Gli argomenti generici sono esauriti e intorno a noi si respira un’aria di cose non dette, discorsi che non si possono affrontare vista la ressa, il rumore che ci costringerebbe a urlare. Marco, pochi centimetri più in là, sta di nuovo sfoggiando tutto il suo charme con Anna Laura, completamente a suo agio come se in quel locale ci fosse nato. Troppa gente e troppo caldo: si respira a malapena nonostante l’aria condizionata. La maglietta di viscosa color perla mi si appiccica addosso e immagino consistenti aloni sotto le ascelle e pericolose trasparenze. Che idea stupida levare il reggiseno. Tengo le braccia appiccicate al corpo, ma così ho ancora più caldo e l’impressione che tutti mi guardino. Mi sento fuori posto in quel posto e fuori posto per l’abbigliamento che mi lascia scoperta, indifesa. Giovanni mi guarda fisso e mi sembra che guardi proprio lì. Parlando gesticolo, cosa che non faccio mai, nel tentativo di distrarre la sua attenzione dalla maglietta ed evitare che mi venga troppo vicino. Sento che vorrebbe acchiappare la mia attenzione, ma non sa come fare. In quel momento inizia la musica, come in ogni inaugurazione che si rispetti. Non si può più neanche tentare un discorso. Mi propone di andare un po’ fuori, 240


all’aria fresca. Io, che da un pezzo ne ho abbastanza, accolgo l’invito con sollievo. Ci alziamo per uscire ma mi blocca sentendo le prime note, e la voce del dj. “Signore e signori, questo locale è dedicato agli anni ’60. Perciò, nell’anniversario della sua morte, non potevamo non cominciare con un autore sempre rimpianto: il grande Otis. A lui e a tutti voi dedichiamo i prossimi tre brani. Ballate e tacete, Otis va ascoltato in silenzio”. “Obbediamo al dj, andiamo a ballare”. Giovanni, con un tono che non ammette repliche, mi prende la mano e mi trascina in pista prima che possa reagire. Sto per dire qualcosa – giustificare la maglia umidiccia e di certo poco profumata – ma col dito sulla bocca mi fa segno di tacere. Metto da parte le obiezioni e mi lascio andare alla musica. “Alla fine non sarà un po’ di sudore a fargli cambiare idea su di me”, penso. Nel cerchio stretto della pedana c’è ancora più calca: l’alito pesante della gente intorno, le risa sguaiate, sono pentita di aver accettato. Poi, un po’ alla volta, la tensione sfuma, resta nell’aria solo la magia di I’ve been loving you too long to stop now. La voce languida e sensuale di Otis costruisce un cerchio protettivo intorno a noi due. Le braccia di Giovanni mi stringono sempre di più, senza procurarmi il temuto fastidio, l’imbarazzo si scioglie. Le luci basse, e la voce di lui mi canta piano piano nell’orecchio: my love is going stronger, as you become a heaven to me. Tutto mi procura un languore dentro. Lui balla bene, tenendo la mia mano nella sua molto vicina al petto, mentre con l’altra mi cinge la vita. In pista ci siamo ritagliati uno spazio sotto un bocchettone dell’aria condizionata, il sudore mi si ghiaccia addosso e mi viene un brivi241


do. Giovanni lo sente e quasi protettivo mi stringe di più a sé, poi con la mano libera va su lungo la schiena dalla vita alla nuca e si sofferma, lentamente come in una lenta ritmica carezza. Faccio appena in tempo a pensare “ora avrà capito che sono senza reggiseno, che figura”. Certo che l’ha capito, mi guarda con ammirazione e mi stringe sempre di più fino a quando il contatto è pieno, tenero e audace. Lo lascio fare, anzi mi appoggio a lui, mi sento svuotata di energie e volontà. Oltre la musica sento solo la sua presenza. Quella è in assoluto la canzone che amo di più. Ed ecco The dock of the bay, struggente, ritmica eppure col suo mood di tristezza esistenziale. Per concludere la trilogia, senza alcuna pausa, Try a little tenderness... ma quello che sento non somiglia alla tenerezza. Quando finisce, il nostro abbraccio ci mette qualche secondo in più della musica a sciogliersi. Torniamo al tavolo e mi riprendo come da un’ipnosi. Improvvisamente voglio andarmene. Sono troppo scombussolata: l’abbraccio di Giovanni mi ha riportato alla memoria sensazioni che avevo rimosso. Sentire un uomo così vicino e provare qualcosa che non sia fastidio mi fa sentire fragile, cosa che detesto. Come un ubriaco che deve percorrere un’asse di equilibrio senza aiuto o protezione. Saluto tutti quasi bruscamente. Anna Laura mi chiede: “Stai male?” Marco, con l’intuito tipico del vecchio amico, risponde per me. “Luisa era già tanto stanca e io l’ho letteralmente trascinata qui. Ora è il momento della ritirata. Andiamo, ti accompagno”. Ma Giovanni è già in piedi. 242


“L’accompagno io”. E di fronte al mio sguardo di diniego: “Almeno alla porta”. Questo non posso rifiutarglielo, e poi attraversare la sala mi sembra un’impresa complicata: la gente è ancora più numerosa e vociante e agitata di prima. Lui mi guida fra la folla con una piccola pressione sul braccio. Siamo così vicini che sento nuovamente l’odore della sua pelle e il suo respiro. Solo che adesso sono fuori dall’incantesimo e non mi fa più nessun effetto. Finalmente all’aria aperta la sensazione di soffocamento e di pericolo che m’aveva presa alla gola si attenua. Saluto Giovanni, voglio tornare finalmente a casa. “Grazie per avermi accompagnata fin qui. Non voglio sottrarti oltre alla tua serata e alla tua amica”. Ma lui non vuole lasciarmi andare: c’è molta gente lì fuori a fumare, piccoli capannelli senza urla né rumore, possiamo parlare liberamente. Mi sorride amichevole, mentre non posso fare a meno di notare quanto è bello con quei ricci che gli ballano sulla testa. Ha un modo di parlare, come se accompagnasse con un leggero movimento del capo le parole e le sottolineasse dando espressione con tutta la testa. Dice che se resto ancora cinque minuti mi confessa una cosa. Annuisco. “Ti ho teso un agguato, complice Marco: è tutta colpa mia se sei qui. Ho invitato lui per rivedere te. Oggi quando ci siamo incontrati e mi hai chiamato ero impreparato, ho avuto un momento di panico, la paura di parlarti da solo a sola”. “Paura di me?”, lo interrompo ridendo. “Impossibile”. “So che è strano, ma con te mi sento in bilico, come se tu potessi da un momento all’altro farmi cadere”. 243


“Nessun uomo mi ha mai detto una cosa simile e non capisco se devo compiacermi oppure offendermi”. “Lascerò che tu lo decida da sola”. “Cosa ti ha fatto cambiare idea? Perché non mi hai chiamato direttamente?” “Temevo un rifiuto. E ho cambiato idea per curiosità. Ha prevalso la deformazione professionale, quando incontro un personaggio... una persona interessante, voglio saperne tutto. Volevo la tua radiografia completa, sapere di te tutto ciò che non dici”. “Non mi sono resa conto di essere sotto osservazione”. “Infatti la serata è andata diversamente. Otis mi ha fatto perdere il filo”. Lo interrompo di nuovo: “Non mi dire! Devo a lui se sono ancora depositaria dei miei segreti”. Giovanni non tiene conto di quello che dico e continua in tono serio: “Mi è rimasto Otis nel cervello e qualcosa di te fra le braccia. Ora non so più da che parte cominciare e tu vuoi andartene a casa prima che io riesca a raccogliere le idee e tornare nel pieno possesso delle mie facoltà mentali”. Spiazzata dalla sua sincerità reagisco con altrettanta sincerità: “Otis fa questo effetto anche a me. È qualcosa di simile a uno struggimento, una malinconia e una pienezza insieme... quando finisce la canzone è come se mi venisse a mancare qualcosa e... se continui a stringermi il braccio mi rimarrà qualcosa anche di te: un livido”. Ridiamo mentre Giovanni allenta la presa, ma non mi lascia. Continuo: “Mi fa piacere che abbiamo questa passione in comune. Vorrà dire che non dovrò più temere tiri mancini da te. Irina me l’aveva detto che Otis sarebbe tornato e mi avrebbe fatto un regalo”. 244


Mi guarda stupito e sta al gioco: “Irina? Chi è Irina? Stai bene? Hai bevuto? Non posso lasciarti andare sola in queste condizioni, e poi mi ci vuole un po’ di tempo per abituarmi a stare senza di te, non sei una donna che uno si leva dalla testa facilmente quando l’ha tenuta fra le braccia e ha sentito il suo respiro, i suoi brividi, e quella schiena liscia, nervosa, e i tuoi seni dolci e perfetti contro il mio petto: posso accompagnarti a casa?” Sto morendo dall’imbarazzo perciò ho una reazione esagerata e scostante: “Non ci pensare neanche. Torno a casa sola da quando avevo diciotto anni”. “Non ne dubito, ma mi farebbe piacere. Vorrei vedere come è fatta casa tua, se ti somiglia”. “È solo un posto dove passo troppo poco tempo. Non c’è niente che valga la pena vedere”. “Non ci credo, una come te non può vivere in un rifugio di passaggio. Tu fai casa ovunque”. Camminiamo per oltre mezzora chiacchierando e punzecchiandoci, molto diffidenti l’uno verso l’altra, e contemporaneamente molto attratti. La corrente fra noi è forte ma alternata. A momenti ci sentiamo davvero vicini. Subito dopo irritati per una frase qualunque. Il tempo passa veloce rivelandoci un po’ alla volta e saltando da un argomento all’altro, come se ogni frase ne tirasse a grappolo tante altre in una specie di reazione a catena. Giovanni parla dei mille personaggi incontrati per il suo lavoro. Li descrive in modo ironico. Mi vuole strappare un sorriso, farmi dire qualcosa di me. Io rido, commento i suoi racconti, ma mi tengo abbottonatissima e quasi ostile quando intuisco che il giornalista cerca di sapere della mia vita, della mia famiglia o dei miei compagni di partito. Lui se ne accorge e arretra. Io 245


allora lo stuzzico, curiosa come una ragazzina: voglio sapere i particolari, debolezze e grandezze dei personaggi che lui ha conosciuto. Arriviamo così sotto casa mia. Ci salutiamo, e lui fa per accostarsi a darmi un bacio. Mi scanso bruscamente, con una reazione ancora una volta esagerata. “Non mi vendo per un pezzo sul giornale. Disponibili ne troverai moltissime. Non me”. Giovanni è inorridito, quasi non crede alla mia trasformazione. “Pensavo che tu fossi una persona dal carattere spiccato ma intelligente. Mi rendo conto che invece non sei normale. Dimmi di no se non vuoi, ma come puoi pensare che io approfitti della mia posizione e della serata per estorcerti qualcosa? Per chi mi hai preso?” Va via infuriato, senza salutarmi. Ho capito di aver fatto un’enorme sciocchezza nel momento stesso in cui mi uscivano le parole di bocca, ma non riesco a richiamarlo e scusarmi. Purtroppo ha ragione lui: non sono normale. Mi comporto in modo aggressivo e demenziale con chi mi piace, e sono allegra spontanea e naturale con chi mi è indifferente. Non è pudore dei sentimenti, ma semplice incapacità affettiva. L’unico con cui non mi succede è Marco, forse perché fra noi sono esclusi coinvolgimenti amorosi. Forse ho scelto il lavoro come impegno assoluto perché non riesco a reggere la dimensione affettiva. Forse ho un disturbo del comportamento verso gli uomini. O forse è solo cominciata male con Giovanni. Troppe implicazioni professionali, troppi dubbi sulle sue intenzioni. Troppi nemici intorno a me. Non 246


può esserci serenità nel nostro rapporto fino a quando non capirò chi è, da cosa è mosso, se mi chiede un bacio per raccontarlo ad Anna Laura, cioè a Giustina. Se insomma tutto è strumentale al suo lavoro oppure se quel calore che sentivo mentre ballavamo era vero. Era un regalo di Otis, come ha detto Irina, e io l’ho buttato via. Giovanni mi piace moltissimo e ha cercato tutta la sera di essere carino con me, che l’ho trattato in modo pestifero. Ma saprò farmi perdonare. O è meglio mantenere le distanze fino a quando non saprò se posso davvero fidarmi? I miei amori sono finiti male. Non voglio più soffrire. Non voglio che il mio corpo mi tradisca. Mia madre, Tonino, Alessandro perfino, mi hanno lasciato piaghe al cuore. Devo stare concentrata sui miei obiettivi e non permettere a nessuno di distrarmi. Dopo tanto tempo le braccia di quest’uomo mi hanno comunicato qualcosa che mi è andato dritto al cervello o forse dovrei dire al centro delle emozioni. C’è qualcosa di affine nel suo corpo. Meglio stargli lontana. Il più possibile. A casa mia, nella mia casa asettica, dove nessun affetto è mai entrato. Dove nessun divano, quadro, oggetto mi ricorda un momento felice e perduto. Casa dolce casa, sterile, priva di emozioni e confortevole come la mia tisana. Mi culli nel sottovuoto dove i germi della vita non possono entrare. Sto per addormentarmi quando Marco chiama. “Cara, sei sola o disturbo?” “Disturbi, ma sono sola, e furiosa con me stessa”. Gli racconto quello che è appena accaduto, e lui, fingendosi disperato: “Ho fatto di tutto per trattenere l’orrenda Anna Laura e impedirle di tampinarvi, e tu hai 247


rovinato ogni cosa. I miei sforzi per farti uscire dallo zitellaggio sono vani, da domani ti mollo. Per stasera invece ho delle buone informazioni per te. Giustina ha trovato terreno fertile. Anna Laura praticamente non ti conosce, ma ti ha cordialmente sulle palle. Pensa se ti conoscesse bene come me! Scherzi a parte, guardati da lei, ti detesta tanto più ora che ha visto Giovanni sbavarti dietro. Lei lo considera proprietà privata, anche se mi ha confessato che non stanno ancora insieme. Ma prima o poi lui supererà la timidezza e le chiederà di sposarlo. Si è fatta un film tutto suo nel quale non è prevista alcuna parte per te, se non quella della vittima. Se potrà ucciderti lo farà con il doppio del piacere”. Sono troppo stanca per commentare, una stanchezza di fisico e di cervello. Saluto l’amico facendo appello alla sua lealtà: “Domani parto, vado a Prato. Coprimi le spalle mentre sono via”. “Senz’altro, se prometti di non comportarti più da isterica e cerchi di scusarti con Giovanni. Come ti ho già detto, un giornalista volendo può stroncarti la carriera. E poi è così carino, guarda se non piace a te un pensierino ce lo faccio io. Ciao, e chiama”. Scusarsi, una parola! Mia madre quando ero bambina mi diceva sempre: “Se ci tieni a una persona non far passare mai ventiquattr’ore su una litigata”. Dal momento che partirò presto domani non avrò il tempo per sanare il pasticcio che ho combinato. Non sono pentita di non averlo fatto salire, ma solo di averlo maltrattato. O forse no, anche il corpo ha le sue esigenze e ogni tanto... insomma, ormai è fatta, è un segno del destino, meglio lasciar perdere Giovanni. Troppo complicato, non posso permettermelo. 248


XVIII

Il coyote sa parlare d’amore. Secondo la leggenda questo fa quando ulula alla luna. Perché lei non lo dimentichi, dicono. Perché la incontri, raccontano.

Luisa Il treno è rumoroso e sporco. Ho l’impressione che mi alzerò con un chewing gum attaccato ai pantaloni. Finché siamo in stazione c’è un viavai di questuanti, ciascuno dei quali ha passato un guaio, ha perso il lavoro, è stato derubato, ha un parente in prigione, la madre anziana o figli piccoli gravemente malati, è muto o disabile lui stesso. Insomma, chiede l’elemosina. Penso a Irina. Quando torno dovrò riuscire a sottrarla ai suoi carcerieri. Oltretutto le devo un piacere. Otis ha fatto davvero qualcosa per me. Giovanni... Quando due corpi si toccano, si parlano con sincerità. Si dicono mi attrai o mi repelli, senza parole, senza sovrastrutture, creando una chimica che resta nella memoria delle cellule. Se chiudo gli occhi sento ancora il corpo di Giovanni, il suo calore, la sua solidità, il leggero incresparsi della pelle all’odore che emana da lui. È più che un semplice ricordo. Il controllore si annuncia all’inizio del vagone e mi 249


riporta sulla terra. Abbandono con rammarico i miei pensieri e apro svogliatamente gli occhi per cercare il biglietto in borsa. Nel farlo tocco la goccia di plastica di Irina. Mi porterà fortuna, lo so. Mi affido a questa certezza, mentre il movimento mi culla. Chiudo nuovamente gli occhi per poter ripensare ancora alla serata e risentire intorno a me le braccia di Giovanni, i suoi occhi scuri, la sua voce mentre dice “mi ci vuole un po’ di tempo per abituarmi a stare senza di te”. Ho voglia di lui, di riportare alla mente le sensazioni che ho provato fra le sue braccia. Lentamente scivolo in una specie di sonno, durante il quale percepisco rumori e gente intorno, ma distanti, distanti. L’Eurostar va veloce, poi ogni tanto si ferma in mezzo al nulla e aspetta senza motivo apparente. Cause tecniche, dicono. Durante una di queste soste, fra una galleria e l’altra, sento suonare il telefonino. Ho un sussulto e lo cerco in borsa inutilmente. Quello continua a suonare sempre più forte, non ricordo chi mi ha convinta a mettere la suoneria ascendente. Il signore di fronte mi guarda malissimo, sta sicuramente pensando quanto sono maleducata: disturbo l’intero scompartimento. Ecco dov’è: pensando che nelle gallerie il telefono non prende, l’ho riposto in una tasca del borsone, in alto sul portapacchi. Non faccio in tempo a rispondere, quando arrivo ad afferrarlo ha smesso. Tutto il vagone mi guarda e io, per darmi un tono, guardo il display del telefono: è lui, Giovanni. Lo richiamo subito, non voglio dar adito ad altri equivoci. Macché: il segnale sparisce e resta assente a lungo. All’uscita dal tunnel siamo ormai prossimi alla prima stazione, tutto il vagone è preso dalla frenesia, ognuno si alza, prende un bagaglio. È un 250


rumore infernale a cui si aggiunge il gracchiare del microfono che annuncia l’imminente arrivo, del quale si erano già accorti tutti. Lo richiamerò dopo, quando esco. Una conversazione necessariamente intima, sarebbe difficile in mezzo a tanti spettatori agitati. Richiama ancora due volte, ma il treno è ripartito e la linea cade prima che possa rispondere e spiegarglielo. Mi sale un’ansia da mancanza di contatto, ma che posso fare? Non si arrende, ecco un sms: “Quello arrabbiato sono io. Capisco che non vuoi parlarmi, ma non capisco perché”. Sto per rispondergli, quando vedo avvicinarsi Corradi. Lo farò dopo, devo trovare le parole giuste e non posso con il maestro davanti a me. Ma anche lui ha qualcosa da recriminare: “Eravamo d’accordo che mi avresti cercato”. Spero che non si renda conto dell’imbarazzo. “Ho preferito non disturbarti, e non volevo lasciare incustodita la mia valigia. Con il mio stipendio non potrei permettermi di comprare tutto nuovo se mi derubano”. Che scusa cretina: chi ruberebbe la robaccia che indosso?. Per fortuna Corradi prende per buona la spiegazione. “Mettiamoci a lavorare. Il sindaco avrà preparato un fuoco amico non da ridere. Più tardi non avremo tempo: i compagni ci verranno a prendere alla stazione. Posiamo le valigie in albergo e subito dopo avrai un assaggio della cordialità che ci aspetta. Dunque al lavoro, finché nessuno ci spara alla spalle”. Il viaggio è piacevole. Parliamo delle tante cose che mi agitano (a parte Mustacchi, argomento dal quale mi tengo ben lontana). Sento in Corradi un’umana partecipazione, quasi affetto. Come me ha pudore dei propri sentimenti, 251


ed è un grande osservatore degli stati d’animo altrui, sensibile. Glielo faccio notare: “E ti descrivono come una persona gelida!” “Mi fa comodo che lo pensino. È un buon modo per tenere lontani gli scocciatori e molti attacchi personali. Chi ama è più fragile, ha punti deboli: chi non prova sentimenti lo è molto meno. Non l’ho fatto apposta, ma nel tempo mi hanno cucito addosso il personaggio, e ne ho approfittato. Ho vissuto in un partito molto difficile, dove era complicato affermarsi, c’era una selezione rigidissima dall’alto. Non so se riesci a capirmi, oggi è tutto talmente diverso”. “Diverso ma non migliore, mi sembra. Io ne soffro: la differenza fra quello che diciamo e quello che facciamo... la politica dominata dalle famiglie, dai salotti, dalle lobby. Giovanni mi diceva...” “Mustacchi, vuoi dire”, mi interrompe lui ridacchiando. “Ti ho consigliato di mantenere rapporti buoni con la stampa, non stretti”. “Ci siamo solo visti un paio di volte per un panino, insieme a Marco Segranti”. Ometto il resto, per la difficoltà di spiegarlo a me stessa prima che a lui. “Dicevo: Giovanni mi ha raccontato l’intreccio fra pierre, giornalisti, politici e tv. Cosa ha a che fare questo col passato che abbiamo alle spalle, con la nostra storia. Con i problemi che saremmo chiamati a risolvere. Confesso che mi sento spaesata”. “La politica non è migliore della società. Perché dovrebbe?” “Perché la politica deve guidare la società”. 252


“No, la politica deve fare delle scelte per conto della società. Non può pretendere di essere migliore. Per troppo tempo abbiamo pensato di essere un’élite. Invece siamo come gli altri, a volte meglio, a volte peggio. Sicuramente peggio quando pretendiamo di insegnare a tutti come si campa. Dobbiamo sforzarci di essere migliori, ma non pensare di esserlo. La Chiesa cattolica, quando ero piccolo, un secolo fa, insegnava il valore dell’umiltà, a non guardare il fuscello negli occhi altrui, ma la trave nel proprio. Questo insegnamento l’ho portato sempre con me”. “Non ti facevo cattolico”. “Non lo sono, infatti, ma so vedere il buono dove c’è”. Lo incalzo: “Spesso penso che la vita che conducono i politici sia un male in sé. Fretta perenne, mai il tempo per riflettere, inciuci, paura di essere fregati, paura di entrare nel cono d’ombra e scomparire, solitudine”. “Anche tu sei una politica di professione”. “Non mi considero parte di questa classe dirigente. Io ancora mi commuovo di fronte alla sofferenza umana, mentre mi sembra che la maggior parte dei politici si commuova solo di fronte alle proprie sconfitte personali. Questo mi provoca un senso di estraneità. Come quando, in una riunione, il tema all’ordine del giorno diventa solo un pretesto per misurare chi ce l’ha più lungo, se mi permetti una volgarità maschile”. Corradi ride mentre mi riprende: “Con quell’aria da ragazza perbene non dovresti usare questo genere di metafore”. “È il genere che gli uomini usano in riunione salvo poi guardarmi e dirmi: scusa, eh”. “Ognuno ha i suoi codici, quelli maschili a te non si addicono”. 253


“Danno fastidio anche a me. Ma mi adeguo alla pochezza dei nostri colleghi, che hanno trasformato tutto in un mercato. Le elezioni sono lotte costose, crudeli e a volte ridicole. I voti si comprano e vendono, palesemente o meno”. “Il mercato è antico”. “Già, come la prostituzione, che tutti condannano”. “Gli stessi che a parole la condannano spesso la praticano e la usano, a volte senza rendersene conto. Lo facevano anche i nostri padri. Durante gli scavi del Foro Romano hanno trovato l’insegna: ‘le Asinelle’, le ragazze della scuderia più in voga nell’antica Roma, ‘ti invitano a votare per Publio Caio’. Capirai, le Asinelle intrattenevano e rendevano soddisfatti tanti di quegli uomini, che la loro opinione pesava”. “Pesava e pesa, stando alle cronache. Sembra che gli uomini potenti non riescano a star lontani dalle femmine svestite”. “Per questo anche le femmine svestite non riescono a stare lontane dai potenti. Sì, mia cara, purtroppo il meccanismo è pressoché il medesimo, fatte le dovute differenze perché i nostri tempi sono più confusi. A criticare la politica sono tutti bravi, salvo ricorrere a noi in caso di bisogno. I giornalisti per primi”. “Perché la politica è invadente e pretende di decidere anche cose dalle quali dovrebbe stare lontana, alimentando il mercato quotidiano: un voto a me, un favore a te”. “Vorrò vedere te alla prova dei fatti, e ti auguro di avere presto un potere da gestire, anche piccolo. Però, certo, i partiti oggi, tranne il nostro naturalmente, sono di plastica. Un tempo i dirigenti usavano le loro giornate soprattutto per parlare con la base. Oggi le impiegano 254


principalmente per farsi invitare nei salotti privati e in quelli televisivi, dove saranno seducenti, caustici, brillanti. Mai riconoscere un vantaggio logico all’avversario. Sostenere sempre posizioni molto nette, in modo da marcare le differenze anche quando in parlamento svaniscono. Nel mondo virtuale in cui lavoro non c’è spazio per il dialogo, il confronto sulle cose reali, quello che serve alla gente per vivere. Non lo giustifico, ma non devi dare troppe colpe a Eugenio: lui è figlio del nostro tempo, non è né migliore né peggiore degli altri”. “Già il fatto che sia uguale mi sembra molto deprimente. Potevo aderire alla destra, ne avrei avuto maggiori vantaggi personali”. “Non faresti una cosa a cui non credi. In questo sei speciale e spero davvero che il nostro lavoro insieme ti aiuti a crescere, non a cambiare”. “Grazie, detto da te è un gran complimento”. “La mia generazione ha costruito il partito, conquistando tutto nel sacrificio personale e credendoci, con un rigore eccessivo. La generazione di Eugenio si è ben accomodata nel potere. Il cinismo e la smodata ammirazione per i potenti è imperdonabile. Ora tocca a voi: spero che sanerete i guasti che noi abbiamo provocato”. “Non vedo anime belle nella mia generazione”. “In politica una certa spregiudicatezza è indispensabile. Il cinismo è sempre nocivo. Vanità ed egocentrismo possono essere utili, se controllati. L’arroganza è pericolosissima. C’è vizio e vizio. Come una massaia”, sorrido, Corradi a volte si esprime con termini talmente antichi, “mette su il pranzo con quel che c’è in frigo. Così noi: non possiamo scegliere il personale che abbiamo a disposizione, ma pos255


siamo scegliere come dirigerli e dove. Mi hai portato lontano con le tue domande, ora basta, veniamo a noi. “Quando saremo a Prato ascolta e parla meno possibile. Dobbiamo innanzitutto capire come è stata accolta la nostra idea da Pieri e dai suoi, e in quanti fanno la fronda al sindaco. In secondo luogo, se ci riusciamo, dobbiamo convincere tutti che noi abbiamo solo suggerito la catena umana, ma l’effettiva decisione spetta a loro. In questa fase non è importante mettere la firma sull’idea e sull’azione, ma far accettare a tutti che siamo venuti per dare una mano. Il tempo di essere al centro della scena non è ora”. All’arrivo c’è un gruppetto ad accoglierci, anzi per la precisione ad accogliere Corradi. Uno dei compagni gli prende la valigia. Un altro lo avvolge in un grande abbraccio, poi s’incammina con lui verso l’uscita. Un terzo invece lo impegna subito in una conversazione confidenziale. Il quarto ascolta e assente col capo anche se nessuno sembra chiedere il suo parere. E nessuno fa caso a me. Resto volutamente indietro, un po’ seccata e un po’ mortificata che di quattro uomini neanche uno si sia soffermato a salutarmi, a chiedere se ho bisogno d’aiuto. In effetti ne avrei bisogno, carica come sono: quando il treno è arrivato in stazione stavo ancora parlando con il maestro, non ho fatto in tempo a riporre le carte, le cose personali, il libro che avevo intenzione di leggere. Né la giacchetta che indossavo in treno per l’aria condizionata e che non serve di certo nell’aria torrida di Prato. Corradi si volta a vedere dove sia finita la sua compagna di viaggio: sono un monumento alla confusione. Scarmigliata, 256


con la giacca che mi scivola dal braccio e le carte che scivolano dall’altro, la borsa a tracolla e il borsone che pende dall’altra spalla. Mi sorride e invita il più giovane dei tre a darmi una mano. Quello m’aspetta, e fatti i pochi passi che ci separano, dice: “Dai pure a me”. Mi libera dal borsone e aggiunge distrattamente: “Sei la segretaria di Corradi?” Non posso fare a meno di dargli una risposta acida: “Sono la dirigente che collabora con lui. Ti sembra strano?” Il giovanotto è stupito: “Per quello che me ne frega puoi essere anche Levi Montalcini. Ti ho fatto una domanda giusto per essere cordiale”. E, visto che la sua cortesia non è apprezzata, mi molla indietro, andando a raggiungere gli altri che sono dieci metri più avanti. È ancora Corradi a fermarsi, quando si rende conto che sono rimasta di nuovo isolata dal gruppo. Mi affretto a raggiungerlo e lui mi presenta agli altri, in modo formale. “Ecco la compagna Alunni, una delle donne più in gamba che conosca, oddio proprio in gamba è l’espressione sbagliata, visto che è rimasta pericolosamente indietro”, e fa una risatina per sdrammatizzare. Finalmente tutti sembrano rendersi conto di me, perfino il giovane scortese mugugna qualcosa del tipo: “Ne abbiamo sentito parlare già molto”. Taccio e guardo i presenti con attenzione, uno a uno, per capire chi sono. Maurizio Albini è vicesegretario, da sempre amico e sostenitore di Corradi. Poi c’è un compagno anziano, estremamente loquace ed estroverso. Il giovane antipatico è Giulio Lotti e si occupa della comunicazione: sembra un osso duro. Ne ho visti come lui, culturalmente contrari a 257


farsi dirigere da una donna. Per loro la parità è un affronto personale del quale vendicarsi. Infine l’autista ha lo stesso status di tutti gli autisti dei politici di ogni partito: destinatario di confidenze inconfessabili a chiunque altro, orecchio discreto, bocca chiusa se non interpellato. Portatore sano di ogni cinismo e di ogni lealtà. Uno che avrebbe in pugno il politico che accompagna, ma per coerenza professionale è il suo principale alleato. L’anziano si rivela un sentimentale, sta con noi acriticamente. Mi prende in cura, si occupa di me, mi libera delle carte, vuole portarmi la borsa, traboccante com’è. Ma glielo impedisco, per l’età di lui e per la mia dignità. Luigi Cornero, così si chiama il sentimentale, è un instancabile parlatore, uno di quelli – e la politica ne è piena – che devono sempre convincerti di qualcosa e non mollano la presa fino a quando per stanchezza non dici di sì. Convinto uno, iniziano a torturarne un altro, ripetendo anche a lui le stesse cose. All’infinito. Quando proprio non hanno nessuna battaglia da fare, rievocano le battaglie di cui, a sentir loro, sono stati protagonisti in passato. Cornero racconta ogni dettaglio della sua vita politica insieme a Corradi – ma quante vite ha Corradi? – e poi inizia a parlarmi dell’emigrazione, siete qui per questo, per il muro. Attacca un bottone terrificante, “perché capisci compagna il voto agli immigrati è giusto, ma come si fa a spiegarlo qui, che spacciano e rubano e vendono donne”. Io di solito sono gentile con chi è gentile, e mi fa piacere conoscere episodi della vita politica del maestro. Perciò all’inizio lo ascolto con un certo interesse e divertimento. Ma ben presto non ce la faccio più. Tento di liberarmi. Un’impresa difficilissima. Fortuna che nel frattempo siamo arrivati alla macchina. 258


Corradi mi guarda divertito: “Tu Luisa vai in macchina col compagno Lotti, io con il vicesegretario Albini e Luigi con me, come ai vecchi tempi. Mi raccomando Giulio, mani a posto”, e ride sotto i baffi. Dunque Giulio, oltre a essere un simpatico campione di maschilismo, è anche uno che ci prova con tutte. Mi siedo accanto al guidatore, cioè a lui, e decido di ricambiare il suo sgarbo. “Hai fama di mandrillo?” “Figurati, è l’invidia dei vecchi. O il desiderio di qualche donna. Io non sono uno che si dà facilmente”. “Meglio così, detesto gli uomini facili”. Vedo che la battuta non gli strappa neanche un sorriso e proseguo: “Corradi non è invidioso, o scorretto con le donne, anche se ha un modo di parlare che oggi suona buffo. C’è stato il femminismo e lui non se n’è accorto”. “Io del femminismo me ne frego”, dice bruscamente Giulio, evidentemente questo è un discorso che lo appassiona. “Uomini e donne sono uguali? A me sta bene. Perciò quello che volete prendetevelo come facciamo noi. E se avete bisogno di aiuto pagatelo, proprio come noi. O fatevi venire bei muscoli, come noi”. “Muscoli al cervello? Che razza di discorso. Non vogliamo essere uguali, ma avere pari opportunità, credo che tu colga la differenza. Anche se a noi tocca fare i figli e spesso portarne tutto il peso. Voi uomini”, mi odio per averlo detto, “ragionate così e poi vi stupite se i figli non li fa più nessuno”. “Siete diventate egoiste, per questo non fate figli. Oppure li fate da vecchie, quando non avete più da pensare alla carriera e a divertirvi in giro per il mondo e per i 259


letti. Quando non vi sentite più in gara con noi, perché avete affermato la superiorità del vostro cervello, della vostra preparazione, allora volete darci il colpo finale e schiacciarci anche con la superiorità del vostro utero”. E facendo una voce in falsetto aggiunge: “Guarda caro, sono capufficio e sono anche in grado di fare bambini, mentre tu no”. Poi torna serio e normale: “Volete tutto: prendetevelo. Il prezzo è la solitudine, ma ve ne rendete conto troppo tardi”. La violenza repressa delle sue parole mi disarma. Impossibile tentare di capovolgere un pregiudizio così radicale e radicato in uno sconosciuto che mi dà un passaggio in macchina. Dapprima taccio. Poi tento una risposta: “È un’accusa pesante e ingiusta. Se i figli sono della coppia, la coppia deve farsene carico. Se la società vuole che le donne facciano figli, le aiuti”. “Pensala come ti pare, tutto questo politicamente corretto mi fa venire i nervi e la nausea. I figli si fanno all’età giusta. Non quando senti il terreno scivolare sotto i piedi perché sta per arrivare la menopausa e allora addio maternità, resta solo l’utero in affitto”. Per fortuna siamo arrivati in albergo. L’albergo è tremendo come il mio umore dopo la scarrozzata con Giulio. Un grande cubo, tutto vetri fumé e cemento, moquette a fiori grandi sui toni del verde, blu e rosso bordeaux. Costruito da un architetto senz’anima per rappresentanti di commercio. Tanto per la notte, tanto per tenere l’auto con il campionario bene al sicuro, doccia con tenda di plastica che puzza di umidità, qua e là macchiata di muffa. Ascensore di alluminio zigrinato su cui qualche bontempone ha lasciato 260


la sua impronta “vieni a trovarmi ti aspetto tutto caldo” e il numero di telefono di qualche amico a cui fare uno scherzo di cattivo gusto. Corridoi lunghi con controsoffitti bassi da cui penzolano dei faretti che un tempo erano incassati e ora non più. La porta con la scritta “servizio” chiusa giorno e notte, dal che capisci che è inutile suonare per il cameriere al piano se qualcosa non funziona. Chiavi pesantissime che pendono da un portachiavi di legno cerchiato di ottone, così unte dall’uso di mille mani da aver cambiato colore. Copriletto di cotone damascato liso qua e là. Testata del letto in legno e plastica. Mi dà l’angoscia solo entrarci. Ma il direttore ha stipulato una convenzione col partito, che lo rende attraente per gli amministratori di Sinistra Unita. È arrivata anche la macchina che porta Corradi, un compagno gli apre la porta e lui scende. Gli vado incontro per mettermi d’accordo sui tempi, ma avvicinarlo è praticamente impossibile. È braccato da Cornero, il fedelissimo sentimentale, che non lo molla, gli cammina fianco a fianco e soprattutto gli parla nell’orecchio, come un fiume inarrestabile, nel quale non riesco a piazzare neanche una parola. Quando sembra che abbia finito riprende fiato con grande velocità, ripetendo cose già dette, riferendo concetti altrui come fossero i suoi, citazioni dello stesso Corradi. Sempre con nuova foga e convinzione. Il maestro sorride al vecchio compagno, e ogni tanto gli mette una mano sulla spalla. Come può sopportare tutte quelle parole inutili? Forse tiene le orecchie chiuse, tanto l’altro non ha bisogno di risposte, ma solo di sentirsi parlare. Finalmente vedo Corradi solo, un po’ staccato dagli altri. Lo raggiungo, offrendogli la mia complicità. “Se non 261


dà il tempo di rispondere perché fa le domande? Ne avrai abbastanza...” Mi sorprende ancora una volta: “Fra mille parole inutili bisogna saper cogliere le dieci importanti per capire gli umori della gente”. “Lui parla per pura vanità, per sfogarsi”. “Che c’è di male: avrà qualcosa da raccontare stasera ai figli e ai nipoti. Quanto a me, se esiste un paradiso dei laici oggi me ne sono meritato un pezzetto”, ride. “La pazienza è un antidoto all’arroganza. In un certo senso Cornero mi fa un favore”. Ma anche alla sua pazienza c’è un limite. E quando quello gli si avvicina un’altra volta e sta per riattaccare bottone, fa un gesto e l’altro tace immediatamente. Poi rivolto a tutti: “Ci vediamo fra un’ora, il tempo di raccogliere le idee”. Giulio saluta senza un sorriso: tornerà lui a prenderci più tardi. Cornero non trovando altri interlocutori si aggrappa a me, accompagnandomi all’ascensore. Sono indecisa se staccare l’audio, quando l’altro dice: “Da giovane ero molto amico di tuo padre”. “Mi sembra impossibile: lui è così diverso, ha un carattere... essenziale e rigoroso”, freno di colpo temendo di averlo offeso. Imperturbabile l’altro continua: “Molti anni fa eravamo nella stessa sezione. La chiamavano la libera repubblica di Prato, tanto eravamo, diciamo, indisciplinati. Di tutti tuo padre era il più indisciplinato. Una testa calda. Nessuno riusciva a zittirlo. Donnaiolo impenitente, sempre a capo di tutte le risse, a chi gli chiedeva: Alunni, quando smetterai 262


di fare casino?, lui rispondeva ridendo: quando le galline pisceranno. Un giorno l’aveva fatta grossa, più del solito. Si era presentato in sezione con una pistola che aveva trovato chissà dove in una cantina durante dei lavori di ristrutturazione. Oh, si va a spaventare Gianni il tedesco..., il Tedesco lo chiamavano così perché i parenti erano emigrati in Germania tanti anni prima. Una volta era andato a trovarli. Tornato, aveva un’ammirazione pazzesca per tutto quello che veniva fabbricato in quel paese. Le macchine soprattutto. Se voleva dire che un frullatore o una spillatrice, un’automobile o una fresa meccanica erano speciali, diceva: è tedesca! “Così, alla testa di un gruppetto, tuo padre si presenta minaccioso al poveretto: oh, come ti piace questo revolver tedesco? nel capo, nelle cosce o nel culo? Era solo una bravata, ma il Tedesco se la fece nei calzoni dalla paura e loro dalle risate. La voce si sparse, anzi era tuo padre a raccontarla, a chiunque gli venisse a tiro. Erano altri tempi, il partito alla disciplina ci teneva, i compagni dovevano essere irreprensibili, potevano menar le mani se erano nel servizio d’ordine. Se no, nisba. Così fu convocato in federazione. Si prese un lisciabusso che accolse con la solita scrollata di spalle. Il segretario alla fine era più furioso di prima: brutto impertinente, brutto arrogante che non riconosceva né i propri torti né la sua autorità. Ma ora l’aggiusto io. Decide di dargli una lezione esemplare e pubblica: convoca un’assemblea di sezione con i probiviri, sotto la minaccia di espellerlo. Un vero e proprio processo, insomma. Ma, a scanso di sberleffi e insulti, o come disse lui per impegni precedenti, a presenziare avrebbe mandato un altro. 263


“Nel giorno fissato i compagni arrivavano e si sedevano, già ridendo al pensiero dello scontro fra Alunni e l’emissario della federazione. Fioccavano anche le scommesse sul vincitore. E lui, seduto in prima fila, faceva il gradasso, vestito come se fosse domenica accoglieva tutti con un benvenuto, un bischero, un come va, come fosse l’ospite di una festa di nozze. La sezione era ormai piena anche nei posti in piedi, e l’emissario non era ancora arrivato. Alunni già mandava frizzi e lazzi: e non c’hanno le palle per venire, e stanno ancora cercando un povero bischero che accetti di venire contro di me, eccetera. Quando ecco si affaccia una biondina, esile, carina, educata. Saluta tutti e si va a sedere alla presidenza: compagni, iniziamo. Era lei l’emissario. Le parole all’Alunni gli si smorzarono in bocca, come se avesse avuto una mazzata in testa. Era Ileana, tua madre. Lo colpì subito e da quel giorno a chi gli chiedeva: Alunni, hai messo la testa a posto, che t’è successo? Lui rispondeva sempre: le galline hanno pisciato. Si era innamorato a prima vista. Ed è rimasto innamorato sempre”. “Anche ora che lei è morta, credo”. “E tu le somigli molto”. A voce tanto bassa da dubitare che lui possa sentire: “Ma non ho la stessa fortuna: nessun grande amore”. Cornero sorride. “Non pensarci, i conti si fanno alla fine”, e si allontana. Corradi si è fermato al bar nella hall a prendere dell’acqua. Albini lo avvicina, approfittando del fatto che sono finalmente soli, per dirgli qualcosa che evidentemente suscita il suo interesse. Lo intuisco dal lampo negli occhi del maestro e dalla sua espressione, immediatamente assorta e concen264


trata. Muoio dalla curiosità, ma non posso certo chiedergli cosa si sono detti. Per fortuna le nostre stanze sono sullo stesso piano, una accanto all’altra. Così lo aspetto, fingendo di armeggiare con la chiave della porta, e sperando che sia lui a parlare. “Maledetti aggeggi che funzionano quando gli pare”. Capisce la manovra e con un lampo di malizia negli occhi dice: “Abbiamo parlato di te”. Non faccio neanche finta di essere sorpresa: “Di me. Due dirigenti del vostro calibro!” “Te lo racconto a patto che tu mi prometta di non prendertela né con la serratura né con me, e soprattutto di non fare polemiche”. “Certamente, puoi contarci”. “Bene, ho la tua parola. Il vicesegretario è preoccupato. In questa partita sta con noi, vuole vincere e, insomma, vuole essere sicuro che la squadra funzioni al meglio. Per farla breve, ha dubbi sulle tue capacità”. “Ma se non ci conosciamo...” “Ti riferisco la frase esatta. Come farà, mi ha detto, quella ragazza così giovane e carina a convincere i compagni, a tener loro testa? Guardandola uno pensa piuttosto a... insomma, le curve sono a posto, per il resto garantisci tu?” “Che mascalzone”, mi trattengo a stento, mi verrebbero frasi pesanti. “Lui, Lotti, questi compagni di Prato sono relitti di un altro secolo. Come si permette di giudicarmi senza conoscermi, almeno si informi sulla mia storia. Non sono andata di letto in letto, né di matrimonio in matrimonio per la carriera, io ho fatto tutto da sola e potevi dirglielo. E già che ci sei dillo anche a Lotti: il percorso in auto con lui è stata una delle esperienze più sgradevoli degli ultimi anni”. 265


“Frena. Se vuoi la verità devi prenderla per quella che è. Altrimenti da me non saprai più nulla. È vero, Albini si è espresso in modo rozzo, ma il suo discorso era rivolto esclusivamente a me, un discorso fra due uomini che si conoscono bene, non era previsto che lo riportassi a te o a chiunque altro. Quello che dice non ti fa piacere, ma devi tenerne conto e valutare l’impatto della tua persona sul pubblico. Attore, cantante, politico, in ogni caso la presenza scenica e la presa sull’uditorio è fondamentale. Se avessi avuto una decina di chili in più e qualche capello bianco, questo avrebbe aiutato la causa, perché assecondava lo stereotipo: brutta e intelligente. Non ce l’hai, non t’arrabbiare: non credo che tu scopra in questo istante che siamo un paese gerontocratico e maschilista. Infatti guarda me, sono vecchio e ancora sulla breccia”. “Anziano ma non scorretto. Invece tutti questi pseudo compagni...” “È la legge del potere. Chi ce l’ha fa di tutto per conservarlo e schiacciare i concorrenti. Le donne, i giovani, guai ad averli contro. Bisogna parlarne sempre bene in pubblico e malissimo in privato. Albini è uno che non ha mai disprezzato le donne, ma dà voce a pensieri molto diffusi. Proprio perché è dalla nostra parte, e vuole vincere. Tutti si aspettano fuoco e fiamme dalla riunione di domani. E lui si aspetta aiuto da noi. Siamo venuti dalla direzione, dal centro, apposta per sostenere una linea diversa da quella prevalente qui in questo momento. Perciò chiede che la coppia arrivata in soccorso non abbia punti deboli. Non c’è niente di male in questo. Trovi sconveniente che voglia raggiungere il successo con noi e grazie a noi? Ti ho raccontato il suo ragionamento perché doma266


ni tu sia pronta e tosta, non perché frigni oggi sulla perfidia maschile. Quanto a Lotti: è arrogante perché si è fatto strada qui dove il partito è forte, governa e può molto. È scorbutico e ce l’ha con le donne in modo ostinato e illogico da quando la moglie l’ha lasciato portandosi via il figlio piccolo che non gli fa più vedere. “Ci troviamo fra un’ora per la cena e divertiamoci un po’, che la vita può essere molto interessante. A me le battaglie piacciono, mi fanno sentire più giovane”. Corradi ha scelto personalmente la Locanda del Pagliaio, un locale carino, una trattoria di quelle che cominciano in sordina a prezzi accessibili, e ben presto diventano posti alla moda pur senza perdere lo spirito popolare. “Vedrai, ti piacerà, garantisco io”, dice con uno slancio raro e inatteso. “Il Pagliaio perché?” “Dal soprannome del proprietario, che da ragazzino era biondo come il grano maturo e aveva una capigliatura a caschetto con un ciuffo ribelle, che faceva sembrare il suo cranio la cima di un pagliaio. Un pagliaio di quelli a forma di cono rovesciato, di capannina, che si vedevano prima che la campagna si lavorasse con le macchine, naturalmente. “C’è folla tutti i giorni tutto l’anno, ma è un mio amico, per me c’è sempre posto”. Buffo che uno come lui si vanti dell’amicizia di un oste. Già dall’angolo del palazzo c’è una fila lunghissima: decine di persone in attesa fuori dal locale, disposti ad aspettare anche un’ora pur di cenare lì. Il proprietario ogni tanto esce a prendere i nomi e ad annunciare ai fortunati che è arrivato il loro turno. 267


“Hai visto? Che ti dicevo? È un posto che vale la pena conoscere”, mi guida verso l’ingresso, superando tutti gli imprevidenti. Il Pagliaio in persona appena ci vede ci viene incontro, è un uomo alto e grosso e il maestro quasi sparisce nel suo abbraccio. “Oh senatore, ovvia per averti qui devo aspettare anni... e meno male che stavolta arrivi con questo bel tocco di figliola, che l’ultima volta m’hai portato solo omacci e io non sono alla moda, a me gli omini ’un mi piacciono”. Corradi riesce a liberarsi dall’abbraccio potente e fa le presentazioni. “Il tocco come dici tu è un’importante dirigente della Sinistra Unita. Portale rispetto che oggi si è già molto arrabbiata con quei maschilisti dei tuoi compagni”. Qualcuno nella fila ci sta chiamando. “Onorevole Corradi, buona sera, beato lei che entra subito, a noi hanno dato quaranta minuti almeno di attesa. Non abbiamo i privilegi della politica”. Per nulla sorpreso, il parlamentare gli risponde: “Semplice previdenza, caro Mustacchi. Ho telefonato nel pomeriggio. Potrei dividerne i vantaggi con lei chiedendo al Pagliaio se al nostro tavolo entrano quattro persone, ma sarà costretto a mangiare con noi, rinunciando alla cenetta intima a due”, e fa cenno alla donna che gli sta accanto. Lui la presenta: “Io e la mia collega Anna Laura Proietti, che la signora Alunni già conosce, non abbiamo in programma nulla di intimo. Siamo qui per lavoro: mi porterà da Lorena Poli, politica imprenditrice, buona amica di Anna Laura. Da quando ho scritto su te, Luisa, sono tem268


pestato da richieste di donne che si candidano per uno dei miei medaglioni”. Sorrido e rimando a Giovanni: “Perché non sanno cosa le aspetta”. “Ogni lavoro ha le sue regole: vuoi uscire sul giornale? In qualcosa devi stupire il lettore. La vita della signora Maria non interessa nessuno. Le tue serate, i tuoi amori, i tuoi errori, quelli si che interesserebbero”. “Forse più a te che ai tuoi lettori”, interviene Anna Laura, che non è un genio, ma ha antenne sensibili. E Giovanni le interessa molto. “Vedo che la serata al Cacio e vino vi ha reso intimi, battibeccate come due anziani coniugi”. Tocca a me rispondere: “Fra vittima e carnefice i rapporti sono pessimi, ma la conoscenza è profonda. O no?” Per fortuna interviene il Pagliaio, che leva me e Mustacchi dall’imbarazzo di fornire spiegazioni. “Ovvia, continuate a tavola, che qui mi ingorgate la fila. Per te senatore ho lasciato un tavolo grande, tanto finisce sempre che siete in tanti. Il tavolo è pronto, andate a sedervi e godetevi la cena senza troppe seghe”, e con una pacca sulle spalle del dirigente torna a occuparsi dei suoi avventori. “Andiamo a studiare il menù”, interviene garrula Anna Laura cercando di attrarre l’attenzione su di sé, che non succeda come l’altra volta che ho monopolizzato la serata di Giovanni. Stavolta non lo consentirà. Corradi la guarda interessato, e poi sembra che m’interroghi con gli occhi. Ma forse è solo la mia coda di paglia.

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Invece la caratteristica del locale è che non si può ordinare. Il Piombi, cioè il Pagliaio, va al mercato ogni mattina e secondo quello che trova di meglio compone il menù e lo propone ai propri ospiti. Arriva il primo: pappardelle alla lepre. Il sapore del sugo, con quella punta di acre che gli dà la cacciagione, fuso con pochissimo pomodoro e molti odori, rosolato con cura e consumato a lungo, è così pieno e appagante che porta in tavola una certa rilassata confidenza. Corradi guarda insistentemente Anna Laura, è gentile, cavalleresco. I due giornalisti lo chiamano onorevole. Lui allora si rivolge ad Anna Laura, ma formalmente a entrambi. “Davanti a un cibo e un vino che sono un dono prezioso non fatemi sentire vecchio. Chiamatemi Alfonso e diamoci del tu”. “Molto volentieri, peccato che al giornale nessuno crederà che mi hai autorizzato a tanta confidenza”, cinguetta lei accarezzata nell’orgoglio. Giovanni è molto più tiepido: “Grazie onorevole, lei mi dia pure del tu, ma io non mi sentirei a mio agio ricambiandola. Lei è una figura storica, io un giornalista agli inizi. Piuttosto, approfitto della confidenza in altro modo. Le chiedo un parere sincero: oggi ho visto il muro, da vicino fa ancora più impressione. Non trova anche lei che sia roba da fascisti? La sinistra che costruisce il ghetto. Assurdo”. Mustacchi l’ha detta grossa e si lecca i baffi: se Corradi si schiera contro il sindaco, è una notizia. Se al contrario si dichiara favorevole, perché organizzare la manifestazione per abbatterlo? Ma questi non fa una piega e calmissimo gli replica. “Carissimo, come puoi dire una cosa simile? Un sindaco di 270


sinistra non farebbe mai cose di destra. Se l’ha fatto ha le sue buone ragioni”. Il giornalista insiste sempre più incalzante: vuole stanare Corradi, fargli ammettere che è contro il muro del sindaco. Allora Corradi sfodera un gigantesco sorriso e spiega con una piccola esitazione nella voce e una posa da grande e consumato attore: “Ah, i giornalisti, avete un modo di chiedere che non lascia scampo. Voglio confidarvi una notizia che per altri due giorni almeno deve restare riservatissima. E ve la confido solo se mi promettete di rispettare l’embargo per le prossime quarantotto ore”. I due si impegnano, e lui prosegue: “Luisa e io siamo qui a Prato proprio per il muro. Naturalmente in appoggio alla linea del sindaco. Siamo d’accordo con Adelmo Pieri che il muro è solamente un inizio, ma la gente sembra non capirlo. C’è un difetto di comunicazione. Perciò stiamo per organizzare una grande manifestazione intorno al suo muro: lo circonderemo di braccia femminili. Sì, le braccia delle donne, quelle che cullano i figli, che consolano gli anziani genitori, che amano mariti, amanti e fidanzati, andranno in soccorso di un’azione politica importante e innovativa: circondare gli spacciatori e farli sentire isolati dal resto degli immigrati. Far sentire loro che la brava gente non vuole stare in un ghetto. Far sentire agli immigrati l’abbraccio della gente di sinistra. L’abbraccio della gente comune, che vuole vivere e sognare, avere un futuro, lasciarsi alle spalle la disperazione che speravano di aver già battuto quando sono fuggiti dai loro paesi. Questo noi faremo con le braccia delle donne, un muro umano, e subito dopo, il muro d’acciaio si potrà abbattere”. 271


“Quindi”, replica Anna Laura, “c’è una manifestazione contro il muro”. “Piuttosto”, Corradi grande attore, mostra stupore vero, “è di sostegno all’amministrazione comunale, del sindaco. Il muro non è un’opera d’arte, né una costruzione stabile. Se con la manifestazione riusciremo ad accelerare l’isolamento e la cacciata dei delinquenti, la sua azione sarà conclusa e sarà chiaro a tutti che era una misura temporanea e limitata, come del resto ha detto Pieri fin dall’inizio. Così finiranno critiche e contestazioni ingiuste contro di lui. Ma ribadisco, la notizia è in embargo. Lo sapete solo voi: se esce su qualche giornale potrà essere uscita solo da voi”. Guarda Anna Laura come il gatto guarda il topo prima di mangiarlo, ed è ossequioso con lei al punto da sfiorare il ridicolo. Io a mia volta guardo divertita gli altri tre commensali. Ho capito il suo gioco: non sputtanare il sindaco, far finta di appoggiarlo pur dichiarando cose su cui il primo cittadino non può essere d’accordo. Fargli digerire una manifestazione contro di lui come se fosse in appoggio a lui. Così non potrà negarsi, non potrà protestare. È bloccato. Semplice e geniale. Mustacchi a sua volta ride sotto i baffi, ma non può parlare senza far capire che lui già sapeva. Tutta la commedia ha in definitiva un solo destinatario: Anna Laura. Mentre sorseggiamo un ottimo rosso toscano, Corradi è molto concentrato sul suo bicchiere, che descrive da vero intenditore: un colore rubino, un magnifico bouquet, il Pagliaio ha sempre lo stesso fornitore da anni, il suo vino è una sicurezza, anche se lo compra sfuso, è migliore di tante etichette. Mustacchi è in totale ammirazione: “Onorevole, anche lei appassionato di cucina, come me?” 272


“Soprattutto di vino. Come diceva un grande scrittore, mi sembra Oscar Wilde, la vita è troppo breve per bere vino cattivo”. Corradi è visibilmente soddisfatto di se stesso, e nient’affatto sorpreso quando la Proietti che ha abboccato all’amo, torna all’argomento di prima. “Davvero siete qui per questo? Eppure al giornale ho sentito dire che a Roma c’è del malcontento verso Pieri. Il muro ha diviso anche il partito. Molti lo contestano, lo giudicano un passo verso l’apartheid. Altri lo imitano, e fra questi un sindaco di Sinistra Unita al nord. E voi non sapete che pesci prendere”. Corradi la interrompe ironico: “E allora perché saremmo qui? Anna Laura, tanto intelligente, non puoi credere ai giornalisti. Via, ti sembra che alla mia età sarei venuto fin qui se non fossi stato d’accordo con i compagni di Prato? Non sono più adatto alle battaglie difficili io, mi stanco troppo in fretta”. Reagisco a mia volta: “È meglio dire la verità ad Anna Laura. Il compagno Corradi ha avuto un’idea straordinaria, di quelle tanto semplici da farti dire perché non ci ho pensato prima. Siamo venuti subito a proporla a Pieri perché diventi la prima manifestazione di una serie, che tocchi i punti nevralgici dell’immigrazione clandestina e della delinquenza collegata. Hai ragione, il dibattito c’è, ma non è fra centro e periferia, ammesso che oggi si possa ancora parlare così. Il dibattito è trasversale a tutto il mondo politico sul modo di vedere il fenomeno dei grandi flussi migratori dei giorni nostri. I problemi ci sono, inutile nasconderlo, portarli allo scoperto aiuta un grande partito. Merito di Pieri averlo fatto e merito di Corradi aver raccolto la sfida e buttato la palla più avanti”. 273


“Interessante”, dice la giornalista, col tono di una che trova questo pistolotto completamente privo d’interesse. Torna a rivolgersi a Corradi: “Dunque la notizia è top secret? Perché? E fino a quando?” “Non mi fare brutti scherzi, che io debba pentirmi di questa confidenza. È top secret perché non ne abbiamo ancora parlato a Pieri – d’altronde siamo appena arrivati – e se i compagni venissero a sapere dal giornale un’iniziativa che li riguarda direttamente saremmo in un bel guaio. Infine ci metteresti nei guai anche con gli altri quotidiani, che si vedrebbero scavalcati: al di là delle mie simpatie personali per te, Anna Laura, non posso inimicarmi tutta la stampa italiana dandoti uno scoop. Oh, ecco il secondo: assaggia questo cinghiale in umido, non ne trovi uguale da nessun’altra parte. È un piatto che risente di tante antiche culture mischiate. Si fa il soffritto con tutti gli odori e la cipolla e l’aglio spremuto, si leva il cinghiale – fatto a pezzi abbastanza piccoli – dalla marinata in cui è rimasto la nottata intera, e che io personalmente faccio così: pepe a grani, odori tutti, vino rosso e appena un cucchiaio di aceto. Quando il soffritto è pronto, dicevo, non deve in nessun caso bruciare, ci butto il cinghiale e aggiungo appena un pomodorino, ma se non trovi quello vesuviano molto meglio un buon cucchiaio di concentrato che un tondo, liscio e insipido ciliegino olandese. Poi una manciata di uva passa, pinoli, e sul fuoco basso a consumare, molto lentamente. Quando il colore è diventato piuttosto marroncino e la carne si sfa, allora è pronto, ma, a mio parere, deve riposare. Il giorno dopo è ancora più buono. Qui lo fanno come lo faccio io. Propongo un brindisi a questa serata e al piacere di averti conosciuta”. 274


Mi trattengo a stento dal ridere, ma Mustacchi sta al gioco e alza il bicchiere: “Al miglior cinghiale – a parte quello che facciamo Corradi e io – e alla migliore compagnia”, dice guardando la collega, nella consapevolezza che la poverina è cascata nella rete. Infatti passano appena una decina di minuti quando d’improvviso Anna Laura si alza. “Scusate, sono stanchissima. Caro Alfonso, grazie del tavolo e della compagnia. Giovanni tu resti e paghi per noi due”. “Ma no”, risponde lui sadico, “ti accompagno con piacere, ero molto stanco prima della cena, ma vino e buon cibo, e naturalmente buona compagnia, mi hanno tonificato. Se penso che quando siete arrivati stavo per rinunciare a causa della lunghissima lista d’attesa... però non posso consentire che giri da sola a quest’ora. Rinuncerò al dolce e ti accompagnerò”. Anna Laura non aspetta neanche che lui finisca il suo discorsetto, ha già preso borsa e giacca. “Per carità, non ce n’è proprio bisogno, vado da sola, in taxi cosa vuoi che mi succeda”. Scappa prima che chiunque possa replicare. Vuole portare lei la notizia al giornale. Vuole essere sicura di non doverla dividere con lui che per fortuna, nonostante le parole, non sembra per nulla disposto ad alzarsi e andarsene. Speriamo che non sia per i begli occhi di Luisa che rinuncia allo scoop. Ma ora non ha tempo per questo aspetto della faccenda, ora ha un’occasione d’oro fra le mani e non intende sprecarla. Sono appena le nove e le pagine di politica, come la prima pagina, sono ancora tutte aperte. Volta l’angolo della strada per essere sicura che non la vedano i suoi commensali e con il cellulare chiama il caporedattore. 275


“Ciao Antonio, Anna Laura. Sai che ho accompagnato Giovanni a Prato per presentargli la mia amica Poli, abitualmente così restia a dare interviste, ma grazie a me l’ha ottenuta. Bene, non crederai cosa ho saputo: c’è qui Alfonso Corradi, l’onorevole di Sinistra Unita. Si è lasciato sfuggire che prepara una grande manifestazione sul muro... macché contro, di appoggio ti dico, di appoggio al Pieri, sì, una cosa scenografica quanto mai... e poi, capisci, questo vuol dire che si è creato un nuovo asse politico in vista del congresso... certo... Luisa Alunni? Sì, sta lavorando con lui, ma è stata zitta tutta la sera, che vuoi, poverina, non è che sia una stella di prima grandezza... non ha neanche le physique du rôle, basta vedere come si veste: una studentessa appena uscita dall’università è più elegante di lei. Per non parlare di come si atteggia. Credo che Corradi le stia insegnando il mestiere su incarico del segretario, ma non ha la stoffa e mi sembra che lui la sopporti a malapena. Lui è talmente affascinante che dimentichi l’età”. Dall’altro capo del telefono il caporedattore le lancia la battuta maligna. “Sempre buone con gli uomini e perfide con le donne, cazzi vostri, continuate così. Tornando al pezzo, non ho capito, qual è il titolo?” “Direi: Il muro di Prato non imbarazza più Sinistra Unita. Corradi appoggia il sindaco. Sorprese al prossimo congresso?” “Va bene”, le risponde il caporedattore. “Oggi c’è poco di politica, fai anche un boxino per la prima”. Anna Laura gongola, ha fatto bene a mollare la cena, per un pezzo in prima vale la pena, e così Mustacchi imparerà a portarle più rispetto e forse si smuoverà da quella sua apa276


tia insopportabile. Gli presenta donne importanti e lui neanche grazie. È leale e devota, e lui neanche uno sguardo. Gli fa capire che sarebbe disponibile a fare sesso con lui e niente, quello fa finta di non aver sentito. Deve avere una specie di blocco nei sui confronti. O forse è timido. O forse è gay? Però non sembra. Un po’ d’invidia professionale, un po’ di gelosia l’aiuteranno. In ogni modo domani avrà la sorpresina. Si pentirà della sua indifferenza.

Luisa con Giovanni Siamo davvero grati a Corradi. Io per la lezione di tattica. Giovanni pensava di passare una noiosa serata con Anna Laura e invece si è divertito moltissimo. Entrambi coltiviamo una piccola speranza che si realizza alle dieci in punto. “È stato molto, molto piacevole chiacchierare con voi, e resterei, ma alla mia età i tempi di recupero sono lunghi. Andrò a letto, e guarderò la televisione, un esercizio di pazienza: ogni tanto lo faccio per non perdere il contatto con la volgarità dei nostri tempi. Stasera sono di buonumore e posso permettermelo”. Se ne va, scortato da Albini, che appena si è liberato ci ha raggiunti per un caffè. Io, nonostante i buoni propositi, a stento gli ho rivolto la parola: le frasi riferite dal maestro mi bruciano ancora. Corradi ci saluta con un gesto, ci alziamo anche noi per andare. Lui ci ferma. “Voi giovani rimanete ancora un po’. Non avete ancora assaggiato il vin santo con i cantucci del Pagliaio. Imperdibili. Ci vediamo domani Luisa, e spero bene che il Corriere del Mattino ci darà una piacevole sorpresa. 277


Arrivederci anche a te Giovanni. Comportatevi bene”, e ridendo se ne va, accompagnato alla porta dall’oste adorante. Fra noi due, rimasti soli al tavolo, un vuoto che non sappiamo riempire. Dovremmo approfittare dell’occasione per un chiarimento. Ma superare l’imbarazzo non è facile. Poi, come se fosse scattato un meccanismo, Giovanni mi chiede perché non ho risposto al telefonino, nello stesso momento in cui io gli sto dicendo: “Quando chiamavi ero in treno e cadeva continuamente la linea”. Le voci si sono sovrapposte, e nessuno dei due ha voglia di guastarsi l’umore con un eccesso di spiegazioni e dettagli. Lui ride, o meglio ridacchia, e io gli faccio segno: perché? “Penso ad Anna Laura: ritiene di aver fatto lo scoop della vita e invece ha fatto la marionetta nelle mani dell’astuto volpone”. La tensione si scioglie e rido di cuore anche io. Poi sono colpita da un pensiero. “Perché prendi in giro la tua fidanzata, non è leale”. “Te l’ho già spiegato, è solo una collega. Come dici tu, mai storie sul posto di lavoro”. “Lei lo sa?” “Ognuno di noi sa quello che vuole sapere, capisce quello che vuole capire. Anna Laura è l’ultima persona con cui farei coppia: si offre e io detesto le donne che non ti lasciano il gusto della conquista. È talmente concentrata su se stessa che non ascolta quando le dico che non mi interessa. Non posso neanche dire che siamo solo amici, perché non siamo neanche amici. Marco, piuttosto, come sta senza di te?” “Benissimo, lo sento tre volte al giorno, è il mio contatto con i corridoi della Sinistra Unita mentre sono qui. Lo 278


sai, in politica le chiacchiere possono salvarti la vita o perderti. Anzi a essere sinceri proprio bene, non sta. È avvilito, non vuol fare il gay a vita”. La faccia di Giovanni è un punto interrogativo. “Non capisco: è gay o no?” “La sua omosessualità è una scelta definitiva. Però vorrebbe diventare segretario del partito e non restare l’esperto delle discriminazioni, delle opportunità, dei problemi dei gay”. “Ma tu e lui, allora”. Rido di botto. “Non dirlo a Marco. Siamo molto amici. Ma non si sognerebbe mai di stare con me. Passiamo molto tempo insieme perché siamo due persone sole con grandi affinità, a parte quella sessuale. E questo è tutto”. “Meno male”, si lascia sfuggire Giovanni. E aggiunge: “Perché non facciamo due passi fino all’albergo?” “Volentieri”. “Io sono al Lux. È piccolo ma molto centrale. E tu?” “Io sono al Beltour, dell’omonima catena, è grande ma in compenso molto squallido e periferico. Dobbiamo attraversare a piedi quella parte delle mura lasciata alle erbacce e discariche occasionali. Forse non è tanto raccomandabile di notte. Ti va lo stesso o prendiamo un taxi?” “Ma sì, andiamo, meglio una camminata pericolosa con te che approdare in solitudine a un letto estraneo”.

Luisa Camminando parliamo un po’ di tutto. In modo lieve, casuale. È facile come chiacchierare con Marco, non biso279


gna stare attenti a ciò che si dice, ma semplicemente assecondare le parole che spontaneamente vengono alla mente. In più c’è il piacere della scoperta, della novità, buttare là un discorso come un amo e aspettare se l’altro ne resta agganciato. E lui mi segue in questo discorrere senza altro scopo se non quello di conoscersi meglio e di piacersi. Già, inutile negare che andare a spasso con quel bel ragazzo è molto piacevole. Giovanni non mi tocca, ma ogni tanto le nostre spalle si sfiorano, una leggera scossa elettrica m’attraversa, non una vera eccitazione, ma uno stato di grazia di cui fa parte anche una specie di attrazione fisica. Ripenso a quel meno male che gli è sfuggito commentando le scelte sessuali di Marco. Sorriderei se non sembrasse scortese. Vorrei tacere per assaporare meglio questa situazione, ma non siamo abbastanza intimi per lasciar le nostre sensazioni senza parole. Il silenzio è troppo impegnativo per due che si conoscono appena.

Giovanni I capelli di Luisa ogni tanto si alzano per la brezza serale. Sono così vicini che ne sento il movimento, un soffio leggero e profumato. Il desiderio di toccarla è acuto, vorrei smettere di parlare e tenerla stretta in silenzio, ma non oso, temo le sue reazioni: è una donna imprevedibile, mentre la vedi serena e tenera, diventa un pezzo di marmo. Il ricordo della scenata sotto casa sua mi brucia ancora e mi rende prudente. Perciò mi costringo a continuare un discorso qualunque col pilota automatico, mentre la mia mente è concentrata su ben altro. 280


Luisa Imbocchiamo un tratto di strada sotto le mura, dove la luce dei lampioni arriva poco. C’è solo un leggero chiarore, ma non è un buio romantico: riusciamo a stento a scansare lattine vuote, buste di plastica, residui umani e buche di cui la strada è disseminata. Sembra un luogo colpito dall’esplosione di un ordigno, invece è solo incuria. Avverto una sensazione di pericolo, accelero. Il mio corpo si irrigidisce. Da un angolo sbuca una sagoma scura con una felpa di quelle da stadio in guerriglia, con passamontagna incorporato. Ha la figura di un giovane, ma gli occhi – l’unica parte visibile – sembrano stanchi, vecchi. Forse è solo un’impressione. Ha in mano un coltello lungo un palmo. Ci minaccia e chiede a me l’orologio. Quando lo vede esclama con una punta di emozione: è un Rolex. Non è il caso di fare conversazione, ma lo strano personaggio mi fa paura e pena insieme. Me lo sfilo dal braccio e glielo porgo: “Guarda che non è autentico, me l’ha portato un’amica da Hong Kong. Per cinque euro chi te lo fa fare”. “Allora dammi i soldi”, è sicuramente un giovane quello che parla con una voce ora delusa, bassa, roca, impastata, con una nota di insicurezza. Gli rispondo: “Non ho contanti, non ne porto mai”. Il ragazzo esita e mostra il coltello, con intenzioni evidenti. La situazione si fa critica, evidentemente non è un professionista, ma un rapinatore improvvisato, forse un tossico, di quelli che non sono preparati a reagire in casi di difficoltà. Interviene Giovanni, con tono calmo e sicuro: “Ho io venti euro, prendili e vattene subito”. Tutto il suo atteggiamento suggerisce: se vuoi rogne sono pronto. Dal passa281


montagna la voce esce ancora più giovane e incerta e con un forte accento straniero: “Va bene”. Il ragazzo afferra le banconote e si allontana in fretta. La scena sarà durata un minuto o forse due. A questo punto prendo coscienza del pericolo corso e inizio a tremare sempre più violentemente: fin da piccola mi rendevo conto del rischio soltanto a situazione conclusa. Giovanni se ne accorge, mi circonda le spalle col braccio sinistro e mi stringe a sé, mentre con la mano destra prende il telefonino e chiama un taxi. Lo lascio fare, anzi mi appoggio a lui. L’attesa dura un’eternità. Un’eternità combattuta fra l’ansia per quello che potrebbe ancora capitare fino all’arrivo dell’auto, e il piacere di sentirsi vicini e uniti dall’esperienza appena vissuta. Le barriere fra noi sono cadute. Restiamo zitti e stretti l’uno all’altra fino a quando compaiono le luci del taxi. Mi lascia e apre la portiera per consentirmi di salire. Il tassista dice che siamo stati assolutamente imprudenti: è andata bene che il rapinatore si sia accontentato di venti euro. Per tutto il tragitto Giovanni mi tiene la mano, siamo spalla a spalla, ma non parliamo fra noi. Anzi io non parlo affatto, mi sento debolissima e grata a lui, che ha avuto presenza di spirito. Non so come sarebbe finita altrimenti, magari il rapinatore avrebbe chiamato altri del gruppo, m’avrebbero violentata... Non voglio pensarci, devo smettere di tremare. Mi concentro sui discorsi col tassista. Stanno parlando del muro, il tassista è tutto dalla parte del sindaco. “Ha fatto bene, non se ne può più. Vengono qui, spacciano, rubano e aggrediscono i turisti. Come è successo a voi”. Mi sento chiamata in causa, ma non ho la forza di ribat282


tergli, né la voglia. La sensazione di abbandono, di affidamento a Giovanni è la cosa migliore che mi sia capitata nella giornata, la sua voce mentre parla al guidatore del taxi mi culla e mi rassicura, e il movimento dell’auto un po’ alla volta mi calma, come un bambino quando qualcuno dondola la sua culla. Il buio fuori, il calore della sua mano, la conversazione che non mi coinvolge per niente, la sensazione dello scampato pericolo, tutto contribuisce a farmi sentire in un particolare stato d’animo. Quasi una sospensione del tempo, in un non-spazio dove l’infelicità è bandita e la tensione assente. Quando vedo di lontano le luci dell’albergo provo disappunto, vorrei dire al tassista vada avanti. Come i bambini vorrei ripetere all’infinito e con caparbietà: ancora, ancora, ancora. Ma la realtà è più forte dei desideri, quando la sagoma del grande orrendo albergo è oramai tanto vicina da distinguere l’ingresso e il portiere in divisa dietro al banco illuminato da un neon bianchissimo, mi chiedo quale sarà la giusta conclusione della stranissima serata. Un’idea ce l’ho. Purtroppo non so come metterla in pratica, perché in fatto di sesso preferisco che siano gli uomini a prendere l’iniziativa. Se non bastasse, Giovanni è stato chiaro: detesta le donne che si offrono. La domanda mi dondola nel cervello. Ormai siamo nella hall. È il momento delle decisioni: o dico qualcosa adesso o la magia sfumerà e mi troverò sola nel grande letto, in una grande squallida stanza, ancora tutta scombussolata dal pessimo incontro. Cerco di ricordare quello che le amiche raccontano ogni tanto: ho abbordato il tale, ci ho provato con il 283


talaltro. Già, ma come fanno? Non l’ho mai chiesto, fino a un attimo fa disapprovavo fortemente quel tipo di approccio. Ora invece mi farebbe comodo saperne di più. Vorrei riuscire a offrirmi senza parere, forse dovrei provocarlo, ma come? Ci vorrebbe una camicietta semislacciata, una gonna con lo spacco di lato, delle calze nere. Non i miei abiti spartani. Odio la mia rigidità, ma non riesco a decidermi. Sento il peso di due occhi su di me. È Giulio Lotti, che osserva la scena con sguardo sgradevole, e interrompe pesantemente la nostra nuova vicinanza. Giovanni si allontana di malavoglia, ma è necessario, e lo fa lentamente, perché non sembri che ci sentiamo colti in flagranza di intimità. Cerca di essere convincente mentre spiega con nonchalance che il suo era un abbraccio di sostegno. Ha un modo di raccontare molto colorito, come se scrivesse un pezzo di cronaca. Io invece, sono portata mio malgrado a dare spiegazioni, a descrivere la gran paura che mi pesa più ora che durante l’aggressione. Giulio ci guarda con aria fra il seccato e lo scettico e commenta acido. “Se uno va in giro di notte a piedi in certi posti deve sapere cosa affronta. Perciò mi ero offerto di accompagnarvi per la cena, ma Corradi ha preferito che facessi altro. Comunque sono venuto per accertarmi che fossi viva e vegeta e a quanto pare non ho fatto male”. Sorrido: Corradi sta cominciando a inserirsi un po’ troppo della mia vita, per fortuna aveva intuito che non avrei assolutamente voluto concludere la serata con Giulio. Il quale, insopportabile come sempre, si rivolge a Giovanni col tono di licenziarlo. “Beviamo qualcosa e poi tu puoi andare, io e Luisa abbiamo da discutere prima della riunione di domani”. 284


Giovanni non ha nessuna intenzione di allontanarsi. La serata ha lasciato il segno. Luisa è giusta per lui, l’ha sentita, fin da quella sera ballando sulle note di Otis. Il suo profumo delicato mischiato all’adrenalina gli è rimasto nel cervello. Entrando in hotel anche lui si chiedeva come prolungare la serata senza far la figura di uno che approfitta della momentanea debolezza. Tutto poteva immaginare, tranne trovare il guastafeste. Non vuole lasciargli campo libero. Sono tutti e tre seduti nella hall. L’atmosfera tesa di certo non migliora guardandosi intorno: dalla squallida moquette sale ancora l’odore del fumo stantio, antico, stratificato di quando nei locali pubblici si poteva fumare. Le macchie si confondono con gli orridi disegni di fiori e occhieggiano come sorrisi sconci. Il bancone del bar è di mogano scuro come il loro umore. Luisa è disturbata da tutto: l’ambiente e la situazione e i suoi piani per la notte andati definitivamente all’aria. Giulio, dopo qualche schermaglia di quelle che gli uomini fanno per pura competitività, insiste di nuovo con Giovanni, che però è irremovibile. Dovrà rinunciare al suo progetto, ma di certo non lascerà Luisa, così fragile in questo momento, in balia di quell’essere odioso e smanettone. Alla fine tocca proprio a me sbloccare la situazione, alzandomi e salutando per prima: “Scusa Giulio, immagino che tu debba dirmi cose importanti, ma non ce la faccio proprio, parleremo domani mattina presto, al telefono o di persona. Ora vado a letto. Non mi reggo in piedi, la tensione è svanita e mi ha lasciato una spossatezza terribile”. 285


Saluto e me ne vado prima che uno dei due possa parlare. Tanto la serata è ormai compromessa, Giulio non molla, Giovanni neanche, stare seduta fra loro due è piacevole come stare fra due eserciti su un terreno di battaglia. In ascensore la delusione mi provoca una tossetta nervosa, mi schiarisco la gola due tre volte, senza successo, quella specie di groppo non se ne va. Chissà se e quando rivedrò Giovanni. Mentre mi lavo i denti, ecco il telefono: “Sono io, non potevo mandarti a letto senza la buona notte”. Rispondo con la bocca tutta impastata, e poi rido, finalmente libera dal groppo in gola, rendendomi conto che Giovanni non può aver capito niente perché ho il dentifricio in bocca. Ride anche lui. “Ciao”. “Ciao. E... chiamami domani, se ti fa piacere”. “Senz’altro, che farai per cena?” “Ceno con te, no?” Lui ride e anche io, soddisfatta della nuova sfacciataggine.

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XIX

Coyote prende l’acqua dal popolo delle rane, perché non è giusto che un solo popolo abbia tutta l’acqua.

Luisa Scendo che ho già fatto colazione: il rituale caffè in camera è uno dei pochi lussi a cui non rinuncio. Mi fermo nella hall a leggere il quotidiano appeso nella stecca. Come previsto, il colpo di Corradi è andato a segno in prima pagina sul Corriere del Mattino. Lui è nella sala pomposamente chiamata breakfast con un tè, qualche fetta biscottata e il giornale affianco ripiegato ma evidentemente già letto. Mi saluta e poi: “Oggi è meglio stare leggeri e pensare all’azione. Troppa soddisfazione alimentare non va bene. Abbiamo bisogno di tutta la nostra energia. O hai fatto stravizi?” L’allusione è chiarissima, non ho difficoltà a rispondere: “Se per stravizi intendi subire un tentativo di rapina...” Gli racconto l’avventura, commenta filosofico e frettoloso: “Non si possono difendere gli emarginati solo quando non toccano noi”. E mi indica la pagina del quotidiano che ci interessa. “Hai letto? Che ne pensi?” 287


“Sei un genio”, gli dico. E lo penso realmente. “Con questo inizio sarà una passeggiata”. “Pieri non è uno stupido e non è mai una passeggiata. Potremmo averlo sorpreso, ma si riprenderà velocemente. Aspettati una contromossa. Cerca di prevedere quale sarà”. Nel frattempo arrivano Giulio e il vicesegretario. Quest’ultimo è raggiante, il primo invece ha la solita aria di uno che se morde ti avvelena. Si siedono e prendono un caffè. Intanto commentano. Albini è d’accordo con me: ritiene che l’articolo sia destinato a sciogliere le resistenze. Giulio è acido e lapidario. “Il sindaco è fuori di sé dalla rabbia. Penso che ve la farà pagare”. Mi guarda con insistenza e appena gli sono a tiro senza che altri possano sentire sibila: “Il tuo paladino non c’è? Il signorino si sveglia tardi al mattino?” Ignoro la provocazione: “Non conosco le sue abitudini. Piuttosto, perché il sindaco dovrebbe essere furioso?” “Non si prende in giro facilmente il Pieri” e nel dirlo si allontana facendo spallucce, come per dire: se non lo capisci da sola...

Pieri La riunione ha i soliti lunghissimi preliminari, fra pacche amichevoli sulle spalle e sorrisi tirati: Corradi qui è molto popolare – purtroppo – e tutti fanno a gara per salutarlo e scambiare con lui una battuta. Tocca a me smorzare gli entusiasmi col mio celebre sorriso a labbra strette. Labbra strette, bocca larga. Pronto a mangiarvi in un boccone solo. E davvero a mangiarmeli che ci metterei? Poco tempo e poco sforzo. Ma ho bisogno di truppe per il congresso e 288


non posso maltrattarli troppo. Guardali là, poveretti, seduti secondo il classico schema: vicino a un amico, di fronte a un nemico. Il segretario provinciale vicino a me, Corradi e Alunni accanto ad Albini. Giulio solo a un lato, come al solito guarda tutti malevolo: sta con me, ma che gran rompiballe quel ragazzo. In mezzo gli ectoplasmi, quelli che non si schierano mai. Da loro dipenderà l’esito della riunione: il loro consenso è la posta in gioco. Li scruto uno a uno per indovinare su quanti potrò contare: ho fatto il gradasso con Rispoli, ma so benissimo che la mia poltrona è in bilico. L’elezione era stata quasi un plebiscito, ma il maledetto muro della maledettissima via Soriano mi ha procurato consensi quasi solo a destra. All’inizio i bravi cittadini di Prato erano preoccupati dai gravi fatti di cronaca e hanno accolto bene l’idea. Ma poi, quando l’hanno proprio visto dal vero in tutta la sua portata, i miei elettori non hanno gradito. Una frangia mi ha seguito perché doveva, un’altra parte perché vota a sinistra ma ha il cuore nel portafogli. Tutti gli altri: polemiche a non finire. Ero quasi convinto di aver fatto una cazzata, quando il muro m’ha portato alle cronache nazionali, un piacere inaspettato, una buona compensazione per tutte le rogne locali. La popolarità fa comodo e fra qualche mese mi procurerà una poltrona da parlamentare. Mi serviva solo un po’ di tempo per far abituare la gente, e per gestire il dissenso grazie all’aiuto di quei media locali che hanno da me molta “collaborazione”. Qualcosa pur mi devono per aver trovato nel bilancio comunale il denaro che contribuisce a quadrare i loro conti. Mi sono inventato la pubblicità al canile municipale e poi quella per il nuovo cimitero solo per dare soldi a loro. Le punture di spillo da ambientalisti, 289


pacifisti e sinistri di ogni sfumatura le davo per scontate, e poco alla volta tutto sarebbe rientrato nella normalità lasciandomi godere i frutti della mia genialata. Eugenio, d’altra parte, da quell’opportunista che è, fino a quando può fa finta di niente. Invece si presenta la grandissima rompicoglioni, appoggiata da quella iena di Corradi, e mi rompe le uova nel paniere. L’articolo di oggi, sicuramente una trovata del vecchio per incastrarmi, rischia di farmi perdere il vantaggio. Ma non mi conoscono bene, non mi faccio colonizzare dai romani, io. Passo in rassegna i presenti. Il segretario provinciale, quello è schierato con me senza se e senza ma: gli ho sistemato la figlia e il genero in due società controllate dal Comune: contratto a tempo determinato, buona posizione: se vuole il rinnovo sa qual è il suo dovere. Dal suo vice Albini mi aspetto qualche sorpresa: temo si metta a capo della fronda. E i due scassaballe romani, che faranno? Meglio attaccarli subito, giusto per dar loro un segnale, provocarli e far perdere loro le staffe. Mentre si siedono, a denti stretti mormoro guardando fissa Luisa: vedremo con chi sta il partito, e se va come penso, potete tornarvene a casa già domani.

La riunione Il segretario prende la parola per primo. Come previsto è tutto un elogio al sindaco e a come ha riportato la sicurezza in città. Uno dei presenti lo interrompe: “Bella roba. Li hai sentiti anche tu i giovani che ci paragonano ai fascisti”. “E tu vai dietro agli estremisti? Per fortuna la sicurezza della nostra città non dipende da loro”, rintuzza il segretario. 290


Per ora è solo esibizione dei gregari, mentre agli angoli i due veri lottatori si ignorano platealmente. Dopo qualche schermaglia fra il segretario, l’Albini e alcuni partecipanti, il sindaco chiede la parola e si fa silenzio intorno. Tutti smettono di fare ciò che facevano: sia chi leggeva il giornale, chi chiacchierava col vicino, chi parlava al cellulare sia chi messaggiava. Adelmo Pieri è tagliente come la tramontana: “Ho appreso dal giornale di oggi che siete qui in mio appoggio”, dice rivolgendosi ai due romani, “ma potevate anche non disturbarvi: che il partito mi appoggi è scontato”. Anche Corradi sorride mentre gli risponde: “In questo caso, e ogni volta che si parla di immigrazione, il partito siamo noi, io e la compagna Alunni, e il nostro appoggio non è affatto scontato. Siamo d’accordo con il segretario che è arrivato il momento di mettere ordine. Fra amministratori che chiedono agli immigrati le impronte digitali, altri che rifiutano i permessi per i loro luoghi di culto o cimiteri c’è troppa confusione”. “Invece qui il partito sono io, siamo noi”, dice il sindaco allargando le braccia a comprendere tutti i presenti: “naturalmente anch’io ho parlato con Eugenio che è sulla mia stessa linea. Comunque, d’accordo o no, io rispondo ai cittadini che mi hanno eletto, non a un signore e una signorina che vengono da Roma con idee preconcette, senza sapere niente della nostra città e dei nostri problemi. L’unico aiuto che mi avete dato finora è mettermi contro i miei stessi elettori e la stampa”. Così dicendo fa un gesto plateale, chiamando a testimone gli altri. “Sono costretto a ricordarti che non esiste la repubblica autonoma di Prato, che siamo nello stesso partito e che io 291


ho un mandato dalla direzione e dalla segreteria”. Luisa assiste silenziosa al duello verbale fra i due protagonisti. Dopo le prime battute i presenti si annoiano. Il sindaco intuisce che la tensione sta calando e teme che questo porti vantaggio ai suoi avversari. Bisogna durare un minuto più degli oppositori, e lui fra mezzora deve tornare in consiglio comunale. È arrivato il momento di attaccare. “Bene Corradi, non voglio essere inospitale: sentiamo la vostra proposta. Perché di certo ne avete una, non siete venuti qui solo per demolire la mia”. Il sorriso a metà fra ironico e di sfida è rivolto a entrambi i romani, anche se fino a quel momento sembrava ignorasse Luisa. Ma la giovane, memore dell’indicazione del maestro, continua a tacere. Pieri allora incalza direttamente Corradi: “Da quando ho alzato il muro la delinquenza in città è diminuita del sedici e cinque per cento. E i consensi al partito sono aumentati del venticinque. Come puoi rompermi i coglioni con questi risultati?” Corradi ribatte subito: “Ho visto anch’io questi dati. Sono rilevazioni pubblicate oggi ma raccolte tre mesi fa, prima del muro. Sai anche tu quel che si dice. L’arrivo in città di Xao Min emissario della mafia cinese ha cambiato gli equilibri: lui ristabilisce l’ordine e voi chiudete un occhio sulla loro comunità”. “Non ti permetto queste insinuazioni”. “Non chiedo permesso a nessuno di dire ciò che so e penso. E quanto ai consensi, a livello nazionale il tuo muro ha avuto l’effetto opposto: un calo di sei punti, in particolare dei giovani e delle donne. Per piccoli calcoli personali tu affossi il partito”. 292


“Perché mi sembra sempre che tu consideri il partito come una cosa tua? Quando l’hai comprato?” “Mi opporrò fermamente alla tua nomina a vicesegretario. Ci puoi contare”. “Vecchio paranoico. E tu credi che lascerò che nomini segretario chi ti pare? Troverai pane per i tuoi denti e puoi dire addio fin d’ora alla carica di Presidente della Repubblica. Passerai sul mio cadavere, prima”. “Non c’è problema, se è quello che vuoi”. I presenti sono esterrefatti. Uno scontro di quella violenza non si era mai visto nelle ovattate stanze del partito che governa la città da sempre e l’Italia da qualche tempo. Luisa non crede alle sue orecchie e guarda l’uno e l’altro, come normalmente si guarda la pallina da tennis che va da una parte all’altra del campo. Corradi, di solito così controllato e compassato ha davvero detto quelle cose, lanciato accuse tanto gravi? E Pieri, un sindaco importante, davvero ha perso le staffe fino a questo punto? O è solo uno spettacolo a favore dei presenti? Non ha finito di chiederselo che il sindaco si dedica a lei. Comincia a punzecchiarla, ma lei niente. Lui allora si spinge oltre, con battutine sempre più pesanti sulle giovani d’oggi che credono di essere chissà chi. Sulle ragazze che si sentono onnipotenti, sul fatto che ignorano le storie personali di dirigenti che hanno fatto grande il partito, portandolo dai margini del mondo politico a posizioni di forza e di governo. Lo sguardo indifferente, come se parlasse di qualcun altro. Luisa non reagisce. Questo manda in bestia Pieri, che decide l’affondo. Guardando fisso il segretario per cercarne l’appoggio si rivolge a Corradi con aria di scherno: “Da quando in qua vai in giro con la segretaria al seguito?” 293


L’anziano dirigente non fa una piega: “Tutti sanno che non ho mai avuto segretarie. Se tu non fossi così vecchio e chiuso nei tuoi schemi, avresti capito che sei in presenza di una dirigente giovane e molto in gamba”. “Una dirigente muta è la prima volta che mi capita di incontrarla, evidentemente non ha molto da dire. E poi, parli tu di vecchiaia? Non credi che sia un po’ buffo?” “No davvero. Ci sono due forme di vecchiaia: la prima è una condizione dello spirito e del cervello: tu l’hai avuta fin da giovane, comunque da quando io mi ricordi. La tua mente è rivolta indietro, priva di curiosità per il nuovo, priva di freschezza. Naturalmente c’è la seconda, quella anagrafica e del corpo. E quella ce l’ho io, ma solo adesso”. “La tua giovane vecchiaia ti consente di andare in giro con una muta che si veste come una ragazzina all’università in un giorno senza esami?” “Le giovani vestono come capita, non hanno bisogno dei simboli dell’eleganza per affermarsi, non hanno bisogno di diventare la strana copia di un maschio. D’altronde tu hai giacca e cravatta ma non sarai mai elegante: sembri sempre un parvenu, uno che non ha mai vissuto bene in vita sua, finora”. È il momento. Luisa interviene con voce ironica e tranquilla: “Non preoccupatevi, fate come se non ci fossi. Ma, tanto per chiarire, io mi vesto come voglio, vivo come voglio, parlo come e quando voglio. Se a qualcuno non sta bene peggio per lui. In un partito come il nostro dovrebbe contare quello che dico e faccio, non quello che sembro. Per sopravvivere in un partito dominato dai maschi le donne si vestivano con gran rigore o con le trine, e facevano l’angelo del ciclostile. Ma il ciclostile non esiste più e 294


quelle donne per fortuna neanche. Peraltro, neanche quel partito. Fatevene una ragione. Quanto a te sindaco, pensavo ci ringraziassi di essere venuti fin qui per appoggiarti con un grande sforzo organizzativo. Per farti uscire dall’imbuto in cui ti sei cacciato con scelte antidemocratiche e razziste. Riferiremo al segretario come siamo stati trattati”. Il sindaco si fa sfuggire un sorriso acido e una battuta a voce troppo alta. “Stai pur comoda: gli riferirò prima io. E mi raccomanderò che quando parla di te sia preciso. A me ha solo detto che nonostante le tette a posto e i capelli biondi sei una grandissima rompicoglioni, non che sei anche arrogante e cagacazzi”. Luisa aspetta che la sgradevolezza delle parole si depositi nelle orecchie e nei cervelli dei presenti, poi risponde gelida, senza muovere neanche un sopracciglio. “Questa conversazione per fortuna ha dei testimoni, perciò non finirà qui. È stata molto interessante e istruttiva per me, e credo non solo per me”. Si gira verso il segretario e la responsabile femminile provinciale, una compagna sui quarant’anni, che è diventata tutta rossa. Chiamata in causa dalle ultime battute, scuote il capo in segno di grande disapprovazione, e dice con tono duro e deciso: “Sindaco, devi scusarti con la compagna Alunni per quello che hai appena detto, e con noi tutti per come lo hai detto. Se questo genere di discorsi uscisse da queste mura, tutte le donne della città... E qui di elettrici ce ne sono tante”. Pieri capisce che ha perso il round, afferra il telefonino che non ha squillato, come se l’avesse tenuto in tasca col silenziatore, e fa finta di rispondere, facendo segno che 295


chiarirà tutto dopo ma ora deve andare per un’urgenza, e si allontana. I presenti sospirano dal gran sollievo. La riunione continua, con tutt’altro spirito. Le tensioni sono andate via con lui: ora si può discutere di cose concrete. Come tutti gli altri faccio finta di ignorare l’accaduto, mi reputo soddisfatta di aver segnato un punto pesante. Corradi mi guarda molto divertito, lui mi ha dato un assist, ma io sono andata a goal. Ho fatto perdere le staffe a Pieri mantenendo una calma olimpica. Ora sta a entrambi non perdere il vantaggio, anzi accumularne dell’altro. Il politically correct che normalmente detesto, come tutto ciò che diventa conformismo, per una volta ha giocato a mio favore. Ora finalmente si parla di cose pratiche legate all’organizzazione. Che la manifestazione si faccia non è più in discussione, perciò otteniamo un ufficio, un telefono e due computer, e un compagno come referente locale. Il lavoro può cominciare subito. Le persone le valuti in questi casi. Qualcuno butta lì che non è mai stato d’accordo con l’Adelmo; qualcun altro invita all’indulgenza: lui pensa di agire per il bene della collettività; c’è chi invoca il suo cattivo carattere; chi mi incoraggia “hai fatto bene a cantargliele”. I più lo rinnegano, come se Corradi e io fossimo il loro comitato di liberazione. Ascolto e non commento, lasciando che sia il capo a gestire delle relazioni potenzialmente pericolose. Quando finalmente la processione nell’ufficetto che ci è stato assegnato è terminata, Corradi si allontana e io inizio a lavorare di telefono. 296


Sento Lorenzo per primo. Ho trovato sul telefonino dieci sue chiamate, e una l’ha lasciata anche al centralino, deve esserci qualcosa di molto urgente se mi chiama a raffica. Ma in questo momento è lui che non può parlare. Richiamerà. Tocca a Marco. Che gioia sentirlo. “Cara, come mi manchi. Ho fatto quello che mi hai chiesto, tutto ok, ma non so con chi andare a mangiare il panino. Sono disperato. In compenso sono stato nella stanza del segretario abbastanza a lungo da ascoltare la telefonata del tuo amico sindaco. Mentre Pieri parlava il segretario un po’ rideva e un po’ si incazzava. Non aveva ancora letto il giornale e ha iniziato a sfogliarlo mentre l’altro sbraitava al telefono. A proposito, non ho capito bene, ma pare che tu lo abbia insultato?” “Al contrario, è lui che ha insultato me, e con una volgarità inusuale”. “In ogni modo Eugenio alla fine della telefonata era scocciato dalla lagna e ha commentato: è la mano di Alfonso. Un fuoriclasse. Ho capito che i rapporti di forza sono cambiati. Ha chiamato Lorenzo a rapporto e s’è sfogato con lui, che non gli ha portato tue notizie, anzi non sapeva ancora nulla da te. Il poveretto c’è rimasto malissimo che il segretario gli chiedesse di fare la spia. Sembra quasi che sia leale. Ciao cara, ti saluto, tu hai da fare, io un po’ di meno, ma ho i miei impegni. Stammi bene e pensami. Il tuo bel giornalista come sta?” “Che ne so io, starà benone. In tutto questo sproloquio non hai chiesto a me come sto”. “Non ho bisogno di sentirtelo dire, e neanche di vederti per sapere che stai benissimo. Bye bye”. 297


Entra Luigi Cornero, con la solita aria complice e familiare. Si siede e accavalla le gambe come uno che si mette comodo perché ha intenzione di restare a lungo. Penso addio, si è piazzato qui e non me lo levo più di torno. Ma non riesco a essere scostante, dopo quello che mi ha raccontato dei miei genitori. Lui inizia con il solito tono petulante: “L’Adelmo non è sempre stato così. Anzi era un giovane molto brillante e perbene. Il potere l’ha cambiato. Però nell’ultima campagna elettorale era molto convincente. Diceva: Prato è la città della convivenza, ha una tradizione secolare di ospitalità. Noi non faremo mai come il sindaco di Treviso che leva le panchine dai giardini pubblici per non far sedere gli extracomunitari. In quel momento perfino gli imprenditori erano tutti con lui, perché avevano bisogno di manodopera straniera a buon mercato. Poi sono cominciati i guai: una serie di rapine in villa. Qui moltissimi hanno un passato recente di operai, sono imprenditori di prima generazione, vivono spesso in case nate quasi abusivamente su un pezzetto di terreno, e diventate ville a mano a mano che la loro azienda cresceva e il reddito pure. La paura di perdere tutto e tornare indietro era forte. È lì che Pieri si è inventato, col tacito accordo del questore, che gli autori delle rapine dovevano essere per la maggior parte extracomunitari. Ha martellato questo concetto alle tv locali venti volte al giorno per molti giorni fino a quando è sembrato a tutti che fosse la verità”. “Perché l’ha fatto, è ignobile”. “In un certo senso creare un nemico da odiare aiuta a mantenere l’ordine e il consenso. Poi la cosa gli è sfuggita di mano”. “Ma quei poveretti, figuriamoci le rappresaglie contro di loro”. 298


“Infatti pochi extracomunitari sono riusciti a mantenere il posto di lavoro regolare in fabbrica. Anche perché nel frattempo, con l’euro forte prima e la crisi poi, moltissime di queste aziende che esportavano grazie alla moneta debole hanno ridotto la produzione e la manodopera. Ma ormai questi uomini erano qui e non avevano neanche i soldi per tornare indietro. Stavano per strada gran parte del giorno, davanti ai bar, in cerca di lavoro e qualche volta di elemosina. La città ha cambiato atteggiamento verso di loro. È subentrata la diffidenza. A volte la paura. Lui aveva creato il mostro e ha dovuto cavalcarlo. Altrimenti ne sarebbe stato sopraffatto”. “Si è trovato prigioniero della sua menzogna e ha inventato il muro per perfezionarla”. “Esatto, e ora arrivi tu a scombinargli i giochi. Ma devi stare molto attenta: è un intrigante legato ai potenti. Dicono che sia uno di quelli col grembiulino, affiliato alla massoneria, a una delle logge occulte”. “Ancora ce ne sono?” “Ti stupiresti se ti dicessi quante. Un altro affiliato è Giulio. Non ha le stesse capacità, però ha buone orecchie e sa riportare le notizie utili ai fratelli. Hanno eccitato la pancia della città, ora devono rassicurarla”. Ho uno scatto: “Rassicurare chi? Un reazionario travestito da compagno che tratta le donne come me stamattina? Uno che fa una politica di destra e si stupisce che la sinistra non sia d’accordo? Uno che ti dice a Prato il partito sono io, come se fosse il Re Sole in Francia?” Cornero sorride e risponde con cautela ma con chiarezza: “Purtroppo la politica si fa con le persone, le idee da sole non bastano. Noi abbiamo ciò che hai visto stamattina, 299


un misto di potere e conformismo, un coagulo di interessi ai quali di sinistra è rimasto solo il nome. E un mucchio di pecoroni che non si scoprono mai. Che parlano tutti alla stessa maniera, perfino con l’identica espressione del viso. Ciascuno lascia fare l’altro, a patto di essere lasciato in pace, con i propri interessi. Perciò attenzione, prendendoli di petto non arrivi da nessuna parte. Frena la tua irruenza, quella spaventa i benpensanti dei quali ormai è piena la città. E anche il partito. D’altronde oggi nessuno più in Sinistra Unita è povero, tutti hanno o rappresentano degli interessi precisi. Non puoi arrivare tu e cambiare le carte in tavola all’improvviso. Se vuoi che la manifestazione riesca, rassicurali. La giacobina che arriva da Roma non ha chance. Pensa anche ad Alfonso: non può permetterselo. Una tua sconfitta ora è una sua sconfitta. Quando si fa politica si hanno doveri verso se stessi e verso gli alleati, verso gli elettori e gli iscritti. Sono vecchio, ne ho visti tanti andare contro un muro a cento all’ora e schiantarsi. Per ora ciao, se hai bisogno chiama”. L’ultima cosa che farei è chiamarlo: ora ha aggiunto alla petulanza il predicozzo.

Luisa Il lavoro è continuamente interrotto da persone che vogliono conoscere la donna che ha tenuto testa al sindaco. Sono un fenomeno da baraccone. Questi sono i compagni che amministrano la città da quarant’anni? Vorrei parlarne con Corradi, che però è sparito e per tutta la mattina non s’è visto, impegnato in chissacché. Richiamo Lorenzo, il verme doveva avere un buon motivo per telefonare tante volte. 300


“Ehi boss, ho un mucchio di succosi pettegolezzi per te. Uno in particolare ti farà leccare i baffi”. “Dai spara”, rispondo mettendo a tacere il dubbio: mi sta chiamando per conto del segretario o in proprio? “Se ci riesci mettimi di buonumore, dimmi che tutti quelli che hai contattato accettano e che il segretario è rimasto l’unico a scommettere sul nostro insuccesso. Oggi è stata dura...”, e gli racconto in breve l’accaduto. “Macché, ti dico di meglio. Molto meglio. Pieri era fuori di sé per il pezzo sul Corriere del Mattino e ha vomitato addosso al segretario la sua rabbia. Eugenio non l’aveva ancora letto – l’autista mi ha detto che non veniva da casa sua, aveva fatto visita alla signora di qualcun altro – ma appena ha visto il giornale ha urlato a Giuseppina: chiamami subito questa Proietti. La ricerca è durata un po’, perché lei è lì a Prato. Nel frattempo lui leggeva e rileggeva l’articolo. Di botto è scoppiato a ridere da solo. Quando finalmente l’ha trovata sembrava un altro uomo, tutto complimenti e giuggiole. Sei la più brava, e come sei riuscita a far parlare quella vecchia roccia di Alfonso, e via così. Lei ci ha creduto. E lui è felice: pensa di aver trovato finalmente la giornalista che gli farà da megafono. E ora è anche convinto che la manifestazione riuscirà. Figurati che ha deciso di esserci e ha dato appuntamento alla Proietti proprio lì a Prato nel giorno della catena umana. Si vedranno per un caffè, e lui le ha detto: mi darai qualche consiglio, non so comportarmi al meglio con i media, e non ho ancora un portavoce”. “Che stronzo. Di lei che mi dici?” “Che la troveremo presto a condurre qualche importante talk show sulla tv pubblica. Sei fiera di me?” 301


“Abbastanza. E tu quando arriverai?” “Non ho l’autorizzazione a muovermi, il segretario ha detto che qualcuno deve presidiare l’ufficio. Ma sono con te. Testa, cuore e tutto il resto, se mi capisci”. “Che vuoi dire?” “Che quando torni dobbiamo riprendere un certo discorso. Te lo ricordi, no?” “Non ne sono sicura”. “Non ne abbiamo molti in sospeso, ma non vorrei ricordartelo al telefono, chissà quanta gente ascolta”. “Non credo di volerlo riprendere”. “Non mi tradisci con Mustacchi vero?” “Quand’è che ti ho giurato eterno amore?” “Mettila così: è il prezzo della mia nuova lealtà verso di te”. “Mi pareva strano che tu fossi cambiato”. “Sono cambiato e te lo dimostrerò, ma devi darmene la possibilità. Promettilo”. “Non prometto proprio nulla e la lealtà non ha prezzo. Ciao”. “Ciao, e grazie”. Qualcosa è cambiato nell’atteggiamento del verme: ha un tono diverso. Forse dovrei chiedere a Marco di sorvegliarlo e poi darmi un parere. Non so perché, la nuova liaison fra Anna Laura e il segretario al tempo stesso mi diverte e mi agita. Per spezzare la tensione farò un sopralluogo in via Soriano. Con chi? La persona giusta sarebbe Alì, ma non posso distoglierlo da quello che sta facendo. Alla fine il male minore è proprio Cornero. Lo chiamo e gli chiedo di accompagnarmi. Lui non se lo fa ripetere due volte. Va a prendere la macchina e m’aspetta sotto, mentre lascio un biglietto a Corradi: ci vediamo stasera in albergo. 302


Giovanni non si è fatto sentire per tutto il giorno. Sarà rimasto male: rapinato, sedotto e abbandonato nella stessa serata. Una serata da incubo e tutto per colpa mia. Lo chiamerò appena torno da via Soriano. Ora non ho tempo per le faccende private: Cornero, mio attuale compagno di ventura, mi riempie la testa di chiacchiere miste a informazioni preziose. Apro il finestrino e l’aria fresca mi fa bene, mi consente di pensare, anche mentre lui parla, come se fosse una colonna sonora. Arriviamo al caseggiato circondato, un poliziotto ci ferma: conosce bene Cornero, ma a me chiede i documenti, ascolta le mie motivazioni, mi sconsiglia vivamente di entrare. Mi oppongo: non posso arrivare al giorno della manifestazione senza sapere almeno com’è la situazione, se ci sono spazi e quali spazi, vie di fuga in caso di pericolo. E da dove può venire il pericolo. Il poliziotto è stizzito, ha perso anche troppo tempo con me: “Se non accetta consigli poi non chieda aiuto ed eviti di mettersi nei guai”. Ma io non ho addosso niente che possa attrarre guai o risultare provocatorio, né vestiti né accessori. Dopo il furto ho ricomprato l’orologio al negozio che vende tutto a dieci euro: metterò sempre quello nelle zone di guerra. Soldi in tasca, nulla. Cornero dopo lo scambio di battute è perplesso, poi per strategia o forse per stanchezza mi dice: “Vai sola, è meglio”. Così faccio. Entro quasi inosservata, mi giro un po’ intorno e inizio a parlare con delle donne che stanno facendo pulizia davanti l’uscio di casa. I loro appartamenti sembrano i vecchi bassi napoletani, a livello stradale, una camera con dentro tutto, bagno compreso, se così si può chiamare. L’unico segno di benessere è l’apparecchio televisivo, grande e con collegamento satellitare. Scheda craccata, sicuramente. 303


All’inizio hanno un atteggiamento diffidente o ostile, non vogliono parlare, pensano che sia una poliziotta in borghese, un’assistente sociale del Comune. Poi, di fronte alla mia insistenza, si sciolgono. Anzi, fanno quasi a gara a raccontare, come chi ha finalmente modo di dare sfogo a qualcosa che lo tormenta da tempo. “Viviamo in stato d’assedio, in una tenaglia: di qua la malavita, di là la polizia”. Una in particolare si esprime con forza straordinaria e con la voce piena di rabbia trattenuta. “Le suore non hanno preso all’asilo mio figlio perché abito di qua dal muro, sarebbe una compagnia non raccomandabile per i figli di buona famiglia. Loro, così caritatevoli a parole, hanno pietà solo di se stesse, nel caso in cui venissero a mancare le rette che pagano i ricchi. Per il comunale è troppo tardi, le liste sono già chiuse. Non posso affidare il bambino a nessuno e perciò ho perso il lavoro, mi arrangio con quattro soldi che guadagna mio marito e faccio le pulizie qui intorno mentre mio figlio dorme”. Si chiama Catarina e accetta di presentarmi ad altre donne là dentro, donne come lei che non ne possono più. È molto popolare, qualcuno ci ferma. Ora tutti vogliono parlare. Alcuni in quel modo particolare che hanno gli stranieri che si sforzano di usare la lingua del paese che li ospita, piena di accenti sbagliati, di sintassi e grammatica approssimative, e di voglia di essere considerati e capiti. Altri fanno stupore e simpatia insieme: hanno i caratteri fisici del sud del mondo, ma parlano in un toscano estremo, quasi che il dialetto li legittimi. Alina si avvicina con la bimba in braccio, ha un’aria triste ma determinata. 304


“Dovete aiutarci”, dice. “Non vogliamo stare chiusi qui come delinquenti. Fatichiamo come bestie per dare ai nostri figli la speranza, e voi gliela levate”. Incoraggiati dal mio sorriso altri si avvicinano. Anche loro raccontano di speranze tradite. Vorrebbero parlare con qualcuno che conta, ma nessuno li riceve e li ascolta. “Luisa, ti chiami Luisa, ho sentito che lo dicevi ad Alina. Senti, sono Fatwa, devi aiutarci. Siamo in balia della polizia che ci controlla uno per uno ogni giorno, ogni volta che usciamo di casa o che rientriamo. Sono crudeli con noi. Ieri la bimba aveva mal di pancia e io ero in ritardo per portarla all’asilo. L’ho detto al capo: se mi licenziano che farò? E lui mi ha risposto ridendo, quello che fate tutte: le puttane. Davanti a mia figlia, capisci. Io mi sono messa a piangere e lui rideva più forte. Era contento e mi ha detto: così imparate a stare al vostro paese. Allora gli ho risposto: chi pulirà il sedere dei vostri vecchi, se noi resteremo a casa nostra? Lui si è arrabbiato e si è tenuto il mio passaporto, così ho perso la giornata di lavoro e per fortuna il padrone ha troppo bisogno e non mi ha licenziato. Ma questa settimana avrò guadagnato di meno, e già con lo stipendio intero non ce la facciamo”. Non so che rispondere, le dico soltanto scrivimi qui il tuo telefono e il tuo nome. Se riesco a procurarvi un appuntamento col sindaco o col prefetto ti telefono. Arriva Omar e racconta anche lui: “Torniamo sfatti dal lavoro e vorremmo solo sbrigarci, mangiare un boccone, gettarci sul letto. Nove ore sul cantiere portando su e giù secchi strapieni, sacchi di cemento, le ossa doloranti e i muscoli che non me li sento più. E la tensione che se arrivano i vigili dobbiamo sparire: siamo senza caschi, guanti, 305


assicurazioni. Le guardie ci osservano sprezzanti e ci tengono in piedi a lungo, chiedono passaporti e permessi. Eppure ci vedono tutti i giorni e ci conoscono. Lo fanno apposta. Invece non sanno chi sono gli spacciatori, i delinquenti: strano, eh?” “Provate ad aiutarli, date loro i nomi dei colpevoli”. “L’abbiamo fatto, ma ci chiedono di testimoniare e a noi poi chi ci difende? Se vogliono incastrarli lo facciano loro, che sono pagati per questo e hanno il potere”. Da tutto ciò che raccontano è evidente che il muro è un danno, perché protegge chi spaccia, lo ripara. Ed è una mortificazione e una perdita di tempo per le persone perbene. Parlo loro della manifestazione, mi guardano incredule e poi divertite. Vale la pena essere venuta fin qui per vedere questa luce. Che chiamerei speranza.

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XX

La gara è fra il coyote e una stella a chi sa e vuol raccontare il gruppo più fantastico di storie che si possa ricordare... (Roversi/Dalla)

Anna Laura e Giovanni In taxi, per andare insieme all’appuntamento con la dottoressa Poli, Giovanni è infastidito dalla sua presenza e la stuzzica. “Merito del mio nome che apre tutte le porte oppure ottenere l’intervista non era mission impossible come dicevi tu?” “Mangi nel mio piatto e sei anche ingrato”, il tono di Anna Laura non è così ironico come lei vorrebbe. “Con Lorena siamo tanto amiche. Se le chiedo una cosa la risposta è sì. Spero solo che tu non mi faccia fare una brutta figura: niente domande troppo personali, lei tiene molto alla sua privacy, e controllati quando scrivi. Qui non siamo di fronte a una da quattro soldi come la Alunni. Sto per presentarti una gran donna”. 307


In effetti deve essere un bel tipo, Giovanni ha in mano i ritagli di archivio che ha trovato su di lei: a quanto pare la parlamentare di destra, vicepresidente del Gruppo Poli&co., è una donna volitiva, caparbia, esuberante, che non si arrende di fronte a nessun ostacolo. Le foto sono scure e non lasciano supporre il suo reale aspetto. Ritagli di magazine con bei servizi posati non ne ha trovati. Sarà una terribile stronza, pensa, ma si guarda bene dal dirlo, non ha voglia di sostenere una discussione con la collega. D’altronde per essere una sua amica non può che essere tale: stronza e atteggiata, pensa mentre falso come Giuda le sorride. Dopo dieci minuti non sopporta più la voce, il tono petulante e il mucchio di sciocchezze di cui si riempie la bocca. Non solo si sente bellissima e in grado di parlar male di tutte le altre donne, ma anche un premio Pulitzer e quindi in grado di parlar male di qualunque collega, maschio o femmina indifferentemente. Un vero strazio. Arrivano alla grande villa, una costruzione recente dalle linee classiche, circondata da un enorme giardino curatissimo, con alberi ad alto fusto e bordure di fiori. Niente giochi d’acqua, fontane con putti, nanetti da giardino o altre accozzaglie da nuovi ricchi: tutto è curato, elegante, semplice. In una radura laterale rispetto alla casa, una collezione di bronzi di grandezza notevole: autori moderni. Gli sembra di riconoscere uno Spoerri e un Moore, ha gusto e non è eccessiva come la sua amica: un punto a suo favore. Anna Laura è ancora al suo fianco e non fa che parlare per dimostrare la sua grande familiarità col luogo e la proprietaria: qui organizza i déjeuner sur l’herbe, qui lo scorso 308


anno ha fatto una gran festa per i clienti stranieri. Tutti eventi che a sentire lei l’avevano vista partecipe e anzi protagonista. Sono al portone. Bussano. Neanche il tempo di scostare il dito dal campanello ed ecco lei, che apre la porta personalmente e si staglia nella cornice dell’androne come in un quadro a dimensione naturale. Come una delle sue statue di bronzo. “Benvenuti”. La figura magnetica, gli occhi penetranti e acuti, l’eleganza. Giovanni resta un attimo immobile a guardarla compiaciuto: tailleur impeccabile, scarpe Chanel con quel tanto di tacco che slancia la caviglia. Capelli in perfetto ordine, ma con il taglio sbarazzino che si addice a una donna pratica. Neanche un dettaglio sbagliato, un eccesso, una ridondanza. Si siedono. Pochi convenevoli: Lorena Poli è una donna diretta, e Giovanni comincia a capire perché sia stata accolta con tanto entusiasmo dalla destra politica. È un’imprenditrice, una donna di gran fascino, utile a qualsiasi causa. È assai ben disposto quando le rivolge la prima domanda. “Perché una donna come lei ha scelto di fare politica?” “Come me cioè ricca come me, viziata come me, bella come me? Non so cosa voglia dire, ma lo prendo come un complimento”. “Un giornalista fa domande, non complimenti. Dunque scelga lei l’interpretazione che preferisce”. “Anche un giornalista è un uomo”, sorride guardandolo fisso e lasciando la voce sospesa qualche attimo. Proprio l’opposto di quello che aveva detto Luisa, nota compiaciuto. 309


Tutto è particolare in lei, anche la voce, che usa come uno strumento musicale modulandola nei toni dal cordiale allo scherzoso al serio, cambiando registro e sfumatura in pochi secondi. “Le cose non sono sempre state come lei le vede adesso. Ero la prima figlia femmina di una famiglia di imprenditori. I miei fratelli più piccoli sono maschi. Mio padre pensava a loro come eredi dell’azienda, li preparava per questo, se li teneva vicino e li metteva al corrente delle mille piccole regole non scritte che servono per dirigere tante persone. Io non rientravo nei suoi piani”. Gli occhi di Lorena lampeggiano mentre ricorda l’ingiustizia subita, è chiaro che se la sente ancora sulla pelle. Giovanni pensa che non vorrebbe averla come nemica, una donna così. “I miei fratelli vivevano tranquillamente e non mostravano particolari ambizioni o curiosità, forse perché mio padre preveniva qualunque loro desiderio. Io invece scalpitavo per entrare ma restavo sempre nelle retrovie costretta a una gavetta infinita, schiacciata verso il basso dai vecchi dirigenti. Ogni volta che prendevo un’iniziativa, se era una cosa buona il babbo me la sfilava e la dava al suo braccio destro Biagioli, dicendogli riservatamente ma non troppo: la ragazza ha pensato bene, però fallo tu, se no lei rovina tutto. Se invece secondo lui era un errore, allora era tutto un chiacchierare e perfino l’usciere doveva sapere che quella testa matta della Lorena ne aveva fatta un’altra delle sue. Mi mortificava in ogni modo. Mi ripeteva: Nini, trovati un marito e levati dall’azienda. Qui non c’è posto per te. Solo la mamma gli diceva sempre: non prenderla di petto quella ragazza, se no otterrai il contrario, cocciuta com’è. Era una 310


guerra di logoramento, una di quelle dove vince chi ha più tempo e i nervi più saldi. Di tempo ne avevo più io, ma cominciavo a pensare che sui nervi avrei perso. “Poi un giorno, quasi per caso, a una di quelle insopportabili cene che i miei organizzavano per pubbliche relazioni, mi annoiavo come al solito e ho mollato il freno. Eravamo alla vigilia delle elezioni e gli ospiti ne parlavano mondanamente, fra il pettegolo e lo snob. Mi sono lasciata andare a un discorso politico molto accorato. Ho detto che soffrivo per l’impotenza della mia generazione e pensavo che in quella specie di palude un’altra votazione non avrebbe cambiato nulla, se non aumentare i delusi. Loro che avevano tutto, conclusi, non avevano il diritto di essere tanto cinici”. Lorena sorride al ricordo: “È stato il mio primo inconsapevole comizio, e per essere il primo non era tanto male. Il mio interlocutore ha approfittato di una pausa nella mia foga – parlavo così per il timore di essere interrotta – per chiedermi se volevo candidarmi con il Partito del Popolo, del quale era dirigente. Gli ho risposto: ma io non ho esperienza, e lui di rimando: forse non ha il coraggio di ripetere in pubblico quello che ha detto appena ora? Ero serissima nel rispondergli: se ho il coraggio di parlare davanti a mio padre nessun altro può farmi paura. Era seguita una risata generale. Credevo fosse stato uno scambio di battute senza seguito. Nei giorni seguenti mi ha richiamato più volte, sempre insistendo. “Infine ho accettato. Ho scelto la politica per allontanarmi da mio padre e dalla sua azienda. Mi sono arresa, da un certo punto di vista. Ma con onore. La politica mi ha dato autonomia e mi ha insegnato come battermi per ottenere 311


ciò che voglio e come mantenere il consenso. Mi sentivo libera e realizzata, per la prima volta”. “E suo padre?” “Cocciuto e despota, come sempre. Che facessi politica per lui era peggio ancora di voler fare l’imprenditrice. Quando ho lasciato l’azienda era convinto che mi aspettasse un destino da gregaria. Che sarei tornata con la lingua per terra a chiedergli un lavoretto per impiegare le giornate fra un parrucchiere e un tè con le amiche. Quando mi incontrava per il pranzo domenicale o qualche altra occasione familiare, mi scrutava con un sorrisetto ironico. Non sapeva che nei momenti di difficoltà quel suo sorrisetto insopportabile mi ha dato la carica e la forza di uscire anche dal fuoco: non gliela potevo dare vinta. Le cose sono andate avanti così per oltre un anno. Lui non chiedeva. Io non raccontavo. “Poi la svolta. Un giorno un suo amico imprenditore, un rotariano come lui, uno della giunta dell’Unione Industriali di qui, gli ha chiesto come gran favore un appuntamento con me per espormi i problemi del settore. Gli c’è voluto un bel po’ a digerire che un suo pari chiedesse aiuto a lui per arrivare a me, e per giorni non me ne ha parlato. Ma non poteva sottrarsi a lungo. Da quel momento ha iniziato a vedermi, a capire che facevo sul serio, che ero impegnata in dossier decisivi, a sostenere le mie tesi in pubblico. E ha capito che ero pronta per le responsabilità”. “Come è avvenuto il ritorno in azienda, e come riesce a tenere insieme azienda e politica?” “Invecchiando mio padre ha iniziato a mollare un po’ la presa: qualche acciacco, meno voglia di battersi e di sbattersi. Dei miei fratelli il primo non era affatto interessato. Il 312


secondo era ancora troppo giovane, ma comunque studiava medicina. Perciò aveva bisogno di me, per quella che ero diventata, politica compresa. “È iniziata una convivenza difficile ma finalmente rispettosa. Per lui l’imprenditore non deve schierarsi, deve stare con chi è al governo per tentare di condizionarlo. Meglio pagare la politica, se necessario, che compromettersi con l’uno o l’altro. Io gli ho spiegato che con lo spoil system e la pratica delle alternanze, a tutti prima o poi viene chiesto da che parte stanno. Io ho un altro carattere, schierarmi mi viene naturale, ed eccomi qui: devo molto al partito, che ormai a sua volta non può prescindere da me. Lui rappresenta un’altra epoca, ma ora mi lascia fare. Sono diventata vicepresidente del Gruppo Poli, tubi e affini. Lavoriamo soprattutto sul mercato internazionale. E per quello la politica apre molte porte, assai più di quante si pensi”. “Una visione molto strumentale della politica”. “No, affatto. Semmai realistica. Io lavoro per il mio gruppo, per il mio partito e per il mio paese. Gli interessi per ora coincidono. Il giorno che dovessero essere in conflitto mi porrei il problema. Se esporto i miei prodotti, il pil nazionale cresce insieme al mio fatturato. Se tratto con le istituzioni straniere, il mio partito e il mio paese ottengono successi e credibilità internazionale, mentre io costruisco relazioni che al momento giusto sono fondamentali. Con la globalizzazione, lei non penserà che si possa fare politica in un piccolo paese come il nostro senza rapporti più ampi”. “È una visione affascinante, qualcuno potrebbe definirla spregiudicata”. “Perché io dico chiaro quello che altri fanno nell’ambiguità. Come crede che ci si aggiudichino grandi commesse, 313


grandi forniture, concessioni di gas o petrolio e clienti importanti per le aziende pubbliche? Trattando con i ministri o fra ministri, solo dopo arrivano i manager. E perché i partiti appena al governo fanno di tutto per cambiare i manager pubblici? Quelli di prima erano incapaci o semplicemente rispondevano ad altri politici? In tutti i sensi, intendo”. “Non vada oltre nella sua chiarezza, se no ci becchiamo una querela. Lei per quello che ha detto, io per averlo riportato, e il giornale per averlo pubblicato. Permette un’ultima domanda di tipo personale, anche se Anna Laura mi ha diffidato?” “Certamente”, risponde subito lei e guardando la giornalista aggiunge: “Sai che a un uomo affascinante non nego mai nulla”. “Suo marito. Non gli dà fastidio il ruolo di principe consorte”. Lorena ride: “Alberto e io ci amiamo da quando eravamo ragazzi. E lui conosceva fin da allora le mie ambizioni. È un grande avvocato d’affari. La sua carriera è diversa, ma non ha niente da invidiare alla mia. No, non ha complessi nei miei confronti, d’altra parte non staremmo insieme da tanti anni”. Si salutano più cordialmente che all’inizio.

Giovanni Lorena, le sue parole, i suo sguardi, il suo fascino, la sua intelligenza. Il suo mondo a colori sgargianti, liscio e tondo, elegante come la luna piena. Lorena e Luisa. Destra e sinistra. Agli antipodi in tutto. Luisa è solare, tormentata, 314


determinata e di grande umanità. Lorena, altrettanto determinata ma regale, lineare, apparentemente senza dubbi. Luisa è un’ingenua idealista? O è cinica la Poli? No, Lorena non è cinica. E Luisa non è ingenua, ma ha una freschezza che l’altra non ha più. Non fisicamente, s’intende, dal momento che la Poli è ancora molto bella. Talmente bella... Me le sento tutte e due attaccate addosso, due forze contrastanti, strane e pesanti. Scrivere mi aiuterà a mettere ordine nelle sensazioni. Già sento il ritratto prendere forma. Già sento come una specie di vuoto languido al pensiero che, conclusa l’intervista, domani lascerò Prato per la redazione romana. Dunque questa è la mia ultima sera in città, e la passerò con Luisa. Cerco il telefono per chiamarla, nella tasca dove lo metto abitualmente non lo trovo. Palpo la tasca interna, ed eccolo. È irraggiungibile. Mi prende un’ansia del tutto sproporzionata al fatto di non poterle parlare: sarà in riunione, presto riaccenderà il telefono e mi richiamerà. Chissà se l’avventura di ieri le ha lasciato il segno. Se ricorda la promessa di cenare con me. In questo momento vorrei sentire il profumo dei suoi capelli, il leggero tremore delle sue mani, parlarle della Poli, sentire il suo commento. Vedere quel lampo di indignazione che attraversa il suo sguardo all’improvviso. Suona il telefono, ma non è lei. “Dove sei col cervello?”, urla rabbiosa Anna Laura. “Prima tu e la Poli mi avete totalmente tagliato fuori, poi sei uscito come se fossi solo, lasciandomi due metri dietro 315


a te e mentre la salutavo sei salito sul taxi e mi hai mollato lì senza neanche rendertene conto. Che figura mi hai fatto fare davanti alla mia amica? Ti avverto che me la pagherai”. “Torno subito indietro, scusami, ho la testa piena di preoccupazioni. Aspettami, in pochi minuti sarò lì”. Imboccato nuovamente il grande viale d’accesso alla villa, ecco Anna Laura. La guardo con aria di scusa: è a una decina di passi che arranca sui tacchi altissimi per raggiungermi. Trovo la situazione comica ma spero che la mia aria contrita lo nasconda. “Per scusarmi ti offro un aperitivo e poi corriamo in albergo a fare una doccia”. “Insieme?”, chiede lei, recuperando il sorriso. “Sei pazza? Mai con una compagna di banco”. “Preferisci qualunque altra a me”. “Preferisco evitare le complicazioni che ci sono sempre quando si lavora insieme. Non posso permettermelo, è troppo recente la mia assunzione. E troppo recente lo scazzo col direttore. Passi falsi proprio ora, no”. “E un girettino con la Poli te lo faresti?” “Che domande, è una gran bella donna e molto interessante, ma sto scrivendo di lei, è impossibile”. “E con la bella Luisa?” “Idem”, dico laconico per non lasciarle la possibilità di proseguire. “Allora sto tranquilla, a me basta cambiare giornale per averti, per loro sarebbe più difficile, dovrebbero cambiare vita”. Lo ha detto con assoluta serietà. Capisco l’intensità delle sue intenzioni. Vorrei dirle qualcosa di scoraggiante, ma non ho il tempo. Chiamano dalla redazione. 316


È il caporedattore: “Va’ in albergo, scrivi il ritratto e mandamelo subito. Devi restare a Prato, e non voglio obiezioni. Sento dire che lì si prepara un gran casino. Comprati un paio di mutande e di calzini di ricambio che te li rimborsiamo, e da’ una mano ad Anna Laura: non può affrontare da sola la cronaca di una manifestazione così dirompente, restate tutti e due. Lei si occuperà della politica, da te voglio un bel pezzo di colore sulla catena umana femminile. D’altronde di donne te ne intendi, e vederle da vicino non ti dispiace”, conclude acido e non mi dà il modo di reagire che attacca il telefono. Non avrei protestato comunque. Anzi sono molto sollevato all’idea di restare, e non vedo l’ora di dirlo a Luisa. Il pomeriggio passa in fretta fra la scrittura del pezzo e una serie di telefonate. Anna Laura ha preteso che le ricambiassi il favore mettendola in contatto con Camillo Cecchi. È un mio ex compagno di scuola, un tipo piuttosto ordinario di gentiluomo di provincia che lavora qui alla Camera di Commercio da due anni. Lei vuole essere accompagnata all’outlet di tovaglie Sartini per sfoggiarle con le amiche dicendo: “Bella, vero, l’ho pagata un nulla grazie alle mie amicizie”. Non avrei chiamato Cecchi per nulla al mondo, se non per il fantastico piacere di liberarmi di lei una mezza giornata. Per evitare di lasciargli il mio numero – mi perseguiterebbe con telefonate insensate, battute da quattro soldi e richieste di favori – passo a numero privato. A meno di delazioni da parte di Anna Laura lui non potrà chiamarmi che al giornale, in zona protetta. Soddisfatto penso di aver compiuto un piccolo capolavoro. Cecchi è felice di accompagnare la celebre giornalista e lo racconterà all’universo intero. La 317


celebre giornalista è felice di essere trattata come una regina. E io sono felicissimo di essere finalmente lasciato in pace. Riprovo il numero di Luisa. Lo faccio diverse volte. Niente. Potrei lasciare un messaggio in segreteria o mandarle un sms, ma preferisco comunicare direttamente, a scanso di equivoci che con lei sono sempre in agguato. Un messaggio con voce metallica sembra rischioso con una donna tanto imprevedibile. Meglio che veda il numero sul display e mi richiami. Maledico mille volte Giulio, che ha impedito l’happy end della serata precedente. E me stesso per non aver preso subito l’appuntamento, ora non sarei in queste ambasce, ma al ristorante a cenare con lei. Da soli. E dopo cena... Luisa è una donna complessa, da maneggiare con cura. Non ha niente a che vedere con le donne che ho conosciuto fino a ora. Per un nulla si irrigidisce. Ha bisogno di essere presa per il suo verso, se no ti rifiuta. Io non sono abituato a tante complicazioni. Sono stupito di me: queste precauzioni sono una novità. Stupito e contento. Maledizione, che fine avrà fatto?

Luisa Mi sono fatta convincere da Cornero a lasciare borsa e telefonino nella sua macchina per andare oltre il muro senza pesi, e libera di tornare indietro velocemente alle brutte. Ho trovato quattro telefonate perse, ma nessuna di Giovanni. Tutte da numero privato, sicuramente Corradi. Sono ancora turbata dal ghetto di via Soriano, ho gli occhi pieni di tutta quella sofferenza e voglia di riscossa, e umanità al 318


tempo stesso dolente e battagliera. La mia piccola storia professionale e personale sembra secondaria. Lo richiamerò dopo: non voglio esporre la mia emotività al maestro. Potrebbe scambiarla per fragilità. Quanto a Mustacchi pagherei per sentirlo, ma non lo chiamerò per prima, ho ancora in mente la sua frase sprezzante sulle donne che si offrono. Forse mi sono illusa: era semplicemente impietosito dalla mia fragilità dopo l’aggressione, era il cavaliere che soccorre la damigella, non un uomo che desidera una donna. Meglio non chiamarlo. Se davvero vuole cenare con me, si dia da fare. Adoro il profumo delle fresie. Quando torno dopo tante ore di assenza è come se quei fiori mi dicessero benvenuta a casa. Quel giorno ero passata dal fioraio a comprarle, e quello mi chiede: confezione regalo?, e io: no, sono per me. È intervenuto uno sconosciuto, che poi si è presentato come Onorio: una ragazza così carina non dovrebbe comprarsi i fiori da sola. Mi ha fatto ridere per la frase così stereotipata. Abbiamo iniziato a frequentarci. Quando ci davamo appuntamento arrivava come uno dei fidanzatini di Peynet, sempre con i fiori in mano. Mi circondava di attenzioni. Mi imponeva la sua presenza. L’ho accettato per ricostruire un po’ del mio amor proprio, ritrovare sicurezza con gli uomini. Onorio dal principio mi sembrava un tipo incredibilmente sensibile e attento. Se il mio lavoro mi portava fuori mi perseguitava col telefono: e dove sei, voglio raggiungerti, cosa fai, con chi sei. Era capace di fare duecento chilometri per stare con me due ore. Lusinghiero ma soffocante. Non ricordo quando, ho iniziato a notare che se io ero a Roma lui invece spariva. Dovevo essere io a inseguire lui. 319


Dapprima ho pensato a un disturbo psicologico. Poi ho pensato che non conoscevo nessuno dei suoi amici, né della sua famiglia. Mai un cinema o un ristorante insieme a qualcuno. Come se vivesse in un vuoto spinto. Ho cominciato a chiedergli della sua vita, di cosa facesse quando non ci vedevamo. Ottenevo risposte vaghe. Troppo vaghe. Finalmente, dopo una discreta indagine col fioraio, ho saputo: era sposatissimo e il giorno del nostro primo incontro era lì a comprare un bel mazzo di rose per l’anniversario del suo matrimonio. Gliel’ho chiesto. Me l’ha confermato. Gli ho dato del disonesto. Mi ha detto: non ti ho mai promesso niente, cosa ti aspettavi? Gli ho detto sparisci. Mi è sembrato quasi sollevato. La cura è stata peggiore del male: da quel momento il mio orgoglio non era più ferito. Era proprio defunto. Assieme alla mia fiducia nel genere maschile. Due esperienze così sbagliate una dopo l’altra mi inducono a diffidare degli uomini: sul lavoro sono concorrenti, sul piano personale sono inaffidabili e traditori. Sul piano sessuale non vale quasi mai la pena. Le loro prestazioni sono tese più a rassicurare se stessi che a far felice la partner. Cioè me. Mamma diceva: in amor vince chi fugge. È presto per dire se fra noi sarà amore, di certo con te, caro Giovanni, non rifarò gli stessi errori. Fuggirò. Se vorrai mi inseguirai. Se non lo farai ti avrò perso con dignità.

Luisa al lavoro con Marco e Lorenzo Marco e Lorenzo mi sono d’aiuto a sciogliere la tensione della giornata. Le loro cronache dai corridoi sono utili e irresistibili. Lorenzo al telefono sfoggia un’attitudine da reporter insospettabile. 320


“Al partito tutti parlano dell’articolo di Anna Laura, che ha avuto grande eco e approvazione. Come sempre, quando il capo è contento gli altri si adeguano, anche se alle spalle chiacchierano. Dovevi vedere la faccia di Giustina quando il segretario in persona si è informato: Da dove sbuca questa Proietti? Stretta fra orgoglio e gelosia: è una mia carissima amica, alla prima buona occasione te la presenterò, e lui di rimando: sarà una cozza. Perché? Perché altrimenti non me la presenteresti. Almeno è giovane? Giovane e bella, sennò non te la presenterei. Ti conosco troppo bene. Allora l’aspetto, quando puoi portamela. Te l’immagini Giustina nei panni della ruffiana? Ha un bel coraggio il nostro segretario”. Rido. Ha un modo di raccontare facendo le vocine come un comico da cabaret. “Da lontano sei più simpatico”, gli dico. “Strano, tutte le donne mi trovano meglio da vicino, da molto vicino. Solo tu ti ostini, ma ti farò cambiare idea”. L’argomento è scivoloso, lo riporto in carreggiata: “Vuoi dirmi che il capo è tornato in buona con me perché ha trovato una nuova fiamma o che l’appoggio di Pieri al congresso non gli serve più?” “Non esagerare. Voglio solo dire che ha allentato la pressione e, nel caso tu e Corradi doveste farcela, non vuole perdere il centro della scena. Solo con me è incazzatissimo perché non ho mai niente di sostanzioso da riferirgli. Dimmi qualcosa di molto indiscreto, ti prego”. “Se vuoi essere la spia del segretario dovrai farlo senza il mio consenso. Ciao, ci sentiamo più tardi”. “Ciao, ciao. Io però una notizia te l’ho data: è nata una stella, vedrai se non ho ragione. Ricordatelo quando la 321


vedrai stagliarsi lassù dove noi comuni mortali non arriveremo mai”. Chiamo anche Marco. Lo sento un po’ più sollevato e mi fa piacere. Eugenio gli ha promesso che subito dopo il congresso avrà una responsabilità politica diretta e per la prima volta sente il suo sogno a portata di mano. “Bellissima notizia, però sta’ attento”, lo ammonisco. “Ricordati quello che ha combinato con me”. “Sorellina, starò molto attento, ma devo per forza contare su di lui. E concentrarmi sul lavoro: ho problemi col fidanzato. Pensa se andasse male anche il lavoro... E tu invece perché sei così tesa?” “Fratellino, ho troppi fronti aperti. Se non ne funziona almeno uno, sono rovinata”. “Mi spiace, ricordati che hai sempre una spalla su cui piangere. Ti bacio”. Più tardi mi richiama Lorenzo, sbatacchiato, trattato malissimo da Rispoli. “Non lo facevo così brutale. È arrivato a dirmi: sei così scemo che non sembri neanche figlio di tuo padre. Ma come si permette, quel pallone gonfiato. Apparentemente è super controllato, poi scatta come una molla con una violenza spropositata. Umorale e dittatoriale. Stavolta però non gliela faccio passare. Che vadano al diavolo lui, mio padre e tutti quelli che vogliono rovinarmi la vita. Non posso essere merce di scambio fra loro e scarico delle loro tensioni. I loro affari non mi riguardano. Sai che c’è di nuovo? Cercherò un lavoro qualsiasi e fuori dalle balle. Nel frattempo giocherò la mia partita, perciò se mi vuoi sono in squadra, e non solo per Prato. Guarda che per me è la prima volta, non deludermi anche tu”. 322


Sono colpita dalla sua poca memoria: fino a prova contraria è lui che m’ha tradita, è lui che deve dimostrare di essere affidabile. Però gli sento un accento nuovo. Dopotutto sarà leale. Inoltre ho bisogno di fidarmi, siamo già così in pochi a lavorare alla manifestazione. Corradi, trovando occupato, mi ha lasciato un messaggio in segreteria: io farò tardi, ma ho pensato a te. Giulio verrà a prenderti in albergo, andate a cena in un posticino a piazza dell’Umanesimo. Appena posso vi raggiungo, cerca di lavorartelo un po’. Che strazio, se gli avessi parlato avrei evitato una cena imbarazzante con quel personaggio orrendo. Ma ora non posso sottrarmi, e d’altra parte Giovanni non si è fatto vivo, meglio con Lotti aspettando il maestro che sola in una città sconosciuta. Giulio è già lì quando rientro in albergo per una doccia. Ti aspetto, fai con comodo, mi dice. Oggi è più civile, ma la diffidenza è ancora la sensazione più benevola che provo nei suoi confronti. Siamo giusto entrati nel ristorante quando suona il telefono, numero privato. Mi allontano per rispondere: “Maestro?” Giovanni ride: “Non pensavo di doverti insegnare nulla, speravo anzi di imparare da te come si tratta con una donna tanto difficile e preziosa”. “Pensavo fosse Corradi. Di solito il tuo numero compare sul display. Non mi piace chiamarlo compagno o onorevole”, mi giustifico e poi aggiungo, dimenticando i buoni propositi: “perché non mi hai telefonato prima?” “Non una, dieci volte ti ho chiamato!”, poi capisce. Per evitare Cecchi ha levato la visibilità del suo numero e non l’ha ripristinata: “È tutto il giorno che ti chiamo con numero privato”. 323


“Ma io non sapevo che fossi tu. Non ho un buon rapporto col telefono, ci sono persone con le quali devo essere in una certa predisposizione di spirito per parlare. Perciò a volte non sento il telefono perso nella borsa, a volte se non so chi è non rispondo. Ho molte cose da raccontarti, ma ora non posso parlare e neanche muovermi, aspetto Corradi”. “Non ho fretta, o meglio, avrei fretta di vederti, ma ti aspetto dopo, vieni in albergo da me?” “Sei impazzito?” “No, è che io sono in centro, da qui possiamo andare a fare una passeggiata al chiaro di luna senza rischi. Dai, prometti che verrai”. “Se posso. Non so a che ora finirò con Corradi”. “Ti aspetto, non importa l’ora”. “Non te lo prometto, ma farò il possibile”. Il suo tono quasi implorante e ancor più sapere che m’ha cercata tutto il giorno mi lasciano leggera leggera. Vorrei continuare a parlargli, sentire ancora la sua voce, ma la situazione non lo consente. Chiudo la telefonata e torno al tavolo. Giulio non risparmia la battuta. “Chi era: il tuo eroico salvatore? Il cavaliere senza macchia e senza paura così imprudente che a momenti ci rimettevate la vita in due?” “Non essere indiscreto e non ricamare su due parole che hai ascoltato e non avresti dovuto farlo. È un amico da Roma. Un caro amico, non so se conosci il significato di questa parola”. “Amici maschi ne ho, alle donne per amico non ci credo, che senso ha. Io sono un uomo normale: di fronte a una donna attraente non penso all’amicizia, ma a ben altro. A te 324


per esempio, ti porterei volentieri a fare un giro fino alla riva del Bisenzio. E guarderei con te il luccichio dell’acqua sotto i ponti. Poi ti porterei a casa mia a sentire un bel disco e a bere qualcosa. Ma solo per portarti a letto, non per farti delle confidenze”. “Se è una proposta, meglio essere chiari: non rientra nelle mie abitudini questo genere di giro turistico. Vado a letto solo con chi mi piace moltissimo e certo non alla seconda volta che lo incontro”. “Non sei una donna normale, con le tue esigenze sessuali? Sei frigida? Sei lesbica?” “Come ti permetti, ma che hai in testa. Se una donna ti rifiuta può essere semplicemente che non le piaci. Fai le tue avance a chi le gradisce, non a me. E levami le mani dalle ginocchia. Ringrazia che siamo in pubblico e aspettiamo Corradi, altrimenti saprei cosa fare con le tue mani”. Finalmente, evocato, arriva Corradi. Gli basta un’occhiata per capire che sono al limite della sopportazione.

Corradi e gli altri “Il potere sessuale è l’unica cosa dell’ancien régime sopravvissuta alla Rivoluzione francese e arrivata intatta ai giorni nostri”, attacca Corradi apparentemente senza motivo. Giulio lo guarda come un vecchio pazzo, mentre Luisa immagina dove vuol andare a parare. “I re amavano mantenere popolarità e potere principalmente in due modi. Uno era l’esibizione muscolare, attraverso la prepotenza della polizia. L’altro era l’esibizione delle amanti. L’unico che non lo fece, solo perché con le donne gli andava male, era Luigi XVI, ma chi vorrebbe 325


finire come lui. In democrazia nessuno si può permettere di usare la polizia con eccessiva arroganza. Il potere sessuale invece è un’arma ancora in uso fra i politici e i fasulli vip di oggi: fanno finta di nascondersi, ma loro stessi chiamano i fotografi. Come i re, coprono gli amori extraconiugali con un velo tanto sottile da stracciarsi alla prima occasione”. Con l’aria di dire chi se ne frega, Giulio chiede: “E allora?” “Anche tu pensi al sesso come potere. Un po’ di rispetto per le compagne non guasterebbe. Noi torniamo da soli, grazie di aver fatto compagnia a Luisa”. E aggiunge ironico: “L’ha sicuramente apprezzato. Ora abbiamo bisogno di scambiare le nostre impressioni sulla giornata di lavoro e definire le prossime tappe. A domani”. Giulio è in palese imbarazzo e furibondo per il trattamento subito, ma è costretto a incassare: il vecchio ormai ha preso posizione in favore della stronzetta e non c’è niente da fare. Se ne va meditando vendetta. Lo guardo ammirata. “Sei un mito, gli hai dato una lezione che non dimenticherà”. “Farà di tutto per ricordare l’offesa e dimenticarne il motivo. Cioè da stasera è ufficialmente un nemico, per noi. E lo scopo della cena era l’opposto”. “Comunque grazie per avermi liberata”. Candidamente risponde: “Io ti avevo messo nell’impiccio, spettava a me levarlo di mezzo. Inoltre ho molte cose da raccontarti e lui era di troppo. Attaccarlo era il modo più semplice per non avere resistenze”. “Anch’io devo dirtene tante”. 326


“Lo so, me l’ha detto Cornero, perciò ho pensato di sottrarti alla tua serata privata”. Mi chiedo chi possa avergli parlato dei miei progetti privati, ma è inutile scervellarsi, magari era solo una battuta. Perciò mi concentro sul resoconto della giornata. “È stata una mossa azzardata”, commenta lui, “poteva finire male: nell’occhio del ciclone, certo non poteva difenderti Cornero”. “Curiosità e spirito sono due prerequisiti della politica, no?” “Anche la prudenza a volte non guasta”. Ci tratteniamo a parlare molto a lungo. Ogni tanto ho un sussulto, guardo l’orologio, vorrei dirgli scusa devo andare. Ma con che coraggio interromperlo in un momento rarissimo come questo? “Quelle foto che hai visto nel mio ufficio sono le uniche cose che contano nella mia vita, oltre a mia moglie. Non ho avuto i figli, che desideravo con tutta l’anima. O meglio, avevo avuto il dono di una figlia, ma... Mia moglie aveva ventiquattro anni come me, era incinta di cinque mesi. Io come sempre ero lontano, lo ricordo ancora come un anno terribile. Era il 1956, i carri armati russi invadevano l’Ungheria. Ero a Mosca con una delegazione di compagni per capire la situazione, per discutere con i sovietici. C’era tensione, pericolo, precarietà in tutto, anche nelle comunicazioni telefoniche, che venivano controllate e centellinate: ci tenevano isolati sperando di tenerci in pugno. Lei non riusciva a mettersi in contatto con me. Aveva delle perdite preoccupanti. Il medico le dice di non muoversi dal letto per il resto della gravidanza. Ma era sola in una città estranea e tanto grande. Decide di prendere le sue poche cose e 327


andare dalla madre, ad Avellino, sull’Appennino campano. Cerca un passaggio in automobile e lo trova. E va per strade di montagna, boschi, buche. È così che ha perso nostra figlia. Quando sono tornato ho pianto per la prima e ultima volta in vita mia. Se ci fossi stato...”, poi con voce incrinata e lo sguardo basso dopo una piccola intensa pausa continua: “se ci fossi stato lei non si sarebbe mossa e noi avremmo una figlia. Ma gli dei sono invidiosi. O la passione politica o la famiglia. O il mestiere o la felicità. Ti auguro di non trovarti mai di fronte a questa scelta”. Corradi, ora lo vedo, soffre ancora. Mi fa tenerezza, per la prima volta lo vedo anziano e solo. Per spezzare la tensione gli chiedo: “E gli artisti?” “Te l’ho detto, la creatività è l’unica cosa al mondo che invidio, oltre all’amore dei figli. Quando posso frequento gli artisti, anzi li spio, il genio per me...” I suoi occhi guardano lontano. Poi si rinviene. “Si è fatto tardi. Andiamo a dormire”. Guardo l’orologio, sono le due. Potrei dirgli che ho un appuntamento e fermarmi da Giovanni, ma non ne ho il coraggio. Cosa penserebbe di una che va da un giovanotto a notte inoltrata? Provo pudore, come se fosse mio padre. Torniamo al nostro albergo insieme. Resto vicina alla porta. Sento lo schiocco della sua che si chiude. Per un attimo sono tentata di riscendere, riprendere un taxi e dire: presto mi porti al Lux, ma d’improvviso sono molto stanca e la prospettiva di una notte in bianco, piena di adrenalina, con quel che m’aspetta il giorno dopo, mi frena. Vado a dormire molto agitata, ma anche appagata dall’amicizia del maestro. Con Giovanni cercherò una spiegazione domani, ora non ce la faccio: se lui insistesse non resisterei e addio lavoro domattina. 328


Ho appena preso sonno quando mi chiama sul cellulare: “Dormi? Perché non sei venuta?” Sono confusa dal sonno bruscamente interrotto. Reagisco male. “Non sono tenuta a darti spiegazioni. Non ho potuto e basta. Non farmi sentire in colpa, lo detesto. Sono una donna libera, il mio lavoro per me è importante, e sono a Prato per lavorare. Le spiegazioni a domani, ora devo dormire. Senza sonno faccio casino”. “Sta’ tranquilla, non ti disturberò più”, e attacca.

Giovanni Che donna è questa che antepone il lavoro a tutto? Una stronza nevrastenica che per niente salta su come una molla tesa. Una che se il partito la chiama ti pianta in asso a cazzo dritto. Sono deluso, disturbato, agitato e come se non bastasse eccitato per l’aspettativa coltivata tutta la sera. Aspettandola ricordavo il contatto con la sua pelle, sentivo quasi i suoi capelli biondi sul mio petto nudo, le sue mani sulla schiena. I suoi occhi nei miei che mi parlano in silenzio di dolori profondi e di gioie che esplodono all’improvviso. I suoi occhi blu scuro che virano al viola, mai visti in nessuna. Lei è flessuosa e agile, facile da accarezzare. Più ci penso, più sono sopraffatto da un misto di rabbia ed eccitazione. Mi prendo un po’ di piacere solitario, giusto per calmarmi, ma non riesco a immaginare come sarebbe penetrarla, perciò al dunque neanche quello m’aiuta e non riesco ad addormentarmi fino a tardi. Apro il frigobar e mi scolo un paio di mignon. Il sonno arriva molto dopo. 329


Quando al mattino mi chiamano dal giornale ho riposato sì e no un paio d’ore e mi sento come uno straccio molto strizzato. “Voglio un pezzo palpitante, una città in attesa di un evento dagli esiti incerti”, urla il caporedattore. “Ok, nel pomeriggio ve lo mando”, rispondo laconico. Anna Laura mi controlla stretto, il giornale mi controlla stretto, l’unica che non mi considera proprio è Luisa. Le dedico il mio mal di testa, un cattivo pensiero e un vaffanculo stronza col quale ritengo di aver pareggiato i conti. Scrivo l’articolo e lo mando, poi spengo il telefono e lo lascio spento per l’intera giornata. Ho bisogno di disintossicarmi dalla delusione. Camminata lunga per sciacquare il cervello, e cinema per finire la serata.

Giovanni il giorno dopo Sto un po’ meglio, ma sento ancora il sapore amaro della delusione. In compenso ho deciso che non penserò più a Luisa, neanche quando sarò costretto a occuparmi della sua manifestazione. Cancellata. Riaccendo il telefono e leggo i messaggi. Fra mille rotture di balle per fortuna ha chiamato anche la Poli per ringraziare e invitarmi a cena a casa sua con un gruppo di amici. Questo sì che mi farà star meglio: una bella donna, una casa da sballo, un po’ di vip di provincia che pendono dalle mie labbra. Accetto. Devo restare a Prato in attesa della manifestazione, le spiego, grazie a lei il soggiorno diventerà piacevole. Lei risponde ammiccante e diretta com’è nel suo stile: “Mi raccomando, non mi tradisca per un pezzo da scrivere 330


all’ultimo minuto, l’ho venduta ai miei amici come star della serata e saremo appena una ventina. Cena placè. Mi spiace che mio marito sia volato a Londra all’improvviso, ma pazienza, conoscerà il principe consorte un’altra volta”. Bene, alla fine la stronza non è l’unica donna al mondo. Evochi il diavolo e spuntano le corna. Il telefono suona ed è proprio Luisa col tono del non è successo niente, gentile, quasi casuale. “Come stai, ho provato a chiamarti ieri, ma non eri mai raggiungibile. Comunque ho sempre un tuo invito a cena, e oggi mi sono tenuta libera apposta. Dove ci troviamo e a che ora?” Miele per le mie orecchie, non speravo che avrei avuto così presto l’occasione per restituirle lo sfregio. È con un certo gusto e discreta soddisfazione che punto a mortificarla: “Ah, non mi ricordavo proprio che avessimo deciso di cenare insieme. Non posso, ho un impegno. Lorena, la Poli, mi ha ringraziato per ore, era molto compiaciuta del ritratto che le ho fatto, e si offenderebbe a morte se non andassi da lei. Ha invitato poche selezionate persone ansiose di conoscermi. Mi spiace, sarà per un’altra volta”. E dopo una piccola esitazione che fa da sottolineatura aggiungo: “Tanto tu troverai di certo del lavoro da fare”. Riattacco pensando: così impari brutta stronza, ma non sono soddisfatto come immaginavo.

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XXI

...ma mentre il coyote è un mancatore di parola e un mentitore la stella che cadente è la più bella con la coda che si muove con splendore... (Roversi/Dalla)

Giovanni Lorena e gli altri La cena è squisita e la Poli di parola: appena arrivato mi dice diamoci del tu e mi mette al centro dell’attenzione dei suoi amici imprenditori presentandomi come un Pulitzer, il che fa di lei... l’intervistata da un Pulitzer. Mi aggiro fra gli aperitivi con un bicchiere in mano, seguito dall’ammirazione femminile e da una certa adulazione degli uomini. Tutti pensano che conoscere il noto giornalista venuto da Roma potrebbe essere utile ai loro salotti e ai loro affari, e cercano di sottrarmi alla padrona di casa che però non lascia spazio a nessuno. L’amor proprio è salvo e l’umore alle stelle, sia benedetta Lorena, un altro match con Luisa e sarei andato in pezzi: che donna devastante. Lorena invece è buona come una cura della nonna: senza controindicazioni. Qui con lei mi sento a mio agio 332


perfettamente. Tre ore di lavoro e otto di relax per riconciliarsi col mondo. Viva anche Prato. E per fortuna Anna Laura è fra gli invitati, ma al momento di andare in tavola viene piazzata in una posizione marginale che la rende palesemente nervosa. È lontana sia da me, che sono l’attrazione della serata, sia dalla nostra ospite. Se sperava di avere anche lei un po’ di pubblico, ha fatto male i suoi conti, Lorena non le è poi così amica. Elegante, brillante e divertente, la padrona di casa è davvero straordinaria. Sa come mettere tutti a proprio agio. Racconta aneddoti sui potenti della terra che ha conosciuto: dalla Russia agli Usa, dagli Emirati Arabi alla Libia. Per ciascuno ha una battuta che sembra una pennellata. Per ogni ospite un riguardo. La sua conversazione avvolge tutti come un mantello comodo e leggero. La sua presenza e un ottimo vino rendono la serata speciale e confortevole. Arrivati al dessert, perfino l’austero e noioso cavalier Rocchi si lascia andare alla conversazione, raccontando gli esordi della sua azienda tessile. “Dopo la guerra i miei genitori avevano riaperto in mezzo alle macerie. Andavano a raccogliere i sacchi di juta che gli americani usavano per gli imballaggi, e i paracadute dismessi. Li scucivano e si procuravano così la materia prima per ricominciare l’attività. Oggi la Rocchi SPA lavora solo fibre pregiatissime, lini, cotoni, sete di alta qualità che l’hanno resa famosa nel mondo, o tessuti tecnologici. Ma il primo sacco, il nostro portafortuna, è conservato in una teca. Senza quello non avremmo nulla da raccontare”. Il cavaliere si dilunga sull’epopea aziendale, ciascuno dei commensali pensa a un buon modo per sottrarsi alla sto333


ria ascoltata chissà quante volte e molti si agitano sulla sedia. Sotto il tavolo un piede mi tocca. Mi scanso, pensando di aver fatto “piedino” per errore a qualche signora. Mi guardo intorno per chiedere scusa. Trovo lo sguardo divertito e furbo di Lorena che allunga il piede un’altra volta, prendendo meglio la mira, più in alto, proprio al centro del mio pantalone. Ho esattamente la reazione che la mia ospite si aspetta. Lorena è bella, ricca, potente, e ha scelto me. La lascio fare lusingato. Non che abbia alternative, a meno di alzarmi di scatto o sputtanarla davanti a tutti. Lei dimostra l’abilità che viene dalla consuetudine con situazioni sul filo del rasoio. Man mano che sente crescere in me l’eccitazione un sorriso le si stampa in faccia. Mentre il cavalier Rocchi continua l’epopea della seta, sono sul punto di non potermi più trattenere, lei capisce e smette di botto. Si alza. “Signori, la cena è finita, spero sia stata di vostro gradimento. Domani mattina lavoriamo e ci alziamo presto. Grazie di essere venuti e buona notte. Tu no, Giovanni, resta altri cinque minuti, voglio una dedica sulla pagina con la mia intervista, così la farò incorniciare e la conserverò”. Mi guardo intorno: ormai avranno capito tutti, ma in fondo a me che importa, se non si preoccupa lei che è una donna in vista e sposata! Ma dimenticavo che Lorena è una regina: altera e noncurante. Per lei l’imbarazzo non esiste. La guardo ammirato mentre accompagna alla porta i suoi ospiti e per tutti ha un saluto speciale, mentre io sono molto imbarazzato quando incrocio Anna Laura che mi guarda con insistenza e non demorde: “Vieni via con me, ti aspetto?” 334


“Hai sentito Lorena, resto ancora qualche minuto, non posso essere scortese con la tua amica”. Mi guarda con astio e rancore, e con tono stridulo rinfaccia: “Tu sei quello che non vuole complicazioni? Complimenti hai l’oscar della bugia. E io quello della stupidità. Figurati che pensavo ti piacesse la Alunni”. Se ne va quasi sbattendo la porta. Della sua arrabbiatura me ne frego, ma il nome di Luisa quasi mi smonta l’eccitazione. Ormai tutti gli ospiti sono andati. Lorena mi guarda come un gatto che si lecca i baffi prima della caccia. Ha sentito Anna Laura, intuisce il mio disappunto, si avvicina al mio orecchio: “Lasciala perdere, non pensare a lei, è invidiosa. Non sa cosa vuol dire essere desiderata da un uomo”. Sono confuso e non distinguo bene le sue parole, ma le vedo uno sguardo speciale, sento il soffio della sua voce nell’orecchio e ben presto sono di nuovo eccitato. Lei conclude la frase con un morsetto al lobo... poi mi spinge verso lo studio. Chiude la porta dietro di noi con il piede per non lasciare la presa su di me, mi massaggia dietro la schiena con enorme sensualità, fa volare via le scarpe e infine mi si para davanti. Ho già la testa vuota di pensieri e piena di desiderio, e quando sento i seni e il pube di lei contro di me, perdo la cognizione. Mentre penso che per l’età che ha il seno è ancora intatto, o forse molto ben rifatto, ricordo vagamente che il marito è a Londra, e quindi possiamo anche fare sesso lì dove siamo, per terra. I camerieri sono spariti. Ben istruiti o abituati chi se ne frega. Lei mi è sopra. La prima volta si consuma in fretta. Troppo per Lorena che non ha avuto tutto ciò che si aspet335


tava, ma non si scoraggia, mi accarezza e mi bacia, mi lecca e mi morde, totalmente priva di inibizioni. Ben presto sono pronto per la seconda volta: la volta buona per lei. Quando tutto è concluso restiamo a chiacchierare come due vecchi amici. È molto tardi quando torno in albergo. Il portiere di notte mi consegna un biglietto. “Sono passata all’una e ti ho aspettato un po’. So che ho due giorni di ritardo. So anche che a volte sono insopportabile, ma sono travolta da emozioni contrastanti e ho difficoltà a lasciarmi andare. Perdonami, Luisa”. Il beato torpore del dopo-Lorena svanisce all’istante nella terribile sensazione di essermi perso qualcosa di fondamentale, un’occasione unica. Mentre giocavo con la Poli, Luisa era qui sola di notte a cercare me. Calpestando il suo maledetto orgoglio. Nonostante i miei propositi di cancellarla mi sento in colpa come se le avessi fatto un torto. Vorrei chiamarla subito, ma come potrei a quest’ora e cosa dovrei dirle: che vada al diavolo, o che mi scusi per non essermi fatto trovare? Ho un crollo di nervi: Lorena e Luisa, è troppo per una sola giornata e sono stanchissimo. Mi metto silenziosamente a piangere. Poi finalmente dormo.

Anna Laura L’indomani per me il risveglio è doloroso. Le mie speranze su Giovanni si sono volatilizzate. Fare sesso con una mia amica, che io gli ho presentato e magari non l’avessi fatto mai, un’offesa doppia. Un’onta da vendicare. Ma come? Sarebbe giusto raccontarlo al direttore, fargli sapere che il suo giovane e brillante redattore, la firma di punta del suo 336


giornale, prima scrive delle signore, poi monta sulle signore e si fa pagare in natura. Giusto ma inutile. C’è il rischio che il vecchio maschilista lo ammiri o lo invidi, anziché condannarne la scorrettezza. Dirlo al comitato di redazione? Non gliene frega nulla di cose ben più gravi. Mi do tempo: il modo lo troverò. Lo devo a me stessa.

Luisa Entro in un bar ancora molto confusa dalla notte appena passata. Non ho dormito per vedere Giovanni. Non l’ho visto e son qui a chiedermi se non ho fatto una grandissima sciocchezza a umiliarmi così senza risultato. Il peggio non è morto ed ecco che vedo entrare Anna Laura, schiumante di rabbia, e del tutto fuori controllo. Inutile rifugiarsi dietro il cappuccino. La giornalista mi tampina: “Sei la persona giusta con cui sfogarmi. Tutti devono sapere che maiale è quell’uomo”. “Quell’uomo chi?” “Giovanni, e chi se no. Non sai che umiliazione, che trattamento davanti a tutti”. Mi racconta la cena e il dopocena con dovizia di particolari inventati al momento pur di enfatizzare la scorrettezza di lui, la facilità con cui si dà alla prima venuta. Non esita a giurare che erano praticamente fidanzati, che da un anno erano impegnati a costruire un rapporto serio. Volatilizzato nel nulla alla prima donna di successo e potere che ha visto da vicino. Cerca complicità, vuole sentirsi dire che è un grandissimo mascalzone, che non deve perdonarlo, ma me ne guardo bene. L’ascolto con attenzione, e non commento. Anna Laura non mi piace. La sua indiscrezione non mi piace: 337


perché raccontare a me – non si può certo dire che abbiamo simpatizzato a prima vista – tanti dettagli che non mi riguardano. Né voglio mostrare eccessiva curiosità: di sicuro, sbollita la rabbia, l’altra ci ricamerebbe sopra. Perciò non vedo l’ora di liberarmene. Come realmente faccio appena mi riesce. Dunque Giovanni è un uomo completamente inaffidabile, alla ricerca di un diversivo in una città dove non ha come passare le serate. Io o un’altra è lo stesso. Che delusione e che vergogna: il ricordo del biglietto che gli ho lasciato mi brucia come un mozzicone acceso sulla pelle. Si sarà fatto grandi risate pensando alla povera illusa che sola nella notte va a cercare l’amato. “Stupida, stupida, stupida. Ecco quello che sono, ma non cascherò più nella tua trappola perché tu possa vantarti della collezione di femmine che prima intervisti e poi porti a letto”. Meglio sola che con un uomo sbagliato, meglio dimenticarlo subito che pentirsene dopo. I preparativi vanno avanti. Il piccolo ufficio al partito è diventato un centro operativo a tutti gli effetti: un gran viavai di gente, il telefono che squilla di continuo. Sono molto soddisfatta e Corradi non commenta, quindi è soddisfatto anche lui. Pieri è scomparso, il che è una fortuna da una parte, una fonte di preoccupazione dall’altra: di sicuro non si è rassegnato e trama in segreto. Alì è formidabile: la sua capacità di dialogo è grande e coinvolgente. Lorenzo da Roma si dà da fare e mi chiama tre, quattro volte al giorno per aggiornarmi, sia sui corridoi della Sinistra Unita che sugli sviluppi del lavoro. Gli insulti del segretario l’hanno liberato da una zavorra. Corre, quasi vola e si dimostra di 338


grande utilità. Non sento Marco, ma a manifestazione conclusa, quando tornerò alla base ne avremo da raccontare. Mancano poche ore e poi raccoglieremo il frutto di tanto lavoro. Passo in esame le cose fatte e quelle che restano da fare, e oggettivamente penso di aver dato il massimo. Ho curato anche i dettagli, la coreografia del corteo e l’alternanza dei costumi. Tutto è stato analizzato e previsto. Tutti i sensori sul territorio dicono che c’è attenzione e interesse. Anche la grande stampa nazionale seguirà la manifestazione con inviati. Compreso Mustacchi, a quello che so. Già, Mustacchi. È scomparso. Meglio così. Se lo incontrerò sarò distante e cortese, come una vera dirigente verso un cronista qualsiasi.

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XXII

...e su una pietra i due stan nel fuoco della notte a raccontarsi a turno con le voci calde o rotte la stella parla adagio e il coyote grida forte buttati in questo gioco, per chi perde c’è la morte. (Roversi/Dalla)

Luisa e Corradi È la vigilia, Corradi entra in ufficio e quasi non mi saluta: umor nero. “Il prefetto mi ha informato che domani ci saranno due manifestazioni: la nostra e quella dei no global, arriveranno anche i black block dalla Francia. Erano diretti a Livorno, contro la base Nato, ma non ce li hanno voluti per motivi di ordine pubblico. Il nostro prefetto invece ha accettato di farli accampare qui, alle porte di Prato, nei locali dello scatolificio abbandonato. Ci chiedevamo quale fosse la contromossa del Pieri. Eccola: se andiamo avanti lascerà che mettano a ferro e fuoco la città, dando la colpa a noi che abbiamo aizzato la piazza, confondendoci con dei ragazzetti violenti e impolitici. Il caos e gli scontri trasformeranno la nostra azione esemplare in un disastro e lui gri340


derà ai quattro venti che i compagni venuti da Roma hanno incasinato la sua pacifica città, messo in pericolo l’incolumità dei cittadini e liberato energie negative, saldando violenti ed extracomunitari. “Ci dà un’alternativa: rinunciare, così avrà vinto lui comunque. Ora dobbiamo decidere in fretta se rimandare la manifestazione o correre il rischio. Sapendo che il nostro è un rischio politico, ma per le donne che parteciperanno il rischio può essere molto più grande: dal coinvolgimento negli scontri alla vendetta dei trafficanti”. Stento a credere che tutto il nostro lavoro venga messo in pericolo da una banale ripicca. Perché Pieri dovrebbe rovinare un’iniziativa che ormai coinvolge il buon nome dell’intero partito? Tanto più che Corradi ha fatto molta attenzione a non mettere le polemiche in piazza. Spostarla, non se ne parla: ormai tutto è pronto. Arretrare di fronte a un pugno di agitati sarebbe una prova di debolezza insopportabile, per un partito di governo. Annullarla, sarebbe una tale sconfitta per me e per Corradi che non posso neanche pensarci. Esco a fare quattro passi: l’agitazione è troppa per contenerla nelle mura della federazione. Spossatezza, impotenza, delusione. La tensione dell’ultimo periodo mi sopraffà. “Il lavoro di queste settimane, il mio futuro, il futuro di questo paese che non vuole migliorare, i miei sentimenti che mi rendono la vita difficile, il destino di quei poveracci di cui nessuno se ne frega, la città indifferente, il sindaco cinico, la solitudine. È un peso enorme sulle mie spalle, sto così male, la delusione professionale e quella sentimentale... Su Mustacchi avevo fatto un piccolo progetto. Ed è 341


fallito. Sulla mia nomina avevo fatto un grande progetto. Ed è fallito. Sul futuro degli abitanti di via Soriano, avevo fatto un buon progetto. E anche quello sta fallendo. Non ho più voglia di combattere. Ha ragione Pieri, è la sua città, risolva i problemi a modo suo... Mi arrendo. Che il mondo vada dove cazzo gli pare”. Mi siedo su una panchina e sfoglio meccanicamente i giornali che negli ultimi giorni ho letto poco e male, e oggi non ho letto affatto. Sempre le solite notizie, sto per ripiegarlo, in questo momento avrei voglia di un romanzo rosa, di pura evasione, che mi porti lontana dalla realtà. Un titolo mi aggancia. È un sondaggio sulle paure degli italiani. Al primo posto la disoccupazione, al secondo l’Islam: la gente teme che entro dieci anni la religione musulmana inghiotta quella cattolica, la religione dei padri. Il sociologo commenta: “Dopo il 1989, data della caduta del muro di Berlino, crollato l’impero sovietico, la maggioranza silenziosa non ha più paura del comunismo che ruba la casa e i soldi, ma dell’Islam, che ruba il lavoro e cancella la nostra religione, cultura e tradizione. Le notizie quotidiane dei telegiornali hanno grandi responsabilità. Eccone un esempio: ‘La situazione si aggrava: l’Italia chiede aiuto all’Unione Europea. Trecento sbarchi ogni giorno, oggi la Marina Militare ha speronato al largo di Brindisi una barca carica di clandestini. Venti feriti, due morti annegati’... in questo modo poche decine di persone disarmate e disorganizzate, fanno pensare – la stessa parola sbarchi lo evoca – a un’invasione più che a una migrazione. E si fomenta l’irrazionalità”. Mi scuoto dall’amarezza e dal risentimento: “Non posso fermarmi ora. Non posso abbandonare quelle madri, quelle 342


mogli, quelle donne piene di speranza. Non posso lasciare che il mondo giri storto”. Chiamo Corradi. “Maestro, ci ho pensato, per me dobbiamo andare avanti. È un grosso rischio, me ne rendo conto. Ma glielo dobbiamo”. “A chi?” “A quelli che sperano in noi per migliorare la loro vita. A quelli che considerano Sinistra Unita come forza di sinistra. A quelli che non si arrendono e passano la gioventù agli angoli dei semafori pensando ai loro cari rimasti a casa che grazie a loro potranno mangiare. A quelli che si allontanano dagli affetti più cari e vivono drammaticamente sotto i nostri ponti, con le briciole che cadono dalle nostre tavole. E anche a noi stessi... ti prego dimmi di sì”. “Se sei convinta andiamo avanti. Ma preparati anche a un possibile disastro”. “Chi non risica...” rido, contenta che il maestro mi abbia dato il via. La retorica è odiosa, ma paga quasi sempre, e in questo caso era a buon fine.

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XXIII

Ma col passar del tempo la stella fa fatica a raccontare e invece le parole del coyote corrono come acqua di un fiume verde verso il mare... (Roversi/Dalla)

Luisa Oggi è il giorno. In Prefettura fin dal mattino c’è una specie di summit con Corradi, gli inviati del sindaco, tutte le autorità. Da lì arriva una specie di bollettino di guerra che ben presto fa il giro dei palazzi del potere e arriva alle tv e radio locali. Alì come previsto sta facendo il giro delle case per far uscire le donne e portarle vicino al muro. Io, al telefono, cerco di vincere le ultime titubanze delle organizzazioni femminili più moderate, ora esitanti all’idea di essere coinvolte in guerriglie urbane. Sento gran vocìo per strada. Mi affaccio e dalle finestre lo spettacolo è scoraggiante. Sfila la manifestazione della sinistra antagonista. Non sono molti, ma sono evidentemente giovani, prevalentemente col viso coperto, gli slogan sono quasi tutti contro 344


Corradi e la sua legge. “Korradi boia, fai uscire dai lager i nostri fratelli, se no verremo coi lunghi coltelli”. E un altro: “Malvagi, razzisti, amici dei fascisti, nei vostri Cie ci morirete voi”. Qualcuno dei manifestanti si rende conto di essere sotto il portone di Sinistra Unita. Il corteo allora si ferma e diventa improvvisamente silenzioso. Un silenzio che sa di minaccia. Poi, come per un’azione preordinata, il primo urla: “Sinistra Unita galera garantita”, l’urlo si fa boato, dalla testa del corteo parte un lancio di sassi verso le nostre finestre. Indietreggio. Appena in tempo per scansare il peggio, ma non abbastanza in fretta. Il vetro della finestra si rompe, un frammento mi colpisce la fronte. È piccolo per fortuna, e resta in superficie. Me lo levo davanti a uno specchio, non ho tempo per la medicazione. Devo uscire subito, rincuorare le donne, tenerle unite, altrimenti spaventate se ne andranno tutte a casa. Alla fine della strada c’è la polizia in assetto da guerriglia urbana. I manifestanti non chiedono di meglio. Sassi e spranghe da una parte. Fumogeni e manganelli dall’altra. Ho le lacrime agli occhi: un po’ per i gas, un po’ per la rabbia. Non riesco neanche a raggiungere la traversa che mi porterebbe lontano da lì, consentendomi di raggiungere il muro. Gli scontri con la polizia si fanno violentissimi. Si sentono le sirene delle prime ambulanze. I medici chiedono alla polizia di fermarsi, di consentire loro di soccorrere i feriti da entrambe le parti. Ma il no è secco, sembra davvero una guerra. Mi becco anche una manganellata, per fortuna di striscio, ma sufficiente a riaprire la ferita. Il sangue mi cola su un occhio e praticamente non ci vedo. Mi riparo nei cinquanta centimetri di imbotto di un portone, capisco che per le forze dell’or345


dine nella confusione è difficile distinguere chi c’entra e chi non c’entra. Ma che diavolo anche questa non ci voleva. Devo raggiungere via Soriano. Devo pensare in fretta e agire ancora più in fretta. Una signora anziana mi vede dall’alto e urla per sovrastare il rumore infernale, il rumore della guerriglia: “Signorina presto entri dentro”, poi vedendo la mia esitazione aggiunge: “si sbrighi vengono alle sue spalle”. Sento lo scatto del portone e il sapore ferroso del sangue in bocca. Decido di accettare l’offerta. La signora è scesa, preoccupata di tutto quel sangue sul viso, si assicura che il portone sia ben richiuso e mi esorta a salire. Esito, non vorrei perdere tempo: “Grazie, ma mi serve solo un fazzoletto bagnato per occhi, naso e bocca, e una via d’uscita”. “Lei è ferita... Posso darle tutto ma farebbe bene a non muoversi in momenti come questi”. “Tutto, anche l’uscita?” “Sì, venga un momento su da me, le do dell’acqua e un panno bagnato. Appena ha recuperato le forze e la vista le apro il garage che dà sulla parallela e può uscire da lì. Se proprio deve”. “Grazie davvero. Sì devo proprio”, e le spiego velocemente il problema. “Se è così... aspetti le do il motorino di mia figlia. Domani me lo riporti mi raccomando”. Sono stupita e toccata dalla fiducia di quella sconosciuta, e più che mai convinta di andare. Intanto in Prefettura è in atto uno scontro violento. Il sindaco e il segretario provinciale sono arrivati insieme, gongo346


lanti come se avessero appena visto un gelato squisito e non il delirio in piazza. Con aria autorevole e inquieta chiedono la sospensione della manifestazione delle donne, per garantire la loro sicurezza. Corradi interviene con tutto il suo peso e nessuna benevolenza nella voce quando spiega al prefetto che Sinistra Unita a livello nazionale non capirebbe perché le forze dell’ordine consentano una manifestazione violenta dei black block e impediscono quella pacifica e programmata da tempo di una forza politica istituzionale. Il prefetto è titubante, preso fra due fuochi. Il caos in strada è tale che sarebbe più semplice sbattere tutti i giovani in galera e mandare a casa tutte le donne. Farebbe felice il sindaco, che però è al suo secondo mandato, quindi con l’anno prossimo non potrà essere rieletto. Inoltre bloccare i black block è facile a dirsi ma ora la miccia è innescata. D’altra parte di Corradi si parla come del futuro Presidente della Repubblica. Acconsente, ma sottolinea che l’operazione è piena di incognite e si aspetta la collaborazione di tutti per tenere la situazione sotto controllo. Corradi gli garantisce il suo pieno appoggio. Pieri se ne va sbattendo la porta. Il tentativo di bloccare la catena umana non gli è riuscito. Il messaggio laconico sul mio telefonino è meglio della vittoria al superenalotto: tutto ok, procedi. Sospiro di sollievo: Corradi l’ha spuntata. Raggiungo via Soriano. Anche qui lo schieramento di polizia è spaventoso, i riflessi metallici del muro d’acciaio sotto i raggi del sole danno una luce livida e accecante, su cui si stagliano come figurine di un presepe guerresco e di fantascienza i poliziotti in assetto antisommossa. 347


Chiamo Alì e gli dico siamo pronti io sono qui, vieni con le donne, possiamo ancora farcela. La polizia ci proteggerà. Qualche minuto di attesa sembra un’eternità. Ecco che all’angolo compare il dinoccolato e amatissimo Alì. “Non ho mai avuto tanto piacere di vederti” ed è vero. È venuto con una cinquantina di donne, un bel gruppetto. E non è che l’inizio. Recupero l’ottimismo, sarà un successo: donne colorate dai colori del Senegal, del Marocco, del Sudan, di Capoverde, Indiane. Tutte in fila in una tavolozza che nonostante il dramma e la tensione, fa allegria, con i figli piccoli e grandi e qualche uomo che le guarda protettivo. Mi dicono che molte altre stanno arrivando. Timore e speranza si dividono la mia testa al cinquanta per cento. Corradi stavolta non scrive, chiama. “La radio diffonde notizie catastrofiche. Le organizzazioni cattoliche non ci stanno più, non vogliono far correre rischi ai loro gruppi. Scordati le filippine e le polacche”. Non faccio in tempo a chiedermi come rimediare che arriva Giulio. Cattivo e contento: “È la prima volta da trent’anni che per una manifestazione promossa dalla Sinistra Unita qui a Prato i commercianti hanno paura. Oggi tutti i negozi stanno chiudendo le serrande, questo è molto offensivo, ed è una sconfitta politica. Per colpa tua stanno mettendo a fuoco la città”. “Chi?” “I no global. Se tu non avessi deciso di agitare la piazza con la tua catena umana non sarebbero mai venuti”. “Tu sei un vero provocatore. Tu e il tuo maledetto sindaco. Sperate di far leggere la realtà all’incontrario, ma non ci riuscirete. Io avevo deciso di fare una manifestazione sulla 348


quale le persone di buonsenso erano e sono d’accordo. Tutte tranne voi, che per ostacolarci avete fatto entrare in città i violenti”. “Hai detto bene: tu hai deciso, da sola e contro il nostro parere e ora solo tu ne porterai la responsabilità. Augurati che non succeda nulla di più grave”. Così dicendo se ne va, ma le donne hanno ascoltato il nostro scontro verbale attente e preoccupate. E cominciano ad avere paura. Si chiedono se hanno sbagliato a venire. Qualcuna prende il telefono: “Dobbiamo avvertire le amiche di non andare incontro al pericolo: dove sono gli scontri? Devi dircelo, non ci far massacrare”. Se confermo che Giulio diceva il vero, se ne andranno tutte, la manifestazione fallirà e a quel punto davvero correranno grandi rischi, comprese le rappresaglie dei delinquenti. Se nego, be’, questo non sarebbe giusto. Non sarebbe rispettoso. Non me lo perdonerei. Alì mi viene in soccorso. Puntando sulla mia popolarità conquistata in poco tempo, spiega: “Sorelle, se ve ne andate ora, la nostra Luisa la impalano e chi ci aiuterà? Il Pieri che in tutti questi anni non ha fatto nulla e quel poco lo ha fatto contro di noi? Fermatevi e chiamate tutte le donne che conoscete. Se ve ne andate ora non venite mai più a chiedermi aiuto”. Qualcuna se ne va comunque, le altre – ormai non più di una trentina – sono indecise, la situazione è in bilico, a meno di un’idea brillante tutto è perduto, la città è contro di noi, e le donne non verranno più, i giornalisti neanche, impegnati come saranno a documentare gli scontri, i feriti, i danni. Le conto, troppo poche per una catena umana, non arriverebbero a circondare neanche un villino a due piani, figu349


riamoci il mostro di via Soriano. È un clamoroso insuccesso. Ho voglia di piangere, mi sono giocata tutto su questa giornata. E ho perso. Non mi resta che trovare una via d’uscita per queste donne, che hanno sbagliato a credere in me. Una lacrima vera, non da lacrimogeno, mi scivola dall’angolo dell’occhio destro. Indosso gli occhiali, mi giro e porgo la schiena al gruppo, nessuno avrà la soddisfazione di vedere da vicino la prova della mia sconfitta. Nonostante sia evidente il suo desiderio di stare sola, una donna si avvicina. Stringe a sé due figli, uno per ogni mano, e un altro ce l’ha legato alla schiena con un marsupio. “Sono Amina. Caccia le tue pene. Il mondo è madre, grazie a te e a tutti quelli come te, capaci di amare e di essere generosi. Ti ringrazio a nome dei miei figli, che hanno diritto a sperare nel futuro. Ora ti sembra di aver perso tutto, ma ricordati che c’è sempre al mondo un povero più povero di te”. “Ma io non sono povera, ho soldi quanti me ne bastano”. “Povera di affetti, di bei ricordi da raccontare ai tuoi figli, povera di emozioni e di successi, povera di vita”, dice stringendo a sé la creatura nel marsupio. Lascia per un attimo la manina di uno dei figli e mi tocca la fronte, poi il cuore, mi guarda con dei magnifici occhi liquidi, grandi, neri, che sembrano intagliati sul volto. Sento un gran calore da quella mano. Smetto di piangere all’istante: “Hai ragione. C’è sempre uno più povero, uno a cui viene negato il calore di una mano. Grazie. Tu sei una grande madre. Darai molta forza e molta fortuna alle tue creature”. M’impongo di riacquistare sicurezza e un aspetto meno stropicciato. Ma so di essere un mostro: il sangue sulla 350


fronte raggrumato, la faccia piena di polvere solcata dalle lacrime, la ruga d’espressione in mezzo agli occhi come ogni volta che sono seriamente preoccupata... se mi vedesse Anna Laura sarebbe contenta, se mi vedesse Giovanni saprebbe che anche solo per una sera aveva scelto una maschera patetica. E siccome oggi è la giornata in cui i miei peggiori pensieri si avverano, eccolo Giovanni, sta sbucando dal lato destro del muro. Ora capirà che sono all’angolo, avrà la possibilità di scrivere qualcosa di realmente pessimo e ne godrà moltissimo. Lo aggredisco: “Sei venuto per scrivere della mia sconfitta?” Ma lui non ha intenzione di fare polemiche e scambiare battute: ha l’aria affannata e preoccupata. “Senti, sono riuscito a passare forzando la situazione, cioè il blocco di polizia, grazie al tesserino di giornalista, urlando come un pazzo sulla libertà di stampa e il diritto di cronaca, non certo per sentire stupidaggini”. “Perché sei venuto?” “Per due motivi. Il primo – ora non è il caso – te lo dirò un’altra volta. Il secondo è che non si può darla vinta a quel subdolo irresponsabile del Pieri e a quelli come lui. Perciò sono venuto ad avvertirti: oltre la prima traversa è pieno di donne. Hanno sentito alla radio del blocco, e hanno telefonato a Catarina, che le ha rassicurate: a via Soriano l’unico pericolo è che la manifestazione non riesca. Sono accorse in massa. Sono tutte con te e per te. Ma la polizia non le fa passare. Prendi in mano la situazione e guidala, anziché subirla. Reagisci e alla svelta. Sei una dirigente o no? La capacità si misura nel momen351


to della crisi, non quando hai il culo coperto e al caldo. Quello lo sanno fare tutti”. Come se avessi ricevuto una scossa elettrica, mi raddrizzo, lo guardo, gli dico: “Hai ragione. Grazie”. Cerco di assumere un atteggiamento autorevole e sicuro per parlare con la polizia. Dieci passi, pochi metri per raggiungerli e iniziare la trattativa. Anche allora erano solo dieci passi, solo pochi metri, ma sembravano una distanza insormontabile. Dieci passi per coprire i pochi metri del corridoio e arrivare alla porta d’ingresso, quel giorno che avevo deciso di lasciare la casa del padre. Da un lato un’enorme spinta verso l’autonomia. Un misto di desiderio di indipendenza, voglia di stare sola, e rivalsa verso l’Alunni, il bravo militante che non era mai stato il bravo padre che avrei voluto. Dall’altro la sensazione di lasciare un porto sicuro mi tirava indietro. Ma la casa degli Alunni ormai da tempo non era più la mia. Mi riportava al passato. Ai rimpianti e al dolore della perdita. Io invece dovevo e volevo andare avanti. Papà usciva sempre alle otto del mattino. Perciò avevo scelto le nove come ora X e l’avevo avvertito. Avrei aspettato di vederlo uscire, l’avrei salutato come sempre, ma con la valigia pronta. Se lui usciva per primo – ho pensato – ci saremmo risparmiati l’imbarazzo dei saluti importanti, delle parole gravi. Per la prima volta in vita sua quel mattino alle nove lui era a casa. Quando ho finito di raccogliere le mie cose ho alzato gli occhi e l’ho visto stagliarsi in controluce nella porta. Mi sembrava un gigante, come quando ero bambina. Per un 352


momento mi sono chiesta: chi mi proteggerà da oggi in poi? Mi sono risposta: io, mi proteggerò da sola. Gli ho detto ciao papà e mi sono avvicinata per salutarlo con un bacio. Il mio gigante aveva i lineamenti contratti e una lacrima gli dondolava sul naso in attesa di lasciare per sempre il suo volto. “Piangi?”, gli chiedo incredula. Mi sembrava impossibile che lui così forte, irridente, lui che non aveva mai avuto bisogno di noi – gli bastava la politica a riempire la vita – dicesse: “Mi lasci anche tu. Ileana e ora tu. Venderò la casa, non posso sopravvivere qui da solo”. “La mamma è morta... io invece tornerò. Mia sorella tornerà”. “Che c’entra tua sorella... lei è lontana da tanto tempo. Senza te qui non sarà mai più lo stesso”. Mi hai dato una foto di te e della mamma giovani, sorridenti, spavaldi, padroni del mondo. Bellissimi. “Eravamo sulla terrazza della Bersagliera, quel bel ristorante napoletano. Avevamo scelto Napoli per una piccola vacanza, non abbiamo mai fatto un viaggio di nozze. Era un’usanza borghese e troppo costosa per noi. Stavamo in una pensioncina vicino al lungomare Caracciolo: pochi soldi tutto compreso prima colazione e cena. Quella sera tua madre mi aveva detto: facciamo un colpo di testa e andiamo a cena in un bel ristorante, per una volta nella vita. Così, per ricordarcelo quando saremo vecchi. Abbiamo aperto il portafogli e contato più volte quello che avevamo. Facevamo dei mucchietti: questo è per il viaggio di ritorno, questo per sviluppare il rullino con le foto ricordo, questo è meglio metterlo da parte in caso di imprevisti. Niente da fare, era impossibile. La delusione sul viso di tua madre era un coltello nella ferita per me. 353


Allora ho guardato lei così bella. Il mare così bello. Le ho detto vieni con me. L’ho presa per mano e l’ho portata sulla terrazza della Bersagliera. Davanti a noi il mare di Napoli, tutto un luccichio, come i suoi occhi. Sotto di noi la cucina ci faceva arrivare degli odori meravigliosi. L’ho abbracciata e le ho detto amore mio chiudi gli occhi e respira forte. Senti che profumi: ora ci stanno portando gli spaghetti alle vongole in bianco come piacciono a te, ecco un fritto misto... ora arrivano le melanzane alla parmigiana, e per chiudere un bel caffè, ed è tutto gratis. C’erano due soldati americani che ci guardavano incuriositi. Ho chiesto: ci scattate una foto? Non capivano la lingua, ma hanno capito la richiesta. Sorridendo hanno detto di sì. Quando diceva la più bella cena della mia vita tua madre si riferiva a quella. Sono certo che quella sera sei stata concepita tu. Perciò ecco, tienila”. “Ma la foto è tua, il ricordo è tuo, non posso privartene”. “Nessuno può privarmi del ricordo di tua madre e di quella sera. E ora vai. Ricordami così, con lei accanto”, hai detto salutandomi, quasi spingendomi via. Le tue lacrime hanno cancellato tutte le mie sofferenze di bambina. Sbagliavo su di te, avevo sempre sbagliato. Mi volevi bene ma ognuno ama a modo suo. Io invece pensavo a un affetto standard, quello delle frasi nei cioccolatini, dei temi in classe alle elementari. Ho fatto quei dieci passi nel corridoio per staccarmi da te e diventare adulta in modo definitivo, con un groppo in gola e un enorme peso sulle spalle. Se vedi tuo padre piangere diventi maggiorenne all’istante. Sono stati i dieci passi più faticosi fino a oggi. Da allora non ho mai più pianto, né di dolore né di rabbia. Non fino a oggi: la data della mia maggiore età politica. 354


Alle mie spalle c’è Alì con le poche donne rimaste. E c’è Giovanni, che per la prima volta mi è accanto, solidale. Non posso deluderli. Davanti ho un muro ostile al quale ho dichiarato guerra, e uno schieramento militare minaccioso. Ancora oltre aspettano altre donne, che a quanto sembra sono con me, se saprò dimostrare che sono un capo in grado di guidarle e proteggerle. Mi basta fare dieci passi, pochi metri, per andare a parlamentare e cercare di portare a casa il risultato. Sono combattuta fra la necessità di muovermi e il timore che la polizia mi sberleffi, che il commissario si rifiuti di parlarmi. In fondo chi sono io per trattare con loro? Una sconosciuta dirigente di partito. Sarebbe una catastrofe, la pietra tombale sulle possibilità di riuscita della manifestazione e su qualunque ambizione. Metto le mani in tasca e stringo i pugni. La mano incontra la goccia di plastica, regalo di Irina. Mi dà coraggio. Mi avvio lentamente. Nel silenzio irreale sento Amina, la grande madre, che intona un canto. Una a una tutte le donne si uniscono a lei. Il canto resta un attimo sospeso nell’aria. Poi, lontano, dall’altra parte del muro e della strada, altre voci fanno eco. Le donne che non possono passare hanno chiuso la catena con il loro canto, e dicono: ci siamo anche noi. Mi danno forza. Il mio passo si fa più deciso, spinto da quelle voci. Quasi senza rendermene conto mi trovo davanti al commissario che comanda il reparto. “Le donne che sono là dietro – gli dico – deve farle passare, è la loro grande occasione”. 355


“Non posso – risponde impassibile, per nulla toccato dall’atmosfera drammatica, dal canto, dalla tensione tangibile – gli ordini sono precisi: fino a quando ci sono in giro i black block non posso far correre rischi ad altri manifestanti, e pertanto non passerà nessuno”. È inutile insistere, gli ordini per un poliziotto non si discutono. Tento l’ultima carta. “Allora lasciatemi trattare con i no global. Se capiscono che cosa voglio ottenere, secondo me li convinco”. Il poliziotto abbandona l’aplomb e ride sarcastico. “Si accomodi pure, se ci tiene, ma quelli li convinci solo mettendoli in galera o nell’impossibilità di nuocere”. “Metterli in galera è compito suo. Provare a parlarci compito mio. Grazie per l’autorizzazione, dica ai suoi uomini di lasciarmi passare”. Avanzo decisa, ho paura che mi fermi, che abbia detto per scherzo. Invece il poliziotto fa un cenno e le forze dell’ordine aprono un varco, come accadde a Mosè col Mar Rosso. Il commissario è convinto che non riuscirò dove nessuno di loro è riuscito finora, e già pregusta la soddisfazione di dare una lezioncina alla signorina sotuttoio quando tornerà indietro con le pive nel sacco. Mi avvicino al gruppo silenzioso e minaccioso. Con una voce alta e ferma che quasi non mi riconosco chiedo di parlamentare. Non so a chi rivolgermi di preciso: non ci sono gerarchie apparenti. Tutti hanno lo stesso abbigliamento e lo stesso atteggiamento: chiuso e aggressivo. Trenta secondi di stallo completo. Poi un ragazzino si stacca leggermente dal gruppo e avanza, ha il cappuccio fin sugli occhi e una specie di passamontagna, l’abbigliamento da manifestazio356


ni di piazza. Escono fuori solo le pupille che sembrano punte di spillo. Lo guardo dritto in quel che vedo degli occhi e gli dico senza mezzi termini indicando le donne che stanno ferme, bloccate e non possono passare: “Non puoi rubare la speranza di un futuro migliore a quelle madri”. Guardo il gruppo dei giovani e oltre loro quello delle donne. In effetti sono tante. Il ragazzino non è per nulla intimorito, con lui evidentemente la retorica non paga. “E tu chi sei per decidere cosa è meglio per loro?” “Tu piuttosto chi sei: io le ho chiamate perché prendessero in mano il loro destino. Hanno risposto sì, perché ragionando con la loro testa hanno pensato che la mia pacifica catena umana fosse un’azione sensata, dimostrativa, con buone possibilità. Un’azione contro i delinquenti e contro un sindaco che le vuole segregare. Tu invece te ne stai comodo a casa tua, poi a un certo punto decidi di venire a tirare qualche sasso e non chiedi il permesso di parlare in nome e per conto loro”. “La violenza è l’unico modo per risolvere le ingiustizie sociali e abbattere i muri. Se parli non ti ascoltano. La violenza è l’unica lingua che il regime capisce”. “La violenza queste donne la conoscono molto bene. La subiscono tutti i giorni. Se la usi contro di loro ti considereranno un nemico. Come il datore di lavoro che le sfrutta. Come quelli del racket che prima le sfruttano e poi le picchiano. Come i benpensanti che le tengono segregate dietro a un mostro d’acciaio nelle ore in cui non lavorano per loro. Che differenza c’è fra la tua violenza e quella degli altri?” “La mia è solo contro i poliziotti”. 357


“No. È contro i poliziotti, i passanti, i negozianti, le donne che vogliono manifestare. I padroni veri, quelli non riesci neanche ad avvicinarli con la tua violenza. Mandano altri a farsi picchiare. Io non voglio giudicarti, e non m’interessa discutere di questo. Ti chiedo solamente: lasciale passare. Lascia a loro decidere se vogliono partecipare. Ne hanno il diritto: se lo sono guadagnato attraversando il mare sopra le carrette, vedendo i loro padri e mariti affogare. E altri compagni morire soffocati nei container. Non sei Dio, non puoi determinare il loro futuro. Scansati, falle passare”. Il ragazzino per la prima volta esita, si rende conto che non ho torto e la situazione promette solo guai: “Per me sei completamente fuori, ma se faccio quello che dici, voglio essere certo che la polizia non ne approfitterà per arrestare i compagni. Puoi garantirmelo?” “Posso provarci”. Benedico l’inventore dei telefoni cellulari, chiamo Corradi, gli spiego la situazione. Lui mi assicura: dammi un po’ di tempo e ti faccio sapere. Riferisco al giovane black block. “Se fai stare tranquilli i tuoi per tre minuti sono certa che ci riusciremo, il mio dirigente è dal prefetto, a breve richiamerà”. In effetti così avviene, il rappresentante del governo ha capito che la situazione è incandescente, non può aggravarla. Sto offrendo una buona via d’uscita a tutti. La trattativa è conclusa positivamente, come conferma subito dopo anche il commissario della polizia presente. I no global si scioglieranno passando da una delle vie laterali che nel frattempo la polizia avrà abbandonato. Le donne passeranno dall’altra. 358


Mi metto alla testa del corteo: ora che la tensione è sciolta vedo che le donne sono moltissime. Non riesco a contarle tutte. Vanno a ricongiungersi con le altre a via Soriano. La catena umana è bellissima e molto più grande del previsto. Amina canta ancora, stavolta senza malinconia, e donne di tutte le etnie si uniscono a lei. L’atmosfera è di gioia, la preoccupazione è sfumata. Al momento in cui tutto il muro è circondato, la prima donna si salda con l’ultima e la catena si chiude, la mia felicità è grande e piena, tanto più grande quanto più è stata sofferta e conquistata con le unghie e i denti. Da quel momento vivo come sospesa in aria, come in un film. Vedo i lampi dei fotografi e le telecamere, tutti sono riusciti ad arrivare grazie allo scioglimento del blocco. Tutti mi chiedono qualcosa, vogliono una dichiarazione, mi danno una pacca sulle spalle, un incoraggiamento. Si congratulano. Corradi ad alta voce, che tutti sentano, dice: “Sono fiero di te. Sei una dirigente come non se ne vedevano da tempo”. Sto ancora assaporando la gioia di un giudizio così importante, e si avvicina anche Giovanni. “Non credevo saresti riuscita a tanto. Brava. Hai la mia sincera ammirazione”, e mi tende la mano. Gliela stringo e lo ringrazio: “Una parte del successo lo devo a te”, vorrei aggiungere che da lui mi sarei aspettata un commento meno formale, un abbraccio. Ma come faccio, con tutta quella gente lì ad ascoltare. Corradi mi prende sottobraccio e chiede ai fotografi di immortalarci così, con accanto Alì e dietro la catena umana. 359


“Questa foto me la mandate” poi, rivolto a me: “Voglio averla nel mio ufficio, fra le cose a cui tengo, i ricordi più belli. Accanto alle altre foto che già conosci”. “Non ce l’avrei fatta senza di te”. “Nessuno ce la fa da solo, ma molti non ce la fanno neanche con una spinta formidabile. A proposito, corri a lavarti la faccia e mettiti in ordine, così sporca e sanguinante sembra che tu sia stata in Iraq e non a Prato. Viene perfino Eugenio per la conferenza stampa”. “Proprio lui, che ci ha ostacolato in ogni modo, anche subdolamente”. “È il segretario di Sinistra Unita. Ci è ostile, perciò la nostra sconfitta sarebbe stata un suo successo. Ma è il capo, perciò ogni nostro successo è un suo successo. La sua presenza è un riconoscimento importante, non si scomoderebbe per una cosa da poco. Comunque da oggi non potrà prescindere da te”. Anche l’ultima cosa da fare è stata fatta, le donne hanno organizzato il cambio per garantire il presidio nella notte e tutto è tranquillo. Alì resterà con loro: vuole esserci perché è un’occasione storica. E vuole esserci per garantirsi che tutto vada per il verso giusto fino alla fine. Qualche giornalista gira cercando curiosità e retroscena, come se la cronaca della giornata non fosse già abbastanza ricca da riempire paginate. Ma non me ne curo: in altri momenti ne sarei infastidita, ora sono stanchissima, la tensione è calata e sento tutto il peso delle ultime settimane, delle ultime ore. Il successo non basta a cancellare amarissime considerazioni: per un pelo la politica figlia dell’intrigo e del potere personale non portava al 360


disastro l’iniziativa e con essa centinaia di persone. Il loro destino è indifferente sia a Eugenio sia a Pieri, interessati solo al potere e al consenso. E i giornali, che potrebbero scrivere tutto, preferiscono parlare di insignificanti pettegolezzi di palazzo o cercare dettagli sui vestiti delle manifestanti. Dovrei sentirmi al settimo cielo, invece oscillo fra malinconia e rimpianto. Rimpianto per tutte le cose alle quali ho rinunciato – a cominciare da una vita normale – per fare politica in mezzo a belve feroci che le levano significato. Malinconia perché la politica sia pur popolata di cattivi, è il mio sogno, e non ne ho uno di ricambio. E senza un sogno non è vivere. L’obiettivo delle mie giornate non può essere alzarsi e mangiare, mangiare e andare a letto e in mezzo lavorare. O forse è giunto il momento di smettere di sognare una politica che non esiste e non esisterà mai. Decido d’impulso: partirò senza partecipare alla conferenza stampa. Se vedo Eugenio arringare i giornalisti come se l’idea fosse sua, come se avesse fatto di tutto per garantirne il successo, sono quasi sicura di vomitargli addosso. Se vedo Giustina idem. Se vedo Anna Laura non sono certa di mantenere il controllo: non mi ha fatto nulla, ma appartiene allo stesso mondo del segretario, lo sento a pelle. Confido nella doccia, che l’acqua faccia scivolare via sporcizia e tensione insieme. E mi restituisca un umore migliore. Ma non funziona: la tensione in effetti mi abbandona però mi lascia addosso una lucida freddezza. Guardo le 361


cose dall’esterno, come se non mi riguardassero. Se la politica è quella degli opportunisti, dei banditi, degli intriganti, allora non fa per me. O forse io non sono adatta alla politica. Tornerò a Roma e poi deciderò se dare un addio a Sinistra Unita, alla politica tutta, alla vita attuale. Sì, meglio dare un taglio a tutto che dover sdoppiare la propria personalità per sopravvivere in quel mondo. Ho bisogno di una voce buona e normale. “Ciao papà, hai sentito le novità?” “Certo. Faccio ancora l’idraulico di tanto in tanto, l’hai dimenticato? Come tutti gli artigiani ascolto molto la radio. Sei una specie di eroina. Sei stata davvero brava figlia mia. Sono fiero di te. Avrei voluto dirtelo subito, ma ho avuto paura di disturbare, ho pensato che fossi impegnata a goderti il tuo successo... Che hai, ti sento una voce che non mi piace...” “Se questo è il successo... se lo stanno godendo il segretario e i suoi camerieri, dopo avermi messo i bastoni fra le ruote, ora sembra che sia tutto merito loro”. “Sono sempre stati dei pezzi di merda, mica lo scopri adesso”. “Invece sì, sapevo che erano spregiudicati ma non immaginavo fino a che punto... e ora, ecco, sono delusa. Ascoltando te e la mamma pensavo che la politica fosse un’altra cosa. Mai avrei pensato che il mio impegno principale fosse difendermi dagli amici. Mi sa che questa vita non fa per me”. “Non vorrai dargliela vinta! Ricordati: sono loro inadeguati. Non mollare”. “E come si fa, sono circondata, mi sembra di non avere intorno nessuna persona normale”. 362


“Ora sei stanca e amareggiata. Come padre dovrei consigliarti di lasciare perdere tutto e fare una vita più tranquilla. Ma ti conosco abbastanza per sapere che senza la politica non camperesti bene. D’altronde è una malattia di famiglia: ce l’aveva tua madre e ce l’avevo io... Ascoltami, rifletti prima di fare qualunque scelta. Per compiere un gesto ci vuole un attimo, per pentirsene a volte non basta una vita intera. Se lasci un vuoto ci sarà subito qualcuno che non vede l’ora di riempirlo. Magari uno che vale la metà rispetto a te”. “Ci penserò, ti abbraccio forte. Appena sono a casa ti chiamo. A proposito, tanti saluti da Cornero. Quante me ne ha raccontate sul tuo conto...” “Non farci caso, i vecchi quando parlano della loro gioventù esagerano. E lui è sempre stato un chiacchierone. Comportati bene”. “L’ho trovata una storia bellissima... tu e la mamma... ti invidio papà”. “Non invidiarmi. Sei sempre in tempo a vivere un grande amore, basta volerlo. Devi solo liberarti”. “Da cosa?” “Dalla paura di amare. Non essere tirchia con te stessa. Ciao”. Ancora in accappatoio mi butto sul letto e chiudo gli occhi. È successo tutto talmente in fretta che ho addirittura difficoltà a mettere in ordine i ricordi della giornata... Amina, le sue parole e il suo canto, il tocco della sua mano... l’inaspettato aiuto di Giovanni... la bellezza e la forza delle donne tutte insieme... la cattiveria e gli intrighi... 363


Il suono di un sms mi riporta alla realtà. “È arrivato il momento di parlare del primo motivo. Quando posso vederti? Giovanni”. Vorrei rispondergli: “Subito”. Ma adesso non ho la forza di fronteggiare un uomo tanto complicato e volubile. Adesso mi vestirò e farò i bagagli. Gli risponderò più tardi. Tanto sto partendo, anche volendo non potremmo incontrarci oggi. Passo al partito per salutare Corradi e dirgli che me ne vado. Ma è troppo tardi, sono già tutti alla conferenza stampa. C’è Sinistra Unita al gran completo a raccogliere gli allori. Resto in fondo alla sala per un colpo d’occhio. Pieri, in prima fila. Il segretario provinciale sorride a tutti, come se fosse al settimo cielo. Lotti come sempre è un po’ defilato. Eugenio parla amabilmente con i giornalisti, raccontando dettagli di una manifestazione che non ha neanche visto. Dulcis in fundo, ecco Giustina, con l’atteggiamento della matrona che contrasta con il vestituccio da piccola borghese, e un mucchio di carte in mano che fa tanto grande dirigente che non ha avuto un attimo per leggere i giornali e i documenti. Saluta i giornalisti, va a sedersi alla presidenza e concede un’intervista alla tv locale prima dell’inizio. Il tg non può attendere. “Oggi è un gran giorno. Oggi avete avuto la prova che grazie alle donne la politica diventerà luminosa, trasparente come un palazzo di cristallo”. Parla di me e non mi nomina mai: ignobile opportunista. In quel momento arriva un messaggio di Lorenzo: “Brava, brava, brava! Siamo forti”. A suo modo il verme si è riscattato. Devo dire a Marco di non chiamarlo più verme. 364


Ecco la Proietti, ora il teatrino è al completo: è in ghingheri come se dovesse andare a un party dalla sua amica Poli. Sempre overdressed, come dicono gli inglesi, una bella donna troppo vestita, troppo pettinata, troppo truccata. Insomma, troppo. Anche troppo chiacchierona. In questo momento racconta pure a chi non lo vuole sapere che la prima a scrivere della catena umana è stata lei, quasi che il merito della riuscita fosse il suo. I colleghi la scansano in velocità, sono abituati alle sue performance e sanno difendersi. Ma un po’ di pubblico non le manca: la sua scollatura vertiginosa è di per sé un buon motivo per alcuni maschi, che la stanno a sentire con apparente interesse. Compreso Eugenio, che le si è avvicinato inserendosi nel capannello, la prende sottobraccio e le parla con voce alta e gran sussiego, per attrarre l’attenzione del maggior numero possibile di presenti. “Carissima Anna Laura, finalmente ci incontriamo! Dobbiamo al tuo scoop l’esito positivo della manifestazione, hai suscitato tanta curiosità in un momento in cui nessuno sapeva dell’esistenza del progetto. Ho apprezzato moltissimo l’acume, l’intuito, l’intelligenza politica e la capacità di analisi, ma ora che ti conosco di persona apprezzo anche il resto”, e le guarda con insistenza il seno generosamente offerto allo sguardo. “So che sei molto amica di Giustina, le tirerò le orecchie per avermi tenuto nascosto un gioiello prezioso come te. Brava e bella. Avremo modo di recuperare il tempo perduto spero”. Abbassando un po’ la voce aggiunge: “Stasera vieni a cena con me? Al telefono me l’hai promesso e ora che ti ho conosciuta non tollererò un rifiuto”. “Per te mi libero volentieri. Ci sarà anche tua moglie?” 365


“Mara è a Roma, io viaggio da solo, ma non amo la solitudine”. Ed ecco puntuale lo scambio di biglietti, con una piccola aggiunta a mano: il numero di cellulare è indispensabile per il primo appuntamento. “Se l’avessi perduto...”, Eugenio quando vuole non lascia nulla al caso. Per lui conquistare la redattrice di un giornale importante è la differenza fra avere o no una quinta colonna in territorio nemico. Per Anna Laura invece potrebbe essere una buona tappa di avvicinamento al successo. Un segretario di partito aiuta sempre. Ora che Giovanni l’ha delusa, ha progetti ambiziosi: meno amore e più carriera. Per quanto scruti fra gruppi e gruppetti non vedo Giovanni nella folla di giornalisti che si accalca nella sala della federazione. Gli devo molto: il suo intervento è arrivato a proposito, nel momento più delicato e decisivo. Nel momento in cui stavo per arrendermi. Ora si è eclissato... non aver ricevuto risposta all’sms l’avrà fatto infuriare. Magari si starà consolando con Lorena. Domani lo chiamerò per ringraziarlo... non è opportuno rompere i rapporti con un giornalista. Purché non pensi di essere stato perdonato, quello proprio no. Me ne vado, non saluto nessuno e nessuno si accorge di me. Di fronte al grumo di potere che siede al tavolo della presidenza la mia gloria è già dimenticata. Per i giornalisti il potere è irresistibile. Il telefono suona ripetutamente. Non ho voglia di rispondere. Qualunque conversazione sarebbe troppo impegnativa in questo momento. E poi è numero privato, non immagino chi possa chiamare, visto che Corradi è lì seduto accanto a Eugenio e sta parlando al telefono. 366


Sul treno guardo il paesaggio, ma non lo vedo e il ritmo regolare della carrozza mi fa addormentare. Mi sveglia di soprassalto un sussurro nell’orecchio. “Perché non sei a raccogliere i tuoi allori?” Giovanni, sta tornando anche lui a Roma, e mi si siede accanto. “Come mai non sei alla conferenza stampa e come mai non hai risposto al telefono?” Mezza stordita dal sonno interrotto rispondo con sincerità: “Sono stanchissima e demotivata. Credo non valga la pena fare nulla né parlare con nessuno”. “Neanche con me? Mi devi una spiegazione. Non sono abituato a farmi scaricare prima ancora di essere preso a bordo. E non sono abituato a essere trattato come un pacco che si prende e si lascia secondo i comodi e gli umori del momento”. Rido della sua concitazione e dopo un secondo ride pure lui. “Veramente non volevo disturbarti: Anna Laura mi ha detto che eri molto impegnato con Lorena Poli. Io non posso competere con una super-donna di quel genere”. “Allora è per questo! Anna Laura non si fa mai gli affari suoi. Lorena non è niente per me”. “Un pezzo della tua collezione: prima le intervisti poi le porti a letto. Peccato che con me non ne hai avuto il tempo, ti manca una tacca”. “Senti, accetto che la cosa possa essere mal interpretata e ti abbia contrariato, ma ti prego: non usare questo tono acido, non dire cose stupide e rifletti sul fatto che mi hai già abbastanza maltrattato. E smetti di atteggiarti a censore. Non ho mai detto di essere un santo, mai giurato astinenza. 367


Sono un uomo normale a cui può capitare una scopata ogni tanto. Ma con la Poli nulla più di così. Con te sarebbe stato diverso. Se solo ne avessi avuto l’occasione. Se tu non fossi sempre circondata di gente, oppure respingente, come adesso”. Arrossisco al pensiero di quella sera, senza Giulio fra i piedi... magari avrei fatto un grande errore. O magari no. “Chi mi garantisce...” “Io. Stai con me e ti giuro che non vedrai nessun’altra intorno”. “Cos’è una proposta?” “Naturalmente. Cosa devo dire per farmi capire. Sei una donna talmente strana e a volte feroce che mi aspetto di tutto...” “Non pensare questo di me, te ne prego. Abbi pietà: le ultime settimane sono state un peso incredibile. Ho imparato troppo, e forse quello che ho imparato non mi piace. Forse la politica non mi interessa. Comunque ho bisogno di un po’ di vuoto. Tempo per pensare. Per parlare con la signora Rosalba dei fiori, con la verduraia del mercatino sotto casa. Poi ti chiamo, lo giuro. Anch’io sono felice quando ti vedo, ti parlo, ti ho accanto. Ma non sono la donna di una sera. Ho bisogno di un rapporto solido”. “Se fossi venuta da me quella sera non avremmo sprecato tanto tempo in inutili guerriglie. Dimmi solo se l’hai fatto apposta o sei stata realmente trattenuta”. “Corradi non smetteva di parlare, ero in una situazione tale che mi sembrava impossibile alzarmi e andare via. Credi, è dispiaciuto anche a me. Per tutto il tempo ho pensato a quanto sarebbe stato bello passare la serata con te”. 368


“Anch’io ti ho pensata per ore. Pensavo ai tuoi occhi, alle tue mani. Poi mi dicevo che la cosa più bella che hai è il seno. Poi, non so perché, pensavo al tuo ombelico, che immagino piccolo tondo e ben definito. Poi ci ripensavo e mi dicevo che la cosa più bella di te è la tua testa, la nuca, la fronte ampia e tutto ciò che contiene. Poi ho capito che non saresti più venuta e avrei voluto ucciderti. Comunque, alla fine ho stabilito qual è la cosa più brutta che hai”. “Quale?” “Il carattere, mai conosciuto uno peggiore”. Ci sorridiamo finalmente zitti. Il viaggio passa in fretta, seduti uno accanto all’altra in completo silenzio: un silenzio buono, senza astio o reticenze. Siamo in stazione. Scendiamo insieme, lui m’aiuta con le mille carte, vorrei salutarlo dandogli la mano, ma non ho mani libere. Mi accosto per i due classici baci sulle guance. “Non così”, mi dice, e davanti a centinaia di persone alla stazione Termini mi stringe fra le sue braccia e mi bacia con passione. Non mi sottraggo, ma non partecipo troppo. Non riesco a lasciare spazio alle emozioni con la confusione che ho in testa. Si scosta: “Voglio una spiegazione a questo gelo”. “Te l’ho detto. Non ho rapporti di plastica con le persone, io. Non mi bastano pochi rapidi scambi”. “Non è quello che cerco da te. Perciò voglio tre ore tutte e solo per me. Per farti capire chi sono. Per conoscerci”. Nicchio, poi accetto, ho bisogno di tempo anch’io. “Ok, stasera vieni da me. Ti consento di entrare in casa mia, e sei il primo uomo, a parte mio padre e Marco. Non farmene pentire”. 369


Il taxi mi lascia al partito, poso le carte in ufficio e poi, il resto del bagaglio è leggero, decido per una passeggiata in centro: come mi è mancata Roma, la sua bellezza, la sua sciatteria. La sua cialtroneria. La confusione. La battuta caustica sempre pronta. La generosità. Camminando arrivo alla scalinata di piazza di Spagna: c’è un predicatore che tenta di parlare a tutti i passanti, ma quasi nessuno vuol parlare con lui. Sarà un matto. A me piacciono i matti e mi piace la scalinata. Perciò mi fermo e mi siedo. Lo osservo da dietro, il frate si gira. Ha davvero lo sguardo di un invasato. “Ti regalo un consiglio”. “In cambio vuoi la mia anima?” “E che me ne faccio? No, cerco solo di regalare a ciascuno un po’ di equilibrio, perché facendo pulizia nella nostra anima la prepariamo all’incontro con Dio”. “Quale dio?” “Qualunque dio”. “Anche uno che non conosco?” “Sì, anche quello”. “E qual è il tuo consiglio?” “Non cercare soluzioni improbabili. Sii consapevole di te e della tua fortuna, di quello che realmente vuoi”. “Io non voglio niente”. “Non è vero. Inganni te stessa. Tu vuoi tutto, ma tutto non lo puoi avere, scegli e ogni scelta è una conquista e un sacrificio. Scegli, non restare in mezzo al guado”. “Sono troppo stanca e pigra, non ce la faccio a scegliere”. “Stai in ascolto, la tua anima ti parlerà. Ma per ascoltare fermati”. 370


Il tipo è matto, ma quello che dice lo penso anche io, devo assecondare la mia pigrizia e rinunciare alla lotta. Questa vita mi lascia in bocca un disgusto e una nausea forte. Domani chiamerò Corradi e gli darò l’annuncio per primo. Scelga un altro candidato. Io mollo. Prima di diventare come Eugenio. Prima di diventare come Giustina. Lupi fra i lupi. La coerenza, il desiderio di fare bene, di essere utili alla collettività non si possono conciliare con l’attivismo frenetico, l’inseguimento della visibilità e del potere. Mi guarderò intorno, troverò un lavoro che mi piace e un uomo che mi piace. Tutto senza complicazioni. Forse è meglio disdire l’appuntamento con Giovanni. Lui fa parte del mondo che voglio lasciarmi alle spalle. Imbarcarsi in una storia con lui significherebbe continuare la vita che voglio abbandonare. Glielo dirò al telefono o di persona stasera? Meglio farlo subito. Appena arrivo a casa.

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XXIV

...e mentre passa il vento o in alto o un’aquila si desta e carica di voci, luci è tutta la foresta la notte passa il cielo è rosso di mattino finisce questa gara incominciata dal destino. La stella allora si dichiara spenta e muore ed ora è un pugno di cenere il suo splendore. (Roversi/Dalla)

“Ciao siniora, oggi mi dai iuro?” “Irina, ma certo”. Frugo nel borsellino alla ricerca di una moneta da due euro, mi sento vagamente in colpa verso la ragazza per la decisione che ho appena preso. La politica non c’entra nulla con la carità di pochi spiccioli, ma dovrebbe portare equità nel mondo, ed eccole qui la giustizia e l’equità, una ragazzina costretta a mendicare. Alzo gli occhi su di lei e non riesco a sorriderle. “Ma che ti è successo? Chi è stato?”. La ragazza è più magra che mai, ha il solito segno all’angolo della bocca, ma stavolta è una vera ferita. “Dimmelo, ti aiuterò”. 372


“Tu mi porti a polizia e loro fa tante domande e poi non succede nulla e tutto continua peggio”. “No, ti prometto che troverò per te una buona soluzione”. Allora Irina scoppia a piangere e racconta in modo sconnesso. “Lui tutte le sere prende soldi mia e conta, poi esce e beve tanto tanto vino. Quando a casa ubriaco, apre pantaloni, tocca mio petto e lui diventa duro e molto grande. Allora mette in bocca a me e spinge, spinge, spinge fino a che esce liquido bianco. Fa male e soffoca. E io piango piano se no lui mena. E ieri piango di più forte perché lui chiama figli bambini, e ordina di stai lì e guarda bene, che quando grandi fa anche loro se non vende me prima a uno che vuole vergine. Io piango e lui picchia e picchia, perché se piango non piace. Tu no brava dice, tu puttana vali poco dice e dà schiaffo forte e apre me bocca, quasi strappa denti e infila dentro suo enorme. Io vergogna e schifo, in bocca sempre quel sapore, e se mangia io vomita”. Il pianto della ragazza ora è irrefrenabile, come di un argine rotto. Misuro la mia impotenza. Ho poco tempo, e non so che fare, ma devo decidermi prima che Irina se ne accorga e non abbia più fiducia in me. “Vieni con me, a casa mia”. Lei si asciuga gli occhi con la manica sporca e logora e mi guarda, poi decide che può fidarsi. Ha la mia spilletta sul risvolto della camicetta. La tocca. Si alza in piedi: “Io va con te”. Con un gesto infantile si aggrappa con la mano destra alla mia maglietta, quasi abbia paura che io svanisca. Ma non c’è pericolo, ora questo è il mio compito: salvare la 373


ragazza e ricompensarla del male che ha subito. Non so come, ma so che lo farò. Arrivata a casa telefono a Lorenzo, mentre Irina si affloscia sul mio divano. “Aiutami, Marco è sparito e io da qui non posso fare mille telefonate perché devo badare a Irina”. “Irina chi?” “Poi ti spiego tutto, intanto per favore, ti prego, fammi sapere al più presto di una di quelle case sicure per ragazze che hanno subito violenza. Guarda che è un caso molto grave”. “Ma non puoi portarla alla polizia, ai servizi sociali?” “Se non l’ho fatto un motivo ci sarà. Smettila di discutere e fa’ quello che ti chiedo, mi hai detto che siamo una squadra o no? Se non posso contare su di te quando ho urgente bisogno... O tramite il partito, oppure usa una delle tue infinite relazioni”. “Va bene, va bene, non prenderla così. Ora provvedo. Per te, tutto”. Irina sembra un sacco vuoto, non ce la fa neanche a lavarsi da sola. Le do dei panni puliti, la pettino, ha un’aria totalmente diversa, sembra molto più giovane. E c’è un barlume di speranza in quei magnifici occhi. Si sono fatte le otto prima che me ne rendessi conto. Suona il citofono, è Giovanni, con un pacchetto in mano. Lo faccio salire e cerco di preparare mentalmente un discorsetto per lui, ma il cervello non corre veloce come al solito: è stata una giornata troppo difficile. È alla porta prima che io abbia imbastito alcunché. Avrà fatto le scale di corsa. Bussa con insistenza. Irina ha uno sguardo allarmato, la rassicuro: “È un amico” e apro. 374


“Ho portato da mangiare”. “Sei in anticipo”. “Tu sei in ritardo e, come sempre quando devi stare con me, in compagnia”, indica Irina sul divano. Gli faccio segno di tacere, non voglio che ci senta e pensi di essere sgradita. “Niente serata romantica. C’è un’emergenza. Anzi devi aiutarmi”. Gli spiego quel poco che so della ragazza e della sua terribile situazione, e che Lorenzo sta cercando per lei un rifugio. Al nome di Lorenzo si irrigidisce, vedo che vorrebbe chiedere, ma capisce da solo che non è il momento giusto. Passiamo la serata a mangiare e chiacchierare come vecchi amici. Dopo l’iniziale difficoltà Irina parla a lungo del suo paese, della sua famiglia, del rapimento, del ricatto, della violenza, del terrore. È proprio disperata e poi ci guarda speranzosa. E poi pensa ai genitori in pericolo e piange di nuovo. Giovanni l’ascolta con grande attenzione e a un certo punto prende appunti e le promette: “Cercherò i tuoi parenti e capirò se ti hanno rapito oppure...” Non gli lascio concludere la frase, non voglio che insinui in lei dei sospetti sulla sua famiglia, è già abbastanza disperata. Un po’ per sviare il discorso, un po’ perché mi sembra una buona idea: “Fanne una grande inchiesta”, lo incoraggio, “fallo per tutte quelle come Irina”. Giovanni è dubbioso: “È una storia talmente drammatica che nessuno la crederà del tutto vera. Penseranno che ho lavorato di fantasia”. Irina fa capire che se Giovanni vuole registrarla, lei la ripeterà per lui. Ma il giornalista scuote la testa. 375


“Non stasera, non me la sento di farti ripetere. Prenderò altre informazioni, chiamerò il nostro corrispondente. Andrò a fondo e poi dovranno darmi retta. Intitolerò l’inchiesta: Le schiave dei nostri giorni. E tu Irina, quando starai meglio parleremo ancora e mi farai conoscere qualche altra ragazza. Luisa le aiuterà ad andare nella casa sicura...” Irina: “Voi me salva io cosa può fare per te?” “Tu... mi aiuterai a diventare famoso e salvarmi da un futuro di... manovrato speciale”. Non riesco a risparmiargli la battuta: “Allora lo ammetti”. “Non mi piace riconoscerlo, ma questo mestiere è diventato una trappola per topi”. È onesto da parte sua riconoscerlo. È una persona perbene, ma ancora una volta affondo il coltello: “Appena conosciuti mi hai detto che è il mestiere più bello del mondo”. “In teoria sì, ma in pratica sempre più siamo burattini mossi da un burattinaio di volta in volta diverso”. “Che tristezza, siamo arrivati alla stessa conclusione. Neanche la politica è il mestiere più bello del mondo. Piuttosto è il luogo della mediocrità, dell’intrigo, del potere fine a se stesso. Che peccato. Che delusione. Ho idea di aver buttato il mio tempo”. Irina non capisce tutto, in particolare non sa cosa voglia dire Giovanni, ma ha capito che è una persona buona, che le farà del bene. Crolla addormentata sul divano, e nel sonno sorride. Sorride anche Giovanni: “Ora potremo parlare un po’ di noi”. “Ho esaurito le mie forze fisiche e psichiche. Non sono tanto lucida da parlare seriamente. Né tanto rilassata da lasciarmi andare. Ma non ti ringrazierò mai abbastanza per 376


questa serata e per come mi hai aiutato con Irina. Mi correggo, per come mi hai aiutato nelle occasioni più complicate. Non dimenticherò mai quello che hai fatto a Prato”. Quasi lo spingo verso l’uscita. Giovanni sorride. “C’è sempre qualcosa in mezzo a noi, se non è un rompipalle come Giulio è un caso umano gravissimo come Irina. Se non l’avessi conosciuta e ascoltata direi che lo fai apposta. Ma se prometti che il nostro appuntamento è solo rinviato di ventiquattr’ore, ti confesso il primo dei motivi per cui ero a via Soriano quel giorno”. “Mi prendi per curiosità: prometto”. “Mi scoccia enormemente che il tuo impegno sociale o politico venga sempre prima di me, ma sento di amarti anche per questo tuo modo di essere. Assurda e generosa”. “Hai appena detto di amarmi”. “Sì e te lo confermo. E tu non hai niente da dirmi?” No, in effetti non ho niente da dirgli in questo momento e non rispondo, ma ho voglia di baciarlo, per la prima volta, a lungo. Quando ci separiamo Giovanni ci prova: “Allora è un sì, allora posso restare”. Mi scosto garbatamente e lo saluto con la mano. “È solo un bacio”, e lo lascio con mille dubbi. “A domani, stessa ora, stesso posto”. Se ne va senza voltarsi indietro. Sì, a domani. Dovrò trovare la forza di dirgli che la storia non può andare avanti: nella mia nuova vita non c’è spazio per un uomo come lui, ma mi piacerebbe restargli amica. C’è voluta tutta la giornata per sistemare Irina in un posto sicuro. L’ho accompagnata e mi sono fermata un po’ con lei 377


per farle sentire che non l’abbandono, che può contare su di me. Perciò arrivo a casa tardi anche oggi. Giovanni è già lì, col solito pacchettino di cibo. “Sei sempre in anticipo”. “Non volevo darti il tempo di ripensarci. Ho passato la giornata nel timore che chiamassi per disdire. Oggi non vedo la solita folla. Non dirmi che siamo davvero soli!” “Invece sì”, scherzo, “non ho trovato nessuno da raccogliere per strada” e aggiungo più seria: “È stato un bene aver rimandato di un giorno: ho avuto la possibilità di riflettere”. “Su noi due?” “Anche”. “Parlamene”. “Non ora. Ho bisogno di una doccia, stare in mezzo a tanta infelicità mi ha levato le energie, ma faccio presto. E poi abbiamo tutta la sera per parlare”. “Fai con comodo. Ti aspetto”. Ma non aspetta. La casa è molto piccola, il rumore dell’acqua gli fa da calamita. Si leva le scarpe, e vestito com’è mi raggiunge e si infila nella doccia. La sorpresa dura un attimo, mi sento subito avvolta da un doppio benessere. Quello dell’acqua, il mio elemento, la mia cura contro il malumore. E quello delle braccia di Giovanni delicato e forte, che si stringe addosso a me senza muoversi, quasi chiedendo permesso. Un tiepido vapore ci avvolge e sento il desiderio di lui, che corrisponde al mio. “Mi fanno male i tuoi jeans, levateli se vuoi stare qui con me”. Ma i jeans bagnati sono una cintura di castità. 378


Scoppio a ridere per questa scena da film americano mal riuscito: “Di solito a questo punto i vestiti degli attori volano via in men che non si dica. I tuoi invece sono incollati come... come una seconda pelle. Ammettilo sei un disastro!” Lo guardo preoccupata di averlo nuovamente offeso. Per fortuna non se la prende e ride anche lui della situazione e del suo stesso impaccio: “Mai girato un filmaccio prima d’ora. Mi sa che non sono portato”. Quando finalmente riesce a liberarsi il contatto con la pelle è elettrizzante. Per me il corpo di Giovanni è familiare, nonostante sia la prima volta che stiamo insieme. Si adatta al mio, con una muscolatura forte tonica e allungata, bello. Facciamo l’amore con grande soddisfazione reciproca. Forse è la prima volta in vita mia che provo tanto benessere, dopo. Mi vesto per prima. Lui indossa un accappatoio, aspettando che il caldo estivo faccia il suo lavoro sui suoi abiti. È tenero con me. Mi abbraccia ancora. Mi dice ancora ti amo. Mi dice che gli piace il mio seno che ha la forma tonda e larga. E gli piace la mia leggera pancetta, come quella di Paolina Borghese nella famosa statua del Canova. Una donna magra e morbida al tempo stesso. E a me piace sentirglielo dire. Ci sediamo a mangiare. Parliamo di un sacco di sciocchezze in modo leggero. È una serata ideale, mi spiace rovinarla, ma ormai non posso più rinviare il problema. Lo faccio sedere davanti a me. Cerco di non toccarlo: se lo facessi il contatto mi farebbe cambiare idea e sarebbe uno sbaglio: “Mi piaci moltissi379


mo, e l’hai capito bene stasera. Ma sto cercando di dare una sterzata alla mia vita. Di fare delle scelte impegnative. Non me la sento di impegnarmi con te”. “Mi hai già fatto aspettare moltissimo. E stasera... non puoi giocare con i miei sentimenti”. Ho una reazione assurda di quelle da disturbata che appena mi escono già sono pentita, ma non riesco a frenarmi: “Certo, tu solo puoi giocare con i sentimenti degli altri, puoi fare l’amore con un’altra e sparire, o fare promesse e sparire”. “Ho sempre aspettato te. Che ti decidessi a dirmi di sì”. “Oh, ma io stavo tranquilla, sapevo che eri in buona compagnia mentre mi aspettavi”. “Ti ho già detto che con la Poli non c’è stato nulla, a parte un invito che non potevo rifiutare”. “Figuriamoci a certi inviti il maschio latino non dice di no. E poi, chi sono io per condizionarti: per me sei libero di andare con chi vuoi”. “Per me invece no. Stai con me e basta, finché dura non vai con nessun altro”. “Questa non è la mia regola”. “Ma è la mia. Sulle regole dobbiamo metterci d’accordo se vogliamo stare insieme”. “Appunto. Chi ha deciso che vogliamo stare insieme?” “Noi, adesso. Non si fa l’amore come l’abbiamo appena fatto se non si hanno intenzioni serie”. “Non ci siamo sposati” e aggiungo: “Comunque ci penserò”. “Non credevo che tu fossi quel tipo di donna da una botta e via, hai sempre detto il contrario, ma se devi ancora pensarci...”, indossa i vestiti ancora molto umidi, è offeso e se ne va sbattendo la porta. 380


Vorrei corrergli appresso, ma forse è meglio fargli sbollire la rabbia. Chissà come mi è venuta quella raffica infelice di battute... avrò tempo domani per chiarire con lui. Suona il citofono, forse ci ha ripensato. Gli apro senza neanche chiedere chi è. “Ho incontrato l’Orlando furioso all’uscita di casa tua. Era umido e stropicciato. E mi ha ucciso con gli occhi. L’ho salutato e mi ha risposto col tono più antipatico: adesso è tutto chiaro. Cosa mi sono perso?” “Lorenzo? Tu qui a quest’ora?” “Volevo festeggiare con te il salvataggio avvenuto. Volevo essere adeguatamente ringraziato”. Sorrido e gli dico: “Grazie a nome di Irina e di tutte le donne abusate. E ora vattene, non mi reggo più in piedi”. “Certe cose a me vengono benissimo da sdraiato, dunque non ti preoccupare”. “Lorenzo possibile che non capisci, non ho più energia, neanche per dirti di no. Ti prego vattene, fammi riposare un po’”. “Domani però?” “Va bene a domani, parleremo finché vuoi”. Prima di uscire mi abbraccia e mi giura: “Un bacio e ti lascio in pace fino a domani”. Gli do un leggero bacio sulla bocca per liberarmene. E lo spingo fuori. Sperando che le complicazioni siano finite per stasera. Giovanni, Lorenzo e naturalmente Corradi. A tutti devo un chiarimento. Tanto vale pensarci domani, ora voglio solo sprofondare nel sonno. Invece, come se l’avessi chiamata arriva la telefonata, numero privato. “Dov’eri, perché non sei rimasta alla conferenza stampa e non mi hai avvertito? A un certo punto sei sparita, ti ho 381


cercato al telefono e non hai risposto, che modo è di comportarsi”. “Io volevo il risultato più di ogni cosa. Altri volevano il merito. Ci siamo divisi i compiti. Ognuno ha avuto quello che più fortemente voleva”. “E alla tua carriera, non ci pensi?” “Anzi, è la cosa a cui più intensamente ho pensato tutt’oggi. Volevo giusto parlartene”. “Ti aspetto domani alle dodici”. “A domani allora”. “A domani”. L’indomani camminando cerco le parole per dire addio al partito. Non sarà facile con il maestro. Lui però m’accoglie con cordialità, confidenza e sembra addirittura per la prima volta con una certa tenerezza. “Come ti ho già detto sei stata molto brava, sono fiero di te”. “Me l’ha detto anche mio padre”. “Il buon Alunni... che carattere, hai preso da lui di certo, ma chi ha carattere di solito ha un cattivo carattere. E quello serve per sopravvivere”. Il complimento mi spiazza. Non so come comunicargli la decisione, che ora mi sembra quasi un tradimento. Ma non ne ho il tempo perché Corradi parla a lungo. “Dovrei essere in collera con te. Andartene senza un preavviso, lasciando campo libero ai nostri avversari. Un errore madornale. Il secondo da quando abbiamo iniziato a collaborare. Tuttavia capisco... Io sono vecchio, eppure non getto la spugna. Sono stato tante volte battuto, ma tutti mi pensano vincitore. Ora ho puntato su di te. Non voglio chiudere la mia carriera con una sconfitta. La politica non 382


è quella che vediamo da vicino. È quella che si vede da lontano. Uno per uno siamo tutti piccoli uomini, un ammasso enorme di difetti personali. Nel complesso però siamo importanti e determiniamo i destini della gente. Se non vuoi che i mediocri abbiano la meglio, non puoi tirarti indietro”. Come sempre ha capito prima che io parli. “Non voglio sapere nulla ora, tu invece devi sapere che un vecchio uomo che è anche un vecchio politico ti sta chiedendo aiuto. C’è una novità. Mi hanno proposto di fare il segretario del partito per un po’. Una sorta di reggenza, per il tempo che occorre a selezionare una nuova classe dirigente. I compagni non ne possono più dell’opportunismo di Eugenio e della sua banalità. Della sua pochezza. Del suo familismo. Se accetto, al congresso dovrebbe esserci unanimità sul mio nome e una mozione unica, una sorta di governo unitario del partito che porti alla rifondazione. Alla rigenerazione. Ma io non accetterò, se tu non sarai accanto a me come portavoce. Ho bisogno del tuo entusiasmo e delle tue capacità, del tuo caratteraccio e della tua ingenuità”. “Per manovrarmi come un bravo soldatino”. “Per evitare che le sorti del nostro partito siano in mano ai vecchi come me o a quelli che non hanno nessuna nobiltà, nessuna grandezza, come Eugenio. Prenditi ventiquattr’ore per pensarci”. “Ma la mia vita...” “La vita non è un lungo fiume tranquillo, è un insieme di sforzi per raggiungere equilibri successivi e più avanzati. L’acqua a volte sembra quasi stagnante, a volte scorre veloce, forma rapide e cascate e noi dobbiamo superarle 383


per ottenere qualche raro momento di serenità o di felicità. È così per tutti, perché tu dovresti fare eccezione? Il mondo ideale non esiste”. “Forse non sono tagliata, io amo l’essenziale, il fare, non l’apparire”. “Questo è un tuo limite, col tempo imparerai a valorizzare quello che fai, a non lasciare troppo spazio agli altri, a indossare le medaglie che hai conquistato sul campo. Ma per andare alla sostanza, non essere vigliacca, mettiti in gioco. Non lasciare che il carattere prevalga sull’intelligenza. Se rinunci ora non te lo perdonerai mai. Quando i tuoi figli saranno grandi e ti saluteranno e non saranno a casa al tuo ritorno, e la tua casa sarà vuota, guarderai la tv come una casalinga frustrata, pensando a tutto quello che non hai fatto? Lo dico per te e lo dico anche per me, che in questo momento ho assoluto bisogno”. “Lo dici per cortesia”. “Non sono una persona cortese. Invece sono consapevole dei miei limiti. Credi che io sia autosufficiente? La politica è una virtù, o se preferisci un vizio collettivo, e una volta che ti è entrata nel sangue non puoi smettere, a meno di rimpiangerla per tutta la vita. Ora ti saluto, tutto questo filosofeggiare mi mette di cattivo umore. Aspetto una tua telefonata domani mattina. Oggi non pensare più al lavoro, vai a farti una passeggiata, i capelli, un massaggio. Compra le tue famose scarpe, magari è venuto il momento di usarle. Vedi Mustacchi. Parlane con lui”. “Perché dovrei?” Corradi ride: “Se non lo sai tu. Questo non è un genere di cose che debba insegnarti io”. 384


“Va bene, accetto il consiglio, per oggi non lavorerò e non deciderò. Ne riparliamo domani”. Come sempre, la demagogia paga. Corradi m’ha rigirata ben bene. Ero venuta per dire un no e me ne vado senza averlo fatto. È vero, ho bisogno di tempo per ascoltarmi. Per camminare a piedi, e non pensare a niente per fare in modo che i pensieri si depositino, che lascino spazio a qualcosa di nuovo e più leggero. Un tempo vuoto di cose da fare. Un tempo solo per pensare. Ma non solo oggi. Non voglio buttarlo il mio tempo. Lo sento squagliarsi fra le mani e scivolare via. Corradi, è vecchio eppure ragiona come se avesse l’infinito davanti. Io no. Non riesco a prescindere dal futuro che immagino per me. Voglio il tempo per il pensiero. Per fare pace con me stessa. Mi pensavo pigra. Ero semplicemente combattuta fra un modo di vivere che sentivo ingiusto e l’unico lavoro che desiderassi veramente fare. Quel lavoro non è come me lo figuravo. Perciò sono a un bivio: da una parte una strada che conosco e di cui ormai conosco anche i limiti. Dall’altra l’ignoto. La vita vuota. Tutta da reinventare. Non so cosa sia peggio. Non ci sto a galleggiare nel nulla. Non ci sto. È bello passare al solito angolo e non vedere più Irina con la mano tesa. Ma di certo molto presto un’altra povera ragazza prenderà il suo posto. È sabato, prenderò dei fiori per godermeli domani: sarà il primo giorno di completo riposo dopo tanto tempo, e lo passerò in casa. Da quando c’è stato Giovanni la casa mi sembra più viva, come se per la prima volta fosse davvero 385


casa mia. Ci sono dei ricordi adesso. La volevo sterile come una sala operatoria per vivere il mio privato in anestesia e non rischiare di soffrire ancora. Invece ora è piena di lui in ogni angolo. Dei suoi occhi di liquirizia e del suo sorriso. Del lago scuro che diventano quando si arrabbia. Mi fermo da Rosalba per scambiare con lei quattro chiacchiere in libertà. La fioraia ha una novità: le rose di Fatì. “Le ho chiamate così perché me le ha portate dalla Tunisia un giovanotto tanto carino, eccolo che viene”. Hanno un colore veramente incredibile, un carminio intenso e screziato. Sono bellissime. Alzo gli occhi e incontro gli occhi di Fatì, che mi fissano in modo eccessivo. “Sono belle le mie rose, vero? Le ho portate perché l’ultima volta che sono stato qui a lavorare al mercato e scaricavo cassette la mattina, una signora mi chiedeva se da noi abbiamo i pomodori, se abbiamo i fiori... ma noi siamo dirimpettai, se vi affacciate dalla Sicilia ci potete salutare... e allora ecco, così tutti sapranno come sono belle e profumate le nostre rose”. Mi tende la mano e continua: “Io sono Fatì. Tu sei Luisa, ti ho visto sul giornale. Grazie per quello che hai fatto. Se posso darti una mano, conta su di me. Intanto prendi la mia rosa”. Ringrazio, con quello splendido fiore fra le mani. Un fiore come un segnale, la vita a volte li manda. Fatì ha detto in modo semplice e diretto quello che anche Corradi ha detto. Si fa politica con compagni di strada che a volte ci piacciono, altre volte no. L’importante è che alla fine sia utile. Chiamerò Giovanni, forse non proprio per chiedergli un consiglio, ma per farmi sentire, per dissipare il malumore 386


con cui ci siamo lasciati. Certo è difficile avere a che fare con un uomo tanto permaloso. Ogni parola rischia di essere uno scoglio su cui rompersi le ossa. Al giornale il telefono squilla a vuoto: non c’è, avrà preso riposo anche lui. Sarà solo o a consolarsi con qualcuna? Al pensiero della Poli sento una fitta: rabbia o gelosia? Non importa, ora non posso aprire un altro fronte con me stessa. Se non accetto di stare con lui non posso preoccuparmi se va con un’altra. E invece sì. Dove sarà? Il dubbio è presto risolto: mi sta chiamando dal cellulare. Non gli lascio il tempo di salutarmi: “Ti ho appena cercato al giornale. Ho bisogno di parlarti”. L’accoglienza non è delle migliori: “Lo credo: ho capito perché mi hai cacciato, aspettavi quel lumacone di Lorenzo. Certo la notte con lui sarà stata più divertente”. “Ho passato la notte da sola, ero troppo stanca per qualunque cosa, e Lorenzo se n’è andato immediatamente”. “Allora chi era quello che ti abbracciava e ti baciava? Vi ho visti dalla finestra”. “Un bacio amichevole e un abbraccio subito sciolto. Sembri geloso”. “Sono geloso”, confessa Giovanni. “Davvero pensi che dopo aver fatto l’amore con te mi sarei data a un altro round di sesso sfrenato? Per chi mi hai preso. E comunque guarda che non sopporto di essere controllata”. Attacco bruscamente il telefono: ha scelto il momento sbagliato per fare il possessivo. E io come sempre la risposta sbagliata: lo cercavo per far pace ed ecco cosa ho combinato.

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Sono già pentita, in fondo abbiamo fatto l’amore, non è proprio il primo che passa. Ma ha la capacità di irritarmi come nessuno. Cammino con la testa in aria e gli occhi in su nella speranza che mi venga in mente un modo di rimediare ed è così che vado praticamente a sbattergli addosso. Sì, per fortuna mi aspettava sotto casa. Prima che possa dirmi qualunque cosa e tornare a incasinarci mi scuso: “Sono stata una stupida, ma ho una grandissima confusione in testa. Mi capita spesso di trattare male le persone alle quali tengo di più. A modo mio cercavo di spiegarti che ho bisogno di tempo per chiarirmi le idee su scelte fondamentali”. “Come quella fra Pippoli e me. E io ingenuo che ti credevo sincera... chissà quante risate vi siete fatti alle mie spalle. O forse tu da sola, non gliel’hai raccontata di sicuro a Lorenzo la bella prova sotto la doccia. E con lui dove l’hai fatto?” Gli poggio tutto il palmo della mano sulla bocca. “Smetti”, gli dico, “smetti di farti del male e di farlo a me. Lorenzo mi ha solamente aiutato a trovare la sistemazione per Irina. E ovviamente voleva avere notizie”. “E non conosce il telefono? Chi si presenterebbe a casa di una donna sola a quell’ora? E poi guarda, me l’ha confessato lui che vi siete baciati e ha qualche speranza su di te”. Rido: “Così siamo pari con la Poli”. “Ma che c’entra Lorena, una donna sposata che si è voluta divertire una sera”. “Appunto, e perché io no? Sei geloso!” “E infuriato anche”. “Allora perché sei qui?” “Per spiegarti che sono io la persona giusta per te. Non posso aspettare che ti occupi di qualunque altra cosa prima. 388


Non voglio che tu faccia una sciocchezza. Voglio che tu mi dica sì. E che tu me lo dica subito”. “Non posso. Prima devo decidere: la famiglia o la carriera. Se continuerò a fare politica sarò sempre da qualche altra parte, almeno con la testa, sempre in lotta con qualcuno, in allarme per schivare colpi bassi, offesa dall’ultimo scemo che mi supera, da un giornalista qualsiasi che decide di parlare male di me...” Mi prende in giro: “Potremmo fare una bella società: la politica in carriera e il giornalista rampante. Tu fai il leader e io la tua grancassa... Rispoli morirà di invidia”. “Non credi che dovrei cambiare vita?” “Se sarà necessario potremo sempre farlo insieme”. “Lasceresti il tuo giornale e il tuo lavoro per me? Non ci credo”. Mi fa segno di tacere. Lascia cadere tutto ciò che ho in mano, mi abbraccia e mi bacia con trasporto intenso. Si punge. “Leva quella rosa, non saranno due spine a farmi desistere, e ho ragione io, anche se mi pungi”. Tento ancora una debole resistenza. “Ma dobbiamo parlare”. “Dopo. Ora entriamo. Non si parla in mezzo alle strada”. “Se è per questo, non ci si bacia in mezzo alla strada”. “Ma io ho urgenza di baciarti”. “Ti stancherai presto”. “Al quinto bambino, non un minuto prima”. “Devo avvertire Corradi”. “Che voglio da te cinque bambini?” “Che ha vinto lui”. “Fate scommesse su di me?” 389


“Sono andata per dirgli che rinuncio alla politica, mi ha chiesto di ripensarci e di consigliarmi con te. Vi eravate messi d’accordo?” “No, ma se Corradi dice che hai talento per la politica gli do ragione. Il mio consiglio è: non gettare la spugna”. “Non pensi a noi due: una coppia che non ha almeno un’ora al giorno da stare insieme, io sempre in giro a fare la portavoce del segretario e tu sempre al giornale o in giro a intervistare donne bellissime, come la Poli...” “E che cos’è una coppia se non resiste alle separazioni? Io ti amo, tu mi ami. Non dire che non è vero. Dai un addio alla tua paura. Dalle un calcio. Fai con me i capelli bianchi, le capriole, acchiappa la vita. Non lasciarla sfuggire. Perché non torna. Non dare al rimpianto la possibilità di insediarsi nel tuo cuore. Lascia spazio ai bei ricordi”. “Guarda che con me la retorica non paga”. “Allora te lo dico in un altro modo. Non puoi vivere la vita in anestesia. La vita è fantasia e lotta dura”. “Già, come dice Lucio Dalla nella canzone che mi ha regalato Marco. Dice che dovrei studiare bene le parole. E ricordamele nei momenti bui”. Passiamo la sera e la notte nello stesso letto. È bellissimo essere insieme: eccitante e rilassante. Ed è bellissimo svegliarsi accanto a lui. Lo guardo alla poca luce che entra dalle persiane. Ha un’espressione indifesa da bambino mentre è lì steso addormentato. Cerco di non svegliarlo. Mi alzo piano, infilo un camicione e a piedi nudi faccio i pochi passi che mi separano dalla scrivania. Apro la mia scatola dei ricordi, prendo il biglietto che mi aveva mandato Tonino Majani per l’ultimo compleanno 390


che avevamo festeggiato insieme. Scritto a mano, con la sua grafia ordinata e la penna stilografica, uno dei pochi vezzi del mio carissimo amico. Me l’aveva portato di persona per sigillare la pace. C’era stata una gran discussione fra noi. Tonino aveva votato un documento del quale non era convinto. Furiosa e spietata l’avevo accusato di essere un intellettuale a intermittenza, solo fino a quando il partito non gli imponeva le sue decisioni, che lui avallava sempre, anche quelle sbagliate. A lui era dispiaciuto il mio giudizio severo. Si era sentito ferito, accusato di essere conformista, lui che aveva sempre rischiato l’impopolarità per sostenere le sue idee. Certo, senza rompere mai: lo scopo della politica è portare gli altri sulle tue decisioni, non dare lezioni di purezza e intransigenza, aveva detto. Era stato molto duro, accusandomi a sua volta d’immaturità, d’incapacità di prendere le distanze dai problemi. Di non capire che la politica non si fa tagliando i problemi con l’accetta. Era la prima seria divergenza fra noi e andava molto al di là dell’episodio: Tonino aveva ragione, ma non volevo riconoscerlo. Anche io avevo in parte ragione: il conformismo non rende il mondo migliore. Ci siamo lasciati ognuno sulle proprie posizioni. Distanti come non eravamo mai stati. Poi, come sempre, lui aveva cercato la pace. L’aveva fatto con quel biglietto, perché aveva due giorni pieni di incontri e assemblee e dopo sarebbe partito. Un viaggio senza ritorno, ma lui non lo sapeva. Ho letto e riletto mille volte quelle poche righe. Oggi mi sembra di capirle veramente. “Nessuno è perfetto: non lo è la politica, non lo sei nemmeno tu. Perciò non ci guardare dall’alto in basso, come 391


persone che tradiscono le tue aspettative. Come un bambino deluso perché ha scoperto che il padre non è Dio. Guardaci come tuoi pari. Puoi giudicarci, ma facciamo la stessa strada. Io ti vorrò sempre bene. Pensa a me, quando puoi, con benevolenza. Con affetto e stima, tuo Tonino”. Anch’io Tonino ti vorrò sempre bene.

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XXV

Perché vince il coyote il racconto non lo dice ma lo lascia immaginare la vita è fantasia, è coraggio, è lotta dura con la voglia di inventare e se la stella con la coda tante storie raccontava, la fantasia del coyote col suo fuoco la bruciava e poi faceva ascoltare l’erba crescere sulla mano e il grido della risacca di un prossimo uragano. (Roversi/Dalla)

Marco è letteralmente sparito. Sono giorni che non chiama e non risponde alle mie chiamate. Questo comportamento non è da lui. Che diavolo gli sarà successo? Gli sarà capitato un guaio? Si è innamorato ed è fuggito con l’uomo della sua vita? È deciso: lo chiamerò a intervalli regolari sia al partito che al cellulare e a casa, prima o poi qualcuno risponderà. Ma al quarto tentativo, il risultato è ancora nulla. Ormai dovrò per forza chiamare Lorenzo o qualcuno della stanza accanto. La preoccupazione mi divora. Quasi sto per iniziare ricerche presso gli ospedali, quando, finalmente ecco un sms dal suo cellulare: “Vengo a trovarti stasera. Aspettami alle 21. Marco”. 393


Un po’ sollevata e un po’ arrabbiata: che diamine, tutti pretendono di disporre della mia vita e della mia casa, sono tentata di rispondergli male. No, meglio così. Sono troppe le novità, e troppe le cose taciute. È ora di fare chiarezza anche con lui. Sento una presenza dietro le spalle. Mi giro, ed è Giovanni. “Ben alzato... caro...” “Ben trovata. È un piacere svegliarsi e trovarti ancora umana. Temevo che mi avresti aggredito come al solito. Quanti anni di ferie ci prendiamo per poterci abituare a stare insieme?” “Direi un’ora o due. E stasera devi sgombrare. Viene Marco. Nella mia nuova vita devo trovare il coraggio di dirgli tutto”. “Tutto che?” “È una storia lunga. Te la racconto un’altra volta. Quando tu racconterai un tuo segreto a me. Faremo a turno. Un segreto per uno al giorno, sperando di non averne troppi, presto sapremo tutto l’uno dell’altra”. “Io non ti dirò proprio niente. E niente che sembri uno scambio. Non puoi pensare di spogliarmi di ogni mia intimità”. “Credevo fossimo già abbastanza intimi”. “Non del tutto. Un po’ di mistero fa bene all’amore”. “Amore hai detto? Ripetimelo”. “L’ho detto. Amore. Che ci trovi di strano”. “Solo tre giorni fa non l’avrei mai immaginato. Ora va e torna molto molto tardi”. “Nel frattempo posso andare dalla Poli?” “Provaci” e gli tiro appresso una ciabatta. 394


Alle nove in punto bussa Marco. Sale ed entra, ma non mi butta le braccia al collo come sempre. Gli dico: “Accomodati”, mi è venuta un’espressione così formale, cerco di correggere il tiro: “Ho un milione di cose da raccontarti. Ti prendo una birra e cominciamo. O vuoi cominciare prima tu?” “Niente birra, grazie. Inizia tu, nella mia vita è successo tanto poco”, Marco è su una linea di freddezza che mi gela il sangue. Con che animo posso raccontargli la mia felicità se lui è tanto indisponibile? D’improvviso gli prendo la mano, lo guardo dritto negli occhi. “Preparati a una confessione completa”. Non sorride e si ritrae. Continuo senza farmi distogliere dal suo comportamento insolito. “Volevo dirtelo tanto tempo fa, ma non ho mai trovato il coraggio. Tu ti fidavi di me e io non sapevo come fare. Ma non posso iniziare una nuova vita con zone d’ombra proprio con te che sei il mio migliore amico”. Il Marco che amo avrebbe giocato, mi avrebbe presa in giro, mi avrebbe abbracciata e chiesto dettagli sulla mia nuova vita. Questo Marco sconosciuto mi guarda distante e scostante mentre replica: “Ne sei sicura?” “Che sei il mio migliore amico? Sicurissima. Ascoltami senza interrompermi perché non sono certa di farcela altrimenti. Ti ho sempre amato e stimato, come un fratello, di più, perché i fratelli sono quelli che ti ritrovi, gli amici quelli che scegli. Ma la corruzione è un veleno potente. E questa politica stava deviando anche me”. Gli racconto i tre episodi da Giuda, senza risparmiare nulla. Gli chiedo scusa e aspetto la sua reazione. 395


“Grazie di avermelo detto”. Vorrei prendergli la mano, abbracciarlo, ma il suo tono purtroppo non mi lascia spazio. “Lo sapevo già. Il segretario, appena abbiamo iniziato a lavorare insieme, mi ha raccontato perfino i dettagli. Ora è chiaro che non ha mentito o esagerato. Bene, ci sentiamo nei prossimi giorni. Se non c’è altro, io sono molto stanco”. Non riesco a controbattere nulla. Ecco perché il lungo silenzio e la sua freddezza: Eugenio mi ha fatto pagare il primo vero successo distruggendo la mia amicizia più cara. Non soddisfatto si è anche impadronito del mio risultato politico. Sono un’incapace. Ho lavorato come una dannata per portare acqua al suo mulino. Ho distrutto un’amicizia importante. E mi trovo a iniziare una nuova vita con l’amaro in bocca. Acchiappo il telefono e mando un sms: “Caro Marco, amatissimo Marco, hai detto che fra il coyote e la luna vince il coyote. Io sono una coyote stupida: mi comporto male e non sono neanche in grado di vincere. Sono una cattiva allieva e una cattiva amica. Perdonami”. Invio. Mi butto a sedere sul divano: emozioni forti e contrastanti, grandi decisioni, sono già stanchissima e fra un po’ arriverà Giovanni. Come gli racconterò l’incontro con Marco senza fare la figura dell’ignobile idiota? Eccolo che bussa, eppure gli avevo detto di presentarsi molto tardi. Apro. Mi trovo le braccia di Marco al collo. Piango di gioia come una che si è liberata di un gran peso. Anche lui è emozionato e commosso. “Sei una doppia coyote. Vuoi anche dare la colpa a me di essere stato un cattivo maestro”. Ridiamo e restiamo abbracciati sul divano. Parliamo a raffica. Abbiamo giorni e giorni da recuperare. Gli racconto la mia felicità, anche Marco ha un nuovo fidanzato. Non 396


sa ancora se è quello giusto, ma sa come passare le serate allegramente. La nostra di serata passa così, fino a quando non torna Giovanni. Insieme prepariamo la cena e Giovanni alza il calice. “Alla faccia di chi ci vuol male e in particolare alla faccia di Eugenio. Che possa pagare tutto ciò che ha fatto, con un enorme foruncolo il giorno di un importante servizio fotografico”. Ridiamo soddisfatti della tremenda maledizione che pende sul segretario.

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XXVI

Sono sveglia già da un po’. Mi spio aspettando il solito appuntamento col malumore del risveglio, che non viene; con la gran fatica per riacchiappare me stessa e ritrovare l’energia di vivere, che non sento. Lo stomaco? Non è sottosopra. La testa? Senza confusione. Le gambe? Non sono molli. L’umore? È il più gradevole. A check finito prendo atto della mia nuova condizione. Sapevo che la giornata di ieri avrebbe lasciato il segno, non immaginavo che sarebbe stato così positivo. Bandisco i sensi di colpa. Nella mia nuova vita non c’è posto per loro. E poi chi l’ha detto che essere felici sia un privilegio? Oggi inizia una nuova era. Ho pareggiato i conti con Marco e quindi, finalmente, con la mia coscienza. Ho ancora Giovanni nel letto in cui prima di lui nessuno era mai stato, a parte me s’intende. Lo guardo, abbandonato e sereno, come ieri ma con un po’ meno stupore: si fa presto l’abitudine alle cose belle. E una volta deciso di voler essere felice, scopro che è semplice. Infilo una vecchia tuta larga e ormai senza forma, che fa tanto casa, domenica e feste comandate. Non è l’abbigliamento più sexy che ho, ma pazienza, meglio che Giovanni sappia subito con chi ha a che fare. Mi sento energica e pacificata, ma ho ancora un conto in sospeso. Devo una risposta a Corradi. Il maestro mi vuole 398


con sé. Ha detto che il mio posto è al partito, nel mondo politico. Ma è il mondo dove vince il coyote e non la stella, e io non voglio adattarmi alle sue regole. Non so che fare. Guardo Giovanni: il suo corpo, il sorriso inconsapevole di chi dorme sapendo che il risveglio sarà buono. Penso che il privato sarà dolce se avrà i suoi occhi di liquirizia. La politica invece ha gli occhi astuti di Eugenio, che feriscono, o quelli maligni di Mara che interferisce, o quelli rapaci del sindaco Pieri. D’altronde quanto può durare una felicità fatta solo di carezze e romanticismo? Cinque figli dice Giovanni, e io farei quella tutta casa e famiglia? Ho voglia di lottare oppure di lasciarmi andare? Nel sonno il mio amore (come suona strana questa parola sulle mie labbra) si muove e io non voglio che si svegli e mi chieda che faccio col telefono in mano. Ho bisogno di pensare da sola. Scriverò un messaggio a Corradi, non farò rumore, rimanderò a dopo il confronto. Ma il dito esita sopra la tastiera del telefonino. Sento nella mente la voce di mio padre: “Non dargliela vinta a quei traditori opportunisti, riporta il partito sulla rotta giusta”. Sento la voce di Tonino: “Finché ci saranno giovani come te ci sarà speranza per la nostra sinistra”. E quella del maestro: “Io sono vecchio ormai. Conto su di te”. Ma le dita sono sempre lì a mezz’aria e non so decidermi. Quanta violenza dovrei fare su me stessa per diventare coyote. Quanti bocconi amari e delusioni e tradimenti dovrei sopportare. E quanti colpi bassi dovrei dare io? Davvero non so se ne vale la pena. Accasciata sulla poltrona, nella tasca posteriore del pantalone c’è qualcosa che preme e mi dà fastidio. È la goccia di plastica rosa che mi ha regalato Irina. L’avevo dimenticata. 399


La prendo e la poso sul tavolo. Rivedo i suoi grandi occhi spaventati e fiduciosi insieme, la sua espressione di ragazza, poco più che bambina, quando per strada mi diceva: “Qualcosa io farò per te”. Quella goccia è lì a rimproverarmi. Il volto di Irina cancella tutte le altre immagini dalla mia mente e dice: “Non ti arrendere, non lasciare me e tanti come me soli in questo schifo di mondo”. Le dita finalmente scendono sulla tastiera e senza più esitare scrivo a Corradi: “Hai vinto. Anche Giovanni la pensa come te, a domani, in ufficio”. Premo invio. È fatta. Non ho tempo di pentirmene, perché quasi subito sento il ronzio del messaggio di risposta: “Benvenuta nel nostro mondo imperfetto. Dai l’addio a infantilismi e capricci. Sei fra gli adulti, che non hanno paura di soffrire se è il prezzo per amare te stessa, il tuo lavoro, gli altri, il mondo intero. Al lavoro e alla lotta”. Sì, a domani maestro. Hai ragione il lavoro è lotta e la lotta non sarà facile, ma ormai mi sono impegnata e non mi tirerò indietro. Per prima cosa ti parlerò di Marco, dovrai fare qualcosa per lui. E poi dovrai insegnarmi molto: a frenare le mie emozioni senza perdere lo slancio, a separare il grano dal loglio, a trovare del buono anche dove non ne vedo proprio. Dovrai parlarmi degli artisti che hai conosciuto e che tieni lì sul muro, e spiegarmi cosa vuol dire che anche la politica è una forma d’arte. Dovrai farmi amare questo mondo che a volte stento a capire. Dovrai darmi il tuo tempo e la tua saggezza, la tua esperienza e il tuo calore freddo. Altrimenti io non ce la farò: non posso uccidere il mondo dei miei sogni se quello tuo non mi affascina altrettanto. Soprattutto dovrai insegnarmi a vincere senza perdere me stessa. E questa sarà l’impresa più difficile. 400


Un rumore mi sottrae ai miei pensieri: il mio amore si sta svegliando. Allarga le braccia e mi dice: “Vieni, fatti vedere appena sveglia e se resisto... è la prova del nove!” I suoi occhi ridono e io corro. Non vuole solo guardarmi, ma prima che mi travolga gli dico: “Posso farti una domanda?” “La prova non è ancora finita e già vuoi sapere come è andata?” “Non giocare, è una domanda serissima: ho sempre voluto essere una stella e non mi piace il coyote, però voglio vincere. Secondo te faccio bene a diventare coyote?” “Che hai fumato di prima mattina?” “Smettila. È una domanda molto seria”. “Allora sei completamente pazza”, conclude e forse ha ragione. Insisto: “Si può amare un coyote dopo tutto quello che si dice di lui?” Non mi lascia finire. Ha altre priorità adesso, parleremo dopo. Più tardi mi accarezza i capelli e mi sussurra parole dolci e mi assicura che se sarò coyote amerà i coyote, e non ha mai dato peso a quello che dice la gente, ma non credo che abbia capito bene. Glielo spiegherò via facendo. Gli prenderò le mani nelle mie, lo guarderò nell’anima e gli dirò: amore mio sarò coyote perché la vita non è roba per signorine timide e beneducate. La politica come la vita è fantasia, coraggio e lotta dura. Ma alla fine del percorso per te e per Irina e per mio padre e per i nostri figli e per tutti gli uomini di buona volontà, io libererò le stelle.

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E quindi venne il momento di creare la donna. Il Sole convocò tutti i pianeti e le creature sovrannaturali, e quando furono riuniti con uno dei suoi vividi lampi, si tolse un occhio. Lo gettò in un certo luogo e divenne la Luna. E su questo nuovo globo, quel pianeta “occhio”, creò la donna. “Tu sei un pianeta vergine, una fanciulla Luna” le disse “Ti ho toccata e fatta con la mia ombra, voglio che cammini sulla terra”, e quando lei chiese “Come potrò camminare su quella terra?” il Sole creò il potere e la ragione della donna, impiegò il fulmine per costruire un ponte tra la Luna e la Terra e la donna camminò sul fulmine... Essa camminò sul lampo, ma camminò pure su una vena di sangue che andava dalla terra alla Luna. Questa vena era una corda, un cordone ombelicale che andava dentro il suo corpo, e per mezzo di esso lei è sempre collegata con la Luna. (Mito della creazione Sioux narrato dallo sciamano Leonard Dog Crow)

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Ringrazio Lina Agostini, Nicoletta Sipos, Carlo Sardoni per aver letto e commentato da veri amici la prima stesura. E avermi incoraggiato a proseguire.



RIMMEL narrativa italiana

1. Veronica Tomassini, Sangue di cane 2.

Massimo Cassani, Un po’ più lontano

3. Marco Bosonetto, Nel grande show della democrazia 4. Antonio Pagliaro, I cani di via Lincoln 5. Giulio Mozzi, Il male naturale 6. Paolo Grugni, L’odore acido di quei giorni 7. Michele Vaccari, L’onnipotente 8. Gabriele Dadati, Piccolo testamento 9. Gianfranco Di Fiore, La notte dei petali bianchi 10. Fausto Vitaliano, Era solo una promessa 11. Giulio Mozzi, La felicità terrena 12. Fabio Calenda, Rosso totale 13. Paolo Grugni, La geografia delle piogge 14. Daniela Brancati, Il coyote liberò le stelle


1. Isabella Marchiolo, 10 grandi donne dietro 10 grandi uomini, prefazione di Alessandra Casella 2. Daniela Gambino, 10 gay che salvano l’Italia oggi, prefazione di Matteo B. Bianchi 3. Valter Binaghi e Giulio Mozzi, 10 buoni motivi per essere cattolici, prefazione di Tullio Avoledo 4. Simone Marcuzzi, 10 italiani che hanno conquistato il mondo, prefazione di Gianluca Morozzi 5. Michele Monina, 10 modi per diventare un mito (e fare un sacco di soldi), prefazione di Gianni Biondillo 6. Giuseppe Civati, 10 cose buone per l’Italia che la Sinistra deve fare subito, prefazione di Paolo Virzì 7. Andrea Pomella, 10 modi per imparare a essere poveri ma felici, prefazione di Marco Rovelli 8. Marina Calderone, 10 idee per il lavoro dei nostri figli, prefazione di Walter Passerini 9. Martina Liverani, 10 ottimi motivi per non cominciare una dieta, prefazione di Cristina Sivieri Tagliabue 10. Irene Vella, Credevo fosse un’amica e invece era una stronza 10 modi per sopravvivere alle stronzamiche, prefazioni di Cristina Parodi e di Ivan Zazzaroni


1. Michele Monina, Atene è un sogno 2. Michele Monina, Londra è un orologio 3. Michele Monina, Barcellona ti sorride 4. Michele Monina, Lisbona è tutta luce 5. Michele Monina, Amsterdam è un’isola 6. Michele Monina, Berlino non ha muri 7. Michele Monina, Parigi è un lungo tramonto 8. Michele Monina, Vienna è un giro in carrozza 9. Michele Monina, Praga di incanti e di spettri 10. Michele Monina, Budapest senza il Danubio


Finito di stampare nel mese di marzo 2013 presso Geca SpA – Cesano Boscone (MI)



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