dieci! 10
LAURANA
EDITORE
direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Daniele Ceccherini utili consigli: Giulio Mozzi
Prima edizione: gennaio 2013 Seconda edizione: febbraio 2013 Terza edizione: marzo 2013 Quarta edizione: marzo 2013
Autrice ed Editore desiderano ringraziare Carmelo Kalashnikov, che ha realizzato le illustrazioni presenti nel libro, e Dario Vella, autore del logo in quarta di copertina. progetto grafico: Alessandro Simonato in copertina: illustrazione di Carmelo Kalashnikov
ISBN 978-88-96999-41-7
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2013 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano www.laurana.it – info@laurana.it
Irene Vella
Credevo fosse un’amica e invece era una stronza 10 modi per sopravvivere alle stronzamiche prefazioni di Cristina Parodi e di Ivan Zazzaroni
LAURANA
EDITORE
A mia figlia Donatella, perché non smetta mai di sorridere alla vita. A mio figlio Gabriele (lo gnomo), perché non smetta mai di farmi sorridere alla vita. A mio marito, perché è il sorriso della mia vita. Ai miei genitori che mi hanno insegnato che un giorno senza sorriso è un giorno perso.
Indice
Così lontane, così vicine di Cristina Parodi
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Stronze? No, vere amiche di Ivan Zazzaroni
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1. Intro. Una mamma a colori
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2. Perché un manuale per conoscere e combattere la stronzamica?
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3. Le origini. Il mio coming out
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4. La stronzamica da bambina
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Amarcord Il punto debole La stronzamica: come riconoscerla La stronzamica: le tipologie a. La mantide b. La rassicurante 5. Stronzamica, giù le mani da mia figlia! La stronzamica si palesa Segnali d’allarme Quando la stronzamica ti rovina il sonno Perle di saggezza Quando la figlia ha capito tutto e la mamma ancora no Il lieto fine
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6. La stronzamica è come la Barbie, ce n’è una per ogni tipo
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La stronzamica ballerina La stronzamica sportiva La cugina stronzamica La stronzamica miss 7. Piccole stronze crescono
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La stronzamica alle scuole medie La stronzamica al liceo La stronzamica all’università. Ovvero: l’innamoramento 8. That’s life
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La stronzamica incinta La stronzamica sul lavoro La stronzamica e i social network Le mamme stronze Le vecchiette stronze... le stronze vecchiette 9. Esodo
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10. Testimonianze
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Alessandra Pesaturo, Se trovi una stronza perdi di sicuro un tesoro: il tuo Federica Pesce, La vera stronza dispensa sempre consigli (del cazzo) non richiesti Nadia Afragola, Un nemico vero ti trafigge al petto, un falso amico alle spalle. Una vera stronza ti trafigge dappertutto Laura Farnesi, Le stronze sono come le ciliege: o ti frega una o ti frega l’altra Paola Piumazzi, Stronze e buoi dei paesi tuoi Bea Buozzi, Ridens bene, chi ridens ultimo
Così lontane, così vicine di Cristina Parodi
Ognuna di voi lo sa: le amiche sono un bene prezioso. Ma solo fino a prova contraria. E la prova contraria arriva quando ci deludono o ci tradiscono, ci mentono o ci accoltellano alle spalle. Allora scopriamo che non erano vere amiche e ci sentiamo irrimediabilmente sole. È per rimediare a questa solitudine che Irene Vella ha scritto il suo libro. Un libro utile e divertente che ci mostra come difenderci da amiche che è meglio perdere che trovare. Cominciando a leggerlo vi troverete di fronte a pagine scoppiettanti, che però non vi devono trarre in inganno: il sorriso sta sulle labbra, ma intanto dentro tutte noi cresce una consapevolezza sempre maggiore. Nel libro ci sono momenti memorabili (vi rimarrà in mente a lungo, credo, la scena in cui Irene cosparsa di abbondante olio di oliva, incedendo sulla passerella di un improbabile concorso di bellezza, schizza il presentatore, il presidente, i giurati e il parterre guadagnandosi il soprannome di “tonno sott’olio”), ma ci sono anche regole auree per stanare quelle che vengono definite stronzamiche. Anzi, non solo per 9
stanarle, ma anche per sopravvivere a loro e per lasciarsele alle spalle. Perché se è vero che alla fine noi tutte riusciamo a costruire amicizie solide con le altre donne, è anche vero che la competizione appare più aspra, aggressiva, senza esclusione di colpi (alti e bassi) rispetto a quella tra uomini. Forse è così perché tra maschi è sempre sotteso un certo cameratismo, col risultato che il più delle volte le loro amicizie vengono meno guardandosi negli occhi, almeno. Mentre Irene trasporta le sue lettrici in una galleria variopinta in cui si va da una rubafidanzati all’altra, da una collega arpia a una partoriente cinica… e in questa galleria ci mostra casi su casi in cui le amicizie tra donne finiscono con le coltellate. Date sempre alle spalle, però. Constatare ancora una volta, seppure con ironia, quanto sia difficile la “sorellanza” fra donne, quanto sia difficile fare squadra fra noi, non è bello. A volte sembra più facile trovare comprensione negli uomini, negli amici maschi – e io, come l’autrice, credo nell’amicizia tra uomo e donna, escludendo i soliti penosi dubbi sull’ipotetica attrazione di uno dei due nei confronti dell’altro. Lo stesso, però, non è il caso di arrendersi. Mai. Oltre a tutti gli spunti che offre, il libro di Irene Vella è bello per un altro motivo: ci fa rivivere gli anni che ci siamo lasciate alle spalle. Fa rivivere a ognuna di noi il suo percorso di crescita. Le amiche (o meglio, le stronzamiche) di Irene alle elementari, alle 10
medie, alle superiori, all’università, nell’ambito sportivo, sono le mie, sono le vostre, sono quelle di tutte noi. E così sarei tentata di definire questo libro un piccolo romanzo di formazione, come quelli di una volta, perché leggendolo ho rivissuto le esperienze negative che mi hanno portato a essere quella che sono, che mi hanno insegnato, infine, a una certa età, a sapermi scegliere le amicizie. Naturalmente a volte ancora si sbaglia, ma con il tempo, per fortuna, sempre di meno. Non è un caso che il legame con quelle che poi diventeranno per l’autrice le amiche di tutta la vita risalga ai tempi del liceo, dopo che già è stata passata in rassegna una discreta carrellata di persone false e doppie. Così, come abbiamo condiviso con la protagonista il sentimento di distanza nei confronti di certe nostre “colleghe di genere”, in questo caso ci sentiamo tutte unite, con nostalgia e affetto. Ed è bellissimo quando Irene narra le avventure vissute con le sue più care amiche: “la nostra amicizia è andata oltre, è riuscita anche a sfidare il mito che tre fosse il numero sfigato. Abbiamo fatto a botte, fatto ‘salino’ a scuola, copiato i compiti, ci siamo innamorate, abbiamo pianto, abbiamo fumato insieme la prima sigaretta, abbiamo litigato innumerevoli volte ma altrettante abbiamo fatto pace, e poi, dopo ogni scazzo, puntuali come sempre tornavamo amiche forever”. Ci tornano a far visita gli stessi sentimenti di solidarietà femminile che abbiamo tutte vissuto da 11
adolescenti. Quei sentimenti su cui fa leva il grande successo (su platea femminile) di un telefilm di culto come Sex and the City. Ma le stronzamiche di cui ci parla Irene Vella non sempre c’è bisogno di andarsele a cercare lontane. Magari le abbiamo a disposizione già in famiglia. Basta andare a vedere le pagine dedicate alle cugine stronzamiche, per convincersene. Quando non si hanno sorelle più o meno coetanee è facile che si instaurino rapporti molto stretti tra cugine. Ma si tratta di un’amicizia che spesso ha come caratteristica uno sbirciarsi durante la crescita, un fare confronti, un voler primeggiare… chi di voi non ha vissuto o almeno sentito raccontare episodi di vicissitudini, a lieto o meno lieto fine, fra cugine-amiche di sua conoscenza? E ancora. È molto tenera la parte in cui Irene vede sua figlia cadere a sua volta nelle grinfie delle stronzamiche e vorrebbe intervenire per evitarle delusioni, ma si trattiene perché sa che di queste prove, purtroppo, non può fare a meno nessun percorso di crescita. Percorso di crescita che dura per sempre, evidentemente, se è vero che la nostra autrice sa scoprire tracce di stronzamiche fino alla tarda età. Insomma, dentro questo libro ci sono regole e consigli utili. Ma soprattutto, grazie a questo libro ogni lettrice incontra un’amica di cui fidarsi: Irene.
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Stronze? No, vere amiche di Ivan Zazzaroni
Quando ho letto il titolo del libro di Irene Vella mi è tornata immediatamente alla memoria la Semantica dello stronzo del mio amico filosofo Stefano Bonaga. Uno dei concetti che si esprimeva nel libro era che è più facile dire chi è uno stronzo che non cosa è uno stronzo. E Irene, infatti, in questo libro divertente, non ha alcun dubbio su chi sia una stronza: è colei che finge di comportarsi da amica, ma in realtà è pronta, alla prima occasione, a tradirti per il proprio tornaconto. La sfilata di stronzamiche che ci mostra con la sua narrazione pirotecnica ricorda molto un carro allegorico, modello Carnevale di Viareggio, per dire. Ci sono compagne di danza delatrici, miss in perizoma che si strusciano provocanti su pali di lap dance, mantidi mangiauomini, mamme competitive, colleghe doppiogiochiste e chi più ne ha più ne metta. Da uomo ho avuto maggiormente a che fare con stronzi che con stronze. E se posso dire cosa accomuna entrambi i sessi, ecco, è questo: alla base c’è quasi sempre un tradimento della fiducia concessa. Forse l’uomo in virtù dell’antico ma sempre attua13
le celhopiùlunghismo tende a venire di più allo scontro faccia a faccia. Mi vengono subito in mente, probabilmente per deformazione professionale, i calciatori che a volte dopo un fallo si fronteggiano testa contro testa – salvo magari andare oltre, in almeno un caso, e colpire con quella stessa testa lo sterno dell’avversario –, eppure, sarà magari solo una cosa mia, giurerei di aver visto uomini in giacca e cravatta fronteggiarsi allo stesso modo. Con ogni probabilità, come ci suggerisce questo libro, le donne sanno essere fra di loro più subdole. La narrazione di Irene Vella, nel mostrarci alcuni episodi di amicizia tradita, mi risulta del resto alquanto familiare; situazioni molto simili a quelle descritte sono sicuro mi siano state riferite da amiche e compagne nel corso degli anni. A volte mi è capitato di viverle come testimone. Ed è forse questo l’aspetto migliore del testo, al di là dell’indiscutibile cifra ironica: il mostrare una casistica assai realistica di situazioni, assurgendo a manuale propedeutico nel cammino di ogni donna – e non solo. Bonaga, nel testo che citavo all’inizio, afferma che la controprova dell’opacità ontologica dello stronzo consiste nella difficoltà a trovare il suo contrario. Irene invece individua immediatamente, d’istinto, quelle che saranno le sue migliori amiche di tutta la vita e le individua non nelle ballerine fighette della sua infanzia, ma nelle tizie più trasgressive del suo liceo che “spadroneggiavano”, con i 14
loro capelli bicolore e ricoperte di borchie, per i corridoi della scuola. E questo per insegnarci ancora una volta “quanto l’apparenza inganna, e che spesso le buone amiche si nascondono sotto strati di finta stronzaggine�.
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1. Intro. Una mamma a colori
Lo dichiaro subito, così mi tolgo il pensiero. Non sono una mamma come le altre. I miei genitori ce l’hanno messa tutta per fare di me una brava personcina, a cominciare dal nome, Irene (che significa “pace”, mentre io avrei preferito qualcosa di più indomabile, tipo Selvaggia), cercando di instradarmi verso un lavoro serio come quello dell’archeologa (facendomi visitare a ogni piè sospinto musei nazionali o esteri). Ho capito che non avrei mai fatto lo stesso sbaglio con i miei figli nel momento in cui nella valle archeologica di Tulum, in Messico, mentre la tiepida brezza accarezzava le palme, chiesi timidamente di fare il bagno e i miei genitori in coro risposero: “L’acqua è troppo fredda, hai appena mangiato, ci sono gli squali”. Li chiamano traumi infantili e di certo io ne devo aver subito uno grosso, se ogni volta che mi tuffo in una pozza d’acqua, sia essa dolce o di mare, sento la musichetta della colonna sonora dello Squalo risuonarmi nelle orecchie. E visto che i miei amano tanto Dante, un contrappasso c’è stato, ma proprio al con17
trario: per reazione, i miei figli fanno il bagno tutto il giorno, anche in mutande all’occorrenza, e io non faccio l’archeologa. Sì, perché di figli ne ho due: Donatella, una splendida adolescente, e Gabriele, faccia d’angelo (sì, tipo quella di Felice Maniero), detto “lo gnomo”, specializzato nel mettermi in imbarazzo in ogni situazione. A trentaquattro anni ho lasciato un lavoro sicuro in una grande azienda di telecomunicazioni, mi sono trasferita (per amore) in Romagna da Pisa e, come se non bastasse, nel mentre ho ceduto un rene a mio marito in comodato d’uso, ma questa è un’altra storia. Per qualche anno ho collaborato con la redazione di un quotidiano a cui mi sono presentata con una buona dose di faccia tosta e un’altra di solarità, prima di approdare al mondo dei freelance, o meglio, diventare “tassinara” dei pargoli a tempo pieno e scrittrice nei momenti liberi. Che sono pochissimi, perché il padre, Luigi, allenatore di professione, ha fatto evolvere il suo lavoro fino in Veneto. Nonostante tutto non mollo, sono una mamma in rosa in mezzo a tante mamme grigie, cerco di portare un tocco di colore e di calore in mezzo alla nebbia mattutina, nel senso che le mie mise fanno luce tanto sono colorate. Ma che ci posso fare, dopo tanti anni di nero, ho capito che la mia vita è un arcobaleno e mi sono adeguata. Quindi continuo imperterrita a mettere il mio montone rosa per andare a scuola a prendere mia figlia adolescente che, vergognandosi, 18
si nasconde, e la ritrovo solo dopo che sono usciti tutti. Continuo ad andare dal parrucchiere nonostante lo gnomo sia riuscito, un giorno, a compiere una strage senza premeditazione: “Ehi mamma, ma perché questa signora vicino a te è così tanto brutta?” E ancora (rivolto alla medesima signora): “Ti rendi conto che sei uscita con i capelli verdi?” Sono fiera dei miei figli, soprattutto delle loro distinte individualità. In tempi diversi, a entrambi la maestra propose lo stesso tema: “Accendi tre fiammiferi ed esprimi tre desideri”. La primogenita scrisse: “Accendo il primo fiammifero per avere la pace nel mondo, il secondo perché nessuno muoia più di fame e il terzo perché mio papà stia sempre bene”. Lo gnomo, invece, scrisse così: “Il primo fiammifero lo accendo per diventare ricco, il secondo per comprarmi i Monster Truck, il terzo per diventare famoso ed entrare dentro la televisione”. Gli feci notare: “Amore, i soldi non fanno la felicità”. Mi sentii rispondere: “Lo so mamma, infatti io divento ricco così mi compro i Monster Truck e dopo sono felice”. Semplice no?
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2. Perché un manuale per conoscere e combattere la stronzamica?
La stronzamica: un argomento su cui ho riflettuto a lungo, a occhio e croce il tempo di una serata – è il massimo che mi posso permettere prima che neurone Cip litighi con neurone Ciop –, e sono arrivata alla conclusione che nella vita ognuna di noi l’ha incontrata almeno una volta, dall’asilo alla scuola elementare, dalle medie alle superiori. Ce n’è sempre stato un esemplare tra noi. Sì perché purtroppo questa è una verità che si vuole tacere, forse perché politicamente scorretta, ma sempre attuale e vera: nella maggior parte dei casi, la sorellanza tra due donne facenti parte dello stesso gruppo è un’utopia, raggiungibile solo nel caso ce ne sia una più brutta, meno appariscente e soprattutto facilmente assoggettabile. Il bersaglio perfetto, insomma, per la stronzamica, che tra le altre cose è dotata di un fiuto infallibile, riesce a scovare la sua preda anche a chilometri di distanza, a raggirarla con le sue moine, i suoi dolci modi di fare, prima di lanciare la stoccata finale. Ma la verità (proprio quella vera vera, eh) è che la voglia di scrivere questo piccolo manuale di so21
pravvivenza mi è venuta quando ho visto mia figlia, oggi dodicenne, cadere nelle mani di piccole stronzamiche. Sì perché questo genere femminile esiste anche in miniatura – il germe della stronzamica è innato: è dentro di loro, è più forte di loro. Non importa quanto amore ti professano, a un certo punto la voglia di sparlare di te con il gruppo delle seguaci sarà troppo forte, e si mostreranno per quello che realmente sono. Delle api regine in cerca del consenso della folla, sia esso composto da seienni o da dodicenni. Il palco è il loro regno, lo scherno il loro strumento, la maldicenza la loro arma. C’è un proverbio amaramente vero che recita così: “La società perfetta è di numero dispari, inferiore a tre”. Ora voi mi direte: ma che razza di stronzamiche hai incontrato nella vita? E io vi stupirò rispondendovi che in realtà di amiche vere ne ho incontrate tante, sono stata davvero fortunata. Proprio perché sono così aperta, però, ho collezionato anche tante delusioni. Se ho deciso di scrivere questo libro è proprio perché ho capito che quelle delusioni mi hanno aiutato a diventare la donna che sono oggi, forse un po’ scettica, ma ancora sufficientemente ingenua, con tanta voglia di imparare e di mettersi in gioco, ma soprattutto con una missione: abbattere il mito delle stronzamiche, perché, ne sono certa, l’unione fa la forza, e noi buone (e anche un po’ coglione!) alla fine vinceremo, per meriti o per numero, e la parola fine la scriveremo noi. 22
Ci confrontiamo con nemiche temibili, ma state tranquille, care amiche che mi state leggendo, tutto questo non capiterĂ mai piĂš a voi. E soprattutto non alle vostre figlie. PerchĂŠ stronzamiche si nasce, ma il linguaggio del corpo si impara e con quello saranno fottute.
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3. Le origini. Il mio coming out
Posso dire con estrema tranquillità che questo manuale avrà la fortuna di scriversi quasi da solo, tante sono le esperienze accumulate in questi quarantuno anni di vita. Si tratterà di fare dei passi indietro con la memoria, che è un tesoro da utilizzare velocemente prima che sopraggiunga l’Alzheimer (ebbene sì, oltre ad avere familiarità con le stronzamiche ho familiarità pure con la malattia che cancella i ricordi). Comunque, lo ammetto, conosco bene l’argomento perché anche io sono stata una di loro, per un certo periodo ho fatto parte di quella schiera. La mia, però, era una questione di astinenza: soffrivo di acetone e mia madre mi proibì i dolci dai cinque anni fino all’età della prima paghetta, quando fui sorpresa dai miei sotto il letto con un barattolo di Nutella, quasi in coma. In realtà me la cavai con una piccola indigestione, ma i miei genitori ancora ricordano il sorriso ebete con il quale mi beccarono. Questo per spiegarvi come mai all’ultimo anno di scuola materna mi mettevo davanti alla porta d’ingresso della mia aula e sequestravo tutto ciò che sapesse anche solo lontanamente di cioccolato. Al liceo 25
ho ritrovato una delle compagne di allora, che mi ha confessato di aver vissuto l’ultimo anno dell’asilo ossessionata dalle mie “rapine” e dall’immagine di me di fronte alla porta, come un avvoltoio sulla spalliera del letto. Per fortuna che questo periodo è stato relativamente breve, dentro di me era insito il seme della bontà, proprio quella del motto “buoni buoni che fa rima con coglioni”. Sì, posso affermarlo senza ombra di dubbio: ho sempre creduto a tutto e a tutti, ho finto pure di non vedere l’evidenza, quando mi faceva stare troppo male, però quel seme è germogliato, e ha dato vita alla persona che sono oggi, quella che, care amiche, riuscirà ad aiutarvi nel vostro percorso di sopravvivenza, perché, credetemi, alle stronzamiche si sopravvive, basta solo imparare a riconoscerle.
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4. La stronzamica da bambina
Amarcord Ognuna di noi ha avuto la sua, ma la prima non si scorda mai, anche perché eravamo ancora talmente pure che se ci avessero detto che in cielo c’era un asino che volava (altro che ciuchino di Shrek!) avremmo subito alzato lo sguardo chiedendo dove. Fate un percorso a ritroso nel tempo, come si chiamava la vostra? La mia Barbara (si chiama tutt’ora così), sua madre era una stronzamica pure lei, sembrava la signorina Rottermeier (Heidi docet) e aveva addestrato la figlia a dovere. Era quella perfetta in ogni occasione, mai un capello fuori posto, il vestito sempre pulito, circondata da servitrici e lacchè, il sorriso perennemente stampato sulla faccia – ma non quello sincero, bensì quello studiato a tavolino, dopo ore e ore di prove davanti allo specchio, per vedere quale fosse il profilo migliore da mostrare al mondo. Qualche giorno fa, parlando al telefono con mia madre, mi ha ricordato che la piccola belva mi comandava a bacchetta, addirittura mi dava i compiti da fare a casa, avevo un quader27
nino con la lezione che lei correggeva la mattina seguente. Ora chiudete un attimo gli occhi e visualizzatevi, sì siete proprio voi, quella che fa un casino bestiale, che ride come una pazza con i suoi amici maschi, che fa la lotta, che gioca poco con le bambole e molto a guardie e ladri, e il cui cartone preferito non è Candy Candy ma Lady Oscar. E poi tornate ancora più indietro e ricordatevi quella festa per il compleanno della stronzamica, quella in cui voi andaste animate da tutte le migliori intenzioni, con il vestito quasi del tutto pulito, e i capelli raccolti in una coda con il ramoscello d’ulivo, e ascoltaste queste parole uscire dalla bocca della mamma della stronzamica: “Barbara non fare questo, vuoi per caso diventare come Irene [o Paola, o Maria – aggiungete il vostro nome]?” Game over. Ecco, adesso tornateci con la consapevolezza di adesso. Quanto sarebbe stato meglio arrivare alla festa in compagnia dei vostri amici maschi, distruggere le decorazioni e tirare la torta in faccia alla festeggiata? Allora sareste stata solo una piccola vandala, ma la stronzamica avrebbe ricevuto una lezione tale che forse l’avrebbe indotta a cambiare, chi lo sa. Però più ci penso e più non ho parole: come è possibile che io, proprio io, soprannominata la iena (ma dalle superiori in poi...) non le abbia rifilato un calcio ben assestato? Io però mi sono salvata: la mia 28
sudditanza è finita in quinta elementare, dopo abbiamo frequentato due scuole medie diverse. In realtà ho semplicemente cambiato stronzamica, ma crescendo sono migliorata: prendo ancora delle “sòle” pazzesche, ma a volte riesco a capire in tempo chi ho di fronte, e quindi riesco a salvarmi. Magari con grandi sofferenze a livello emotivo, ma quanto meno do un taglio netto e, se serve, un calcio dove non batte il sole. Ma ogni esperienza è utile, sappiatelo, almeno i vostri errori – forse – non saranno quelli di vostra figlia. E poi se non avessi incontrato tutte queste care personcine, chi l’avrebbe scritto questo manuale di sopravvivenza? Ora finalmente ho capito la mia missione in questa vita: mettere la mia esperienza al servizio di tutte le amiche buone (ma un po’ coglione!), per combattere e vincere le stronzamiche.
Il punto debole Di solito è così che la vipera riesce a insinuarsi nella vostra vita: capisce qual è il vostro punto debole e, facendo perno su quello, cerca di piegarvi al suo volere. E io ce l’avevo il mio punto debole, ed era pure un suo parente, nonché comune compagno di scuola: Andrea, suo cugino. Era bello come Anthony (ebbene sì, Candy Candy lo guardavo pure io), però non so se vi ricordate, nel cartone faceva una brutta fine, e 30
la meglio l’aveva Terence. In ogni caso ancora non mi piacevano i belli e dannati, ma quelli stile principe azzurro, e io per farmi invitare alle feste della stronza piegavo la testa, cercavo di fare la docile, e lei se ne approfittava, tendendo trappole. Si divertiva a scrivermi bigliettini, fingendo di essere Andrea (altro che stronza, era da internare! Aveva pure la personalità multipla!), con la classica frase “vuoi metterti con me?” e le due caselle con la risposta sì/no. Quanti pianti, quante volte sono tornata a casa con la coda tra le gambe, sfogandomi sulle Barbie, che chissà come si ritrovavano tutte con i vestiti tagliati e le teste rasate. A un certo punto ho capito che per vincere dovevo discostarmi completamente da lei e dalle sue servette, e soprattutto ripagarla con la sua stessa moneta. E allora via di bigliettini finti, scritti naturalmente dalla sottoscritta spacciandosi per il ragazzino che allora le piaceva. Ma una cosa non avevo messo in conto... che il bambino naturalmente la ricambiava, e quindi si fidanzavano pure grazie a me! Oltre al danno, la beffa.
La stronzamica: come riconoscerla La domanda sorge spontanea, come si riconosce una stronzamica? E la sua preda? 31
Cominciamo proprio dalle basi, dopotutto prima si impara a gattonare, poi a camminare appoggiandosi a qualcosa o qualcuno, solo dopo aver raggiunto una certa sicurezza si potrà camminare da soli. E a quel punto il gioco sarà fatto, sarete in grado non solo di salvare voi stesse, ma anche le vostre amiche (quelle vere, merce rara e preziosa) e soprattutto le vostre figlie. Come vi dicevo in precedenza, stronzamiche si nasce. Adesso si scatenerà un putiferio tra i vari psicologi e pedagogisti e mi manderanno tutto lo staff di Sos tata a casa (ogni volta che vedo una puntata mi rendo conto che faccio tutti gli errori delle famiglie messe sotto inchiesta e sogno che la tata venga rinchiusa da mio figlio in uno sgabuzzino), perché questa affermazione è la negazione di anni e anni di studi. E cioè che certe abitudini si imparano a casa, che un bambino picchiato picchierà a sua volta, che un bambino maltrattato maltratterà a sua volta, e io su questo sono perfettamente d’accordo. Ma come la mettiamo con quei piccoli esemplari di “cattiveria” gratuita che hanno avuto un’infanzia felice e sono stati amati e coccolati dai genitori come se fossero perle? E badate bene che esistono. Sono forse l’eccezione che conferma la regola? Forse anche la madre a suo tempo è stata (e magari si mantiene) una stronzamica e quindi glielo ha passato nel DNA, però credetemi sulla parola: basta farsi un giretto nei parchi giochi, o nei giardini delle scuole materne per rendersi conto che è pieno di esemplari del genere. 32
La riconoscerete da lontano. Non è mai da sola, si circonda di una corte di amichette adoranti che le cedono l’altalena migliore, rubano per lei il giocattolo più ambito del cesto e soprattutto pendono dalle sue labbra, aspettando un cenno di assenso, di compiacenza, per essere felici il resto della mattinata. La stronzamica non ti guarda, ti squadra, capisce subito se puoi far parte della sua corte, oppure se puoi diventare un pericolo per la sua notorietà o credibilità. Come fa? Sceglie tra tutte quella che sta per conto suo, che non la considera, che gioca con i maschi perché con le femmine si annoia, quella dal sorriso cristallino, puro, quella priva di malizia, e la farà diventare l’“appestata”, l’“isolata”, il maschiaccio, quella che non deve giocare con le altre femmine perché diversa. E sarà vostra figlia. Perché? Perché lo dice lei, e quello che esce dalla sua bocca è il Vangelo, che il Signore e gli apostoli non se ne abbiano a male per l’esempio, ma è così. Volete sapere fino a che punto può arrivare una stronzamica di appena cinque anni? (Sappiate che quello che vi sto per raccontare è accaduto, quindi non è frutto della mia immaginazione.) Può arrivare a soggiogare le piccole seguaci al punto che alle otto di mattina le telefoneranno per sapere come si devono vestire, perché solo lei dovrà spiccare, le altre devono rimanere sempre un metro sotto: altro che Scientology questa è Stronzology! 33
Adesso, care amiche, dopo aver letto le caratteristiche dell’una e dell’altra, cercate di capire vostra figlia – su di voi non ho alcun dubbio: se state leggendo questo libro fate parte come me delle amiche coglione – a quale delle due schiere appartiene: siete ancora in tempo per salvarla dal diventare una grandissima stronza o una buona e cogliona, ma sappiate che arrivati alle scuole elementari se ancora è così, fatevene una ragione: l’avete persa, il carattere è già formato, potete limitare i danni, ma solo nel caso delle buone. Le altre sapranno già cancellare la cronologia del computer dopo aver chattato con il fidanzatino e riusciranno a fregarvi affinando la loro strategia. Sia detto per inciso: se ancora non lo avete fatto, amiche mie, andate a controllare il pc delle vostre figlie. Se non c’è traccia di cronologia cominciate a preoccuparvi, le cose sono due: o ha già scoperto qualche sito hot o non vuole che sappiate quello che fa della sua vita, ma direi che, per quanto mi riguarda, a otto anni la parola privacy non dovrebbe nemmeno esistere, non ci sono psicologi o pedagogisti che tengano, a otto anni per me non ci devono essere segreti con i genitori, perché la mamma über alles.
La stronzamica: le tipologie Si possono inquadrare varie tipologie di questi soggetti in base al loro modus operandi e soprattutto 34
in base alla causa scatenante del loro astio nei vostri confronti. In parole semplici, o vi vogliono fottere il fidanzato, o l’amica del cuore, o il gruppo, o tutto senza esclusioni di colpi. a. La mantide È quella che comunque, ovunque, quantunque, in tutti i luoghi e in tutti i laghi vorrà piacere al vostro fidanzatino. Esiste una tipologia di stronzamica che è già una piccola mantide fin dalla scuola elementare. Immagino Maria Montessori che salti nella tomba si starà facendo, ma voi prendete appunti e poi ditemi se non ho ragione. Entrate in una classe delle elementari e osservate con attenzione. Viso quasi perennemente imbronciato (come diceva Meg Ryan nel film French Kiss: “Ci nascono, con il broncio affascinante, che dicono sì quando intendono no, e viceversa, mica come noi: felici, sorridiamo; tristi, ci accigliamo. Noi usiamo la faccia che corrisponde alla corrispondente emozione”). Camminano davanti alle altre, inclinando leggermente la testa, coordinate da capo a piedi, corrono sembrando ballerine della Scala, in punta di piedi, non hanno mai le mani sporche e si schifano della sabbia che entra loro nelle scarpe: orrore! Quando si siedono a tavola per mangiare lasciano sempre qualcosa nel piatto, stanno composte e soprattutto non sanno cosa significhi sporcarsi le vesti di pomodoro. 35
E adesso aprite bene gli occhi, e vediamo se riuscite a individuare la preda perfetta. Non occorre guardare molto lontano, sarà dentro la sabbiera, sporca da capo a piedi, capelli arruffati e sorriso stampato, talmente vero da infastidire un broncio studiato. Sarà circondata da maschietti che non la considerano una femmina, ma una di loro, perché se guardate meglio è una di loro, perfettamente integrata nel gruppo e, con in mano le carte dei Pokémon, farà delle partite all’ultimo respiro. (Piccola nota negativa: considerandola un maschiaccio la vedranno sotto quell’ottica rivolgendo gli sguardi di ammirazione/rincoglionimento verso la piccola stronzamica.) A tavola farà a gara di lancio del pane, chiederà il bis delle penne al pomodoro e tornerà a casa così macchiata di rosso che manco messa in lavatrice a 952 gradi tornerà mai di un colore simile all’originale. La stronzamica si limiterà nei dolci, perché sa che fanno ingrassare – incredibile ma vero, udito con le mie orecchie – e sarà infastidita dal panino farcito di vostra figlia, e a questo punto, non riuscendo più a tacere, proverà a dissuaderla. Dite la verità vi torna in mente qualcosa di simile? A me sì. 1979, avevo nove anni, ero secca come un chiodo, mi chiamavano Nonna Osso, oppure Olivia, eppure sono riuscita a farmi fottere dalla stronzamica con una sola mossa: alfiere in B2 (ho tirato a caso, non andate a controllare, mi piaceva il suono, non so giocare a scacchi). È riuscita a farmi buttare via il mio amato bombolone alla crema solo dicendomi 36
che quando masticavo sembravo un piccolo maialino nella mangiatoia (meno male che disse “piccolo”) ridendo di me con la classe. Pensateci bene. A voi non è mai capitata una cosa del genere? Forse adesso che la lettura di questo piccolo manuale di difesa si fa più spedita vi sovvengono ricordi lontani: non vi portavate fiere la vostra merenda al cioccolato, e la fedele stronzamica vi diceva che era meglio non mangiarla, perché aveva sentito il vostro amichetto del cuore dire ai compagni che vi vedeva leggermente ingrassata, convincervi a buttarla, per poi recuperarla e mangiarsela (solo un pezzo neh, mica vuole diventare tutta ciccia e brufoli lei)? Attenzione, stiamo arrivando a un punto cruciale, ecco la prima lezione da tenere in mente: i maschi di qualunque età non riescono a vedere se ti sei cambiata il colore dei capelli, figuriamoci se tra di loro parlano di etti o chili presi. Fino ai dieci anni parlano di pallone, dai dodici ai sedici di tette, culi e palloni, dai sedici in poi procedono in quest’ordine: palloni-tette-culi all inclusive, diciamo all’incirca fino al sopraggiungere dei problemi di prostata. Adesso con il Viagra e la pompetta non parlano d’altro manco in veneranda età, solo che invertono l’ordine dei fattori, prima “gnocca semper ”, per tutto il resto c’è My Sky: al massimo si registra, perché, se si scaricano le pile, la pompetta non va più! Quindi care amiche che state leggendo questo manualino, ricordatevi e insegnatelo a vostra figlia: 37
se qualche tua amichetta ti dice di non mangiare la merenda perché in giro si dice che sei ingrassata, fai un sorriso a 32 denti e rispondi: “Ma dai, davvero? Dici che saranno gli stessi che dicono di te che sei stronza?” b. La rassicurante Esiste una tipologia che potrebbe trarre in inganno chiunque: è quella della stronzamica rassicurante, per nulla appariscente, al punto da sembrare anche dolce e arrendevole. È la peggiore, sapevatelo. È una delle stronzamiche gattemorte mo’-ti-fotto-forte-forte. Questo tipo di stronzamica non fa parte del circondario, ma nemmeno della stessa scuola, o parrocchia, o cortile. Se ve la trovate di fronte, cominciate a indagare sulle motivazioni del suo trasferimento. Se sono semplicemente famigliari, non correte nessun rischio. Ma mettete il caso che la piccola belva travestita da agnello arrivi da una scuola lontana solo qualche chilometro, e che proprio l’ultimo anno abbia deciso di iscriversi in un’altra della stessa provincia ma non dello stesso comune. Ecco, cominciate a preoccuparvi care amiche, due indizi fanno una prova. Quale genitore responsabile (suvvia ora gli psicologi e i pedagogisti mi applaudiranno) cambia la scuola alla propria figlia proprio l’ultimo anno? Gatta ci cova. Ecco cosa vi accadrà: dal momento che fate parte della schiera delle amiche buone/coglione, non vi 38
sarete mai nemmeno domandate non solo il perché del trasferimento, ma avrete incoraggiato vostra figlia a supportare l’inserimento della bambina, perché poverina sola in una classe nuova (probabilmente il cliché corrisponderà alla perfezione alla classica brava signorina, dolcemente paffutella, con un piccolo tic, apparentemente fragile e insicura). Aspettate prima di azzannarmi alla gola: ci sono dei trasferimenti che avvengono anche per il motivo opposto: si tratta di bambini maltrattati, o presi di mira da un gruppo di compagni, ma ricordatevi sempre che quando un bambino cambia classe un motivo c’è e, per sicurezza, meglio sapere qual è prima che dopo. Voi mi risponderete che sono affari loro, e io vi rispondo: vostra figlia è affare vostro, e prevenire è meglio che curare, quindi meglio farsi un giretto nella vecchia scuola, o incontrare per caso i genitori dei vecchi compagni, in modo tale da capire la reale situazione. E torniamo al punto in cui siete state proprio voi a mettere vostra figlia nelle mani della stronzamica. L’unica cosa che potete fare, o che farete, è cercare di limitare il danno. Vigilate ma non intervenite, supportate ma non soffocate, e soprattutto tenete d’occhio i tre segnali d’allarme della vita di un bambino in questo periodo. Tre sono le cose che non devono subire cambiamenti: il cibo, il sonno e il gioco con i coetanei. E voi ora penserete che sono proprio brava e che ho studiato, e io in tutta onestà vi risponderò 39
che da brava amica buona/cogliona mi sono dovuta rivolgere a un’esperta, una pedagogista, per aiutare i miei figli, perché è vero che quando nasce un bambino nasce un genitore, ma non nasce imparato, né dotato di manuale di sopravvivenza. Ed è per questo che adesso arrivo io: aggiungete questo manuale di sopravvivenza alle stronzamiche nella vostra lista per il futuro nascituro, pochi euro spesi bene, che eviteranno terapie future molto costose, che avranno tutte bene o male lo stesso finale: supportare senza invadere, rispettare i sentimenti del proprio figlio, non sostituirsi a lui e lasciarlo libero di fare i propri sbagli. Eh no, cara amica pedagogista! Col cavolo! Io li voglio evitare gli sbagli, li voglio stroncare sul nascere! Quindi bando alle ciance e seguitemi nel racconto, vedrete che alla fine di queste pagine avrete finalmente la forza di prendere la vostra stronzamica e mandarla a cagare – e credetemi sarà tanto, tanto liberatorio. Dicevamo della nuova compagna di scuola. Sappiate che le stronzamiche seguono un rituale, ormai sperimentato e funzionante, sempre lo stesso: individuare l’elemento debole del gruppo, anzi più che debole direi innocuo, anzi la parola giusta è “indifeso”, privo di filtri, e sarà proprio vostra figlia, o magari la migliore amica di vostra figlia (non voglio portare sfiga eh, però tenetelo bene a mente perché al momento giusto può sempre servire). 40
E sì care amiche perché voi le avrete insegnato che nel mondo bisogna fidarsi dell’altro, essere amici di tutti e soprattutto avrete fatto in modo che prenda ad esempio se stessa come metro di giudizio e come metodo di comportamento, pensando che gli altri siano come lei. Altro grande, grandissimo errore. Ricordatevi e fatene tesoro: non tutti sono come voi, le stronzamiche esistono, sono tra noi, love and peace ha fallito, porgi l’altra guancia è al pronto soccorso con la faccia gonfia di schiaffi, adesso è il momento di prendere coscienza di sé, e assestare un bel calcio nel culo, che se non sarà politicamente corretto, vi assicuro che sarà funzionale (quando si dice che un gesto vale più di mille parole).
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5. Stronzamica, giù le mani da mia figlia!
La stronzamica si palesa Mettiamo quindi il caso che siate state proprio voi le carnefici inconsapevoli di vostra figlia: il minimo che potete fare è rimediare in qualche modo all’errore fatto. Io, dopo tre anni di riflessioni, ho deciso di mettere nero su bianco la mia esperienza, anzi – povera cucciola – la sua esperienza (non mi devo sostituire a lei, me l’ha detto anche la terapeuta, solo che mi viene spontaneo, in un’altra vita dovevo essere una leonessa altro che capperi!), voi, care amiche, invece avete preso la decisione giusta: avete acquistato questo concentrato di piccole ma dure verità. Su, forza, alzi la mano chi di voi almeno una volta nella vita, se è già mamma e si è trovata nella situazione in cui una stronzamica sta molestando sua figlia, non ha fortemente desiderato di essere nei suoi panni, almeno un giorno, per andare e sfancularla pesantemente. Oppure non ha semplicemente desiderato di farle un discorsetto a quattr’occhi. Ecco, non fatelo mai, sognatelo quante volte vi pare, ma non fatelo mai, primo perché indebolireste la figura di vostra figlia 43
all’interno del gruppetto, secondo perché poi vi toccherebbe fare a botte con la mamma della stronzamica, e non sarebbe bello né educativo (anche se tanto tanto liberatorio). Dicevamo, vostra figlia è diventata la preda della stronzamica. Lei è convinta di avere trovato l’amica del cuore, l’altra invece sta solo cercando di arrivare al gruppo che le interessa. Il danno è fatto. Telefonerà di continuo a casa, vostra figlia si sentirà amata, capita, farà cuori sui libri, “amiche 4 ever”, e voi però non avrete capito una mazza, proprio come la sottoscritta, e sottoscriverete con urletti di soddisfazione questo bellissimo rapporto, fino a quando... Fino a quando un giorno le telefonate diminuiranno, vostra figlia comincerà a parlare sempre meno di lei, e finalmente vi si illuminerà la famosa lampadina di Archimede (a vostra figlia che è più sveglia ma indifesa di voi si è già accesa, ma tace perché teme una vostra reazione, con intenzioni positive, ma con un finale disastroso – quando si dice “la figlia è la mamma, la mamma è la figlia”...). Ma la verità è che la lampadina di Archimede manco si è accesa da sola, ha avuto bisogno dell’aiuto della maestra. Ecco, le maestre (o professoresse) non sono il male (sapevatelo), e parlo da figlia di due professori (prima che qualcuno voglia addentarmi alla giugulare), anzi la maggior parte di loro possono essere delle grandi alleate, basta saper cogliere le sfumature. Ci 44
saranno quelle che non si faranno mai i cazzi loro, ma questo purtroppo capita in tutte le professioni, dipende dalle persone, non dal lavoro che fanno, ma ci saranno anche quelle talmente percettive che arriveranno dove ahimè voi non siete arrivate. E non bisogna prendersela: sul piano dell’esperienza vincono, volete mettere quante piccole stronzamiche avranno incocciato sulla loro strada? Insomma, partiamo dalla vita vissuta. Mia figlia una volta alla settimana aveva il rientro, in pratica un pomeriggio pranzava a scuola, e usciva alle 16 e 45. Che c’è di strano?, chiederete voi. Nulla, fino a quando ha cominciato a chiedermi di non lasciarla più a mangiare lì, o a chiedermi di non fare il pomeriggio (considerato facoltativo), e io ho preso questi segnali come una forma di mammite acuta e l’ho accontentata. Poi, la terza volta che andavo a prendere mia figlia, la maestra mi ha fermato e mi ha fatto capire che Dodo si stava isolando dal resto del gruppo, che per una bambina della sua età era un po’ strano, e che in realtà era una sua forma di difesa dal gruppo che, capeggiato dalla stronzetta, aveva preso a sfotterla. Ma quest’ultima cosa non mi era stata rivelata. Il risultato? La bimba si è chiusa a riccio, della serie, tu non mi vuoi, io mi basto. E non è possibile: non mi basto da sola nemmeno io a quarant’anni figuriamoci lei a dieci. Ha cercato in tutti i modi di convincermi che andava tutto bene, guardandomi 45
con gli occhioni del gatto con gli stivali, e qui siamo noi a dover essere brave a leggere anche tra le righe: alla fine (dicono) il sesto senso prevarrà e con un abbraccio (forse) e le giuste parole (ma anche no) saprete rompere il suo muro (poi al massimo se non ci riuscite, ricordatevi sempre della maestra).
Segnali d’allarme Tutto sembra trascorrere liscio e sereno – perché vostra figlia vuole che voi stiate “tranquille” mentre dentro di lei si sta scatenando l’inferno –, fino a quando un giorno, il suo amichetto del cuore, santo lui e sua mamma, si confida con i genitori, ed esce fuori che tua figlia è tre mesi che è stata isolata dalla stronzamica, che non le permette di avvicinarsi al gruppo delle femmine e la costringe a giocare solo con lui. Ecco a questo punto, care amiche, le opzioni che vi si prospettano sono numerose, vi confido che in tutta onestà, la mia prima reazione è stata quella di aspettare la madre della belva e affrontarla, poi ho pensato che potesse essere rischioso – passare dalle parole ai fatti è un attimo. La seconda opzione è parlare con le maestre, e così ho fatto, cercando in qualche modo di tutelare mia figlia, aspettando a gloria la fine della scuola per risolvere definitivamente il problema. 46
Lingue diverse, classi diverse, non poteva accadere di incontrarla di nuovo. E invece, sapete come si dice?, il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e così con nostra grande sorpresa, dopo l’estate sulla porta della scuola media sono esposti i fogli con i nomi dei compagni di scuola e – orrore! – la stronzamica è tra questi. Ho cercato di fare finta di nulla, di sminuire l’accaduto, di dire a mia figlia, tranquilla vedrai che non accadrà più, non lo farà più. In realtà è stato un mantra che mi ripetevo all’infinito, dalla sera alla mattina, controllando ogni minimo cambiamento; solo che dormire, dormiva bene, il cibo non è mai stato un problema, i professori la elogiavano in continuazione: “È così una brava bimba, buona, non dà mai fastidio, è perfettamente integrata nel gruppo e bla bla bla”. E come ci caschereste voi, ci sono cascata anche io, care amiche! Niente di più sbagliato: la stronzamica ha solo affinato la tecnica, adesso manda avanti le altre, lei tiene le fila, fa da burattinaia, non si espone, fa esporre le altre, che cominciano a manifestare segni di insofferenza nei confronti di vostra figlia che ancora una volta si ritrova da sola, anzi no, perché il gruppo delle infami in miniatura insieme a lei ha isolato altre due bambine, una perché straniera – e vuoi mettere che discriminante enorme questa –, l’altra perché piccola da sembrare una bambolina di porcellana, ma con un carattere di ferro. Ogni volta che le vedevo uscire da scuola mi ricordavano il trio del mago di Oz, alla ricer47
ca della serenità perduta. Io, nel frattempo, cercavo di vederla in modo positivo. Mia figlia ha il carattere del padre, non agisce d’impulso, riflette, pianifica, quindi ho pensato che stesse elaborando una tattica di difesa, e già la vedevo, come Emilio Fede alle elezioni del 1994, con le sue bandierine sparse per l’Italia – altro che RisiKo! – alla conquista della sua libertà. E invece, una mattina, durante la settimana di Pasqua, se ne esce con questo bel discorso: “Sai mamma, stanotte ho fatto un sogno bellissimo...” e io: “Ma dai, davvero? E cosa hai sognato?” “Che sparavo una fucilata a Sofia [nome di fantasia naturally]. È stato proprio liberatorio”. In quel momento ho realizzato: ok Houston abbiamo un problema. Ma porca pupazzola, possibile che mia figlia rischi di diventare una serial killer per colpa di una stronzamica? E se anche voi, mie care amiche, vi siete trovate in questa situazione, sognando di entrare in classe e invece di tirare fuori l’astuccio, tirare fuori una bella granata centrando la vostra carnefice e tutte le compagne, bene: uno-due-tre-respirone, ascoltate quello che ho da dirvi. Tutti sognano almeno una volta di far fuori (metaforicamente parlando) il bullo o la bulla della scuola: alzi la mano chi non l’ha mai sognato – siete tra quelli?, peccato, non sapete che cosa vi siete persi. Bene, vedo che la maggior parte di voi è del gruppo delle granate nello zainetto. Sappiate che abbiamo il lasciapassare dei terapeuti: sognare di tirare una 48
fucilata, una granata, una bomba sulla stronzamica non è un segno di pericolo, non è che veramente siete delle serial killer, siete semplicemente arrivate alla frutta. Gnafate più. Io mi ricordo che sognavo di entrare in classe e tagliarle a zero tutti i capelli, oppure di lasciarla in mutande nel corridoio durante la ricreazione, e mi risvegliavo con un enorme sorriso sulla faccia.
Quando la stronzamica ti rovina il sonno Finalmente si è accesa la lampadina, mia figlia mi ha fatto chiaramente capire (più chiaro di una fucilata non si può) di essere arrivata alla frutta, e io ho pensato che tutto potesse risolversi facendola parlare, d’altronde ti insegnano che il dialogo è alla base di ogni rapporto, e così ho fatto. Però, parla parla e riparla, non siamo venute a capo di niente, anzi una bella sera, come un fulmine a ciel sereno, dopo anni di sonno imperturbabile, accade quello che i bravi psicopedagogisti dicono che accade quando c’è qualcosa che non va nel bambino: mia figlia non vuole dormire più da sola, è terrorizzata dal buio, dice che non vuole chiudere gli occhi perché vede tutto nero, e tu cerchi di minimizzare dicendole: “Per forza amore, è notte”. Ma lei si trasforma, sembra Regan, la bambina indemoniata dell’Esorcista – che, scopri con orrore, 49
aveva proprio dodici anni quando interpretò il film – indietreggia mentre io e suo padre ci avviciniamo e con due parole ci sistema per tutta l’estate: “Vai via tu mostro [al padre] e pure tu [alla madre, cioè io], tanto lo so che mi volete abbandonare sull’autostrada”. Sdeng, sdeng e triplo sdeng, io e Luigi (il padre, cioè il mostro) ci guardiamo avviliti, stremati, preoccupati, mentre lo gnomo, almeno lui, se ne dorme beato al primo piano del letto a castello. E allora si parte: ricerche su internet, richieste di consigli ad amiche psicologhe, libri sul rapporto tra genitori e figli adolescenti, e la realtà è che ognuno dice la sua: c’è chi suggerisce di farla dormire con noi e chi di farla addormentare nel suo letto standole vicino, c’è chi dice di affrontare i problemi con le buone e chi di essere inflessibili nelle decisioni, insomma un vero casino. Noi genitori che al primo pianto dei figli li abbiamo fatti dormire stile koala nel lettone, noi che abbiamo ricevuto in regalo il libro Fate la nanna con la spiegazione del metodo Estivill – e, dopo la prima sera, quando il pianto si prolungava per più di cinque minuti, abbiamo sentenziato che di sicuro ’sto benedetto uomo o non c’aveva figli, o aveva dei vicini sordi, o semplicemente si era messo i tappi nelle orecchie, e lo abbiamo immediatamente riciclato come regalo indesiderato –, noi eravamo smarriti. Abbiamo passato un’estate in camper a fare la ninna nanna alla figlia, a coccolarla, e infine, stremati 50
dalle continue incursioni notturne, ci siamo decisi a fare un tentativo estremo per renderla indipendente: “Dona, ti abbiamo iscritto al campo estivo del WWF, una settimana da sola con bambine della tua età alla ricerca del lupo [e del sonno perduto]”. La sua reazione è stata prima di sorpresa, poi quasi di felicità, poi, più si avvicinava il momento della partenza, più lei si incupiva, e noi pensavamo che alla fine avrebbe rinunciato. Invece il giorno della partenza è arrivato, il 4 luglio, giorno dell’indipendenza americana nonché nostro anniversario di matrimonio, forse era un segno? E via nel piccolo pullman con tre dodicenni tre babbi e due mamme alla ricerca della tranquillità perduta. Be’, più si avvicinava l’ostello più mi si contorcevano le budella, ’azz e se ora crollo io? Arriviamo insieme ad altri genitori, altri bambini, visitiamo le camere, il salone, poi ci dicono di non lasciare ai pargoli i cellulari, che avrebbero chiamato loro due volte (ma siamo matti, eh? Due volte in una settimana? E basta? Ma io muoio!). Quindi dopo averle imboscato il telefono nello zaino, e averla pregata di messaggiarmi prima di andare a letto, sono dovuta scappare prima dell’appello perché mi veniva da piangere. La mia bambina, la mia bambina tutta sola, come farà? (Vuoi vedere che alla fine è colpa mia davvero?) E mai l’avessi fatto di lasciarle il cellulare: il giorno se ne stava beata a divertirsi con le amiche e la not51
te mandava messaggi devastanti alla sottoscritta: “Mi manchi mammina mia, che fai?”, “Penso di non riuscire a stare tutte queste notti senza di te...” e via andare. E mica li mandava alle dieci di mattina eh, opportunamente iniziava alle ventitré per continuare anche due orette così, tanto per non farci perdere l’abitudine a non dormire. Finita la vacanza, fatte nuove amiche, imparata qualche parolaccia in più, acquisite un po’ di sana indipendenza e cognizioni anatomiche prima sconosciute, siamo tornati al punto di partenza. “Io da sola non dormo, quando chiudo gli occhi vedo un pozzo, e dentro il pozzo ci sono dei visi, ma sono tanto cattivi”. Non so quanto avrò googolato: “pozzo nero”, “visi cattivi”, e poi: fammi il disegno dell’albero, ma ce l’ha le radici, e le foglie? E il cielo?
Perle di saggezza Ma la cosa veramente bella – bella si fa per dire – sono stati i consigli pratici che ci venivano dati dagli amici, da terapeuti mancati (e se sono mancati ci sarà un perché), o dai parenti. Le altre mamme cominciavano la frase con un “Oh poverina” ecco, ve lo dico, così magari lo sapete prima ed evitate di chiedere consigli a chicchessia; se c’è una cosa che mi fa veramente incazzare sono le frasi che cominciano con “Oh poverina”: ma pove52
rina de che? Mica è malata, mica siamo morti di fame, insomma lo trovo un incipit fastidioso e infelice. Dicevamo, le mamme che mai si fanno i cazzi loro, quelle che davvero nella vita non c’hanno una mazza da fare, che stanno ore e ore davanti ai cancelli della scuola a parlare del nulla, ma che improvvisamente diventano tuttologhe ed esperte se il problema è il tuo. Però nella loro mente è un do ut des, io ti elargisco un consiglio, ma mica lo faccio gratis, devo sapere come vanno le cose in famiglia, e quindi la prima cosa che ti chiedono è: “Come va la tua vita sessuale?” Ora, io dico, ma saranno cazzi miei se e quante volte io e mio marito scopiamo? No, pare che anche questo possa incidere sul sonno della povera creatura. E quando tu rispondi: “In questo momento è un po’ difficile avere una vita sessuale normale visto che non riusciamo mai a stare da soli nel letto”, allora arriva la seconda domanda, che è ancora più bella: “Ma tu hai mai urlato mentre facevi l’amore?” Allora ditelo che è uno scherzo. Non me lo ha chiesto neanche la terapeuta, e me lo devono chiedere tre mamme frustrate in croce che forse non lo vedono da parecchio? Ma c’è un perché anche a questa domanda. Metti che tu hai urlato e lei ha sentito e pensa che il babbo voglia fare del male alla mamma e quindi non vuole lasciarti da sola a dormire con lui? Ammappa, ’ste mamme frustrate c’hanno dato dentro con internet. E... se fosse questo il motivo? Allora fai mente locale e pensi: quella volta no, quella volta sì, quella volta piano, ma 53
poi arrivi alla conclusione che non c’entra nulla perché sono dodici anni che urli e non è possibile che proprio ora pensi che il babbo mi picchi. Arriva poi il turno dell’amica psicologa mancata che dice: “Ma sai che anche la figlia di una mia carissima amica l’ha fatto per diversi mesi? All’improvviso ha smesso di dormire da sola, e via scenate, pianti, urla, e tutti erano disperati perché non sapevano come fare, e via di consulti con terapeuti ma, alla fine, non cambiava nulla”. “E quindi quanto è durato?”, replicavo io atterrita (tipo prete in confessionale: “mi dica, signora, quante volte?”). “Fino a quando, un bel giorno, la bambina, passata la fase dai dodici ai tredici anni, ha ripreso a dormire da sola senza fare pio, e alla domanda dei genitori su cosa fosse successo, ha risposto: ‘Mica c’avevo nulla in realtà, volevo solo vedere la vostra reazione, vi ho preso un po’ per il culo dai, possibile che non ve ne siate accorti?’”. E come direbbe la mia amica romagnola Simona “Ma fai davvero?” Eh no, no-no-no ci manca solo che dopo tutto ’sto tran tran esca fuori che mia figlia mi sta prendendo per i fondelli: la metto a dormire in giardino con la tenda la metto, e vedi come le passa la paura tutta insieme. E poi arrivano le perle parentali: “Vedi, vedi cosa succede a tenerla sempre nel lettone con voi? [Erano dodici anni che aspettavano il momento giusto per rinfacciarmelo.] I bambini non vanno viziati, non vanno tenuti sempre in braccio, il lettone deve essere vietato”. Ma de che? Adoro vederli correre e lanciarsi nel lettone 54
con noi, adoro fare la lotta con loro e non cambierò mai. Sapevatelo. Insomma il problema era solo ed esclusivamente colpa mia: della serie l’hai voluta tenere sempre con te? Ora pedala. Ma insomma, se ha sempre dormito tranquillamente, e all’improvviso non lo fa più, ma lo capirebbe anche un muro che c’è una causa scatenante che non può derivare da azioni perpetrate nel tempo. Quindi con pace e gioia di tutti la conclusione è stata unanime: l’adolescenza è un momento critico, la stronzamica non aiuta, la presenza della mamma invece sì, quindi tante coccole e vediamo come va a finire.
Quando la figlia ha capito tutto e la mamma ancora no Ma alla fine stremati abbiamo chiesto l’aiuto di uno specialista: la psicopedagogista, che in sei sedute, più una omaggio, due con me, tre con la bimba, una con entrambi i genitori, e l’ultima di saluti con lei, alla modica cifra di 420 euro, è riuscita dove noi avevamo fallito. La risposta in sintesi è stata: sì, effettivamente Houston abbiamo un problema, in particolare con una compagna di scuola (no, ma va? Sarà mica la stronzamica?), ma la bimba è molto intelligente (lo sapevamo), buona (lo sapevamo 2) e quando sarà pronta esploderà (lo sapevamo 3, la vendetta). Cosa le avrà detto mai per farla ricominciare a dormire? Non ci è dato sapere, perché lei (la pedagogi55
sta) non ce l’ha detto e la figlia ha sentenziato: “Se lo vuoi sapere lo devi chiedere a lei”, insomma il finale è che la mia stella ha ricominciato a dormire da sola, con qualche coccola più lunga, qualche escamotage, ma soprattutto con il letto pieno di amici immaginari che, a quanto pare, aiutano. Ma la cosa più bella è stata durante una delle mie sedute singole, quando raccontandole dei vari scherzi subiti da mia figlia, la pedagogista mi ha detto che non dovevo chiedere a lei perché non reagisse, ma informarmi sul suo stato d’animo al momento dell’accaduto. E così, dopo un mesetto dalla terapia, Dodo esce da scuola e mi dice che la piccola infame l’ha presa in giro nello spogliatoio delle femmine, e io subito con il sangue al cervello ho alzato la voce esplodendo con un: “Dona ma perché cazz... non le rispondi? Ma io non lo so...” Poi ho ripensato alle parole della psico, ho cambiato tono e le ho chiesto: “E dimmi, amore, tu come ti sei sentita quando lei ha detto questo?” Mia figlia mi ha guardato: “Mamma, ti senti bene? Perché parli così? Stai tranquilla, quando il vaso sarà colmo io esploderò”. E la mia risposta è stata naturalmente montessoriana: “Ma quanto cazzo è profondo ’sto vaso, Dona? E soprattutto sei sicura che ce l’abbia un fondo?” Eccoci arrivati al punto, ok Houston avevamo un problema, ma lo abbiamo risolto, alla fine 420 euro per il sonno dei giusti è un prezzo più che accettabile, mia figlia ha una schiera di amici imma56
ginari, ma me li ha anche presentati, quindi siamo a posto. Siamo pure arrivati a un compromesso: quando il babbo è in trasferta a Venezia dorme con me, quando invece torna a casa dorme nel suo letto. La sua deliziosa amica del cuore, con la sua dolcezza e il suo affetto, è riuscita a scaldare il cuore della mia bambina, con la sua fermezza e simpatia è riuscita anche a trascinarla per i corridoi della scuola media durante la ricreazione, per salutare le varie compagne. La mia piccola ha riacquistato serenità. Si è fatta la prima ceretta, mi ha chiesto di comprarle il foulard a quadri (piccole kefie crescono), la mattina si fa truccare leggermente, si è andata a fare i buchi alle orecchie e udite udite la stronzamica (forse non è poi così stronza è solo piccina e insicura, cappero vai a vedere che alla fine gli psicopedagogisti c’avevano ragione!) l’ha invitata alla sua festa di compleanno (timeo Danaos et dona ferentes). Però, memore della festa di compleanno della mia stronzamica, la manderò armata quanto meno di fionda al massimo, se le cose si mettono male, può sempre far saltare qualche pezzo di torta per aria. Anzi, sapete che c’è? Forse la sua pazienza ha potuto più della mia ansia da prestazione, la sua dolcezza ha potuto più dei miei calci in culo, il suo vaso ha raccolto il giusto, e non è nemmeno esploso, vai a vedere che il problema Houston ce l’ho solo io adesso. 57
Il lieto fine Segnatevi questa data: venerdì 20 aprile 2012. A quasi un anno dallo scoppio della bomba (in senso lato), mia figlia è venuta nel lettone (il babbo era a Venezia), mi ha abbracciato, si è girata un po’, poi ha sussurrato: “Sai mamma nel mio letto dormo meglio, ti dispiace se vado di là?” E io ho pensato: cavoli, proprio stasera che c’è il temporale mi deve lasciare dormire da sola?, ma le ho risposto: “Ma certo piccola, vai, te l’ho sempre detto che nel proprio letto si dorme meglio”. Lo confesso, mi è scesa la lacrimuccia, ho realizzato che forse non ha più bisogno di me, che è cresciuta, che sarà difficile vederla cadere, farsi male, e poter stare solo affacciata aspettando una sua richiesta d’aiuto senza poter intervenire, ma temo che la vita sia proprio questa. E forse è proprio questo il problema, lei ha risolto, io ancora non mi sono risolta. Io sto crescendo, e lei pure, ma il mio spirito è rimasto ai vent’anni, il corpo no. Per favore, li avvertite di andare d’accordo? Esci da questo corpo, Irene delle scuole medie! Non sei tu che vai a scuola, non è la tua stronzamica, è la sua, adesso che lei ha finalmente vinto, ed è stata più brava di te, continua a raccontare le tue di disavventure, forse arriveremo a capire perché sono accadute.
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6. La stronzamica è come la Barbie, ce n’è una per ogni tipo
La stronzamica ballerina Avevo solo otto anni, tutte le mie compagne di scuola andavano a danza, potevo io tirarmi indietro? Mai nella vita! Quindi, armata di calzamaglia color carne, ballerine e body rosa, i capelli raccolti in uno chignon, feci il mio ingresso in società. La stanza aveva un odore acre, di borotalco misto a sudore – e chi se la dimentica la frase storica del telefim Saranno famosi pronunciata dall’insegnante di danza Lydia Grant: “Perché è qui che si comincia a pagare: col sudore”, quindi ero nel posto giusto. Diventai molto amica di una delle compagne di corso, che mi correggeva in tutto quello che facevo, e i piedi in seconda non si mettono così, e alla sbarra si sta cosà, e il plié e ’sti cazzi: ma veramente per un’ora e mezza tocca sta’ attaccate a un palo di legno orizzontale, muovendo i piedi davanti poi di lato poi dietro, e poi via altro giro altra corsa? Ebbene sì. E io ci provai con tutta me stessa perché adoravo stare con quella che io pensavo fosse la mia migliore amica. 59
Solo che invece di stare alla sbarra rincorrevo le bimbe, saltellavo come un grillo, e allora la mia fedele stronzamica che non sopportava più la mia presenza a lezione – perché disturbavo – cominciò a segnalare ogni mio sgarro alla maestra (che sembrava Alessandra Celentano di Amici incattivita, probabilmente avrebbe voluto essere alla Scala e non con venti bimbette urlanti). La maestrina viaggiava con un’asticella di legno, e per ogni parola proferita (ebbene sì, durante la lezione c’era il divieto assoluto di proferir verbo, figuriamoci: non sono mai riuscita a stare zitta per più di due minuti, immaginatevi per un’ora e mezza!) bacchettava la colpevole. E bacchetta oggi, bacchetta domani, ormai ero diventata la pecora nera, il massimo dell’umiliazione lo raggiunsi quando la signorina (perché la maestra era zitella e pure acida) mi prese ad esempio in negativo per far capire alle altre cosa non si doveva fare, e invece prese a modello positivo la mia cara stronzamica che, tronfia del suo nuovo status, sentenziò ad alta voce: “Io ci ho anche provato a migliorarla, ma è davvero impossibile maestra!”, sorriso Durban’s e stellina che suona alla fine della dentiera. Da allora lei diventò la preferita della maestra e non mi parlò più, io dal canto mio cambiai sport, mi diedi alla pallamano, anche con buoni risultati, ero portiere, solo che giocando con i maschi, per parare un rigore, mi feci un occhio nero. Fu la mia fine dal 60
punto di vista sociale, bollata da tutte le stronzamiche ballerine come maschiaccio, cercavo il fioretto che probabilmente il mio papà mi aveva messo in culla (dalla sigla di Lady Oscar : “Il buon padre voleva un maschietto, ma ahimè sei nata tu, / nella culla ti ha messo un fioretto, / Lady dal fiocco bluuu”) e seguendo il mio lato zen mi ero seduta sul fiume ad aspettare che passassero i cadaveri delle stronze (“Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”). Naturalmente, dopo un tempo relativamente breve, non essendo dotata di elevate dosi di pazienza cominciai a chiedermi: ma siamo sicuri che prima o poi questi cadaveri passeranno nel fiume? Ma quanto cacchio ci si deve stare seduti lungo il fiume? E se poi il corso è quello sbagliato? Non è meglio buttarceli direttamente noi nel fiume, così risparmiamo tutti tempo? E così elaborai la mia vendetta. Immediata e soddisfacente. Il giorno del saggio mi infilai nel guardaroba e armata di forbici tagliai tutto il suo tutù da principessa del lago dei cigni. Pan per focaccia si dice, oppure chi la fa l’aspetti: lei ballò lo stesso il saggio, ma con un semplicissimo tutù bianco che non la fece spiccare come lei avrebbe voluto e io ebbi la mia vendetta. E cari terapeuti, sarà anche un comportamento sbagliato, e da non emulare, ma da quel momento la stronzamica mi rispettò come mai aveva fatto, e 62
riuscii a togliermi il marchio che lei stessa mi aveva affibbiato, facendo mio quello che poi mi avrebbe accompagnato negli anni: Irena la iena (però buona eh, iena solo dopo che le pestano i piedi, magari anche più di una volta).
La stronzamica sportiva Ed eccoci quindi alle stronzamiche sportive. Per esempio, che ne so, le giocatrici di una squadra di pallavolo. La psicopedagogista ti suggerisce, infatti, per la crescita dell’autostima di tua figlia, di farle fare uno sport di squadra, così da relazionarsi con altre bambine della sua età. Tu fai allora una selezione, cerchi un gruppo dove le bambine vadano ad allenarsi solo due volte alla settimana, e soprattutto dove l’idea comune sia: la pallavolo è un gioco e noi veniamo qui per divertirci. Le compagne di mia figlia erano tutte ragazzine che arrivavano da altre squadre, che avevano deciso di non buttarsi nell’agonistica ma di trovarsi due pomeriggi insieme per dare due botte alla palla. E sarebbe tutto filato liscio, Dodo si era perfettamente integrata, le sue compagne erano davvero brave, e non vedeva l’ora che arrivassero il martedì e il venerdì per andare a giocare, se non che come al solito, come amo ripetere, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. 63
E indovinate un’altra volta il diavolo a chi è andato a stuzzicare? Alla sottoscritta. Erano i primi giorni di gennaio e mi arriva una telefonata da parte di un bravissimo allenatore della stessa società per la quale gioca mia figlia, anche se della squadra agonistica under tredici. Mi dice che Donatella, la mia Dodo, ha vinto una borsa di studio insieme ad altre due bambine (tre su settanta, quindi) per giocare a pallavolo nella sua squadra. Gli allenamenti diventano tre a settimana, il palazzetto è anche un po’ più lontano del precedente, ma io madre, e mettiamoci pure il padre mister, stuzzicati nel nostro tronfio ego di genitori di una futura Piccinini, diciamo a Dona, nonostante non sia proprio convinta, che è un’occasione da non perdere, che questi treni capitano una volta nella vita (ma quando mai, nemmeno dovesse andare alle olimpiadi!) e che quindi ci deve provare. Il primo allenamento non me lo dimenticherò mai, palazzetto bellissimo, il super allenatore che spiegava sottovoce, non si arrabbiava se non capivi, e anzi rispiegava tutte le volte che glielo si chiedeva. Un bel gruppo di ragazzine, sicuramente molto brave, messe insieme per vincere, programmate da madri che a loro volta erano state giocatrici di pallavolo (e già lì dovevo capire che ce la dovevamo dare a gambe) e che erano all’apparenza anche simpatiche. Ma ecco all’improvviso, nello sguardo di una di loro, intravedo quel tic, avete presente quando al 64
commissario Dreyfus (quello della Pantera Rosa) comincia a ballare l’occhio dopo aver individuato il suo rivale? Uguale. Ma tu pensi sia stato un caso. Vai a riprendere tua figlia una, due, tre volte dopo gli allenamenti e le chiedi: “Allora amore come va?” E lei ti risponde: “Mamma ma queste non ridono mai, io non è mica che mi diverto tanto...” E tu allora la sproni e le dici: “Ma amore vedrai che se vedono te che sorridi alla fine sorrideranno anche loro”. E allora mia figlia mi fa: “Tu dici? No perché oggi mi è caduta la palla mentre cercavo di alzarla alla schiacciatrice, ho accennato un sorriso per smorzare la tensione e la tipa lo sai cosa mi ha detto?” “No amore cosa?” “Ma che cazzo c’hai da ride?” Ah ecco, abbiamo trovato un altro covo di oxfordiane. Ma nulla tu insisti, e vai alla prima partita, e vedi anche che tua figlia è davvero brava, mica patata come te, ma noti anche che le altre non la cagano. Quando sta in panchina non le parla nessuna, gioca da sola nell’angolo con la bottiglietta dell’acqua, e tu in tribuna senti i vari commenti delle mamme ex pallavoliste, sulle schiacciate, sulle alzate, sugli errori, sulle statistiche, e cominci a capire che quello non è il posto giusto per te, figuriamoci per tua figlia e la sua autostima. Ma Dona, determinata come il padre, ha iniziato e vuole portare a termine il suo anno di borsa di studio, anche se allenamento dopo allenamento il divario tra 65
il gruppo della capitana, quella che dovrebbe dare il buon esempio, e tua figlia si fa sempre più grande. E arriva il giorno in cui tutta la squadra viene invitata a casa di una delle ragazze e tu dici a tua figlia (ma io, un ballino di cazzi miei, mai?): “Amore, vai e prova a fare gruppo”. E allora lei va, insieme alla sua amica del cuore, e cosa accade? Che per tutto il giorno viene perculata: prima viene presa in giro per le sue prestazioni in campo, poi arrivano le battute sul peso (mia figlia non è grassa, è normopeso), come se le altre fossero delle silfidi; la capitana le dice perfino: “Vedi quell’altalena Dona? Tu non ci puoi salire: è vietata a quelle che pesano più di 50 chili”. E lei incassa, e magari dentro scoppia, ma non risponde, e quando arriva la madre della sua migliore amica a portarla via, lei decide di rimanere, perché vuole provarci fino in fondo. E quando l’allenatore te la riporta a casa, tua figlia ti dice che le altre hanno pure bevuto la birra (dodici anni, ripeto dodici ) e tu le chiedi: “Ma scusa Dona ma quando hai visto che non era aria, perché non sei venuta via?” Al che lei mi risponde: “Ma mamma tu mi avevi detto di provare a fare gruppo...” “E che cazz’ Dona, il gruppo si fa insieme, mica lo puoi fare da sola. Se tu provi ad allungare una mano, e loro ti tirano le pietre è meglio alzare le tende” (risposta zen mentre mediti vendetta tremenda vendetta nei confronti delle mini pallavoliste merde e delle loro infami madri). 66
Ma tua figlia ancora una volta ti stupisce, ti dice che ha capito che questo gruppo non fa per lei, che vuole tornare dalle sue vecchie compagne che magari non saranno atleticamente brave come queste, ma che sono più buone, umane e degne di essere frequentate. Il finale è stato questo: “Mamma, non sono io che sono diversa da loro, sono loro che sono diverse da me [saranno mica stronze?]. È per questo che non ci prendiamo”.
La cugina stronzamica Ebbene sì, esiste anche questa tipologia, e forse è anche la più frequente, perché da tutte ti aspetti qualche bastardata, ma non da un parente stretto, magari un cugino, magari di primo grado, o da una sorella acquisita. Quella che vi racconterò è una storia vera, non vissuta in prima persona, ma dalla mia migliore amica (un po’ un “me l’ha detto mio cugino”, Elio docet). Ai tempi delle superiori avevo il ragazzo, ma avevo anche un bel po’ di amiche, una di queste era fidanzata con l’elemento più ribelle di tutto il paese, bello e dannato: loro due erano fatti l’uno per l’altra, erano come Bonnie e Clyde, e, come sostengo io, nessuno osi dividere ciò che il destino ha unito. Ebbene voi non ci crederete, ma tra i due si insinuò una terza in68
comoda: la cugina di lei che, proprio per la parentela, era ritenuta inoffensiva. Niente di più sbagliato. Silvia (ovviamente il nome è di fantasia) aveva libero accesso alla casa di entrambi, e conosceva benissimo gli orari della cugina, per cui appena la mia amica andava via dalla casa del fidanzatino l’altra si precipitava tra le sue braccia (be’, diciamo che per questa tipologia di stronzamica c’è un altro epiteto forse più appropriato che è: zoccola, anche se adesso va di moda dire “aspirante ballerina di burlesque” – e così sia). Davanti faceva l’amica con gli occhi a cuore, tipo Spank, la consigliava su tutto da come comportarsi a come vestirsi, ma alle spalle si fotteva (in senso stretto) il suo fidanzato. L’aspirante ballerina era pure molto più brutta della mia amica; era secca secca, sembrava un mocio Vileda, ma si vede che doveva avere qualche dote nascosta (e nascosta proprio bene); sta di fatto che questa tresca andò avanti parecchio. (E stendiamo un velo pietoso sul comportamento del fidanzato.) Ora, se anche voi temete di avere una stronzamica in famiglia e, badate bene, cominciate a tremare perché sono molte di più di quelle che uno si aspetta, vi dico come alla fine la mia amica l’ha beccata. Innanzitutto aveva cominciato a insospettirsi: va bene che il mio fidanzato ti sta parecchio simpatico e che siete amici, ma perché passi più tempo con lui da solo piuttosto che con tutti e due? E poi: ho capito che sei 69
una maniaca del controllo, ma mi spieghi perché ogni tre per due mi chiedi a che ora esco, a che ora torno, a che ora vado in palestra, con chi mi vedo, e soprattutto dove sto? Ok che mi vuoi bene ma quando è troppo è troppo e, come dice il proverbio, a un certo punto il troppo stroppia. In pratica, ci pensò un anonimo a mettere la pulce nel mio orecchio, pulce che poi trasferii opportunamente nell’orecchio della mia amica, che aspettò il momento buono per beccare la cugina in flagrante. L’epilogo, ancora oggi, che sono passati quasi venticinque anni, me lo ricordo come se fosse ieri, con la cugina che correva sul muretto antistante la spiaggia che frequentavamo ai tempi urlando: “Ti prego, se mi devi colpire fallo, ma non sul naso che me lo sono appena rifatto” e la mia amica che la colpì, naturalmente, proprio sul naso. Rompendoglielo. L’ho sempre detto e sostenuto: quando ce vo’ ce vo’.
La stronzamica miss Voglio dire: dal momento che dicono (non io, eh) che gli ambienti dei concorsi non siano frequentati da personaggi con il massimo del QI, potreste dire che me le vado proprio a cercare. Ma questo era il momento d’oro dei miei sedici anni, quelli della mia rivalsa fisica, quelli in cui finalmente non importa quello che hai dentro ma quello che hai fuori e io, libera dalle seghe 70
mentali post sessantottine dei miei, ed evoluta da brutto anatroccolo a quasi cigno, mi godevo i miei cinque minuti di notorietà. Venni scelta per fare la reginetta del carnevale 1986 del carro rione Senzuno, e mi accingevo a fare il mio debutto nelle strade follonichesi in una fredda domenica di febbraio. La mia mise? Semplice, era l’anno in cui impazzava Drive In, quindi io indossavo un body paillettato di blu, con davanzale in vista e coroncina in testa: una miss perfetta (esistono prove fotografiche di tutto ciò, eh). Non avevo fatto i conti però con le altre agguerritissime reginette che fra perizomi (vai a vedere che il burlesque l’abbiamo inventato noi...) e strusciate sui pali dei carri, davanti ti facevano sorrisini, appena giravi l’angolo ti massacravano. Ma che ne sapevo io? Mi aveva iscritto una mia amica: “Dai dai facciamolo insieme!” (che fa tanto miss: “Come mai hai partecipato a questo concorso?” “Non ci ho pensato io, mia sorella ha visto l’annuncio sul giornale e ha spedito la mia foto, e adesso sono Miss Italia yeeeh!”). Era il mio primo concorso, e c’era gente espertissima. Prima della sfilata ci ritrovavamo in uno spogliatoio e cominciava la solita tiritera: “Ma tu sei andata alle selezioni regionali di Miss Italia?”, “Ma dai, come non ti hanno avvertito? Che peccato... e pensare che avevo dato anche il tuo numero”. Certamente. Sbagliato. Poi c’erano le lezioni su come bisognava sfilare 71
senza calze. C’era tutta una procedura: bisognava spalmarsi un olio su entrambe le gambe poi togliere quello in eccesso con della carta assorbente, ma non troppo altrimenti si seccava la pelle, né troppo poco perché se ne lasciavi anche una goccia di più rischiavi l’effetto salamoia. Io, imbranata, su suggerimento della mia stronzamica portai l’olio sbagliato, quello di oliva, convinta da lei medesima che fosse migliore, perché naturale. Non solo non vinsi il titolo di reginetta di tutte le reginette – che immancabilmente però vinse la mia amica stronza – ma, poiché a ogni mio movimento in passerella schizzavo il presidente, il presentatore, il pubblico e i giurati, mi guadagnai il soprannome di “tonno sott’olio”. Promisi a me stessa: mai più concorsi, ma poi ci ricascai qualche anno più tardi – con l’olio di Monoi però –, accompagnata da un’altra fedelissima amica, che non solo in quell’occasione arrivò prima, ma in seguito vinse pure qualche titolo regionale, e mi mandò sentitamente a cagare. Con affetto però.
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7. Piccole stronze crescono
La stronzamica alle scuole medie Passano gli anni, cambiano le mode, le acconciature, solo una cosa non cambia mai: le stronzamiche. Ci potremmo fare una puntata intera di Quark sull’evoluzione della specie, adesso non si chiamano solo “stronze”, si chiamano pure “bulle”, ma il risultato è lo stesso, come anche il prototipo della vittima prescelta. Escono in branco, camminano allo stesso modo, inclinando la testa dalla stessa parte, usano lo stesso linguaggio, gli stessi vestiti, ma attenzione perché ci sarà sempre e solo un’ape regina (non avrete altra capa all’infuori di lei) che comanderà su tutte. Sarà lei a decidere vita, morte e miracoli delle compagne. Fuori dalla scuola si riconoscono al volo, stessa andatura, stesso sguardo, matita nera sugli occhi – a dodici anni dico dodici – e una schiera di maschietti con gli ormoni a palla al seguito. In classe avranno già separato il gruppo dei fighi da quello degli sfigati: quelli cool durante la ricreazione escono e vanno a fare le “vasche” nei corridoi della scuola, 73
gli sfigati rimangono all’interno della classe perché tanto dove devono andare? Ecco, io alle medie ambivo a essere una stronza bulla, ma con alle spalle dei genitori professori sessantottini mi veniva difficile. Più mi crescevano a “non importa quello che hai ma quello che sei” più io ambivo ad avere determinati vestiti e, naturalmente, di chi mi ero andata a invaghire? Del più figo della scuola. Perché? Perché “Io valgo” e, nonostante le perculatio, la mia autostima arrivava dove non poteva la notorietà. Ci ho pure provato a uscire durante la ricreazione ma se non nasci figa già con l’andatura di Belen e la sua farfalla stampata in testa, il rischio era quello di vedere uno stecco secco (ero talmente magra da essermi meritata vari soprannomi, che se me li dicessero oggi apprezzerei parecchio) prima ondeggiare (ero alta 1 e 75 per 49 chili... bei tempi!), poi mettersi a correre per tutti i corridoi insieme ai maschi, con la grazia di un camionista (non perché abbia qualcosa contro la categoria sia chiaro, ma diciamo che non rappresentano, almeno nell’immaginario comune, il massimo dell’eleganza, ecco), perché un pochino va bene, ma poi come cappero si fa a camminare senza fare nulla per quindici minuti in un corridoio? Eh no, non si fa così. Le fighe non corrono, sfilano; le stronze non ridono, sfottono con le mani davanti alla bocca, poi alzano la testa ti squadrano un attimo, e puff tu sei finita, segnalata a vita, ti imprimono il marchio, 74
e tu, per tutta la durata della scuola, non riuscirai a togliertelo. Mi ricordo che alle medie avevo due migliori amiche, e già il numero non depone a mio favore, lo so, con una di queste ci scambiavamo il fidanzatino, una settimana a testa, non pensate male, era lui che ci combinava così, e a ripensarci adesso, io ero proprio come Carrie con Big (ma dimenticatevi le sue mise, io ero più stile Pippi Calzelunghe... e già vi ho detto tutto). Avete presente quando lui per l’ennesima volta la lascia e si sposa la figa lessa? Uguale. Io ero la ribelle, la mia amica naturalmente la gattamorta, più brutta di me, ma mooolto più furba, aveva fatto suo il detto “in amor vince chi fugge”, e quindi si lasciava desiderare. Io, al contrario, avevo coniato il detto “lui mi ama ma non riesce a dirmelo e mi dà le botte a ricreazione come segno d’affetto”, quando in realtà quello che mi sarebbe calzato a pennello era “la verità è che non gli piaci abbastanza”. E così, con lei era tutto coccole e moine, con me botte da orbi, che io interpretavo come segno di passione... furba, eh? Il finale è stato abbastanza scontato: le due mie migliori stronzamiche hanno scelto di frequentare lo stesso istituto dopo la scuola media, io ho scelto il liceo, che si trovava pure in un altro paese, quindi addio: lontana dagli occhi lontana dal cuore, e la nostra grande “amicizia” è finita così. Ma a quel punto, alla mia stronzamica il tipo tanto conteso non è più interessato perché non c’era gusto ad averlo così senza soffiarlo a nessuna. 75
Io, invece, per un altro anno ho lavorato di sguardi, avete presente Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere quando si trovano in chiesa a corteggiare le donne, ma non possono parlare, e quindi devono fare tutto con gli occhi, e Benigni dice a Troisi: “Fagli capì che hai capito” e Troisi risponde: “Ho capito, ho capitoooo”. Ecco, uguale. Per circa 280 giorni, facendo lo stesso percorso io dalla stazione, lui dall’istituto e incrociandoci sempre nello stesso punto, lo guardavo fisso: avrà pensato pure che c’avessi una paresi facciale, ma nulla, non ci fu verso ’un capì o forse fece finta di non capire e la mia prima cotta si concluse prima ancora di aver avuto qualsiasi tipo di sviluppo.
La stronzamica al liceo Per le stronzamiche del liceo devo aprire una parentesi bella grande, perché quelle che all’inizio si erano rivelate le più temibili bulle della scuola sono poi diventate (e lo sono tutt’ora) le mie migliori amiche, a dispetto del loro aspetto fisico inquietante: metallare a bestia, capelli corti bicolore e borchie ovunque, incutevano paura a quelle del terzo anno figuriamoci alle matricole. E questo a dimostrazione di quanto l’apparenza inganni, e che spesso le buone amiche si nascondono sotto strati di finta stronzaggine. Come ho sempre detto e sempre dirò: meglio un vaffanculo 76
diretto e sincero in faccia piuttosto che mille sorrisi di convenienza e una bella coltellata alle spalle. All’esordio al liceo, mi sono presentata con un bel taglio di capelli con il pentolino e la permanente fatti da mia madre (se sono sopravvissuta a quello posso sopravvivere a tutto); impavida poi ho sfidato l’ultima fila ( la più ambita) del pullman dei pendolari e dopo essermi menata ed essere stata perculata dalle due ragazze più pericolose ( pericolozizzime) di tutta la scuola (la Ciani e la Turchi soprannominate “le Punk”) ho conquistato il mio posto al sole – oltre che agli ultimi banchi. Volete sapere come mi sono conquistata il loro rispetto e quello di tutta la scuola? Una mattina ci ritrovammo tutte e tre al piano terra della scuola che ci menavamo e tentavamo di “ignudarci”. Ovviamente quando ci beccarono ci spedirono une e trine dal preside che minacciò di sospenderci, ma che poi ci graziò. L’epilogo? Be’, da allora noi tre siamo diventate una cosa sola e i miei ricordi con loro sono magnifici. La nostra amicizia è andata oltre, è riuscita anche a sfidare il mito che tre fosse il numero sfigato. Abbiamo fatto a botte, fatto “salino” a scuola, copiato i compiti, ci siamo innamorate, abbiamo pianto, abbiamo fumato insieme la prima sigaretta, abbiamo litigato innumerevoli volte ma altrettante abbiamo fatto pace, e poi, dopo ogni scazzo, puntuali come sempre tornavamo amiche forever. Questo per dire che la 77
vera amicizia esiste, e passa indenne negli anni, anche adesso che siamo sparse per l’Italia, una a Follonica che fa la veterinaria, una a Prato che fa la super mamma di un bimbo strafigo, e io che sto a Cesenatico facendo la giornalista freelance povera, siamo in contatto perenne, nulla ha potuto dividerci, nemmeno la distanza. Se ripenso adesso a quel periodo posso dire che probabilmente la mia fortuna è derivata, oltre che dall’ottimo taglio di capelli, dal fatto che per un lungo periodo mi sono concentrata di più sui miei amici maschi, in particolare sui miei tre amici del cuore, Paolo, Simone e Mario.
La stronzamica all’università. Ovvero: l’innamoramento Mio marito e le mie amiche (quelle vere) la chiamano “la fase dell’innamoramento”, quella in cui, qualunque cosa la nuova arrivata dica o faccia, il mio commento è: “Tu non ci crederai Luigi, è così simpatica, così dolce, così carina, mi ci trovo bene a bestia ”. E lì partono le scommesse: c’è chi dice un mese, chi due, chi una settimana: la tempistica dell’inizio della fine, altro che Glenn Close in Attrazione fatale, potrei riempirci diverse case di cura con tutte le stronzamiche incontrate sulla mia strada, qui siamo arrivate già all’università. Sbarcata a Pisa (in via ufficiale per studio in via ufficiosa per iniziarmi alla nobile arte del cazzeggio), ap78
pena sfidanzata da una storia durata cinque anni – direi davvero davvero troppi – mi sono lanciata nel vortice delle amiche del cuore, anche due per volta, che nemmeno le caprette di Heidi con gli occhi a cuore avrebbero saputo fare meglio. Mi ricordo due ragazze, mannaggia mi sfugge il nome, anzi no, solo il cognome, Anna e Giuliana, che mi fecero una corte spietata per diventare le mie bestfriend. Il loro motto era “qualunque cosa dica noi adoriamo”, e io cretina, ingenua, colpita nel mio smisurato ego le accolsi a braccia aperte. Non avevo capito che semplicemente ero il loro lasciapassare per le feste più ambite della movida universitaria. Già, perché a quei tempi (mazza quanto fa vecchia) andavo parecchio di moda: gnocca ero gnocca, magra ero magra, convinta lo ero parecchio, quindi non c’era festa cui non fossi invitata, e io a rimorchio mi portavo loro due. Cominciai a nutrire qualche sospetto quando nei camerini dei vari Zara & Co, qualunque straccetto indossassi, anche quelli più ridicoli, loro mi accoglievano con urletti di approvazione. Ora, va bene essere belle, ma c’è un limite a tutto, mi applaudirono anche quando per un carnevale mi presentai con una tuta bucata e totalmente trasparente che nemmeno la Bertè dei giorni migliori avrebbe saputo fare di meglio. A quel punto capii che la loro amicizia era solo interessata (sveglia, eh?), ma la conferma la ebbi quando, dopo aver litigato con il mio ex fidanzato, un bel ragazzetto molto famoso nel nostro ambiente, non potendo partecipare a una 79
festa che aveva organizzato, mi sentii dire: “Noi ci andiamo comunque, sei tu a non essere gradita mica noi”. Be’, discorso più chiaro non potevano farlo, quindi, dopo mesi di scarrozzamento gratuito (ero l’unica ad avere la macchina), e ingressi free, le stronze mi scaricavano perché ormai erano entrate nel giro. Quello che ignoravano però era che così come c’erano entrate le avrei fatte pure uscire. E pensare che avevano pure le chiavi di casa mia che, opportunamente, mi feci restituire. Le due stronzamiche dicono ancora oggi che sentendo il mio nome sobbalzano temendo ritorsioni. E fanno bene perché Dio perdona io no ( lo scrivo, così fa più figo e ci credo anche). E che dire di un’altra stronzamica che faceva di tutto per entrare nelle mie grazie solo per fottermi il fidanzato? Lo capii tardi, ma lo scoprii subito, quando li beccai a letto insieme; la porta della camera però era chiusa a chiave, io urlavo di tutto e sbattevo i pugni, come fanno nei film polizieschi, solo che lì la porta si apre magicamente. La mia manco pu’ cazz... Rimase chiusa a doppia mandata. Andai quindi sotto casa della tipa e aspettai il suo rientro chiusa nella mia mitica Uno, meditando vendetta, tremenda vendetta. Quando arrivò avevo già dirottato la mia rabbia verso la sua bici, che era stata prontamente lanciata nell’Arno. Però una cosa ci tengo a dirla: anche quando io e il tipo ci siamo lasciati, per il senso del possesso che fu prealessandrino, esercitai una sorta di ius primae noctis: il mio era lo ius “tu sei stato il mio fidanzato, adesso, e 80
fino a quando non lo deciderò io, guai a chi ti tocca”. Ho fatto un tale terrorismo psicologico che il tipo non si è mai sposato. Sarà stata colpa mia?
8. That’s life
La stronzamica incinta Se in questo momento, care amiche buone, state aspettando un bambino saltate questo capitolo: non fa per voi. È il capitolo della stronzamica conosciuta per caso nella sala d’aspetto della ginecologa, tu sei di sole sei settimane, lei è già di dodici, scopri che siete pure vicine di casa: ma guarda che fortuna, il destino ci ha fatto incontrare (’sto cazzo di destino ti fa dei pacchi quando meno te lo aspetti). E comincia proprio lì la strategia del terrore, e tu ignara manco te ne accorgi di quanto è sadica, si diverte a scaricare su di te le sue paure e comincia subito. “Hai già fatto la prima eco?” “No, ho scoperto per caso di essere incinta da due settimane, e non so nulla di nulla”. “Ah, bene, allora guarda la prima eco te la fanno transvaginale”. “Trans... che?” “No tranquilla [ma io già sudavo freddo] ti mettono una sonda all’interno della vagina, ma con il lubri83
ficante eh, e vanno a vedere se c’è la camera gestazionale e il battito del bambino. Hai detto sei settimane? Allora tranquilla [ma tranquilla una sega, ovvio!] può darsi che tu non senta il battito, ma non allarmarti, alcune lo sentono più tardi, altri invece si risolvono in aborti spontanei. C’è un’incidenza altissima di aborti spontanei nelle prime settimane di gestazione”. E tu pensi: ma vaffanculo tu, gli aborti spontanei, l’eco transvaginale e il battito, ma chi cazzo te l’ha chiesto? Però rispondi: “Grazie di tutte queste informazioni, ora sì che sono più serena”. Poi però, come sempre, le dai una seconda opportunità, e pensi che magari sia una scassapalle maniaca del controllo per colpa degli ormoni (invece c’è proprio nata così) e le lasci il tuo numero di telefono, stai quasi per ripensarci e darle l’ultima cifra sbagliata, ma la buona che c’è in te ha il sopravvento e le lasci quello giusto. Otto mesi vissuti con i suoi resoconti su donne incinte che perdevano i figli al sesto mese, su statistiche di sopravvivenza per i prematuri, su bambini morti strozzati dal cordone ombelicale. E poi: “Tu non fai l’amnio?” “No, ho 29 anni, non ho familiarità preferisco non farlo”. “Ah... ma sai quanti bambini down o ritardati nascono da genitori sani?” E tu ripensi: ma rivaffanculo, però non lo dici e le rispondi timidamente che hai fatto questa scelta con84
sapevole dei rischi ma per la prima gravidanza non te la sei sentita. E poi arriva il mese in cui dovresti cominciare a sentirlo muovere, ma tu non lo senti, e lei invece di tranquillizzarti, ti dice che non è normale, che magari c’è qualcosa che non va, forse hai preso troppo peso e il grasso ti impedisce di sentirne i movimenti, e allora tu provi pure a metterti a dieta (visto che in maniera nemmeno tanto velata ti ha dato della cicciona), con risultati disastrosi per il tuo umore e di conseguenza su chi di sta vicino: il santo marito. Che comincia a metterti la pulce nell’orecchio, dicendoti che questa nuova arrivata più che un’amica, sembra il bollettino delle disgrazie, ma tu niente, chiudi il discorso con un: “No, ti sbagli lo fa per me, così almeno sono preparata al peggio” (al meglio no, eh?). E poi arriva il fatidico momento del parto e lei, che è un mese avanti a te, partorisce prima, e ora le leggende metropolitane si sprecano. Io avevo deciso di partorire a Poggibonsi, un’ora di macchina da Pisa, perché avevo scelto il parto naturale in acqua, e lei espresse subito i suoi dubbi sull’opportunità di stare lontano da casa. Quindi cominciò con: “Ma sai quante primipare non arrivano nemmeno in sala parto e fanno il bambino in ascensore?”, “E se poi succede qualcosa in acqua?”, “Lo sai sì che in quell’ospedale non c’è un reparto di terapia intensiva neonatale?”, “E se devono rianimarlo?”, 86
“E se non riconosci le contrazioni?” Tranquilla che quelle le ho riconosciute, va’ là! A quel punto realizzai, avendo lei già partorito da un mese, che non erano gli ormoni: era semplicemente una sadica stronzamica, e finalmente le dissi a voce alta quello che avevo velatamente pensato per nove mesi: “Ma vaffanculo va!”
La stronzamica sul lavoro In realtà dovrei usare il plurale perché sul lavoro questi personaggi sono la stragrande maggioranza e spesso viaggiano in coppia. È una categoria tra le più subdole. Da quando conosco mio marito il suo mantra nei miei confronti è stato: “Non puoi pensare che sul lavoro siano tutti amici, un conto è l’amicizia, un conto è il lavoro”. Ma io, dura come le pigne, ho sempre portato avanti il mio pensiero: cosa c’è di più bello che lavorare in armonia con le tue amiche? Ebbene, ho fatto una piccola indagine e di seguito posso elencarvi con facilità i segnali da cui si può facilmente riconoscere che la persona che avete davanti credevate fosse un’amica e invece era una stronza. 1. Se lavorate in gruppo parlerà al plurale quando il lavoro svolto insieme sarà un successo, se ne usci87
rà con un: “Ma come hai fatto a sbagliare in questo modo”, quando ci saranno dei problemi. 2. Spesso non ha famiglia, è single, un po’ zitella e anche acida, e ha deciso di immolarsi alla carriera, vantandosene appena possibile con il capo che ha alle spalle almeno due divorzi e tre figli: “Se ha bisogno posso lavorare anche il fine settimana, la domenica, per Natale e tutte le feste comandate, sa com’è, lavorare mi rilassa”. (Traduzione: sa com’è, sono sola come un cane durante le feste allora è meglio passarle a lavorare, almeno non ci penso.) 3. Farà di tutto per avere i lavori migliori passando anche da buona: “Guarda, ti tolgo il lavoro più pesante così almeno finisci prima e puoi tornare a casa dai tuoi figli”. 4. Ti chiederà la password della tua mail per poter controllare la posta in tua assenza senza disturbarti quando sei con la famiglia. Primo segnale evidente del fatto che stia cercando di fotterti i clienti. 5. Ti chiederà tutti i tuoi contatti per inviare i suoi comunicati stampa, ma quando tu le chiederai l’indirizzo mail del giornale per il quale sta scrivendo lei, per proporre la tua collaborazione, ti sentirai rispondere: “Mi dispiace, non te lo posso dare altrimenti poi prendono te e io non scrivo più”. 6. Quando tu riuscirai ad avere la prima copertina su un settimanale per uno scoop nazionale, invece di congratularsi con te cercherà di copiare i nomi delle tue fonti sbirciando con nonchalance dal tuo taccu88
ino (e nel mentre avrà fotocopiato l’agenda dei contatti della vostra ex collega). 7. Copierà un tuo articolo, spacciandolo per proprio. Probabilmente per essere successivamente beccata e sputtanata urbi et orbi come è successo nel mio caso: Dio c’è: c’ho le prove! Per la stronzamica sul lavoro valgono un po’ le leggi di proprietà dei bambini: 1) Se mi piace, è mio; 2) se riesco a portarlo via, è mio; 3) se ce l’avevo fino a poco fa, è mio; 4) se è mio non deve mai in alcun modo sembrare tuo; 5) se sembra mio, è mio; 6) se è tuo e te lo rubo, è mio; 7) se secondo me è mio, è mio; 8) se è rotto, è tuo. Se poi vi venisse mai in mente di fare qualcosa in coppia con un’altra donna non fatelo mai senza prima aver preso informazioni su di lei, non solo spesso non è tutto oro quello che luccica, ma la maggior parte delle volte è proprio ferraglia. La stronzamica capisce i vostri punti deboli e riesce ad ammaliarvi e a sfruttare al massimo le vostre potenzialità spacciandole per sue: rivenderà le vostre conoscenze come proprie, e riuscirà a rendervi pedine nelle sue mani. Anche quando crederete di essere voi 89
a tirare le fila del gioco, in realtà dietro ci sarà lei che cercherà di farvi esporre con i capi per farvi apparire la rompipalle della situazione, solo perché avrà capito che voi dite sempre quello che vi passa per la testa, e che siete buona, ingenua e anche un po’ cogliona. Ma a questo punto voi finalmente avrete aperto gli occhi e la ripagherete con la stessa moneta. Ecco un paio di regole: Asfaltare chi vi ha sfruttato. Distruggete la sua reputazione prima che sia lei a distruggere la vostra, voi avete dalla vostra la verità lei solo calunnie. Contate fino a dieci prima di reagire perché la vendetta è un piatto che si gusta freddo, ricordatevi sempre che la stronzamica è furba, imparate da lei, usate anche i suoi stessi mezzi, lasciatela cuocere nel suo brodo, alla fine sarà lei ad affossarsi tornando nell’oblio dal quale voi l’avete raccolta vincendo la vostra guerra senza esservi sporcate le mani. Le peggiori nemiche delle stronzamiche sono proprio loro stesse, quando capiranno di aver perso ormai sarà troppo tardi e voi sarete libere. E quindi alla fine dei giochi che cosa abbiamo imparato? È meglio nascere amica buona e cogliona, perché a diventare stronze si impara, ma un’anima pulita rimane tale e alla fine dei giochi la stronza avrà vinto qualche battaglia, ma voi avrete vinto la guerra della vita (“mo mamma”, direbbero le mie amiche romagnole, “con tutta ’sta melassa ci viene il diabete...” 90
tranquille, abbiamo anche noi la supereroina delle stronzamiche, quella che, come diceva il finto tifoso dell’Inter prima dell’arrivo dello Special One (Mourinho), “con questa stronza quiiiii non vinceremo mai nullaaaaaa”).
La stronzamica e i social network Diciamocelo subito, questo tipo di stronzamica non è affatto virtuale, anzi: è più che reale, direi di un livello superiore. È una stronzamica che vince su tutte, è quella talmente brava a sembrare quello che non è da fottervi sia sul piano umano che su quello lavorativo, in modo tale che quando riuscirete a smascherarla ormai il danno sarà compiuto, e voi vi ritroverete inchiappettate al 100%. E sarà proprio a quel punto che tirerete fuori il vostro manualino di sopravvivenza contro questi esserini immondi, facendo vostra la conclusione: “Tu hai vinto solo alcune battaglie, ma io vincerò la guerra”. Amen, e così sia. Fatene il vostro mantra, alla fine vincerete più per sfinimento che per altro. Mettete che una tipa che avete conosciuto su facebook, presentata da un’altra che poi avete scoperto essere una psicopatica (e già lì dovete farvi furbe, se chi ve l’ha presentata è marcia, di sicuro è avariata pure lei), cominci ad adularvi senza un perché evidente, iniziate a porvi qualche domanda (è vero che 92
siete tanto belle simpatiche e intelligenti, ma questa non è in cerca né di sesso né di amicizia, quindi gatta ci cova). Ma io, come i CCCP, sono fedele alla linea: una possibilità bisogna darla a tutti. Ma voi no, amiche mie, fermatevi prima, vi prego, quando la tipa di cui sopra mi ha contattato per scrivere un romanzo ambientato nel mondo delle gallerie d’arte con lei, colpita nel mio ego smisurato, ho pure esultato e ho accettato ben felice. Ora, dico io, una persona con un po’ più di sale in zucca quantomeno una ricerchina su di lei l’avrebbe fatta, e invece no, sono passata subito alla fase dell’innamoramento. E quanto è brava e quanto è bella, e quanto è sfortunata in amore. E invece le frasi corrette erano: ma quanto è falsa, ma quanto è gobba, e soprattutto, ma quanto è stronza. In ogni caso, questa ogni giorno ce ne aveva una, litigava con tutti, ce l’aveva con quelle che facevano il suo mestiere da anni (e non stiamo parlando di peripatetiche, eh), secondo il suo modesto parere erano tutte o mignotte, o racchie, o ciccione, si salvava solo lei poverina, che non veniva considerata perché era splendida splendente e tutte le altre erano gelose. Ho scoperto solo successivamente che non se la cagavano di pezza perché il suo livello era talmente basso da non venir preso nemmeno in considerazione. Solo che io ero, e lo sono tutt’ora, ignorante in materia, quindi per me la vernice reale e le tempere fanno parte della stessa grande famiglia, i colori, e la 93
storia finisce lì. Ho cominciato a nutrire qualche dubbio sulla sua bravura quando per la prima volta ho visto cosa erano in grado di realizzare quelle che lei chiamava ciccione, e ho capito di aver puntato sul cavallo sbagliato, ma ormai ero in ballo e ho continuato a ballare. Ma alla fine chi ero io per giudicare il suo operato? Nessuno, e quindi in buona fede ho terminato quello che era il mio lavoro, scrivere, supportata da alcune sue idee, e da alcuni suoi scritti che in ogni caso andavano presi, sciacquati in Arno, con l’aggiunta di qualche additivo super pulente (il premio per la miglior battuta fuori luogo in un testo ironico ma non volgare va a: “Ma dove vai tesoro?, c’è qui un trilocale con la giusta umidità che ti aspetta”. Ora io non sono bigotta, non sono manco cattolica praticante, anzi a volte penso di non essere manco cattolica, ma tant’è: io giuro che per capire dove si trovasse ’sto trilocale ho faticato non poco). Arriviamo al momento della realizzazione che quello che pensavo fosse amore in realtà era un calesse: finisco il libro, preparo il comunicato stampa e, come ogni buon addetto al marketing sa, cerco di sfruttare le caratteristiche di entrambe per diversificare e “venderci” al meglio: io la giornalista, lei la pittrice. Non l’avessi mai fatto. La belva che era in lei finalmente si palesa – altro che alien – e io per un istante, giuro solo uno, sono rimasta vergine di parola (come dice Chiara Francini), ho contato fino a dieci (anzi no, fino a due) e ho risposto. Il tutto naturalmen94
te per iscritto, così almeno oggi finalmente posso condividerlo e liberarmi di questa sanguisuga e soprattutto, da altruista, certe perle non posso poi non condividerle. Dunque il suo cruccio era che sembrava che fossi solo io l’autrice e invece, sempre secondo lei, era tutta farina del suo sacco (meno male che il suo sacco con la sua farina andata a male l’ho tutto conservato così almeno un domani magari se lo rilegge), perché lei è brava a scrivere, non solo a dipingere. A un certo punto la domanda sorse spontanea: ma se sei tanto brava a scrivere, perché allora non te lo sei scritto da sola il libro? Ed ecco arrivare la perla. “La risposta è semplice: perché non mi andava di confessare di essermi fatta dieci galleristi, se pur inventati [sorge il dubbio che siano molti di più a questo punto, forse è per questo che s’era tanto incazzata...]. Quante battute sono le mie? E le storie? Quanti testi ho scritto io [ per l’amore del cielo il trilocale con l’alto tasso di umidità è tuo]? Tanto, se cerco, ho conservato tutto sia su fb che sulla posta [meno male, allora cercalo bene, e meno male che ho salvato tutto pure io... santo Luigi!]... ti mandavo il testo chiedendoti di colorarlo... ed è VERO!! avrei potuto colorarlo da me... ma non volevo scavalcarti [in pratica, io non faccio la giornalista di mestiere ma – udite udite – l’imbianchino]. Ora, senza nulla togliere al tuo stile, vorrei precisare che se la tua penna è ironica e irriverente, anche la mia lo è, su 95
questo non transiggo [ecco, ora sì che riconosco il tuo stile, fai bene a non TRANSIGGERE]. Poi, che tu abbia un tuo stile non si discute. MA LA PENNA È ANCHE LA MIA [ma pensa te, tutto ’sto casino per una penna, a saperlo gliene regalavo una]”. Quel giorno ho finalmente capito che pensavo fosse un’amica e invece era una stronza, ma the show must go on e tutto ’sto patire alla fine doveva dare i suoi frutti: mi ha regalato tante perle di saggezza da condividere.
Le mamme stronze E continuiamo il viaggio nel mondo delle stronze, oggi ci occuperemo di una categoria a me davvero cara: le stronze mamme, che per la proprietà commutativa si possono trasformare nelle mamme stronze che tanto il risultato non cambia: sempre stronze sono. Il branco si ritrova di solito all’esterno di una scuola, sia essa materna, elementare o media, dopo i figli sono troppo grandi e hanno provveduto in primis a sfancularle senza aspettare che lo faccia qualcun altro per loro, e le riconosci facilmente dallo sguardo che hanno. Ti squadrano dall’alto verso il basso per capire chi cazzo sei, chi è tuo figlio, perché sei in pigiama e soprattutto orrore! perché non ti sei messa un minimo di stucco sulla faccia prima di uscire, non lo so almeno il mascara dico io. 96
Le mamme stronze passano ore davanti al cancello della scuola, se non c’è un bar a tiro, altrimenti ci si spostano in gruppi e le ore le passano lì, dove si deliziano praticando il loro sport preferito: il taglia e cuci. Parlano di vari argomenti. Si va dall’abbigliamento al must delle loro discussioni: quelle infami delle mamme lavoratrici che rovinano l’infanzia dei loro poveri putipù abbandonandoli per ore a scuola e di sicuro verranno su come serial killer, per concludere con il metodo educativo dei figli, e il loro è sempre il migliore. Di solito la capa delle mamme stronze è decente, esteticamente dico, e ama circondarsi di cesse che l’adorino e non la contraddicano mai, pena l’esclusione dal branco e la messa alla gogna la mattina dopo. E qui interviene l’aneddoto. Mio figlio ha otto anni, il suo nome è Gabriele, ma per tutti è diventato lo gnomo (da grande mi odierà forse), un po’ perché il cugino è quindici centimetri più alto di lui – pur avendo la stessa età –, un po’ perché ha le orecchie a punta e sembra un elfo dei boschi (ma elfo era troppo strano come soprannome), ma uno gnomo super figo sia chiaro. In ogni caso l’amore di mamma sua frequentava una classe in cui c’era il figlio perfettino di una di queste care mamme. Quelle che: “Mio figlio non si è mai tolto una caccola” (beata, il mio se le mangia!). 97
“Mio figlio non ha mai avuto i pidocchi, è troppo pulito per avercene: sia chiaro sono stati gli extracomunitari che li hanno riportati” (pensa te, a noi un anno i pidocchi ci hanno invaso, hanno fatto una strage: mamma, babbo, figlia più grande e gnomo che aveva sei mesi cinque capelli in croce in testa e tre pidocchi). E soprattutto: “Mio figlio non dice le parolacce, perché noi siamo una famiglia per bene e non le diciamo sia chiaro” (magari non le dicono ma sono dei delatori – e chi fa la spia non è figlio di Maria – dei compagni ignari di cotanta grazia e appartenenti a genitori che al volante infamano gli altri guidatori così tanto che il navigatore non indica le strade ma bippa le parolacce). L’enunciato è quindi chiaro e lapalissiano. La mamma stronza per osmosi genera figli stronzi. Quelli che “maestra lo gnomo ha detto una parolaccia”. “Maestra la mamma dello gnomo dice le parolacce”. E qui interviene lo gnomo, putipù amore della sua mamma stronza di rimando (che sarei io) e si presenta: “Maestra sa che la mia mamma ha scritto un libro sulle puntini puntini amiche?” La maestra: “Gabriele perché dici puntini puntini ?” G: “Perché c’è una parolaccia”. M: “Qual è?” (ma ora dico, perché indagare? Su, lo sanno tutti che la cacca più la rigiri più puzza, mica l’ho inventato io il detto, eh). G: “Stronzamiche”. 98
Interviene il figlio stronzo di mamma stronza: “Aaaah, tua mamma dice la parolaccia stronze?” Gnomo con nonchalance: “Sì ma mica dice solo stronze dice anche quella con la doppia zeta, in particolare la mattina se siamo in ritardo e davanti c’è una macchina con il guidatore che va piano gli urla: ‘Testa di cazzo ti muovi che faccio tardi a scuola!!!’”. No ecco, così, tanto per dire. Noi mamme stronze di rimando generiamo bimbi merda. I nostri. Le vecchiette stronze... le stronze vecchiette In realtà questa è una tipologia di stronze di cui per rispetto non si dovrebbe discutere, data l’età, e la mia educazione, ma dal momento che, anche se sembra impossibile, ne sono presenti diversi esemplari, le andremo a indicare per individuarle meglio. Le vecchiette stronze hanno un luogo di ritrovo preferito, il supermercato. Le puoi facilmente trovare in fila alla cassa, mentre serrano i ranghi, e anche se tu hai solo il pane ti fanno fare la fila perché cazz’ loro c’hanno da fa’, cosa? non si sa, però c’hanno da fa’. Le vecchiette stronze hanno una dentiera perfetta, a volte portano un bastone come accessorio, in realtà corrono meglio di me, ma lo utilizzano sugli stinchi delle persone mentre si trovano davanti al bancone del panificio. 99
Si fermano a leggere gli annunci mortuari per fare la conta di chi è ancora in vita, e sogghignano pensando che sono rimaste in poche (si sa: Only the Good Die Young ). Sono signorine, per scelta naturalmente, odiano le urla dei bambini, ai quali se possono o riescono bucano sempre il pallone. Sono secche allampanate, perché in ogni caso il magro è chic anche a ottanta anni, e loro sono delle vecchie snob. Non sopportano i cani perché sbavano, saltano e sporcano, amano i gatti, ma solo quelli di razza, e solo uno per volta, perché uno is megl che tropp. Si vestono con colori che ricordano l’inverno, perché ’un si po’ mica “vestissi” con colori sgargianti, il bon ton lo vieta, e loro attentissime sono. Come macchina hanno una Y10 vecchio modello, talmente pulita che ti ci puoi specchiare, ma non la usano mai perché altrimenti si sciupa. Hanno una serie di vestiti alla signorina Rottermeier in “cinquanta sfumature di grigio e nero”, altro che E. L. James, loro sono avantissime. Se per caso hai finito lo zucchero e ce le hai come vicine di casa, so’ cazzi tuoi, loro non te lo danno, perché metti che scoppia una guerra con gli alieni e loro rimangono senza? Le vecchiette stronze hanno mille consigli pronti per essere dispensati, perché loro la saggezza ce l’hanno nel sangue. 100
Ce l’hanno con il mondo intero perché solo loro hanno il verbo della verità e della giustizia, sono le prescelte detentrici della parola giusta. Ti abbracciano, ma in cuor loro pensano: “Uff, queste smancerie non le ho mai sopportate, senti come puzza di vecchia questa qua. Naftalina, l’unico vero odore di pulito è quello di naftalina”. Grazie al cielo per ogni vecchietta stronza esiste un bimbo merda (quello di cui sopra: il nostro), che con il suo candore riuscirà dove gli altri sono caduti. E mettete il caso che siate andate a farvi i capelli dal vostro parrucchiere preferito, e che abbiate la piccola belva con voi. Una delle clienti fisse era (e, sia chiaro, sarà ancora) una vecchietta di quelle stronze allampanate, vestita tipo lampadario, nel senso della geometria a trapezio, con il viso tirato come una strombola, ma non perché senza rughe, solo perché incazzato con il mondo. Una di quelle che: “L’acqua è troppo calda. Uff, l’acqua è troppo fredda. Ahiii, ma come mi lavi i capelli?” Una di quelle che va a farsi la tinta ed esce come la fata turchina e si sente realizzata, oppure un giorno decide di provare un colore nuovo, per un inspiegabile motivo, ed esce verde. Bene, questa tipa proprio il giorno della botta di vita verde si stava facendo la piega nello specchio davanti al mio, e lo gnomo comincia a guardare lei, poi 101
guarda me, poi guarda lei (e io già lì avevo perso tutti i capelli e avevo chiesto di alzare la velocità del phon per non sentire), poi si gira verso di me e dice (a un volume tale che pure il farmacista del piano di sotto possa sentire): “Mamma ma perché questa signora è così tanto brutta?” E tu cerchi di fare finta di nulla, ma lui non pago si gira verso la signora e le dice: “Signora ma lo sai che ti sei fatta i capelli verdi?” Al che la signora, non conoscendo il soggetto, gli risponde: “E tu lo sai che non ci si rivolge così alle persone grandi? Sei proprio maleducato!” Non l’avesse mai fatto. “Non è vero, la mia mamma me l’ha insegnata l’educazione, mi ha detto che quando ci sono le persone vecchie come te devo dire sempre per favore, grazie, prego e scusa. Quindi scusa signora vecchia, ma lo sai che ti sei fatta i capelli verdi?” È stata l’apoteosi delle lavoranti, il tripudio delle estetiste vessate, e grazie allo gnomo a oggi ho una corsia preferenziale nel lavaggio dei capelli e nella ristrutturazione delle unghie. Le vecchiette stronze hanno mille consigli pronti per essere dispensati, perché loro la saggezza ce l’hanno nel sangue. Forse. Ma anche no. Più che altro c’hanno l’acidume, nel sangue. Perché sono stronze. Vecchiette stronze.
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9. Esodo
Ed ecco uscire la parte della liceale classica che è in me. L’esodo in questione non ha nulla a che vedere con gli esodati di questo periodo (lavoratori over cinquanta espulsi dal mercato e non aventi diritto alla pensione o per l’età o per requisiti mancanti, e purtroppo su questo non c’è nulla da ridere), né con l’esodo di Mosè (ho studiato, eh). Riprendendo la struttura della tragedia greca (prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo e note) in questo caso l’esodo coincide con la parte conclusiva del racconto, quella in cui quando i personaggi si trovano nella merda fino al collo arriva il deus ex machina (un personaggio divino che in quanto divino – non disturbiamo Otelma – risolve la situazione che altrimenti non avrebbe via d’uscita). Noi, in realtà, un’idea di come far finire la storia ce l’abbiamo avuta: le stronze sono dotate di pannello di autodistruzione per cui se lasciate opportunamente da sole a condurre il gioco finiranno per litigare anche con loro stesse, tutto è bene quel che finisce bene e l’ultimo chiuda la porta. Certo, nel momento in cui siamo state accoltellate da una di loro il male è stato tanto, soprattutto perché 105
inaspettato, ma riprendendo un vecchio detto “ciò che non ci distrugge ci fortifica” forse la nostra forza è proprio quella di essere riuscite a rialzarci, siamo rinate dalla nostra cenere come l’araba fenice. Però se mi guardo indietro onestamente rifarei tutto quello che ho fatto, anche gli sbagli, perché in qualche modo gli errori di ieri hanno costruito la me stessa di oggi, e forse anche quella di domani, con una consapevolezza maggiore – dopotutto il mondo è pieno di stronze, ma anche di buone coglione, basta solo saper scegliere. Al massimo dopo la lettura di questo breve manualino le cattive saranno asfaltate e i fiumi saranno pieni dei cadaveri virtuali delle nemiche che passeranno. Oppure, se sedersi ad aspettare non fa per voi, vi sarete armate di un sano giramento di palle e avrete anticipato il sopraggiungere della giustizia (quella umana almeno). Oltre a una minima morale voglio lasciarvi con le esperienze di amiche che ce l’hanno fatta, hanno vinto le loro stronzamiche e adesso vivono felici (nell’attesa dell’arrivo di qualche altra stronzamica, perché tanto basteranno le paroline magiche “ho bisogno di te” per farle ricadere nel vortice delle amiche forever). E per sfatare il mito che le stronzamiche siano donne bellissime, spietate e consapevoli della loro bellezza, sicure di sé e per questo cattivizzime, ho preso delle donne che a vederle non penseresti mai che possano essere ingenue e coglione. 106
E, per par condicio, le ho scelte per ogni tipologia di colore di capelli, che, si sa, è davvero importante nel rivelare il vero aspetto delle donne. Alcune riescono a mascherare il loro vero aspetto con mise aggressivissime e tacco dodici, poi basta parlarci cinque minuti per rendersi conto di quanto l’apparenza inganni o come dice mia figlia: “Non si può giudicare un libro solo dalla copertina” (come mi sarà venuta fuori ’sta figlia saggia lo devo ancora capire). P.S.: Il prossimo manuale lo farò scrivere a mia figlia, perché alla fine ho capito che lei la lezione l’ha imparata. “Mamma, sai perché ti fregano? Perché a me la fanno una volta, dopo per me non esistono più [cazzarola è lei l’autrice di ‘Se mi lasci, anche per gioco, anche in amicizia, ti CANCELLO’], tu invece non impari mica eh, dopo la prima, c’è la seconda possibilità poi la terza perché magari hai frainteso e la quarta perché ti dispiace. Mamma, ma si può alla tua età?” Ma ho solo quarantuno anni (sob!). E poi, Dodo, come ti devo rispondere? Buone e un po’ coglione si nasce.
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10. Testimonianze
SE TROVI UNA STRONZA PERDI DI SICURO UN TESORO: IL TUO
di Alessandra Pesaturo ex prima ballerina del Bagaglino, ora giornalista di Rete Oro (la mora) Io di stronzamiche ne ho avute tante: quelle depresse, quelle euforiche, quelle presuntuose, quelle permalose e quelle visionarie. Unico comun denominatore: erano sfigate dentro. Giorgia però racchiudeva in sé le prerogative di tutte. Un esempio sui generis: era talmente stronzamica che sembrava la miglior amica possibile. Quando la conobbi ero fidanzata e nei fine settimana stavo sempre con la mia metà: quando c’è l’ammore, due cuori, un piumone e un DVD contro tutto il resto del mondo. La stronzamica, con delicatezza ma come un picchio sulle palle, mi faceva notare ogni tre per due che ero chiusa in coppia. Un po’ di gentilezze mescolate bene con il senso di colpa generano una bomba a orologeria. E fu così che dopo sei mesi di 109
terapia intensiva rimasi single anche io. Sì, perché la stronzamica di turno è spesso singolissima ab illo tempore. Era carina e intelligente, Giorgia la stronzamica, tanto che mi chiedevo come mai fosse sempre single. Possibile che non trovasse uno straccio di corteggiatore? Era la domanda che mi ponevo di continuo. Gli uomini la evitavano come la peste perché idrorepellente al maschio attivo. Una cosa era certa: era logorroica e questo in certi momenti topici fa l’effetto inverso del Viagra. Ci frequentavamo assiduamente anzi, monopolizzava talmente la mia attenzione che sembravamo fidanzate. Ma io ero una single triste e sconsolata e trovavo nella stronzamica affetto, solidarietà e compagnia. In breve, eravamo culo e camicia. Tutto procedeva a gonfie vele: dieci telefonate al giorno, shopping in simbiosi, cenette solo donne, chiacchiere di ore e ore a parlare dell’odiato nemico, l’UOMO. La demolizione sistematica del Maschio era la nostra bandiera. Cominciai a insospettirmi solo dopo svariati mesi, quando ogni volta che le raccontavo delle avance ricevute da un uomo, mi distruggeva sistematicamente il corteggiatore di turno: “Quello? Nooo, è un puttaniere”. “Quell’altro? Hai visto come guardava strano anche me? Aveva gli occhi da maiale in calore”. E io, ingenua, pensavo che avesse ragione lei e che i suoi consigli mi avessero salvata dal diventare una classica tacca sulla spalliera del letto del sessuomane di turno. Poi raccontavo di un altro che mi aveva chiesto il nu110
mero di telefono e lei: “Attenta, quello lo conosco, mi sa che ha una compagna. Hai visto? Non porta mai la fede, ma ha una specie di segno bianco all’anulare della mano sinistra”. (Ndr: era “solo” vitiligine.) Finché, dopo varie demolizioni al tritolo, un giorno andammo a un ricevimento in Toscana. Lì, lo strafigo di turno mi aveva messo gli occhi addosso. Io, consapevole dell’attenzione, tronfia e fiera me ne andavo di scodinzolo per tutto il party. Fasciata in un tubino nero da urlo, con una coppa di champagne in mano e l’autostima alle stelle me la tiravo chiacchierando qua e là. Be’, a fine serata la stronzamica mi dice: “Hai visto? Il bel Manuel aveva occhi solo per noi due… eppure ce n’erano di belle donne, vero?” E fu in quella circostanza che mi si accesero gli special come a un flipper! A noi due? Ma come, non l’aveva manco vista, non le aveva rivolto parola! Cominciai a pensare che avesse una visione assai distorta della realtà, ma era la mia amica e come si fa a non perdonare un difettuccio all’amica del cuore? La goccia che fece tracimare il fiume in piena non tardò ad arrivare. Gliene avevo fatte passare talmente tante di scempiaggini, che la stronzamica con me spadroneggiava, ben consapevole della fiducia cieca che avevo riposto in lei. Mi gestiva e manipolava a suo uso e consumo. La smascherai quando, dopo mesi di melina, riuscii a uscire con l’architetto Giulio, conosciuto casualmente a una conferenza stampa. Mi invitò con un gruppo di amici a pranzo in un casale. 111
Io e la mia stronzamica del cuore, belle e apparecchiate da rimorchio, eravamo pronte per il brunch. Giorgia si era sorbita ore e ore di mie telefonate che avevano come unico oggetto proprio quel figo dell’architetto. Sapeva benissimo che quel pranzo era il mio Checkpoint Charlie. Senza farla troppo lunga, la stronzamica, appena arrivate in prossimità del tavolo, iniziò una basic strategy che ci permise di sederci vicine al mio agognato Giulio. Lei seduta di fronte a lui e io accanto. Be’, durante tutto il pranzo, non gli attacca una fila di doppi bottoni degni di un cadetto dei Carabinieri, escludendomi e ignorandomi totalmente come se fossi trasparente? Clou del pranzo: un fantastico piedino sotto al tavolo. Ma piedino piedino! Con tanto di alluce a strusciare il polpaccio e il ginocchio del bel Giulio. Dall’imbarazzo di lui e dalla stronzaggine di lei mi sono subito resa conto della tragedia che si stava consumando. In un solo colpo avevo perso un potenziale fidanzato stronzo e una vecchia stronzamica. Du is megl che uan recitava uno spot pubblicitario. “Du stronz in men so’ megl che uan”, mi sono detta. Ho contato fino a mille e abbozzato un bel sorriso, anche se il guerriero che è in me gli avrebbe tirato due cartoni d’incontro. Quindi, per evitare una sceneggiata napoletana, insieme al dessert ho ingoiato un rospo grosso come un elefante, perché una signora non perde mai le staffe in pubblico, soprattutto davanti a una tavolata ignara dello shit in progress consumato sotto al desco. 112
Tornando dall’epico pranzo, la stronzamica ha avuto il coraggio di dirmi: “Simpatico Giulio, e proprio un bonazzo! Ma non mi è sembrato tanto interessato a te. Scusa se te lo dico, tesoro, ma io ti sono amica, ti voglio bene e mi dispiacerebbe vederti soffrire”. Fortuna guidavo! Ho inchiodato, mi sono girata e con un diciotto sindacale le ho detto: “Signorina amica stronza in calore, sei stata nominata. Adesso togliti dalle balle, scendi dalla macchina e tornatene a casa appedagnata”. La faccia paonazza e balbettante di Giorgia non la dimenticherò mai… Lasciai sulla provinciale una stronzamica con tacco dodici e portai a casa un insegnamento di vita: “Se le conosci le eviti, se non puoi combattile!”
Nota So che dovevo concludere il racconto della mia esperienza, ma questo manualino ha scatenato delle riflessioni che non posso non condividere con voi, care amiche buone. A un tratto, come un fulmine a ciel sereno, scoppia un amore amicale. Come tutte le storie del cuore, all’inizio parti a mille, è lei, sì, è proprio lei l’amica che hai sempre cercato. Presente, affettuosa, propositiva. Ti chiama a tutte le ore del giorno, si offre di accompagnarti in capo al mondo e ti adula ogni piè sospinto: ma quanto sei bella, ma quanto sei brava, ma quanto sei intelligente, ma quanto sei 113
avanti, ma quanto sei importante per me, ma quanto sei… stronza dico io! Perché presto o tardi, ma spesso troppo tardi, cioè quando il danno è già fatto, ti accorgi che lei, l’amica speciale è una iena spietata. Uno di quegli esemplari che a pieno titolo appartiene al genere delle stronzamiche. Con l’emancipazione femminile avevamo pensato di esserci liberate dei reggiseni e della sordida invidia che serpeggia tra le femmine, di quel tarlo che uccide la solidarietà al femminile. Il concetto di solidarietà off limits invece regna sovrano tra i maschi. Provate a trovare un ominide predatore che va contro a un altro ominide predatore e lì capirete l’importanza dell’appartenenza di genere. Un maschio la solidarietà ce l’ha dalla nascita come patrimonio nel DNA, oppure il capo branco, padre, fratello, allenatore gliela marchia a fuoco nell’imprinting. Pensateci bene, pure quando un uomo parla male di un altro uomo lo fa a malincuore e sempre con un tono giustificativo mentre nella parrocchia delle donne, appena c’è da massacrare un’altra donna, sono tutte pronte alla lapidazione della colpevole, e lì giù cattiverie a go go. Per noi femmine Lei non è mai vittima, ma sempre carnefice. L’incontro, tra femmine è come un duello degno di un film western. Al primo sguardo l’una ha già fatto il pelo e il contro pelo all’altra: capelli, trucco, smalto, poi scarpe e vestito senza dimenticare di aver ben scansionato lato b, misura tette e rifacimenti vari. Ultimo, ma non ultimo, 114
il controllino agli accessori: orecchini, anelli, borse, collane, bracciali, alla fine dopo un esame approfondito delle griffe esce l’estratto conto e un certificato con su scritto in calce: NEMICA. Non importa se sei bella, non importa se sei brutta, non importa se sei ricca né se sei povera, stai sicura che troverai sempre una stronzamica. Una donna che pur di prevaricarti, di mettersi in competizione con te farebbe di tutto, persino trombarsi il tuo marito mostro. Perché portarsi a letto il tuo maritino panciuto e pelato ti stai chiedendo? Ma è ovvio! Lei si deve sentire più fica di te! E per ottenere questo risultato subito ti deve rubare qualcosa, qualcosa che è tuo a pieno diritto dopo un corso di sopravvivenza di matrimonio pluriennale, il tuo pantofolosomostromarito! Quindi, mai lasciare mariti, fidanzati e migliori amici soli alla mercé della stronzamica di turno, quello è il suo terreno di caccia prediletto per elevare, dallo scantinato in cui milita, la sua labile psiche fino al vostro livello. Cercherà con sottile arguzia di distruggervi agli occhi del maschio adulante. In questa giungla da Paleozoico non c’è peggior disgrazia che nascere femmina alfa, ovvero una donna con QI elevato, carismatica, bella e con stile. A quel punto hai solo due possibilità: o ti odiano subito, o ti adorano subito e ti odiano più tardi… Pessimista? No, no, realista. Tolte quelle dee baciate dall’intelletto che non sono poche ma stanno ben nascoste in gruppi chiusi, c’è una folta schiera di donne 115
“sottuttomì” o “sosficatsoloì”. È di quelle che dovete diffidare fortemente, sono le peggiori… Quando una di queste decide di esservi amica, iniziate a recitare il rosario o ingranate la prima di una Ferrari e fuggite lontano. Se decidete, però, incoscientemente, di rischiare, allora tenete a portata di mano il manuale di sopravvivenza di Irene Vella. Mi raccomando, però, prendete appunti e occultatelo alle nemiche. Perché mai far sapere all’avversario con quali armi lo state combattendo.
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LA VERA STRONZA DISPENSA SEMPRE CONSIGLI (DEL CAZZO) NON RICHIESTI di Federica Pesce presentatrice di Class Tv Moda (bionda naturale con rinforzo di mèche)
Per descrivermi da bambina userei le parole di mia madre: “Una bimba meravigliosa, dolce, affettuosa e incredibilmente tonta”. Come potete vedere, partiamo già male. Inoltre, mia sorella (maggiore) era una di quelle abili in qualsiasi cosa, eccellente a scuola, negli sport, purtroppo anche carina e più avanti nel tempo, ammirata dai ragazzi, che incredibilmente si innamoravano tutti perdutamente di lei perché era – ed è – la quintessenza della stronza. Siamo partite male e già peggioriamo. Comunque, tornando all’infanzia, ero tondetta, bionda e boccolosa, mia madre dice che per la strada le persone si giravano a guardarmi perché sembravo una bambola. Ovviamente, amavo già fortemente i vestiti e mia madre si divertiva a comprarmi serie infinite di completini, cappottini, scarponcini e altre cavolate simili. Tutto ciò può, però, facilmente creare qualche problema quando a scuola ci si comincia a rapportare con le compagne che non sono proprio uguali a te. Ma io che colpa avevo se mia mamma 117
mi aveva scambiato per una Skipper (non quella della barca a vela, ma la sorella piatta di Barbie)? Ero agghindata con nastri, nastrini, calze coordinate e scarpine da brava bimba: se mi hanno rubato le mutande una volta ci sarà stato un perché. Io lo so: con una mise così me lo meritavo di sicuro. Da parte mia, purtroppo, ho sempre pensato che il resto del mondo fosse molto meglio di me, soprattutto nell’ambito scolastico dove, per dirla con gentilezza, avevo bisogno di più tempo degli altri (ritardata? No, diciamo ritardataria) per destreggiarmi con lo scibile umano... All’università poi mi è andata meglio. In più devo dire che avendo l’immensa fortuna di confrontarmi con la mia super sorella (ricordate Super Vicki?) il paragone non ha giovato alla mia autostima. Il primo vero segnale del fatto che tra donne non avrei raggiunto elevati livelli di popolarità l’ho avuto a sette anni, durante la classica recita che le suore della mia scuola allestivano ogni (fottutissimo) anno. Il mio ruolo ogni (fottutissimo) anno fino alla fine delle scuole medie ( pensate che infanzia difficile, per non dire di merda!) è stato quello (ambitissimo, praticamente era come vincere le audizioni alla scuola di Saranno famosi per la parte di Giulietta) di Maria Vergine. Quindi velo azzurro, bambino in braccio e sguardo sognante (o implorante dipendeva dalle volte). In pratica, dall’asilo alle medie ho fatto la Madonna! 118
Commento dell’allora mia amichetta del cuore: “Lo fanno fare a te perché Maria non deve mai parlare”. E scusate se è poco. Crescendo le cose non sono migliorate. Il mio primissimo amore è stato un ragazzino timido, ma molto carino e molto amico della mia allora grande amica, risultato: lei da amica si è trasformata in un’erinni, criticandomi in ogni modo con lui e sparlando di lui con me. Insomma, finì che lui divenne il suo ragazzo (anche se per poco) e mollò me dopo nove mesi per poi tornare sui suoi passi dopo un po’ dicendo che aveva sbagliato tutto. Risultato: non lo presi nemmeno in considerazione. Apro e chiudo una breve parentesi: se qualche psicologo o psichiatra poi si offre volontario per spiegarmi perché tutti i miei ex sono sempre tornati da me, io sarei veramente felice di saperlo visto che in trent’anni non l’ho ancora capito, anche perché sono talmente tonti che tornano sempre quando è ormai troppo tardi.
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UN NEMICO VERO TI TRAFIGGE AL PETTO, UN FALSO AMICO ALLE SPALLE. UNA VERA STRONZA TI TRAFIGGE DAPPERTUTTO di Nadia Afragola giornalista e blogger, scrive per “CoolTo Magazine” (a volte rossa a volte bruna tinta a seconda dell’umore)
Se scopri che il tuo ragazzo esce con un’altra lo racconti alla tua amica. Ma se scopri che la donna di facili costumi ( perché non potrà essere una brava ragazza colei che ti porta via il fantomatico principe azzurro) è proprio lei allora il “malaffare” si complica. Parliamo di un paio di anni fa, parliamo di una lei bella come il sole ma a tratti vuota come la carta della Fiesta appena mangiata. E poi c’è un lui, arrivato dopo un altro lui dedito alla bigamia (ma questo ve lo racconterò in un altro momento), che con un balzo era entrato a piè pari nella mia vita, nelle mie gite fuori porta, nelle mie amicizie. Un lui ancora sotto esame, un po’ bonaccione, un po’ burino… di quelli che inviti a cena e arrivano con il contenitore di plastica e dentro le polpette fatte dalla mamma o la zucca fritta in pastella. Col senno di poi, era un abbaglio. Col senno di poi, ma in quei mesi in cui la mia testolina aveva chiesto un periodo di aspettativa lo vedevo come il padre dei miei bambini. I due si conoscono 120
nel locale adibito a mia seconda casa (anche quello poi rivelatosi un bluff ): lei amica e compagna del mio fratello mancato e lui mio fedele scudiero pronto a tirare pugni a un povero muro, solo perché un giovane della Primavera della Vecchia Signora aveva osato sfiorarmi una spalla. L’epilogo? Il giorno di Pasqua, pochi mesi dopo. Entrambi si lavora, io sui campi a tessere lodi del talento di turno munito di tacchetti e lui a scovare terroristi ai giardinetti pubblici. Poco dopo le 23 lui mi fa: “Amore pensavo lavorassi anche domani, non è un problema se vado in montagna a fare snowboard con i miei colleghi, sai mi ero organizzato quando pensavo che... e bla e bla”. Io avevo declinato ogni megafantascientifico invito e rifiutato ogni possibile lavoro, perché la vita è fatta anche di altro. Lui si era organizzato la sua vita dimenticando un pezzo: me. I conti non quadravano più. Immaginate una diga che cede, le lacrime che sgorgano a fiumi, una storia che si avvia verso la fine, le sole amiche di sempre che accorrono e il fratellone di turno che pochi giorni dopo a labbra semiserrate rivela l’ennesimo segreto di Fatima: “Erano insieme in montagna, hanno dormito fuori quella notte, lei ha lasciato la macchina da lui”. Stronza. Stronza, cosa voleva dire la parola letteralmente? Allora è come tutte le altre? Ah sì, è come tutte le altre. Poi, invece, con il passare dei giorni, dopo averle mandato ogni sorta di accidente, dopo aver lanciato nel cortile interno del 121
mio condominio alcuni monili che mi aveva “amichevolmente” regalato, dopo aver ripreso pieno possesso delle mie facoltà mentali e scostato dai miei occhialetti le fettine di salame mi si è aperto un mondo. Lei stronza? No, per nulla. Credo che non finirò mai di ringraziarla a dovere per l’immenso riguardo che ha avuto nei miei confronti. P.S.: Ah, dimenticavo, nel frattempo lo sprovveduto esce con la cugina dell’amica non più stronza e io? Ho trovato il mio principe azzurro, azzurro come i suoi occhi, ci ho preso casa e il resto è solo cornice.
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LE STRONZE SONO COME LE CILIEGE: O TI FREGA UNA O TI FREGA L’ALTRA di Laura Farnesi editor (castana natural – forse)
La premessa è doverosa: sono, astrologicamente parlando, un acquario. In quanto tale non posso non credere nell’amicizia, non posso non buttarmi a capofitto davanti a un sorriso invitante che promette mille bei momenti insieme. Da sempre… Sì, da sempre difendo a spada tratta il valore dell’amicizia, lo esalto e ci credo! Ci credo davvero, ancora, nonostante le tante fregature. Ne vado a raccontare tre, quelle che forse, nel vasto oceano delle delusioni, mi hanno lasciato più il segno. L’amica del cuore Lei era la mia amica del cuore, quella con cui condividere tutto, sempre e comunque. La nostra storia d’amicizia sarebbe durata per sempre. Ok, questo su carta poi invece… Lei mi ammirava, come io ammiravo lei. Solo che io continuavo a mantenere una mia precisa identità la mia amica, invece, voleva proprio essere me! Non riuscivo a comprare una cosa che, cinque minuti dopo, anche lei l’aveva, identica anzi… nella versione più bella! Non facevo in tempo a dire 123
che mi sarebbe piaciuto frequentare quel corso che lei già si era iscritta. Non facevo in tempo a conoscere una persona nuova che lei aveva legato proprio con quella persona più di me. Con gli anni, affinando la tecnica, riusciva persino a farmi cambiare idea salvo poi scoprire che la stessa idea piaceva a lei e l’aveva già fatta sua realizzandola. Non riuscì solo in un’impresa… innamorarsi quando mi innamorai io (non arrivo a pensare che volesse proprio il mio amore) e quello segnò la fine della nostra “amicizia per sempre” perché la mia amica, sì proprio lei, decise di non volermi più frequentare. Da quel momento è cambiata per sempre la mia concezione di “amica del cuore”… archiviata. L’amica sul lavoro Un miracolo… in un ambiente spesso ostile una persona che ti vuole bene, ti aiuta, ti ascolta, ti comprende e ti sostiene. E così inizia la frequentazione anche fuori dall’ambiente lavorativo, nel tempo viene a formarsi una sorta di sorellanza vista la frequentazione giornaliera quasi “h24”. Praticamente mi conosceva più lei di mia madre, mio padre e il mio compagno messi insieme! Tutto ok, tutto fantastico, salvo scoprire che, “causa carriera”, l’amica/sorella (io per intenderci) poteva essere tranquillamente data in pasto ai capi a sua insaputa. E dire che, se non ci avessi rimesso io, sarei stata sinceramente contenta della sua promozione… 124
L’amica da adulta Questa è l’amica conosciuta in palestra, due vite diversissime, anche due modi di pensare differenti ma il feeling c’è, si entra in sintonia e, chiacchiera dopo chiacchiera, si diventa amiche! Non ci si vede sempre, non ci si chiama ogni cinque minuti (siamo donne, mica adolescenti) ma si condividono tutte le cose importanti, soprattutto si condividono i momenti di divertimento nel tempo libero. Con lei si organizzano le serate più alternative, con lei si progettano le vacanze più trendy, con lei si decide di prendere e partire all’avventura solo perché ci va e ci diverte, alla faccia di tutti. Capita però che la vita non sia solo serate in allegria… Così come capita che ci siano periodi in cui si ha l’esigenza di un po’ di calma, compostezza, riposo, quiete. Specie poi se è un forte dolore a imporlo. Un dolore che pensi di poter condividere con quell’amica. Sbagliato, se non sei più interessante non sei più un’amica. Qui ci si vuole divertire mica stare con il muso… Conclusioni Cosa ho imparato infine dalle mie e dalle esperienze altrui? Innanzitutto ho capito che l’amicizia esiste. Sì, esiste e lo so proprio grazie agli episodi negativi vissuti. Ho capito che se sei una persona valida questo sentimento non ti mancherà mai e la soddisfazione 125
più grande è quella di veder tornare proprio le persone che di punto in bianco ti avevano chiuso la porta. Forse perché l’esperienza ha insegnato anche a loro cosa sia la vera amicizia. Concludendo, nella mia vita almeno, l’amicizia, quella che dura da decenni, non è femmina… è maschio! La mia amica da sempre è, infatti, un amico!
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STRONZE E BUOI DEI PAESI TUOI di Paola Piumazzi in arte la Carrie Bradshaw delle farmaciste, blogger e opinionista su Radio Deejay (bionda naturale o rossa a seconda della luce del sole, liscia con la piastra, riccia diavolo appena sveglia)
La Mantide entra nella mia vita quando avevo otto, nove anni. Si palesa sotto forma di fatina buona, tutta coccole, regali e abbracci. Praticamente stare con lei è come stare con San Valentino e Babbo Natale strafatti di coca, ma è ugualmente bellissimo. La Mantide ha una ventina d’anni più di me, e una praticamente di famiglia, per un certo periodo abita anche con noi. Simpatica, brillante, elegante, molto carina, è la classica donna che vuoi imitare da grande. Ho avuto per anni una vera e propria venerazione per lei, ricambiata a tal punto che era diventata la mia seconda mamma. Come se non ne bastasse una, no? Ovviamente, più crescevo più La Mantide si infilava nei fatti miei, ma in maniera molto delicata, consigliandomi sui fidanzatini e sulle amichette. E continuando a riempirmi di regali fantastici. Ogni scusa era buona per vedersi e stare un po’ con la mia seconda mamma, che io ammiravo come 127
un dipinto di Monet (scopertosi essere in realtà una crosta). L’unico difetto della signora era la competizione continua, con tutti e tutto. Ma ognuno di noi ha i suoi difetti, vorrai mica condannarla per quello e per la sua passione per gli uomini sposati? No, giammai! Un bel giorno, era sul finire del 2000, vengo invitata a passare due settimane nella sua villa hollywoodiana insieme a lei e alla sua famiglia, e il caso vuole che a metà del mio soggiorno, la sorella della Mantide, compia gli anni. Età della festeggiata top secret, età degli invitati varia, molto varia. Percentuale di figaggine alla festa? Altissima. E lì incontro lui: bello, bellissimo, ancora ricordo che nel preciso istante in cui l’ho visto, si è fermato il mondo per un secondo. Camicia azzurra e jeans, l’uomo è decisamente affascinante. Un clone di Bruce Willis, con due occhi azzurri come il cielo. Scambio di sguardi per tutta la sera, senza che nessuno dei due facesse una mossa verso l’altro... Il quarantenne, quasi venti anni più di me, sembra un osso duro, ma si scoprirà in seguito essere rimasto folgorato dalla sottoscritta (eh no!). Iniziamo così una storia degna di un film di Meg Ryan, con lui che corre da me, facendosi 500 chilometri in una notte solo per potermi vedere qualche minuto prima del lavoro, interminabili baci sotto la 128
pioggia, infinite ore passate in treno e in macchina tutti i weekend. Avevo trovato l’amore della mia vita. Ma non avevo fatto i conti con lei, l’anima candida a cui io depositavo tutti i miei segreti di fanciulla innamorata. Tolto lo choc iniziale che l’ha colta quando ha saputo che il bel Bruce faceva pazzie per me, la sua indole da mamma chioccia continuava come se niente fosse. Addirittura faceva da angelo custode della mia coppia, che a ben vedere era veramente male assortita, e non sto parlando di me. Pensa che amore... Ma le cose iniziano a cambiare, in maniera quasi impercettibile. Un giorno, La Mantide ci raduna nella sua cucina, dove è dedita al suo sport preferito: eccellere ai fornelli!, nei pressi dei quali quella volta c’erano i guanti di gomma girati a rovescio. Ora, capita a tutte, e tutte noi ci soffiamo dentro per rimetterli a posto, no? La Mantide invece inizia a sbattere i ciglioni, tipo Bambi e a dimenare le anche come Shakira, guarda il bel Bruce e con un tono di voce che non era possibile equivocare dice: “Bruce, mi rigiri il guanto?” Leggi: “Rigireresti me come un guanto?” Premesso il fatto che io non sono una persona gelosa, mi sono comunque spuntati i canini da vampiro per un attimo, ma poi dai... Ma è la tua seconda mamma e lui è il tuo fidanzato... Ma vaaa! 129
Lei è sì una bella donna, ma non c’è gara con una ventitreenne. Peraltro soda come il marmo. Solo che Mr Willis rigira il guanto con lo stesso entusiasmo con cui a me aveva strappato le mutande un paio d’ore prima e la cosa non può non infastidirmi. Ora, le possibili opzioni erano due. Avvicinare le loro teste e cozzarle insieme, o dare fiducia non tanto al bel tenebroso, quanto alla mia mamma acquisita. Ma ti pare che lei, proprio lei, potrebbe fare la civettuola con lui? Assolutamente no, infatti, dopo pochissimo se lo è portato direttamente a letto senza passare dal via. Ripetutamente. Dopo un paio di mesi, il bel Bruce, in preda a un attacco di sincerità, decide di confessarmi tutto, pur sapendo di dover affrontare a fine racconto un cobra incazzato. L’ho perdonato? Giammai, ma capisco la natura di certi maschi, quindi dopo una serie infinita di maledizioni, il decerebrato è stato archiviato nella categoria “dispersi in un buco nero”. La Mantide l’ha seguito subito dopo, ma è finita in un posto ancora meno carino, in quanto ha pensato bene di uscire di scena con una nonchalance impressionante. Mai più vista! Per quanto abbia ancora la faccia di chiulo di chiamare ogni tanto a casa, declinando gentilmente ogni mio saluto. Comunque, come tutte le storie, anche questa ha una morale. Ed è che dalle stronzamiche non ci si 130
può proteggere, sono ovunque e si mimetizzano meglio dei camaleonti, quindi è meglio optare sugli amici maschi. E che di mamma ce n’è una sola, tutto il resto è fuffa! P.S.: La Mantide scoprirà con questo libro che so tutto. L’unico mio rimpianto è che non potrò vedere la sua faccia quando leggerà il mio contributo. Pazienza, sopravviverò.
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RIDENS BENE, CHI RIDENS ULTIMO di Bea Buozzi scrittrice e opinionista su “Cosmopolitan” (bionda con l’aiutino, soprannome: donna con la maschera, non la vedrete mai alle presentazioni dei suoi libri senza una delle sue immancabili mascherine sexy)
Si chiama empatia, ed è l’attitudine sintetizzabile con la propensione a offrire la propria attenzione per un’altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. “Dalle amiche mi salvi Iddio, che ai nemici ci penso io”. Bisognerebbe ascoltare le perle di saggezza popolare che diventano patrimonio collettivo tramandato nel corso delle generazioni. Mangiavo a occhi chiusi. In realtà le palpebre erano sollevate e il movimento ritmico ondulatorio induceva a pensare a una posizione di veglia. Ma era un’illusione ottica in cui gli occhi erano vigili, per non dire sbarrati, su una realtà che non riuscivo a mettere a fuoco. Montatura rosa, con la sagoma di Paperino sulla stanghetta. Li ho portati da sempre, tanto da essere una pioniera dai tempi delle elementari. “Ti rendono unica”, era il mantra che ripeteva mia madre per convincermi a indossare quegli ingombranti occhiali attraverso cui definivo i contorni del mondo. Nonostante la poesia che cercava di instillarmi lei ai fini 132
della persuasione, a me sembravano solo fondi di una bottiglia di acqua Lauretana, direttamente importata dalla fonte orobica da cui sgorgava, ma circondati da una cornice fucsia. Si chiama empatia, ed è la qualità della relazione fondata sull’ascolto non valutativo volta alla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell’altro. Avrei dovuto capirlo prima. Dalla sua ostinazione a sforzarsi di essermi amica, nonostante appartenessimo a universi paralleli. Contestatrice a prescindere, abbigliata da rivoluzionaria dove al posto dei completi che una donna della sua età dovrebbe indossare, comparivano tende e tovaglie. Struccata al limite della sciattezza e con una parrucca corvina in luogo dei capelli, incapace di camminare sui tacchi e goffa nell’arte della femminilità. Era stata con lui, che dopo un interregno di duopolio ignoto a entrambe le contraenti, aveva scelto me. Bisognerebbe imparare ad accettare le decisioni delle persone. Evitare di scivolare nel patetico insistendo con mezzi più o meno leciti. Per non essere screditata in seguito. E invece. Si chiama empatia e in medicina è considerata un elemento fondamentale della relazione della cura medico-paziente. Aveva eretto una tela lavorando con solerzia e grande pazienza dietro le quinte. Quella sera a cena cucinava lui. L’avevo invitata perché provavo tristezza per la sua vita di insoddisfatta raccoglitrice di briciole. Mi ripeteva che gli uomini la cercavano per un 133
momento di piacere e poi tornavano alle loro vite. Così avevo aperto la porta di casa a questa donna usata dagli altri. Non che fosse accaduto di colpo. L’“amicizia su insistenza” era sbocciata per gradi. Serviva tempo per leccarsi le ferite. Giorni per elaborare il lutto di una sconfitta, ore per volgere lo sguardo altrove e decidere di intraprendere un nuovo cammino. Poi, nello stesso modo in cui mi aveva cancellata dai contatti avevo ricevuto, per la seconda volta, la sua richiesta di connessione. Si chiama empatia, quel termine usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che lega l’autore-cantore al suo pubblico. Rideva, nel modo più sguaiato del mondo. Arrivando a deformare i connotati del viso, come una maschera greca. Eppure io vedevo il sole su quelle labbra livide di iena. “Ho perso lui ma voglio conoscere te”, ripeteva cercandomi con una costanza disarmante. Accendendo il pc era la prima mail del buongiorno, grondante un affetto stereotipato degno delle frasi dei cioccolatini di Perugia. Inneggiavano amicizia e amore, sentimenti a suo dire imprescindibili in un concentrato di zucchero che avrebbe ammazzato un diabetico in tempo reale. Cieca io, ancora una volta. Alle lettere era seguito un aperitivo, diventato una consuetudine nel tempo. Ascoltavo i suoi nuovi incontri, accolti sistematicamente come si trattasse dell’amore vero. 134
Ogni volta quello con la A maiuscola e che però sfioriva nel giro di poche notti. Si chiama empatia ed esiste perché mettersi nei panni dell’altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l’uomo è in continua competizione con i suoi simili. Non fare agli altri, ciò che non vuoi loro facciano a te. È una buona norma, di immediata interpretazione che andrebbe impressa come un tatuaggio sulla pelle dell’anima. Mi sembra ancora di sentirlo, il sapore di quella parmigiana tra lingua e palato. Mentre lui giocava con i fili di mozzarella disegnandosi baffi di formaggio sul mento. Lei era seduta a sinistra. Come da iconografia del Giuda che mi avrebbe tradito. Ho ancora tra le orecchie quella sgradevole risata che risale come un reflusso esofageo di quel pasto indigesto. Si chiama empatia ed è la capacità di adottare la postura o mimare le risposte neuronali di una persona. Cercava di assomigliarmi sempre di più. Risultando grottesca nel processo di emulazione. Ogni cosa postassi, seppur lontana anni-luce da lei, era un pretesto per un commento o una condivisione dello stato. Lei, iena ridens, sguaiata di riso e scarmigliata d’aspetto era l’antidonna. Almeno io la vedevo così. E credevo che nello stesso modo fosse capace di disegnarla lui. Per un anno ho vissuto con questa convinzione nella certezza che l’empatia fosse la strada giusta da seguire. 135
Senza realizzare di avere davanti un debole e una iena, che facendosi raccontare i dettagli del mio rapporto con lui, cercava di diventare ai suoi occhi la donna perfetta. Ăˆ passato un anno da allora e, posso dire con certezza, che ridens bene, chi ridens ultimo.
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Ringraziamenti Alla mia famiglia, che sopporta i miei scleri quotidiani. A Carmelo Kalashnikov, il grande fumettista che ha illustrato la copertina e le vignette all’interno del libro. A mio cugino l’artista con la A maiuscola Dario Vella, per aver creato il logo del libro. A Cristina Parodi per avermi dato una grandissima opportunità lavorativa e aver creduto in me sempre. A Ivan Zazzaroni per esserci ogni volta che glielo chiedo. Alle mie mitiche contributor Alessandra Pesaturo, Federica Pesce, Nadia Afragola, Laura Farnesi, Bea Buozzi, in rigoroso ordine di apparizione. Alla mia pink sista Paola Piumazzi, che oltre a essere una delle contributor, è anche la mia gemella lavorativa, il nostro blog www.dadomanisicambia.it funziona anche grazie a lei. A tutte le stronzamiche incontrate nella vita: grazie, senza di voi questo libro non sarebbe mai esistito. Al mio editore, Lillo Garlisi, che ha creduto in questo manualino e ha deciso di pubblicarlo, e a Gabriele Dadati, il mio editor, che un giorno di settembre mi ha telefonato e mi ha detto “parliamone”. E infine a tutte le mie amiche che dopo aver letto il titolo di questo libro mi hanno detto: “’Azz, un libro sulle stronzamiche? Se vuoi ti racconto della mia”.
1. Isabella Marchiolo, 10 grandi donne dietro 10 grandi uomini, prefazione di Alessandra Casella 2. Daniela Gambino, 10 gay che salvano l’Italia oggi, prefazione di Matteo B. Bianchi 3. Valter Binaghi e Giulio Mozzi, 10 buoni motivi per essere cattolici, prefazione di Tullio Avoledo 4. Simone Marcuzzi, 10 italiani che hanno conquistato il mondo, prefazione di Gianluca Morozzi 5. Michele Monina, 10 modi per diventare un mito (e fare un sacco di soldi), prefazione di Gianni Biondillo 6. Giuseppe Civati, 10 cose buone per l’Italia che la Sinistra deve fare subito, prefazione di Paolo Virzì 7. Andrea Pomella, 10 modi per imparare a essere poveri ma felici, prefazione di Marco Rovelli 8. Marina Calderone, 10 idee per il lavoro dei nostri figli, prefazione di Walter Passerini 9. Martina Liverani, 10 ottimi motivi per non cominciare una dieta, prefazione di Cristina Sivieri Tagliabue 10. Irene Vella, Credevo fosse un’amica e invece era una stronza 10 modi per sopravvivere alle stronzamiche, prefazioni di Cristina Parodi e di Ivan Zazzaroni
RIMMEL
narrativa italiana
1. Veronica Tomassini, Sangue di cane 2. Massimo Cassani, Un po’ più lontano 3. Marco Bosonetto, Nel grande show della democrazia 4. Antonio Pagliaro, I cani di via Lincoln 5. Giulio Mozzi, Il male naturale 6. Paolo Grugni, L’odore acido di quei giorni 7. Michele Vaccari, L’onnipotente 8. Gabriele Dadati, Piccolo testamento 9. Gianfranco Di Fiore, La notte dei petali bianchi 10. Fausto Vitaliano, Era solo una promessa 11. Giulio Mozzi, La felicità terrena 12. Fabio Calenda, Rosso totale 13. Paolo Grugni, La geografia delle piogge
1. Michele Monina, Atene è un sogno 2. Michele Monina, Londra è un orologio 3. Michele Monina, Barcellona ti sorride 4. Michele Monina, Lisbona è tutta luce 5. Michele Monina, Amsterdam è un’isola 6. Michele Monina, Berlino non ha muri 7. Michele Monina, Parigi è un lungo tramonto 8. Michele Monina, Vienna è un giro in carrozza
Finito di stampare nel mese di marzo 2013 presso Geca SpA – Cesano Boscone (MI)