Bachelor Thesis_Architecture_Proposta di una installazione urbana: spazio, evento, movimento

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PROPOSTA DI UNA INSTALLAZIONE URBANA: SPAZIO, EVENTO, MOVIMENTO Esperienza dello spazio metropolitano attraverso lo studio critico degli autori Politecnico di Milano Facoltà di Architettura e Società - Milano Leonardo Corso di laurea in Scienza dell’Architettura AA 2013/2014

Laureande: Maria Sole Teberino 776899 Laura Zura-Puntaroni 778639 Relatore: Antonella Contin



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Introduzione_______________________________________________________________8 PARTE PRIMA Capitolo I

Installazione ________________________________________________26

1.1 Metodologia progettuale ____________________________________________40 1.2 Le aspirazioni del luogo e il genius loci _________________________________50 1.3 Modellazione e strategie di intervento architettonico ____________________57

Capitolo II

Bernard Tschumi_ Evento architettonico__________________64

2.1 The Manhattan Transcripts ___________________________________________75 2.2 Architecture and disjunction__________________________________________91 2.3 Event-Cities_____ ____________________________________________________97

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_ Indice

Capitolo III

La questione temporale_Cedric Price______________________108

3.1 Fun Palace_________________________________________________________113 3.2 Potteries Think Belt_________________________________________________120 3.3 Le due voliere e il grande ombrello ___________________________________125 3.4 L’idea di “tempo” in relazione alla nuova architettura ____________________127

PARTE SECONDA Capitolo IV Architettura pneumatica___________________________________136 4.1 Esigenze e problematiche___________________________________________147 4.2 Applicazioni pneumatiche __________________________________________155 4.3 La situazione contemporanea: dagli anni ’60 ad oggi____________________162 4.4 Architettura e leggerezza: nuovi paradigmi progettuali___________________167

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PARTE TERZA Capitolo V

Intervista a Giovanni Anceschi_____________________________184

Conclusione___________________________________________________________210 Glossario_____________________________________________________________228 Bibliografia ragionata____________________________________________________247 Sitografia_______________________________________________________________253

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_ INTRODUZIONE

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_ Introduzione

“L’architettura non è conoscenza della forma, ma forma della conoscenza.” “Non esiste architettura senza programma, senza azione, senza evento.” “L’architettura non può essere mai autonoma, mai pura forma e, analogamente, non è una questione di stile e non può essere ridotta a linguaggio.” Bernard Tschumi

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Tendenze e controtendenze rendono oggi assai vivo il panorama dell’architettura – nella nostra società complessa e gerarchicamente sempre più stratificata – sia a livello di teorizzazione e di letteratura sull’argomento, sia a livello di produzione di manufatti che si vanno ad inserire nello spazio, sia infine a livello d’ installazione tout court. Il giovane studente in un primo momento stenta ad orientarsi, ma non può evitare di confrontarsi con il nostro assai ricco e controverso mondo culturale, per cercare di formarsi una opinione personale e per tentare di immettersi – consapevolmente – nell’alveo dello specifico epistemologico della disciplina architettonica e dell’attività di architetto, che spera peraltro di poter presto intraprendere. Pur in un quadro di riferimento così articolato, resta comunque sospesa sopra l’attività dell’architetto una domanda vecchia di secoli: può l’architettura, in qualche modo, contribuire a far scattare positivi cambiamenti politici e sociali? Esiste un ruolo sociopolitico dell’architettura? I giovani studenti devono credere che un tipo di azione del genere sia possibile, poiché la proiezione verso il cambiamento è la molla stessa del futuro. Inoltre, dal momento che il manufatto può rivelare realtà e contraddizioni della società, si auspica che possa anche avviare queste ultime ad una risoluzione. Sta di fatto che esiste e deve esistere una interpretazione architettonica della realtà, poiché tra realtà e architettura si realizzano importanti sinergie e interscambi, proprio mentre si attivano ininterrotti flussi di energia. Il progetto, e quindi l’installazione – nel divenire di idee e teorie – resta il cuore 9


_ Introduzione

dell’architettura, che può essere vista come un prisma dalle numerose facce, tutte autonome, interdipendenti e necessarie. Pertanto è proprio in un crocevia che si va a collocare l’installazione, poiché l’architettura si colloca in un punto di convergenza e di incontro della multidisciplinarità, pur se aspira a non dimenticare l’autonomia e l’originalità del proprio percorso euristico. Va inoltre precisato che le procedure attuative ed euristiche del progetto mai possono essere disgiunte dal progetto stesso: teoria e prassi, cognizione e téchne si coniugano insieme. Tornerebbe a questo proposito utile una riflessione critica sulle metafore esplicative della polarizzazione architettonica – impiegate da Bernard Tschumi – la “piramide” e il “labirinto”. Sono sicuramente metafore importanti, che ci consentono di congiungere idea e forma, progettazione ed attuazione del progetto stesso. Il concetto di piramide ci porta a considerare l’architettura come una cosa della mente (momento noetico secondo Platone), mentre l’idea di labirinto illumina tutta quella ricerca empirica dell’architettura che si concentra sui sensi e sull’esperienza dello spazio, nonché sulla relazione tra spazio e azione. È il momento in cui, come vuole Aristotele, si traduce in atto ciò che era solo in potenza. Comunque va puntualizzato, come asserisce Hegel, il fatto che l’architettura si colloca nel punto di ribadita “non-utilità del manufatto” e viene in un certo senso ad identificarsi con un “supplemento artistico, aggiunto alla semplice costruzione”, inscindibile peraltro dal manufatto stesso. Con il concetto di “supplemento artistico” ci si riferisce anche alla 10


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qualità immateriale, che è un elemento non trascurabile del manufatto architettonico e che in un certo senso lo sostanzia. Ripercorrendo idealmente il lungo e ricco iter storico della teoria e della prassi architettonica, vediamo che in ogni momento storico e in ogni contesto sociale di riferimento, il progetto ha come prerequisito un’attenta disamina cognitiva della realtà e tende esso stesso a porsi – nella sua contingenza e quindi nel suo poter esserci o non esserci – come una forma di conoscenza e di interpretazione della realtà stessa, in quanto dialoga con il suo volto profondo non ancora palesato. Ci riferiamo ovviamente alle idee stesse di Bernard Tschumi: “L’architettura non è conoscenza della forma, ma forma della conoscenza”. Nella sua dimensione di forma di conoscenza, l’architettura instaura interazioni e interdipendenze continue e imprescindibili con ogni altra forma di conoscenza, nel circuito di multidisciplinarità, che informa e regola tutte le attività cognitive a sfondo culturale. Al discorso della multidisciplinarità va collegata anche la riflessione sulle energie vitali, sui “flussi” e sulle “reti”, in senso lato. Un manufatto architettonico si pone entro la dinamica della realtà e diventa realtà esso stesso, producendo attive comunicazioni, che si sfumano e si arricchiscono nel tempo, in un procedimento assiduo di input-output, di introduzione e produzione, di interiorizzazione ed estrinsecazione di idee e percezioni. In questo ricco e continuo “dialogare”, il composto architettonico, sviluppa una propria vita entro la dimensione urbana.

Reti della multidisciplinarità.

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_ Introduzione

È naturale infatti che il manufatto, nel suo porsi nello spazio urbano, instauri un fitto e continuo “dialogo” 1 in primo luogo con le azioni e diventi pertanto esso stesso un “evento”, in quanto va a far parte del vissuto del fruitore. Spazi e attività, luoghi e uomini, si coniugano e si declinano in relazioni ricche di rivelazioni impensate. Quanto mai complesse e rilevanti sono dunque di per sé le relazioni che si creano tra spazio ed evento. Sta di fatto che la condizione che fa sì che si configuri l’evento è lo spazio, così come il soggetto dell’evento (l’attore) è la persona che in un certo senso viene a “vivere” in questo modo l’architettura. L’evento lo crea il fruitore dell’installazione, che assimila e interiorizza concetti e pensieri, veicolati dall’opera stessa. Non si può inoltre pensare all’installazione senza la consapevolezza che è un procedimento che va dalla “con-duzione” alla “pro-duzione”, con la prioritaria finalità di operare il “disvelamento” di una “possibilità” prima coperta e implicita nel luogo. L’architettura, come “scena”, si viene a collocare nel punto di intersezione tra la logica e le emozioni. Tutto ciò che orbita attorno all’installazione architettonica si delinea pertanto come assai interessante e affascinante, dal momento che il composto architettonico si pone con una propria identità nello spazio urbano preesistente e lo ridefinisce, intervenendo nella sua forma, ben interiorizzata e attentamente analizzata e quasi sviscerata nelle sue latenze. 1

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Secondo Cedric Price, la sostanza profonda dell’architettura è il “dialogo” con la realtà.


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Scomporre e ricomporre la realtà, per tentare una qualche rivelazione della stessa, è un procedimento che l’architettura condivide con ogni forma di operazione culturale. È questo il metodo euristico che sostanzia la ricerca disciplinare ed è questo il livello cognitivo alto, proprio dell’architettura come sapere (epistéme). Nel passato l’architettura poteva essere concreta allusione alla “durata nel tempo” dell’idea, espressa mediante il manufatto architettonico; ora non è più così, sic et simpliciter. Nel panorama di incertezze ideologiche e di trasformazioni quasi repentine, anche l’architettura viene oggi a coniugarsi con la temporaneità e la mutevolezza, poiché non può evitare di corrispondere al bisogno di riduzione e di essenzialità. Forse solo una forma tenue e sostanziale, mutevolmente piacevole, potrà riuscire in qualche modo a sorreggere con la propria “leggerezza” una vita spesso troppo pesante per alcuni aspetti e troppo leggera per altri. L’architettura per alludere in modo significativo ed antitetico alla pesantezza e alla velocità della vita attuale si fa dunque leggera e mutevole e continua peraltro a cercare sé stessa e la propria essenza, in piena corrispondenza con il mondo attuale, di cui rivela in forme nuove ansie e contraddizioni. È questo il variegato retroterra culturale ed esistenziale, che ci permette di intendere i valori, ridefiniti e veicolati dall’architettura pneumatica. Tuttavia, pur presentandosi in forme del tutto nuove entro un panorama culturale e sociale complesso e problematico, l’architettura salvaguarda la sua imprescindibile qualità di fatto eminentemente culturale, in quanto ruota intorno all’uomo che la produce e che ne 13


_ Introduzione

è il fruitore. L’uomo viene costantemente sollecitato a pensare e a riflettere sulla propria collocazione nello spazio, rivelata dai manufatti che egli stesso crea e realizza. Uomo e realtà: è questo il nucleo di ogni ricerca speculativa. Tra definizioni e ridefinizioni si può allora riuscire a cogliere e percepire il percorso euristico della disciplina architettonica, di necessità impegnata in una continua rifondazione disciplinare. A leggere la letteratura più recente, che ci informa sulle sperimentazioni contemporanee, può capitare di imbattersi in definizioni dell’architettura ora molto impegnative, ora a dir poco insolite. Per tutto il ‘900, a dire il vero, sembra che l’architettura venga inseguita e ricercata nella sua essenza, mentre se ne parla con notevole fervore mediante un ricco uso di aggettivazione – sociale, rivoluzionaria, razionale, organica, funzionale - in una girandola di epiteti che si affastellano e rischiano di farci chiedere, sulle orme di Bernard Tschumi, se per caso l’architettura di per sé altro non sia che una “non-architettura”. Si sono addirittura venuti a creare, ultimamente, dei sintagmi che sembrano non poter funzionare e non poter esprimere nulla di valido. Uno di questi è “architettura pneumatica”. Ad una prima analisi “architettura pneumatica” sembra un ossimoro, una contraddizione in termini, poiché l’idea generale (e forse anche un po’ generica) di architettura rimanda ad un qualcosa di ben solido e stabile, duraturo nel tempo, mentre il concetto di pneumatico ci fa pensare a ciò che è gonfiabile, leggero, aereo e instabile. Come dunque possono stare insieme questo sostantivo e questo aggettivo? Forse proprio da questa stravagante definizione, nonché dalla visione degli esempi di 14


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manufatti realizzati dall’architettura pneumatica – assai originali e sicuramente affascinanti – si è messo in moto un sicuro interesse a capire meglio questa particolare espressione artistica, a vederne “premesse” e sviluppi e quindi ad effettuare un approfondimento su questo orientamento dell’ architettura contemporanea. Il composto architettonico, mediante l’architettura pneumatica risponde sempre ai vincoli dello statuto disciplinare, pur se lo rivitalizza e quasi lo estremizza, conducendo il monumento architettonico ad una forma di leggerezza, altamente simbolica, capace di veicolare messaggi in piena sintonia con la dimensione esistenziale moderna. L’idea della leggerezza e della mutevolezza, come elemento determinante e fondante delle varie forme espressive, d’altra parte, non è oggi un fatto esclusivo della comunicazione architettonica o ad essa limitabile. Riecheggiano infatti, positivamente, nel quadro culturale odierno le acquisizioni critiche, che la nostra cultura ha mutuato da studi effettuati da Italo Calvino sui valori cardine della comunicazione artistica, in primis sul valore della “leggerezza”, un valore ricco e sfumato, da collocare nel centro della nostra era tecnologica post-moderna e post-industriale, che sperimenta con sofferenza “la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo”. L’arte è nella sua sostanza “leggera”, soprattutto quando riesce a realizzare il proprio adeguamento alla varietà infinita della realtà umana. In questo senso la leggerezza è un valore anziché un difetto, un valore da ricollocare consapevolmente nel presente, per proiettarlo poi nel futuro. 15


_ Introduzione

Nelle Lezioni americane, cioè nelle lezioni da lui tenute nel 1985 presso l’Università Harvard, nel Massachusetts, Calvino opera una sottile lettura del nostro mondo e ce lo rivela in un discorso a largo raggio concettuale: Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo...Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta...Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi... Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo da elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi 16


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elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso .2

Pur se pienamente inserito nell’oggi, il discorso sull’architettura pneumatica si presenta come molto impegnativo, poiché ovviamente non ci si può limitare solo allo statuto epistemologico specifico di tale indirizzo architettonico (che, seppure liberamente, tiene presente la tradizione disciplinare e allude a forme architettoniche del passato), in quanto vige anche per l’architettura una legge di necessaria trans-disciplinarità e vi sono di conseguenza agganci ed addentellati con altre problematiche e situazioni, proprie del nostro tempo e non semplici da districare, in una attività di tipo cognitivo ed euristico. Per capire dunque meglio l’architettura pneumatica occorre in primo luogo contestualizzarla negli anni in cui si è avviata, ma potrebbe essere anche utile confrontarla con manufatti artistici del passato. Ogni nuova formulazione artistica segue infatti regole imprescindibili; pertanto anche l’architettura pneumatica è “idea” che si traduce in manufatto e che viene prodotta come istallazione, al pari di ogni operazione creativa. Il procedimento è questo, sempre. Volgendo lo sguardo a forme artistiche del passato e rapportandoci a schemi compositivi di ambiti alquanto diversi, riusciamo a cogliere ancora oggi la “permanenza” nella trasformazione: “tutto cambia per restare identico nella più intima sostanza”, come 2

Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002, p. 12. 17


_ Introduzione

sosteneva Tomasi di Lampedusa nel romanzo Il gattopardo. Un solo esempio può bastare. Si potrebbe infatti prendere in considerazione un’opera artistica di tutt’altro genere, come l’affresco la Trinità realizzato da Masaccio a Santa Maria Novella, per vedere che anche in pittura esiste una “installazione” e che in essa contano lo spazio, l’evento e le azioni, poiché comunicano in modo diretto, e a largo raggio, rilevanti idee. Esiste dunque, come in ogni umana espressione, un significato concettuale dell’affresco, un’idea comunicata attraverso forme. Anche la Trinità è, come si è detto, una istallazione e come tale si rapporta con space, event, movement3 . Chi realizza comunicazione artistica è sempre un uomo, ricco per sua natura di molteplici aspetti e di problematiche, che “svela” nella creazione artistica, in una creazione artistica, suscettibile di perenne analisi critica. Dal passato arriva inoltre fino a noi una preziosa eredità: l’idea di stile. Lo “stile” è l’uomo, in quanto si pone in un certo modo nella realtà e con essa dialoga perennemente, anche quando la rifiuta e sembra distaccarsene. Lo stile è il fatto tradotto in arte e divenuto a sua volta “evento”, ricco di nuovi significati da decodificare in una continua attività ermeneutica, che mette in moto il pensiero umano e lo rende ancora creativo. L’evento immortalato artisticamente da Masaccio è la croce, che il pittore umanista rapporta all’idea della Trinità e che può essere riformulato criticamente in innumerevoli congiunzioni e ideazioni. 3

Ovviamente nella Trinità l’evento è la croce, mentre lo spazio e i movimenti prendono vita entro la struttura architettonica, disegnata per Masaccio dallo stesso Filippo Brunelleschi. 18


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Masaccio, la TrinitĂ , Santa Maria Novella. 19


_ Introduzione

Tutte le opere artistiche altro non sono che tessere del mosaico infinito della conoscenza umana, tesa a captare un quid di verità, inafferrabile nella sua totalità ed essenza. Ciò che incide molto, sulla via della conoscenza, è la collocazione dell’uomo nell’universo; sono importanti perciò i rapporti tra uomo e mondo, che si predispongono e si ridefiniscono, continuamente, mediante particolari letture artistiche della realtà. Va peraltro precisato che, per quel che concerne nello specifico l’architettura, conta in primis dove avviene l’installazione e pertanto il rapporto che si viene ad instaurare tra manufatto urbano e locus: vanno infatti considerati alla stregua di comunicazione artistica sia la percezione del contesto, sia quel sottile legame che si viene a creare tra creazione architettonica e genius loci. L’architettura infatti, in simbiosi con il luogo, realizza – collocandosi entro la dimensione storica del divenire urbano – la propria identità e la propria autonomia. L’architettura si adatta al luogo, nel momento stesso in cui lo modifica: l’incontro e lo scambio sono il quid essenziale dell’arte, sempre. Scrive in proposito Loos: “Il progetto non è che la disposizione interpretativa del luogo, omaggio debito alle suggestioni formali della tecnologia”. L’architettura si propone perciò come possibilità di complesse “interazioni” spaziali. Nella nostra società dominata dalla comunicazione di massa, la ridefinizione del luogo è operazione ancor più complessa e rivelatrice. In questo contesto l’arte vorrebbe aspirare ad essere non solo comunicazione, bensì anche preziosa sollecitazione ad una rilettura del mondo, in chiave critica e in atteggiamento creativo. 20


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L’architettura quindi crea ancora cultura ed è essa stessa cultura, tanto di più nell’era di Twitter e di Facebook. Partendo comunque dal presupposto che anche l’architettura mette in atto, nel corso del divenire storico, una continua rifondazione disciplinare e una importante attività euristica, si andrà ora a dialogare con le forme prodotte, in modo significativo, dall’architettura pneumatica. Il presupposto critico e metodologico è che i nuovi materiali e le nuove tecnologie entrano nell’azione progettuale, sempre attraverso attente mediazioni culturali. All’architettura è in ogni caso affidato – e quasi imposto – un raffinato esercizio compositivo: forme diverse si possono integrare o anche semplicemente “contaminare”.4 Venendo ora più direttamente all’approfondimento di cui si è detto, in primo luogo non si può che chiarire quasi a livello propedeutico il concetto di “installazione”, in tutte le sue possibili definizioni e declinazioni. Come strumenti di lavoro ci si avvarrà fondamentalmente della riflessione sulla città e sull’installazione architettonica, espressa attraverso le teorie di Massimiliano Nastri e di Aldo Rossi. In un secondo momento, si affronterà la riflessione sul concetto di installazione come “evento architettonico”, rimeditando le numerose e importanti asserzioni metodologiche e critiche di Bernard Tschumi. 4

Ricordiamo, per inciso, l’uso sagace che della contaminatio fece il commediografo Plauto:(254-184 a. C.). egli prendeva liberamente spunto per le sue commedie da commediografi greci, ricucendo a modo proprio con vera genialità brani derivati dai loro scritti. 21


_ Introduzione

Per quel che concerne il concetto di “tempo” in architettura e quindi di “installazione temporanea, mutevole e reversibile” si prenderà come punto di riferimento il pensiero di Cedric Price, meditando sia sull’idea di dinamismo e di interazione con l’uomo, sia sull’importanza del rapporto che si crea tra installazione e spazio, entro le dinamiche della città del XXI secolo. Si affronterà quindi più direttamente l’assunto dell’architettura pneumatica, prima a livello generale; in un secondo momento, si analizzerà un esempio importante della sua attuazione e si rimediteranno in modo critico le teorizzazioni e le idee di Anceschi, prendendo come punto di partenza quanto è emerso in un’intervista a lui effettuata. Muovendo dal tentativo di comprensione critica delle particolari installazioni e idee a cui si ispira l’architettura pneumatica, si potrà infine trarre qualche conclusione sulla natura assai particolare di questa nuova formulazione e realizzazione architettonica e su quanto la precede e la prepara. In particolare, si cercherà di valutare a livello critico la notevole portata di arricchimento epistemologico, relativo al settore dell’architettura, mediante una riflessione sul pensiero degli architetti presi in esame. Vedremo anche il valore e il “peso” delle acquisizioni da noi realizzate, per meglio penetrare la consistenza ideologica del retroterra che anima la nuova architettura pneumatica. Infine, quasi a sintetizzare e a visualizzare il materiale critico e dottrinale emerso dallo studio, si costruirà un “glossario”, atto ad evidenziare la novità di certe posizioni critiche 22


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ed esperienze pratiche. Con tale approfondimento, si auspica di essere in grado di poter conoscere, in modo piÚ ricco e consapevole, il quadro concettuale di riferimento ed il livello operativo dell’architettura odierna.

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1_ Installazione

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1_ INSTALLAZIONE

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1_ Installazione

“La verità è il non celarsi o disvelarsi dell’essere.” “La scelta è il problema che si pone dinanzi al singolo uomo.” “L’esistenza non è una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità fra cui l’uomo deve scegliere: l’uomo esiste nella dimensione del progetto.”

Martin Heidegger

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Il progetto – non escluso il progetto architettonico – è da vedere dunque, come ribadisce Heidegger, entro la dimensione della possibilità ed entro la sua essenza di scelta significativa e di disvelamento5. L’architetto, deve in sostanza tenere presente la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé (noumeno) e deve, mediante il suo progetto, far “interagire” i due aspetti del mondo. In ogni caso, il progetto a livello di installazione viene a collocarsi entro la realtà e – nella sua essenza – rimane una imprescindibile forma della realtà, che si coniuga liberamente e costruttivamente con il luogo. Il luogo (locus) viene prescelto ed è preesistente, ma viene sicuramente rinnovato e rivitalizzato dalla installazione che diventa, al suo interno, un presenza concreta e sensibile, nella sua fruibilità. Ciò che prima non vi era ora vi è. Potrebbe peraltro non esserci più – secondo le scelte organizzative della temporaneità e della transitorietà proprie della architettura pneumatica – ma tuttavia vi è stato e vi si è reso presente, creando precisi addentellati e congiunzioni con il luogo. “Esserci” è dunque il grande pensiero veicolato da Martin Heidegger (1889-1976) entro la cultura moderna e coniugabile con ogni forma dello scibile, quindi rapportabile allo stesso progetto architettonico. Ontologicamente, anche per il progetto come per l’uomo, 5

Per conferire al termine “disvelamento” maggiore pregnanza semantica ed attribuirgli significato pieno, occorrerebbe invero richiamare alla mente quanto dice Arthur Schopenhauer (1788-1861), a proposito della filosofia indiana e del velo di Maya, che copre la realtà, impedendoci di conoscere il mondo nella sua profonda sostanza. Per lui conoscere filosoficamente equivale a superare l’illusoria apparenza e a “disvelare” il mondo, cioè a togliere via il “velo di Maya” e a conoscere l’essenza. 27


1_ Installazione

conta il suo “Esserci” (Dasein), il suo porsi entro la realtà e presentarsi come “esistente”. Come dunque ci si interroga sull’essere dell’uomo, così ci si deve pure porre domande sull’esistere del progetto, sulle modalità e sui significati ad esso congiunti e congiungibili. La matrice essenziale del progetto è il “senso” del suo muoversi verso la produzione, nel percorso importantissimo da con-duzione a pro-duzione, nel momento in cui si compie il disvelamento e si ha la “presentificazione”, in quanto “viene chiamata fuori” (provocare) una possibilità insita nel luogo. In questo orizzonte di idee, se si pensa alla “qualificazione” della città e alle dinamiche urbane, contano molto i contributi concettuali e metodologici messi in moto a questo scopo e le sinergie realizzate ad hoc. Conoscere il progetto architettonico equivale a conoscere una tessera del mosaico infinito della realtà, con tutto ciò che ad essa è afferente. Se l’ontologia descrive, in ambito filosofico, la struttura e i caratteri dell’Essere, con enfasi grande e impegno lodevole, altrettanto impegno occorre dedicare, in ambito architettonico, alla disamina cognitiva di ogni elemento, aspetto e parte, del progetto. Molta letteratura si è, a dire il vero, addensata sul progetto e quindi sulla installazione architettonica, sia nel passato sia in tempi più vicini a noi. Per riferirci al modello classico per eccellenza, potremmo richiamare alla mente il trattato in 10 volumi, De architectura, dell’architetto di età augustea Vitruvio (ufficiale di Cesare in Gallia e costruttore delle sue macchine da guerra), opera a noi pervenuta intera, eccetto i disegni che i copisti non hanno riprodotto. L’opera, dedicata ad Augusto – per cui

Vitruvio, De Architectura, libri decem.

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Vitruvio progettò e costruì diversi edifici – tiene liberamente presenti i modelli dell’arte precedente (quindi anche l’architettura greca) e traccia una sintesi chiara dell’allora esistente panorama architettonico, avvalendosi della propria larga esperienza nel settore. La visione dell’architettura che ne risulta è per così dire enciclopedica, poiché il progetto architettonico dialoga con molte altre scienze e discipline, venendo a collocarsi in un punto di intersezione tra vari saperi ed epistemologie. Vitruvio, infatti, nei libri III-IV esamina i templi greci e romani (ubicazione, elevazione, strutture, materiale edilizio, misure e forme), nel libro V presenta i fori, le basiliche e i teatri, con tutte le indicazioni tecniche e artistiche. Negli ultimi libri affronta poi più direttamente la tecnica di costruzione e parla di materiali di arredamento, stucchi, attrezzi per costruire e per difendere gli edifici dall’usura del tempo. L’opera di Vitruvio continua ad essere nota per tutto il Medio Evo e trova poi nel Rinascimento un devoto cultore e un intelligente divulgatore in Leon Battista Alberti (Genova 1404-1472 Roma), l’architetto6 che presenta nelle sue opere una concezione dello spazio di tipo monumentale e informata al principio classico della consonantia partium. La sua personalità si cala peraltro perfettamente nel clima rinascimentale e ne è espressione esemplare. Leon Battista Alberti, infatti, impersona la figura rinascimentale dell’intellettuale poliedrico (è scrittore, architetto, scienziato, giurista), la cui vasta cultura Leon Battista Alberti, De Re Aedificatoria.

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Leon Battista Alberti, invero, approdò all’attività di architetto verso quaranta anni, dopo esperienze di pittore e di scultore, di cui non restano però tracce 29


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rende il progetto architettonico ricco di spessore e di densità. Molte sono le componenti e gli elementi culturali che si incontrano nel suo progetto e che esprimono in modo armonioso le varie tessere di quell’affascinante mosaico che è il mondo. Nel Rinascimento le idee di Vitruvio sono idee guida non solo per lo stesso Leon Battista Alberti, ma anche più tardi per Raffaello7 e per Palladio8 . Va riconosciuto peraltro che nei secoli seguenti Vitruvio è sempre tenuto in grande considerazione: tale ammirazione dura fino ad oggi. In verità, al momento attuale, pur se i dieci libri del De architectura sono ammirati come insostituibile punto di riferimento a livello culturale, bisogna tener conto di un panorama socio-culturale nettamente cambiato e in evoluzione rapidissima, un panorama non preparato invero ad accogliere l’ideale di monumentalità, giudicato ridondante e non in linea con il nuovo modo di sentire la realtà del mondo. Nel contesto odierno viene interiorizzata in modo capillare la consapevolezza che la società muta e mutano strutture e ruoli urbani, per cui l’architettura 7

Raffaello (Urbino 1483-Roma 1520) tiene in mente Vitruvio per i suoi progetti architettonici a Roma, quando da papa Leone X viene incaricato della “fabrica” di San Pietro e cerca di emulare ed evocare “le belle forme degli edifici antichi”. 8

Palladio (Padova 1508-Venezia 1580) studia con attenzione Vitruvio fino a concepire l’antico come modello e chiave del linguaggio armonico. Nel 1571 pubblica il trattato “Quattro libri dell’architettura”, esaminando nel L. I la buona architettura, nel L. II la villa e il teatro, nel L. III la costruzione regolare della città e dei ponti, nel L. IV i templi. Egli è consapevole del fatto che il progetto architettonico muta l’aspetto del paesaggio urbano.

Andrea Palladio, Quattro Libri dell’Architettura.

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deve rimettersi sempre in discussione e ridefinire la propria progettualità. Il dubbio conta più della certezza e il dubbio anima la moderna ricerca ed è il segno certo della sua vitalità. La nostra realtà urbana – entro la quale va a collocarsi l’installazione – ha bisogno di “risanamento” in senso lato, parimenti alla realtà in cui operò Augusto con il suo collaboratore Vitruvio, ma il quadro sociale e culturale è enormemente rinnovato e quasi imparagonabile con il passato, per cui nuove formulazioni teoriche sono indispensabili. Basti un solo esempio. Per quel che attiene alla teorizzazione e alla produzione del progetto architettonico, Vitruvio lo ancorava ai princìpi, in quel tempo basilari e da tutti condivisi, di firmitas, utilitas, venustas. Una domanda sorge ora spontanea. Che ne è – nella nostra società complessa e globalizzata – di tali esigenze e princìpi del bello architettonico classico, concordemente riconosciuti come validi nel mondo antico e traghettati fino al nostro mondo mediante la rivisitazione che ne effettua, come già detto, Leon Battista Alberti, autore egli stesso di un De re aedificatoria9 ? Se andiamo ancora ad esaminare distintamente i princìpi di firmitas, utilitas e venustas, troviamo che il concetto di solidità come aspirazione all’eterno non è più un principio 9

Leon Battista Alberti, in linea con la sua sostanza di uomo dai molteplici interessi, scrisse anche altri trattati: De pictura, De statua, Ludi matematici (propone problemi di carattere scientifico). Per la sua riconosciuta competenza come teorico dell’arte gli fu dato il nome d “Vitruvio moderno”. Va attestata inoltre la sua modernità, per il suo saper distinguere progettazione (con grande rilievo attribuito ai disegni preparatori) ed esecuzione.

Vitruvio, firmitas, utilitas, venustas.

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imprescindibile dell’attuale cultura. Parimente, non risulta certo facile discernere quale possa essere l’utilità di una installazione, mentre si sta verificando in ogni ambito il continuo mutare di usi e di obiettivi. L’idea del bello infine viene rimessa incessantemente in gioco ed è soggetta essa stessa ad un perenne divenire, quanto mai accelerato, un divenire che rende precario e cangiante ogni valore ideale. Nel mondo attuale l’installazione pertanto si viene a distaccare – per i suddetti aspetti della realtà attuale – dal concetto classico di progetto architettonico. Sono queste le premesse sostanziali, che fanno da background rispetto all’avvento dell’architettura pneumatica. Le conseguenze più generali di tale epocale trasformazione – che arriva a considerare come assai lontani e inattuali i princìpi vitruviani del bello architettonico – le stiamo vivendo in primo luogo noi giovani, in un realtà al massimo destabilizzata, che rende gravose le scelte e difficili gli orientamenti. La flessibilità sembra essere in assoluto la parola chiave del nostro tempo, in tutti gli ambiti, nonché in tutti i suoi aspetti sia positivi, sia negativi. Essere flessibili significa rinnovarsi e rimettersi in gioco, ma ciò implica anche non durare, non mettere sane radici, mai. Tuttavia, va riconosciuto che ciò non è solo dell’oggi, anzi è iscritto nella realtà umana e si palesa ora più visibilmente, ora meno. Occorre farci i conti e realizzare progetti, sia a livello architettonico, sia in più vasto ambito, “nonostante” questo imprescindibile dato di fatto. 32


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Già Leopardi volgeva a noi un triste monito, cantando con impareggiabile e dolce malinconia il fluire perenne delle cose umane, che rende tutto tanto fugace quanto prezioso: e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia.Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di quei popoli antichi? Or dov’è il grido dei nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi e il fragorìo che n’andò per la terra e l’oceàno? Tutto è silenzio e pace, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona .10

Nel volgere rapido verso la loro fine di tutto ciò che è umano e contingente, anche 10

È questa la parte centrale dell’idillio La sera del dì di festa, composto a Recanati nel 1820; appartiene al gruppo dei Primi Idilli. 33


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il modello architettonico classico oggi sembra vacillare, nella nostra società del “consumismo” e dell’usa e getta. Eppure il concetto di “progetto architettonico” permane. C’è ancora l’esigenza di creare, di incidere in qualche modo nella realtà, in una sfida rinnovata nei confronti del tempo e della umana precarietà. Resta ovviamente l’inevitabile nostalgia nei confronti di miti e modelli, che vengono quasi affannosamente “consumati”, in una realtà assetata di nuovo e pronta a volgersi ad “altro”, pur dopo aver decretato onore e successo ai propri idoli. Da quanto detto appare chiaro che l’arte, in senso lato e pieno, oggi solo con estrema difficoltà e costante impegno può riuscire ad equivalere a concezione del mondo tout court come in età rinascimentale, secondo quanto ci attesta appunto l’attività di Leon Battista Alberti. Eppure la cultura nelle sue varie componenti e quindi l’architettura stessa vengono ad assumere, proprio ora, una funzione e una valenza insostituibili, in quanto esprimono l’oggi con le sue controverse tensioni e con le sue pur vive aspirazioni ideali. Quanto più siamo circondati e minacciati da instabilità, tanto più l’arte può offrire valori. L’arte va quindi vista come “processo di conoscenza”. È l’arte infatti che mette in relazione e fa “incontrare” natura, storia e uomo. Questo incontro è decisivo e insostituibile, in quanto scandisce e documenta l’esistere dell’uomo nel mondo. Appare pertanto fondato quanto sostiene Aldo Rossi (1931-1997) – in merito all’importante ruolo dell’installazione entro il luogo deputato della città – asserendo che il 34


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progetto architettonico deve essere letto come un indelebile “segno” e una stabile prova dell’esistere umano. Egli scrive infatti: L’architettura è parte integrante dell’uomo; essa è la sua costruzione. L’architettura è la scena fissa delle vicende dell’uomo; carica di sentimenti di generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi e antichi. L’elemento collettivo e quello privato, società e individuo si contrappongono e si confondono nella città, che è fatta di tanti piccoli esseri che cercano una loro sistemazione. Le case d’abitazione e l’area su cui insistono diventano nel loro fluire i segni di questa vita quotidiana. Guardate le sezioni orizzontali che ci offrono gli archeologi; esse sono come una trama primordiale e eterna del vivere; come uno schema immutabile. Chi ricorda le città d’Europa dopo i bombardamenti dell’ultima guerra ha di fronte a sé l’immagine di quelle case sventrate dove tra le macerie rimanevano ferme le sezioni dei locali familiari con i colori sbiaditi delle tappezzerie, i lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne, la disfatta intimità dei luoghi. Così le immagini, incisioni e fotografie, degli sventramenti, ci offrono questa visione; distruzioni e sventramenti, espropriazioni e bruschi cambiamenti nell’uso del suolo così come speculazione e obsolescenza, sono tra i mezzi più conosciuti 35


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della dinamica urbana: essi restano come l’immagine del destino interrotto del singolo, della sua partecipazione, spesso dolorosa e difficile, al destino della collettività. La quale, come insieme, sembra invece esprimersi con caratteri di permanenza, nei monumenti urbani. I monumenti, segni della volontà collettiva espressi attraverso i princìpi dell’architettura, sembrano porsi come elementi primari, punti fissi della dinamica urbana. Princìpi e modificazioni del reale costituiscono la struttura della creazione umana .11

Nella riflessione critica dell’architetto milanese, vediamo intrecciarsi pubblico e privato, singolo e collettivo, divenire e permanere, in un discorso che mette a fuoco i manufatti urbani e il ritmo della vita di ogni città, in un certo senso incentrata sui monumenti, considerati alla stregua di segni della permanenza del passato. Per questo essi sono anche i punti fissi della dinamica urbana. Ancor più articolato è l’impegno conoscitivo nei confronti della variegata realtà del progetto, profuso da parte di Massimiliano Nastri. L’architetto affronta il tema della qualificazione – o riqualificazione – urbana mediante il progetto architettonico, visto nella sua componente concettuale, metodologica e attuativa, nonché nella sua valenza di manufatto atto trasformare l’assetto infrastrutturale, connettivo e fruitivo, della città. 11

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Cfr. Aldo Rossi, L’architettura della città, Milano, CittàStudiEdizioni, 1995, pp. 11-12.


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Aldo Rossi, L’Architettura della Città , 1966. 37


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Nel suo dispiegarsi nelle sue varie componenti, il progetto architettonico dialoga con il contesto e lo rimodella, portando alla luce possibilità e vocazioni ad esso congiunte e ancora segrete: L’operazione conoscitiva assunta dal progetto si delinea come procedura di trascendenza della realtà, attraverso la messa a punto e l’impiego di “modelli interpretativi” (o “intellegibili”, definiti anche quali “schemi d’azione”): essi sono intesi per lo svolgimento delle azioni di “sintesi conoscitiva”, di “organizzazione” e di “costruzione” della realtà. Inoltre, essi permettono i processi sia di “manipolazione” e di “computazione” delle informazioni, sia di strutturazione dei contenuti, dei fenomeni e dei vincoli del contesto: la costituzione cognitiva del progetto osserva la procedura di “modellazione” (operativa e pragmatica) come processo di “appropriazione” della realtà, di “comprensione” (in quanto “processo inferenziale”) e di “proiezione attiva” nei confronti della realtà stessa (questa risultato di una “costruzione” e intesa come insieme di “determinazioni possibili”, mediate dai vincoli). L’elaborazione progettuale, secondo la formulazione e l’impiego dei “modelli interpretativi” (o schemi d’azione), nel fondarsi sulle reali

Infrastruttura come connessione.

condizioni del contesto in esame, si svolge quale procedimento 38


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euristico: in questo senso, il progetto si determina integrando i contenuti, i fenomeni e i vincoli necessari a integrare il processo di conoscenza e a stabilire l’azione in forma concreta, coerente e attuabile. La visione euristica del progetto, come procedura di esplorazione e di “sistemizzazione” della realtà di riferimento, si compie quale pratica di “disvelamento” (considerando, nell’impostazione teorica della ricerca, il pensiero di Martin Heidegger): tale pratica consiste nella con-duzione delle conoscenze e dei procedimenti operativi verso la pro-duzione dell’intervento architettonico, affermandosi anche quale operazione poetica di pro-vocazione (finalizzata al “portar fuori dalla latenza” i caratteri, le memorie e le aspirazioni del luogo) .12

Tracciando tali interessanti linee metodologiche, Massimiliano Nastri ridona piena valenza euristica al progetto architettonico, ponendone il punto nodale nell’armonico “incontro” tra teoresi e prassi, incontro che richiama alla mente il monito dello storico romano Sallustio (86-35 a. C.): “occorre pensare molto prima di operare; occorre poi operare prontamente dopo aver pensato”. 12

Cfr. Massimiliano Nastri, La realtà del progetto. Orientamenti metodologici ed euristici per la “modellazione”, il “disvelamento” e la formulazione tecnica dell’architettura sperimentale, Milano, Maggioli, 2009, pp. 7-8. 39


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Aver in qualche modo interiorizzato tali concetti equivale ad essere abbastanza avanti nel “saper fare” architettonico.

1.1 Metodologia progettuale Il progetto architettonico e l’installazione si dispiegano entro i flussi e la rete della città; si collocano quindi entro la dinamica urbana come un fatto rivelatore, ricco di molteplici significati da portare alla luce, mediante un’assidua e convinta attività ermeneutica. È ancora Aldo Rossi a ribadire che la città di per sé può essere intesa come architettura tout court. La ricerca, come prerequisito di ogni operare architettonico, è necessariamente attenta all’operatività multidisciplinare e relazionale; inoltre, essa si volge a considerare e ideare in modo consapevole l’attività di qualificazione del contesto urbano, con molto riguardo al genius loci e a quanto orbita attorno alla città, anche in forma latente: sono elementi di possibilità, che restano invisibili, fino a quando il progetto non conferisce loro visibilità e presenza. In questa dimensione di ricerca, l’installazione va vista in modo non dissimile da ogni forma di “comunicazione” e di espressione artistica. A monte del processo di metodologia progettuale si può rinvenire uno sviluppo di tipo 40


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“maieutico” – come amava asserire Socrate – alludendo alla sua attività di “provocazione” della verità, la quale doveva affiorare alla luce dalla mente stessa dell’alunno. Il procedimento non è dissimile, in quanto l’architetto “provoca” la realtà e ne chiama fuori aspettative e elementi ancora segreti, ma sicuramente latenti e possibili. Tutto ciò è molto interessante e non viene meno nella sua forza euristica, nemmeno nei nostri affannati e insicuri tempi. Tuttavia, nel quadro della realtà culturale odierna, in accelerato movimento e rinnovamento, anche il progetto ridefinisce la propria metodologia e la informa a elementi di trasformabilità e riconversione. Il progetto rimane autonomo e dotato di un proprio statuto epistemologico, ma dialoga con le forme più profonde e ancora segrete del nostro mondo odierno, che sembra votato al continuo superamento di quanto si è già prodotto. Si origina da questo insieme di esigenze e aspirazioni, più o meno consapevoli, l’essenza stessa dell’architettura pneumatica, un’architettura temporanea, mutevole e reversibile. Rimane comunque stabile e generalmente condiviso il valore stabilmente attribuito, pure in un passato alquanto recente, all’architettura come conoscenza e come efficace strumento di trasformazione del mondo fisico. Si rinnovano peraltro, in modo significativo, le motivazioni concettuali e i procedimenti euristici riferibili alla disciplina e al progetto stesso. Cesare Maria Casati, sempre attento al progetto dell’architettura, ha avuto modo 41


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recentemente di scrivere che, pur tra evoluzioni e involuzioni, l’architettura “per fortuna continua a realizzare” forme nuove e a vivere, nutrendosi e sostanziandosi di “ricerca”, a tutti i livelli. Egli rimarca in particolare la costante e affannosa “mutazione di linguaggi espressivi”, entro il panorama culturale e il contesto storico-sociale attuali: Si tratta di un panorama, anche storico, complesso e molte volte incerto, difficile da definire in tutte le sue declinazioni e continue ibridazioni, che ha visto la cultura del progetto in tutto il mondo, soprattutto il secolo scorso, coinvolta in mutazioni notevoli di linguaggi espressivi. Mi è capitato di essere spesso testimone, e qualche volta coinvolto, nel far conoscere la nascita di nuove sperimentazioni progettuali innovative, di chiusure di ambiti culturali ormai esausti e, come sta avvenendo ai nostri giorni, di problematiche etiche e tecnologiche del tutto nuove che raramente erano presenti nei progetti del passato anche remoto. Vi sono pertanto architetti impegnati quotidianamente a ricercare una loro identità formale e strutturale mediante una personale e non gridata qualità professionale. In Italia, come in diverse parti del mondo, il grande evento di rottura con il classicismo e con il sempre celebrato e mai dimenticato razionalismo avvenne con la vittoria del concorso

Renzo Piano, Richard Rogers, Centre Georges Pompidou, Parigi, 1971.

del Centre Pompidou per opera dell’italianissimo Renzo Piano e di 42


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Richard Rogers. Progetto che seppellì definitivamente ogni concetto di composizione formale rapportata alla tradizione e inaugurò la partecipazione espressiva degli impianti e delle struttura nella definizione dell’apparenza dell’edificio. Questa rottura, concettuale e rivoluzionaria, che relegava il cemento al sottoterra e esternizzava scheletro e strutture, già annunciata dalle sperimentazioni utopistiche e di costume che allora avvenivano timidamente in architettura all’estero, ma già fortemente inserite in Italia nel design delle macchine e degli oggetti, oltre alla moda e al costume, divenne uno stimolo formidabile. È avvenuto che, dopo gli anni Novanta, molti studi già operativi a livello regionale hanno avutola capacità di archiviare, senza dimenticare, la storia conosciuta e studiata sui libri e di affrontare le nuove problematiche sociali e etiche e le tecnologie necessarie, di conoscere profondamente le norme e le tecnologie necessarie, utilizzandole come bagaglio di base, per affrontare con coraggio e modestia la possibilità di creare, con il proprio intelletto, il bello, il confort e l’efficienza in architettura .13 13

Cfr. Cesare Maria Casati, in italiArchitettura, opere selezionate da Luigi Prestinenza Pugliesi, Torino, UTET, 20011, p. IX-X. L’esperienza di Cesare Maria Casati nel settore è indubitabile, in quanto si è occupato del progetto di architettura per venti anni con la rivista Domus e poi altri venti anni con l’Arca. 43


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Dunque Cesare Maria Casati focalizza la propria attenzione sul progetto di architettura e sulle problematiche inerenti al processo di attuazione dello stesso, analizzandolo in un contesto problematico e incerto come il nostro. È in particolare interessante la sua idea di una progettazione architettonica che si affranchi da quanto studiato sui libri, senza peraltro dimenticarlo mai, poiché lo studio attento del passato rimane il pilastro imprescindibile per ogni sperimentazione ed innovazione pur ardita. Questa è la condizione prima e ineludibile della metodologia progettuale e della procedura euristica del progetto. È come dire, in definitiva, che occorrono sicuramente coraggiose sperimentazioni innovative, come appunto quella realizzata negli ultimi decenni dall’architettura pneumatica. Ovviamente, il tutto deve avvenire senza mai rinnegare o troncare del tutto il misterioso filo d’Arianna, che dal passato giunge a noi. È questa la bussola, è questo l’orientamento per la realtà umana, tesa a congiungere e a collegare. Fermo restando il rapporto dialettico con il passato, i processi di trasformazione alla scala urbana e edilizia non possono fare a meno, in ogni caso, di riferirsi a precisi supporti concettuali e metodologici, che vanno incrementati ancora di più in tempi incerti e attraversati da proposte contrastanti tra di loro. L’esito degli studi cognitivi non può che essere quello di approdare al “disvelamento” delle aspirazioni del luogo, provocato proprio mediante l’evento architettonico. Il progetto nella sua essenza è strumento di conoscenza (in quanto osserva e interpreta 44


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la realtà), inoltre, a livello di attuazione, mette in moto un dispositivo di operatività multidisciplinare e relazionale. Colui che elabora il progetto si dispone in atteggiamento di “proiezione attiva” nei confronti della realtà stessa, di cui si appropria mediante un processo cognitivo. È interessante osservare i procedimenti che conducono al “disvelamento” del luogo in esame, poiché entra in gioco la téchne, correlata e integrata con il processo ideativo e speculativo. È proprio la téchne che contribuisce a presentificare e provocare (chiamare fuori) le condizioni della realtà, nella gamma infinita del possibile. Si giunge per questa via al momento in un certo senso magico della “realtà disvelata”. Il contesto funge sempre da sfondo, da “scena” di quel processo di conoscenza integrata all’azione che è la progettazione nella sua interezza, che culmina nell’installazione. Quindi nel cuore della metodologia progettuale c’è come vero e proprio nucleo un “intento conoscitivo”, lo stesso intento che anima ogni ricerca umana, sia filosofica, sia scientifica, sia artistica. Ancora una volta dobbiamo ribadire che la ricerca , congiunta al progetto, agisce mediante la con-duzione di molteplici aspetti del reale verso un approdo deputato, cioè verso la produzione dell’intervento architettonico: la téchne è l’attore di tale procedimento volto a condurre alla realtà (presentificare) elementi latenti colti nei fenomeni e nei luoghi, attraverso lo studio di persistenze ed emergenze. Come direbbe Martin Heidegger, si realizza in tale percorso l’esserci del progetto. Ciò che era “velato” (ricordiamo ancora 45


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il velo di Maya) si disvela e si fa oggetto della realtà, con fisionomia propria, autonoma eppure fortemente allusivo ad altro, a tutto ciò che può ancora essere percepito e oggettivato. Il procedimento euristico del progetto e l’ermeneusi del luogo procedono affiancati e si intersecano spesso, in un lavoro di arricchimento e di integrazione produttiva. Ciò che conta è precisare che non esiste mai una “possibilità assoluta e deterministica” nella qualificazione del luogo, bensì un lavoro di libera e attenta osservazione, per riuscire a cogliere quanto di segreto e di non rivelato potrà percepire il fruitore del luogo, una volta che l’installazione sia stata effettuata. È un momento di immaginazione creativa, di contatto profondo con la realtà vera del luogo. Nasce così l’artefatto urbano, in una continua e positiva dialettica tra le categorie di possibile, costruito e artificiale. Novello Dedalo, l’architetto plasma e modella la realtà e paga il proprio prestigioso fare, a prezzo di impegno costante e sperimentazioni e tentativi continui: sono, in questo iter che conduce alla modellazione, di primaria importanza i “modelli” o “schemi di azione”, con cui configura le possibilità di intervento e le ridefinisce, “correggendo” assiduamente sé stesso. Massimiliano Nastri interpreta così la “modellazione”: Il processo conoscitivo e operativo, svolto secondo le procedure di “modellazione”, si determina attraverso le azioni di coordinamento 46


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e di strutturazione (intellegibile) della realtà, “l’organizzazione del dominio sperimentale” (come inquadramento sia del progetto sia dell’intervento architettonico) e la percezione sensibile ed “esperibile” della realtà stessa. Il processo, come attuazione euristica del progetto, poi include sia le modalità di verifica, di controllo e di predizione della realtà “costruita”, sia i criteri di elaborazione di “oggetti possibili”, per cui la configurazione dell’intervento architettonico è intesa quale “mezzo di approssimazione” e di “adattamento” alla realtà stessa. L’attuazione euristica delinea l’”organizzazione” e l’”oggettivazione” dei contenuti, dei fenomeni, e dei dati (come “costruzione” analogica e metaforica): in questo senso, la procedura di “modellazione” si esplicita quale “meccanismo metaforico”, dove i “modelli” strutturano l’elaborazione progettuale sia in modo “interattivo” (secondo modalità di interfaccia e di relazione con la realtà), sia in modo “discorsivo” (secondo modalità di comunicazione delle condizioni del contesto). La procedura di “modellazione” permette di operare la “trasformazione” dei contenuti, dei fenomeni e dei dati afferenti al contesto, formulando l’elaborazione progettuale sia come pratica della comprensione (in quanto “costruzione”, configurazione formale, “ridescrizione poietica14” 14

Nel mondo greco la poiesis stava ad indicare il fare creativo ed è sicuramente a livello creativo che si 47


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della realtà), sia come pratica rivolta a “riunire” le condizioni della realtà (tramite l’opera di disvelamento” e di “interpretazione” del luogo, tramite l’intervento architettonico teso a “rivelare” e a “presentificare” .15

Pertanto il progetto architettonico è una forma di comunicazione, in quanto mira a trasformare la realtà secondo un disegno ideale che si forma nella mente del progettista, dopo attenta lettura del contesto e delle possibilità ad esso afferenti. L’architetto interroga i contenuti del luogo ed esplora tutto ciò che in esso è latente e può essere condotto dal livello di “potenza” al livello di “atto”, tanto per utilizzare una terminologia cara al filosofo greco Aristotele. Il ruolo precipuo del progetto è quello di tradurre in “atto” ciò che era in “potenza”, cioè di oggettivare esigenze comunque inerenti al luogo e degne di essere portate alla luce. Egli studia il “vissuto urbano” per renderlo più intenso e più vero, vicino alla sua sostanza segreta non ancora presente sul piano della realtà. La trasformazione portata a compimento dall’elaborazione progettuale equivale ad una ridefinizione della vita stessa della città, oltre che dello spazio relazionale e fruitivo. Si configurano scenari inediti, pienamente confacenti peraltro alla realtà profonda del dispiega il lavoro dell’architetto nelle sue varie fasi e modalità, sempre rivolte a far essere ciò che poteva esserci ed ancora non vi era. 15

Cfr. Massimiliano Nastri, La realtà del progetto, Orientamenti metodologici ed euristici per la “modellazione”, il “disvelamento” e la formulazione tecnica dell’architettura sperimentale, Milano Maggioli, 2009, p. 9. 48


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luogo. Tutto muove dal luogo e ad esso ritorna, adattandosi alla sua sostanza e alle sue potenzialità finalmente intuite. La mutazione altro non è che interpretazione e presentificazione di una vita potenziale. In effetti l’architetto “esperisce”, sperimenta e prova, quanto può essere carpito dalla natura del luogo. Ciò che in particolare lo interessa è il vissuto urbano immateriale, carico dunque di infinite vite e metamorfosi possibili. In questo scenario, concettuale e operativo, la formulazione dell’intervento architettonico – mirando alla qualificazione o riqualificazione del luogo – sa rilevare i flussi e le reti, tenendo presenti i centri nodali del conteso. Determinante è la cultura progettuale dei flussi e delle reti. Dove la realtà non ha ancora assunto i caratteri dell’armonia e della stabilità, qui opera il progetto con la sua preziosa attività “maieutica”. Quindi l’elaborazione euristica del progetto va vista alla stregua di conoscenza ed indagine esplorativa, volta alla modellazione ed alla oggettivazione di manufatti urbani. Non si tratta mai di una pianificazione rigida e “deterministica”, bensì di realizzazioni duttili e in fieri, liberamente ricavate da fenomeni interiorizzati, scrutando il luogo e dialogando con la sua realtà potenziale.

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1.2 Le aspirazioni del luogo e il genius loci Raccontare il perenne divenire dei contesti urbani – non solo ad opera del progetto architettonico – è come affiancarsi al poeta Ovidio (43 a. C.-17 d. C.), che, nella sua opera intitolata appunto Metamorfosi, interpreta e conosce il mondo attraverso le sue assidue trasformazioni, che sembrano non dare tregua alcuna. Il poeta si propone dunque, fin dal proemio, di ripercorrere la linea degli ininterrotti mutamenti, che costituiscono una sorta di impalcatura della realtà, la sua sostanza prima ed estrema: “L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. O dèi – anche queste trasformazioni furono pure opera vostra – seguite con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi”. Attraverso tanti secoli e tante metamorfosi, resta immutata solo la legge della inarrestabile e inevitabile trasformazione di ogni forma e di ogni realtà. La forma prima, nel pensiero di Ovidio, assume sempre aspetti nuovi con una sola direttrice che resta stabile: cercare l’ordine e farlo rivivere continuamente, eludendo il disordine iniziale, sempre pronto ad incombere di nuovo. Questo stesso sembra il percorso della vita urbana, che con continua vicenda attraversa ordine e disordine, pur aspirando sempre e solo a forme armoniche. Attraverso le trasformazioni, Ovidio parla anche di molti miti locali e di divinità che sono un tutt’uno con il luogo e lo animano e lo rendono unico: si tratta dell’idea del genius loci, a cui si tributava allora un culto devoto.

Genius Loci.

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Del genius loci avevano grande considerazione non solo i poeti, ma anche gli architetti del mondo classico, che quasi sempre realizzavano le loro imperiture costruzioni in luoghi, che da soli potevano comunicare l’idea di divinità e di armonia sovrumana: basterebbe pensare a Delfi e alle strutture architettoniche che acquistano lì risalto e solennità dal contatto con monti, acque e cielo. Dal luogo si sprigiona dunque una forma di energia e, in casi particolari, di vera e propria sacralità. Di conseguenza non può esistere nessuna forma di umana creazione che non tenga conto del “luogo”. A proposito del dialettico e costruttivo incontro tra luogo e struttura architettonica, Massimiliano Nastri afferma: L’elaborazione progettuale si concentra sull’intervento architettonico, intrapreso quale mezzo per la comprensione, l’ispirazione e lo sviluppo sia teorico sia operativo, e quale strumento di effettiva associazione con le istanze della realtà del contesto. L’intervento architettonico è quindi impiegato per la conoscenza e per l’interazione con il luogo, per il richiamo dei contributi finalizzati a interpretare i contenuti e i fenomeni della realtà in esame, per lo studio e la proposta degli orientamenti metodologici .16 16

Cfr. Massimiliano Nastri, op. cit., p. 7. 51


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L’elaborazione progettuale dunque, nella sua forma di processo euristico e indagativo, esplora la porzione di realtà presa in esame e si propone l’obiettivo di rivelare ed esprimere le istanze del contesto, venendo a porsi come strumento di conoscenza, di disvelamento sensibile e di interazione esperienziale con il luogo: lo scambio di elementi è il risultato stesso dell’intervento architettonico in un preciso luogo. L’osservazione del luogo in tutta la sua complessità è un momento di massima rilevanza, tale da richiedere il concorso della multidisciplinarità, che viene invocata ad intervenire e a cooperare, ai fini della realizzazione di un fattivo incontro di competenze e di impegno euristico ed ermeneutico, nei confronti del luogo in esame. Il manufatto urbano, realizzato con il concorso di tanti elementi euristici, diviene una insostituibile “tessitura”, che intreccia in un insieme rinnovato le aspirazioni del luogo, determinando la fruibilità piena del progetto architettonico. Lo spazio preso in esame viene dilatato, frammentato e ricomposto, per poter essere meglio scandagliato, conosciuto e fatto conoscere ai fruitori del luogo da qualificare o da riqualificare. In questo procedimento anche il “dettaglio” diviene importante, purché correlato a livello immaginario con il luogo e con il suo possibile valore simbolico. Entro il luogo si ricerca il reticolo di richiami e di rimandi interni: l’universo interno del luogo diverrà esterno, senza smarrire peraltro la sua profondità e misteriosità. Nel luogo si rinviene il network delle condizioni esistenti, da tessere insieme al network delle condizioni possibili cui il luogo aspira. L’architetto è chiamato a “decifrare” quanto 52


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orbita attorno al luogo, entro il luogo e nello spazio dell’intermedio. Massimiliano Nastri invita inoltre a considerare il luogo come spazio per l’incontro e per l’estrinsecarsi della “relazionalità”: La rilevanza del contesto, inoltre, si delinea verso l’apertura allo spazio della “relazionalità” (per comprendere realmente i contenuti e i fenomeni), della connessione “inferenziale” e “interattiva”: questo, affermando l’analisi del luogo in esame quale spazio dell’intermedio (o in-between), inteso sia come ambito di indagine e di applicazione inserito tra le “pieghe” dell’esistente (urbano, edilizio, funzionale, fruitivo e afferente al vissuto “immateriale”), sia come “spazio dell’evento”, “percettivo” e “mentale”. Così definito, il luogo diviene il settore della trasposizione concettuale, della trasfigurazione e della correlazione con i contenuti, i fenomeni e gli sviluppi “annidati”. Inoltre, la rilevazione del contesto assume lo “spazio dell’intermedio” come junkspace (ovvero “spazio spazzatura”), nella forma di “spazio di risulta” e nella condizione irrisolta rispetto alle funzioni e ai flussi del vissuto urbano e “immateriale”.17 17

Cfr. Massimiliano Nastri, op. cit., p.10. 53


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Quindi il progetto si rivolge ai contenuti, ai fenomeni e agli sviluppi “annidati” nel luogo, per disvelarli e per renderli presenti e fruibili, anche sul piano delle relazioni e degli incontri tra i fruitori di quello specifico spazio. I movimenti percepibili nel luogo vengono interiorizzati e reimpiegati nella costituzione di una spazialità discontinua e “multidimensionale”. L’intervento architettonico è rivolto allora a “riunire” e a “implementare” le condizioni dei luoghi, predisponendoli ad essere luoghi di relazionalità e di incontro. Il luogo viene pensato a livello ideale e viene condotto alla dimensione di “ambiente”, ambiente sociale e relazionale, ambiente di costruttiva fruibilità. In questi termini la “costruzione” del luogo e della città stessa si struttura nel tempo ed è di per sé in itinere. Come afferma Aldo Rossi, la città si pone nella storia come “creazione umana” ed è natura antropizzata18 per eccellenza. Inoltre, con il tempo la città cresce su sé stessa, mantenendo vincoli ineludibili con la memoria di sé. Nel fluire dei segni umani, restano le tracce tangibili di una vita quotidiana, vissuta e orientata da precisi valori e percezioni: si tratta in sostanza di visibili orme delle forze che sono in gioco in modo permanente e universale in tutti i fattiurbani e che portano la città a “delimitarsi e definirsi” in continuazione. Le 18

La disciplina addetta allo studio della città è proprio la “geografia umana”, che ne studia le strutture in termini di localizzazione, stabilendo limiti precisi: la scala della strada; la scala del quartiere; la scala della città intera. Il principio che rende rapportabili, e omogenee, queste quantità, è il contenuto sociale che esse presentano. 54


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proposte ideali per un luogo e per un manufatto urbano non possono che dialogare con influenze sottese e quasi iscritte nel luogo, con scambi e con contraddizioni, che sono la prova del “concreto urbano” di aristotelica memoria, di contro alla repubblica ideale auspicata da Platone. Se prendiamo in analisi proprio il concreto urbano, vediamo che non è certo costituito solo dall’architettura, bensì soprattutto da una realtà molto più articolata e complessa, tale da poter ridisegnare il luogo fino a determinarne l’identità. Il luogo diventa così un unicum, poiché i fatti urbani hanno una loro qualità e singolarità, in quell’insieme, che li definisce. Molti elementi concorrono comunque ad individuare e rendere unico un fatto urbano. Solo se noi consideriamo (relativamente ad una installazione) l’individualità, il locus, il disegno e la memoria, possiamo in qualche modo predisporci a conoscere la ricchezza dei fatti urbani. Solo così possiamo cogliere, come si suole dire l’”anima della città” (l’ậme de la cité), che quasi scaturisce dal fatto che la città è il fatto umano per eccellenza. La città si pone di per sé tra l’elemento naturale e l’artificiale, in quanto oggetto di natura e soggetto di cultura. La città è una sorta di rappresentazione, allusiva e simbolica, della condizione dell’uomo, nel tempo e nello spazio. Nella sua sostanza più rilevante il luogo della città vale come “storia”, poiché ha sempre un antecedente e va verso altre forme: ex nihilo nihil (nulla viene dal nulla). Nei fatti urbani conta allora “ciò che permane” e si ripropone come presente, pur in un insieme di trasformazioni ingenti. Aldo Rossi ci parla 55


1_ Installazione

così dell’elemento duraturo della città: Le persistenze sono rilevabili attraverso i monumenti, i segni fisici del passato, ma anche attraverso la persistenza dei tracciati e del piano. Le città permangono sui loro assi di sviluppo, mantengono la posizione dei loro tracciati, crescono secondo la direzione e con il significato di fatti più antichi, spesso remoti, di quelli attuali. A volte questi fatti permangono essi stessi, sono dotati di una vitalità continua, a volte si spengono; resta allora la permanenza della forma, dei segni fisici, del locus. La permanenza più significante è data quindi dalle strade e dal piano; il piano permane sotto elevazioni diverse, si differenzia nelle attribuzioni, spesso si deforma, ma in sostanza non si sposta .19

Invero, lo stesso architetto milanese riconosce che nella città non tutto permane oppure permane con modalità assai diverse tra di loro. Un doppio valore va comunque attribuito alle permanenze. Da una parte sono elementi propulsori verso innovazioni compatibili e armoniose rispetto all’esistente, dall’altra possono invece essere una sorta di freno e di impedimento a nuove importanti iniziative e sperimentazioni. 19

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Cfr. Aldo Rossi, op. cit., p. 56.


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1.3 Modellazione e strategie di intervento architettonico Ricaviamo dal linguaggio militare antico il termine “strategia”, ancora perfettamente calzante – a livello metaforico – per indicare un piano di azione di un capo designato (strategòs in greco vuol dire duce), impegnato a risolvere problemi e a produrre di conseguenza fatti nuovi e positivi. Entro la dinamica urbana lo stratega è l’architetto, che predispone appunto strategie. La strategia di intervento architettonico è di primaria importanza anche oggi, pur nell’incertezza generale dei tempi e nella mutevolezza continua del panorama culturale di riferimento, anzi è divenuta elemento “indispensabile” proprio per le suddette motivazioni. La “modellazione” invero altro non è che l’attuazione del progetto, la quale prevede un precedente dialogo con la realtà esistente, e quindi con il passato, fino a riuscire ad individuare una “possibilità” nuova che rimodelli la dinamica urbana. Pertanto una condizione imprescindibile è che le strategie di intervento architettonico risultino coerenti e consone alle effettive istanze rilevate nel contesto urbano, che va quindi letto con attenzione e studiato in tutti i dettagli. Ogni dettaglio urbano e ogni aspetto del luogo è importante perché, come asserisce Aldo Rossi, la città può essere considerata come una architettura, tout court. Entro le nostre città, inoltre, vivono vicine forme del passato e forme moderne, ma forse 57


1_ Installazione

la strategia migliore di inserimento di nuovi manufatti urbani è quella di attuare un “incontro” di antico e di moderno, una rete di relazioni tra di loro, in modo che si attui una migliore percezione e lettura dell’insieme, venutosi così a creare. Per questa via si può sicuramente pervenire ad una soddisfacente qualificazione (o riqualificazione) urbana. In realtà, dietro le apparentemente immobili facciate delle nostre città si consuma, in modo anche inavvertito e non facilmente percepibile, un lavoro incessante di trasformazione. Il “cambiamento”, attentamente osservato, scrutato e interiorizzato, parla di noi, del movimento e della trasformazione della nostra vita. Tra realtà stabili e sviluppi di vita si colloca la dorma urbana. Il volto della città è formato da innumerevoli aspetti diversi, che corrispondono a diverse storie e aspirazioni, ad un vissuto che si rinnova e vive nel suo divenire. Scrive Massimiliano Nastri: L’elaborazione dell’intervento architettonico, attraverso le procedure di “attuazione del progetto”, di svolgimento euristico, di “modellazione” e di trasformazione mediante processi morfo-genetici, spaziali e connettivi, si imposta a partire dalla volontà di proporre l’interazione di spazi di connessione e di esperienza evocativa. Su queste basi, l’intervento è concepito verso l’integrazione con l’ambiente (tramite l’intersezione dei flussi e delle reti), l’espressione delle direzioni e 58


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delle transizioni (generate da “campi di forze”, secondo logiche dinamiche), la combinazione con l’intorno in forma di “tensione” e di “distorsione”. L’elaborazione dell’intervento architettonico si esplicita, in particolare, nella “fusione” tra i “campi di forze” concettuali, naturali e urbane, nella concezione spaziale eseguita da proiezioni dinamiche e, quindi, nell’organizzazione cinematica delle condizioni di utilizzo e di percezione: in accordo all’inserimento “incorporeo” e “indeterminato”, all’evitare strutture gerarchiche, rigide e definitive, esso si dispiega nell’”intreccio” degli “eventi” generati dalle traiettorie e dalle “linee” che attraversano il contesto, affermandosi nella proiezione spaziale mediante una serie di “linee-strutture” (quale traduzione “vettoriale” delle condizioni ambientali). Ancora, l’intervento architettonico è proposto nella permeabilità verso l’ambiente e nella distensione verso il contesto, in grado di relazionare e di accogliere una molteplicità di episodi morfo-tipologici, fruitivi e percettivi (definiti in modo “notazionale” e “scientifico”, rispetto alle attività, ai loro rapporti e alle relative “frequenze” di utilizzo). Le procedure di integrazione ambientale e urbana sostengono l’inclusione degli “stati” di relazione tramite l’intervento architettonico (che si struttura mediante l’organizzazione e l’interdipendenza, sia olistica sia dinamica, mediante la costituzione 59


1_ Installazione

reale e attrattiva degli spazi, delle funzioni e delle attività): questo, secondo l’inserimento di “microcosmi” (o “contenitori”) afferenti ai caratteri della realtà ambientale e urbana .20

Dunque, l’attuazione del progetto prevede come strategia prioritaria un fattivo e sostanziale “incontro” con il contesto, anzi un incontro-scontro che rimetta tutto in gioco e che liberi il nuovo, senza peraltro dimenticare il già esistente. È questo il retroterra della modellazione, un retroterra che mette in campo la continua interazione di forze diverse, senza mai perdere di vista l’iniziale istanza trasformativa e le aspirazioni del luogo. Le procedure di integrazione ambientale e urbana sostengono la manipolazione spaziale, ponendo in rilievo le istanze connettive tra gli spazi costruiti, , gli spazi “vuoti”, i flussi e le reti. Mediante tali strategie attuative è possibile portare alla luce le condizioni evocative del luogo. Ne derivano un inserimento multifocale e multidirezionale e una composizione ibrida. Si ha un tipo di equilibrio dinamico come “flusso costante” di interazione spaziale, con i flussi e con le reti, proprio mentre si organizzano gli spazi intermedi. Si realizza un dinamismo polidirezionale e si costituiscono forme di spazialità inedite, rifiutando ancora una volta il tipo di architettura in forma definita, chiusa e rigida. In sostanza l’orientamento del “composto architettonico” mira a dare vita ad una interconnessione morfo-tipologica, spaziale e funzionale, con il contesto. 20

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Cfr. Massimiliano Nastri, op. cit., p. 13.


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Questo è l’obiettivo prioritario di ogni strategia di intervento architettonico. Pertanto, i composti architettonici – per la loro caratteristica di voler conciliare eventuali dissonanze con il contesto e di tendere a manifestare i caratteri dinamici afferenti al luogo – vengono assunti alla stregua di veri e propri strumenti di riflessione critica e di ricerca disciplinare. L’intervento architettonico modella i contenuti e i fenomeni afferenti al contesto in chiave analogica e metaforica. Il composto architettonico altro non è che l’oggetto possibile, che trascende formalmente i contenuti e i fenomeni del contesto, cui pure si ispira. Si realizza così la cosiddetta “invenzione strategica” del manufatto urbano, rimarcando il fatto che l’architetto deve invenire, cioè trovare, soluzioni adeguate e inedite, ogni volta.

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2_ BERNARD TSCHUMI_EVENTO ARCHITETTONICO

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2_ Bernard Tschumi_ Evento architettonico

“Il teatro è molto simile all’architettura perché riguarda una vicenda; il suo inizio, il suo svolgimento e la sua conclusione. Senza vicenda non vi è teatro e non vi è architettura. È anche commuovente che ognuno viva una sua piccola parte.” Aldo Rossi

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L’installazione riesce a divenire operativa sul piano della fruizione urbana, nel momento in cui chi la percepisce realizza entro di sé un “evento”, per cui l’installazione di per sé si può già qualificare come un evento. L’installazione può dunque essere studiata come evento architettonico. Il soggetto dell’evento è in sostanza la persona che “vive” l’architettura, per come essa si viene progressivamente dispiegando in forme rinnovate, all’interno del tessuto urbano. Se il fruitore riesce a provare emozioni e a percepire il nuovo in sintonia con il vissuto preesistente e quindi con le stratificazioni delle vite passate, abbiamo la prova più certa che si è attuata in quel luogo “l’installazione come evento architettonico”. Quello che invero si percepisce subito – entro la rete urbana e in contatto con i flussi di energia che se ne sprigionano – è la tensione (positiva o negativa) dei rapporti lì intercorsi: una sorta di vissuto umano individuale che si fa vissuto collettivo, entro la dimensione concreta della città. Ciò che conta entro lo spazio urbano sono infatti in primo luogo le “relazioni”, ma esse sono assai spesso – come afferma Calvino avvalendosi di una assai viva e calzante metafora – una sorta di “inferno”21 sulla terra: 21

Tschumi usa la metafora di “violenza” per alludere al rapporto tra individuo e spazio, poiché ogni uso dello spazio significa l’intrusione di un corpo umano in uno spazio dato; in questo senso la violenza dell’architettura è fondamentale e inevitabile. In ogni caso è vero che gli spazi qualificano le azioni come le azioni qualificano gli spazi, quindi evento e spazio possono influenzarsi reciprocamente. 65


2_ Bernard Tschumi_ Evento architettonico

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio .22

Le parole di Calvino sembrano quasi avere una forza profetica e sembrano indicarci l’inferno della moderna città, la metropoli, dove il dramma delle tensioni relazionali (o anche dei “vuoti” di incontro possibile) si intensifica a dismisura e si estremizza. Lo sfondo urbano, o scena dell’incontro, molto spesso non agevola il dialogo, lo scambio, la meditazione e il godimento estetico del mondo circostante. Non si vengono quindi a creare ideali “ponti” di comunicazione e di dialogo, ma solo pesanti “muri” di chiusura e di isolamento: non c’è congiunzione, ma disgiunzione. Ora una domanda viene alla mente spontanea. Se pensare alla città significa pensare all’architettura (secondo quanto sostiene Aldo Rossi), potrebbe proprio la città – con la forza di architetture innovative e creative – dare vita a nuove energie, che investano il luogo e arrivino a influire positivamente sul fruitore, promuovendo in lui una sorta di

Italo Calvino, Le città invisibili, 1972.

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Cfr. Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, p. 164.


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“rigenerazione”, mediante la comprensione di valori profondi e imprescindibili, resi presenti attraverso l’installazione architettonica? Può dunque il composto architettonico creare atmosfere fruibili e godibili a livello interiore, oltre che nella loro funzionalità concreta? La risposta è tutt’altro che semplice e lineare. Sarà comunque utile, a tale scopo, avviare una rilettura della vicenda umana e artistica dell’architetto e teorico svizzero Bernard Tschumi. Esponente di primo piano dell’avanguardia architettonica internazionale, Tschumi rappresenta con le sue elaborazioni teoriche e con le sue opere un preciso punto di riferimento dell’arte architettonica. Anche con le sue opere architettoniche, Tschumi si è confermato come una delle personalità più innovative dell’architettura contemporanea. Aperto ad una visione multidisciplinare23 della disciplina architettonica, ha raggiunto risultati notevoli come teorico e come progettista. Ricordiamo: la realizzazione del Parco della Villette a Parigi (fine degli anni ’80); l’ampliamento della Columbia University a New York e il Campus di Miami; i concorsi internazionali vinti per il nuovo museo dell’Acropoli ad Atene, il Museo d’Arte Moderna di San Paolo e il Museo d’arte africana di New York. In tutta la ricca produzione artistica (teoria e prassi) di Bernard Tschumi24 , si propongono 23

In un articolo intitolato «Import and Export», Tschumi affronta il tema del rapporto con le altre discipline, vedendo ciò che viene importato dall’architettura, nonché quello che viene esportato in altre aree della conoscenza. L’import-export favorisce disgiunzioni, trasgressioni, contaminazioni. 24

Bernard Tschumi nasce a Losanna da madre francese e da padre svizzero che svolge la sua attività 67

Bernard Tschumi, Acropolis Museum Athens, schizzo.


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alla nostra attenzione due forti tensioni: la tensione rivolta alla pratica speculativa tutta mentale (indirizzata verso la riflessione critico-filosofale) e la tensione diretta alla concretezza del reale. Nel suo spirito, ideale e reale si congiungono e si disgiungono, in movimenti di pensiero di alto significato per noi. Una cosa è certa e stabile: egli è sempre e comunque attento al senso del vivere contemporaneo, alla ineludibile necessità di interpretare i nuovi bisogni di una società post-industriale. Secondo Tschumi, per far sì che l’architettura salvaguardi la propria natura, pur nel contesto della società dei consumi, bisogna che tenda a negare ciò che la società si aspetta da essa, affermando la “necessità della sua non-necessità”.25 In questo modo, anziché essere considerata, hegelianamente, un valore “supplementare” rispetto al fine ritenuto primario della costruzione, o essere chiamata in causa come giustificazione culturale per atti di piena speculazione, essa deve presentarsi come espressione di puro professionale a Parigi e insegna al Politecnico di Losanna: il giovane Bernard si trova immerso subito nel clima dell’architettura, tanto che la passeggiata domenicale con il padre era proprio visitare i “cantieri”. Molto interessato è peraltro alle discipline letterarie e filosofiche. Conseguita la laurea in architettura a Zurigo, si reca a Londra, dove dedica la sua riflessione al ruolo dell’architettura nel contesto della società contemporanea. Poi passerà a New York. 25

L’idea di architettura si pone al di là di qualsiasi giustificazione morale o funzionale. È una condizione che sta oltre la mitica opposizione fra apollineo e dionisiaco, ovvero fra una disciplina concettuale dematerializzata (apollineo) e gli impulsi di un approccio empirico, concentrato sui sensi e sull’esperienza dello spazio (dionisiaco). La definizione di apollineo e dionisiaco risale al filosofo tedesco Nietsche (18441900) e sta ad indicare due categorie del bello greco. 68


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godimento, costituendo uno strumento edonistico rivolto alla “ricerca del piacere”. Così, nell’identificazione della sua ragion d’essere con la ricerca dell’appagamento dei sensi, essa si propone in una condizione di non-necessità e di non utilità, in un atteggiamento quindi di “antifunzionalismo” 26. In seguito, durante gli avvenimenti del Maggio 1968 a Parigi, in contato con il “movimento situazionista”, Tschumi non solo riconosce la potenzialità insita nella nozione di “evento”27 , ma si interroga anche riguardo alla possibile influenza dell’evento nel processo di trasformazione della società. La domanda di fondo è: quale ruolo potrebbe assumere l’architettura in tale contesto? Da questo suo particolare atteggiamento spirituale – attento tanto alla teoria quanto alla prassi e alla realtà – si è generato un singolare intreccio di idee ed esperienze, di teorizzazioni e proposte progettuali. Durante il primo decennio della sua attività, l’architetto si dedica quasi totalmente allo studio e all’insegnamento, per poi entrare nel mondo della professione con la vittoria nel 26

Uno dei princìpi che Tschumi pone come fondamento della sua architettura è l’antifunzionalismo. È un primo punto fermo che recupera dal dibattito sviluppato durante il periodo delle lotte studentesche; da tale esperienza, infatti, trae la convinzione che l’unica possibilità di riscatto per l’architettura sia la salvaguardia della propria natura. Lo svolgimento di questa idea porta a far sì che l’architetto tenda a negare ciò che la società si aspetta dall’architettura, affermando la “necessità della sua non-necessità”. L’architettura si pone come uno strumento edonistico rivolto alla ricerca del piecere. 27 Nel periodo del ’68 si chiamavano les évenéments e non erano eventi solo rispetto all’azione, ma anche rispetto al pensiero. 69


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concorso per il Parc de La Villette28 a Parigi (1982-83). Come sosteneva Machiavelli, non c’è pensiero senza azione corrispondente; quindi Tschumi sente ad un certo punto di dover realizzare una svolta determinante della sua polivalente esperienza e di dover ridefinire la propria identità di professionista-teorico dell’architettura, in termini più stringenti e operativi. Il suo ingresso nel concreto della costruzione architettonica ha un ricco retroterra di pensiero e di motivazioni. Crollati gli ideali rivolti alla speranza di poter costruire entro un mondo migliore, con la fine dei movimenti del ’68, Tschumi si interessa al mondo così come è. È un mondo che abbandona ogni raffinatezza stilistica, per divenire il luogo della realtà più dura. È un mondo “senza qualità”29 , senza senso, rappresentato dalla Il progetto per il Parc de la Villette rappresenta, per Tschumi, la prima occasione per tradurre nel concreto alcuni fondamentali princìpi della sua ricerca teorica: il rifiuto della nozione di sintesi in favore di quella di dissociazione, di scomposizione; il rifiuto della tradizionale dialettica tra funzione e forma in favore dei termini di sovrapposizione, giustapposizione; l’applicazione della metodologia della frammentazione, della combinazione, che libera forze dissociative che conferiscono possibilità di nuove definizioni ai sistemi architettonici. Con il Parc de la Villette viene riqualificata una zona depressa della periferia parigina, dove un tempo si trovavano gli impianti per la macellazione. Dopo la realizzazione del Parc de la Villette, Tschumi si impone come progettista di spiccata personalità. 28

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Tale definizione richiama allusivamente il titolo del romanzo di Robert Musil, L’uomo senza qualità. Si vuole infatti rimarcare una caratteristica propria del sentire moderno, cioè la difficoltà dell’individuo nel voler essere “artefice del proprio destino”, secondo criteri valoriali del mondo classico, rinnovati poi nel mondo rinascimentale. Lo squallore e l’abulia minacciano di invadere tutto.

Bernard Tschumi, Parc de la Villette, Parigi.

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perdita dei valori da parte della metropoli: una nudità spoglia che non offre nessuna via di uscita. Tuttavia, entro questa società post-industriale, priva di valori, Tschumi ritiene che progettare sia di nuovo possibile. Nelle sue opere immette quindi tutta l’energia imprigionata dalle esperienze metropolitane e pone in essere le sue riflessioni sul dinamismo e sugli eventi. Materiale assai originale, per impostare una riflessione sulla polivalenza delle strutture architettoniche, ci è fornito dall’architetto Tschumi in The Manhattan Transcripts30 (1977) – un’opera rivolta ad incrementare la ricerca delle idee che sono alla base delle architetture – nonché poi in Architecture and disjunction (1996) . Nei saggi scritti tra il 1975 e il 1976, Tschumi analizza il quadro architettonico internazionale di quel periodo, focalizzando la sua attenzione sul problema dell’autonomia dell’architettura stessa. In generale, va specificato che la tesi autonomistica viene discussa ampiamente nel corso degli anni Settanta, mentre da più parti si ribadisce la specificità disciplinare. Tra l’altro si auspica che l’architettura abbia il potere di opporsi e negare in qualche modo la “cultura consumistica”, espressa dal dominio della pubblicità. Da queste posizioni, il passo è breve verso la visione di una architettura che si esprime mediante la “ricerca e la produzione di effetti”. Tutto ciò coinvolge Tschumi nella veste di teorico ed anche di progettista. 30

Bernard Tschumi, The Manhattan Transcripts, New York, St. Martin’s Press, 1981. 71


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Bernard Tschumi, Parc de la Villette, Parigi. 72


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In particolare, Bernard Tschumi si concentra sulla polarizzazione – o meglio sulla dialettica – tra architettura come elaborazione della mente (una disciplina concettuale e “dematerializzata”) e architettura come prassi spaziale. Nel saggio Questions of Space: The Architectural Paradox of Pyramid and the Labyrinth, Tschumi parla di una architettura che, pur chiamata ad una propria autonomia, non va peraltro circoscritta entro il limite dell’attività costruttiva, bensì va aperta ad un raggio di riflessione e di azione ben più ampio. Lo spazio è in una aporia, in un paradosso: non riesce a interrogare la sua natura, pur se sperimenta la propria realtà fisica. Tale duplice e inconciliabile modo di essere di una medesima realtà – che costituisce la sostanza del paradosso – è simbolizzata da Tschumi con la coppia “gianobifronte” di “piramide” e “labirinto”. La piramide rappresenta un’idea di spazio architettonico inteso come puro luogo mentale, regno dell’immateriale, mentre il labirinto denota un ambito assolutamente concreto, da riconoscere e verificare mediante l’esperienza dei sensi. Riferendosi alle antiche “piramidi” egiziane, egli osserva che, oltre la visibilità della costruzione materiale, esse esprimono un valore e una entità spirituale, che trascende la materia di costruzione. Quindi Tschumi ritorna all’asserzione di Hegel, secondo cui l’architettura è “un supplemento artistico”, cioè una serie di concetti aggiunti alla costruzione in sé e per sé. Tuttavia non viene detto da Tschumi che l’architettura è una produzione di concetti, sic et simpliciter, anche se infine sfiora il paradosso, affermando che l’architettura può dare la soddisfazione sensuale che la creazione di oggetti materiali 73


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non riesce a dare più 31. Secondo Tschumi, non esiste invero alcuna avanguardia che non sia legittimata, ma nello stesso tempo anche limitata, da ciò cui si oppone. L’affermazione della propria autonomia permette all’architettura di contrapporsi all’ordine sociale di cui è complice, eppure quella stessa complicità spinge l’architettura in una posizione agonistica, rendendola combattiva, trasgressiva, desiderosa di “produrre effetti” che appartengono al sistema e che tuttavia si oppongono ad esso .32 Ora l’architettura deve rifiutare di conformarsi alla società, a livello profondo, anche se in superficie appare necessariamente un prodotto del tempo. Tutto ciò deve essere fatto, anche se, come dice Tschumi, l’architettura non dovesse più esistere: “l’unica alternativa al paradosso è il silenzio, un’affermazione nichilista che potrebbe segnare l’ultima parola della storia dell’architettura moderna, il suo autoannientamento”. È come dire che, se l’architettura ha avuto un inizio, può avere anche una fine. Una sola apertura resta possibile, rispetto al rischio dell’autoannientamento e del silenzio dell’architettura: lo “spazio esperito”, un modo di praticare lo spazio, vale a dire un “evento”. Con l’idea di “evento”, l’architetto svizzero si pone in lotta contro il paralizzante funzionalismo dell’urbanistica, che sta bloccando le capacità creative dell’individuo, come 31

Questa di Tschumi sembra essere un’affermazione post-funzionalista e concettuale. Per un approfondimento di tali concetti e problemi nelle opere di Tschumi, si veda Damiani G., Bernard Tschumi, Milano, Rizzoli, 2003, passim. 32

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appare in forma evidente, quando si osservano le alienanti concentrazioni abitative, costruite intorno alle grandi periferie metropolitane. L’impiego di termini quali evento e movimento risalgono alle idee del ’68. Si mira ora ad un uso libero dell’ambiente urbano, in vista di una sua radicale trasformazione, mediante l’introduzione di eventi singoli e collettivi, il cui intento è quello di scompaginare l’ordine della struttura spaziale, la quale riflette la struttura su cui si fonda la società. Si vuole dunque conferire un senso nuovo al messaggio culturale veicolato dall’architettura. Ci si distacca pertanto dalla realtà, per riuscire a ricostruire al suo interno nuovi e positivi valori. Un punto fermo è la negazione dei valori di massa.

2.1 The Manhattan Transcripts Nel 1976 Tschumi si trasferisce a New York e comincia ad insegnare all’università di Princeton, frequentando diverse figure importanti del mondo culturale e artistico, con le quali realizza importanti “scambi” esperienziali. Il cosiddetto import-export ovviamente a livello culturale, favorisce disgiunzioni, trasgressioni, contaminazioni da un campo, da un territorio all’altro, e quindi dà luogo a “ibridazioni”. La sua attenzione è ora rivolta all’approfondimento del binomio spazio-evento, in 75


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rapporto alle strategie trasformazionali derivate dallo sviluppo seriale. Si propone la rappresentazione visiva del movimento mediante il prelievo di fotogrammi da sequenze filmiche; egli parte da immagini che trae ora da un film noir, ora da un trilling, applicando loro le tecniche del montaggio cinematografico. Inoltre, comincia a “dissociare” l’architettura in tre componenti e analizza tre livelli di realtà: lo spazio (la costruzione dello spazio fisico, materiale), il movimento (movimento del corpo nello spazio), l’evento (il modo stesso di praticare e vivere lo spazio). I Transcripts quindi usano un metodo di annotazioni tripartito: eventi, movimenti, spazi. Lo spazio è raffigurato tramite edifici presi da planimetrie, piante, fotografie; il movimento è reso mediante di diagrammi; l’evento è rappresentato da fotografie prese dalla cronaca. L’esperienza architettonica si determina nell stretta relazione tra i tre livelli. I Manhattan Transcripts consistono in una descrizione frame-by-frame, fotogramma per fotogramma, di un’inchiesta architettonica. Questi non comprendono in nessun modo una definitiva affermazione, sono semplicemente un work-in-progress, un qualcosa ancora in corso di svolgimento. Si propongono di trascrivere un’interpretazione architettonica della realtà. Piante, sezioni e diagrammi definiscono lo spazio e indicano i movimenti dei diversi protagonisti. Non c’è coincidenza tra significato e essere, movimento e spazio, uomo e oggetto. Le fotografie dirigono l’azione, le piante rivelano le manifestazioni architettoniche alternativamente crudeli e amorevoli. I Transcripts presuppongono l’esistere di una realtà che aspetta di 76


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essere “decostruita” e trasformata: isolano, incorniciano, prendono elementi dalla città. Le “disgiunzioni” tra movimenti, programmi e spazio, seguono ognuna una propria logica, mentre i loro confronti producono le più svariate combinazioni. Nei Transcripts non si cerca mai di trascendere le contraddizioni tra uomo, oggetto e evento, per portarle ad una nuova sintesi: le contraddizioni sono mantenute in modo dinamico, in una nuova reciprocità e in un nuovo conflitto. Presi allo stato individuale, oggetti, movimenti e eventi, sono discontinui; solo se uniti, essi possono stabilire un istante di continuità. Fondamentalmente, i Transcripts provano ad offrire una lettura diversa dell’architettura, dove spazio, movimento ed eventi, sono indipendenti e, nonostante ciò, si mettono in una nuova relazione uno con l’altro, in modo che le componenti convenzionali dell’architettura siano abbattute e in seguito ricostruite su basi differenti. Lo scopo dei Transcripts è quello di descrivere gli elementi che solitamente vengono eliminati dalle tradizionali rappresentazioni architettoniche, cioè i possibili e anche improbabili confronti: la relazione tra gli spazi e i loro usi, tra set e copione, tra tipologia e programma, tra oggetti ed eventi. Tschumi, in Manhattan Transcripts 33 (1977), procede decisamente verso l’idea di un’architettura dell’evento e dell’effetto. 33

I Manhattan Transcripts si differenziano dalla maggior parte dei disegni architettonici, in quanto questi non sono né progetti reali né mere fantasie: possono essere dei progetti teoretici, tentativi astratti che puntano ad esplorare i limiti della conoscenza architettonica e allo stesso tempo a dare ai lettori accesso a particolari forme di ricerca. Piante, sezioni e diagrammi, delineano gli spazi e indicano i movimenti dei diversi personaggi: le persone che si inseriscono nel palcoscenico architettonico. 77


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Bernard Tschumi, Manhattan Transcripts.

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La nozione di “evento”, con il suo carattere mutevole e aleatorio, mette in crisi ogni idea di forma espressa attraverso assetti definitivi, ponendo in rilievo quello che accade e, soprattutto, quello che può accadere in un qualsiasi spazio, anche al di là delle previsioni. È evidente – in questo sforzo di trasformazione della disciplina – non solo il tentativo di mantenersi in contatto con una realtà in costante e accelerata mutazione, bensì anche la volontà di ampliare la capacità dell’architetto di rispondere a situazioni che sfuggono alle sue capacità di comprensione e di intervento. Si tratta di un approccio che, rispetto al sistema di sicurezze che regge la pratica del progetto architettonico, risulta tanto destabilizzante quanto aperto a nuovi sviluppi, nel cui centro si pone la ricerca e l’amplificazione del possibile, dell’inaspettato. L’elemento qualificato come “evento” riveste dunque grande importanza per Tschumi, che ha illustrato la nozione di evento con esempi di “programmazione incrociata”, come il salto con l’asta in una cattedrale, il ciclismo in una lavanderia a gettoni, il paracadutismo acrobatico nel pozzo di un ascensore. Un’architettura dell’evento appare per Tschumi come un possibile terzo termine nella contraddizione tra autonomia e negazione dell’architettura. Non è offerta alcuna architettura in sé, ma solo la prova che essa esista, che esista nei suoi concetti e nei suoi effetti, che peraltro sono materiali al pari di un “oggetto reale”. In ogni caso, la città di Manhattan diviene, in Manhattan Transcripts, un oggetto emblematico, una città intesa secondo il suo potenziale programmatico erotico e violento, intessuto nella griglia di 80


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strade e viali. I Transcripts vengono presentati in tre diagrammi orizzontali a più livelli. Il frammento fotografico agisce a livello di metafora del programma architettonico, un omicidio a Central Park e il volo del fuggitivo verso il piacere simulato della pornografia e della prostituzione della Quarantaduesima strada. I disegni architettonici sono “distorsioni” della città e dei giardini tradizionali e il volo del fuggitivo è reso mediante una notazione coreografica di linee e frecce, che descrivono i movimenti e le interazioni. Questi tre livelli di notazione producono interazioni aleatorie, sia in senso orizzontale sia verticale, come la griglia delle strade e degli edifici di Manhattan, ma in uno spazio forse ancora più eterogeneo e multidimensionale, nel quale una varietà di significati, creati ex novo o ricavati dalla realtà, interagiscono, si fondono e si scontrano. In sostanza viene fornito al lettore una sorta di “racconto programmatico”, suddiviso in parti. Il primo episodio (MT1), “Il Parco”, è composto di 24 fogli, che illustrano il simbolo, fotografato e disegnato, di un assassinio. L’omicidio (la figura solitaria che segue la sua vittima, la caccia, la ricerca di indizi fino ad arrivare alla cattura dell’omicida) è in giustapposizione con un’architettura indissolubilmente legata ad azioni estreme. Uno speciale metodo di notazione (il principio dei tre quadrati) sottolinea il letale gioco del nascondino tra il sospetto e gli eventi architettonici, in cambiamento costante. Le fotografie dirigono le azioni; le piante rivelano le manifestazioni architettoniche alternativamente crudeli e amorevoli; i diagrammi indicano i movimenti dei principali 81


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protagonisti. Viene dunque definito lo spazio architettonico del “Parco”. MT2, “La strada” (di per sé passaggio di frontiera) presenta una tipica strada, la Quarantaduesima strada. Dall’East River fino all’Hudson, ci sono più di una dozzina di mondi differenti: dal Chrysler Building agli economici bordelli; dal Bryant Park al pontile abbandonato. MT3, “La Torre” (La Caduta): casa, ufficio, prigione, hotel e manicomio, trovano un comune denominatore nella caduta letale di uno dei loro prigionieri. L’effetto collaterale è l’interrogarsi sulla natura degli spazi che contengono tali azioni. La sequenza34 di disegni raffigura il volo di qualcuno e la conseguente caduta dall’altezza della torre di Manhattan, le sue celle e i suoi cortili. La drastica alterazione delle percezioni causate dalla caduta è usata per esplorare le varie trasformazioni spaziali e le loro distorsioni tipologiche. MT4, “Il Blocco”. Cinque cortili interni di un semplice quartiere di città sono testimoni di eventi contraddittori e di azioni impossibili in quel luogo: acrobati, pattinatori sul ghiaccio, ballerini, soldati e giocatori di calcio, si radunano tutti insieme e mettono in 34

Di per sé la “sequenza” risulta da una successione di fotogrammi o serie di fotografie, che confrontano spazi, movimenti ed eventi. Rappresentano tempo e rapporti di causa-conseguenza, temporalità e logica. Il significato finale dipende dal contesto; non conta il singolo riquadro, bensì conta la successione dei riquadri. In ogni caso vi sono sempre due campi conflittuali: framing device e framed material, cioè inquadratura (quadrata, genuina, conformista, normale, prevedibile) e il materiale inquadrato, che pone domande, distorce, comprime. Entrambi sono necessari. Nessuno dei due campi è completo o comunica, se preso singolarmente, ma è il gioco tra i due campi (la loro distanza e occasionale trasgressione) che riesce a comunicare, quando il fotogramma stesso diventa oggetto delle “distorsioni”. 82


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scena atti estremi, giochi o addirittura ricostruzioni di famose battaglie, in un contesto solitamente alieno dalle loro attività. “Disgiunzioni” tra movimenti, programmi e spazi, inevitabilmente seguono una logica distinta, mentre il loro confronto produce le più improbabili combinazioni. Tuttavia, l’origine architettonica di ogni episodio si trova in una specifica realtà e non in un’astratta figura geometrica: Manhattan è un luogo reale; le azioni descritte sono azioni reali. Tschumi sceglie lo spazio metropolitano come tema di confronto per riflessioni teoriche; non è lo spazio come luogo metafisico dove creare forme capaci di evocare memorie, bensì è un luogo di esperienza. È lo spazio in tutta la sua violenza, lo spazio della realtà. Quello che interessa a Tschumi è lo spazio che si genera dal movimento e dalla vita che attraversa lo spazio stesso. I soggetti delle sue architetture sono le persone che le vivono, le relazioni spaziali che le uniscono. È l’esperienza del muoversi nella metropoli che crea lo spazio, nonché le relazioni fra le cose e gli uomini. L’architettura è generata dalle relazioni sociali, dal movimento e dalle implicazioni spaziali di coloro che sperimentano lo spazio. I Transcripts dunque presuppongono sempre una realtà che già esiste, una realtà che aspetta di essere “decostruita” e possibilmente “trasformata”: isolano, incorniciano e prendono elementi dalla città, senza limitarsi a rappresentare. La realtà delle sequenze costruite non sta tanto nell’accurata trasposizione del mondo che sta fuori, quanto nella logica interna che queste sequenze mostrano. 83


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The Manhattan Transcripts 1976-1981 Architecture is not simply about space and form, but also about event, action, and what happens in space. The Manhattan Transcripts differ from most architectural drawings insofar as they are neither real projects nor mere fantasies. Developed in the late '70s, they proposed to transcribe an architectural interpretation of reality. To this aim, they employed a particular structure involving photographs that either direct or "witness" events (some would call them "functions," others "programs"). At the same time, plans, sections, and diagrams outline spaces and indicate the movements of the different protagonists intruding into the architectural "stage set." The Transcripts' explicit purpose was to transcribe things normally removed from conventional architectural representation, namely the complex relationship between spaces and their use, between the set and the script, between "type" and "program," between objects and events. Their implicit purpose had to do with the 20th-century city. more

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Program: Theoretical


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Bernard Tschumi, Manhattan Transcripts.

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Tschumi tenta di giocare nello stesso tempo con i “frammenti” di una realtà data come la struttura razionale di concetti astratti, mentre costantemente si interroga sulla natura dei “segni architettonici”. Questi frammenti di realtà (ad esempio sezionati dalla lente del fotografo) devono essere visti come parte del materiale dell’architettura, un materiale oggettivo e indifferente. Tre disgiunti livelli di realtà sono presentati simultaneamente nei Transcripts: il mondo degli oggetti, composto di edifici astratti dalle mappe, piante, fotografie; il mondo del movimento, che può essere astratto dalla coreografia, sport o altri diagrammi di movimento; il mondo degli eventi, che è astratto dalle nuove fotografie. Conta prima di tutto l’interpretazione di chi vede tutto ciò: guardare ai Transcripts significa anche costruirli. L’esperienza architettonica, nei Transcripts, deriva dal rapporto che si viene a creare tra il livello degli oggetti e quelli dei movimenti e degli eventi: questi livelli si intersecano così strettamente che in ogni momento risultano intercambiabili. Quindi i Transcripts non cercano di trascendere le contraddizioni tra oggetto, uomo (movimento) e evento per portarle ad una nuova sintesi; al contrario vogliono mantenere tali contraddizioni in modo dinamico, in una nuova “reciprocità” e “conflitto”. Deve essere sottolineato il fatto che l’implicita programmata violenza dei Transcripts è una sorta di “contrario” che stimola a interrogarsi sui passati programmi umanistici (rivolti ai bisogni di sopravvivenza e produzione) e su quelle attività invece solitamente giudicate negative e improduttive (lussuria, lutto, guerre). I Transcripts dunque propongono letture 86


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diverse delle funzioni spaziali, poiché suggeriscono che la definizione di architettura si può trovare nell’intersezione di logica e dolore, razionalità e angoscia, concetto e piacere. Nel loro stato individuale oggetti, eventi e movimenti, sono semplicemente discontinui; solo quando si uniscono, stabiliscono un istante di continuità. I Transcripts sono work in progress, pur se il metodo di lavoro diventa estremamente preciso e articolato nei più tardi episodi, come se la ricerca di nuovi strumenti passasse sempre attraverso incertezze, intuizioni e scorciatoie, le quali, mentre accelerano certe scoperte, possono ostacolare il rigore concettuale. Lo scopo originale del metodo di annotazione tripartito (eventi, movimenti, spazi) era quello di introdurre l’ordine dell’esperienza e del tempo all’interno della “lettura” della città. L’inserimento del movimento del programma nello schema architettonico implica il venir meno di alcune componenti tradizionali dell’architettura. Diventa presto chiaro che tale decomposizione permette l’indipendente manipolazione di ogni nuova parte, in accordo con considerazioni di tipo narrativo o formale. Per esempio le piante del Parco, le sezioni della strada, le assonometrie della Torre e le prospettive del Parco seguono tutte l’interna logica dei loro modi di rappresentazione. Le implicazioni compositive di un’assonometria sono molto diverse di quelle di una prospettiva ad un solo punto dei fuga. Nel capitolo quarto dei Transcripts – in opposizione alle piante, mappe o assonometrie 87


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usate nei primi episodi – la descrizione prospettica degli edifici è in concomitanza con la loro registrazione fotografica. L’immagine prospettica non è più un modo di disegnare in tre dimensioni, ma la diretta estensione della modalità di percezione fotografica. I primi Manhattan Transcripts introducono l’idea di movimento in generale, improvvisando delle fantasie di movimento, dal fuggitivo ai combattenti su strada. L’ultimo Manhattan Transcripts analizza dei diagrammi di movimento – altamente formalizzati – di ballerini, giocatori di calcio, skaters, acrobati. Più che limitarsi ad indicare frecce su una superficie neutrale, la logica dei simboli di movimento suggerisce dei veri e propri corridoi di spazi, come se il ballerino avesse “inciso dello spazio al di fuori di una sostanza flessibile”, o come se avesse disegnato dei volumi continui, o anche come se un intero movimento fosse stato letteralmente solidificato, “congelato” in un vettore permanente. Infine, ogni particolare evento o azione dei Transcripts è denotato da una foto, per avvicinarsi ad una oggettività (anche se non la si raggiunge mai), che sempre manca nei programmi architettonici. Se altre fotografie sono inserite in accordo a specifiche regole di trasformazione, la combinazione di queste inevitabilmente suggerisce l’idea di “attività ibride”. Qui ancora, l’interna logica della fotografia suggerisce che può funzionare in diverse vie. Prima di tutto si comporta come una metafora per il programma architettonico, riferendosi a eventi e persone. In secondo luogo, può essere letta in maniera indipendente per quelle fotografie che hanno la loro autonomia, indipendentemente dai disegni che sono 88


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giustapposti ad esse. In ogni caso, viene posta al centro dei Manhattan Transcripts la necessaria interazione di ogni simbolo con l’altro: i Manhattan Transcripts non sono una casuale raccolta di eventi, bensì constano di una loro particolare organizzazione. La sequenza si presenta come successione di fotogrammi che confrontano spazi, movimenti ed eventi, ognuno di essi con ruoli propri. Rappresentano tempo e rapporti di causa-conseguenza, temporalità e logica. Il significato finale dipende dal contesto, che non è determinato esclusivamente dal riquadro. Il fotogramma permette l’estrema formale manipolazione della sequenza, che può essere mescolata, sovrapposta, dissolta, scomposta, dando infinite possibilità di narrazione. Tali interne manipolazioni possono essere classificate come: sequenza ripetitiva, sequenza disgiunta; sequenza distorta; sequenza dissolta; sequenza insertiva. Si possono dare nuove e inaspettate combinazioni con una grossa varietà di relazioni e strutture interne. Gli scopi più importanti e centrali dei Transcripts sono rappresentati dal fatto che le sequenze sono anche coinvolte con un’altra relazione esterna, che può essere continua e logica, ma può anche saltare da un fotogramma a quello adiacente (e completamente incompatibile), creando una “disgiunzione” interna. Ma c’è anche una relazione verticale esterna tra il movimento spaziale e il livello programmatico: tale relazione può essere continua e logica, ma può anche essere resa improbabile e incompatibile. La stessa logica viene applicata alle caratteristiche formali e simboliche degli spazi architettonici 89


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circostanti, che possono anche rinforzare o talvolta contraddire l’evento. In opposizione alla logica trasformazione che caratterizza la natura degli oggetti, le sequenze dei Transcripts spesso procedono con movimenti soggettivi, tanto che il ruolo di un oggetto è dato arbitrariamente. Le relazioni spaziali e le dimensioni fisiche degli oggetti (che cambiano con il cambiare del punto di vista) sono come colpi di scena dall’alto, che si alternano con quelli dal basso: la realtà è costituita da simboli infinitamente malleabili, emotivi, drammatici o poetici, che possono cambiare e rivelarsi. Dunque per Tschumi il progetto è una macchina per produrre “effetti”, in cui le forme costruite si schierano nella maniera più efficiente, minimale e non retorica possibile. Per l’architetto svizzero la situazione è critica, poiché il passato dell’architettura ha esaurito la sua funzione, mentre il futuro non è ancora all’orizzonte. Il vero impegno è quello di creare significato in un mondo per molti aspetti privo di significato. Domina ormai la nuova nozione di spazio architettonico, inteso come organizzazione di eventi e di movimenti, con cui Tschumi si è confrontato a Londra, nel 1970, studiando il Fun Palace di Cedric. Per lui i semplici elementi costitutivi dell’architettura sono sempre il movimento, lo spazio e le attività sociali o gli eventi che accadono all’interno dello spazio. In questo senso l’architettura produce ancora “conoscenza”, a patto che si sia convinti che l’architettura non si limita mai a comunicare una unica storia o un solo concetto.

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2.2 Architecture and disjunction Nel periodo fra il 1994 e il 1996, l’attività di Tschumi diventa particolarmente intensa. Oltre alla realizzazione di importanti progetti, egli pubblica due testi significativi, Architecture and Disjunction ed Event-Cities, tra di loro diversi eppure per alcuni aspetti in stretta e fattiva relazione. L’uno intende fare il punto sulla riflessione teorica, in quanto impulso generativo della ricerca progettuale; l’altro si rivolge alla prassi progettuale, come verifica dell’impostazione concettuale prescelta. La riflessione sull’idea di “spazio” è l’elemento che tutto raccorda, città, architettura, strutture sociali e altre discipline. L’architetto svizzero, mentre scrive, è consapevole del fatto che una realtà spaziale potrebbe contraddire le sue affermazioni, per cui lo scritto di architettura è soggetto sempre ad essere incompleto e frammentario, a differenza di qualsiasi altro scritto. Il concetto peraltro stabile e inoppugnabile è che “non esiste architettura senza programma, senza azione, senza evento”. Notevole è la sua consapevolezza di tutte le questioni che orbitano attorno alla nuova dimensione di architettura, imposta ora da una società in netta evoluzione, tale da rimettere tutto e sempre in discussione. Nell’introduzione ad Architecture and Disjunction Tschumi dice: Le contraddizioni interne all’architettura erano sempre esistite, erano 91


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parte della sua stessa natura, poiché l’architettura riguarda due termini che si escludono a vicenda, lo spazio e il suo uso, ovvero, da un punto di vista teorico, il concetto di spazio e l’esperienza dello spazio. Se il rapporto tra conformazione urbana e movimenti sociali era caratterizzato da opposizioni intrinseche, analoghe opposizioni potevano riscontrarsi nelle relazioni tra lo spazio architettonico e i suoi molteplici usi possibili. Affermare che non esiste architettura senza evento o programma mi offriva l’opportunità di inserire questioni di programma e di spazio all’interno sia del discorso architettonico sia della sua rappresentazione. I dibattiti in differenti ambiti disciplinari, come l’arte, la critica letteraria o la teoria cinematografica, confermavano le mie intuizioni iniziali e queste discipline potevano quindi diventare degli alleati che mi avrebbero aiutato a dimostrare quel che mi appariva con abbagliante evidenza: l’architettura era per sua definizione e natura “disgiunta, dissociata”. Coloro che ritengono che l’architettura divenga impura se trae argomenti da altre discipline non solo dimenticano le inevitabili interferenze della cultura, dell’economia e della politica, ma sottovalutano anche la capacità dell’architettura di dare una spinta all’operato della cultura contribuendo al dibattito. Come pratica e come teoria l’architettura deve importare ed esportare. 92


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Si deve inoltre aggiungere che troppo spesso gli architetti non riconoscono la relazione esistente tra teoria e operato culturale, ma preferiscono vedere nella teoria un modo per produrre e giustificare una forma architettonica o una pratica. Nel mio caso, gli scritti teorici hanno inteso non solo approfondire alcuni concetti dell’architettura, ma anche trattare la relazione tra l’architettura come pratica culturale e le correlate sfere della politica, della letteratura e delle arti. Non ero in alcun modo interessato a tradurre o trasporre elementi letterari e cinematografici in architettura. Anzi, era vero il contrario. Tuttavia, avevo bisogno di questi alleati per sostenere una questione fondamentale dell’architettura: la ricerca svolta in altri campi sosteneva la mia opinione sul fatto che nella disgiunzione, propria dell’architettura, quest’ultima trova la sua forza e il suo potere sovversivo e che la disgiunzione tra spazio e evento, insieme alla loro inevitabile coesistenza, è tipica della nostra condizione contemporanea. L’architettura poteva quindi non solo importare alcune nozioni da altre discipline, ma anche esportare le proprie scoperte per produrre cultura. Da questo punto di vista l’architettura doveva considerarsi una forma di conoscenza alla stregua della matematica e della filosofia, esplorando ed espandendo i confini del nostro sapere e potendo inoltre diventare 93


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una pratica sociale e politica in quanto l’architettura non può essere scissa dall’uso che se ne fa. Il confronto, intrinseco all’architettura, tra spazio e uso e l’inevitabile disgiunzione dei due termini significa che l’architettura è costantemente instabile e costantemente sull’orlo del cambiamento. Dalle piramidi d’Egitto ai monumenti romani, fino agli odierni centri commerciali, i “fruitori” hanno sempre visto l’architettura come un mezzo attraverso il quale le istituzioni hanno potuto manifestare e consolidare la propria presenza nella società; così facendo la disgiunzione tra i vari termini dell’equazione architettonica (spazio, programma, movimento) è stata soppressa. Escludere dalla definizione di architettura le incertezze implicite nell’uso, nell’azione e nel movimento, ha significato negare all’architettura la capacità di divenire un fattore di cambiamento sociale.35

Dopo aver rimarcato i concetti cardine della dissertazione sull’architettura, Tschumi ribadisce che nella società contemporanea i programmi (contenuti entro l’edificazione stessa degli spazi), sono per definizione instabili. Pochi infatti possono decidere come sarà una scuola o una biblioteca o quanto 35

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Cfr. Bernard Tschumi, Architecture and Disjunction, Cambridge, MITpress, 1996, pp. 18-21


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computerizzate saranno entrambe e pochi sono coloro che potrebbero accordarsi su come sarà un parco nel XXI secolo. I programmi, siano essi culturali o commerciali, hanno cessato ormai di essere definiti poiché cambiano continuamente nel corso della progettazione, della costruzione e dopo il completamento36 di un edificio. Le città e l’architettura dunque sono caratterizzate dall’essere congiunte/disgiunte. Peraltro, i mutamenti sociali e politici, neppure nella nostra società, possono sussistere senza movimenti o programmi, poiché non esiste alcuna architettura senza quotidianità, movimento e azione, e poiché è la dinamicità delle loro disgiunzioni a suggerire una nuova definizione di architettura. Se rimane confermato che l’architettura e i suoi spazi non cambiano la società, è anche vero che grazie all’architettura e alla consapevolezza dei suoi effetti è possibile accelerare processi di cambiamento in atto. Lo scritto Architecture and Disjunction è una raccolta di saggi editi in anni precedenti e riuniti ora con l’intento di formare un’opera organica con un suo preciso disegno progettuale, tenendo l’occhio puntato sulla prassi progettuale come necessaria verifica dell’elaborazione del pensiero. Gli scritti selezionati risalgono agli anni tra il 1975 e il 1991 Tschumi pone come esempio della sua argomentazione il fatto che al Parco della Villette una costruzione fu dapprima progettata come centro per il giardinaggio, poi riorganizzata come ristorante e infine, terminata la struttura al grezzo in cemento, impiegata con successo come luogo per workshop di pittura e scultura per bambini. 36

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e sono suddivisi secondo tre tematiche: spazio, programma, disgiunzione. Nella prima parte, Tschumi cerca di individuare una via che sia in grado di superare le contraddittorietà inerenti alle diverse teorie dello “spazio”, che si sono susseguite nei secoli, spesso in reciproche posizioni conflittuali. Tali opposizioni potranno essere superate a partire dall’introduzione della nuova nozione di “piacere”, che rappresenta per l’architettura un atto di definitivo distacco dalla “funzione” e l’inizio della conquista di diverse possibilità di essere percepita. Nella seconda parte mette in discussione le categorie vitruviane di firmitas, utilitas, venustas, e pone l’evento come elemento fondativo del suo fare progettuale, in quanto, come puntualizza più volte Tschumi, l’architettura è assai più legata all’evento che ha luogo nello spazio che non allo spazio stesso, preso di per sé. Tra spazio ed evento esiste infatti un ricco e complesso rapporto. Nella terza parte sviluppa le precedenti argomentazioni, propone una nuova e più dinamica interpretazione di architettura e introduce il concetto di “disjunction”, che può far ritrovare all’architettura la propria autonomia. Nel suo argomentare è facile rinvenire una base concettuale ampia e a direzione multidisciplinare. Si può affermare dunque che egli è ben attento all’interna dinamica del pensiero epistemologico contemporaneo.

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2.3 Event-Cities In questa opera, Tschumi oltre ad effettuare come sempre una sorta di bilancio critico del proprio operato architettonico, si propone di “esporre per immagini” una sorta di quadro dei propri lavori architettonici, mettendo in luce i princìpi teorici ad essi sottesi. Impiega a tale scopo diverse simbolizzazioni come medium espressivo, ponendo in rapporto dialettico continuo teoria e prassi. Egli stesso precisa che per il Parco della Villette la teoria precede la prassi, mentre per Le Fresnoy la pratica precede la teoria. La ricca sequenza di immagini si rivolge a progetti che vanno dal 1986 al 1993. Il diverso materiale, dai modelli rozzi alle sofisticate immagini dei computer, viene suddiviso in tre capitoli: Praxis, Events, Cities. In Praxis, Tschumi affronta la difficile questione del comunicare l’architettura attraverso le pagine di un libro. Egli intende delineare il senso della complessità del processo architettonico, usando differenti mezzi per registrare gli eventi, che si sono svolti nello spazio architettonico. Egli usa quindi il termine “frammenti” per rimarcare che viene preso in esame un aspetto della complessa molteplicità di un processo. L’architetto parte dall’organizzazione di frammenti iconici, legati tra di loro dall’idea del movimento prodotto dalla mano nell’atto di sfogliare le pagine, movimento che impone alle figure il dinamismo di una sequenza. L’apparato iconico predisposto tende a mettere in rilievo il fatto che il progetto 97


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non considera la valenza formale come base del suo principio generativo e che, di conseguenza, l’immagine ha la funzione di “resoconto”, di una “strategia concettuale”, che mira a stabilire la condizione per nuovi eventi urbani. In Events, gli “eventi” sono considerati il filo conduttore che unisce, in un tutto organico, i progetti presentati nel libro. L’aspetto distintivo della loro identità sta nel modo in cui la loro dimensione programmatica diventa parte dell’architettura. Conta ora lo sviluppo delle azioni37 che si svolgono dentro e intorno agli edifici; conta il movimento dei corpi e delle attività. Ciò sta a significare l’importanza della dimensione sociale e politica dell’architettura. In primo luogo occorre sgombrare la mente dall’idea che ci sia un rapporto causa-effetto tra funzione e forma (come se la funzione decidesse della forma) e considerare invece come assai rilevanti “gli scontri promiscui di programmi e spazi, in cui i termini si mescolano, si combinano e si fondono reciprocamente, andando a creare una nuova realtà architettonica”. Il nesso determinante è ora “city-events, events-city”. In Cities, la città ha una qualità specifica che la identifica e, nello stesso tempo, rappresenta il tema comune ed unificante rispetto all’organizzazione dei progetti. Tschumi propone alcune categorie poste in successione scalare, utili per poter risalire alle relazioni fra gli elementi concorrenti al processo progettuale. Una prima categoria (Planning Strategies) riguarda la progettazione a livello urbano e 37

Lo sviluppo delle azioni, per Tschumi, va ormai a sostituire il rapporto “forma” e “funzione”, ritenuto in passato come uno degli elementi cardine del processo progettuale, ma considerato ora inattuale. 98


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propone come esempio da meditare la realizzazione dei Fireworks, i fuochi d’artificio38, che mettono in risalto la planimetria del Parc de la Villette, disegnata mediante la luce dei fuochi fatti esplodere nel cielo di una notte d’estate. Le immagini di questo progettoevento sostituiscono quelle del Parc de la Villette, poiché è la dimensione dell’evento a realizzare la città. I fuochi d’artificio sono la forma stessa dell’effimero piacere, che il binomio città-evento accoglie in sé. Si segue in un certo senso lo schema dei Transcripts, ma qui il gruppo di immagini si rapporta ad un evento reale, riprodotto nel suo sviluppo, in un tempo reale. La tesi che si vuole implicitamente sostenere è che la dimensione dell’evento contribuisce di per sé a realizzare la città. La spettacolarità e il rapido venir meno dei fuochi d’artificio rende tangibile una forma di piacere effimero. È come dire, sostiene Tschumi, che “la buona architettura deve essere concepita, costruita e bruciata senza uno scopo precostituito”. La più grande architettura è proprio quella dei fuochi di artificio dunque. Una seconda categoria si occupa dell’azione dei generatori urbani o catalizzatori di attività. Si esaminano gli esempi di International Airport di Osaka e Bridge-City di Losanna. L’aeroporto giapponese è il più grande aeroporto del mondo ed è posto su un’isola artificiale nella baia di Osaka. Per Tschumi, questa è un’ottima occasione per riformulare l’idea di aeroporto, 38

Tali fuochi d’artificio vennero realizzati nella notte del 22 giugno, sulla base di un disegno che riproduceva la sovrapposizione di punti, linee e superfici. 99


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trasformandone il carattere monofunzionale di struttura di trasferimento in una nuova forma di “vita internazionale”. Predispone quindi una nuova tipologia di metropoli come una città di “interscambi”, un segmento di città lineare di estensione illimitata. L’aeroporto doveva fungere da nuovo segmento urbano di cultura e svago, di centri commerciali e alberghi. I diversi componenti del progetto (la doppia striscia, l’onda, la stecca e la piastra39 ) presentano fra loro delle “disgiunzioni parallele”, vuoti interstiziali che, dal punto di vista progettuale, per l’autore sono significativi quanto gli stessi corpi lineari, perché rappresentano delle fenditure visive. Il progetto Bridge-City di Losanna (concorso bandito nel 1988) prevede la sistemazione di una zona industriale dismessa, risalente alla fine del XIX secolo. Le richieste del bando di concorso prevedono la realizzazione di una notevole quantità di edifici per uffici, abitazioni e attività commerciali. La terza categoria si occupa tra l’altro del progetto per l’Opera di Tokyo e in questo caso la scala è più ridotta: l’architettura urbana considera la nozione di evento relativo alla strada e alla piazza. Nel progetto per l’Opera di Tokyo, Tschumi punta alla “decostruzione” delle articolazioni spaziali che tradizionalmente tendono a connettere le diverse componenti 39

Nella “doppia striscia” si trovano tutte le funzioni di trasferimento dell’aeroporto (arrivi e partenze); “l’onda” assomma in sé le funzioni di intrattenimento culturale e sportivo (cinema, ambienti per mostre, piscine, campi da golf, sale per tiro a segno); “la stecca” ospita due alberghi da mille stanze; “la piastra” contiene gli spazi per il chek-in, e spazi destinati a uffici, centri commerciali, gallerie d’arte e centri per la cultura.

Bernard Tschumi, Opera di Tokyo.

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dell’organismo teatrale (foyer, scalone, sala, palcoscenico). Michele Costanzo scrive in proposito: La decostruzione delle articolazioni spaziali tradizionali avviene attraverso l’assunzione di uno degli elementi della convenzione simbolico-formale attraverso cui la musica si traduce in scrittura: la sequenza delle strisce del pentagramma che, in questa occasione, viene manipolata “in maniera indipendente, secondo relazioni concettuali, narrative o programmatiche (proprio come il violino può essere reso indipendente dal piano in un concerto)”. Così procedendo, giustappone una serie di fasce che sviluppano una realtà stratificata multipla che crea effetti e possibilità operative nuove per il teatro dell’opera. Ogni striscia contiene: a) la “galleria vetrata”, un ampio spazio – direttamente collegato al parcheggio e alla rete dei trasporti pubblici – lungo il quale la folla scorre velocemente, su cui si affacciano le lunghe balconate corrispondenti agli spazi di sosta dei teatri; b) i foyer, che dominano dall’alto lo spazio della galleria vetrata, a cui si connettono attraverso rampe; c) gli auditorium, opportunamente intervallati da ambienti di servizio e per l’incontro; d) l’arteria centrale, un percorso rettilineo di servizio; e) i palcoscenici, con i relativi spazi per 101


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le attrezzature tecniche; f) le sale di prova e i laboratori per le scene; g) i camerini e gli uffici amministrativi. Le articolazioni spaziali tradizionali dell’organismo teatrale, considerate dal progettista artificiose, in questo caso sono messe da parte, per essere sostituite da un criterio basato su un principio di “contiguità parallela” di strutture lineari che, rese distinte dal programma, reciprocamente interagiscono .40

Dunque Tschumi progetta spazi molteplici e multifunzionali e realizza le “disgiunzioni”, che rimandano allusivamente ai collegamenti tra le parti, frammentate proprio per essere riunite. Nei suoi progetti, inoltre, Tschumi riserva grande attenzione agli aspetti dell’innovazione tecnologica e tende a “progettare le condizioni generali”, senza peraltro dover “condizionare” il progetto. Per l’architetto, questo vuol dire indirizzare i flussi di energia prodotti dal movimento dei corpi, rendendo lo spazio il luogo degli eventi (programmati e non programmati), da cui l’architettura trae forza per il suo continuo rinnovamento. Programma ed evento sono due aspetti distinti, ma anche strettamente collegati tra di loro: il programma risponde ad una molteplicità di bisogni sociali e individuali; l’evento è un insieme di avvenimenti imprevisti, che possono rivelare potenzialità e contraddizioni 40

Cfr. Michele Costanzo, Bernard Tschumi: l’architettura della disgiunzione, Torino, Testo§Immagine, 2002, pp. 51-53. 102


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del programma stesso, predisponendo peraltro correzioni e modalità più appropriate. Si perviene anche così alla piena realizzazione del concetto di in-between o occupazione dello spazio intermedio. Un posto di rilievo occupa la “rilettura” di quanto realizzato da Tschumi a Le Fresnoy. Qui si dissolve l’identità industriale del luogo con nuove realizzazioni e proposte integrative, proprio mentre si delinea la chiara volontà di rivitalizzare a livello economico e culturale di una regione un tempo caratterizzata da attività tessili e miniere di carbone. Le Fresnoy può diventare un insieme di luoghi, disgiunti e riuniti attraverso destinazioni multiple e tra loro integrate. Viene previsto il recupero degli edifici degli anni Venti, riducendo al minimo la realizzazione di nuove volumetrie. L’aspetto rilevante del progetto Le Fresnoy è dato dal fatto che l’insieme delle costruzioni (preesistenti e nuove) è sormontato da un enorme tetto metallico dotato di ampi lucernari: questa struttura nella sua sovrapposizione crea uno spazio sorprendente, del tutto inconsueto rispetto alla tradizione costruttiva. Tschumi chiama questo spazio in-between. L’in-between è dunque un concetto e un’intersezione di diversi campi di indagine: studio e ricerca, arte e sperimentazione, cinema e musica. Le Fresnoy è il primo edificio realizzato da Tschumi sulla base di attente riflessioni sul concetto di “involucro”. È un’opera che deve confrontarsi con un’assoluta eterogeneità di programmi e spazi, in quanto questa nuova struttura per la contaminazione multimediale coinvolge molteplici programmi – musica, studi televisivi e cinematografici, spazi espositivi 103


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e di produzione artistica, caffè, biblioteca, appartamenti e spazi per gli spettacoli – e l’ombrello del grande tetto costituisce una sorta di “denominatore comune” per questa diversità. Il tetto rappresenta un involucro anche per gli edifici già esistenti (volutamente non demoliti) del centro di svago degli anni Venti. La continuità dell’involucro viene peraltro affiancata alla discontinuità degli eventi, con lo scopo di ristabilire conflitti e opposizioni dinamiche. In questi termini l’architettura può ancora essere una forma di conoscenza aperta. La quarta e ultima categoria, Transient Events, va ad affrontare il tema dell’architettura provvisoria della città, in cui viene a configurarsi una particolare lettura dell’evento. La Glass Video Gallery di Groningen è l’esempio di quest’ultima categoria. Qui lo spazio cambia continuamente, secondo l’interazione fra la realtà dell’oggetto, le immagini trasmesse dagli artefatti elettronici e lo stesso ambiente in cui viene inserita. Per l’architettura degli eventi, la natura effimera delle immagini intimamente instabili viene a palesare l’idea di “manifestazioni temporanee”.

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” Le attività devono essere sperimentali e il luogo stesso effimero e mutevole. L’organizzazione dello spazio e degli oggetti che lo occupano deve, da una parte, stimolare la mente e il fisico dei partecipanti, e d’altra parte, permettere il flusso del tempo e dello spazio, al fine di suscitare piaceri sia attivi che passivi”.

Cedric Price

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Uomo eccentrico, provocatorio, irriverente e spiritoso, l’architetto inglese Cedric Price si colloca nel panorama culturale del secondo Novecento con piena autorevolezza, per la capacità di promuovere, con il suo originale orientamento di pensiero, quella sorprendente “rilettura critica” della disciplina architettonica, le cui conseguenze sono tuttora in atto. Con le sue nette idee va oltre la figura di architetto e l’idea di architettura, considerate nel senso tradizionale dei termini. Va inoltre rimarcato il fatto che riesce ad unire, in modo proficuo, pensiero originale e grandi abilità tecniche. La reputazione di Price è basata in particolare sul “radicalismo” delle sue idee. Citiamo come esempio un’affermazione limite, rivelatrice del suo radicalismo più estremo: “il “buon costruire” equivale in definitiva al “non costruire”. È un’idea che ripete spesso ed è questa la sostanza della sua poetica, che muove da una sentita necessità di ripensare totalmente l’architettura e di riformulare la sua proiezione verso il futuro, in base ad una nuova ermeneutica della disciplina e delle coordinate sociali in cui si colloca. Egli fu di conseguenza capace di immaginare architetture smontabili e temporanee, quando nel panorama architettonico, europeo e mondiale, gli architetti si mostravano ancora fortemente legati al Movimento Moderno. Allo stesso modo precorse le esigenze di quella che ora definiamo “architettura sostenibile”, nonché dell’architettura pneumatica. Rem Koolhaas, riflettendo sul ruolo storico dell’architetto inglese, ha avuto modo di dichiarare che “nessuno ha cambiato l’architettura di più e con meno mezzi di Cedric

Cedric Price, 1934-2003.

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Price”. In realtà bisogna infatti ricordare che egli non riuscì a costruire opere numerose, poiché il più delle volte si spinse in proposte troppo utopiche, radicali ed ambiziose, perché potessero essere realizzate. L’architetto inglese, quasi allineato con lo stile di Oscar Wilde41 , negli anni ’60 usa epigrammi lapidari e disegni scheletrici, per avvalorare e divulgare una propria basilare convinzione: è necessario modificare il terreno stesso su cui sorge l’architettura, una professione, nella sua essenza, ancora troppo “megalomane” e quindi non corrispondente alle nuove esigenze. Price attua una profonda rivoluzione dell’architettura, dal momento che la sua pars destruens invoca già da sola la pars construens. Muove pertanto da queste premesse un percorso assai interessante per la disciplina architettonica. Tutto ciò che Price, con lo humour devastante, distrugge l’architettura è chiamata a ricreare e a ricostruire ex novo. In realtà, Price voleva ridimensionare l’architettura fino al punto di renderla indistinguibile dall’ordinario. Con ironia, sarcasmo e pragmatismo intransigente, Price fa strage 41

Oscar Wilde (1854-1900) negli Aforismi riesce a individuare e definire in brevi ed icastiche immagini la realtà del vivere. Ne ricordiamo solo alcuni: Ognuno di noi passa la vita ricercandone il segreto. Ebbene, il segreto della vita è l’arte; Le azioni sono la prima tragedia della vita, le parole la seconda. E queste sono forse la tragedia più terribile: sono spietate; L’uomo è tanto meno sé stesso quanto più parla in persona propria. Dategli una maschera e vi dirà la verità; In questo mondo ci sono solo due tragedie. Una è il non avere ciò che uno desidera, e l’altra è ottenerlo. Quest’ultima è la peggiore, quest’ultima è la vera tragedia. 110


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dell’impalcatura di illusioni che l’architettura ancora nutriva, negli anni ’50 e ’60. Price è un “distruttore” che peraltro capisce che bisogna ricostruire .42 Le sue poche realizzazioni architettoniche (si è già detto che i suoi progetti non risultavano facili da attuare), calate nel quotidiano, sono insieme affascinanti e inquietanti. In via propedeutica, è possibile instituire un interessante collegamento tra l’architetto svizzero Bernard Tschumi e l’architetto inglese Cedric Price, in quanto Price potrebbe essere una non irrilevante premessa storica degli orientamenti di pensiero e di progettualità di Tschumi, soprattutto per quel che concerne la nuova idea di spazio 43. Come dichiara lo stesso Tschumi a Marco De Michelis (in un’intervista), quando egli arriva a Londra, nel 1970, il Fun Palace di Cedric Price rappresenta già una nuova rilevante nozione di spazio architettonico, inteso come “organizzazione di spazi e di eventi”. Emerge e si fa velocemente strada ormai un’idea, secondo cui lo spazio diventa una parte dell’esistenza, quando un corpo umano viene a muoversi in esso. Così concepito, lo spazio può determinare quindi molteplici interpretazioni, in base a ciò che di volta in volta avviene al suo interno. Cedric Price – o CP, come fu comunemente nominato – nasce a Stone nello Staffordshire 42

La ricostruzione dell’architettura muove da Archigram, Rogers, Forster, un tempo tutti devoti all’assenza di forma di Cedric, riescono a produrre forme nuove. 43

Tschumi stesso avrà modo di dire che in quel suo periodo londinese cercava di superare l’idea di architettura come forma ed era alla ricerca di altri elementi costitutivi come spazio, movimento e uso. 111


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nel 1934 da padre architetto, AJ Price. Cresce quindi nella periferia industriale della città, nella zona delle “potteries, fabbriche di ceramica. Il colore prevalente del paesaggio intorno a lui è il nero dei fumi delle ciminiere allora in piena funzione. Consegue una laurea in architettura nell’Università di Cambridge, nel 1955; in seguito ottiene un diploma dall’Architectural Association School of Architecture a Londra , nel 1957. Nel 1960 viene invitato in America. Affronta il viaggio in mare con una scolaresca olandese, alla quale deve tenere delle lezioni. Durante il viaggio, per divertimento, scambia l’identità con un altro signore, l’avvocato Buck, e i due tengono lezioni incrociate. Lavora prima per il cinema e poi in un’industria navale (ama moltissimo l’elemento acquatico). Dopo aver insegnato alla AA e lavorato per gli architetti Marxwell Fry and Denys Lasdun, inizia a praticare la professione nel 1960 con l’Aviary per lo Zoo di Londra, disegnando una “voliera” nel 1961 con Lord Snowdon e Frank Newby. Impiegando le più avanzate tecnologie del loro tempo, si impegnano ad usare colate di alluminio, acciaio inossidabile, maglie saldate e cavi in tensione, per creare “una struttura a peso leggero”, che potesse dare maggior spazio di volo per gli uccelli. La ricerca ermeneutica che attraversa tutta la sua esperienza teorica e pratica è vincolata al tema del “tempo”, un tema che interessa sempre di più le industrie, e non solo. Price è in grado di fare molto di più di un architetto, inteso nel senso comune del termine: nel corso della sua attività, mette quindi a punto una interessante idea di movimento e controllo a scale molto diverse. 112


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3.1 Fun Palace Il suo più importante progetto (pur se non realizzato) del 1960-1961, il Fun Palace, ha fatto sì che fosse giudicato uno dei più “innovativi e provocatori” architetti dell’Inghilterra. Iniziato con Joan Littlewood, direttore del teatro e fondatore dell’innovativo workshop teatrale a Londra, l’idea era di costruire un “laboratorio del divertimento” con attrezzature per la danza, musica, recite e fuochi di artificio. Parlandone, lo stesso Price ne rinviene la genesi ideale, nel vivo della dettagliata progettazione del progetto. Durante un brain-storming d’ispirazione alcolica a Times Square nel 1962, riferisce ancora Price, viene deciso il nome Fun Palace per questo conglomerato, di breve durata, composto da attività volontarie disparate, a libera scelta, a tempo libero, “progettato come un trampolino di lancio pubblico, piuttosto che come una Mecca per East London”. È concepito per la durata di dieci anni. La durata di dieci anni aveva un’incidenza sui costi in ogni caso. Di centrale importanza per la pratica architettonica di Price, in merito alla progettazione del Fun Palace, fu la convinzione che, usando in maniera giusta le nuove tecnologie, il pubblico avrebbe potuto avere un controllo senza precedenti sul suo ambiente, in virtù dell’edificio predisposto per le necessità dei visitatori e per le diverse attività programmate all’interno. 113


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Cedric Price, Fun Palace.

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Come suggerito dal materiale pubblicitario, c’era una grande possibilità di scelta delle attività: “scegli cosa vuoi fare, o guarda qualcun altro farlo. Impara come maneggiare strumenti, pitture, macchinari o semplicemente ascolta la tua musica preferita. Balla, parla o fatti sollevare dove puoi vedere come le altre persone fanno funzionare le cose. Siediti sopra lo spazio con un drink e sintonizzati su cosa sta accadendo da qualche altra parte nella città. Prova a dare inizio a una rivolta o mettiti a dipingere, o semplicemente sdraiati e fissa il cielo.” Usando una struttura non confinata in acciaio, totalmente servita da gru in movimento, l’edificio comprendeva un “kit di parti”: muri prefabbricati, piattaforme, pavimenti, scale e moduli di soffitto che potevano essere spostati e assemblati dalle gru. Virtualmente ogni parte della struttura era variabile. Price stesso osservava che la sua forma e struttura era simile a un “grande cantiere”, in cui recinti come teatri, cinema, ristoranti, laboratori e aree di raduno, possono essere assemblati, spostati e rottamati continuamente. Benché non sia mai stato costruito, il Fun Palace è stato uno dei suoi progetti più influenti e ha ispirato il progetto del 1970 di Renzo Piano e Richard Rogers, il Centre Georges Pompidou di Parigi. Il Fun Palace è dunque il più celebre lavoro progettuale di Cedric Price. È caratterizzato sia come un giocattolo gigante o come una macchina trasformabile dalle dimensioni di un edificio. L’interesse del progetto risiede nella sua dipendenza radicale dalla struttura e dalla tecnologia. Può essere considerato una ottima esemplificazione delle nozioni di 116


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“architettura preventiva”, basata sul tempo. Con il Fun Palace, Price affronta le questioni sociali e politiche, che vanno ben oltre i limiti tipici dell’architettura. Il Fun Palace è stato concepito e commissionato – come già detto – nel 1961 dal regista teatrale di fama e produttore Joan Littlewood. Price sviluppò delle piante per il progetto nel 1964, sia per il progetto principale che per un altro più piccolo, un progetto pilota mobile. Nessuno dei due è mai stato realizzato. I tentativi di ottenere il permesso di pianificazione per una vasta gamma di siti all’interno e vicino Londra continuò nel 1970, tra opposizione da parte della Chiesa, di gruppi di cittadini e di consigli comunali confusi. Da un lato, il Fun Palace si ispira alla filosofia egualitaria del XVIII secolo inglese per il trattamento del suolo, come i progetti Vauxhall e Ranelagh, con i loro spazi tentacolari per passeggiate, divertimento e pettegolezzi. D’altra parte, il progetto non realizzato di Price era up-to-the-minute, interpretando attuali teorie cibernetiche, i principi teatrali d’avanguardia, tecnologia all’avanguardia e un free-spirited, Monty Pythonesque senso di divertimento. L’obiettivo finale era un edificio in grado di cambiare, nell’intento di fornire risposte ai desideri degli utenti. Il progetto ha coinvolto anche un comitato di cibernetica, guidato da Gordon Pask (1928-1996). Pask era una delle figure più importanti nello studio e nello sviluppo di Cibernetica, che si occupava di informazione, feedback, identità e scopo; ha esaminato questioni come l’organismo umano apprende dal suo ambiente e si riferisce agli altri 117


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attraverso il linguaggio. Se, come Price credeva, “La tecnologia è la risposta, ma qual era la domanda?”, allora l’architetto deve intraprendere ricerche approfondite per capire veramente e adeguatamente rispondere alle esigenze di un progetto. Nel caso del Fun Palace (dove sarebbero stati gli utenti a determinare tali requisiti), Price intervistò amici e colleghi su quali attività avrebbero voluto e cercò anche di anticipare i possibili utilizzi dell’edificio. Analizzando i documenti per il Fun Palace, si possono trovare decine di tabelle analitiche in cui Price studia tutto, dal rapporto di attività simili agli spazi di cui hanno bisogno, ad una complessa analisi del proprio processo decisionale e del processo di design come affetto da conseguenze esterne. In un unico grafico dal titolo “Analisi comparativa dei posti a sedere”, Price studiò tutte le possibili variazioni di configurazioni teatrali basate su variabili quali la capacità (un pubblico di 10 a 1.000), grado di inclinazione del teatro (6 ° a 35 °), distanza del palco dalla parte anteriore e posteriore delle file, il numero massimo di posti per fila, larghezza e profondità delle sedute, e l’altezza della parte anteriore di una seduta dal palco. L’unico elemento fisso all’interno del Fun Palace doveva essere la griglia strutturale di colonne a traliccio in acciaio e travi. Tutti gli altri elementi programmatici - teatri appesi, spazi di attività, schermi cinematografici e altoparlanti - dovevano essere mobili o composti di unità modulari prefabbricate che possono essere rapidamente assemblate e smontate come necessario. Le colonne, o torri di servizio, oltre ad ancorare il progetto, 118


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contenevano anche scale di servizio e di emergenza, ascensori, impianti idraulici e di connessioni elettriche. In concomitanza con il progetto principale del Fun Palace, Cedric Price ha sviluppato un sistema più piccolo o progetto pilota che potrebbe essere montato in modo più rapido e smontato e ri-eretto su un nuovo sito, come richiesto. Un sito in particolare, il quartiere londinese di Camden Town, è stato indagato attraverso una serie di disegni. Price finalmente riesce a mettere in pratica le proprie idee, in scala ridotta, nel 1971 all’Inter-Action Centre, nella zona a nord di Londra di Kentish Town. L’edificio costituisce un quadro aperto, in cui elementi modulari e prefabbricati possono essere inseriti e rimossi, come richiesto a seconda delle necessità. E’ centrale per la sua tesi il fatto che un edificio debba durare solo finche è utile; il centro è stato progettato con una durata di 20 anni, accompagnato da un manuale dettagliato sul suo successivo smantellamento. Per Price, il tempo è la quarta dimensione spaziale 44: lunghezza, larghezza e altezza sono le altre tre.

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Già il poeta Guillame Apollinaire osservava che alla “quarta dimensione” si deve dare non soltanto un significato volumetrico-spaziale, ma anche temporale: la visione totale dell’oggetto non si limita a darci i vari aspetti del suo volume entro lo spazio, ma , poiché è frutto della nostra conoscenza attraverso la memoria, ma anche quello della “durata”, ossia del permanere di esso in sintesi nella coscienza. Ricordiamo che di quarta dimensione si occupa già il Cubismo (1909) e che di tempo come “durata” parla il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), che vede la memoria come dimensione propria della coscienza. 119


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3.2 Potteries Think Belt Nel 1964 Price criticò il sistema universitario tradizionale nel suo progetto Potteries Think Belt. Ripensando radicalmente il concetto base dell’Università, la sua proposta ha fornito una risorsa di “apprendimento mobile” per 20.000 studenti, che utilizzano l’infrastruttura di una zona industriale in declino. Il tutto è collocato vicino ad un nodo ferroviario ora poco utilizzato. In risposta ai numerosi “campus universitari”, in costruzione nel corso del 1960, la proposta di Price trasformò le ceramiche Staffordshire (ora abbandonate) in una sorta di “regno di istruzione superiore”, soprattutto su binari, creando una comunità diffusa di apprendimento, ma anche un luogo di promozione per la crescita economica. Erano previste sale nelle carrozze dei treni, aule gonfiabili e un programma finalizzato all’apprendimento democratico diffuso. La sua proposta prendeva vita da larga disoccupazione locale, da un programma stagnante di housing, da una rete ferroviaria ridondante, da vaste aree inutilizzate, da terreno instabile (vecchi pozzi di carbone e di argilla), da una richiesta nazionale di scienziati e ingegneri. Ha dunque offerto una soluzione alla necessità di strutture scolastiche, proponendo allo stesso tempo di fare qualcosa per il collasso economico e sociale dei Potteries (fabbriche 120


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di ceramiche in declino). La su convinzione basilare è che “una ulteriore educazione e rieducazione” debbano essere viste come una grande impresa industriale e non come un servizio gestito da gentiluomini e quindi riservato solo a pochi. Va ricordato in ogni caso che Price è stato il primo a riconoscere che l’architettura risultava ormai troppo lenta nel risolvere i problemi immediati e pressanti, a ritmo continuo; per questo motivo si oppone allo sviluppo di edifici permanenti, limitati a una particolare funzione. Occorre altro per affrontare le problematiche della società post-industriale. Ha pertanto sottolineato che gli edifici devono essere costruiti per la piena “adattabilità” al loro “possibile uso futuro”, un futuro sempre più incalzante e imprevedibile. Le Potteries Thinkbelt (vecchie fabbriche di ceramiche riconvertite in un sistema di università mobile) enfatizzano dunque “la preferenza per lo smantellamento dell’architettura e la scomparsa di questa entro sistemi non convenzionali”. Prima della seconda guerra mondiale, North Staffordshire Potteries era stato il centro dell’industria ceramica inglese per più di 250 anni ed era noto per i suoi sviluppi tecnologici all’avanguardia. Ma dopo la guerra, a causa di uno spostamento internazionale della produzione industriale e tecnologica e scientifica, le Potteries (industrie di ceramiche) non erano più capaci di adeguarsi al nuovo mercato. Cedric Price, cresciuto nel quartiere delle Potteries, voleva che le Potteries non solo recuperassero, ma anche ritrovassero il loro stato precedente, nella nuova forma di un’innovativa comunità progressista, promuovendole dunque come centro scientifico e 121


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Cedric Price, Plottiries Think Belt.

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di innovazione. La struttura del PTB era non convenzionale e radicale e non era conforme a quello che era considerato architettura al tempo; pertanto era nelle condizioni di non poter essere accettata e sostenuta dal Ministero dell’Educazione. Non era un unico “edificio”, ma una rete di aule e laboratori mobili collocati sulle linee ferroviarie esistenti per spostarsi con facilità da un posto all’altro, da contenitore modulare a un’unità amministrative, a una biblioteca, a una fabbrica in loco e a un centro per computer. Questo movimento era reso possibile da molte variazioni all’interno del sistema, le quali consentivano alle configurazioni attuali e future di essere disposte e rimontate, quando mutavano le esigenze. Ci dovevano essere tre punti principali di trasferimento, che formavano un triangolo da Pitts Hill a Madeley a Meir, diffondendosi su 100 chilometri quadrati, comprendendo le città interne come parte dell’istituzione. Sfruttando la compartimentazione dei vagoni ferroviari, aule e laboratori potevano essere collegati per formare unità più grandi; poi con le lezioni più numerose estendono il tutto su tre binari paralleli, uniti da pareti gonfiabili e forniti di scrivanie portatili.

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3.3 Le due voliere e il grande ombrello Come già detto, Cedric era un eccentrico. Immaginava e ideava opere “smontabili e temporanee”, quando ancora l’architettura non si chiamava pop-up (che si solleva a scatto). Partendo dall’idea che il “buon costruire” coincida con il “non costruire”, pensava l’architettura come impermanente, temporanea e flessibile al cambiamento, in sintonia con le esigenze variabili del benessere sociale. Lo Snowdon Aviary, progettato nel 1964 per lo zoo di Londra (con Lord Snowdon e frank Newby), è una sorta di velo di metallo, appoggiato su tralicci di tubi innocenti. Una gabbia-tensostruttura leggera che nega il senso stesso della “prigionia”: invita a entrare e a stare. Una serie di bracci in acciaio inclinati sostengono un cavo, al quale sembra essere letteralmente appesa la rete metallica in alluminio. L’altezza è misurata sugli alberi che la tela deve coprire. Il resto è opera della tecnologia più avanzata dell’epoca: alluminio, acciaio cromato, rete a maglia e saldature. La rete è agganciata a cavi tesi, assicurati al suolo da un sistema ripetuto di tetraedri (a 4 facce) in tubolari compressi. Due coppie di colonne d’acciaio a forma di V giganti sostengono il tutto e tengono i cavi in tensione. Per le strutture Cedric Price si rivolse al collega Newby che non era certo nuovo ai prodigi tensostrutturali pensati ad hoc per opere originali. Newby aveva lavorato con Saarinen per l’Ambasciata Americana e con Samuely allo Skylon della Royal Festival Hall. Per la Great Britain era un momento di grande ottimismo e creatività e lo Snowdon Aviary al

Cedric Price, Voliera dello zoo di Londra.

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bordo del Regent’s Canal sembra un veliero che traghetta fiducia nel futuro spinto solo dalla leggerezza dell’aria. È possibile camminare fino al centro: il ponte è estremamente flessibile e ciò piace a Cedric. C’era poi una voliera mobile temporanea non realizzata (Voliera Sperimentale C. P. Università di Londra, 1981). Qui si teneva conto dell’esperienza maturata con la Voliera dello Zoo di Londra. Il problema era che non si potevano tirare fuori tutti gli uccelli, quando occorreva ripararla. Inoltre, gli uccelli (in particolare le anatre e i trampolieri) tendevano a distruggere il paesaggio (defecavano dappertutto). Quest’altra voliera invece apparteneva ad un signore che allevava uccelli rari e che non voleva che si ammalassero. Possedeva una grande quantità di terreno, sul quale la voliera si spostava molto lentamente, senza spaventare gli uccelli. Era quindi una voliera mobile. Gli uccelli distruggevano un’altra porzione di terreno, mentre si provvedeva a ripristinare quella già utilizzata. Il progetto ad Amburgo ha in comune con gli altri il fatto che non è fisso: può essere spostato e ricollocato altrove. Era stato invitato dalla città di Amburgo a fare delle proposte su un’area al centro della città. Aveva osservato che gli uccelli che migravano facevano sosta ad Amburgo, quindi crea una sorta di “salotto” pere uccelli. Dal momento che Amburgo è una città di ponti, gli viene l’idea di usare i ponti per connettere questi piccoli territori con altri. Ha quindi creato il suo network personale di ponti. 126


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3.4 L’idea di tempo in relazione alla nuova architettura Il fattore del tempo e del carattere mutevole e indeterminato dell’architettura, elementi che sono alla base dell’architettura pneumatica, sono considerati in modo attento e veramente originale da Cedric Price. Del tempo si sono sempre occupati in primo luogo i filosofi e i poeti, oltre che gli artisti e gli scienziati, ma va ricordato che l’architettura dialoga con questi saperi e si colloca entro il quadro della cultura, con una caratteristica propria di multidisciplinarità e di forma di conoscenza della realtà, aperta ad ogni campo dello scibile. La scoperta del tempo come “quarta dimensione” – dopo altezza, larghezza, profondità – muove in forma esplicita dal Cubismo (1909), ma la riflessione sul tempo è molto antica e articolata; basterebbe citare solo Sant’Agostino (354-430) che parla di tempo come “dimensione dell’anima” 45, per giungere ai nostri tempi con Henri Bergson (1859-1941), che interpreta il tempo come “durata”, cioè come un processo fluido e costante. Nel 1913 il poeta francese Guillaume Apollinaire osserva che la quarta dimensione del tempo si presenta alla mente come generata dalle tre misure già conosciute (altezza, lunghezza, profondità) e rappresenta “l’immensità dello spazio che, in un momento 45

Per Sant’Agostino il tempo si misura soltanto entro il nostro spirito, dove il tempo si viene a profilare come l’istante attuale e puntuale dell’anima nostra: : nel presente della nostra coscienza, il tempo riunisce e salda in un unicum il passato, il presente e il futuro. 127


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determinato, si slancia verso l’infinito”. Si può invero parlare ancora oggi di tempo inteso come “durata”, come vuole Bergson, poiché ogni oggetto nel permanere nello spazio in sostanza permane entro la coscienza. Il problema del tempo si riversa in pieno sulla vita delle città moderne e sulla struttura stessa della città, soggetta oggi ad un divenire vorticoso, affannoso e inesausto. È così e poco si può fare. Di ciò ha piena coscienza Price che identifica la città46 con il “divenire” fino ad asserire, sempre in modo estremo e radicale, che “una città che non cambia e non si rinnova è una città morta”. Con una frase ad effetto Price afferma poi che “l’architettura è troppo lenta a risolvere i problemi”, per cui è compito specifico dell’architettura oggi “creare nuovi tipi di fame”, cioè nuove forme di interessi e di bisogni. In questo ordine di idee vediamo di nuovo posta in primo piano l’importanza del “fattore temporale” nell’opera di Price, come poi lo vedremo nell’architettura pneumatica. Il fatto è che i ritmi della città vanno troppo veloci per poter pensare di poter risolvere 46

Ricordiamo anche che Price vorrebbe rinnovare la terminologia usuale, tanto da arrivare a sostituire il temine “città” con il termine “concentrato”, che comprende abitanti e visitatori della città, in un insieme fluido e in perenne cambiamento e divenire. D’altra parte, per l’architetto inglese, l’insediamento permanente è “la città dei morti”. Dunque il termine “concentrato” è il termine più adatto ad indicare la città del XXI secolo, in una situazione generale in cui il divenire può essere valutato come un prezioso agente di cambiamento per i cittadini. “Il concentrato come fonte di informazioni e santuario del futuro consentirebbe alla protesta amichevole e al progresso alternativo di incoraggiare la ricchezza della trama urbana. 128


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i suoi problemi, mediante la costruzione di edifici. Il nuovo compito dell’architettura è dunque quello di creare nuovi appetiti e stimolare e rendere partecipe l’uomo, affinché sia il principale “attore del cambiamento” e della trasformazione della realtà. Parlando del fattore tempo e del carattere mutevole e indeterminato dell’architettura – elementi che stanno invero alla base della concezione di installazione pneumatica – si può ricorrere ad un esempio esplicativo alquanto complesso, ragionando sul fatto che tutto dovrebbe muovere dall’idea che il tempo è la prima dimensione dello spazio. Il tempo non può essere affatto considerato una quarta dimensione dello spazio (“perché tutto si muove, tutto è relativo” come viene spesso affermato nelle basi delle teorie fisiche della relatività), ma è proprio il tempo che deve essere considerato il principale modo di descrivere uno spazio. L’esempio è il seguente. Poniamoci in una situazione limite, quella di uno spazio a una sola dimensione. Immaginiamo così di vivere costretti lungo un binario, immersi in una situazione esclusivamente lineare, senza averne mai sperimentate e neanche immaginate altre. Facciamo a noi stessi una domanda chiave: qual è il modo di conoscere, di descrivere, di rappresentare questo mondo solo lineare? Evidentemente la vista non ci è di aiuto perché tutto apparirà schiacciato su un unico punto. La risposta deve risiedere in un altro ordine di esperienze: il modo di conoscere questo spazio lineare può avvenire solo “percorrendolo”. Posso infatti calcolare il tempo da un punto ad un altro del binario ed è proprio questo “intervallo”ciò che mi permette 129


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di descrivere questa condizione spaziale! Il tempo diventa così la prima dimensione conoscitiva e descrittiva dello spazio e la linea diviene la minima entità spaziale. Per tutte queste riflessioni, è bene che dinanzi all’architettura ci si ponga una domanda: “Per quanto tempo servirà questa cosa?” nel nostro caso, il poco tempo a disposizione può facilmente diventare un elemento sempre più importante nel processo progettuale consapevole: non solo per realizzare uno strumento particolare, ma anche per decidere se vi sia o meno il tempo di preoccuparsi di progettare quel dato strumento. La conclusione naturale di tale ordine di riflessioni è che la mobilità e la temporaneità esprimono relazioni fisiche e immateriali, che agiscono sul progetto urbano. Il carattere casuale, intercambiabile e la preminenza del vuoto rispetto al pieno, inducono il progetto architettonico e urbano ad assumere il “principio di indeterminazione” come filosofia di base. In una città sempre più veloce, che prescinde ormai dalla densità e dalla funzione, si colloca a pieno suo agio l’esigenza di nuove spazialità disponibili all’uso multiscalare. La “mobilità” dell’architettura esprime dunque relazioni fisiche e materiali; ma anche immateriali, non visibili, che determinano i comportamenti umani Cedric Price (1934-2003) è stato uno degli architetti più visionari del tardo XX secolo. Anche se ha costruito molto poco, il suo approccio laterale all’architettura e agli interventi urbani, basati sul tempo, ha assicurato l’influenza duratura del suo lavoro su architetti contemporanei e artisti, da Richard Rogers e Rem Koolhaas, a Rachel Whiterad. 130


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Muovendo da un preciso punto di vista, cioè che l’architettura doveva essere autorevole, liberatoria e miglioratrice della condizione umana, l’approccio di Cedric Price riuscì ad essere onnicomprensivo. Partendo da progetti come il Fun Palace del 1960-1961, fino al design delle luci degli alberi di Natale sulla Oxford Street di Londra, i suoi progetti erano governati dall’idea che l’architettura dovesse “enable people to think the unthinkable” (rendere capaci le persone di pensare all’impensabile). Attraverso progetti, disegni e lezioni, Cedric Price rovesciò la nozione di architettura, proponendo idee radicali su ciò che essa potesse essere. Identificò il ruolo dell’architetto con quello di chi deve porre le giuste domande, come Reyner Banham commentò: “l’approccio base è ciò che realmente mi attrae, un modo di non dire ‘che tipo di edifici vuoi’ ma prima di tutto domandare ‘hai veramente bisogno di un edificio?’”. Questo approccio flessibile fu esteso a tutti gli aspetti del suo lavoro. Trovare soluzioni ingegnose ed eleganti per i problemi di tutti i giorni prese il nome di “architettura anticipatoria”, dal momento che si credeva fermamente in un’architettura “impermanente”, progettata cioè in vista del cambiamento continuo. Price ridefinì perciò il ruolo dell’architetto, identificandolo in una sorta di “agente del cambiamento”, il cui compito principale era quello di anticipare e offrire nuove possibilità destinate all’intera società. Impegnandosi costantemente e mettendo in discussione i costumi già accettati dell’architettura, il suo approccio era spiritoso e irriverente. 131


3_Cedric Price_la questione temporale

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Cedric Price, Voliera dello zoo di Londra.

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4_ Architettura pneumatica

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4_ARCHITETTURA PNEUMATICA

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4_ Architettura pneumatica

“Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, della pratica, dell’effimero, del veloce […] i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le cose dureranno meno di noi, ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” Il manifesto dell’architettura futurista, Antonio Sant’Elia, 1914

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La tecnologia pneumatica, applicata in modo più consistente al tema dell’involucro, ha sicuramente una vastità di condizioni propedeutiche e di applicazioni possibili, tali da renderla una disciplina assai importante all’interno della scienza architettonica. Si può pertanto parlare di “architettura pneumatica”, in modo indipendente, riconoscendole autonomia e piena consistenza epistemologica. La sua cifra più indicativa è il suo saper “dialogare” e “interagire” intensamente e fattivamente con lo sviluppo tecnologico assai sorprendente degli ultimi decenni, e non solo: dal dialogo nascono infatti interpretazioni e creazioni originali e affascinanti, capaci di dar vita ad un “evento”, al livello dello spazio percettivo interiore del fruitore. Tutta l’assidua sperimentazione del secolo XX, a partire dalla prima avanguardia cubista nel 1908 (Picasso e Braque), fa da premessa all’architettura pneumatica, che trova il suo lontano e forse primo antenato nella “tenda” dei nomadi, a qualsiasi popolo o razza siano essi appartenuti. Da sempre quindi l’architettura si profila come una “forza produttrice” che trasforma, attraverso l’azione pratica, la stessa natura (o materia), “innovando” spazi, luoghi e tempi dell’abitare. Tanti sono i problemi del nostro mondo, ma quello che sembra essere più impellente è quello ecologico, cioè la salvaguardia dell’ambiente. Nei nostri tempi caratterizzati da sviluppo tecnologico altissimo, è indispensabile riuscire a “organizzare” la natura, senza “ingombrarla” di pesi inutili, senza aggravare perciò l’inquinamento. 137


4_ Architettura pneumatica

Afferma in proposito Eduardo Vittoria: “La città è una macchina inventata dall’uomo (non si trova in natura) e per farla funzionare, a tutti i livelli, sia funzionali che estetici, occorre riscoprire il legame magico dell’architettura con la natura, vincendo il peso e l’inerzia che si unisce al senso comune dell’edificare”. La natura deve essere recuperata e salvaguardata, da più parti si ripete oggi, con costruzioni a “impatto zero”. Eduardo Vittoria dice ancora che il vero risvolto risolutivo sarebbe il poter costruire in leggerezza, rinnovando il prodigio magico di formazioni come il guscio della conchiglia o come le foglie degli alberi. Per dare ora gli elementi primi del “linguaggio” dell’architettura pneumatica, è opportuno riconsiderare alcuni termini, ponendoli in rapporti a ciò che è dato in natura: membrana (ci si può riferire per un primo esempio alla membrana più leggera data in natura: le bolle di sapone); involucro (pensiamo all’involucro come alla membrana sottilissima che racchiude l’uovo); reticolo (in natura abbiamo la tela tessuta dal ragno). Ricordiamo anche che la membrana naturale per l’uomo primitivo era la pelle degli animali, che egli impiegava per i più vari usi. Si è già detto che “architettura pneumatica” è in sostanza un ossimoro, con cui vengono messe insieme cose contraddittorie e quasi inconciliabili, pur se questa insolita sintesi corrisponde ad una esigenza dell’uomo, in lui ben radicata, come osserva Eduardo Vittoria: 138


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In una favola delle Mille e una notte la fata Pari Banu, con un colpo della sua bacchetta magica, realizza il sogno del Sultano delle Indie che ardentemente desiderava una tenda tanto grande da ospitare l’intera corte, l’esercito e l’accampamento, ma così leggera da essere portata nel palmo di una mano. Nel desiderio del sultano mi pare si possa leggere un’antica aspirazione dell’uomo: avere allo stesso tempo cose contraddittorie e a volte inconciliabili, come spazi da abitare che siano confortevoli, soddisfacenti e durevoli, ma contemporaneamente adattabili alle proprie mutevoli esigenze. Dimore, cioè, che siano flessibili, modificabili e magari anche trasportabili, ossia idonee a recepire in modo facile e agevole i cambiamenti dei comportamenti umani, i quali, sia pure con velocità diverse nel tempo e nello spazio, continuamente mutano e si trasformano. Per ottenere tutte insieme queste qualità sarebbe certo di grande aiuto la bacchetta magica della fata Pari Banu, perché flessibilità e modificabilità sono spesso impedite dalla rigidità e dalla durezza della costruzione, caratteristiche dovute essenzialmente al peso e alle masse dei suoi materiali costitutivi che però, d’altra parte, danno garanzia di durata nel tempo. Modificare le preesistenti condizioni ambientali in funzione dei propri bisogni è,

Leggerezza.

comunque, ciò che l’uomo ha sempre fatto mediante l’atto del costruire,

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4_ Architettura pneumatica

ossia concretizzando un assetto spaziale desiderato e immaginato. Ma costruire significa anche comunicare il modo in cui individui e comunità si relazionano con la realtà che li circonda, con la natura, le risorse e gli altri uomini, esprimendo i processi di percezione dell’esperienza e i valori cui si riferisce la propria esistenza. Differenti sistemi culturali modellano il comportamento umano in modi fondamentalmente diversi che sono individuabili nel paesaggio costruito. Il costruire, quindi, è un’attività dotata di un suo preciso linguaggio e rappresenta pertanto un sistema di comunicazione elaborato all’interno di un gruppo, di una comunità o di una società. L’uomo, infatti, nel modificare l’ambiente naturale ai fini delle proprie esigenze, agisce in funzione dei valori che, alle varie scale, la società nel suo insieme privilegia ed esalta. Valori che si riflettono tanto negli ordinamenti sociali quanto, appunto, nelle decisioni relative all’organizzazione dello spazio costruito .47

Sia il peso sia la leggerezza recano, dunque, importanti significati simbolici e decise allusioni a valori perseguiti dalla società e dalla cultura, che li sceglie ed adotta. Il peso può essere tanto un “fardello” quanto un qualcosa di durevole, allo stesso modo la 47

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Cfr. Eduardo Vittoria, Il peso e la leggerezza, p. 40.


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leggerezza è poco durevole, ma risulta anche priva di oppressione. Il desiderio dell’uomo di sfuggire al “peso” della materia e di trovare una qualche soluzione per il riparo e per la protezione risale alle esigenze di mobilità dei “popoli nomadi”. Sono state prodotte così tende e capanne di canne, secondo criteri di flessibilità e di leggerezza. La “tenda” risponde alle esigenze di chi non ha, per vari motivi, la consuetudine dell’insediamento stabile. La tenda non è identificabile con il luogo come la casa, ma ha il potere di creare intorno a sé, appena piantata, uno spazio ben preciso, una “topografia organizzata”. La caratteristica della tenda, fatta rivivere recentemente dall’architettura pneumatica, è in sostanza il movimento, connesso e congiunto al cambiamento: essa è sempre funzionale alla leggerezza e alla trasportabilità. Oggi invero il nomadismo di pastori o popoli primitivi sta scomparendo, ma sorge un nuovo nomadismo, a livello di ideologia e di tendenza. La sedentarietà post-industriale è pervasa da una sorta di nomadismo immanente legato alle migrazioni di lavoro, funzionali ad una organizzazione produttiva dinamica, in continuo sviluppo. C’è poi una sorta di nomadismo a livello turistico, prodotto dal bisogno di “evasione” dalla vita quotidiana. La “mobilità” che caratterizza la società contemporanea a sviluppo avanzato si estende a molte attività di varia natura, da quelle culturali e artistiche a quelle propagandistiche e commerciali, a quelle politiche e sportive. 141


4_ Architettura pneumatica

Dunque, la “leggerezza”, in quanto funzionale sia alla temporaneità sia alla flessibilità e alla modificabilità diventa un dato necessario almeno per alcune costruzioni di questa società. A queste e simili esigenze sembra poter rispondere la progettazione dell’architettura pneumatica. Con le tensostrutture è possibile ricoprire spazi grandi con poca materia e ciò può avere una ricaduta positiva anche sul piano ecologico. Le tensostrutture – con la loro leggerezza, la loro flessibilità, la loro capacità di definire in breve tempo spazi dotati anche di notevole potenzialità espressiva, ma al tempo stesso reversibili (passibili di essere facilmente revocati senza lasciare residui inquinanti sul territorio) – si pongono come uno dei modi per poter risolvere al meglio alcune delle esigenze peculiari del nostro tempo. Lo sviluppo delle tensostrutture inoltre è dovuto ad una elaborazione concettuale “innovativa”, derivata dall’acquisizione di nuovi modelli teorici. Un problema di fondo peraltro resta e sembrerebbe essere dato dal fatto che leggerezza costruttiva e materiali poco resistenti contrastano con l’idea tradizionale di “durata nel tempo” e di memoria del passato. Eppure il discorso va impostato ora in modo nuovo, poiché la nostra epoca è nuova e in un certo senso “imparagonabile” con quelle passate. La velocità sempre crescente dei cambiamenti che investono la gran parte degli aspetti della nostra esistenza rende rapidamente obsoleti molti dei nostri spazi costruiti. 142


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Pertanto la nostra cultura materiale non può che assumere i connotati propri della nostra società, i cui caratteri peculiari sono la complessità, la molteplicità e la perenne dinamicità degli equilibri. Non è poi da passare sotto silenzio il risvolto di opportunità dell’architettura pneumatica, sotto il profilo ambientale. Attualmente, la “sostenibilità” è un elemento cardine irrinunciabile nel progetto architettonico. Non si può in nessun modo prescindere da questo valore, che si propone di rispondere in modo positivo all’emergenza ambientale. Nel rapporto della Commissione Brundtland del 1987, viene ribadito che lo sviluppo sostenibile deve fare in modo di soddisfare le necessità attuali, senza compromettere la capacità da parte delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni, in una costruttiva “solidarietà intergenerazionale”. Anche in seno alla conferenza dell’Onu, sullo sviluppo e sull’ambiente, di Rio de Janeiro del 1992, è stato vivo il dibattito sulla sostenibilità di ogni aspetto del progresso. Ora, l’architettura pneumatica vuole proporsi l’impegno della sostenibilità, sia a livello ideologico, sia a livello pratico, mediante l’utilizzo di materiali e tecnologie ad hoc. Si vuole salvaguardare così l’armonia tra uomo e ambiente, tra uomo e natura, rispettando il criterio guida di “miglioramento della qualità della crescita”, sancito appunto nel rapporto Brundtland. Sicuramente lo sviluppo sostenibile nel settore edilizio può rappresentare una sfida in grado di offrire innumerevoli possibilità di “rinnovamento”, tecnologico e scientifico, in un settore già di per sé connotato da forte “innovazione”. 143


4_ Architettura pneumatica

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Anish Kapoor, Arata Isozaki, Ark-Nova Concert Hall, Tokyo.

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4_ Architettura pneumatica

A lungo termine, inoltre, lo sviluppo sostenibile potrebbe apportare notevoli impulsi allo sviluppo sociale. Lo sviluppo sostenibile e con esso l’architettura pneumatica vanno dunque letti e interpretati alla stregua di “opportunità” tout court. Tutto ciò assume ancora maggiore rilevanza se applicato alla riqualificazione delle periferie, “luogo ibrido” per eccellenza, poste come sono a metà strada tra città e campagna. Nella periferia si può far rinascere il rapporto con la natura e di qui intensificare il rapporto uomo-uomo, compromesso da troppi fattori. Il pioniere, in un certo senso, dell’architettura pneumatica, Frei Otto del gruppo Archigram, tenendo in considerazione la leggerezza e l’ottimizzazione degli elementi strutturali, ha mostrato sempre un forte interesse per la natura (che condivide anche con Buckminister Fuller) e ha cercato di applicare le leggi di natura alle architetture. Ha dichiarato pertanto di essere alla ricerca di costruzioni che mostrino con evidenza i processi naturali che creano gli oggetti, in forme improntate all’essenzialità. Per Otto Frei ha voluto dominare la natura e piegarla ai propri bisogni, ma finalmente sta riconoscendo che la sta danneggiando troppo e quasi distruggendo. Egli si impegna pertanto ad applicare una tecnologia compatibile con la natura, interagendo tra l’altro con alcuni biologi e avvalendosi dei risultati delle loro ricerche nel mondo naturale. Ha anche capito che le “architetture leggere” prendono in considerazione quelli che sono i processi naturali.

Otto Frei, City in the Artic, visione sotto la cupola gonfiabile, 1970.

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Per le architetture flessibili e quindi per le tecnostrutture il modello è la ragnatela: le reti artificiali funzionano come quelle naturali e, se hanno una funzione portante, devono avere una forma di curva “a sella” e devono essere mantenute in posizione da tiranti. Il modello naturale per le strutture pneumatiche è invece rinvenuto nelle superfici minime delle bolle di sapone.

4.1 Esigenze e problematiche Esigenza prioritaria dell’architettura pneumatica è quella di fornire rappresentazioni metaforiche del “movimento” o comunque di poter muovere l’installazione o parti di ciò che è stato edificato: tutto ciò è chiaramente in contrasto con la radicata e tradizionale equazione, che collega architettura a stabilità e permanenza. In realtà la velocità e il tempo hanno ormai pressoché sostituito l’idea tradizionale di “spazio”. Il movimento ora unisce i frammenti presenti nello spazio, in configurazioni in continuo “cambiamento”. L’esigenza di movimento nella nostra società è riconducibile certamente alla rivoluzione della tecnica informatica e alla globalizzazione, che eguaglia il nostro mondo al “villaggio globale” di cui parlava Marshall MacLuhan. 147


4_ Architettura pneumatica

Come già detto, anche la sostenibilità è una assai importante esigenza, fatta propria dall’architettura pneumatica, ma vi sono ancora delle problematiche da affrontare e avviare a una soluzione. Infatti, ad esempio, il caso delle “architetture tessili ”è ancora campo nuovo di analisi e di ricerca in termini di sostenibilità. Alla leggerezza formale di queste strutture corrisponde un basso peso rapportato alle superfici coperte, il che conduce ad un grande risparmio di risorse. Tuttavia per poter valutare questi due “risparmi” è necessaria l’analisi del loro ciclo di vita. Inoltre, anche la produzione di materiali leggeri richiede l’utilizzo di grandi quantitativi di energia e comporta la formazione di “scarti di produzione”, nonché l’emissione di “sostanze inquinanti”. A questo punto l’ambiente esige anche dall’architettura pneumatica il rispetto di alcune fondamentali regole: il principio di “conservazione” delle risorse naturali attraverso il risparmio energetico48 ; il principio del “riuso” 49; il principio del “riciclaggio” 50; il principio 48

Le strutture pneumatiche permettono notevoli risparmi per l’illuminazione e consentono un piccolo impiego di risorse per il riscaldamento grazie alle loro proprietà di isolamento termico. Va tenuto conto peraltro di un grande dispendio di risorse per quanto riguarda la loro tenuta in pressione. 49

Un problema palese in questo caso è dato dal fatto che le membrane hanno poche possibilità di riuso a causa del degrado dei materiali, che spesso non garantiscono più con il tempo le qualità iniziali dei tessuti. 50

Occorre tenere presente sia il riciclaggio degli scarti di produzione, sia del prodotto vero e proprio. Purtroppo, il riciclaggio delle membrane non è attualmente conveniente, dati gli alti costi per il ritiro dei materiali, costi che non vengono ammortizzati dai prodotti ottenuti con le materie prime riciclate. La “problematica” maggiore, inoltre, è legata all’impossibilità di dividere i componenti del materiale. 148


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di “protezione della natura” 51; il principio di “non tossicità dei materiali” 52; il principio della “qualità” 53. Nate e cresciute soprattutto in contesti esteri, le tecnostrutture a membrana rappresentano peraltro la moderna espressione di culture progettuali molto diverse54. In Italia, comunque, il discorso relativo ai problemi connessi all’architettura pneumatica, è un po’ più circoscritto, ma emerge una chiara “esigenza di qualificazione dell’immagine del tessile” in architettura: molti si stanno muovendo in questa direzione ed alcune importanti realizzazioni recenti hanno portato innegabili benefici e funzionano da modelli di riferimento rilevanti. Una nuova esigenza macroscopica avanza ancora: alla luce delle nuove tecnologie, 51

Tale principio può essere attuabile attraverso di prevenzione e risanamento dei luoghi. Ciò riguarda ovviamente i paesi industrializzati. Va ricordato, però, che spesso le imprese, per sfuggire alla rigidità delle normative, si trasferiscono nei paesi in via di sviluppo, provocando talora gravissimi danni ambientali. 52

Tale principio dovrebbe garantire le fasi di produzione dei prodotti e le fasi del loro utilizzo, tutelando sia la salute dell’uomo, sia la qualità delle emissioni in aria, acqua e suolo. 53

È ovvio che la scelta dei materiali e delle tecniche esecutive giocano un ruolo fondamentale ai fini dell’uso futuro dell’edificio o in genere dell’installazione. 54

Vi è la cultura progettuale, soprattutto di provenienza tedesca, pragmatica, intenzionalmente low-tech, tesa a sviluppare l’idea della costruzione reversibile, provvisoria e smontabile; l’altra saldamente inserita nel solco della corrente high-tech, protesa all’assottigliamento delle strutture, anche sulla base di suggestioni formali e linguistiche. 149


4_ Architettura pneumatica

è necessario ridefinire tutte le preoccupazioni tradizionali dell’architettura, come la demarcazione di un territorio, la definizione di un luogo e la rappresentazione di valori culturali comuni. L’architettura spazia infatti tra diversi poli: dal vuoto al pieno, dalla luce al buio, dalla massività alla leggerezza. Se la natura ha generato un materiale resistente e duraturo come la pietra, caratterizzato da durezza e densità, cosa poteva inventare il genere umano per dar vita e consistenza formale ad un elemento inconsistente come l’aria? L’architettura pneumatica risponde in modo soddisfacente a questo interrogativo e si colloca entro il nostro tempo insieme come “ricerca e risorsa”, volta a corrispondere ad aspirazioni ed esigenze del tutto nuove e in un certo senso rivoluzionarie. I processi di globalizzazione mondiale e le tecnologie di ultima generazione hanno invero rivoluzionato profondamente il nostro stile di vita, rinnovando totalmente anche le modalità e le opportunità di comunicazione e di interrelazione. Scopo primo dell’architettura è di progettare strutture e spazi che possano contribuire con la loro presenza a dare protezione e benessere all’uomo che ne è fruitore: oggi, costruzioni morbide e flessibili, temporanee, costituite da membrane plastiche riempite d’aria – sebbene possano sembrare prive di consolidati significati tradizionali – offrono modelli alternativi e dinamici, di rispondenza immediata alle esigenze di una società contemporanea sempre più “nomade” e globalizzata. Le architetture gonfiabili si adattano a conformarsi alle circostanze interne ed esterne e 150


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risultano mutevoli, sia nello spazio che nel tempo; esse non utilizzano materiali naturali, ma assimilano un connotato fondamentale della natura, la flessibile vitalità. Sempre più spesso l’intento della società attuale è quello di ottenere spazi multifunzionali, evitando gli sprechi e saturando, dove è possibile, i tessuti urbani, senza peraltro sconvolgere in modo irreversibile situazioni ambientali e strutturali precostituite. Nell’ottica del risparmio si cercano quindi strutture versatili, non invadenti e leggere. Per raggiungere questo risultato, è fondamentale la collaborazione tra l’ingegneria dei materiali sintetici e l’ingegneria strutturale, che in un rinnovato connubio danno vita a involucri elastici, resistenti e luminosi. La notevole evoluzione delle tecnologie di realizzazione delle strutture pneumatiche sta aprendo in questi ultimi anni nuove frontiere di sviluppo. La ricerca pone nuove riflessioni sulle possibilità di utilizzo dei sistemi pneumatici in edilizia; tali sistemi, grazie al loro minimo ingombro e al ridotto peso, consentono facilità di trasporto, installazione e rimozione. La caratteristica emergente delle costruzioni pneumatiche è quella di consentire l’uso degli ambienti da esse determinati, in maniera del tutto libera, in assenza di situazioni esterne particolarmente gravose. Quando ciò si verifica, l’installazione viene chiusa e pressurizzata in modo analogo ad un normale sistema gonfiabile. Sono in un certo senso “organismi viventi” che respirano, alimentati, a differenza dell’architettura tradizionale, spesso rigida e soggetta a deterioramento. 151


4_ Architettura pneumatica

Progetto dello studio AZC Trampolino sulla Senna, Parigi

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Christo, Jeanne Claude, Gasometro, Oberhausen.

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4_ Architettura pneumatica

Questo rende la membrana delle gonfiabili simile alla pelle di un’architettura vivente, difficile talvolta da comprendere ed accettare, la cui conformazione morfologica è risultata particolarmente rivoluzionaria e troppo diversa dalle tipiche forme scatolari. I nuovi materiali, infatti, hanno significato soprattutto lo svelamento di un grande potenziale espressivo. Quegli anni erano, inoltre, caratterizzati da una sorta di concezione umanistica della tecnologia. Attraverso la tecnologia, infatti, si potevano “esprimere le nuove qualità dell’abitare”, come la flessibilità o la trasformabilità, e allo stesso tempo prendevano vita le nuove forme di approccio all’utente, che tenevano in considerazione tanto il suo comfort, quanto la possibilità di creare una relazione emotiva con l’habitat. L’oggetto, dunque, assumeva una funzionalità ambigua e si trasformava in un divertissement, offrendosi agli acquirenti come un gioco, come un’esperienza emozionale che stimolava i sensi, grazie ai materiali morbidi e spugnosi, rivestiti da colori vivaci, e invitava ad una “interazione” fisica molto libera, in particolare nel caso delle sedute soffici ed avvolgenti che non costringevano ad una postura stereotipata.

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4.2 Applicazioni pneumatiche Sebbene le opere architettoniche siano state sempre associate a concetti di stabilità e permanenza, nel XX secolo si è messa in discussione più volte tale associazione. Tutto ciò è reso palese dall’iter dell’architettura pneumatica, che nel corso del ‘900 ha dato vita a manifestazioni varie. Esempi in proposito vanno dal postmoderno Teatro del Mondo (1979) di Aldo Rossi, all’high-tech Walking City (1964) di Ron Herron (membro dell’Archigram), fino alle visioni espressioniste di Glass Chain. Paul Scheerbart e Bruno Taut hanno immaginato una città su ruote, illuminata da luci in continuo cambiamento e provenienti dal riflesso di specchi d’acqua; strutture sospese in aria ed edifici innalzabili e abbassabili da gru; case rotanti e galleggianti con pavimenti di vetro attraverso cui è possibile osservare il movimento delle onde e dei pesci nel lago sottostante. L’osservazione di John Ruskin, “questa è ciò che chiamo architettura vivente”, è applicabile a diversi progetti del genere, perché in essi il “movimento” diventa un elemento essenziale. Il prototipo di questo tipo di architettura ci viene offerto dal Trans-Port (1998-2001), progettato da Kas Oosterhuis e da Bouman. Si tratta di un padiglione multifunzionale utilizzabile come centro Internet, centro congressi, discoteca o studio televisivo. L’aspetto notevole di questo edificio consiste nella “struttura pneumatica” che lo costituisce e nel 155

Kas Oosterhuis, Trans-Port, 1998-2001.


4_ Architettura pneumatica

sottile strato di gomma che lo riveste, caratteristiche che gli consentono di muoversi, di cambiare colore e forma, di ingrandirsi o rimpicciolirsi in base alle esigenze degli utenti. Oosterhuis dunque parla di edifici come di esseri dotati di un corpo sensibile, cioè come di “esseri viventi”. Egli identifica la vita con il movimento ritmico e fa notare che, filmando una casa e velocizzando poi la pellicola di un migliaio di volte, se ne ricaverà l’impressione che la casa si stia comportando proprio come un essere vivente. Oosterhuis prevede anche che la semovente vitalità dei sistemi tecnologici possa diventare in futuro sempre più palese. La ricerca di Kas Oosterhuis si sviluppa sulla base di una riconsiderazione delle tecnologie e dei materiali come animatrici di una inevitabile trasformazione dell’ambiente abitato. Attraverso complesse connessioni multimediali ci si trova immersi in un ambiente di pura informazione, trasmessa dalle hypersurface (superfici assimilabili al concetto di schermo), che cambiano forma in base all’intensità delle informazioni oltre che all’intorno sonoro e visuale. Il progettista spiega con parole concise e significative l’idea e lo scopo dell’installazione architettonica: Il progetto ha preso avvio da una semplice conversazione avuta con il mio ingegnere strutturista, il quale mi disse che aveva realizzato un sistema pneumatico controllato da un computer in grado di rispondere

Kas Oosterhuis, Kaiserlautern Landmark, 2004

ai carichi dinamici del vento. Questo significa che l’edificio è in qualche

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modo rilassato quando non c’è vento, e che si irrobustisce quando il vento si alza. Si comporta come un muscolo che aumenta di potenza quando deve sollevare qualcosa. L’edificio reagisce in tempo reale alle forze esterne. Ma gli ingegneri strutturisti usano questa tecnologia per resistere alla deformazione. Essi calcolano la deformazione, ma il piano segreto (o confessato) prevede di fornire una risposta alle forze, per ridurre al minimo le deformazioni. Allora io in quel momento pensai di usare questa tecnologia per creare delle forze dall’interno. L’edificio, in tal modo, non reagisce più a delle forze esterne, ma agisce in tempo reale per generare all’interno dei campi di tensione. Ero entusiasta di quest’idea che fu pienamente sostenuta dal mio ingegnere strutturista. La tecnica di calcolo in tempo reale era alla base dell’idea di progetto. Se gli edifici possono diventare attivi e se le loro azioni vengono connesse a un database, ecco allora che cominciano a sviluppare un sistema per agire autonomamente. Non dovranno più resistere a delle deformazioni ma si deformeranno in tempo reale per creare delle specifiche configurazioni, legate alle differenti specificità d’uso. Quando la struttura attiva, concepita come un sistema spaziale consistente in un certo numero di pistoni pneumatici a controllo numerico, cambia forma, la superficie esterna e quella interna

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scorrono lungo lo scheletro. Dovremo sviluppare una sorta di pelle gommosa tridimensionale, flessibile e continua che permetta queste deformazioni. Anche la superficie interna, dove l’informazione si materializza attraverso migliaia di LED programmabili, deve essere flessibile e capace di seguire i movimenti della struttura. Ciò che facciamo come architetti è determinare l’ampiezza delle deformazioni. Non possiamo prestabilire alcuna configurazione specifica, né un suo contenuto fisico, così come in quello informativo. Ma sappiamo qual è la sua massima deformazione, conosciamo lo spazio di lavoro dell’ufficio. Qui l’edificio per la prima volta assumerà un processo in corso di trasformazione, e si riconfigurerà in tempo reale; le sue esatte sembianze sono sostanzialmente indescrivibili, in movimento è inarrestabile. Le configurazioni saranno sono diverse. Quando l’edificio riposa, i suoi movimenti sono impercettibilmente lenti, ma si muove lo stesso; il movimento è la modalità standard, l’immobilità è movimento allungato nel tempo al punto da farlo sembrare in quiete .55

Dal Giappone all’Olanda, fino ad approdare in Italia. On Space Time Foam è lo straordinario 55

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Cfr. Marco Brizzi, Kas Oosterhuis. Il lato selvaggio dell’architettura, Archi-it, 1999, p. 58


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lavoro dell’architetto Tomás Saraceno, una spettacolare installazione sospesa nel Cubo dell’HangarBicocca. Macro e micro-struttura del mondo, incontro a mezz’aria tra arte e scienza. Un’opera gigantesca ed ultra leggera, un grande “strumento musicale” che vibra dinamicamente, apparentemente al di là delle leggi gravitazionali. Spesso le realizzazioni dell’artista argentino prendono letteralmente il volo, coniugando la creatività visionaria con la ricerca scientifica e immaginando nuovi scenari possibili. Il titolo dell’opera fa riferimento a un’espressione che in fisica serve a indicare delle particelle subatomiche in rapido movimento. Ma quello che meraviglia e stupisce di più è la relazione che si crea tra un livello e l’altro delle utopiche piattaforme sospese e quello che succede ai visitatori, una volta che inizino a “interagire” con essa. Ogni passo, ogni respiro che si compie ha un effetto su ogni strato dello “spazio-membrana” che viene creato in una sorta di “metafora del nostro modo di vivere interdipendenti e interconnessi”, come spesso sostiene l’artista (un’anima da sognatore e un curriculum da architetto). L’opera trae ispirazione da una molteplicità di ambiti culturali e si presta a essere interpretata secondo differenti chiavi di lettura: metafora delle possibili “interrelazioni” tra individui e società; immagine visibile delle più avanzate teorie della fisica contemporanea; architettura utopica che trasforma lo spazio; esperimento di psicologia sociale. Tomas Saraceno spesso ribadisce che gli piace lavorare sulle interconnessioni, sulla reciprocità delle relazioni tra le persone. In maniera sperimentale, cerca di costruire in modo da mettere in contatto la gente e ragionare sulla “condivisione”. In questo senso 159

Tomas Saraceno, On Space Time Foam, 2012.


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l’opera presentata all’Hangar Bicocca, solo l’ultimo capitolo del progetto Cloud Cities, è di assoluta importanza. Lo spazio si genera con l’ingresso delle persone, si modifica con il loro peso. È inoltre interessante osservare la sincronicità dei movimenti: due persone vicine molto pesanti potrebbero formare un buco nero. Il genio creativo dell’artista introduce profonde tematiche e problematiche della contemporaneità in maniera immediata, dichiaratamente pop. L’artista “abbatte i confini dei saperi”. Incrocia arte, architettura, fisica, ingegneria e biologia. Crea audaci sistemi “disequilibranti”, ludiche architetture del possibile, trasparenti utopie percorribili, evidentemente debitrici di seminali esperienze novecentesche, quali quelle di Buckminster Fuller, Yona Friedman, Frei Otto, Archizoom, fino alle possibili suggestioni di Piero Manzoni e del suo Placentarium. Con la differenza che, mentre la gran parte di questi progetti vive solo su carta (pur se per la forza iconica e immaginativa che li caratterizza continua ad alimentare il dibattito teorico, nonché sogni e visioni delle successive generazioni), Saraceno prova davvero a concretizzare l’utopia. Recentissima è l’installazione-evento di portata mondiale, la più imponente del campo della blow up art, nel cuore della regione tedesca della Ruhr: è firmata Christo. Una creazione nata alla fine del 2013, nonché una scelta bizzarra situata presso il Gasometro di Oberhausen, già precedentemente sperimentata nel 1999 dall’artista con la collaborazione di Jeanne-Claude per l’esposizione dell’opera “The Wall”, un muro di 13000 barili colorati alto 26 metri all’intero del diametro del cilindro di 68 m e 177 di

Christo, Jeanne Claude, Gasometro, Oberhausen

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altezza. Deciso a non riproporre mai una medesima opera e a mutare incessantemente i propri interventi, in tal caso fa uno strappo alla regola e torna a lavorare nello stimolante sito. Il Big air package è una sorta di magnifico e “gigantesco impacchettato d’aria”, una grande bolla composta da materiale plastico gonfiata all’interno: la più grande struttura pneumatica mai realizzata, priva di uno scheletro metallico. La superficie conta più di 20000 metri quadri di polistirene semitrasparente, retto da 4500 metri di corda e gonfiato da ventilatori che generano una pressione tale che l’installazione si sostenga in verticale. Una scultura praticabile al suo interno, un ambiente da esperire attraversando una camera d’equilibri che evita sbalzi di pressione. Una nuova dimensione spaziale del tutto inaspettata ed illuminata zenitalmente da lucernai e dall’ausilio di 60 proiettori aggiunti, facendo sì che il visitatore rimanga disorientato oltre che strabiliato per gli effetti sonori di forte eco. In questo luogo apparentemente astratto al limite tra fisico e metafisico si vive un’esperienza percettiva di grande impatto e, come dice l’artista, “nuoti virtualmente nella luce quando sei nel Big Air Package”. Egli è riuscito a trasformare il freddo e scuro edificio industriale in uno spazio trasparente, leggero e luminoso. Ma in che modo rispondono le persone a queste strutture magiche, talvolta dinamiche e trasparenti? Le installazioni stimolano la curiosità dei passanti che, dopo la prima fase di osservazione, 161


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si addentrano nelle strutture pneumatiche. Il risultato è “un’esperienza ludica” che incoraggia la comunicazione anche tra i più timidi soggetti presenti. Quando si lavora in quartieri più difficili si utilizza sempre lo stesso trucco: invitare le persone, che non si aspettano ciò, ad entrare. I progetti dunque promuovono nuovi ambienti “ibridi”, risultato di un passaggio osmotico tra spazio privato e pubblico. Occupando il territorio e giocando con le qualità performative dello spazio urbano, si mutano le relazioni e i punti di vista abituali favorendo nuove possibilità interpretative. In questa maniera le installazioni pneumatiche sono un mezzo per sperimentare e trasformare la quotidianità spaziale, in una situazione temporanea straordinaria.

4.3 La situazione contemporanea: dagli anni ’60 ad oggi La Blow up art ha origini antiche. Più che architettura, è l’architettura dell’arte. Erano gli anni ’60: Beatles, Andy Warhol, plastica colorata, luce fluorescente e prêt-àporter: una ventata di libertà e di anticonformismo si rifletteva nei colori sgargianti e nei disegni optical in bianco e nero della Pop Art, nelle geometrie di Paco Rabanne, che stavano rivoluzionando la moda e influenzavano l’arredamento con uno stile lunare e

Andy Warhol, pop art.

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fantascientifico, ispirato allo sbarco sulla Luna del 1969. Questo sentimento non è altro che l’inizio di quello che Christoph Doswald definirà “Airbag generation”. Giovani architetti e studenti di architettura, cercavano nelle forme oniriche delle “strutturebolla” una via per criticare la severità inflessibile del modernismo. Mentre molte di queste sono rimaste sulla carta come disegni o idee, altre sono state realizzate per festivals musicali e installazioni temporanee. Ant Farm, un collettivo radicale di architetti fondato a Berkeley in California, ha pubblicato in quel periodo l’Inflatocookbook, una guida alla costruzione e realizzazione di architetture gonfiabili. La maggior parte delle strutture gonfiabili erano abitabili, quindi irrevocabilmente appartenenti al regno dell’architettura. Numerosi progetti sono stati realizzati come ambienti sperimentali, contenenti performance musicali o artistiche, una sorta d’incubatrici concettuali di queste pratiche. Facili da costruire e trasportare, le strutture erano pensate per essere “temporanee ed economiche” e per poter riparare dalla pioggia. I componenti principali – fogli di plastica e grandi ventilatori – potevano essere trovati dovunque. Tutto ciò che gonfiato occupa un determinato volume, sgonfiato raggiunge le dimensioni minime e anche il peso, a parità di superficie, è incommensurabilmente più basso di qualunque altro tipo si sistema. Questa proprietà supera ben presto le applicazioni del limitato campo dell’arredo d’interni (poltrone, materassi, lampade) per trasferirsi al sistema abitazione vero e proprio. 163


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Parallelamente, però, un gran numero di artisti si cimenterà nella realizzazione di installazioni pneumatiche con i più disparati obiettivi: dalla vita in una bolla gonfiabile, per fuggire da un mondo inquinato, alla morte dovuta alla permanenze all’interno di un involucro soffocante. Molti pertanto sono i progetti che a partire dagli anni ‘60 hanno sviluppato (analizzandolo ed interpretandolo attraverso diverse forme e finalità) il concetto di “air architecture”, portata al suo estremo sviluppo da Yves Klein, il quale nella sua Cité climatisée accompagna l’idealizzazione di architetture “aperte”, (i cui limiti sono individuati solo da effimeri getti d’aria), con riflessioni sulle implicazioni sociali di queste stesse strutture invisibili. Questa forma architettonica considera l’aria come possibile materia e porta con sé l’intento di racchiudere lo spazio esterno, per viverlo come comunità, legando così al concetto di privato quello di collettività. La gran parte delle strutture gonfiabili sono considerate dai più “spazzatura”, una sorta di accessori urbani, ma solo un ristretto numero di persone hanno la volontà e l’inclinazione di selezionarle e studiarle, fino a comprendere che alcune sono in realtà assolutamente utili. Uno dei maggiori vantaggi di tali strutture è l’economicità, ma l’ostacolo più comune è il fatto di non essere considerate riconducibili nell’alveo dell’architettura. L’uso del pneumatico ha invaso sensibilmente il settore dell’arredo. Dapprima si è avuta una serie di tentativi e di invenzioni, spesso del tutto gratuite ed aventi ben evidenti non 164


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soltanto le caratteristiche dell’effimero, ma anche del precario. In seguito il mobile gonfiato è stato lo spunto per iniziare un processo ancora oggi in via di evoluzione ed assolutamente rivoluzionario. Non è ormai lontana l’ipotesi di un alloggio dove pareti, pavimento, soffitto siano attrezzate per fornire arredi diversificati gonfiabili, permettendo diversi programmi di utilizzazione per un medesimo spazio abitativo, non essendovi difficoltà alcuna ad inserire tra gli attuali impianti domestici anche quello della distribuzione di aria compressa. Movimenti studenteschi tra gli ultimi anni 60’ e i primi 70’ di contestazione al modernismo, realizzano numerose costruzioni sperimentali, annullando le barriere tra ingegneria, architettura ed arte, opponendo il gusto ludico ed utopico di queste strutture, all’immobilità e all’assolutezza dell’architettura tradizionale. Anche numerosi architetti poi diventati firme celebri, si sono cimentati al momento del loro esordio con queste architetture gonfiabili: Archigram, Coop Himmelblau, OMA. Tra questi, recentemente Arata Isozaki, che insieme ad Anish Kapoor ha ideato un auditorium gonfiabile rosso, sinuoso e temporaneo, “Ark Nova”, per le popolazioni in Giappone, colpite dal terremoto. Crea un certo stupore l’incontro, ben riuscito, tra due diverse forme di creatività, quella artistica e quella architettonica, nonché l’incontro tra due personalità, che di quei mondi, ormai, fanno parte come protagonisti da un bel po’ di anni. Indiano il primo, giapponese il secondo. Artista il primo, architetto il secondo. 165


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Curvilineo il primo, geometrico il secondo. Eppure, la condivisione di un’idea, di un segno, di una funzione ha condotto l’ArkNova Concert Hallda esperimento fino a primo esempio di auditorium temporaneo low-tech. Posizionata a Matsushima city, ospiterà concerti, performance, workshop nell’ambito del Lucerne Festival, con l’intento di riportare energie positive ad un territorio ancora ferito, ma pronto a ripartire. Gonfiabile, il che minimizza la sua struttura, rendendolo sicuro anche in caso di sollecitazioni ambientali pericolose, la struttura-scultura ha una capienza totale che varia da 500 a 700 spettatori ed è sorretta da una membrana pneumatica in vinile magenta luminescente, dalla caratteristica forma strombata tanto cara a Kapoor. Una volta gonfiata, raggiunge l’altezza di 18 metri per una larghezza di 36 metri Morbida e accogliente come una grande conchiglia, l’ArkNova Concert Hall innesca sinergie capaci di risvegliare la sfera emozionale grazie allo spazio che, letteralmente, avvolge chi c’è dentro. Facilmente smontabile, senza impatto ambientale e pure divertente. Architettura, come l’Arca di Noè che salvò uomini e animali dall’alluvione, vuole essere una nuova “arca” che, attraverso la cultura e la musica, aiuta i popoli colpiti da gravi calamità, traghettandoli verso la ricostruzione del proprio futuro. Anish Kapoor, Arata Isozaki, Ark-Nova Concert Hall, Tokyo.

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4.4 Architettura e leggerezza: nuovi paradigmi progettuali Gli interessi di studio e di ricerca privilegiano gli aspetti della progettazione e della costruzione finalizzati alla realizzazione di forme e spazi che, in congruenza con la complessità del mondo in cui ci troviamo e con la conseguente varietà delle sue esigenze, presentano un alto grado di flessibilità e modificabilità. Sono questi tutti aspetti, ai quali si lega la predilezione delle strutture leggere, dell’ architettura dinamica e reversibile, ponendosi in modo diffidente nei confronti delle soluzioni univoche ai problemi dell’abitare. Ma dinamicità e reversibilità sono caratteristiche che l’architettura, nella sua “concretezza”, può perseguire solo attraverso l’alleggerimento delle sue componenti costitutive, ossia proseguendo verso quella “progressiva sottrazione di peso”, che si è avvalsa di una strumentazione “intellettuale” atta ad affinare le tecniche realizzative con un connubio significativo tra progettazione e tecnologia. Tale cammino è passato attraverso il capovolgimento della pura logica gravitazionale – legata all’uso di materiali pesanti – e ha fatto grandissimi progressi nella storia delle costruzioni, ma necessita ancora di uno sforzo per superare il pregiudizio che porta a ritenere la leggerezza un difetto più che un valore. Rosalba Capasso, nella sua riflessione, vuole appunto dimostrare che la leggerezza è una sorta di valore aggiunto alla costruzione:

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L’uomo ha creato e cerca di dominare la natura, talvolta contrapponendosi ad essa con interventi violenti ed insensati, talaltra semplicisticamente trascurando le sue leggi, al solo scopo di perseguire obiettivi più o meno utili e più o meno opportuni, ma con frequente conseguenza di provocare alterazioni pressoché irreversibili nell’equilibrio dell’ambiente. E la natura, a sua volta, si vendica provocando distruzione e morte. Ma esiste un altro modo di rapportarsi all’universo naturale. E’ un modo che tende a stabilire un confronto piuttosto che una contrapposizione; a considerare la natura non come un nemico da vincere o un avversario da sopraffare, né come una controparte da ignorare, ma piuttosto come una fonte preziosa di risorse da usare al meglio, da un lato evitandone sfruttamenti indiscriminati e dall’altro potenziandone gli effetti. […] E’ un modo “soffice”, leggero, di stabilire in rapporto positivo con il mondo della natura, in una logica che tende ad operare al suo interno, piuttosto che mirare a prevaricarla usando in maniera “dura”, pesante, le acquisizioni dello sviluppo tecnologico .56 56

Cfr. Rosalba La Creta, in Capasso A. (a cura di ), Architettura e leggerezza: il significato del peso nella costruzione, Rimini, Maggioli Editore, 1998, p.22. 168


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Quello della “leggerezza” è un concetto ricorrente in molti campi della cultura contemporanea : trova spazio in filosofia nell’ambito del “pensiero debole”; è oggetto di riflessione letteraria in Kundera e Calvino. Quest’ultimo, in uno dei suoi seminari americani, aveva presentato il titolo in inglese, dove la parola lightness offre sicuramente molte più possibilità di rimando allusivo – anche nell’utilizzo corrente – dell’idioma italiano. Difatti raramente associamo “leggerezza” a leggiadria, levità, chiarezza, splendore, intuizione, sospensione e ironia. Ci arrestiamo velocemente a superficialità, senza alcun tipo di volontà di approfondimento come sosteneva brillantemente O.Wilde, creando il sintagma ossimorico “la profondità della superficie”. L’interrogativo che pone Milan Kundera è una sfida: davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è invece meravigliosa? L’autore associa al peso la vicinanza della terra, mentre la leggerezza è ciò che allontana dalla terra, in modo tale che si è solo reali a metà e i movimenti solo liberi, privi di un significato radicato. Kundera richiama il pensiero del filosofo Parmenide, vissuto nel secolo VI a. C, secondo cui l’universo viveva in coppie di opposizioni – fra cui pesantezza e leggerezza – in cui un polo era positivo e l’altro negativo. Senza mezzi termini Parmenide opta per la positività della leggerezza, mentre misteriosamente asserisce che pesante rappresenta il negativo. Anche se il concetto di “limitatezza di peso” non è completamente compreso o afferrato alla lettera, esprime comunque un senso di tolleranza che tende a trasformarsi in un’idea di facilità che, a sua volta, cede il passo alla piacevolezza e, sempre in negativo, alla non 169


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funzionale assenza di gravità. La ricerca della leggerezza è stata, nella storia dell’architettura, una costante, un “paradigma progettuale”, contrapposto dialetticamente alla concezione di strutture rigide e perenni (finalizzate al soddisfacimento dei bisogni omologati dalla consuetudine) in una visione armonica del rapporto uomo-natura. L’attenzione per il tema non è tanto volta ad affermare una superiorità qualitativa del risultato architettonico, ma piuttosto si tratta di sostenere una particolare “filosofia costruttiva”, che non è da intendere solo in termini di peso, ma è soprattutto un “modo di porsi” verso le cose che ci circondano. Il concetto non ha soltanto un connotato materialistico, ma inerisce anche nella sfera dell’immateriale in quanto atteggiamento problematico, che porta a considerare la disciplina come “un sistema in continuo divenire”, man mano che si evolvono e si modificano le esigenze di chi lo vive. Frei Otto è stato tra i personaggi che, interpretando le nuove problematiche culturali e sociali del tempo, non solo raccolse l’innovativo messaggio ambientale, ma affrontò anche la ricerca progettuale confrontandosi con diverse scienze, costituendo a tal riguardo anche un gruppo di lavoro con competenze eterogenee, all’università di Stoccarda. Le caratteristiche individuate ben si riassumono nelle opere di Renzo Piano, che evidenzia l’importanza della leggerezza in una delle sue ultime opere: l’aeroporto di Osaka, in cui la scelta progettuale oltre ad essere conseguenza di ragioni tecnico-scientifiche legate alla 170


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sismicità della zona, risulta anche legata a visioni metaforiche, quali quella del “grande aliante sceso sulla terra”. Più in generale, come sostiene l’architetto “la leggerezza è un tema che va oltre l’aspetto puro e semplice della ricerca scientifica e sostanzialmente introduce ad un tema che è quello della scrittura architettonica, del modo di comporre e di fare architettura e quindi ha una valenza come dire poetica”. Ma qual è il ruolo che assume l’architetto all’interno di un processo edilizio, che ha come obiettivo la realizzazione di un’architettura pneumatica ultra leggera? La sua azione si sposta da un gesto creativo individuale al governo di procedure complesse, che è necessario controllare e padroneggiare al fine di conseguire gli esiti progettuali auspicati. Emerge in quest’ottica l’importanza di una conoscenza scientifica adeguata delle problematiche progettuali ed esecutive delle strutture gonfiabili, supportata da specialisti del settore. Solo una perfetta osmosi tra gli attori in gioco potrà garantire la piena rispondenza dell’opera finita ai requisiti iniziali. Attraverso le attuali tecniche di progettazione elaborate dai più innovativi software si è, infatti, in grado di prefigurare con immagini bidimensionali e tridimensionali la geometria della struttura e di agire in modo da ottimizzarne la forma. Gli architetti hanno avuto la consapevolezza di operare in un circolo ricorsivo attraverso l’intuizione, la ricerca paziente e l’innovazione, che conducono al progetto sperimentale. Nella concezione e progettazione di strutture leggere si opera con categorie quali 171


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l’ottimizzazione, la “discretizzazione”, la “prototipazione” e l’efficienza. La feconda stagione dell’approccio sperimentale al progetto è cresciuta attraverso paradigmi, che oggi ritroviamo a sostegno della necessità di un ambiente sostenibile. Il passaggio dal valore della monumentalità ai nuovi modi comunicativi, mediati dal cosiddetto “effimero”, è la svolta avvenuta nei primi decennio del secolo XX. Si potrebbe addirittura far cominciare tutto con le avanguardie artistiche. Nel “Manifesto dell’architettura futurista (1914), Antonio Sant’Elia dice: “Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, della pratica, dell’effimero, del veloce […] I caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le cose dureranno meno di noi, ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”. Da qui, da queste programmatiche e assai innovative premesse, muove un rinnovamento, che non può certo esaurirsi, anche se non mancano segni di stanchezza e di instabilità. La recente crisi progettuale deriva dal dilaniante clima di incertezza, che sta caratterizzando l’avvento della post-modernità e che ha compromesso il suo ruolo tradizionale, basato sullo sforzo di formalizzare ipotesi ben definite da attuare come norme rigorose. Come poter superare il clima d’incertezza? Tra i possibili suggerimenti ne emerge uno in particolare: quello ruotante proprio sull’effimero. Il dibattito, esistente sull’argomento, ha centrato la sua attenzione sulle modificazioni 172


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veloci e radicali del reale ed ha prodotto una ricerca rivolta a definire metodiche, strumenti e soluzioni, miranti a controllare tali modificazioni. L’effimero si presta pertanto ad essere uno straordinario punto di riferimento per la costruzione dell’habitat del futuro con l’individuazione di una forma alternativa ed innovativa di progetto, volta a definire quel materiale “malleabile” che appare indispensabile per la città post-moderna, perché questa sia in grado di rispondere in modo adeguato all’imprevedibilità e alla dinamicità del futuro. È questo un nuovo fronte di ricerca e di sperimentazione, che porta ad un’evoluzione notevole dell’architettura con una crescente complessità e dinamicità, che va prendendo consistenza con l’inserimento di nuove “permanenze”, da affiancare o porre in sostituzione di quelle già esistenti, nelle strutture urbane. Si tratta di credibilità e di innovazione, ma anche di pericolosità, derivante dal fatto che è apparsa preoccupante l’eventualità di non poter rimuovere il complesso a causa di resistenze esercitabili da situazioni al contorno (leggi, abitudini, costumi ecc). La “irreversibilità del mutamento” che si potrebbe produrre, deludendo pertanto le aspettative, costituirebbe un danno dalle dimensioni incalcolabili, legando la trasformazione a situazioni che potrebbero anche non essere conformi al bene dell’uomo. Flessibilità esterna ed interna, elasticità e malleabilità sono le proprietà individuate insieme con la capacità di ogni complesso di variare in massa, volume ed immagine. L’adozione dei tempi e dei modi tipici della produzione industriale ha dato vita alla 173


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cosiddetta “effimerizzazione” dei mezzi e dei messaggi di massa, dotati di maggiore consistenza e valore. Effimero deriva dalle parole greche “epì” ed “eméra”, che etimologicamente significano “per un solo giorno”, dunque fenomeni di breve durata. Ma il termine è ricco di significati, con colorate sfumature, che possono essere attribuiti a situazioni eterogenee, dove la componente artistica è molto forte ed è tale che spesso diventa sinonimo di arte/artificio con l’aspetto di transitorietà che si tramuta in virtualità, nel senso di riproduzione anche prolungata nel tempo, ma che non ha la materialità del reale. Le prime realizzazioni di architettura effimera si collocano alla fine del Cinquecento e gli inizi del Settecento, seppure nate già in epoca classica per fini estetici, dove pur accanto ai principali artisti del calibro di Brunelleschi (che progettò la complicatissima macchina per la festa dell’Annunciata), Leonardo e Bernini, si deve riconoscere il superamento ormai in corso degli schemi compositivi standard. Un’importante passo nell’evoluzione dell’architettura che diviene un laboratorio in cui sperimentare forme, materiali, tecnologie costruttive, caratteristiche: tutto questo raggiunge l’apice nell’Ottocento, in occasione delle Esposizioni Universali. La comparsa di nuovi materiali come la ghisa ed il perfezionamento tecnologico nella lavorazione di ferro e vetro, riuscirono a soddisfare quelle esigenze di temporaneità e flessibilità in pianta e in viste tridimensionali. In quadro generale è in antitesi con la concezione contemporanea dell’architettura effimera così che l’idea di un laboratorio sperimentale per la futura scena della città si 174


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contrappone alla tendenza a concepire un’architettura “stabile”, pur destinata a durar poco, ma con un significato architettonico del manufatto giustamente riconosciuto, a prescindere dai materiali e dalle tecniche utilizzate. Un esempio significativo è offerto da Purini, uno dei principali esponenti dell’effimero negli anni ’70 e ’80, quando in una conversazione con Enrico Valeriani («Controspazio», n. 4) afferma: “Il tema dell’effimero, inteso come una proposta formale fortemente sperimentale che si rappresenta soprattutto come un’idea appena materializzata, come un pensiero sospeso sulla città, percorre gran parte dell’architettura moderna. Non mi riferisco soltanto ai celebri padiglioni di Melnikov, di Le Courbusier, di Mies, di Libera, di Figini e Pollini, […] quanto alla totalità delle architetture di avanguardia che si sono rappresentate attraverso forme quasi disincarnate ed immateriali. Penso all’asilo Sant’Elia di Terragni a Como, che deve essere continuamente aiutato a permanere, perché è fatto di strutture quasi volatili […]. Parte dell’architettura ha scelto quindi di non durare fisicamente ma di persistere nella memoria, nello spazio leggendario del ricordo e anche nella nostalgia”. Ripercorrere le correnti del tempo – per stabilire il momento ed il modo in cui l’effimero ha cominciato ad interagire con la disciplina architettonica – è certamente possibile. In linea di massima, possiamo affermare che tale connessione comparve nel momento in cui l’uomo, oltre ad acquistare l’abilità necessaria per la progettazione e costruzione di complessi, cominciò ad interessarsi sempre più all’aspetto della temporaneità e della non 175


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invasività dell’architettura con lo sviluppo di tecnologie “sensibili”, capaci di danneggiare il meno possibile il contesto ambientale e di favorire al massimo e rapidamente l’eventuale rimozione ove previsto. Legno, cartone, tubi, fil di ferro ma soprattutto plastica sono gli elementi, fra i tanti, che con la loro versatilità e relativa semplicità permettono al progettista di controllare e gestire più facilmente tutte le fasi di montaggio e smontaggio della struttura. Il progettista è costretto a prendere coscienza di una realtà in cui egli “crea” e “plasma la materia”, una sorta di Demiurgo platonico moderno, sapendo a priori che la sua opera avrà vita relativamente breve. Sarà egli stesso a stabilire le modalità, se non il tempo, di de-materializzazione della sua creatura assumendo anche inconsapevolmente il duplice ruolo di creatore e distruttore. La trasgressione rispetto alle regole da parte di molti dei più recenti progettisti di architettura, mostra come il gioco creativo cui aspirano è l’espressione di un gigantesco spreco di energie, di una condizione progettuale che si ferma all’auto-consolazione sensuale .57 La città del futuro, che secondo quanto descritto si propone di essere “malleabile” per affrontare l’imprevedibilità che accompagna la cultura dell’incertezza, non è riferibile ad alcun modello e per questo si deve procedere per “tentativi” sulla base 57

È questo il senso delle osservazioni di Renato Nicolini, Difendere l’effimero dai suoi ammiratori, in L’effimeto teatrale, La casa Usher, Firenze, 1981. 176


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di una sperimentazione continua e su un memorabile connubio tra conservazione e trasformazione. L’architettura pneumatica dunque ha scommesso sul concetto dell’effimero e, come una “bolla di sapone”, vive come superfetazione in ogni possibile spazio della città, all’interno di una chiesa come in una piazza o in un bosco, ospitando manifestazioni ed eventi di genere diverso, da lezioni di yoga a concerti. Il desiderio oscilla tra un’ulteriore amplificazione dell’effimero e la curiosità di disegnare strutture pneumatiche con un’alta qualità ingegneristica/statica, in perfetto parallelo con quelle che sono le premesse culturali del mondo contemporaneo che consuma i miti, nel senso che l’effimero è oramai contrapposto al durevole, in ogni aspetto della vita quotidiana. È proprio Kas Oosterhuis a ribadire la necessità di far interagire il movimento con l’architettura: “Il modo più diretto di incorporare il movimento nell’architettura è quello di far muovere letteralmente un edificio”. Per lui, l’architettura, in quanto teoria costruttiva, è un’arte incompleta, poiché in essa manca il concetto di mobilità e di movimento. Non fu invero l’architettura, ma la pittura, a trattare per prima ed in modo diretto la questione del movimento e le ragioni sono facilmente deducibili dal fatto che i pittori furono costretti a rivedere i presupposti stessi dell’arte, mettendo in discussione la divisione classica fra spazio e tempo. Marinetti ed i futuristi italiani studiarono a lungo ed approfonditamente il concetto di 177

Effimero - bolla di sapone.


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movimento, sostenendo con fermezza che le ben note categorie kantiane sono ormai da considerarsi obsolete: “Il tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”. La soluzione propone un duplice significato di forma: forma in movimento (movimento relativo) e movimento in forma (movimento assoluto). Per tale ragione un corpo in movimento non va studiato in situazione di mobilità e poi modellato come se fosse in movimento, ma l’artista deve tracciarne la traiettoria e sforzarsi di determinare l’unica forma che ne esprima la continuità nello spazio. Quello che la tesi si propone di dimostrare è che l’architettura è copulativamente “movimento”. I punti di vista sono molteplici, da quello cinetico a quello letterario e fenomenico. Essa può adottare quello cinetico come un processo di crescita, può esser modificabile e trasformabile nel corso del tempo, così come nello spazio. Nonostante molte opere architettoniche siano state collegate a concetti di stabilità e di permanenza, come ampiamente spiegato precedentemente, nel XX secolo si è messa più volte in discussione tale associazione. Esempi in proposito vanno dal postmoderno Teatro del Mondo (1979) di Aldo Rossi, che irrompe nell’immaginario tradizionale «non solo per l’organizzazione teatrale, […] ma per il rifiuto di lasciarsi trascinare nel vortice dei coinvolgimenti in cui la spazialità veneziana tende ad attrarre» (M. Tafuri, 1982), ai significativi progetti di Cedric Price, fino alle visioni espressioniste di Bruno Taut, che hanno immaginato una città su ruote, illuminata da luci 178


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in continuo movimento provenienti dal riflesso di specchi d’acqua; strutture sospese in aria ed edifici sollevabili/abbassabili da gru, case rotanti e galleggianti. Il concetto spaziale alla base del dinamismo scaturisce dall’interazione costante e mutevole dello spazio con l’uomo, con chi lo vive o lo attraversa, senza permettere mai la stessa visione, lo stesso punto di riferimento; è uno spazio caratterizzato da elementi instabili, figure e testi in grado di creare suggestioni diverse da ogni angolo visuale. Lo spazio organico è ricco di movimento, di indicazioni direzionali, di allusioni prospettiche ma il suo movimento non vuole centrare l’occhio dell’uomo bensì esprimere l’azione stessa della vita, creando un’ininterrotta fluenza nella successione di angoli visuali. Le forme pure, i volumi puri, hanno invece alla base una generatrice progettuale, un concetto spaziale, che può essere ricondotto ad una concezione razionale semplice e lineare di organizzazione degli spazi, che trascende il rapporto di questi con chi li vive, li attraversa o vi entra comunque in contatto; si tratta di spazi in grado di assumere la propria identificazione indipendentemente dall’interazione con l’uomo, hanno un proprio rigore che li caratterizza, un proprio ordine interno che spesso non lascia dubbi sull’impostazione sia planimetrica che dei volumi, molte volte in grado di giustificare, mediante l’utilizzo di solidi e forme elementari semplici, il messaggio progettuale dell’opera. L’espressione più completa del dinamismo è infatti in grado di mostrare la propria concezione spaziale anche e soprattutto esteriormente, in modo da permettere una perfetta interazione tra esterno ed interno, spesso fondendo tra loro quello che può 179


4_ Architettura pneumatica

essere considerato contenente con il suo contenuto. Un testo architettonico che si stacchi dalle forme elementari, che riesca a dominare una complessa fluenza spaziale ed una successione di spazi mutevoli è in grado di formare un’architettura in grado di suscitare emozioni e suggestioni sempre diverse, come sempre diverso è l’angolo ed il momento di osservazione.

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5_ Intervista a Giovanni Anceschi

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5_INTERVISTA A GIOVANNI ANCESCHI

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5_ Intervista a Giovanni Anceschi

“Ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello SPAZIO-TEMPO o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi tra SPAZIO e TEMPO. Consideriamo quindi la realtà come un continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione.”

Gruppo T, manifesto.

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Martedì 17 giugno abbiamo avuto l’onore e il piacere di incontrare Giovanni Anceschi, uno dei promotori dell’architettura pneumatica, “artista più che architetto”, come egli asserisce. Gli abbiamo proposto alcune domande, da sviluppare in una intervista. Non è stato facile per noi raccogliere le idee, per indirizzarle ad un chiarimento diretto di concetti e di orientamenti complessi, tuttavia ci abbiamo provato. La trascrizione dell’intervista viene di seguito riportata. 1- Ci proponga qualche considerazione sulla sua personale esperienza, su come si è avvicinato all’architettura pneumatica e per quali motivazioni. Più che parlare di mia esperienza, devo dire “nostra esperienza”, perché quello che si è chiamato “il grande oggetto pneumatico”, noi l’abbiamo fatto nel 1959, pubblicato nel 1960; era fatto dal “Gruppo T”, di cui io ero parte costituente. La nostra non era da considerarsi propriamente architettura; io ero un artista e questa che può essere definita “installazione pneumatica” era contenuta in una mostra. Per spiegarmi: noi eravamo dei giovani ventenni appassionati d’arte, e decidiamo di pubblicare un manifesto, che si è chiamato “Miriorama 1” che metteva il “tempo” al centro dell’arte, considerando la questione della temporalità e della metamorfosi. Abbiamo fatto cinque mostre di fila in una galleria di Milano che si chiamava “galleria Pater”, chiamandole tutte Miriorama. 185

Gruppo T, Miriorama 1. Boriani, Colombo, Anceschi, De Vecchi.


5_ Intervista a Giovanni Anceschi

Gruppo T, Miriorama 1. Manifesto.

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Giovanni Anceschi, il grande oggetto pneumatico.

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5_ Intervista a Giovanni Anceschi

Miriorama 1 è stata quella iniziale, inaugurale e collettiva; Miriorama 2 era ad esempio la personale di Davide Boriani; Miriorama 5 era la personale di Giovanni Anceschi, con la quale ho concluso le esposizioni. Nella prima mostra, c’erano quattro lavori come opere del Gruppo T: “Superficie in combustione”, “Superficie in ossidazione”, “Quadro di fumo”, e l’ultimo per l’appunto “Grande oggetto pneumatico” o, come noi lo chiamavamo molto volentieri (anzi era il nome designato dal gruppo interno) “Ambiente a volume variabile”. Quindi si riscontrava un certo interesse per nozioni di natura effettivamente architettonica. Peraltro, “ambiente” è una nozione molto interessante, rispetto a spazio, che è invece erroneamente la parola chiave degli architetti. Ambiente a me interessa molto di più perché fa riferimento allo spazio abitato. Concentriamoci ora su come era fatta questa opera, che poi è stata battezzata da Munari “Grande oggetto pneumatico”, poiché considerava la nostra definizione un po’ astratta e ci invitava a seguire il suo consiglio. Noi l’abbiamo accettato. Il lavoro era fatto esattamente in questo modo: c’era nella sala più grande, di dimensioni notevoli, e precisamente nel fondo, una specie di contenitore, di scatola, dove era nascosto un aspirapolvere a rovescio, cioè utilizzato come gonfiature e connessi con dei tubi di metallo; c’erano poi dei tubi in materia plastica, in politene trasparente (quelli con cui si fanno i sacchetti), i quali erano lunghi anche 10-12m, qualcuno anche un po’ più piccolo da 7-8m. In totale ricordo erano 7. Questi palloni si gonfiavano e la cosa più divertente – che ci piaceva e interessava molto – era il fatto che scacciavano lo spettatore, cioè il visitatore veniva in 188


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qualche modo estromesso dalla scena. Erano assolutamente “interattivi”. Mi ricordo anche un aneddoto divertente di un certo critico di allora abbastanza noto, Kaisley, che era peraltro estremamente miope: si avvicinò alla nostra opera e rimase strabiliato, ma anche in un certo senso scandalizzato. I nostri progetti effettivamente hanno provocato scalpore ed erano nei fatti molto provocatori. Per spiegare faccio un esempio di un’altra opera, non collettiva del gruppo e non gonfiabile, che rende perfettamente l’idea di tale intento di provocazione. L’opera a cui mi riferisco si intitola “Scultura da prendere a calci” realizzata da Gabriele De Vecchi, il cui risultato è straordinario, meraviglioso. Si compone di un grande disco di metallo appoggiato al suolo, al centro del quale di aggancia un anellino a cui è legato un elastico, connesso a sua volta con un parallelepipedo di materiale plastico spugnoso, spesso utilizzato per il rivestimento di sedie (tanto per intenderci). Lo spettatore veniva invitato a prendere letteralmente a calci l’oggetto. Naturalmente c’è un aspetto principale molto dadaista, molto appunto provocatorio, ed in effetti coloro che subivano la provocazione erano gli altri scultori (che ricordo erano un po’ furibondi), ma la cosa interessante è il risultato. Se il protagonista prende però la decisione di provare il funzionamento dell’oggetto, poi l’aspetto provocatorio passa inevitabilmente in seconda linea e viene fuori la “sostanza estetica” della cosa, un’arte ginnastica, poiché il corpo fa un gesto. Questo per dire che l’aspetto provocatorio è solo iniziale, come una porta, per poi arrivare all’essenza stessa dell’installazione. 189

Gabriele De Vecchi, scultura da prendere a calci.


5_ Intervista a Giovanni Anceschi

2- Per quello che riguarda l’installazione pneumatica, qual è la sostanza, l’essenza di cui parla? In questo caso, eludo per un attimo la domanda. Sai cosa fanno i bambini quando vanno lì dentro? I bambini sono stati da sempre i nostri spettatori ideali, vanno lì dentro, ci giocano e non sanno che è arte; se si divertono, ci stanno dentro un sacco (come con i palloni ci giocano) e il loro corpo viene coinvolto. Loro sanno cosa fare. Semmai sono gli adulti che chiedono: ma la Gioconda dove è? La Gioconda non c’è? Tutto questo per dire che la “sostanza” è il fatto che lo spettatore viene messo al centro dell’opera, prendendo alla lettera una dichiarazione dei Futuristi, che recitava “metteremo lo spettatore al centro dell’opera”. Questo abbiamo fatto. Se ora andate al Museo del 900, ci sono quattro ambienti del “ Gruppo T” nell’ordine Boriani, Colombo, Anceschi, De Vecchi. Ci sono degli ambienti. Gli ambienti non sono opere da guardare, non sono quadretti, ma sono opere dove il corpo dello spettatore diventa centrale, diventa protagonista e dove “più ci sono effetti diretti sul comportamento dello spettatore, più è riuscita l’opera”. Vi racconto ancora un’altra cosa. Mi dispiace, sembra che non c’entri direttamente, ma può essere molto utile per spiegare. Negli stessi anni Davide Boriani ed io abbiamo dato vita ad un altro capolavoro. Era un ambiente realizzato ad Eindhoven in Olanda, in una mostra che aveva a che fare

Gruppo T, Logo Boriani, Colombo, Anceschi, De Vecchi.

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con luce, arte e movimento e che era sponsorizzata da una ditta di elettrodomestici importantissima, di cui ora non ricordo il nome. Questo ambiente come era fatto? Era una stanza quadrata; su tutte le pareti c’erano specchi; per terra c’erano delle pedane che praticamente erano dei grandi interruttori, il visitatore montava su e clap e si metteva in moto il meccanismo. Partiva una luce stroboscopica, cioè lo spettatore veniva illuminato dall’alto con una luce che “flippava”, simile a quella delle discoteche. Le discoteche non sono mica uno schifo, il nostro spirito è molto vicino alle scenografie rock. Eravamo negli anni Sessanta, quando c’era l’arte psichedelica che andava per la maggiore. Il senso delle nostre cose è un po’ questo : è giusto collocarle quindi nelle istallazioni; erano però delle istallazioni - come dire – domestiche. 3- In questo caso, lei non parlerebbe di architettura, ma di arte? Sì, certamente noi non siamo architetti, anche se uno di noi, in particolare Gianni Colombo, si è sempre mosso nelle vicinanze dell’architettura. Ha fatto queste opere, ormai ambienti che non erano più cinetici, erano fatti in modo da essere destabilizzanti; erano costituiti da delle scale con dei gradini che variavano progressivamente inclinazione, pavimenti bi-inclinati. C’è una cosa che precede questa sperimentazione qui. In occasione di una delle mostre più importanti di questo nostro movimento, non solo del “Gruppo T”, ma del grande 191


5_ Intervista a Giovanni Anceschi

movimento internazionale che si è chiamato “Le nuove tendenze” di cui noi “Gruppo T” facevamo parte, il tema viene ampiamente sviscerato. Precisamente a Parigi, al “Padiglione di Marsan” che all’epoca era al Louvre, in quell’occasione il tema principale era il rapporto dell’arte con l’architettura. C’è questo antefatto, ma in generale noi non siamo mai stati dei veri e propri architetti, nonostante condividessimo con la disciplina tecniche e teorie. Abbiamo invece avuto molto a che fare con il design, io in particolar modo, poiché abbastanza presto sono andato a studiare alla scuola di Maldonado (“Hochschule für Gestaltung”, ossia “Scuola superiore di progettazione/costrutturazione”, di Ulm) che è stata una scuola di progettazione grafica e di disegno industriale, che ha raccolto nel secondo dopoguerra l’eredità delle scuole tedesche e del Bauhaus. Lì mi sono laureato in design della comunicazione e ho continuato per il resto della mia vita seguendo questo indirizzo. Recentemente, a partire dal 2000, è successa una cosa abbastanza eccezionale: l’arte ha ricominciato a cercarmi/a cercarci, ritornando a rivestire un grande interesse. Da poco prima dell’inizio del secolo in poi ci sono mostre dappertutto; in questo momento in Cile, alla Grande Galleria d’arte, appaiono opere del Gruppo T, e non solo, così come a Buenos Aires. Questo dimostra l’ampia diffusione internazionale e c’è perfino interesse del mercato, perché ad esempio recentemente Christie’s, la nota casa d’aste più antica del mondo, che bandisce le opere di Picasso, Pollock e Fontana, si è occupata anche di alcune nostre realizzazioni. 192


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E oggigiorno gli artisti di fama mondiale, sono tutta gente che io scherzosamente dico che sono nostri “nipotini”. Basta far riferimento al giovane Saraceno, a proposito di gonfiabili. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo all’ Hangar di Bicocca, ha detto che conosceva benissimo le nostre opere. Così come Olafur Eliasson, che si occupa invece della luce, ha realizzato dei lavori molto vicini allo stile nostro con luci proiettate. Ed ancora, Anish Kapoor, una delle Art-star recenti, che si occupa di grandi oggetti dalle forme più bizzarre e spesso toroidali. Ha operato in tutto il mondo, anche alla fabbrica del vapore a Milano. Si riscontrano delle vicinanze concettuali: ambienti è la parola giusta. Lui addirittura ha fatto a Venezia nella chiesa di S. Giorgio, un’opera che si chiama “Ascensione”, nella cui base viene prodotto del fumo, dei vapori bianchi, che vengono fatti salire con sofisticati sistemi di ventilazione. La nostra prima installazione si chiamava “Quadro di fumo”, per l’appunto molto vicina. Un oggetto che c’è, è installato lì e funziona. La cosa che secondo me è caratterizzante del tema arte-non arte è che sono delle opere, delle realtà, che pur essendo effimere, sono tenute in vita. 4 -Restiamo in tema Anish Kapoor. Se quelle che lei ha elencato sono da considerare installazioni, la Concert Hall a Tokio, realizzata con l’architetto Arata Isozaki, è ancora da giudicare tale o è a tutti gli effetti un’architettura pneumatica? Si, indubbiamente architettura. C’è un’opera recentissima e straordinaria in Francia, 193


5_ Intervista a Giovanni Anceschi

un ponte addirittura su di un fiume, che è un incrocio tra un gonfiabile e una struttura d’acciaio, interamente costituito da elementi gonfiabili con il fondo trasparente e ripresa proprio dallo stesso Saraceno. Personalmente sono a stato Bicocca e ho fatto esperienza della “membrana”, una sensazione meravigliosa. Non oso dire che i francesi abbiamo copiato, ma sicuramente hanno preso spunto. Ed in questo senso sono pienamente convinto che le nostre opere siano state anticipatrici di una moda successiva; siamo dei Pionieri, insomma. Anche rispetto al nostro gruppo di interesse e a questa “nouvelle tendance”, i nostri stessi colleghi guardavano la cosa con sospetto ed anche un po’ scandalizzati perché era un modo molto forte di fare arte anche poco serioso. C’era questa componente anche di “spettacolo”, per me intesa in senso buonissimo. 5- Nel lavoro di tesi abbiamo analizzato sia dei casi in cui si parla di installazione intesa come arte, sia casi di chiaro riferimento alla disciplina architettonica. Qual è, se c’è, il limite tra il significato teorico di architettura e l’ installazione? Ho scritto un testo, ma che non riguarda tanto l’architettura, ma piuttosto arte e design, in tal senso omologabili. Almeno da dopo la svolta epocale di fine secolo, a cavallo tra Ottocento e Novecento con la nascita dell’Impressionismo e delle avanguardie, si è imposta l’idea di “arte per l’arte”. Si crea una divaricazione: da un lato c’è l’arte, dall’altro 194


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il design e l’architettura, le discipline del progetto. In buona sostanza, da un certo punto di vista le competenze che devono avere un buon design e un bravo artista sono simili, molto vicine; deve saper dar forma agli oggetti, agli ambienti e così via. Però la differenza sostanziale dagli ambienti dell’artista è che quelli dell’architetto sono utili, hanno dei contenuti; cambiano la filosofia estetica e i concetti di autonomia ed eteronomia. Pertanto l’arte è autonoma, l’architettura, l’urbanistica e tutte le varie sfaccettature in campo del design, sono eteronome seppur rapidamente si può passare dall’una all’altra. Concettualmente è forte la differenza. Se viene progettato un gonfiabile come quello del ponte parigino, questa è sì un’operazione utilitaristica e funzionale perché consente l’attraversamento del fiume, però naturalmente è un po’ difficile prendere una posizione univoca e stabilire il confine con l’arte, se si tiene presente la modalità originale scelta per il passaggio. La distinzione per me è questa: radicalmente sono due cose distinte. Soprattutto nell’ambito del design è molto semplice, estremamente facile anche da vedere. Un manifesto, per dire una cosa di vecchio stile oramai superato, è un “artefatto comunicativo” per invitare ad un determinato evento, ad esempio al “Bal au Moulin de la Galette”, come direbbe Renoir, ma invece, magari fatto con la stessa tecnica, una serigrafia di Toulouse Lautrec non è più arte, ma diventa vera architettura.

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5_ Intervista a Giovanni Anceschi

6- Se si considera la più grande l’installazione mai realizzata e firmata Cristo, situata nel gasometro tedesco, è da considerarsi arte o architettura? Decisamente arte, secondo la mia concezione, che però può essere assolutamente discutibile. 7- E’ d’accordo riguardo l’idea che l’architettura debba essere intesa esclusivamente come arte funzionale? Oppure concorda con alcuni orientamenti del dibattito postmoderno, che recuperano l’antifunzionalismo, la “non-necessità” e l’idea di architettura come “ricerca edonistica del piacere”, fantasia, utopia e totale superamento dell’ipoteca funzionalista? Architettura è funzionalismo, certo. Ma si può avere un’idea sicuramente più ampia della problematica. Già Ghery, nonostante sia un architetto, in realtà sta facendo opere d’arte con un forte valore estetico e comunicativo. Ironicamente, anche solo il fatto di appendere un suo quadro è difficile. Bisogna trovare un giusto compromesso per intenderci; “architettura non funzionale” per me è o somiglia fortemente all’arte d’ambiente. 8- Cos’è per lei un “evento architettonico”? Come viene generato? In che modo l’installazione è legata alla parola evento? 196


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Generalmente la mia visione sul tema risulta ingenua. Evento, come recita il dizionario della lingua italiana, è qualcosa che succede. L’inglese happening ha la stessa valenza. In una certa misura, concettualmente, qualunque pratica che, ad un certo punto e in una determinata fase, produce nel mondo una variazione ed una trasformazione è un evento. L’architettura per l’appunto è il prodotto di un mutamento e torno a pensare alla città di Bilbao, quando compare il museo Guggenheim. L’evento architettonico si viene a formare nel momento in cui c’è una persona che fa esperienza e che ha memoria dello spazio nel quale è entrata. Una piazza costruita interamente in cemento può non lasciare un ricordo indelebile, mentre se banalmente vengono inseriti dei pannelli colorati sul pavimento, si ha un ricordo vivo della stessa piazza anche a distanza di tempo. L’evento è dato dallo spettatore, dall’uomo, nel momento che vive un’esperienza, data dall’installazione stessa: in tal modo i due termini sono inequivocabilmente legati. L’evento è una situazione nella quale devono essere presenti dei protagonisti, dei partecipanti (definirli tali è dire troppo poco, perché non sono soltanto degli spettatori passivi), che a me piace definire “interattori”; sono veri e propri attori attivi della scena e rispondono ai segnali dati dall’ambiente. La definizione può essere benissimo attribuita all’happening, situazione nella quale succede sempre che il partecipante è attivo. Un concerto rock è sicuramente un evento, accidenti se non lo è, e il pubblico è partecipante più o meno in modo attivo. E’ abbastanza 197


5_ Intervista a Giovanni Anceschi

importante capire in che misura gli spettatori sono coinvolti. L’idea di evento è cruciale per quanto concerne i nostri lavori anche se, volendo essere pignoli, concettualmente, c’è una piccola differenza tra le installazioni e l’happening. Da una parte vi è l’archetipo della “festa”, poiché teoricamente parlando, l’evento di per sé è una festa ed ha un inizio e una fine, ha un valore finito e qualsiasi forma di oggetto ed installazione è funzionale a questo svolgimento. Invece gli ambienti e le installazioni architettoniche hanno un altro principio di base; l’archetipo non è più la festa ma diventa la trappola. Cosa intendo dire per trappola? Questa è un’installazione che scatta solo quando all’interno vi è qualcuno ed in questo modo è “responsiva”, una circostanza radicalmente dissimile, il cui carattere fondate è che è continuativa nel tempo. L’evento inoltre presenta talvolta delle regole; una festa può imporre un determinato outfit oppure altri vincoli comportamentali; l’installazione è una circostanza materiale che però ha la peculiarità di essere “reattiva”. Gli ambienti nel Museo del Novecento sono proprio così. 9- Quindi, per lei l ‘istallazione non crea l ‘evento? Il termine installazione, può essere usato in due diverse modalità; l’evento in quanto istituzione artistica è confrontabile con l’installazione, ma è diversa. Poi si può dire che, all’interno dell’istallazione stessa, ne succedono di tutti i colori, quindi sicuramente ci 198


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sono degli eventi; ma è usare il termine con un’accezione un po’ diversa, quando è una delle occorrenze che si incontrano all’interno di una installazione, non so come dire. Ma continuiamo con quanto detto in precedenza sull’ambiente realizzato ad Eindhoven: quattro pareti di specchio, il pavimento con le pedane, poi ne abbiamo fatto una versione più recente allo ZKN, che è un grande museo che c’è in Germania, e abbiamo sostituito le pedane con dei sensori di prossimità, essenzialmente non abbiamo modificato quasi niente, anzi la cosa più bella era che c’era un pavimento completamente liscio. Cosa succede al suo interno? Lo spettatore entra e piano pian impara com’è l’ ambiente, comincia ad accorgersi che se si muove, si accende improvvisamente questa illuminazione, successivamente si ammira nello specchio e comincia a percepire del movimento. Esattamente come succede nelle scuole di ballo, dove i ballerini eseguono le coreografie davanti allo specchio. Al suo interno possono entrare più persone contemporaneamente e dopo un breve periodo di tempo lo spettatore danza. Non fa certamente danza classica ma danza moderna, dico sul serio, cominciano a muoversi e basta che l’individuo sia un po’ estroverso per iniziare a ballare e spostarsi nell’ambiente. Questo per dire che all’interno della stessa installazione, di eventi ne succedono numerosi, ma è una nozione di evento diversa dall’evento spettacolare come ad una festa o ad un happening oppure ad un’inaugurazione. La prima è un’istituzione e l’altra è un momento, si tratta di un “momento evenemenziale”, aggettivo complesso ma che racchiude ed esprime il concetto. 199


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Per concretizzare e dare una risposta esaustiva, io ho una tipologia di evento nella mente. C’è un personaggio, che ho avuto modo in incontrare durante il mio iter lavorativo occupandomi di interattività, ed è una studiosa, Brenda Laurel, che ha scritto ormai tanti anni fa un libro che si intitola “Computer as theatre”. L’autrice sapientemente utilizza, come metafora dell’interazione con i computer, una scena con degli attori, come il teatro. Io ho criticato inizialmente tale metafora, ho cominciato a guardarmi intorno cercando imperterrito di capire quali erano gli attori e mi sono imbattuto nell’happening. In questo caso la connotazione è già più appropriato, poiché in teatro è una struttura piuttosto passiva, invece qui noi utenti siamo superattivi. Siamo appunto, come torno a ribadire, “interattori”. Sono andato anche oltre concettualmente e ho fatto questa sottile, ma estremamente importante, distinzione fra happening-evento e istallazione-trappola. Festa e trappola. 10- Qual è la differenza tra ambiente e spazio? Come l’installazione modifica lo spazio? Credo, da un punto di vista propriamente linguistico, che il termine “ambiente” sia adatto a designare tutto ciò che ci sta intorno, che ci circonda. Invece, lo spazio è una nozione molto più oggettiva, quasi neutrale; un concetto che è esterno all’essere umano. Si, insomma, la quinta essenza. Il raggiungimento massimo dell’idea di spazio è dato da Cartesio con le coordinate cartesiane. Ambiente è un qualcosa che è insito nell’uomo, sta 200


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dentro di noi, il corpo stesso è coinvolto nell’idea di ambiente. Tra l’altro è buffo pensare che gli architetti abbiano una specie di ossessione riguardo la parola spazio, quando in verità l’oggetto della progettazione architettonica di cui si occupano costantemente, non è lo spazio, ma è l’ambiente; è, per puntualizzare, lo “spazio abitato”. Professionalmente parlando, io non sono architetto, ma posso permettermi di stuzzicare ogni tanto i miei cari amici; i miei migliori amici sono architetti. L’ambiente è abitativo, penso anche alla grande scala, la nozione di ambiente inizia con l’urbanistica e arriva fino all’ambiente comunicativo. 11- C’è qualche progetto a cui lei sta lavorando? Per quanto concerne il progetto del “grande oggetto pneumatico”, com’è nata l’idea? No, in questo esatto momento non sto lavorando a qualche altro progetto, se la tipologia di progetto a cui fate riferimento è quella finora discussa. C’è un progetto già in parte iniziato a cui sto lavorando, però appunto non si tratta di un gonfiabile. Rispetto a quel progetto del 1959, posso raccontarvi un aneddoto. Non sono stato neanche io che ha avuto l’idea principe, l’intuizione primaria, ma sono stati i miei colleghi e amici Boriani e Colombo, i quali si sono recati all’autodromo di Monza per il campionato delle auto e hanno visto un immenso pallone gonfiato, probabilmente della Michelin. Sono ritornati meravigliati ed euforici, tanto che subito abbiamo deciso di collaborare e 201


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di progettare un’installazione pneumatica: l’idea del gonfiabile è stata generata da tale circostanza. Poi ci sono state numerose prove da affrontare e superare: i gonfiabili sono stati fatti e rifatti molte volte, per poter arrivare ad un modello con tale perfezione, così come configurato nelle nostre menti. Negli ultimi tempi sono state molto ben studiate tipologie simili a Parigi e a Torino; ma c’è un caso un po’ eccezionale a Asolo. Io ed il mio allievo Nicolò Vittoni abbiamo progettato e realizzato un gonfiabile, uno di questi grandi oggetti pneumatici in cui il tubo era lungo 500 metri. Tra l’altro è stato fatto una volta, ed è stato anche un evento, un happening in realtà, poiché c’era la gente, che è diventata matta per questo. L’abbiamo gonfiato e l’abbiamo lasciato lì, ed è durato, nel senso che si accendeva e si gonfiava e gli spettatori potevano “interagire”. Il “grande oggetto pneumatico” era installato su una parete bianca ed era stato ideato il 15 gennaio 1960. Costituito da 7 tubolari in PVC trasparente di lunghezza da 6/8 metri in cui era alternativamente immessa o inspirata aria. Questa è una delle tante revisioni realizzate in Germania, uno sono io, l’altro è De Vecchi e l’ultimo in fondo è Boriani. Colombo non c’è, perché è il primo che ci ha lasciati. E adesso arriviamo ad Asolo, in Veneto. Ci sono dei fenomeni occasionali che possono essere raccontati. Siccome gonfia tori utilizzati servono appunto per gonfiare soprattutto quei giochi dei bambini in plastica dura, di dimensioni notevoli, che, siccome erano

Jean Tinguely, Metamatic.

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troppo potenti per le nostre installazioni, si rompevano ed in mano avevo lo scotch per riparare le falle. 11-In che misura è importante, nelle sue opere, il fattore “tempo”? Gruppo T vuol dire “Gruppo Tempo” e nella dichiarazione, nel “Manifesto” che abbiamo scritto allora, si spiega come il tempo – e non solo quello – abbia profondamente influenzato le nostre realizzazioni. Vi ho parlato, se vi ricordate, della mostra e della “Superficie di combustione”, per esempio, era un’installazione appunto, dove c’era una sorgente di calore molto forte, un vecchio fornello elettrico a resistenza, vecchio nel senso di allora, adesso sono metallici. All’epoca lasciavano in vista passare il calore, la resistenza era arrotolata ed era appeso al muro. Davanti a questa fonte di calore venivano appesi dei telaietti, sui quali c’erano dei motivi semplicissimi, delle righe, dei quadrettini, e la superficie era di una plastichina bianca, piuttosto leggera, con questi disegni sopra che con il calore si scioglieva. Le righe pertanto si deformavano e l’opera di Vasarei finiva per diventare ricca di buchi di plastica bruciata di dimensioni differenti. Un’opera molto vicina come concetto all’opera di Jean Tinguely. Uno dei suoi maggiori capolavori si chiama “Metamatic” ed era un motorino con un braccio elastico, di acciaio-molla, al quale era attaccato un pennarello e con un foglio di 203


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carta e un motorino che consentiva di realizzare dei bei quadri. Solo questo lavoro ha tale accezione, perché tutti gli altri non avevano questo carattere di “metamatici”. Generalmente, se un visitatore arriva in una mostra, si aspetta di trovare le opere degli autori. Ebbene no; noi nella prima sala della Miriorama 1, che è in realtà una specie di “introduzione” critica, ottenuta però grazie a delle immagini. Non avevamo un critico, e in quell’occasione l’abbiamo fatta noi stessi l’operazione critica, dunque abbiamo raccolto una serie di autori, degli stralci del “Manifesto futurista” di Marinetti, degli stralci di “Punto linea superficie” di Kandinsky, “Teoria della forma e della figurazione” di Paul Klee, il “Manifesto blanco” di Lucio Fontana e poi c’era tutta una serie di immagini di opere cinetiche. Ma da che cosa erano caratterizzati tutti questi testi? La parola “tempo” era centrale. Punto-luce-superficie si occupa proprio del tempo e moltissimo se ne occupa Klee. Il manifesto tecnico dei futuristi e quello di Fontana parlano di spazio e di tempo (addirittura in Argentina con i suoi studenti). Però, come dicevo, noi non siamo stati i primi a fare le opere cinetiche. Nel periodo dell’avanguardia storica, ci sono stati una serie di autori che hanno già fatto opere dinamiche: Nikolaus Pevsner; lo stesso Duchamp ha fatto, a parte i giradischi che realizzano degli effetti ottici, anche delle opere cinetiche molto impegnative. Quelle non le avevamo ovviamente in originale e siccome avevamo pochi soldi non potevamo neanche fare foto o ingrandimenti, ma semplicemente avevamo i libri aperti su di un 204


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vetro. La nostra fortuna è stata che il fratello di Gianni Colombo, Giò Colombo, era stato uno dell’avanguardia ed era già un professionista del design e aveva un po’ di soldi ed era stato un esponente dell’arte nucleare e quindi aveva raccolto tutti questi bellissimi libri dell’avanguardia, che poi abbiamo sfruttato. L’immagine scelta è di Brancusi, che era sempre dello stesso periodo di Colombo, e aveva fatto un’opera che si chiama “Colonna senza fine”, realizzata con un immenso tronco d’albero sagomato, talmente alto che quasi non si vede la fine. Questo è il simbolo del tempo, della crescita. Non ci siamo limitati a questo, abbiamo chiesto nell’entourage delle nostre amicizie, più o meno vicine e lontane, opere a diversi artisti: a Fontana l’opera del taglio, con un movimento di gestualità, a Pierino Manzoni “la linea”, che faceva con dei contenitori cilindrici. Era una linea arrotolata e sigillata che non dovevi aprire, dentro c’era appunto una linea, lunga un tot di metri, disegnata da lui e lì c’era il tempo, un tempo congelato e reso invisibile. Altro esempio è un’opera di un bravissimo pittore, Enrico Bai, che poi ha svoltato radicalmente e ha avuto una trasformazione neofigurativa (è quello che fa i generali in passamaneria, dei “pupazzoni”) ma in quel momento veniva fuori da una ricerca sulla materia e ha fatto un piccolo gruppo di opere meravigliose che sono “gli specchi”. Sono specchi frantumati dove lo spettatore si vede dentro e si muove, un’opera “avantissima”, non il Bai dei generali, ma di quell’opera lì che rappresenta la temporalità. Ed ancora c’era un opera di Tinguely, uno scultore/artista che a quell’epoca faceva delle 205


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opere fatte così: prendeva una tavoletta nera, c’era un fil di ferro costruito con degli ingranaggi neri dipinti di nero e appoggiate e al di sopra degli ingranaggi filiformi, c’erano delle forme bianche a goccia che si muovevano con un motorino. E poi in ultimo, ma non ultimo, c’era un’opera di Bruno Munari, noi non lo conoscevamo bene, ma aveva fatto opere diversissime tra l’altro dalle opere di Calder, c’era anche lì un’immagine dinamica che girava. Eravamo andati a chiedergli una “macchina inutile”, meravigliosa che era fatta in questo modo: strisce in alluminio colorate, che sono appese una a l’altra con più fili di nylon, e ruotano. E’ un’opera bellissima, meravigliosa. Siamo andati a casa sua, nel suo studio, abbiamo fatto amicizia (lui ce l’ha data volentieri) e quando è entrato e l’ha vista appesa vicino alle nostre opere pneumatiche è stato molto contento e si è accorto di essere un caposcuola perché alcune opere erano molto vicine all’arte cinetica, così come la intendeva lui. Di questi artisti qui che abbiamo ricordato, i più vicini erano per l’appunto Tinguely e Munari. Fontana e gli altri si occupavano del tempo ma non della metamorfosi. Era il tempo che si trasforma; anzi, noi parlavamo allora di “variazione”. Un’altra cosa che si può aggiungere era: “da dove proviene il concetto del tempo?” Rispetto a tutti gli altri miei colleghi, io in particolare avevo fatto studi classici, frequentando il liceo classico ed ero stato iscritto un paio di anni a filosofia. Boriani stesso ricorda che gli ho prestato il libro di un filosofo francese, Bergson, padre del divenire. Avevo interessi molto forti in questione. 206


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Un tema che risultava essere di attualità all’epoca nel senso che veniva ampiamente trattato anche da un altro filosofo Husserl, capofila della fenomenologia. A Milano insegnava un docente che si chiamava Enzo Paci che era, non dico un suo seguace, ma certamente si occupava dello studio delle sue opere, lo amava, lo apprezzava e il corso che ho avuto il piacere di seguire quell’anno con Paci era dedicato ad un importantissimo libro di Husserl denominato “Le meditazioni Cartesiane”. La fenomenologia dà un ruolo fondamentale al tempo; nel sistema filosofico la questione della temporalità è essenziale, importantissima. Fra l’altro Paci stesso ha scritto un libro negli anni ‘60 che sarebbe attuale ancora adesso, intitolato “Tempo e relazione”. Con ciò voglio asserire che la questione Tempo è centrale per noi, centralissima. Ci son due pensatori che si concentrano sul concetto del tempo e sono: Bergson che parla di “durée”, della durata diversa del tempo cronologico e del tempo interiore, poi c’è Edmond Husserl che è il capostipite.

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6_ Conclusione

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6_CONCLUSIONE

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6_ Conclusione

Ciò che distingue gli architetti dagli ingegneri è proprio il fatto che le forme architettoniche sapranno commuovere perchÊ rappresentative di un significato propriamente umano. Le Corbusier (1887-1965)

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Per arrivare ad una conclusione dell’approfondimento intrapreso – riguardo tutto ciò che è propedeutico e afferente all’architettura pneumatica – è bene ribadire che attualmente l’architettura vive una non facile vita, attraversata come è da evoluzioni e involuzioni frequenti e quasi condizionata dal numero eccessivo, almeno in Italia, di architetti. Tuttavia, “nonostante” difficoltà e incertezze non indifferenti, l’architettura sta affrontando con notevole coraggio le nuove problematiche, sociali e culturali, nate proprio in questo Terzo Millennio, ormai avviato: l’architettura oggi si ricava una propria nicchia e si riserva uno spazio “autonomo”, entro il quale poter creare ancora il “bello”, ovviamente in forme nuove. Una di queste forme, decisamente nuove (pur se nulla è del tutto nuovo, mai), è appunto l’architettura pneumatica. L’intento, in questo approfondimento, è quello di capirne il retroterra e l’entourage, per tracciare delle linee ideali, entro cui inserire questa tipologia di architettura. Per immetterci direttamente nell’idea (e nel simbolo) di “leggerezza”, sottesa all’architettura pneumatica, possiamo farci guidare sempre da Italo Calvino, il quale indica alcune declinazioni possibili di tale metaforica “rinuncia al peso”, che è prima di tutto “peso esistenziale”, peso del crescere in forme esorbitanti ed eccessive, senza peraltro un chiaro orientamento che guidi tale crescita e la proietti verso il futuro: Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda crescere l’impero. Prima

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6_ Conclusione

era stata la linea dei confini a dilatarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata dei reggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villaggi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, popolazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che il mio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, - pensava il Kan, - cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschi di melegranate che spaccano la scorza, zebù rosolati allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere che sgorgano in frane di pepite luccicanti. Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i granai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Carovane di schiavi hanno spostato montagne di marmo serpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico di ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve. “È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”, pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore. - Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, - dice a Marco. - In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di

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meteoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglie d’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Luna nel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’altro, o dondolare appena ai cavi delle gru. E Polo: - La città che hai sognato è Lalage58. Questi inviti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero perché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere e ricrescere senza fine. - C’è qualcosa che tu ancora non sai, - aggiunse il Kan. – Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privilegio più raro: crescere in leggerezza .59

Il concetto chiave veicolato in tutto questo singolare romanzo, Le città invisibili, è che bisogna “crescere in leggerezza 60”, cioè “crescere dentro”, “crescere in consapevolezza e in forza interiore”, molto di più di quanto si cresca al di fuori in ricchezza, ornamenti e cose futili, quindi in “peso”. Le città piene di vani ornamenti “pesano sulla terra e sugli uomini”. La 58

Il nome della città, Lalage, allude al termine “lallare”, cioè “mormorare” un canto per addormentare i bambini. C’è dunque già nel nome prescelto la funzione di dolce leggerezza e di invito a cose buone, quindi “leggere” come il sonno dei bambini. 59 Cfr. Italo Calvino, op. cit., pp. 73-74. 60

A livello retorico, l’espressione “crescere in leggerezza” è un ossimoro, che riesce a veicolare insieme il concetto di leggerezza e di peso, che si ha quando si cresce. La leggerezza diventa chiaramente un simbolo, che fa pensare a una crescita dentro finalizzata a divenire più leggeri, più flessibili e adattabili alle vicende. 213


6_ Conclusione

“leggerezza” invece rimanda all’essenza e l’essenza è tanto più potente e indispensabile, quanto più è scarna e “adattabile” a tutto. Il grande pensatore rinascimentale Machiavelli (1469-1527) individuava, nella capacità stessa di “adattarsi e rinnovarsi” continuamente, la preziosa capacità di vincere e di vivere, in modo profondamente vero. Una forma di “adattamento ai tempi moderni” e di rinnovamento palese della scienza architettonica tradizionale sembra poter essere proprio l’architettura pneumatica, che è pertanto da conoscere bene e da analizzare a largo raggio, sia in rapporto ai problemi propri della disciplina del costruire, sia nei suoi collegamenti e interdipendenze con le caratteristiche e gli orientamenti della cultura più recente. Proviamo quindi a stabilire una forma di embrionale “contestualizzazione culturale” dell’architettura pneumatica, ricavabile dalle letture effettuate. Molti sono stati gli studi che ci hanno guidato a riflettere sulla qualità della vita odierna e quindi sull’attuale modo di pensare, ma uno in particolare ci sembra che abbia ben sintetizzato la “peculiarità” della cultura odierna, ponendola in dialettico confronto con la cultura del passato. Si tratta di uno studio, portato avanti durante un seminario tenuto da Dino Formaggio e intitolato La forma e il tempo. L’Architettura della temporalità. L’essenza del discorso si rinviene nella chiara distinzione della cultura del passato, intesa come cultura dell’essere e della “forma”, rispetto alla cultura odierna, interpretata come

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cultura del divenire61 e quindi del tempo. Il che è come dire che “le scoperte scientifiche hanno modificato il modo di pensare dell’uomo moderno” e stanno ancora modificando la nostra cultura, rendendo dominante l’idea del mutamento e del movimento. In realtà Dino Formaggio si occupa di “progetto, forma e tempo” e “vuole sondare la direzione da far prendere al progetto”, nel conteso di vita attuale: egli pone la “forma” nel punto di intersezione tra tempo (ora quantitativo o dell’orologio e non più qualitativo, come il tempo della cultura contadina) e progetto, in quanto la forma lega il progetto alla temporalità. L’emergere dei concetti di mutamento e di movimento, anche in ambito architettonico, reca con sé interrogativi svariati, tutti da affrontare e da cercare di portare a soluzione. Secondo Dino Formaggio il nucleo del procedimento euristico sta nel chiedersi quale è il significato, a livello umano (poiché Le Corbusier ricorda che l’architettura ha “un significato umano”), del mutamento, per arrivare poi a capire che cosa significano movimento e tempo per chi progetta, per colui che fa, agisce, mette le mani sul materiale e lo trasforma. Sta di fatto che in passato l’architettura era l’arte dello spazio ed oggi è l’arte del tempo. Oggi lo spazio viene ovviamente considerato, ma è uno spazio in fieri, visto e concepito nel suo divenire: di conseguenza va pensato come “trasformazione”, come metamorfosi 61

Ricordiamo che il confronto tra essere e divenire ha animato la cultura filosofica greca antica: Parmenide sostiene l’Essere, mentre Eraclito interpreta la realtà con la categoria dominante del Divenire. 215


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incessante e continua. Se aumenta la velocità nel nostro mondo, si incrinano le “forme” fino appunto a giungere all’informale, nelle sue varie percezioni e declinazioni. Ora, nel progettare, ci si basa dunque sulla dinamica della temporalità. Di conseguenza ogni prassi progettuale deve prendere atto del nuovo senso del tempo e della sua centralità entro la cultura del divenire e porsi quindi “consapevolmente” di fronte ai problemi delle velocità tecnologiche. Muovendo da queste osservazioni generali sul nostro modo di pensare, si è poi scelto un preciso percorso di studio, prendendo in considerazione alcuni architetti e teorici dell’architettura, che abbiano appunto collegato il pensiero e la ricerca sperimentale all’attuazione pratica, mediante l’installazione architettonica. Dato che il punto nodale dell’architettura è l’installazione, che si colloca nel tessuto urbano, ci siamo soffermati dapprima sulle teorie di Massimiliano Nastri e di Aldo Rossi, per quel che concerne il progetto e l’installazione, viste nel loro legame costruttivo e interattivo con il “luogo”. Aldo Rossi interpreta l’architettura come “la scena fissa delle vicende dell’uomo”. Egli parla di architettura come “segno” tracciato dall’uomo entro la trama della città, perché questo segno possa interagire con la vita dell’uomo stesso e scandire il ritmo delle sue azioni. L’architettura è allora “intelaiatura”, impalcatura e sostegno del vivere umano, a cui contribuisce a dare significato. Non è poco, a livello di “responsabilità”, per chi si accinge a progettare. 216


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Massimiliano Nastri pone l’attenzione sull’installazione architettonica e sottolinea il fatto che la matrice essenziale del progetto è il senso del suo muoversi verso la produzione. Vi è infatti una dinamica che conduce il progetto “da con-duzione a pro-duzione”, nel momento stesso in cui si compie il “disvelamento”, per cui ciò che era nel luogo solo una possibilità di essere diviene invece concreta realtà. Si ha così la “presentificazione”: viene infatti “provocata” e perciò chiamata fuori “una possibilità insita nel luogo”. Il luogo ha quindi funzione orientatrice nei confronti del progetto, tanto più quando si tratti di luogo da “riqualificare”. In questo ordine di idee il composto architettonico altro non è che “l’oggetto possibile”, che trascende formalmente i contenuti e i fenomeni del contesto, cui pure si ispira. Al luogo si collega l’idea di genius loci, in tutta la valenza allusiva e simbolica, per cui al luogo si attribuisce vita propria e piena sacralità. Abbiamo poi cercato di conoscere meglio le figure dell’architetto svizzero Bernard Tschumi e dell’architetto inglese Cedric Price, importanti per gli influssi che hanno esercitato sulle generazioni future e per gli sviluppi della disciplina che hanno avviato. Entrambi sono attenti alle dinamiche del vivere moderno e alla necessità di interpretare i nuovi bisogni della società post-industriale, senza peraltro rimanerne condizionati e limitati. Secondo Tschumi, l’architettura deve salvaguardare la propria natura e autonomia, isolandosi dalla società consumistica e affermando la necessità della propria “nonnecessità”. Il prodotto del progetto architettonico va al di là della propria funzione o utilità, 217


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dal momento che è strumento di comunicazione, con un alto valore di “interrelazione”. L’architettura è “ricerca del piacere”, nel senso che è libertà che si pone nel mondo e si autoafferma. Nell’ambito della teorizzazione architettonica, Tschumi contribuisce a spostare l’attenzione dall’usuale linguaggio dell’architettura, per convogliarla sull’idea di “evento”, inteso come momento di “fruizione” dell’installazione e di “dialogo”, ora reso possibile e pienamente compiuto, tra manufatto e uomo. Cedric Price può per certi aspetti essere considerato una sorta di “modello” per Tschumi, poiché quando l’architetto svizzero si reca a Londra (1970) è assai vivo il dibattito sul Fun Palace, che si proponeva come “laboratorio del divertimento”. Come altri giovani architetti, anche Tschumi riflette sulla funzione innovativa di tale progetto, pur non attuato. Ciò che colpisce in Price – al di là della ostentata eccentricità con cui prende le debite distanze dai valori e dai riti cari alla massa – è la sua attenzione ai problemi imposti proprio dalla “cultura del divenire”, se vogliamo usare la terminologia proposta da Dino Formaggio. Egli è invero molto sensibile anche ai problemi della “sostenibilità” e della riqualificazione di zone dismesse, come le vecchie fabbriche di ceramiche in mezzo alle quali è cresciuto. Infatti, per esse prevede una singolare riqualificazione, volendo destinare quei luoghi e quegli spazi alla nuova funzione di Università itinerante, una sorta di “regno di istruzione superiore”: Potteries Thinl Belt (1964). 218


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Va riconosciuto che Price ha capito bene che ormai gli edifici devono essere costruiti in forme adattabili a “possibili usi futuri” e devono essere funzionali ad un futuro incalzante e imprevedibile. A lui fa capo la cosiddetta “architettura anticipatoria”, collegata alla “architettura impermanente” e improntata alla regola della massima e ben meditata “flessibilità”. Tutto si rinnova e quindi muta anche la destinazione di ciò che è stato costruito e pensato per essere più volte rinnovato. Per Price l’architetto è ormai “l’agente del cambiamento”, che anticipa le esigenze della società ed escogita sistemi di costruzione sempre nuovi e sorprendenti per la loro massima flessibilità e fungibilità. Se ci si pone dal punto di vista del fruitore, la nuova installazione deve essere in grado di “far pensare l’inimmaginabile” (Allow us to think the unimaginable). Sia Tschumi sia Price sono sensibili ai temi dell’innovazione tecnologica e con la loro ricerca disciplinare rappresentano la vera premessa all’architettura pneumatica, che si avvia prima all’estero e più tardi in Italia, avendo come punto di riferimento le dichiarazioni dei futuristi e riconoscendo come promotore del nuovo indirizzo Giovanni Anceschi e il “Gruppo T”, di cui è Anceschi si dichiara ispiratore. Della nuova forma di architettura pneumatica, avviatasi negli anni ’60, si è scelto di considerare in particolare la contestualizzazione culturale e tutto ciò che concerne l’esperienza e le idee di Anceschi, perché il settore è molto vasto e va di necessità ridefinito e segmentato. Si è quindi preso in esame il panorama teorico di riferimento più che 219


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l’attuazione pratica, con l’attenzione rivolta alla ricerca epistemologica. Ci si è dunque dedicati, in via propedeutica, a tutto ciò che rende problematico e variegato oggi l’ambito della disciplina architettonica, per poi poter meglio ascoltare il discorso di Anceschi, nutrito non solo di idee, bensì anche di esperienza maturata sul campo. È questo un percorso dalla “teoria” (nel senso più ampio del termine) fino alla “prassi architettonica odierna”, alimentata appunto dalle idee e germinata entro un variegato retroterra. L’intervista vuole collocarsi pertanto come momento chiave e risolutivo del nostro approfondimento; essa va rimeditata attentamente per poter meglio capire l’oggi, le sue dinamiche e tensioni interne. Si è dunque capito che, per arrivare al momento della progettazione e dell’installazione, è bene aver studiato molto, anche se poi, come dichiara Casati, bisogna affrancarsi da quanto si è studiato, senza peraltro dimenticare nulla di quello che si è appreso. Il nodo sta nella progettazione architettonica e, soprattutto, nello sviluppo dell’installazione architettonica. È entro il tessuto urbano che si colloca l’installazione architettonica, come dice Aldo Rossi, ed è sempre entro la vita della città che si misura sia il cambiamento sia la permanenza, affidata in primo luogo ai monumenti. Massimiliano Nastri rimarca la necessità della multidisciplinarità, la quale funge da vero pilastro rispetto all’installazione: l’architetto si avvale di un continuo processo di inputoutput, in un lavoro che lo porta dalla conduzione (e derivazione di spunti molteplici”) 220


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fino alla produzione di nuovi manufatti, che genereranno “eventi” nella città. L’apporto di Tschumi alla disciplina architettonica è rilevante sia sotto il profilo teorico e ideativo, sia nell’ambito dell’attuazione concreta del progetto. Questi due momenti interdipendenti sono resi pienamente intellegibili mediante la metafora di “piramide” e di “labirinto”. Nella piramide si colloca idealmente il momento mentale del progetto architettonico, mentre nel labirinto possiamo identificare il momento attuativo e concreto. Venendo ad esaminare le posizioni, quanto vuoi eccentriche ed originali, di Cedric Price, è possibile focalizzare l’attenzione sul fattore temporale nell’architettura, vera premessa imprescindibile per l’architettura pneumatica. Molte sono state e sono le realizzazioni dell’architettura pneumatica, ma ciò che più conta, al di là di una valutazione di pregio e di possibili sviluppi futuri, è la riflessione sul “tempo” che gli architetti di questo indirizzo hanno sviluppato e che sembra ora imporsi come basilare. Dino Formaggio, come si è detto, nel riflettere sulla realtà attuale, la vede condizionata dalla velocità, tanto che cambia perfino il paradigma di riferimento esistenziale. Il passato era collocato – come già detto – entro una cultura dell’essere, mentre il nostro presente è regolato dalla cultura del divenire, una cultura che affascina ed affanna nello stesso tempo. Ribadiamo che è stata molto importante l’intervista a Giovanni Anceschi, un artista (come egli si definisce), che ha attraversato da protagonista il mondo dell’arte, dedicandosi sia 221


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al design sia alle installazioni pneumatiche: egli ci ha fatto toccare con mano l’intensità e la vivacità del panorama culturale degli ultimi decenni. In particolare ci invita a riflettere l’enfatizzazione, da parte di Anceschi, del concetto di “ambiente”, concepito come “spazio abitato”, come luogo dove il tempo coesiste con lo spazio e con l’evento. Con il sostegno delle parole vive di Anceschi e delle teorie attentamente considerate, si è venuta costruendo dentro di noi la convinzione che il ruolo dell’architettura nel mondo odierno è ancora saldo e importante, a patto che l’architetto accetti la “sfida del divenire” e del cambiamento: come muta il quadro di riferimento sociale e culturale, così devono mutare la teoria e la prassi architettonica. Per noi giovani l’impegno va rivolto soprattutto a cercare di capire, il meglio possibile, il cambiamento in cui siamo immersi, per riuscire in qualche modo a guidarlo, senza farci travolgere da esso. Per chi intende progettare è fondamentale fare esperienza, teorica e pratica, del contesto, cioè della realtà in cui metterà mano. Vale allora la pena di capire l’essenza delle installazioni pneumatiche, perché rispondono alla nobile aspirazione alla “sostenibilità” e perché si inseriscono con dignità e con piena originalità entro il vortice di forme e di sperimentazioni del nostro tempo, reso incerto e instabile dal “divenire” che lo caratterizza. Noi dobbiamo collegare sempre passato e presente, ma dobbiamo anche rimarcare la differenza e “inventare” soluzioni per una realtà difficilmente comparabile con quella del 222


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passato. È impossibile oggi non tenere conto di tutto quello che ci impone la velocità tecnologica. L’architettura nella cultura del divenire non può perciò far altro che rapportare, in forme quanto vuoi libere e autonome, progetto e tempo. È questa la “nuova responsabilità”, nonché la sfida, per l’architettura, e quindi per gli architetti, oggi. L’architetto, per poter intervenire nel contesto attuale dell’urbanistica, non può che cercare di chiarire a sé stesso i termini delle nuove relazioni che caratterizzano la città e rapportarsi alla nuova scala, designata dall’attuale vita urbana. Chi si accinge a progettare deve sapere dove va a mettere le mani, deve aver sondato bene “la direzione” da far prendere al progetto e deve aver meditato il “significato umano” che vuole veicolare con esso. Spetta infatti proprio all’architetto avere accurata considerazione di tutti “gli aspetti umani” della realtà, per conservarli ed arricchirli ulteriormente di significato. Posti come siamo nel vivo della cultura del divenire, dobbiamo lavorare per forza con l’architettura del mutamento e del tempo e ridefinire ancora il rapporto intercorrente tra progetto e tempo: è proprio questo che ci viene insegnato dall’architettura pneumatica. Tutto sta a riuscire a rendere interdipendenti – in modo significativo e creativo – forma, progetto e tempo, all’interno della cultura architettonica del divenire. Conta dunque in primis la direzione da far prendere al progetto, in un realizzato incontro di molteplici saperi, per meglio agganciarci all’oggi, senza esserne sopraffati, ma rimanendo in grado di capirlo e di guidarlo, in una continua verifica e in un continuo 223


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“rinnovamento”. Progettare è comunque un “ponte” che si getta con lo scopo di collegare passato e futuro, attraverso un presente al massimo dinamico e ricco di voglia di esprimere significati sempre nuovi e da rinnovare. Se l’architettura rispecchia la società e se la società muta velocemente, è inutile dire che anche il progetto deve inserirsi in questa dinamica di trasformazione e di innovazione. Ciò che conta è mantenere viva l’attenzione critica, quindi consapevole; è dunque essenziale non perdere di vista il percorso compiuto, per migliorare quello che ancora resta da compiere.

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Ambiente Con il termine ambiente si designa comunemente la totalità dei rapporti e degli stimoli naturali e sociali, che influiscono sulla vita e sul comportamento. A tale termine Giovanni Anceschi attribuisce una connotazione particolare e lo pone a confronto con il termine “spazio”, molto più usato in architettura. Per Anceschi “ambiente” definisce qualcosa che va visto in riferimento allo “spazio abitato”, allo spazio vissuto; quindi l’idea di ambiente riveste per lui e per il suo gruppo, “Gruppo T”, un interesse tutto particolare. Nella nostra attuale realtà anche l’ambiente, come ogni cosa, è soggetto a grande e continua “variabilità”.

Architettura A livello di stretta definizione è “l’arte di dare forma e di realizzare spazi fruibili per le necessità dell’uomo. Il concetto di architettura rimanda non solo al costruire, ma anche all’ideare e progettare. È l’atto per eccellenza in cui si mediano scienza e arte, in un continuo convertirsi dell’una nell’altra; l’architettura va quindi considerata in connessione con le teorie artistiche e con le arti figurative. Vi sono interrelazioni anche con le tecniche di progettazione e di rappresentazione e con i materiali di costruzione Nell’interpretazione di Cedric Price, l’architettura non è una scienza rivolta alla realizzazione dell’edificio finito, bensì è la capacità di consentire e facilitare il “cambiamento”, in un mondo che cambia fin troppo velocemente; l’architettura trova la sua vitalità, in primis, nel permettere a noi

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di “pensare l’inimmaginabile”. Comunque, sempre secondo Cedric Price, l’architettura è troppo lenta a risolvere i problemi Tschumi, già nel periodo londinese, vuole superare l’idea di architettura come forma, per individuare invece in spazio, movimento e uso, l’essenza dell’architettura. Tale orientamento sarà poi approfondito. Edoardo Vittoria dà una singolare definizione di architettura: “è energia ricavata dalla natura, forza produttrice che trasforma (attraverso l’azione pratica) la stessa natura (o materia), innovando spazi, luoghi e tempi dell’abitare”. Per meglio capire la complessità della disciplina, oggi, occorre rimarcare la multidisciplinarità e gli attraversamenti transdisciplinari che l’hanno attraversata e la attraversano, come sottolinea Massimiliano Nastri. In questo è in piena concordanza con la più recente “mescolanza dei saperi” e con lo sconfinamento da un ambito disciplinare all’altro. Oggi, la professione di architetto è ben lontana da un profilo standard fisso, poiché fare architettura significa tra l’altro anche adoperarsi per allestimenti e installazioni, dentro e per la città, superando il concetto tradizionale di costruzione del “monumento. Nella nostra epoca, dominata da un tempo accelerato e volta alla comunicazione globale polimorfa, il campo della scienza architettonica arriva a comprendere interior design, allestimento, scenografia, grafica, nuove emergenti discipline che interfacciano la dimensione globale postmoderna.

Architettura pneumatica È un particolare orientamento dell’architettura moderna. Si avvia tra gli anni ’50 e ’60 ed ha

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premesse significative negli atteggiamenti rivoluzionari delle avanguardie artistiche del ‘900 e nelle riflessioni di vari studiosi, tra i quali gli architetti Cedric Price (che si occupa del fattore “tempo”) e di Bernard Tschumi (che si occupa di “evento e movimento”). Al momento sta vivendo una fase di assetto e di transizione, pur conservando la sua vitale spinta innovativa, in linea con le esigenze del nostro mondo. Propriamente, “pneumatico” (pneumaticus, riguardante l’aria) rimanda a qualcosa che è relativo appunto all’aria. Nel linguaggio tecnico, l’aggettivo fa riferimento a organi o dispositivi nei quali l’aria (o altri aeriformi) agisce come mezzo o fluido intermediario per compiere una data azione. L’architettura pneumatica ha trovato applicazione nelle “coperture pneumatiche”, realizzate con “involucri” impermeabili e flessibili, in cui l’aria interna è mantenuta in pressione leggermente superiore a quella atmosferica, così da permettere il massimo sviluppo della loro superficie. Sono state sperimentate anche delle “fondazioni pneumatiche” per la realizzazione di fondazioni profonde, in terreni invasi dalle acque. Entro il dibattito ideologico afferente a tale orientamento, si ribadisce che l’architettura non è solo ciò che è abitato sedentariamente, ma anche ciò che può essere praticato, vissuto ed esperito, temporaneamente. C’è stata una “ibridazione”, cha sta dando vita a nuovi oggetti e spazi.

Architettura sostenibile Oggi, in linea con le nuove responsabilità di una cultura del divenire e della globalità, in primis

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l’architettura si pone la regola inderogabile della “sostenibilità”, cioè del non “consumare” spazio arbitrariamente e del non “gravare” sul problema ecologico, di per sé serio e assai articolato. Per essere “sostenibile”, l’architettura deve essere “a impatto zero”. Per quel che concerne l’architettura pneumatica, le architetture che utilizzano le “membrane” devono osservare sei princìpi di sostenibilità: conservazione delle risorse attraverso il risparmio energetico; il “riuso”; il “riciclaggio”; la protezione della natura; la “non tossicità” dei materiali; la “qualità”.

Arte Produzione o creazione di opere belle mediante il lavoro dell’ingegno; è dovuta a una tendenza radicale e costitutiva dello spirito umano. L’arte si distingue dall’operare della natura, dalla scienza e dalla tecnica. Price ricorda una buona definizione di arte: “l’arte non deve essere un oggetto, ma una scusa per il dialogo”.

Autonomia È la condizione di chi risponde a legge propria (opposto è il concetto di eteronomia). Molti studiosi, tra cui Massimiliano Nastri, ribadiscono la condizione irrinunciabile di autonomia dell’architettura, pur nella regola della multidisciplinarità e nella cultura del divenire.

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Azione Capacità umana volta a modificare la realtà per fini di vario tipo e genere. L’idea di azione viene contrapposta ai concetti di pensiero e di contemplazione.

Cambiamento Rimanda all’idea di avvicendamento, inerente alla realtà nel suo insieme. Nel “concentrato”, dice Price, occorre ridefinire quegli accessori fisici che si rivelano preziosi “agenti di cambiamento” per i cittadini. È necessario “dimensionare il ritmo del cambiamento” e valutare le opportunità di variare la velocità del cambiamento.

Città Secondo Aldo Rossi la città, nella sua impalcatura ed essenza, viene a coincidere con l’architettura. Secondo Cedric Price una città che non cambia equivale ad una “città morta”. Nel progettare per la città va posta in primo piano la “fluidità”, per evitare che la città diventi sempre più un museo. Ancora Price dice che “le città esistono per i cittadini e se non funzionano per i cittadini muoiono”.

Comunicazione Il termine sta acquistando sempre maggiore rilevanza nella nostra società e sta a rimarcare la

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capacità di trasmettere a livello informativo un messaggio o dei pensieri. Molta enfasi si effettua oggi sul concetto di “design della comunicazione”, cioè sul mondo della pubblicità veicolata da manifesti, disegni e media affini. Per Anceschi, il manifesto (ad esempio Bal au Moulin de la Galette, di Renoir) è un “artefatto comunicativo”.

Concentrato Nell’idea di Cedric Price tale termine dovrebbe andare a sostituire, nel XXI secolo, quello di “città”, ormai obsoleto e inadeguato. La parola città è troppo “debole” per poter essere associata a quelle che sono le trasformazioni urbane in atto. I concentrati, dichiara Cedric Price, sono definiti dall’intensità della popolazione entro un arco di tempo stabilito e non dall’area di una particolare densità di una forma costruita. In questo modo la rilevanza sociale dell’architettura ha un obiettivo e il suo ruolo risulta accresciuto. Nel termine “concentrato”, dice ancora Price, vi è implicita la consapevolezza umana del “tempo”, trasformata in un nome che si collega allo spazio. Tuttavia, poiché la città cambia continuamente, anche la parola che la indica e definisce deve essere una parola in mutazione perenne.

Congiuntura Significa prima di tutto unione o circostanza. Nel contesto delle riflessioni teoriche di Dino

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Formaggio sulla progettazione, il termine “congiuntura” sta ad indicare il luogo circostanziato (lì ed ora), in cui l’installazione va a collocarsi e a porsi come “evento”. Così, il progetto viene “immerso nel mondo della congiuntura, di ciò che è elemento circostanziato, lì, in quel luogo”.”

Dialettica È la sostanza delle relazioni umane corrette; è infatti dialogo e confronto in un processo di osmosi tra idee ed esperienze distinte.

Disvelamento Equivale a togliere il “velo” e rendere manifesto un messaggio latente nel luogo, mediante l’installazione architettonica. Il progetto rende dunque palese l’articolato ambito congiunto al genius loci e rivela le infinite possibilità che da esso si diramano. Il disvelamento è un modo di rendere presente ciò che era latente; è quindi una “presentificazione”.

Divenire In opposizione a “essere”, designa una serie di mutamenti, attraverso i quali l’essere esistente passa, nel suo sviluppo. L’essere esistente, l’essere che si sviluppa è un essere che diviene “altro”,

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che continuamente e progressivamente passa ad altro, che quindi in certo qual modo muta.

Effimero Il concetto di “effimero” (di un sol giorno) rimanda a tutto ciò che è di breve durata, labile e caduco. Usato nel settore dell’architettura, l’aggettivo indica una qualità dell’installazione, in particolare per quel che concerne gli orientamenti e le scelte dell’architettura pneumatica. Tuttavia, Anceshi fa notare che, talora, le installazioni dell’architettura pneumatica, pur essendo di per sé effimere, sono mantenute in vita.

Epistemologia È la disciplina che ha per oggetto l’esame critico dei princìpi, delle ipotesi e dei risultati, delle scienze, per stabilirne la validità e l’applicazione.

Essere In opposizione a “divenire”, indica ciò che esiste e sussiste stabilmente, nonostante i mutamenti che può subire.

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Estetica Settore dell’indagine filosofica che mira alla definizione e alla classificazione del fenomeno artistico. In ambito strettamente filosofico e teorico, per estetica si intende la scienza che ha per oggetto lo studio e l’apprezzamento del bello.

Evento L’evento si distingue dal “fatto” per il suo carattere probabilistico e contingente, che lo sottrae a ogni determinazione causale. Whitehead , in filosofia, ha parlato di “eventi puntiformi”, che costituirebbero i punti di un sistema spazio-temporale. Molti architetti riflettono sul concetto di evento. Per Tschumi, l’evento lo crea il fruitore dell’installazione, che assimila e interiorizza concetti e pensieri, indicati metaforicamente e simbolicamente dal manufatto architettonico. Per Anceschi, l’evento è qualcosa che succede e produce una variazione e una trasformazione. L’evento architettonico si viene a formare nel momento in cui c’è una persona che fa esperienza ed ha memoria dello spazio nel quale è entrata.

Forma È l’aspetto di un oggetto, sufficiente a caratterizzarlo esteriormente. Ad attribuire un valore

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specifico in filosofia al concetto di “forma” è stato soprattutto Aristotele, che la interpretò come l’idea che determina la materia (un masso di marmo prende forma di statua). Sul concetto di forma riflette Dino Formaggio, che vede l’idea di forma (nata entro la cultura greca, la forma inizia a recepire il senso del “movimento” solo al momento del tramonto della grecità) più confacente alla cultura dell’essere anziché all’odierna cultura del divenire, più attenta ai transiti da forma a forma (transiti interformali). Formaggio parla anche da forma a forma, poiché le forme si “trasformano” (trans); a questo passaggio egli attribuisce il nome di “trans-morfosi”, che rende l’idea meglio del termine metamorfosi. Tutto ciò rende palese il “divenire delle forme”. La trans-morfosi è incessante e inarrestabile

Funzionalismo In architettura, è un movimento che vuole ricongiungere l’installazione architettonica al problema della sua funzionalità e utilità.

Futuro La proiezione verso il futuro è la condizione stessa della vita. Price dice che è il dialogo a porre le persone a contatto con il futuro. Pensando al futuro, ognuno spera che possa essere migliore.

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Happening Spettacolo basato sull’improvvisazione e sul coinvolgimento del pubblico tutto nella rappresentazione.

Indeterminazione Il principio di “indeterminazione” viene posto da Price come filosofia di base nel progetto architettonico, che tenga conto del “fattore temporale”, posto in piena evidenza dal ritmo veloce di crescita della città

Interattivo L’aggettivo “interattivo” si collega e si definisce mediante il concetto di “interazione”, con cui si rimarca l’elemento reciproco tra due azioni. Giovanni Anceschi è attento a quanto si suole definire interazione e conia anche il termine “interattori”, per designare gli “attori” della scena architettonica. Gli interattori sono coloro che rispondono ai segnali dati dall’ambiente e sono quindi degli “spettatori attivi”.

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Input-Output Con il binomio input-output (introduzione-produzione) ci si riferisce, secondo Nastri, ai due momenti congiunti e inseparabili di interiorizzazione di idee e di estrinsecazione delle stesse mediante l’installazione architettonica.

Installazione L’installazione, cioè il progetto realizzato, diviene operativa sul piano della fruizione urbana, nel momento in cui chi la percepisce realizza dentro di sé un “evento”: l’installazione si pone ora come evento architettonico tout court.

Installazione pneumatica Alla base della concezione dell’installazione pneumatica va posto il fattore del “tempo” e del carattere mutevole e indeterminato dell’architettura: sono questi concetti che muovono dalla riflessione critica di Price sul tempo e sul divenire della città odierna.

Labirinto La metafora, impiegata da Tschumi, vuole alludere all’architettura come ricerca empirica, che si

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concentra sui sensi e sull’esperienza dello spazio, nonché sulla relazione tra spazio e azione. Il labirinto è il “labirinto” dell’esperienza sensibile, in più contesti e a più livelli.

Locus Il concetto rimanda alla percezione globale ed intima della “comunicazione” che dal luogo si muove verso il suo fruitore. In architettura vale come idea del luogo nella sua interezza ed essenza anche sacrale (genius loci): ogni architetto e in ogni tempo ne tiene conto. Secondo Loos, l’architettura “interpreta” il luogo. Secondo Dino Formaggio, è importante tenere in debito conto “le pregnanze materiali, circostanti al “dove” (locus) si va a collocare il progetto”.

Membrana Membrana indica il materiale dell’installazione di architettura pneumatica; per Anceschi, la membrana può comunicare “una sensazione meravigliosa”. Per Edoardo Vittoria il termine membrana rimanda a “qualunque forma di lastra sottilissima composta con materiale elastico”. Le membrane più sottili e più leggere che la natura ha dato di osservare sono le “bolle di sapone”. La più antica costruzione a membrana è la “tenda”, usata dai popoli nomadi: è una costruzione, che deve rispondere ad esigenze di “leggerezza e trasportabilità”.

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Metamorfosi Il concetto fa pensare in generale al “cambiamento” e alla trasformazione. Di per sé l’installazione architettonica genera sempre un cambiamento, da cui può anche generarsi una ulteriore modificazione, se si tratta di architettura pneumatica.

Mobilità Se analizzata in rapporto alle idee di Cedric Price e alle prospettive dell’architettura pneumatica, la “mobilità” esprime relazioni fisiche e materiali, ma anche immateriali, non visibili, che determinano comportamenti umani.

Movimento Di per sé comunica l’idea fondamentale di spostamento, associato a funzionalità o dinamismo.

Multidisciplinarità È l’essenza stessa del sapere, poiché nel mondo della conoscenza non vi sono settori stagno, bensì una continua correlazione di idee e conoscenze, che si arricchiscono e integrano a vicenda. L’architettura si realizza nel punto di convergenza, di dialogo e di incontro della multidisciplinarità,

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in quanto essa informa di sé e regola tutti gli ambiti cognitivi di ogni disciplina culturale.

Piramide La metafora della piramide, in Tschumi, indica l’architettura come cosa della mente. Secondo la terminologia platonica, equivarrebbe al momento noetico e speculativo della conoscenza.

Prassi La prassi è il momento operativo del fare concreto, del tradurre in pratica un pensiero. Potrebbe anche essere la congiunzione inscindibile di cognizione teorica e di tèchne attuativa.

Progettare Secondo Price “progettare” è un’azione di distorsione consapevole del tempo, della distanza e delle dimensioni. Se non realizza nessuna di queste distorsioni, è probabile che sia nient’altro che l’elaborazione dello status quo. L’apparente , ma irreale inevitabilità dello “spillo da balia” è la definizione di Cedric di “buona” progettazione. Il poco tempo può diventare un elemento importante nel processo progettuale consapevole, soprattutto per decidere se vi sia o meno il tempo di preoccuparsi di progettare quel dato strumento.

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Il processo progettuale, dice Price, è continuo. La natura di tale processo deve sempre riconoscere l’influenza sia del dubbio sia della moda (strutture ad aria a pressione verticale, suono e odore come elementi progettuali, bio-elettronica, tubi-ibridi in lega d’acciaio e plastica).

Progetto C’è sottesa l’idea del proicere o “gettare avanti”, o “mandare fuori” e rivelare, cioè rivolgere verso il futuro. Dice in proposito Dino Formaggio, “il progetto ha come fine di compiere, di portare a compimento, un oggetto o un evento. Anzi, l’oggetto è sempre un evento”.

Realtà Concetto mediante il quale si esprime la qualità di una cosa in quanto è , in sede oggettiva e soggettiva.

Spazio Nella consapevolezza epistemologica e critica degli ultimi decenni, è concetto in divenire nella sua definizione, dal momento che lo spazio può determinare molteplici interpretazioni in base a ciò che avviene al suo interno.

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Secondo Price, ed anche secondo Tschumi, lo spazio diviene una parte dell’esistenza stessa, quando un corpo umano viene a muoversi al su interno. Così concepito, lo spazio può determinare molteplici interpretazioni, in base a ciò che di volta in volta accade in esso. Cedric Price precisa peraltro che è indispensabile trasformare lo spazio in vantaggio pubblico.

Struttura Struere significa costruire e indica quindi tutto ciò che si pone entro lo spazio con una forma propria. Cedric Price congiunge all’idea di struttura (di per sé idea di stabilità) quella di movimento.

Temporaneità È il principio che vuole considerare la realtà non nella durata, ma nel frangente del tempo.

Tempo Per Cedric Price è la prima dimensione conoscitiva e descrittiva dello spazio. Cedric afferma che occorre “temporizzare” il futuro e tenere presente il fattore “tempo”, in ogni progettazione. L’uomo deve acquisire consapevolezza del tempo, la “quarta dimensione”: altezza, larghezza, lunghezza, tempo. Price è molto interessato alla “distorsione del tempo” che

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si produce quando qualcuno guarda un quadro, o guarda un film, o guarda una persona che dipinge. In un museo, ad esempio, puoi ammirare diecimila anni di storia egiziana. I musei sono una distorsione del tempo (la distorsione del tempo tra quando sono stati creati e quando sono stati messi in mostra). Nella riflessione di Dino Formaggio il tempo è il continuo e incessante “generarsi e trasformarsi di tutto”. L’idea di tempo è in stretta connessione con la cultura che la produce, per cui nelle varie epoche si proiettano specifiche idee di tempo.

Teoria È il momento del pensiero che esplica la sua forza e la sua libertà. La teoria formula princìpi generali relativi a una scienza, come la scienza architettonica.

Transdisciplinarità Muove dal desiderio di andare al di là di uno specifico nucleo concettuale e disciplinare. Ha come radice la convinzione che il sapere non può essere circoscritto in settori incomunicabili tra di loro. Il Fun Palace di Price è transdisciplinare per definizione, per la ricchezza e varietà di collaboratori coinvolti, tra cui Gordon Pask .

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_Bibliografia ragionata

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