l'Automobile Speciale Monza

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INNOVAZIONE I  MOTORI I  LIFESTYLE

Monza

La storia siamo noi

ne io iz ed

www.lautomobile.it

Anno 118°

Nuova serie • Anno 1 • Numero 0 • Settembre 2016 • Gratuito



EDITORIALE

Motori sempre accesi. Monza può valere un bis. Il circuito italiano è il tempio della velocità. È il luogo simbolo della cultura motoristica italiana. È un patrimonio storico e sportivo del nostro Paese. Per questo abbiamo deciso di ripubblicare, in questo formato digitale, il nostro numero zero, uscito a settembre dello scorso anno e dedicato a Monza e al Gran premio d’Italia. Per noi queste pagine sono state l’inizio di una grande avventura che oggi continua con soddisfazione e successo ed è un piacere condividerle gratuitamente con tutti voi. Una storia quella di Monza, dal 1922 ad oggi, raccontata attraverso le parole di colleghi e piloti che qui hanno vissuto una parte importante della loro vita professionale. Una storia sempre attuale, sul quale si è costruito il successo di oggi e quello di domani, grazie all’impegno finanziario (e non solo) dell’Automobile Club d’Italia. Una storia costruita per superare nella grande curva delle emozioni, altri circuiti autentiche leggende come l’americano Indianapolis o l’inglese Brooklands. Chilometri di pista creati in soli 3 mesi (chissà oggi quanti ce ne vorrebbero …) dove sin dall’inizio i piloti italiani hanno mostrato coraggio e talento, manifesto del nostro Paese

dell’epoca. Pensiamo ad esempio ad Alberto Ascari: dopo di lui nessun pilota italiano è diventato campione del mondo di Formula 1, un primato da interrompere il prima possibile. Una storia vissuta anche attraverso i protagonisti degli ultimi anni: da Tazio Nuvolari a Sebastian Vettel, passando per Juan Manuel Fangio, Mario Andretti, Niki Lauda, Ayrton Senna e Michael Schumacher. Proprio al pilota tedesco avevamo deciso di dedicare la nostra prima copertina. Un uomo ancora oggi al volante della monoposto più importante, quella della vita che qualcuno ti mette nelle mani e tu devi cercare di non far spegnere il motore. Lui che a Monza ha vinto più di qualunque altro, al di là di bandiere e team, ha ancora il tifo di tutti per vincere il gran premio più bello. Ancora un altro giro, Michael.

@AMarchettiT

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Sommario. Numero 0 | Settembre 2016

INCONTRI

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PerchĂŠ Monza.

A colloquio con Angelo Sticchi Damiani, Presidente ACI. Il passato, il presente e il futuro del Gran Premio d'Italia.

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STORIA

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Il podio planetario.

Il Gran Premio di Monza nella storia della Formula 1. Gli attori e le gesta nel tempio della velocitĂ .

10 1922-1952 14 Tazio Nuvolari. 16 1953-1963 20 Juan Manuel Fangio.

28 1978-1988 32 Niki Lauda. 34 1989-1995 38 Ayrton Senna. 40 1996-2006 44 Michael Schumacher. 46 2007-2015 50 Sebastian Vettel.

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52 Mad Max. INNOVAZIONE

58 Tecnologia condivisa. GRAPHIC STORY

60 1988: miracolo rosso a Monza.

22 1964-1977 26 Mario Andretti.

54 La mia Monza. Io ci sono stato. Ricordi e aneddoti di presenze eccellenti: Ivan Capelli, Andrea de Adamich, Gian Carlo Minardi, Frank Williams.

In copertina Michael Schumacher nei box della Ferrari durante le prove per il Gran Premio di Monza il 10 settembre 2004.

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INCONTRI

Perché Monza. ALESSANDRO MARCHETTI TRICAMO

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A colloquio con Angelo Sticchi Damiani, Presidente dell'ACI. Il passato, il presente e il futuro del Gran Premio d'Italia nella culla storica della velocitĂ mondiale.

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■  “Ho avuto la fortuna di vedere dal podio il pubblico, i tifosi che invadono la linea del traguardo con quella straordinaria e infinita bandiera della Ferrari, una emozione così grande difficile anche da raccontare. Per questo, quando sono stato chiamato in causa, non ci ho pensato un attimo per fare tutto il possibile perché quello spettacolo continui anche in futuro”. La passione è il motore. La folla, il carburante per farlo correre più forte. Le parole di Angelo Sticchi Damiani, presidente dell’Automobile Club d’Italia, la dicono lunga sul perché dell’impegno personale e dell’Ente sul Gran Premio d’Italia a Monza. Ricordi a parte, dell’importanza del circuito lombardo parla anche la storia. Dal 1922 ad oggi, solamente quattro edizioni della competizione automobilistica più prestigiosa del nostro Paese si sono svolte lontano dai cordoli monzesi. Non è un caso che nel mondo, tra le strutture ancora attive, solo Indianapolis insieme a Monza possa vantare una tradizione così lunga. Miti che non tramontano mai. Il ruolo di Renzi L’entusiasmo però non è tutto. C’è anche un ruolo ben definito. Fondamentale per portare avanti una “gara” come questa: “Dopo anni di incertezza – racconta ancora il Presidente dell’ACI - riguardo al prolungamento del contratto di Monza tra Bernie Ec6

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Aci Sport Italia.

INCONTRI

clestone, Fom (Formula One Management) e Sias (Società Incremento Automobilistico e Sport), nel 2015 il Presidente del Coni Giovanni Malagò alla presenza del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, mi chiese di interessarmi a nome dell’ACI per risolvere il problema, visto che, con un gesto a lui abbastanza inusuale, lo stesso Ecclestone mi aveva indicato come l’unica persona in grado di dare una soluzione alla questione”. Una investitura chiara per la quale tornare a indossare casco, tuta e guanti, tanto cari all’ex pilota di rally Sticchi Damiani: “Non c’erano dubbi sul mandato: lavorare al Gran Premio d’Italia a Monza”. Difficile tirarsi indietro. Figuriamoci poi se alle spalle si può contare sul tifo di una folla pronta a festeg-

“...i tifosi che invadono la linea del traguardo con quella straordinaria e infinita bandiera della Ferrari, una emozione così grande difficile anche da raccontare”. Qui sopra, il presidente dell'ACI, Angelo Sticchi Damiani a bordo di un'Alfa Romeo 6C del 1928 in occasione dell'edizione numero 100 della Targa Florio. Nella pagina seguente il Presidente, al Gran Premio d'Italia 2015, insieme a Sergio Marchionne, Bernie Ecclestone, Matteo Renzi, Gian Luca Galletti, Jean Todt e Giovanni Malagò. .


LaPresse.

giare di nuovo sul circuito monzese: “In quel momento davanti ai massimi rappresentanti del governo e dello sport ho assunto a nome dell’ACI l’impegno di trovare un accordo con Ecclestone per garantire la continuità del Gran Premio d’Italia a Monza, anche dopo il 2016”. Il sostegno d’altronde è totale: “Una volta ottenuto il via libera dal Consiglio Generale dell’ACI a trattare con la Fom, è stato necessario ottenere l’autorizzazione del Parlamento ad utilizzare le somme provenienti dalle nostre attività, compresa quella del Pubblico Registro Automobilistico, per raggiungere quanto richiesto”. Semaforo verde arrivato con la legge di stabilità. Anche in questo caso in modo chiaro e senza dubbi: “Il provvedimento economico del

governo si riferiva a un Gran Premio d’Italia da tenersi a Monza”, spiega ancora Sticchi Damiani. Il coinvolgimento di tutti La corsa del Presidente dell’Automobile Club d’Italia resta lunga: “Iniziate le trattative, Ecclestone ha subito richiesto che il contratto per le future gare di Monza dovesse essere firmato direttamente con noi e non più con Sias”. Facile a parole, più difficile da trasformare in fatti, visto che la disponibilità dell’Autodromo doveva passare nelle mani dell’ACI: “Operazione riuscita grazie al fondamentale coinvolgimento diretto, prima dall’Automobile Club Milano e poi di tutti gli Enti territoriali interessati: la Regione Lombardia con

il sostegno di una legge propria dedicata all’evento e i comuni di Milano e Monza, in prima linea per l’importanza strategica del Gran Premio d’Italia nel loro tessuto economico e industriale”. L’unione ha fatto finalmente la forza. In un Paese in cui spesso ci si divide inutilmente riuscendo a mancare anche gli obiettivi più semplici a portata di mano, il fatto di far sistema senza interessi di parte con grande soddisfazione di tutti i soggetti coinvolti, sono esempio e valore aggiunto di buona pratica e strategia di sviluppo. Un percorso ricco di curve, un’ultima chicane e poi la bandiera a scacchi. Segno di un traguardo e di un altro futuro per Monza. Perché la festa sia sempre in pista. Settembre 2016 |

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1922 - 2015

Il podio planetario. Il Gran Premio di Monza nella storia della Formula 1. Attori e gesta di una rappresentazione indimenticabile che ha giĂ attraversato due secoli nel tempio della velocitĂ .

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Enzo Ferrari (1898 - 1988) studia la Brabham-Repco durante il Gran Premio d’Italia a Monza, 4 settembre 1966.

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1922 - 1952

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Andavamo a centomila all’ora. La nascita dell’Autodromo Nazionale. Un tracciato stradale di 5,5 chilometri e uno di alta velocità di 4,5 con curve sopraelevate. I primi spettatori, i pionieri, le tragedie, le leggende. CARLO CAVICCHI 10

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■  Il circuito di Monza non c’era ancora quando nel 1921 si disputò il primo Gran Premio d’Italia. Accadde sul percorso stradale di Montichiari, vicino a Brescia, ma il posto non aveva le stimmate per entrare nella leggenda. Ci voleva qualche cosa di più eccitante, un impianto vero come Brooklands in Gran Bretagna o come l’ovale di Indianapolis negli Stati Uniti. Ma servivano i soldi, tanti soldi. E quelli poteva averli soltanto la ricca Milano, contando anche su una periferia smisurata dentro una provincia smisurata. Nacque così l’Autodromo Nazionale e in fretta la sua leggenda, perché a scorrere i primi albi d’oro pareva di stare dentro a una canzone di Lucio Dalla: Bordino, Varzi e Campari, Borzacchini e Fagioli, Brilli-Peri e

Ascari poi, naturalmente, Nuvolari. A quei tempi gli italiani avevano tanto coraggio, tanto talento e forse anche tanti soldi per correre. Dettavano gli ordini di arrivo e la gente s’entusiasmava. Per i giornali, il Gp d’Italia significava puntualmente grandi tirature, perché si glorificavano le imprese e si piangevano i morti. Non c’era il rallenty, correva semmai la fantasia che la radio sapeva eccitare, come succede soltanto quando non si può vedere dal vivo. Gli inizi allora. Il circuito nel parco di Monza fu deliberato nel gennaio 1922 dal Consiglio Direttivo dell’Automobile Club di Milano. Un’opera grandiosa, di quelle che si possono pensare soltanto quando le grandi guerre sono appena finite. Un traccia-

Alberto Ascari, al volante della sua Ferrari 375/F1, si guarda alle spalle durante il Gran Premio d’Italia a Monza, disputato il 16 settembre 1951.

to stradale di 5,5 chilometri e uno di alta velocità di 4,5 con curve sopraelevate. In totale 10 chilometri su un’area di 340 ettari. In realtà dovevano essere 14 i chilometri, ma intervennero i verdi dell’epoca: non si può violentare oltremodo il nostro bellissimo parco, stabilirono. Eppure, passato un secolo, bisogna proprio ringraziare quest’impianto se gli scempi dei palazzinari, che hanno cementificato Vedano e Biassono, Lesmo e Arcore, alle sue porte hanno avuto uno stop. No, qui no. Qui c’è la pista. Benedetta. Settembre 2016 |

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Qui a fianco, una Maserati e una Talbot Lago sulla linea di partenza al Gran Premio d'Italia 1949. Sull’altra pagina, Luigi Fagioli su Alfa Romeo al pit stop del Gran Premio d’Italia 1933, Fagioli vincerà la corsa.

Il bello è che tutto nacque in soli 3 mesi, quando oggi non basterebbero trent’anni, grazie al lavoro di 3.500 operai, 200 carri, 30 autocarri e una ferrovia Decauville di 5 km con 2 locomotive e 80 vagoni. Erano tempi di grandi tensioni sociali con scioperi, scontri di piazza e violenze di ogni genere che anticipavano la salita di Mussolini sul ponte di comando; eppure il miracolo si compì. Eccoli, allora, centomila spettatori a battere le mani il 10 settembre 1922. Il primo Gp d’Italia a Monza fu vinto da un pilota già leggendario, Pietro Bordino su Fiat, capace, sei anni dopo, di morire per colpa di un cane che gli attraverserà la strada, incastrandosi tra le barre dello sterzo della sua Bugatti. Bordino finirà nelle acque del fiume Tanaro, annegando e gettando tutto lo Stivale nello sconforto. Già, le morti. I piloti dell’epoca ci convivevano con disperata rassegnazione. Nel 1933, per colpa di una chiazza d’olio, perirono addirittura in tre: Campari, Borzacchini e Czaykowski. Non saranno i soli lutti nella storia del Gp d’Italia, molti ne verranno ancora, e tanti erano già stati contati; addirittura 28 nel 1928, tragica coincidenza di numeri. Toccò al grande Materassi infilarsi nel fossato davanti alle tribune, con lui persero la vita anche 27 spettatori. La tragedia più grande nella lunga storia di Monza. 12

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Per i lombardi che accorrevano in massa, i primi Gran Premi erano comunque da lustrarsi gli occhi: sfrecciavano tra gli alberi prima le Fiat, poi le Alfa Romeo e le americane Duesemberg, quindi le Bugatti e le Maserati, aspettando poi le potenti Mercedes-Benz e Auto Union. Soltanto nel 1927 era stata vera tristezza, con appena 6 vetture alla partenza e un podio da dimenticare, ma già l’anno dopo eccone 23 sullo schieramento, con Chiron vincitore davanti a Varzi e Nuvolari, i due rivali per eccellenza che già si erano sfidati in moto, e che faranno tanto parlare di loro per un altro decennio. Varzi, pulitissimo nella guida e impuro per i troppi vizi, e Nuvolari, tutto coraggio e istinto, il più grande secondo Enzo Ferrari. Successi e orgoglio Monza e il Gp d’italia diventano teatro di gesta indimenticabili e manifesto politico per eccellenza. Dietro ogni successo c’è l’orgoglio del Duce contro quello del Fuhrer, e viceversa. La guerra è alle porte e il circuito è da modificare perché così com’è non soddisfa nessuno e si va sempre troppo forte. Si fanno grandi lavori ma il Gp d’Italia è congelato. L’impianto perde la sua funzione originaria. Addirittura diventerà rifugio per tutti gli animali sfrattati dal giardino zo-

ologico di Milano. Passeranno undici anni d’insolito silenzio per ritrovare il Gran Premio a Monza. Nel frattempo, a guerra appena finita, si era tenuta una grande parata di mezzi corazzati col bel risultato del rettifilo d’arrivo completamente distrutto. Ma è l’intero autodromo in pessime condizioni, a dover essere completamente rifatto. Vengono trovati in fretta 100 milioni di lire per effettuare i lavori, e tutto si realizza in appena due mesi. Quando i bolidi da Gran Premio tornano a rombare, c’è però qualcosa di nuovo nell’aria: Enzo Ferrari è diventato costruttore e fa subito capire che fa sul serio. Con Alberto Ascari, figlio del grande Antonio che qui aveva vinto nel Gp del 1924, fa subito bottino grosso. Il giovanotto in realtà non è di primo pelo, ma nessuno dei campioni del dopoguerra lo è perché troppi anni senza corse hanno invecchiato i parchi partenze. Ascari è comunque italiano, e ci fa credere che la storia continui come prima. Per 4 edizioni a svettare sarà solo il tricolore ed è una musica bella nelle orecchie degli appassionati di casa nostra: Ascari, Farina, Ascari e ancora Ascari. Ma è soltanto l’inizio della fine, perché dopo Ascari in Formula 1 non ci sarà più un campione del mondo di casa nostra. Finiti il coraggio, il talento oppure i soldi? Le opinioni al riguardo si sprecheranno.


1922 Pietro Bordino Fiat 804 1923 Carlo Salamano Fiat 805 1924 Antonio Ascari Alfa Romeo P2 1925 Gastone Brilli-Peri Alfa Romeo P2 1926 Charavel Bugatti 39 1927 Robert Benoist Delage 1928 Louis Chiron Bugatti 35C 1931 Campari e Nuvolari Alfa Romeo Monza 1932 Tazio Nuvolari Alfa Romeo P3 1933 Luigi Faglioli Alfa Romeo P3 1934 Rudolf Caracciola Mercedes W25 1935 Hans Stuck Auto Union B 1936 Bernd Rosemeyer Auto Union C 1938 Tazio Nuvolari Auto Union D 1949 Alberto Ascari Ferrari 125 1950 Nino Farina Alfa Romeo 158 1951 Alberto Ascari Ferrari 375

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1952 Alberto Ascari Ferrari 500

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IL PERSONAGGIO

Tazio Nuvolari, perché è il migliore. MARIO DONNINI

■  Se il mondo del calcio si divide a metà nel considerare più bravo Pelè o Maradona, nel Motorsport dubbi non ce ne sono. Il più grande di tutti i tempi è quasi unanimemente considerato Tazio Nuvolari da Casteldario. Per immaginifiche qualità, ma anche per concretissimi traguardi. I trionfi motociclistici con la Bianchi, le folli apoteosi alla Mille Miglia, le prodezze in Targa Florio e sui tracciati di tutto l’orbe terracqueo al tempo motoristicamente conosciuto, senza trascurare la 24 Ore di Le Mans e il Tourist Trophy automobilistico. Tutti fatti che vanno ben al di là della leggenda. E i fatti, si sa, sono argomenti testardi. Tazio Nuvolari è l’uomo che ha corso e vinto ovunque, comunque e con qualunque macchina. Prevalentemente su Alfa Romeo, ma anche su Auto Union, Chiribiri, Bugatti e MG, riuscendo a scompaginare gli avversari anche e soprattutto se il suo mezzo partiva battuto. Il Gran Premio di Germania 1935, quando Tazio su Alfa Romeo rovina incredibilmente la festa a Mercedes e Auto Union, nonché alla propaganda nazista, sbancando l’ammazzacristiani circuito del Nurburgring, ne è la dimostrazione più indimenticabile ed epica.

Tazio Nuvolari non fu e non poté essere eroe parlante, perché nell’era aurea i grandi del volante erano come le dive del cinema, votati e votate al sostanziale mutismo delle bobine in bianco e nero. Eppure, facendo pari con Greta Garbo, il Mantovano Volante seppe essere il più mediatico di tutti, per la capacità di colpire l’immaginario collettivo con immagini forti. E poi quel briciolo di poesia, frutto di frasi smozzicate, borbottii carpiti e tramandati. “Quella bandiera italiana è lisa. Cambiala, perché domani la esporranno più alta di tutte, dal momento che io qui vincerò”, disse al suo direttore sportivo Ugolini al Nurburgring, nel 1935. Trionfi, mitologia, agiatezza ma anche personalità. Tazio Nuvolari, il solo e l’unico a tener testa nel puro confronto di carattere al più mangiauomini dei team manager: Enzo Ferrari. All’interno di un rapporto lunghissimo, a tratti tempestoso ma sempre contrassegnato da reciproco rispetto. E poi la sfida vinta col più spietato degli avversari: il tempo che passa. Prendiamo l’esempio di Monza, il Tempio della Velocità, di cui Tazio è il Gran sacerdote. Nel 1925, fasciato perché ferito, in sella a una Bianchi proprio a Monza aveva ridicolizzato i più bravi centauri del mondo,

compresi gli specialisti inglesi del Tourist Trophy dell’Isola di Man. Sempre a Monza, aveva sostenuto il primo provino con l’Alfa Romeo, impressionando i responsabili della Casa del Biscione. Infine, sempre a Monza, le vittorie a quattro ruote che segnano l’alfa e l’omega del suo apice, nel 1932 su Alfa Romeo e nel 1938 al volante della bellissima e terribile Auto Union, quando sta per compiere quarantasei anni. E nel dopoguerra, quando arrivato oltre i cinquantacinque, Tazio non s’arrende e commuove l’Italia sfiorando due volte il trionfo alla Mille Miglia, nel 1947 su Cisitalia quindi l’anno dopo con la Ferrari. Così il Nuvolari Anni ‘30, verticale, già simbolo marinettiano di velocità e progresso, emblema littorio di ardimento vittorioso, sopravvive al regime e geneticamente trasmuta, trasformandosi in eroe orizzontale e popolare, imprendibile ma vulnerabile. Nella vocazione a una leggenda che non ha più bisogno di coppe e superiorità certificate, trovando nel suo stesso stile strappacuore la sua vera, meravigliosa, ragion d’essere.

Tazio Nuvolari a Monza, nel 1938.

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1953 - 1963

Il mondiale del Drake. Il tragico destino di “Ciccio” Ascari, che stravince al volante di una Ferrari. Da Fangio a Moss, da Hill a Clark. LEO TURRINI ■  Per capire davvero cosa Monza, con il "suo" Gran Premio di Formula 1, abbia rappresentato per l’Italia intera, nel contesto di una ricostruzione post bellica che sembrava impresa temeraria se non addirittura impossibile, occorre uno sforzo in più. La Seconda Guerra Mondiale era stata una catastrofe materiale. Le disfatte al fronte avevano anche sbriciolato le puerili certezze falsamente propagandate dal regime fascista. Con buona pace di Mussolini e dei suoi proclami, avevamo ampiamente dimostrato di non essere in grado di produrre carri armati o cannoni. Macchine di morte. Ed esisteva, invece, un’altra idea di “macchina”. Esisteva e gli italiani tutti, non solo gli abitanti di Monza, ne erano perfettamente al corrente. Perché c’era sempre stata una Italia che amava il concetto della competizione, una Italia rurale e contadina nelle origini ma che, con il progredire del Novecento, aveva imparato ad amare il motore, la biella, il pistone. Monza è sempre stata la capitale di un Paese diverso, distinto e 16

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distante dalle oscene prevaricazioni di regime. Tornava la voglia di vivere. Anche a tutta velocità. E questa diversità la colsero subito gli appassionati che il 3 settembre 1950 affollarono il circuito per un Gran Premio destinato a passare alla storia. Non fu e non poteva essere una gara come tutte le altre. Non soltanto perché Nino Farina, al volante di una Alfa Romeo 159, si laureò matematicamente campione del mondo della neonata categoria. Il valore subliminale della competizione era soprattutto racchiuso nel drappello di italianissime vetture sulla griglia di partenza. Le Alfa Romeo, certamente. Ma anche le Maserati. E le prime Ferrari. Macchine. Italiane. Non da guerra. Gli Anni Cinquanta hanno fatto da prologo al boom. Enzo Ferrari, un totem nella solitudine di Maranello, aveva capito. Era un profeta: tutti si accaJim Clark tra i fotografi porta in trionfo sulla sua monoposto Colin Chapman - boss della Lotus – che alza la coppa per la vittoria del Gran Premio d’Italia 1963.


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pigliavano sul significato epocale della automobile come mezzo di locomozione di massa e già lui aveva compreso che l’auto poteva essere anche opera d’arte. Il simbolo della lungimiranza del papà del Cavallino era un figlio d’arte. Alberto Ascari, detto Ciccio, erede di Antonio, che di Ferrari era stato compagno in pista nella ruggente epoca del primo Novecento. Ascari junior tornò indietro, felice, il 16 settembre del 1951. Aveva vinto il Gran Premio d’Italia, con la Ferrari 375. Per sempre, nella storia, sarebbe stato ricordato come il primo “driver” in trionfo in Brianza al volante di una macchina del Drake. La scena ebbe a ripetersi nel 1952, la stagione durante la quale Ciccio conquistò il mondiale con la Rossa. La sua supremazia era così schiacciante che i tifosi immaginavano una lunga sequenza di successi brianzoli. E invece il sorriso smagliante del 7 settembre 1952 fu l’ultimo. Il 13 settembre 1953 la Ferrari 735 S di Ciccio venne coinvolta in un incidente durante il 79esimo giro. Partito dalla pole, Alberto si era già confermato iridato. Ma a Monza gli toccò applaudire l’impresa dell’eterno Fangio, al volante di una Maserati. Il duello senza fine Nel 1954, Ascari era ancora ferrarista a Monza: in realtà era già passato alla Lancia, la scuderia torinese però gli accordò il permesso di disputare il Gran Premio d’Italia con una vettura del Cavallino. Ascari era convinto di poter rendere la vita dura all’argentino. Fangio era ormai un uomo Mercedes e nelle prove aveva ottenuto il miglior tempo. Ma Ciccio, con la Rossa modello 625, era secondo in griglia. Quel 5 settembre del 1954, il motore della Ferrari gli giocò 18

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Qui a fianco: Stirling Craufurd Moss controlla il rifornimento del suo serbatoio di benzina, 13 settembre 1953. Nell’altra pagina: il pilota americano Phil Hill taglia il traguardo con la sua Ferrari, vincendo il Gran Premio d’Italia, 10 settembre 1961.

un brutto tiro. Rimase a piedi dopo 48 giri e rese ancora omaggio alla grandezza del Gaucho. Ci rivedremo qui nel parco della Brianza tra un anno, disse Ascari a Fangio nel dopo gara. Non poteva immaginare che invece il destino non gli avrebbe più offerto l’occasione di una rivincita. Il 26 maggio 1955, Ascari ricevette una telefonata da due amici. A Monza, Gigi Villoresi ed Eugenio Castellotti stavano collaudando la Ferrari 750 Sport. I colleghi lo invitarono a pranzo in circuito. Ciccio li raggiunse ma quando vide la macchina fu aggredito dal consueto virus della passione. Fatemela guidare per dieci minuti, disse. E poi andiamo a mangiare. A tavola, Ascari non arrivò. Per ragioni mai chiarite, perse il controllo della macchina e morì sul colpo sul circuito che apprezzava di più. Anche Alber-

to, come papà Antonio, era stato ucciso dall’amore per la velocità. Di sicuro, senza Ascari il Gran Premio d’Italia si accorse di essere più povero. L’11 settembre 1955, vincendo a Monza con la Mercedes, il grande Fangio dichiarò: “Gioisco sempre quando taglio il traguardo per primo, ma non vedere il nome di Ciccio tra i partenti è una ferita che non si rimarginerà”. Nemmeno l’argentino avrebbe più provato la gioia di salire sul gradino più alto del podio nel Gp d’Italia. Ormai a Monza era scoccata l’ora di Stirling Moss. Il pilota più grande di sempre, secondo la definizione che ne ebbe a dare il Drake di Maranello. E però mai iridato. Gli anni passavano e Monza ormai era, con il suo Gran Premio, un piccolo grande pezzo della storia, in costante evoluzione, dell’Italia. La corsa


1953 Juan Manuel Fangio Maserati A6GCM 1954 Juan Manuel Fangio Mercedes W 196 1955 Juan Manuel Fangio Mercedes W 196 1956 Stirling Moss Maserati 250 F 1957 Stirling Moss Vanwall 1958 Tony Brooks Vanwall 1959 Stirling Moss Cooper Climax 1960 Phil Hill Ferrari 256 1961 Phil Hill Ferrari 156 1962 Graham Hill B.R.M.

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1963 Jim Clark Lotus Climax 25

della Formula 1 era entrata a far parte dell’immaginario collettivo di un popolo. In questa consacrazione, un po’ stonava l’assenza del nome Ferrari nell’albo d’oro della gara. Dopo i successi del compianto Ciccio Ascari, solo piazzamenti. E a Maranello il Grande Vecchio friggeva, perché in un personaggio ammantato di orgoglio patriottico come lui la sconfitta a Monza assumeva il sapore di una disfatta. Le cose non andarono bene nel 1958, quando ad imporsi fu Tony Brooks ancora con la Vanwall. Il digiuno continuò nel 1959, quando l’indomabile Moss si prese il gradino più alto del podio con la Cooper. Enzo Ferrari mugugnava. Il tabù venne infranto il 4 settembre del 1960. Tripletta della Rossa davanti ad un pubblico in delirio. L’americano Phil Hill scattò dalla pole e firmò il giro più ve-

loce in gara, potendo festeggiare la fine di un incubo in compagnia dei compagni di squadra Richie Ginther e Willy Mairesse. Hill si sarebbe ripetuto il 10 settembre 1961, ma la sua prodezza purtroppo non sarebbe stata ricordata. Infatti quel giorno andò in scena una di quelle vicende che proprio Enzo Ferrari prosaicamente definì “le mie gioie terribili”. Destino crudele Nel 1961, nella classifica del mondiale lo statunitense Hill inseguiva, staccato di quattro punti, il compagno di squadra Wolfgang Von Trips. Tedesco, legatissimo al mito del Cavallino, Von Trips era considerato il favorito naturale. Ma il destino, crudele, aveva in serbo altro. Durante il secondo giro, la Ferrari di Von Trips

urtò la Lotus di Jim Clark nella zona che portava alla curva parabolica. La macchina di Von Trips prese il volo, si schiantò contro le reti di protezione, infine precipitò di nuovo sull’asfalto. Niente da fare per il pilota e tragico il bilancio tra gli spettatori: si contarono 14 vittime e dozzine di feriti. Venne poi l’era dei Lord di Sua Maestà Britannica. Graham Hill ha segnato un’epoca, capace di imporsi alla 500 Miglia di Indianapolis come a Montecarlo, dove trionfò 5 volte e si mormorava avesse fatto girare la testa a Grace Kelly. Un talento purissimo. Se possibile, Jim Clark era persino più bravo. Chi lo ha visto dal vivo, non esita a definirlo il miglior driver di sempre. Dello scozzese, i contemporanei giurano che aveva lo stesso carisma di Ayrton Senna. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia. Settembre 2016 |

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IL PERSONAGGIO

Juan Manuel Fangio, il campione meticoloso. CARLO BAFFI

■  Il suo record di cinque titoli mondiali

pareva inarrivabile: resiste dal 1957 al 2002, quando Michael Schumacher riesce ad eguagliarlo e poi a batterlo. È il primato del mitico Juan Manuel Fangio. Di origini italiane, Fangio nasce quarto di sette figli, il 24 giugno 1911, a Balcarce in Argentina e sviluppa sin da ragazzo la passione, lavorando in un’officina. Ancora 18enne, disputa la sua prima gara su un taxi Ford di un amico, mettendosi in luce nel campionato “Turismo Carretera”, dove le corse hanno luogo su lunghe distanze e strade sterrate, a bordo di vetture poco maneggevoli e pesanti. Nel ‘48, Fangio sbarca in Europa aiutato dal governo argentino di Peron. Malgrado i 37 anni, mostra subito una grande tecnica, a cui si aggiungono grinta ed intelligenza. Memorabile la sua vittoria a Monaco del ’50, quando evita la carambola di vetture ferme alla curva del Tabaccaio. “Uscito dalla chicane del porto – rivelerà poi – vidi che la folla guardava verso la curva successiva e non il leader della gara,

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che ero io. Mi ricordai di una foto del 1936, quando ci fu un groviglio simile e frenai il più possibile. Doti che lo salvano anche da drammatici incidenti. Meticoloso in pista, quanto negli affari, Fangio è tra i primi ad avere un segretario-manager, Marcello Giambertone, che cura le relazioni esterne. Il suo primo mondiale è del 1951, con l’Alfa Romeo 159. Seguiranno i titoli del ‘54 e ‘55, come portacolori delle Frecce d’Argento, le potenti Mercedes W196. Quando la casa di Stoccarda esce di scena, Fangio approda a Maranello. Un’ambientazione difficile, complice il rapporto con Enzo Ferrari, che incoraggia la rivalità tra i piloti della rossa. Difficoltà a parte, Fangio si riconferma campione del mondo 1956 a Monza, grazie anche alla sportività del compagno Peter Collins. Ritiratosi dopo 20 giri, l’argentino assiste rassegnato alla marcia trionfale della Maserati di Stirling Moss, rivale nella corsa all’iride. Ma ecco

il miracolo, Collins rientra ai box e gli cede il volante della sua D50: “Io sono giovane, avrò ancora tempo per vincere il mondiale.” Commosso, Juan Manuel torna in pista, chiude secondo e vince il mondiale. L’anno dopo sulla Maserati, firma la cinquina, cogliendo uno storico trionfo al Nurburgring. Nel 1958, Fangio disputa ancora qualche gara ed è vittima di un rapimento a Cuba ad opera dei ribelli castristi in cerca del solo effetto mediatico. Ritiratosi a vita privata, l asso argentino si spegnerà a Buenos Aires, il 17 luglio 1995.

18 settembre 1970, Juan Fangio sul circuito di Monza, al volante dell’Alfa Romeo Alfetta 159 con la quale vinse il Campionato Mondiale 1951.


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1964 - 1977

Gli albori della formula business. Compaiono i primi loghi di sponsor non automobilistici come i giganti del tabacco. Il mito di Clark, la lezione di Regazzoni. EZIO ZERMIANI

■  Quando, nel 1964, il Circus fa tappa a Monza per disputare il 35° Gran Premio d’Italia, tiene banco la minaccia di Enzo Ferrari di abbandonare le corse a fine a stagione per una polemica con le autorità sportive, colpevoli di non aver omologato il modello 250 LM. Altra novità è la presenza della Honda, la prima monoposto giapponese a gareggiare in F.1. La corsa vive del duello tra la Ferrari 158 dell’inglese John Surtees e dell’americano Dan Gurney, su Brabham. Il ritiro di quest’ultimo, spianerà la strada al “Figlio del vento”, che precederà Bruce McLaren sulla Cooper. Un vittoria importante ai fini della classifica, perché consentirà a Surtees di lanciarsi verso la conquista della corona iridata, beffando Graham Hill sul filo di lana. L’anno successivo si celebra il mito di Jim Clark, che arriva a Monza da Campione del Mondo. La sua Lotus

33, spinta dal motore Climax 8cl domina la corsa, ma a sette tornate dal termine viene bloccata da noie meccaniche. A trionfare sarà un altro scozzese, Jackie Stewart sulla BRM, che al penultimo girò infila la vettura gemella di Graham Hill, colpevole di un errore alla Parabolica. Per Stewart, è il primo successo di una luminosa carriera. Il 4 settembre 1966 è una data storica, perché ad imporsi sul tracciato brianzolo è la Ferrari di Ludovico Scarfiotti, seguita da quella di Mike Parkes. Per il Cavallino è doppietta, mentre per i colori italiani, sarà l’ultimo successo nel Gran Premio di casa di un nostro pilota. Nel GP d’Italia del ’67, è ancora Clark-show, malgrado la Honda conquisti la sua seconda vittoria in F.1. Clark terzo, verrà comunque portato in trionfo dai tifosi. Denis Hulme, neozelandese, s’impone nel ‘68, in una stagione che vede

le monoposto sfoggiare dei loghi dei primi sponsor non legati all’ambiente automobilistico, come le multinazionali del tabacco. Sono gli albori della formula-business. Ma le emozioni targate Monza continuano, come nel Gp d’Italia numero 40, che vede il terzetto composto da Stewart, Beltoise e Rindt contendersi il gradino più alto del podio in volata: due Matra, contro una Lotus. A gioire è Stewart, che con questo risultato conquista il primo dei suoi tre mondiali. Quello del 1970, sarà invece un capitolo triste: sabato 5 settembre nel corse delle prove, Jochen Rindt è vittima di una drammatica uscita di pista all’ingres-

A sinistra, Jackie Stewart alla guida della sua BRM taglia il traguardo vincendo il Gran Premio d’Italia il 12 settembre 1965. Settembre 2016 |

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Qui sotto: il pilota inglese John Surtees lanciato verso la vittoria sulla sua Honda RA300 al Gran Premio d’Italia il 10 settembre 1967. A destra: il pilota svizzero Clay Regazzoni nell’abitacolo della Ferrari a Monza nel 1972.

so della Curva Parabolica, complice il cedimento dell’albero che collega la ruota al freno a disco interno della sua Lotus. L’austriaco, dominatore la stagione, muore sul colpo e gli verrà assegnato il titolo postumo. Il giorno dopo, con l’ambiente ancora scosso, la gara vede l’affermazione di un giovane pilota di passaporto svizzero, ma di animo italiano, Clay Regazzoni. È il primo successo iridato per il ticinese, che al volante della Ferrari 312B, precede Stewart e Beltoise. Particolarmente legato alla pista monzese, dove ha mosso i primi passi, Clay sarà ancora protagonista nelle edizioni successive del Gran Premio. Memorabile un aneddoto del 1971, quando pur partendo dalla quarta fila, Regazzoni scommette con un amico che transiterà in testa alle curve di Lesmo, al primo giro. Con

la partenza che viene ancora data a mano, Clay sa che l’allora direttore di gara Gianni Restelli è solito calare il drappo quando le sole monoposto della prima fila sono ferme in griglia. Rallentando nel giro di ricognizione, il ferrarista si presenta al via ancora in movimento e quando la corsa parte guadagna subito parecchie posizioni. Secondo dietro a Siffert, rammenta la scommessa e tirando una violenta staccata sopravanza il capofila. La Lotus siglerà il suo terzo trionfo consecutivo a Monza nel ’74, rendendo amara una corsa dove le Ferrari sono favorite. Lauda sigla la pole e Regazzoni è in lotta per il titolo. Purtroppo i due ferraristi dovranno abbandonare per noie al motore e le uniche soddisfazioni per i tifosi italiani arriveranno da Arturo Merzario, che scattato dall’ottava fila, chiuderà in quarta piazza con la IsoFord. La rivincita del Cavallino è però vicina. Il 7 settembre del 1975, è il gran giorno delle rosse. Niki Lauda può infatti conseguire la matematica certezza di quel titolo piloti che a Maranello manca dal ‘64. Dalla prima fila, le Ferrari 312T prendono il largo con Regazzoni davanti a Lauda. Clay trionfa e Niki è il nuovo campione del mondo, per la gioia dei tifosi che si riversano in pista.

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Dopo il terribile incidente Lauda sarà protagonista anche nelle due edizioni successive della corsa monzese. Venerdì 10 settembre 1976 torna alle corse, a soli 40 giorni dal terribile incidente del Nuerburgring. Scampato alla morte, il ferrarista si presenta a Monza con le ferite ancora sanguinanti. Ma l’indomito Lauda smentirà gli scettici che lo vogliono ormai sul viale del tramonto. Proprio sul tracciato lombardo, l’anno dopo, a bordo della Ferrari 312T2, l’austriaco chiude alle spalle del dominatore Mario “Piedone” Andretti, sulla Lotus 78, ipotecando il suo secondo mondiale. Sarà l’ultimo acuto di Niki come portacolori del Cavallino. Nei giorni precedenti la gara, in un famoso ristorante a pochi passi dall’Auto24

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1964 John Surtees Ferrari 158 1965 Jackie Stewart B.R.M. 1966 Ludovico Scarfiotti Ferrari 312 1967 John Surtees Honda RA 301 1968 Denny Hulme McLaren Ford M7 1969 Jackie Stewart Matra Ford MS80 1970 Clay Regazzoni Ferrari 312b 1971 Peter Gethin B.R.M. P160 1972 Emerson Fittipaldi Lotus Ford 72 1973 Ronnie Peterson Lotus JPS 1974 Ronnie Peterson Lotus 1975 Clay Regazzoni Ferrari 312T 1976 Ronnie Peterson March 761

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1977 Mario Andretti Lotus JPS 78

dromo, s’è accordato con la Brabham di Bernie Ecclestone, supportato dalla Parmalat di Calisto Tanzi. Ma questa è un’altra storia. Va sottolineato come Lauda dovesse tutto a Regazzoni, eppure l’austriaco non gli è mai stato riconoscente. D’altro canto se pensiamo che il freddo Niki ripagò Merzario, che l’aveva estratto dal rogo del Nuerburgring, con un orologio di seconda mano ricevuto da uno sponsor, si capisce tanto di un grande campione in pista, ma

di un uomo dal braccino corto proprio fuori misura. Lo stesso Clay, estremamente generoso, quando analizzava certi comportamenti del collega, lisciandosi i baffi, rideva di gusto. Non sempre rideva. Che grande persona Clay. Ricordo quando, in carrozzella, mi confidò che aveva pensato di farla finita: “Quante volte ho preso dal cassetto la pistola, per poi riporla fra mille dubbi”. Mi disse un giorno che non aveva voglia di scherzare: “Poi d’un tratto, dissi basta. Pur sedu-

to su una sedia a rotella, voglio vivere. Sapessi Ezio, come è alto il distributore dei gettoni telefonici. Aggiungi il fatto che sono scanalati da una sola parte e non sai mai quale. Quante volte non entrando nella feritoia, il gettone cade e si infila nel tombino. Ed è sempre l’ultimo che hai. Magari per una telefonata urgente, che non puoi più fare.” Senza tante spiegazioni sociologiche, mi aveva insegnato cosa sono le barriere architettoniche. Grazie, grande Clay. Settembre 2016 |

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IL PERSONAGGIO

Mario Andretti, “piedone” d’acciaio. MARCO MARELLI

■  “A Monza - racconta Mario Andretti

- si è accesa la passione per le corse: con i pantaloni corti ho visto il mio primo GP. Il mio idolo era Alberto Ascari. Un pilota completo. Avevo il cuore a mille. Sempre a Monza ho vinto il primo mondiale di Formula 1 con la Lotus nel ’78 ma ho perso Ronnie Peterson. Un grande compagno di squadra, un uomo che stimavo, soprattutto un grande amico. In una sola parola, per me Monza è tutto. Anche per il suo straordinario pubblico che mi è sempre stato molto ma molto vicino.” Mario Andretti, detto "piedone", porta il 41 come numero di scarpe ma il suo soprannome non si deve alla misura ma al peso del suo piede. Perché questo piccolo grande uomo, nato a Montona nel 1940 quando era ancora Italia ed emigrato negli Stati Uniti nel 1955, ha sempre premuto forte sul pedale dell’acceleratore e ha vinto ovunque con qualsiasi automobile grazie ai suoi nervi d’acciaio, anche contro suo figlio. Era il 1986, Mario Andretti guidava per il team Newman/Haas nella Serie Cart. Sul muretto, il team manager Carl Haas consumava sigari da 100 dollari come fossero banali mentine; Paul Newman co-proprietario del team era imbambolato sullo schermo a seguire i pazzeschi sorpassi tra padre e figlio:

Mario e Michael. All’ennesimo ruota contro ruota, Newman sibilò: “Io sono nato con gli occhi blu, Mario con i nervi d’acciaio”. 76 anni, una vita incredibile, dall’obbligato espatrio ai trionfi nei templi della velocità e alla conseguente ricchezza, Mario Andretti, sposato con Dee Ann, padre di tre figli (Michael, Jeff e Barbara) oggi è nonno ma non ancora in pensione. Segue le sue tantissime attività: dalla “winery” nella Napa Valley alla racing “Mario Andretti experience”, salita alla ribalta alla fine dello scorso maggio per aver fatto “sbandare” lady Gaga, dalla collaborazione con Firestone a quella con MagnaFolw Performance. L’ultima sua esperienza con Monza risale a trentaquattro anni fa. Venne chiamato nell’annus horribilis della Ferrari dallo stesso Commendatore, dopo una stagione con l’Alfa Romeo poco felice, dove si disse che “ormai era … vecchio”. Per capire meglio Andretti e i suoi nervi, merita ricordare le 72 ore che precedettero quel week end mitico del 1982, dove si vide a Monza anche l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Al suo arrivo in Italia, all’aeroporto di Linate, venne accolto da un bagno di folla …

folle. Poi a Maranello a pranzo con il Commendatore e una breve prova a Fiorano. Convinto delle potenzialità, cambiò casco, si fece portare una Moto Guzzi Le Mans 3 e partì per la Toscana, insieme a Dee Ann. Di lui per ore si persero le tracce fin quando riapparve nel tempio della velocità: Monza. Un venerdì sotto controllo per non far vedere agli avversari le potenzialità sue e della macchina, poi un sabato esaltante con la pole position, ma non subito. Entrò infatti allo scadere del tempo, dopo aver comandato di scaricare e abbassare la monoposto il più possibile, imponendosi come solo un numero uno può permettersi. Tambay rimase ammutolito. Andretti mancò la vittoria per un problema al pedale dell’acceleratore che, nonostante tenesse sempre a fondo corsa, non trasmetteva tutta la potenza del dodici cilindri. Finì ugualmente sul podio. “Monza – dice ancora Andretti - è un circuito molto tradizionale e velocissimo, per questo piace a tutti. Un circuito dove, se hai tutto sotto controllo, non puoi non vincere. Un circuito dove non guido da solo perché il pubblico è sempre in macchina con me.”

Mario Andretti ripreso il 9 settembre 1979 al cinquantesimo Gran Premio d’Italia.

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1978 - 1988

Tempi di rivoluzione, addio Gilles. Nel 1979 il circuito di Monza viene tirato a lucido. Arrivano i primi motori sovralimentati, nel 1982 in Belgio scompare Villeneuve. GUIDO SCHITTONE

■  L’edizione del 1978 è una tra le più tragiche e drammatiche dell’intera storia della Formula 1. La terribile carambola al via del Gran Premio che portò poi alla morte di Ronnie Peterson e alla lunga degenza di Vittorio Brambilla - pone ancora oggi in secondo piano la doppietta delle Brabham-Alfa Romeo di Niki Lauda e John Watson, in una corsa ripartita alle 18,15 e ridotta a 40 giri. Anche perché a tagliare il traguardo nelle prime due posizioni furono Mario Andretti con la Lotus 79 e Gilles Villeneuve con la Ferrari 312 T3, poi penalizzati di un minuto per partenza anticipata. Per l’Alfa Romeo si trattò della dodicesima affermazione, per Lauda, l’ultima prima del suo ritiro nella stagione 1979. Andretti, sesto con il punto guadagnato e con Peterson in condizioni disperate in ospedale, ebbe la certezza virtuale del

titolo in una stagione in cui il patron della Lotus Colin Chapman sviluppò ulteriormente il concetto di monoposto ala inaugurato nel 1977 con il modello 78. Dal dramma alla gioia: l’edizione del 1979 è una delle più belle. Monza si presenta per l’appuntamento decisivo del campionato tirata a lucido. Nuovi sono i box, ampliate le vie di fuga, modificati i cordoli, migliorate le infrastrutture del paddock. Il Gran Premio è carico di tensione perché la Ferrari, che ha dominato la prima parte di stagione con le sue 312 T4, può puntare alla doppia affermazione nel campionato piloti con Jody Scheckter e Gilles Villeneuve,

Bruno Giacomelli su Alfa Romeo 179C al Gran Premio d’Italia del 1980. Settembre 2016 |

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Qui sotto: il leggendario pilota franco-canadese Gilles Villeneuve mentre parla con il team Ferrari. A destra: il brasiliano Nelson Piquet in una pausa delle prove del Gran Premio del 1986.

gli unici rimasti in lizza assieme al francese della Ligier Jacques Laffite, e in quello costruttori. La corsa, dopo un iniziale predominio della Renault di Arnoux, passa saldamente nelle mani di Scheckter con Villeneuve che gli copre le spalle, rinunciando all’attacco, con dietro Laffite. La svolta avverrà al 42esimo giro, quando Laffite è costretto al ritiro. Per i due ferraristi è il trionfo. Scheckter conquista il campionato mondiale piloti, l’ultimo ferrarista prima dell’epopea Schumacher, e la

312 T4 il titolo iridato costruttori. Nel 1981 il Gp d’Italia torna nella propria sede storica dopo la parentesi di Imola del 1980. In Formula 1 è tempo di rivoluzione. Stanno a poco a poco arrivando i motori sovralimentati, utilizzati da Ferrari, Renault e Toleman, che a Monza conquista con Henton la prima qualificazione della storia, mentre la McLaren MP4 sfoggia il telaio realizzato in fibra di carbonio. La vittoria va ad Alain Prost che domina la gara davanti alle Williams di Alan Jones e di Carlos Reutemann. Piquet sarà classificato al sesto posto: il motore Cosworth della Brabham BT49 lo tradisce al penultimo giro mentre si trovava al terzo posto. Il punto conquistato si rivelerà fondamentale per la vittoria del suo primo titolo iridato. Un anno terribile Il 1982 è l’anno in cui muoiono Gilles Villeneuve e Riccardo Paletti; mentre Didier Pironi pone fine alla propria carriera nel terribile incidente in qualifica a Hockenheim. La Ferrari schiera a sorpresa l’ex campione del mondo Mario Andretti che va ad affiancare Patrick Tambay al volante della 126 C2, la vettura migliore della serie iridata. La corsa è dominata un’altra volta dalla Renault, con il futuro ferrarista René Arnoux, il cui ingaggio per il 1983 è stato ufficializzato proprio alla vigilia del Gran Premio, che precede Tambay, fortunato ad avere approfittato del ritiro di un ottimo Riccardo Patrese. Il doppio podio dei ferraristi spiana la strada alla Casa di Maranello per la conquista del settimo mondiale costruttori. Nel 1983 le speranze italiane poggiano tutte sul periodo di forma di Riccardo Patrese che conquista la pole position con la Brabham-Bmw. Purtroppo al secondo passaggio il 4 cilindri tedesco ammutolisce in una nuvola di fumo e il padovano abbandona la corsa, lasciando campo libero a Piquet che va a conquistare una vittoria fondamentale per alimentare le proprie speranze di secondo titolo mondiale. Le Ferrari si classificano al

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1978 Niki Lauda Brabham Alfa 1979 Jody Scheckter Ferrari 312 T4 1981 Alain Prost Renault RE 30 1982 René Arnoux Renault RE 30 1983 Nelson Piquet Brabham BT 52 1984 Niki Lauda McLaren MP4/2 1985 Alain Prost McLaren MP4 1986 Nelson Piquet Williams FW 011 1987 Nelson Piquet Williams FW IIB 1988 Gerhard Berger Ferrari FI-87

secondo posto con Arnoux e al quarto con Tambay che l’anno successivo sarà sostituito da Michele Alboreto. Terzo è Eddie Cheever con l’unica Renault rimasta in corsa. Nel 1984, la prima sorpresa giunge dalla defezione dell’astro nascente Ayrton Senna, che non viene schierato dalla Toleman perché è stato ufficializzato il suo passaggio alla Lotus per la stagione successiva. La Ferrari si presenta con un’evoluzione della C4 che non offre il contributo sperato, tanto che Alboreto parte undicesimo e Arnoux addirittura quattordicesimo. Le Alfa Romeo di Patrese e Cheever sono in nona e decima posizione. La gara è costellata di ritiri: vince a sorpresa Lauda che precede la Ferrari di Alboreto e l’Alfa Romeo di Patrese. Tra gli eroi della corsa Teo Fabi: che con la Brabham-Bmw duella con Lauda. Avrebbe potuto vincere ma si ritira a 7 giri dalla fine per rottura del motore. Lauda egua-

glia il record di Fangio, conquistando la ventiquattresima affermazione della carriera. Nel 1985 si affievoliscono le speranze di vedere un italiano campione del mondo. A Monza infatti la superiorità della McLaren-Tag Porsche di Alain Prost nei confronti della Ferrari 156-85 di Michele Alboreto è totale. In qualifica la pole è di Senna davanti a Rosberg, Mansell, Piquet e Prost. Ma sarà proprio il francese a vincere la corsa. 1986, Monza potrebbe essere la corsa di Teo Fabi che con la Benetton-Bmw conquista la pole position. Ma l’italiano è costretto a partire dall’ultima posizione per un guasto alla centralina nel giro di ricognizione. La gara è dominata dalle Williams-Honda di Piquet e Mansell. Nel 1987 è una corsa bellissima, il cui risultato venne determinato dalle soste ai box per i cambi gomme. La gara è dominata dalla Lotus di Senna

che al 47esimo giro - nel tentativo di doppiare la Ligier di Ghinzani - esce alla Parabolica e viene infilato dal rivale brasiliano che lo batte di un secondo e otto. Nel 1988, la Ferrari torna a vincere a Monza a nove anni di distanza dalla doppietta di Scheckter e Villeneuve. Tocca a Berger, aiutato anche dagli ordini di scuderia, tagliare per primo il traguardo, quattro decimi davanti a Michele Alboreto. Terzo è Cheever con l’Arrows-Megatron. Ma l’eroe della corsa è ancora una volta Senna, che la domina fino a due giri dalla fine, quando alla prima variante viene chiuso dalla Williams del doppiato Jean Louis Schlesser. Per la Ferrari si tratta di un regalo insperato in un’annata caratterizzata dalla scomparsa del proprio fondatore e dall’abissale distanza delle sue monoposto dalle dominatrici McLaren-Honda di Senna, che vincerà il primo titolo mondiale, e Prost. Settembre 2016 |

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IL PERSONAGGIO

Niki Lauda, il pilota sempre di casa. FULVIO SOLMS

■  Niki, basta la parola. Perché Niki è

Niki. E come per Ayrton puoi scriverci sopra un intero articolo senza mai citarne il cognome, ché tanto non servirebbe. Se dici Niki e dici Monza nel tuo cervello salta fuori un anno - il 1976 - e i termini si allineano in successione, analogamente a ciò che gli algoritmi muovono nei motori di ricerca: Niki Lauda, Monza, 1976, Ferrari, Nürburgring, rogo, Fuji, Hunt. Sono passati quarant’anni esatti - per gli zelanti: otto giorni in meno - dal rientro di Niki proprio all’Autodromo Nazionale, dopo uno degli incidenti più iconici della storia della Formula 1, reso immortale anche da Ron Howard nel film “Rush”. Quel ritorno fu clamoroso non tanto per le ferite ancora aperte che rendevano un tormento indossare il casco, e ancor peggio toglierlo, non tanto per la dimostrazione plastica di quanto volere sia potere - Niki tornava per difendere il titolo dalle grinfie di James Hunt, mica perché si annoiava a casa - quanto per il fatto di succedere ad appena quaranta giorni da un’estrema unzione. Il quinto tempo nelle prove ufficiali e il quarto posto in gara furono leggenda, per un redivivo reduce da un mese abbondante di sofferenza

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pura. Ma non meno fastidio delle ferite gli dava la presenza in pista di una terza Ferrari affidata a Carlos Reutemann nell’eventualità (leggi certezza, poi smentita dai fatti) che Niki non riuscisse a tornare alla guida. Un’immensa storia di sport. Dici Niki e dici Monza, e ti accorgi di quanta Italia ci sia in questo gigante della velocità. Un’esperienza ferrarista indelebile, gare memorabili sull’Autodromo Nazionale, una parlata mediatamente riconoscibile e sempre identica a se stessa: c’è la lingua italiana e quella tedesca, poi esiste il “laudese”. Ecco perché la gente lo adora e quando il profeta compare nel Parco di Monza, certificato dal cappellino rosso che vale non meno del bollino blu, un muro umano gli si chiude attorno. La memoria va al suo primo titolo nel 1975 vinto matematicamente proprio a Monza (con apoteosi del pubblico di fronte al terzo posto che gli garantiva il titolo e alla vittoria del “quasi italiano” Regazzoni), a quello del 1977 e alla casella mancante del 1976. Mancante, sappiamo perché: per una storica e cosmica ingiustizia mai sanata. Oggi Niki attraversa il Parco di Monza e lascia un solco, esattamente

come allora. Ha qualche figlio in più e qualche rene in meno, una pancia importante e la lingua tagliente di sempre che tra un “kasino”, un “velocce” e un “gratulazzion” non genera mai banalità. Lavora per il team Mercedes come presidente non esecutivo, ma nelle sue parole sono sempre presenti molta Italia e molta Ferrari. “L’Italia e la Ferrari saranno sempre nel mio cuore - disse con trasporto un anno fa dopo un inciampo (“non è colpa della Mercedes se a Maranello sanno fare solo spaghetti”) - con la Ferrari ho avuto 15 vittorie, due dei miei tre titoli mondiali, una tragedia con tanto di estrema unzione. Non è possibile provare emozioni più grandi, quindi il mio rispetto per la Scuderia sarà sempre enorme”. Una sola inconfondibile faccia, mille storie. Una sola cosa nella sua vita non cambierà mai: Niki a Monza, anche da manager rivale della Ferrari, giocherà sempre in casa.

Niki Lauda a Monza nel 1975 fotografato fuori dei paddock.


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1989 - 1995

Anni tristi e ruggenti. Senna muore in un incidente l’1 maggio 1994. La rivalità con Prost, il dominio della McLaren, le rivoluzionarie sospensioni attive delle Williams. GIORGIO URSICINO

■  Sette anni senza sorriso per la Ferrari nel gran premio di casa, un digiuno che va dal trionfo di Berger con la 6 cilindri turbo nel 1988 a quello di Schumi con la V10 aspirata nel 1996. Due epoche vicine ma diverse, con la prima che vede la vittoria dell’austriaco nel cuore del più lungo periodo senza titolo mondiale a Maranello (l’ultimo campionato lo aveva conquistato Scheckter nel 1979), mentre la seconda segna l’inizio dell’era della riscossa targata Jean Todt, Ross Brawn, Rory Byrne e, soprattutto, Michael Schumacher. Il dream team di Luca Montezemolo, salito alla guida del Cavallino alla fine del 1991. Un settennato di Formula 1 in cui ci fu il più grande sviluppo tecnologico con l’avvento dell’elettronica che gestiva i cambi automatici (fu introdotto proprio dalla Ferrari di Barnard nel 1989), le rivoluzionarie sospensioni attive (vietate nel 1994) e il controllo della trazione. Fu anche una parentesi triste per la perdita di uno dei campioni più grandi: il mitico Ayrton Senna salì in cielo 34

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picchiando contro il muro del Tamburello a Imola il primo maggio del 1994. Quei sette anni iniziarono nel pieno del duello Prost-Senna e con la Ferrari che cercava di spezzare il dominio McLaren (nel ‘90 il Mondiale fu a un passo) e finirono con le sfide Schumi-Damon Hill, alfieri rispettivamente di Benetton e Williams. Nel periodo il Gp d’Italia non ebbe un dominatore poiché solo il figlio di Graham riuscì a salire due volte (1993-1994) sul gradino più alto del podio. Oltre un ventennio fa, non sempre dominava l’accoppiata (auto-pilota) migliore poiché erano molto frequenti i problemi di affidabilità e spesso delle oltre 30 monoposto iscritte, meno di 10 concludevano le gare. Nel 1989 Alain Prost si stava prendendo la rivincita sul compagno Senna che aveva conquistato il titolo l’anno precedente era arriva-

Il brasiliano Ayrton Senna alla guida della McLaren numero 27 durante le prove del Gran Premio d’Italia del 1990.


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to a Monza in testa al Campionato. Le McLaren con il nuovo V10 aspirato non erano così imbattibili come quelle dell’anno precedente equipaggiate con il turbo (dominarono tutte le gare esclusa Monza, dove Ayrton gettò al vento un GP già vinto toccando il doppiato Schlesser a 2 giri della fine) e le Ferrari di Berger e Mansell riuscirono ad infilarsi nelle qualifiche fra Senna e Prost. In gara Ayrton fu tradito dal motore al 44° giro e Nigel dal cambio 3 tornate prima. Per primo sotto la bandiera a scacchi passò il professore francese (davanti alla Rossa di Gerhard vincitore l’anno precedente), che a fine stagione riuscì a riprendersi il titolo dopo il discusso contatto con il compagno di squadra a Suzuka. La prima di Schumi L’anno dopo Prost e Berger si scambiarono l’auto, ma a Monza Alain si dovette inchinare ad Ayrton con la McLaren-Honda che scattò dalla pole e vinse la gara precedendo, sia il sabato che la domenica, il francese con la Rossa. A fine stagione il brasiliano si vendicò buttando volutamente fuori strada in Giappone l’eterno rivale che così vide sfumare il sogno di riportare l’iride a Maranello. Nel 1991 le Ferrari sono meno in forma e Prost e Alesi scattano in terza fila dietro alle McLaren-Honda e alle Williams-Renault. Senna conquista ancora la pole, ma a vincere è Mansell, con Prost che agguanta il podio preceduto dal brasiliano. Patrese, con l’altra Williams, venne tradito dal cambio, mentre ci fu l’esordio di Schumi con la Benetton (quinto al traguardo davanti al compagno Piquet), che si scambiò il volante con Moreno. Il 1992 è l’anno del dominio di Nigel Mansell (conquista finalmente il titolo) e, soprattutto della Williams con le sospensioni attive. Anche a Monza il leone britannico centra la pole e in gara le due monoposto inglesi sono prima e seconda, ma entrambe hanno problemi e devono lasciare il trionfo a Senna che vince Settembre 2016 |

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Sopra: Nigel Mansell e Alain Prost in una pausa delle prove del Gran Premio d’Italia. A destra: il francese Alain Prost in azione nel 1994 con la McLaren Peugeot.

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il suo secondo Gran Premio d’Italia davanti alle Benetton-Ford. Nel 1993 Prost toglie il sedile Williams a Mansell, ma lo scenario non cambia. Alain si presenta alla gara del Parco con il titolo in tasca e centra una magnifica pole (è la dodicesima della stagione). Al termine delle qualifiche, le due Rosse di Alesi e Berger si sfiorano e l’austriaco, che non aveva rallentato dopo il traguardo, vola fuori pista e picchia duro per non centrare l’incolpevole compagno. Prost e il compagno Hill, scattati in prima fila, sono imprendibili, ma Alain, al suo ultimo anno in Formula 1, non riesce a mettere in bacheca il quarto trofeo di Monza perché il potente V10 Renault lo tradisce a cinque giri dalla fine e primo sul traguardo passa Damon. Secondo, staccato di oltre 40 secondi, Jean con il Cavallino che precede la McLaren-Ford di Michael Andretti. Per il figlio di Mario è il primo podio in Formula 1, ma anche la sua ultima gara nel Mondiale poiché, dal gran premio successivo, Ron Dennis

lo sostituisce con il giovane Mika Hakkinen. È il weekend dei patatrac fra compagni di squadra. Dopo l’incrocio fra le Rosse al termine delle qualifiche, le due Minardi passano in scia il traguardo. Quella di Fittipaldi, però, lo taglia solo dopo aver fatto il giro della morte per una toccata proprio sotto la bandiera a scacchi con la vettura gemella guidata da Martini. La grande delusione L’anno successivo non c’è più Ayrton e Damon Hill, promosso caposquadra ed impegnato a contendere il titolo a Schumacher, vince di nuovo a Monza precedendo di appena 4 secondi la Ferrari di Alesi che era partita dalla pole. Un buon risultato, ma per i tifosi una grande delusione poiché le due Rosse erano scattate entrambe in prima fila e sembrava proprio la giornata giusta per tornare a festeggiare. Nel 1995 grossa sorpresa, a vincere non è come quasi sempre avviene a Monza una delle monoposto parti-

te nelle prime file. In quella stagione la Benetton (che nel 1994 aveva portato Schumacher a vincere il Mondiale) era passata dai motori Ford ai Renault come la Williams. Tre delle quattro monoposto con i propulsori francesi conquistano le prime quattro posizioni in griglia, il terzo tempo è di Berger con la Ferrari. La quarta vettura con il 10 cilindri transalpino, la Benetton di Johnny Herbert, è solo ottava, staccata di quasi 2 secondi dal poleman Coulthard con la Williams. In gara Michael e Damon vanno in rotta di collisione al 23° giro e devono entrambi ritirarsi. Fra i due non è il primo incontro ravvicinato, si erano già presi a ruotate l’anno prima in Australia e il titolo era finito al tedesco. Coulthard si era fermato 10 giri prima. Le Ferrari di Berger e Alesi sono entrambe costrette alla resa per problemi meccanici. A vincere è Johnny Herbert che, alla sua settima stagione in Formula 1, centra il secondo trionfo dopo quello nel Gp di casa a Silverstone di poche settimane prima. 1989 Alain Prost McLaren Mp 4/5 1990 Ayrton Senna McLaren Honda 1991 Nigel Mansell Williams 1992 Ayrton Senna McLaren 1993 Damon Hill Williams 1994 Damon Hill Williams 1995 Johnny Herbert Benetton

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IL PERSONAGGIO

Ayrton Senna, la missione suprema. GIORGIO TERRUZZI

■  Ayrton Senna avrebbe oggi 56 anni,

compiuti il 21 marzo 2016. Avrebbe rughe attorno agli occhi, sulla fronte, niente che possa mascherare il suo sguardo serio e intenso, magari addolcito dal tempo, dalla percezione della maturità. Un passo ancora deciso, il sorriso dissociato dalla mezza età. È un volto che possiamo immaginare facilmente perché il volto di allora resta qui, resiste e ricompare; perché Ayrton continua a viaggiare nei nostri pensieri, nelle fantasie e nella memoria, per un conforto unico, prodotto da quella morte cruenta in pista, il primo maggio 1994. Un evento capace di consegnarci per sempre i tratti della giovinezza, i gesti di un campione dall’incedere furibondo, i comportamenti di un uomo esposto, attraversato da sentimenti mai scontati. Chi ha avuto il privilegio di lavorare in pista in quell’epoca, segnata dal suo correre, perdere, vincere, stravincere; dalla sua determinazione assoluta, dal bisogno di trovare una pace, di combattere anche con qualche avversario interno; di trovare conforto in Dio, di fare i conti con se stesso in un modo autarchico, manifesto e sconcertante, non può dimenticare affatto. Abbiamo cercato di corrergli dietro, in qualche modo, perdendo

il passo ma ritrovando lui, sempre, perché perderlo di vista era proprio impossibile. Meravigliati, come eravamo in molti, da un ragazzo preso da una sorta di missione suprema, dalla propria ombra, nella quale cercava un compendio alla luce abbagliante del talento. Una vicinanza comunque intensa, sufficiente a far scattare una curiosità e poi un interesse e poi qualche inattesa confidenza con un uomo che era capace di gesti lontanissimi dai nostri, dettati da un raggio celeste e poi, all’improvviso, protagonista di atti ben più leggibili, vicini, persino somiglianti ad una fatica comune e quotidiana. Un essere umano, semplicemente, simile a ciascuno di noi, pronto addirittura ad offrirsi così. Preso da un dubbio, da una rabbia, da una preghiera, da una debolezza, mentre in pista sembrava solo formidabile, un fenomeno, un vero capo. La morte è parsa come un sigillo così drammatico da rendere ogni resto memorabile a tempo indeterminato. Eppure non basta il capitolo ultimo e tragico per spiegare come mai Senna resta Ayrton, una figura leggendaria. Contano eccome i capitoli di una carriera sempre accompagnata da picchi evidenti. Nei momenti della gioia, così come nei momenti difficili.

Qualcosa che ha costretto chiunque a guardare nella sua direzione, a prendere in mano, a prendere atto, a valutare le caratteristiche di un viaggio unico. Umanamente unico, oltre che agonisticamente strabiliante. La fine di Ayrton, piuttosto, ci ha permesso di mantenere intatto quel patrimonio: uno scrigno dentro il quale rintracciare malinconicamente ciò che Ayrton mostrò a suo tempo, come pilota, come persona. Abbastanza per commuovere e rimpiangere ma anche per ripristinare una consolazione estrema. Il valore di un percorso, di uno sforzo spaventoso, persino di un insegnamento. È questo che conta, che porta Ayrton anche nel cuore e nella testa di chi non lo vide correre. Giovani o giovanissimi, pronti anche loro ad incontrare un uomo singolare e modernissimo. Luci e ombre, uniche e tenere, feroci e rare. Da guardarci dentro, guardando anche dentro noi stessi. È questa l’eredità. Ed è per questo che Ayrton continua a correre nei nostri pressi, sulle piste delle nostre fantasie, come un ragazzo fortissimo, fragile e, dunque, meraviglioso.

Ayrton Senna all’Autodromo di Imola, San Marino, 1990.

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1996 - 2006

Il Cavallino e la camicia bianca. La Ferrari e Schumacher accendono il nuovo millennio. Le lacrime di Montezemolo, la sfida con Montoya dove non sarebbe passato “neanche un foglio di carta�. ANDREA CORDOVANI

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Il tedesco allunga sin dai primi giri, tanto da prendere quei 10” di vantaggio che servono per battere Hakkinen, portarsi a meno due dal finlandese campione del mondo in carica con la McLaren e iniziare la ricorsa alla vertice della classifica. Obbiettivo che centrerà a fine anno mettendo le mani sul suo terzo titolo iridato, il primo da quando corre alla Ferrari. L’inizio di una serie interminabile di trionfi. C’è il mondo sconvolto alla fine dell’estate del 2001. L’11 settembre due aerei hanno centrato le Torri Gemelle seminando morte e terrore. A Monza si corre con le Ferrari listate a lutto. Poi all’improvviso un’altra notizia piomba nel paddock al sabato pomeriggio: Alex Zanardi ha avuto un terribile incidente al Lausitzring, in una gara Kart. E niente ha più senso, tanto che tra i piloti (Michael Schumacher in testa) c’è la voglia di tornare a casa. La gioia solitaria di

Juan Pablo Montoya sul podio senza champagne per la sua prima vittoria in Formula 1, il volto abulico di Michael Schumacher che avrebbe voluto smettere di correre, sono le grandi icone del malessere che si abbatte sul Gp d’Italia 2001. La terza piazza va a Ralf Schumacher, che sale sul podio controvoglia. Anche lui era giustamente d’accordo col fratello Michael per non correre. Un appello rimasto inascoltato. Il 2002 è una stagione di grandi cambiamenti in Formula 1: entra ufficialmente Toyota, mentre Renault prende il posto della Benetton con la Prost Gp che, senza soldi non si iscrive al campionato. Tre i debuttanti Massa Michael Schumacher, precede Felipe Massa suo compagno di scuderia, durante le sessioni di qualifica per il Gran Premio del Brasile sul circuito di Interlagos, ultima gara in Ferrari, 21 ottobre 2006.

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■  Il nuovo secolo in Formula 1 regala uno strepitoso ciclo vincente della Ferrari. Iniziano i trionfi del Cavallino di Luca Cordero di Montezemolo, Jean Todt e soprattutto Michael Schumacher. Dal 2000 al 2004 le Rosse tornano a essere protagoniste e non lasciano che le briciole ai rivali. Il Gp d’Italia del 2000, in realtà, è una sfida triste. Una carambola alla variante della Roggia dopo il pronti via. Una ruota assassina che si stacca dalla Jordan di Frentzen, rimbalza oltre i guardrail e uccide un addetto del servizio antincendio. Colpito alla testa e al torace perde la vita a 32 anni Paolo Gislimberti, un leone della Cea. Lo spettacolo però deve andare avanti e la scena è tutta per Michael Schumacher. Il ferrarista, dopo aver ottenuto la pole, in gara è perfetto. Scatta al comando e non molla più la testa se non per i pochi giri tra la sua sosta per rifornire e quella del rivale Hakkinen.

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Cambia tutto L’ennesima rivoluzione dal regolamento precede la stagione 2003 nella quale la Fia introduce cambiamenti sia per quanto riguarda le qualifiche che per l’assegnazione dei punteggi. È un campionato incerto fino alla fine quello che si dipana da marzo a ottobre e che a Monza vive uno dei week end più spettacolari. Da tre mesi non si nutre con una vittoria Michael Schumacher, quando prende il via del Gp d’Italia 2003. Ha una gran fame di successo, il tedesco della Ferrari che in molti danno per spacciato nella corsa al titolo che lo vede opposto al determinatissimo Juan Pablo Montoya. Per tutto il week end il colombiano della Williams è una vera spina nel fianco ma Schumi gli soffia la pole e va a giocarsela. Da duro contro un altro duro: “Tra noi non sarebbe passato neanche un foglio di carta in quel momento”, dirà poi Schumi che resiste e va in fuga per la vittoria. “È stata la giornata più bella della mia carriera”, spiegherà commentando la sua cinquantesima vittoria da ferrarista. Agitata da un vero e proprio allarme gomme, la vigilia del GP d’Italia 2004 lancia un rumoroso frastuono. Nel corso dei test una settimana prima del via, Michael Schumacher è andato a sbattere, cambiando i connotati alla sua Ferrari. Il tedesco arriva a 42

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(Sauber), Sato (Jordan) e Webber (Minardi). Però la novità più grande è che ha smesso di correre Mika Hakkinen, il grande rivale di Schumi e al suo posto c’è la giovane promessa finlandese Kimi Raikkonen. Ci sono immagini che rimangono indelebili anche a distanza di tanti anni. Come l’ondata rossa, caldissima e appassionata, che quella domenica di settembre del 2002 tracima in pista in una Monza che si è rifatta il trucco per il Gp d’Italia. È una stagione trionfale per Maranello, questa. I giochi nella corsa al titolo Piloti e Costruttori si sono chiusi da tempo. E a Monza quella delle Ferrari è una vera passerella trionfale, un altro uno-due col quale il Cavallino ha ammazzato il campionato.

Qui sopra: Il colombiano Juan Pablo Montoya e la sua McLaren-Mercedes celebrano, davanti al team Renault, la vittoria del Gran Premio d’Italia di Formula 1 del 2005. In alto a destra: il 12 settembre 2004 Rubens Barrichello festeggia sul podio la vittoria del Gran Premio d’Italia di Formula 1 a Monza.


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1996 Michael Schumacher Ferrari 1997 David Coulthard Mercedes W 196 1998 Michael Schumacher Ferrari 1999 Heinz-Harald Fretzen Jordan 2000 Michael Schumacher Ferrari 2001 Juan Pablo Montoya Williams 2002 Rubens Barrichello Ferrari 2003 Michael Schumacher Ferrari 2004 Rubins Barrichello Ferrari 2005 Juan Pablo Montoya McLaren 2006 Michael Schumacher Ferrari

Monza con il settimo sigillo iridato in carriera già cucito nel petto, l’ultimo della sua grande parabola di campionissimo. Ancora una volta i giochi per il Mondiale sono fatti e con la Rossa il vero eroe stavolta è Rubens Barrichello, che batte il compagno di squadra. Per la seconda volta in carriera, il brasiliano si prende gli applausi del pubblico di Monza. Ci sono tanti volti felici sul podio del Gp d’Italia 2005. Gente allegra per varie ragioni. Dopo tre anni di dominio s’è appena spezzata la serie di vittorie della Ferrari a Monza e stavolta si brinda al nuovo che avanza. Con la sua faccia da colombiano irriverente Juan Pablo Montoya si gode la scena festeggiando la sua seconda vittoria a Monza. È scattato dalla pole e ha subito preso il comando, senza mollarlo più. Dietro di lui chiudono le Renault

di Fernando Alonso e Giancarlo Fisichella. È dopo anni di attesa ritorna a sventolare il tricolore sulla pista di Monza. Il 2006 è una pagina che non si può scordare, una bella favola che tiene in vita la speranza della Ferrari e di Michael Schumacher di vincere un altro titolo. Monza 2006 è l’ultima stagione ferrarista di Schumi e anche sua ultima firma al Gp d’Italia. Quel giorno farà piangere il presidente Luca Cordero di Montezemolo, costretto ad asciugarsi le lacrime con la sua camicia bianca. Dietro a Schumi terminano Raikkonen e il sorprendente Robert Kubica. È un’altra ondata rossa il colore di una speranza che svanirà qualche mese più tardi, quando nel rush finale Alonso avrà la meglio su Michael che a fine anno smetterà di correre. Settembre 2016 |

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IL PERSONAGGIO

Michael Schumacher, uno che vinceva a luglio. FRANCESCO PATERNÒ

■  C’è sempre una vita sbagliata, una

cosa che non sarebbe mai dovuta accadere, un attimo che ti fa scrivere sulla bacheca del sito ufficiale di Michael Schumacher: “Io da certe foto non mi riprendo più”. Smettiamola di lamentarci di correre sempre e pensiamo invece a come stanno volando via i suoi giorni, appesi a un filo che poi è una macchina, e non più da pista. Schumacher, il pilota dei record per mondiali di Formula 1 vinti di cui cinque consecutivi, per numero di gran premi, di pole position e di giri veloci, si è fermato in una mattina di dicembre del 2013. Non il suo cuore, meno che mai la sua leggenda. Come sta? “Situazione complicata”, ci ricorda ogni tanto la portavoce Sabine Kehm. Un modo garbato per dire: lasciatelo in pace. Succede da quello schianto a bordo di un paio di sci a Méribel, nome che non assomiglia nemmeno da lontano a quello di un autodromo. Da un colpo troppo violento alla testa, dal ricovero, dal coma, dal ritorno a casa nel settembre di due anni fa. Succede da una riabilitazione lunga e oscura, da finte notizie sulla sua salute che ogni tanto inondano il web da una parte all’altra del globo, un tornado solo come il battito d’ali di una farfalla si dice possa provocare in uno opposto

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altrove. Succede. “Perché lui i mondiali li vinceva già a luglio”, ricorda un altro fan sulla bacheca del sito di Schumi, diminutivo forse fin troppo affettuoso per un tedesco che più tedesco non si può. In effetti è il 21 luglio del 2002 quando sull’asfalto francese di Magny Cours - Schumacher si porta a casa con largo anticipo il quinto mondiale piloti. Arriverà a sette nei due anni successivi, lui come nessun altro nella storia di questo sport, cinque dei quali al volante di una Ferrari, dopo l’esordio nella Formula 1 nel 1991 su una Jordan e due titoli mondiali con la Benetton. #keepfightingmichael, tieni duro Michael, è il muro virtuale del sito sul quale amici, rivali, fan e appassionati lasciano una speranza. Un muro che tutti vorrebbero ora lui abbattesse per riprendersi la vita, né più né meno come ha polverizzato tutti gli altri record. Tipo superare Juan Manuel Fangio nell’ottobre del 2003 quale pilota più titolato della formula 1. O ridare alla Ferrari il mondiale piloti nel 2000, dopo 21 lunghissimi anni. O annunciare con dignità, il 10 settembre del 2006 a Monza, il suo primo ritiro dalle corse, perché uscire di scena è sempre più difficile che entrarci, come insegna il teatro. Incassando senza batter ciglio il saluto

di Bernie Ecclestone: “La Formula1 esiste da 56 anni, siamo sopravvissuti alla morte di Senna, credo che anche senza Schumacher andremo avanti”. Già, Senna. Un altro mito, così diverso. Col Senna di poi, si può dire che il brasiliano sia l’unico pilota dell’era moderna ad aver forse negato a Schumacher l’ultimo record, quello della popolarità. Anche perché il tedesco, in fondo, è un anti-eroe: in pista ne ha sempre più date che prese, ma davanti a un microfono non si è mai sforzato di sembrare simpatico, nemmeno imparando anche controvoglia un po’ di italiano a casa Ferrari. Un mito mai mediatico, ma di sostanza. Con una eccezione a confermare la regola. Nel 1999, Schumacher è protagonista di uno spot per la Fiat Multipla. Auto a sei posti, lui che sposta sei sedie in un ristorante, che sorride e fa sorridere, una nonna che chiede al nipote: “Chi è quel giovanotto? Vende automobili?”. Uno Schumacher inedito, singolare e plurale seguendo il claim della Multipla. Hashtag tieni duro Michael, come diremmo a nostro fratello. Michael Schumacher saluta i fan sul circuito di Monza nel 2006.


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2007 - 2015

La gente dentro il cuore.

PINO ALLIEVI ■  “Sa cosa le dico? Che Monza mai e poi mai potrà fare a meno della Formula 1. I piloti e le scuderie vanno e vengono, un circuito resta. Io ero affascinato quando vedevo le monoposto transitare sull’anello di alta velocità, ma è giusto che per una questione di sicurezza quel tratto di pista ora non ci sia più, anche se conservo ricordi memorabili. Non toccatemi Monza …”. 46

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Enzo Ferrari raccontava queste cose nel mese di dicembre del 1986 e s’infervorava perché amava davvero il circuito lombardo, lui che si sentiva un po’ milanese avendo legato la sua vita all’Alfa Romeo per un lungo periodo. Fu proprio a Monza che Ferrari rivelò a chi scrive l’idea di voler editare un quotidiano dell’automobile, spinto da Marcello Sabbatini che ai tempi dirigeva magistralmente Autosprint. E poiché era affezionato alla Gazzetta dello Sport, avendovi

collaborato per la rubrica Calcio (sua una memorabile cronaca della partita Modena-Inter), ci chiese anche di perorare la causa con l’editore, perché l’alleanza gli sarebbe piaciuta. A lui pensammo con nostalgia il 12 settembre 2012 quando Fernando Alonso salì sul podio planetario dell’Autodromo dopo aver trionfato nel Gp d’Italia con la Ferrari F10: Enzo Ferrari sarebbe impazzito di gioia nel vedere tutta quella gente


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Succede a chi ha vissuto l’autodromo e a chi ci corre ancora. Dalle memorie di Enzo Ferrari (“non toccatemi Monza”) al “tedeschino” Vettel alla passione dell’inglese Hamilton.

che aveva invaso la pista sventolando le “sue” bandiere. Una scena da film: “Sì, proprio così – racconta oggi Fernando – forse la più bella dei miei anni a Maranello. Solo chi ha il privilegio di correre con la Ferrari sa che cosa significhi sentire la gente che ti entra dentro il cuore e dentro la vita. Non succede con nessun’altra squadra e sono felice di aver dedicato un pezzo della mia avventura sportiva alla Ferrari”. Per la cronaca, Alonso aveva fatto suo il Gp d’Italia anche nel

2007 con la McLaren, ma nessuno lo ricordava più. Ecco, la Ferrari e Monza, la Ferrari e i tifosi, la Ferrari e l’attesa – per l’anno dopo – del nuovo pilota, dell’eterno salvatore. Alonso giunse quinto con la Renault nel Gp d’Italia dell’anno prima, vinto da Barrichello con la Brawn Gp, già primo con la Ferrari nel 2002 e 2004. Ma poiché i tifosi avevano sgamato, leggendo i giornali, che a fine stagione Fernando avrebbe indossato una tuta rossa, si accalcarono a fargli

7 settembre 2014, il pilota inglese Lewis Hamilton sulla sua Mercedes al Gran Premio d'Italia. A fine gara arriverà primo.

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sentire il loro affetto e le foto di Alonso che firmava in anticipo magliette della Ferrari furono il leit-motiv del gran premio 2009. Il fatto che avesse vinto un ex-ferrarista, Rubens Barrichello, lasciò tutti abbastanza indifferenti. Perché il tifo è cieco, crudele. Sei anni di Ferrari cancellati in un colpo, il brasiliano percepito come un nemico. Ne sa qualcosa, in fatto di amarezze, anche Michael Schumacher, che si ripresentò a Monza, dopo tre anni di stop, alla guida di una Mercedes nel 2010, piazzandosi al nono posto. Pensate che qualcuno gli abbia porto un fiore, un sorriso, un gesto di riconoscenza? Zero o quasi, undici anni di Ferrari negati come se avesse tradito la patria. Qualcuno osò persino fischiarlo, un sacrilegio. Ma la cosa più feroce fu la totale indifferenza. Monza, quando vuole, è spietata, senza cuore. Anche nel 2011, quando si piazzò quinto nella gara appannaggio di Vettel con la

Qui a fianco: Lewis Hamilton sulla Mercedes Campione del Mondo 2016. In alto a destra, Sebastian Vettel della Red Bull è portato dai meccanici nei box durante le prove libere del Gran Premio d'Italia del 2014.

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Toro Rosso, Schumacher fu trattato al pari di uno dei tanti comprimari della corsa. La speranza tedesca Alla fine, comunque, tutti i grandi campioni sono legati a Monza da un episodio, un trampolino di lancio. Ne sa qualcosa Sebastian Vettel che, quasi totalmente sconosciuto, uscì come un gigante da un’edizione dantesca del Gp d’Italia, alla guida di una Toro Rosso, con un diluvio che durò da sabato a domenica compresa. Bene, Vettel era un tedeschino di buone speranze ma fu Monza a decretarlo possibile campione per l’abilità che dimostrò sul bagnato: “Sebastian – disse il suo mentore Gerhard Berger – è un pilota di vent’anni che corre con la maturità di un trentenne e il cervello di un cinquantenne. Conquisterà sicuramente un mondiale”. Ne ha vinti quattro sinora e

spera nel quinto col Cavallino, chissà quando. Un portento. Fece bene la Ferrari a tenerlo d’occhio e a ingaggiarlo non appena si presentò l’occasione. I successi di Vettel a Monza con la Red Bull sono stati due e dopo il trionfo del 2013 fu chiaro che il suo futuro sarebbe stato, di nuovo, italiano. Con lo scudetto Ferrari sulla tuta. Da qui i festeggiamenti anticipati, gli auguri, l’incoraggiamento caloroso che ebbe. Anche Hamilton adora Monza e appena può ricorda che due anni fa potè girare con una Mercedes d’epoca anche sul catino di alta velocità – ma senza forzare, solo per vedere e capire – insieme con Stirling Moss. Una immagine indelebile, un’emozione senza compromessi per un pilota che avrebbe trascinato gli entusiasmi in qualunque epoca si fosse cimentato. Per questo il pubblico di Monza lo ama e lo rispetta. Anche se non guida una macchina rossa.


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2007 Fernando Alonso McLaren- Mercedes 2008 Sebastian Vettel Toro Rosso 2009 Rubens Barrichello Brawn GP F1 Team 2010 Fernando Alonso Ferrari 2011 Sebastian Vettel Red Bull 2012 Lewis Hamilton McLaren 2013 Sebastian Vettel Red Bull 2014 Lewis Hamilton Mercedes 2015 Lewis Hamilton Mercedes

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IL PERSONAGGIO

Sebastian Vettel, un predestinato. FRANCO NUGNES

■  Si aggirava nell’hospitality della Sauber Bmw come fosse lì per sbaglio. Era imberbe con la capigliatura bionda da paggetto che incorniciava gli occhi azzurri e uno sguardo molto curioso, intelligente. Anche se aveva il pass al collo, poteva essere tutt’al più un tifoso di Robert Kubica o Nick Heidfeld, i due piloti titolari. Era un adolescente al quale era difficile dare un’età. In mano aveva un foglio: erano i tempi della seconda sessione di prove libere del GP d’Italia 2006. In cima alla lista c’era il nome di quel ragazzo dalla faccia da bambino: Sebastian Vettel. Un 19enne, tedesco di Heppenheim, di cui si diceva un gran bene. Al debutto in auto due anni prima, già sponsorizzato Red Bull, aveva vinto 18 delle 20 gare della Formula Bmw Adac e nelle altre era salito sul podio. E anche quel giorno era stato il più veloce in tutti e due i turni del venerdì, replicando quanto aveva già fatto vedere in Turchia, dove aveva guidato la Bmw Sauber F1.06 per la prima volta. Meticolosamente analizzava gli intertempi e quello che poteva essere il suo giro ideale: “Avrei potuto fare meglio!”. Un predestinato? Certamente, ma bisogna essere al posto giusto nel momento giusto: in quell’anno la FIA aveva concesso alle squadre che non

erano dei top team di schierare una terza macchina nelle libere del venerdì, a patto che nell’abitacolo ci mettessero dei giovani talenti da svezzare. E meno di un anno dopo è arrivata la chiamata improvvisa: dopo il terribile capottamento di Robert Kubica in Canada, il polacco per precauzione dei medici non può correre e Sebastian disputa il Gp degli USA a Indianapolis. Finisce ottavo: a 19 anni, 11 mesi e 14 giorni diventa il più giovane pilota a punti. Ha sempre detto che i record non lo interessano, eppure li insegue. Perché ci sono i piloti, ci sono i campioni e, raramente, si affacciano al mondo dei Gp i fuoriclasse, quelli che innalzano lo sport in un’altra dimensione. E Monza diventa il teatro di un’altra impresa. Vettel viene chiamato dalla Red Bull a sostituire Scott Speed sulla Toro Rosso. Le qualifiche del Gp d’Italia 2009 si disputano sotto al diluvio e il tedesco che è un mago della guida sul bagnato - conquista una pole insperata con la STR3 spinta dal motore Ferrari. La partenza al palo viene festeggiata come una vittoria, perché nessuno crede a un possibile successo del team di Faenza. Piove anche la domenica e dopo un via in safety car, Sebastian prende le redini della corsa, costruita su due pit stop. Una tattica che sarebbe suicida

con l’asciutto, ma funziona con il bagnato perché Sebastian parte con una monoposto più leggera e può guadagnare un buon vantaggio per tenere a distanza Heikki Kovalainen con la McLaren. È il trionfo: ha guidato la Toro Rosso come un veterano. Diventa il più giovane vincitore di un Gp e per la prima volta un motore Ferrari vince una gara su una monoposto clienti. È il trampolino di lancio verso la Red Bull Racing e quattro titoli mondiali con il team di Milton Keynes. Con le monoposto disegnate da Adrian Newey ha dominato il campo: i suoi detrattori lo hanno accusato di guidare la migliore Formula 1 in circolazione, ma il tedesco ha avuto la capacità di far sembrare semplici imprese memorabili che gli hanno fruttato 38 vittorie. La dedizione mono-maniacale per le corse, insieme ad una sensibilità di guida che si estremizza nella capacità di saper sfruttare la frenata al limite, lo hanno portato alla Ferrari, dove conta di scrivere un nuovo capitolo di una storia. Che, magari, avrà ancora Monza nel suo epicentro.

Il pilota Ferrari Sebastian Vettel durante una sessione fotografica.

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Mad Max. MICHELA CERRUTI

Verstappen, 18 anni, è il principale protagonista fra i giovani piloti del Campionato 2016. Uno che si diverte da matti e inevitabilmente fa divertire. Sussurri e grida dal vivaio più veloce del mondo all’alba del Gran Premio d’Italia.

Max Verstappen sul podio durante la premiazione del Gp di Silverstone, Inghilterra, del 10 luglio scorso.

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■  Con tredici Gp alle nostre spalle, siamo finalmente giunti a una delle tappe europee del mondiale di Formula 1 più attese e amate non solo da noi italiani, ma dalla stragrande maggioranza dei tifosi di tutto il mondo: il Gran Premio d’Italia. Monza ha scritto sì la più bella storia dell’automobilismo, ma negli anni è dovuta anche crescere, si è dovuta adattare alla veloce evoluzione di questo sport e ai nuovi standard di sicurezza necessari a ospitare oggi la massima serie, segno che il circuito brianzolo vuole restare protagonista anche nel presente, ma soprattutto nel futuro delle competizioni di massimo livello. Ogni intervento che andasse a modificare una curva o l’altra, rendendolo più gentile con i piloti e potenzialmente meno adrenalinico, avrà anche scatenato grandi polemiche, ma non ha mai cambiato il sentimento che questo luogo magico suscita in ogni appassionato, in ogni pilota di oggi e di ieri. Un mondiale ancora aperto, una Mercedes imprendibile inseguita da outsider scatenati e stufi dell’eterno secondo posto, una Ferrari ancora alla ricerca di se stessa, Lewis Hamilton e Nico Rosberg pronti a darsele già alla prima staccata (e che staccata!) e un giovane terribile lanciato verso la gloria: Max Verstappen. All’alba del nostro Gran Premio di casa, questo è il quadro generale di una Formula 1 2016 che sembra proprio aver ricevuto un dono importante grazie anche all’arrivo di questo giovane pilota olandese di casa Red Bull. Un passaggio improvviso dalla Toro Rosso alla sua sorella maggiore

prima del Gp di Spagna che ha scatenato critiche e scetticismo ma che d’altra parte ha permesso a Max di dimostrare quanto l’apparente follia di Helmut Marko sia stata semplicemente una geniale intuizione. Una vittoria e altri tre podi (almeno fino a Spa) sono il bottino che il ragazzo si è messo in tasca dopo poche gare con una facilità quasi disarmante. Protagonista di un weekend monegasco costellato di incidenti e di una serie di qualifiche non brillantissime, con la sua determinazione è migliorato in modo incredibile. Entrando di diritto nella lista dei grandi campioni dopo il Gran Premio di Silverstone, durante il quale ha regalato una lezione gratuita di guida sul bagnato a gran parte dei piloti presenti sulla griglia di partenza, provocando più di qualche mal di stomaco al suo più esperto compagno di squadra, Daniel Ricciardo. La sua lotta con Rosberg, lo sbeffeggiamento ad Hamilton dietro le quinte del podio inglese, il duello ungherese con Raikkonen dimostrano una caratteristica di questo giovane che lo rende un vero toccasana per la Formula 1 di oggi: Verstappen si diverte da matti e inevitabilmente fa divertire anche noi. E se a carte fatte Monza non è proprio il circuito più adatto alla Red Bull per via dei lunghi rettilinei, sembra che, al contrario, non esista luogo in cui Max non possa dare filo da torcere ai veterani in lotta per il campionato. Anzi, grazie alla sua straordinaria abilità in frenata, è probabile che proprio lui riesca a smentire chi dice che nel Gp di Monza si supera solo sul dritto. Una cosa è certa, il divertimento in questo Gp d’Italia 2016 non mancherà.

Verstappen si inserisce, ma brillantemente stona, in una generazione di piloti che sembrano a tratti robotizzati, schiavi di simulatori e telemetrie, inseguitori della tecnica perfetta, maniaci di preparazione fisica e soprattutto dimentichi di quanto importante sia il ruolo dell’istinto e della passione nell’espressione pura del proprio talento. Il pubblico vuole emozionarsi e giovani come Verstappen sono fondamentali per raggiungere questo obiettivo. Di Max ce n’è uno solo, o forse uno ogni decennio, ma è plausibile pensare che in futuro arrivi qualcuno a sfidare la sua voglia di vincere. Un altro piccolo grande ero e viene dal Belgio e ha esordito in maniera eccezionale in Bahrain al posto dell’infortunato Alonso. Stoffel Vandoorne, ventiquattrenne belga, ha portato i primi punti in casa McLaren-Honda alla sua prima gara in Formula 1 ed è inevitabile sperare di vederlo promosso a pilota ufficiale già dal prossimo anno. E visto che sembra che la Ferrari ci farà soffrire ancora per qualche tempo, non possiamo far altro che guardare un po’ egoisticamente a un altro importante pezzo d’Italia che si sta facendo largo in maniera arrembante in Gp2 e Gp3. Se Luca Ghiotto, Antonio Giovinazzi e Raffaele Marciello, a suon di podi stanno riaccendendo la speranza di rivedere presto un italiano nella massima serie, con Antonio Fuoco, pilota della Ferrari Driver Academy in Gp3, possiamo sognare anche qualcosa di più, ovvero che quel prossimo italiano in Formula 1 possa sfrecciare a Monza su una macchina rossa, tutto vestito di rosso.

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IO C’ERO

La mia Monza. I. CAPELLI, A. DE ADAMICH, G. C. MINARDI, F. WILLIAMS

Cose mai viste in nessuna parte al mondo. Piloti e squadre che qui hanno corso e vinto tra staccate, accelerazioni e tanta adrenalina. La nostalgia e la passione che non passa.

Ivan Capelli. Il destino gioca con me fin dal mio luogo di nascita: Milano, Viale Monza 117. Imparato il mio indirizzo a memoria, la parola Monza, senza rendermene conto, cominciava a segnare il mio percorso sin da bambino. A Monza ho visto per la prima volta le vetture di Formula 1, arrampicato sulla rete del campeggio adiacente la pista. Ho debuttato sulla pista Junior nel mio primo test al volante di una Formula 3 nel 1981. In Formula 3 nel 1983 ho alzato la coppa da vincitore e macinato chilometri in tutte le categorie possibili. Nel 1985 con la Formula 1 AGS ho debuttato da pilota della massima categoria per monoposto, e scoperto negli anni cosa voleva dire arrivare all'Autodromo Nazionale di Monza, come portacolori della scuola italiana in Formula 1. Nel 1988 con la Leyton House e un motore aspirato contro i propulsori turbo delle altre, sono arrivato quinto conquistando 54

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dei punti preziosi per il Campionato del Mondo Piloti. Il culmine dell'emozione è stato però presentarsi a Monza come pilota Ferrari. Era il 1992 quando i 12 cilindri aspirati rombavano lungo i lunghi rettilinei nel grigio dell'asfalto divorato dalla velocità, l'orizzonte del cielo azzurro veniva bordato dal verde del parco e del rosso delle bandiere del cavallino rampante che si agitavano sulle tribune a ogni passaggio. Un gioco cromatico mai vissuto in nessuna altra pista al mondo. Il rammarico di quegli anni è non essere mai salito sul nuovo podio a sbalzo sui tifosi e poter condividere la gioia più bella: la vittoria. Il destino poi mi ha voluto regalare l'onore di poter vivere e raccontare, attraverso le telecronache della Rai, le più belle pagine di Monza dei nostri giorni. Accanto al lavoro in tv, da luglio 2014 sono stato eletto Presidente dell'Automobile Club di Milano,


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che ha nell'Autodromo Nazionale di Monza il fiore all'occhiello. Ho cominciato e capire la “macchina” organizzativa di SIAS (Società Incremento Automobilismo Sport) che gestisce l'Autodromo. I miei occhi oggi non vedono solo l'agonismo della pista o la fatica di chi lavora ai box: oggi comprendo le difficoltà dei costi e ricavi di ogni evento che pone problemi in alcuni casi quasi insormontabili. Il rinnovo del Gran Premio d'Italia a Monza ne è l'esempio più calzante. Due anni di preparazione con AC Italia ed il Presidente Angelo Sticchi Damiani, insieme a Comune di Monza, quello di Milano e la Regione Lombardia, con l'apporto determinante del Presidente Roberto Maroni, per arrivare alla firma del contratto di Formula 1. Tutto questo, continuando a lavorare con il Consiglio Direttivo di AC Milano ed il Consiglio di Amministrazione di SIAS, per poter gestire e coordinare l’organizzazione del Gp d'Italia 2016, dove la molteplicità delle aree, come ad esempio la viabilità esterna, la gestione della sicurezza, i rapporti con la FOM (Formula One Management), sono solo una piccola parte della complessità. Perché oggi Monza significa soddisfare le aspettative di 140.000 appassionati, 350 giornalisti e 150 fotografi e devo dare un forte riconoscimento allo staff di AC Milano e di SIAS, che da anni affrontano l’evento riuscendo a migliorare sempre. Monza però non è solo Formula 1, ma anche Rally, Coppa InterEuropa, Campionato GT Blancpain e tante altre manifestazioni non strettamente legate al mondo dei motori ma ugualmente importanti. In tanti mi chiedono se ho nostalgia di quando ero pilota: sarei bugiardo a dire di no, soprattutto perché guidare una monoposto è adrenalina pura. Oggi lo è pensare che “guidando” AC Milano ed indirettamente SIAS, ci sono 80 famiglie che dipendono dalle decisioni prese ed è per questo motivo che non ci si può permettere di andare fuori pista, tanto quanto dovevo fare quando ero al volante di una Formula 1.

Andrea de Adamich. Ho scoperto le corse … attraverso le autosciatorie studentesche prima, e poi con le gare in salita che, di nascosto dalla famiglia, mi hanno proiettato verso il concetto della velocità. Sono un autodidatta, e sono appunto io che mi sono autogasato con le sensazioni adrenaliniche ed emozionali che dà il guidare al limite in un percorso stradale chiuso al traffico, tagliando le curve e cercando dei limiti al volante che mai prima avevo vissuto. In questo contesto Monza è divenuta il mio punto di riferimento per capire meglio il significato di traiettoria, di frenata, di percorrenza, di accelerazione in uscita verso il rettilineo, sia quella lunga stradale, sia quella corta Junior in cui la ripetitività del tracciato relativamente di 2 chilometri circa ti permetteva di verificare la tua continuità di prestazione. Inutile essere super veloci un giro se poi in tutti gli altri eri lento, pericoloso e disordinato al volante. Saltando le fasi intermedie, la mia velocità con la Formula Junior (1963Lola usata) mi ha proiettato verso la squadra ufficiale Alfa Romeo che in quegli anni ’60 rientrava nel mondo delle corse ufficiali attraverso il Turismo ed il Gt; eccomi “sposato” con la pista di Monza di allora, in tutte le sue configurazioni: stradale, Junior e Sopraelevata che integrata con la stradale rappresentava un percorso di 10 chilometri. E niente chicane e rallentamenti ma pelo sullo stomaco per affrontare il Curvone, l’Ascari, la prima e seconda di Lesmo. Per un pilota ogni gara, ogni vittoria rappresenta un valore a se stante, legato al momento della propria car-

riera, dei propri obiettivi ed aspettative, della macchina che si guidava. Vorrei evidenziarne tre mie in particolare : innanzi tutto la 4 ore Jolly Club 1965 - Campionato Europeo Turismo (il Mondiale non esisteva), primo assoluto con la Giulia TI Super Quadrifoglio dopo un strenua battaglia con le Lotus Cortina e BMW 2002 TISA ufficiali, che dominavano allora in tutte le altre piste. Le paraboliche dell’alta velocità che per la prima volta affrontavo cercando di far scorrere la mia Giulia il più fluidamente possibile, così che non vi erano forze laterali o di schiacciamento sul banking che le potevano far perdere giri motore e velocità. Dopo 12 mesi eccomi lì, 1966 e una spettacolare e super competitiva Giulia GTA. La dominatrice del Campionato Europeo Turismo da me poi vinto in assoluto; il problema a Monza quella volta, sempre sui 10 chilometri dello stradale integrato all’alta velocità, erano tutte le altre GTA presenti di piloti e scuderie italiane e tutte quelle straniere in assoluto, aiutate inoltre dall’immenso effetto scia che in quegli anni rappresentava l’elemento più significativo di Monza, Formula 1 inclusa. Guadagnavi qualcosa al curvone, o magari alla seconda di Lesmo sul branco di GTA dietro di te (da otto a dieci, almeno nei primi giri), ed eri


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L'incidente tra Luca Badoer della Minardi (a sinistra) e Toranosuke Takagi della Arrows, Gp di Monza il 12 settembre 1999.

Gian Carlo Minardi. L’Autodromo di Monza, universalmente conosciuto come il Tempio della Velocità, compie 79 anni. Nel 2015 il Gran Premio è giunto alla sua 86ª edizione, 78 delle quali si sono svolte all'Autodromo Nazionale Monza. Di queste, 21 edizioni, dal 1985 al 2005, ho avuto il piacere di partecipare come attore con la mia squadra, il Minardi F1 Team. Ventuno anni vissuti intensamente e Monza era per la nostra squadra l’occasione per fare vivere da vicino a sponsor e amici, il lavoro svolto durante la stagione. In modo particolare, fino alla fine degli anni 90 nel mese di agosto si svolgevano dei test collettivi in preparazione del Gp che storicamente si tiene nelle prime due settimane di settembre e le tribune e box di Monza venivano presi d’assalto da tifosi e amici. Anche grazie ai controlli meno severi da parte della FOA rispetto a oggi, riuscivano vivere da vicino le sensazioni che una Formula 1 può dare. In questo circuito si raggiungono le massime velocità del mondiale, circa 370 km l’ora alla staccata della prima variante, per ben 75% del giro il motore viaggia, come si dice in gergo, a farfalla aperta, mettendo a dura prova i propulsori di tutte le vetture, anche perché la media sul giro va oltre i 260 km l’ora. Monza, nonostante le modifiche apportate per la sicurezza, rimane il vero Gran Premio, uno di quelli che hanno fatto la storia della Formula 1 e con le sue curve veloci, come la Parabolica, le due curve di Lesmo, i lunghi rettilinei seguiti da chicane lente, una delle sfide più impegnative per piloti e team. Con il Minardi Team abbiamo ot-

tenuto diversi piazzamenti nei primi dieci, pur se in tutta la nostra storia non abbiamo mai usufruito di motori ufficiali e allora andassero a punti solo i primi sei. Abbiamo fatto gare emozionanti e al cardiopalma, come per esempio l’arrivo in volata nel 1993 con il settimo (Martini) e ottavo posto (Fittipaldi). Con Fittipaldi che, toccatosi con Martini a pochi metri dal traguardo risucchiato dalla scia, lo tagliava piroettando in aria e atterrando per fortuna senza conseguenze alcuni metri dopo sulle quattro ruote. Nel 2006 la Minardi Team diventa Toro Rosso e nel 2008 Sebastian Vettel - con l’ancora piccolo team di Faenza - centra una vittoria storica, emozionante, che ho seguito davanti alla televisione e vedendo esultare tanti miei ex tecnici e meccanici, mi sono sentito anch’io partecipe di quel risultato.

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D. Amaduzzi.

primo, ma dopo qualche chilometro ti passavano in cinque a destra e sinistra e ti ritrovavi appunto sesto o settimo; e così ad ogni giro. Vorrei chiudere i miei ricordi di gare monzesi con la 1.000 km dello stesso anno di questa 4 ore Turismo. In quel 1966 poi l’Alfa voleva rientrare nel giro delle gare del Mondiale Marche Sport-Prototipi con una evoluzione della oramai superata TZ 1: la TZ 2 bella, filante e competitiva nella classe GT del mondiale 1.6-2.0. Debutto in una gara che dava anche dei bei riflettori per un giovane rampante. Velocissimo in prova: 7° tempo assoluto con la pista umida, dietro a Ferrari e Porsche ufficiali ben più potenti di noi, ma davanti ad altrettante vetture dello stesso calibro. Settimo posto assoluto anche alla fine della gara: era una prova mondiale a Monza ed ero andato più forte di tante altre vetture e piloti che sino all’anno prima leggevo sui giornali con ammirazione e invidia. Monza è stato tutto ciò per me ma altresì molto di più: quindi “grazie Monza io ti ricordo e tu ricordati di me”.

Frank Williams. “Per me c’è tantissima passione durante il week end. Ciò è essenziale per la Ferrari perché è il circuito di casa”. Questo afferma Frank Williams quando gli si domanda cosa significa Monza nella sua personale esperienza. E se gli si chiede di suoi ricordi felici sul circuito brianzolo risponde: “Una delle tante nostre vittorie”, non dando a nessuna un valore maggiore rispetto a un'altra. Così anche quando gli si chiede dei figli: “Sono le persone più importanti, ma in egual misura.” Sir Frank Williams è l’emblema dell’equilibrio e proprio questo forse gli ha permesso di vincere un destino che gli ha riservato anche prove non facili da superare. Settembre 2016 |

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INNOVAZIONE

Tecnologia condivisa. MAURO COPPINI

La bella relazione tra la Formula 1 e l’evoluzione delle auto di serie. Dalla “plastica” all’importanza dell’ibrido. ■  Il rapporto tra la Formula 1 e l’evoluzione dell’auto tiene banco da sempre. Quasi a testimoniare quell’ansia di legittimazione che la caratterizza. Del tutto comprensibile, perché una attività che comporta investimenti elevati ed elevati rischi per chi vi partecipa, finisce per trovarsi ciclicamente sul banco degli imputati. Non è un’operazione semplice e spesso neppure convincente. Il rischio è quello di ridurre il tutto alla banale elencazione di singole parti meccaniche nate per la corsa per essere poi cedute alla grande serie. Intendiamoci, è tutto vero. Ma non è abbastanza: sarebbe ingeneroso, infatti, ridurre il rapporto tra Formula 1 e auto di tutti i giorni al semplice trasferimento a senso unico di componenti, qualunque sia la loro importanza. Sono i flussi dell’innovazione che scorrono nei due sensi e non le singole soluzioni a rappresentare la vera essenza del rapporto. A parità di obiettivi assistiamo a diverse strategie da parte dei protagonisti. La Formula 1 degli “assemblatori” degli anni 60 e 70 compensava gli 58

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scarsi investimenti con inventiva e genialità. Caratteristiche che troviamo anche nelle auto di produzione di quegli anni, con lo sdoganamento del motore posteriore, la crescente attenzione al contenimento dei pesi e con la guidabilità a sostituire i valori di potenza massima, fino ad allora prioritari in una auto da corsa. La strada della McLaren Negli anni 80 saranno invece i materiali compositi, oggi impiegati su molte berline di serie, a fare la differenza. È la McLaren a indicare la strada che porterà, parole del pilota John Watson, all’auto di “plastica”. Ma come sempre accade quando si ripercorre a ritroso il cammino dell’innovazione, è facile rendersi conto di come l’impiego di un materiale così rivoluzionario non possa che essere propiziato dallo sviluppo di progetti autonomi avviati con molto anticipo rispetto alla adozione su una monoposto. I prototipi Chapparal e Ford e la Ferrari, la prima ad impiegare un profilo alare su una vettura di For-

mula 1, grazie all’intuito dell’ingegner Mauro Forghieri, aprono la strada già alla fine degli anni 60 ad una aerodinamica capace di trasformare una quota della resistenza all’avanzamento in un carico supplementare, in grado di accentuare l’aderenza della monoposto senza per questo essere chiamata a pagare il conto in termine di accentuazione dell’inerzia. E sarà proprio questa intuizione a scavare un solco insuperabile tra monoposto ed auto di serie. Fino ad allora la ricerca era votata essenzialmente alla riduzione del coefficiente di penetrazione, ai fini della ricerca di quella velocità massima nella quale si identificava il livello prestazionale. Non per nulla negli anni 70 sulla pista di Monza le monoposto “siluro” superavano i 240 km/h di media. Con l’avvento dell’effetto suolo e della deportanza aerodinamica, anticipata dalla Ferrari 312B pro-


Un mondo che cambia. Oltre al MGU-K (il vecchio Kers) ora il regolamento prevede un secondo motore elettrico collegato al turbo (MGU-H).

tati ottenuti dalle Power Unit sono impressionanti. All’abbattimento dei tempi sul giro nella quasi totalità dei circuiti del mondiale, si accompagna una contrazione dei consumi fino ad ora impensabile. Si passa dai 200 litri di carburante necessari ai propulsori aspirati della precedente generazione per percorrere i 300 km di un Gran Premio agli attuali 130 con percorrenze per litro che salgono da 1,5 Km/ litro a 2,3 Km/litro.

MGU-H

Renault.

MGU-K

prio a Monza con Jaky Ickx alla guida, è l’accelerazione laterale e quindi la velocità in curva a dominare i pensieri dei progettisti e fare della Formula 1 una “eccezione” automobilistica. Trasferendo la Formula 1 in un universo a se stante, privo di contatti con quello all’interno del quale maturano le esperienze dell’utente comune. Isolamento e Condivisione Un isolamento destinato a continuare negli anni 90 e 2000, quando le istanze legate allo spettacolo ed al contenimento dei costi si fanno dominanti . Propulsori tecnicamente affascinanti ma disallineati rispetto ad una produzione di serie che aveva imboccato con decisione la strada della sovralimentazione con turbocompressore privilegiando la coppia, la guidabilità e il contenimento di consumi ed emissioni rispetto alla potenza.

Solo nel 2014 i due mondi, Formula 1 e produzione di serie, tornano a condividere obiettivi e soluzioni. E non poteva essere altrimenti perché la strategia di Jean Todt volta a riportare in pista i grandi marchi Mercedes, Honda, Renault e una Ferrari, sempre più integrata in Fca, ha comportato investimenti così rilevanti da poter essere legittimati solo se inseriti in una attività commerciale e di marketing in grado di produrre effetti sull’intera gamma prodotto. È per soddisfare questa esigenza che i motori termici convenzionali cedono il passo alle Power Unit, sistemi complessi all’interno dei quali un propulsore termico turbo compresso collabora con motori elettrici e batterie a rappresentare il punto più alto di quella tecnologia ibrida, finalizzata al recupero di energia termica e cinetica altrimenti dispersa. Al secondo anno di applicazione i risul-

Meno cavalli, più efficienza Ma il contributo della Formula 1 allo sviluppo della tecnologia ibrida va oltre per definire un nuovo approccio ad un sistema complesso la cui efficacia non è necessariamente il risultato della somma della efficienza delle singole componenti, perché determinante è soprattutto il raggiungimento del miglior equilibrio complessivo. In estrema sintesi: può valere la pena di rinunciare a qualche cavallo dal motore termico se questo consente di avere valori di coppia in grado di accelerare la ricarica del motore elettrico da parte del generatore ad esso collegato. Una ricerca basata sul compromesso più vantaggioso, complicato dal fatto che tale compromesso non è una costante, ma una variabile in funzione dei diversi circuiti e addirittura dei diversi tratti nei quali il singolo circuito può essere scomposto. Nel caso delle Power Unit sono sei le componenti i cui apporti vanno costantemente bilanciati in funzione della massima prestazione possibile. Con una ulteriore difficoltà: motore termico, gruppo turbocompressore, MGU-H, MGU-K, pacco batteria e centralina elettronica di governo, parlano linguaggi diversi tra loro al punto di porre il tema della corretta comunicazione al centro della attività di progettazione. Settembre 2016 |

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GRAPHIC STORY

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