Week Settimanale digitale • Anno 1 • Numero 8 • 08/09/2017
Supplemento settimanale a l’Automobile.
INNOVAZIONE I MOTORI I LIFESTYLE
ALESSANDRO MARCHETTI TRICAMO ■ È l’anno della Ferrari. In queste ore a Maranello è gran festa. Alla splendida settantenne avevamo dedicato il numero di maggio. Quello più venduto. Quello più amato dagli amanti della Rossa. E non solo. Segno di una passione infinita. Per chi lo avesse perso, ne riproponiamo – in questa edizione diversa dal solito del nostro settimanale – alcune pagine che raccontano una storia senza fine. I modelli “stradali” più affascinanti, dalla 166 Inter alla
generazione mito delle 250 fino all’integrale FF. La personalità e solidarietà del Drake, pronto ad aiutare l’ultimo dei suoi dipendenti. Uno spirito di squadra che servirebbe non poco al nostro Paese. La forza di continuare a migliorare di Michael Scumacher prima, e di Sebastian Vettel oggi. Le quotazioni milionarie raggiunte nelle esclusive aste degli Stati Uniti. La voglia di regalare la dimensione del sogno, come ci spiega in un’intervista esclusiva Flavio Manzoni, responsabile del design Ferrari. Un sogno che non muore mai.
COVER STORY FERRARI
I miei primi settant’ anni.
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FRANCESCO PATERNÒ
Appunti sulla grande trasformazione di un’azienda nata a immagine e somiglianza di un uomo solo al comando. Sviluppata da un secondo, rinnovata da un terzo. Scenari di un futuro possibile. ■ Le cose sono sempre storie di uomini e donne. E in una “cosa” di 70 anni, un tempo lungo come un secolo breve, capita quasi certamente di imbattersi in molti uomini e molte donne. Non alla Ferrari, per la quale bisogna togliere il quasi, le donne, i molti e le molte. L’azienda di supercar, di Formula 1 e di immaginario collettivo, nata nel 1947 e oggi in autocelebrazione per il suo compleanno da marzo a settembre, quando a Maranello ci sarà la festa più grande, è essenzialmente la storia di un uomo. Solo dopo molti decenni diventati due, e di un terzo, che ha appena cominciato a scrivere un nuovo capitolo. Non che il resto venga
cancellato, un resto che non è poco con la sua moltitudine di impiegati, operai, piloti, designer, ingegneri, meccanici, parenti, emozioni, passioni, rotture. È però l’immenso resto che non è mai stato al volante. La Ferrari, per rimanere alle dimensioni dell’immenso, è considerata il quarto marchio più “potente” al mondo da un recente studio di Brand Finance, una società di consulenza internazionale. Dove la “potenza” sta nel valore finanziario che le deriva soprattutto dall’influenza del marchio. Ma a scorrere la lista dei primi dieci, la Ferrari è l’unico brand a essere subito iden-
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tificato con una persona, il fondatore omonimo, scomparso quasi trent’anni fa. Di Enzo parliamo nelle pagine a seguire, l’eccezionalità messa in evidenza dagli analisti ci riporta al fattore umano. Alla creazione voluta da una persona, al mito più che alla leggenda, alla sacralità più che al fantastico, confermata perfino da un fatto di cronaca recente. Quando, alla fine del marzo scorso, viene arrestata una banda con base in Sardegna e un clamoroso obiettivo: trafugare la salma di Enzo Ferrari dal cimitero di Modena per chiedere un riscatto. Con l’intenzione di sfruttare anche quella sacralità implicita nelle più prosaiche analisi di Brand Finance. Un anno record La trasformazione della Ferrari nei suoi primi 70 anni ha avuto un passo apparentemente lento rispetto a quello del mondo circostante. Meno male, vien da dire. In quel lontano 1947, l’Italia che circondava Maranello era fatta, automobilisticamente parlando, di piccoli numeri, da Paese sconfitto dalla guerra prima che dagli Alleati: un parco circolante di 184.000 macchine, come nel 1930, una produzione di 25.000 unità all’anno, come nel 1917, cui aggiungere poco più di 10.500 Vespa al suo secondo anno di linea a Pontedera. Nel 2016, in Italia abbiamo un parco 4
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di circa 37 milioni di vetture, sono state vendute più di 1,8 milioni di macchine nuove mentre la Ferrari ha chiuso il suo anno record, superando per la prima volta nelle vendite globali le 8.000 unità (8.104 per l’esattezza, +5%), di cui 372 in Italia (+49,40% sul 2015), con previsioni 2017 a 8.400 unità e prossimamente sempre a salire. È tanto, è poco? Il dibattito è di quelli da cui è difficile uscire indenni. Prima di scrivere questo articolo, abbiamo letto qualche libro e parlato con diverse persone che sono state testimoni di aneddoti, di cene e di incontri con Enzo Ferrari. E poi con Luca Cordero di Montezemolo, il secondo uomo al volante della Ferrari dal 1991 al 2014 e incidentalmente settantenne come la Rossa (il prossimo 31 agosto), infine con Sergio Marchionne, l’attuale numero uno di Maranello, bruscamente subentrato a Montezemolo meno di tre anni fa. Sull’argomento vendite, le loro posizioni sono note. Il fondatore sosteneva che per una Ferrari stradale il cliente dovesse attendere da 12 mesi in su, tenendo ridotta dunque la produzione. Il successore, considerato l’unico vero grande venditore di Ferrari nei suoi celebrati rapporti “one to one” con clienti di tutto il mondo, era d’accordo. Marchionne la pensa diversamente: da uomo di finanza, ritiene che si debbano fare più soldi producendo e vendendo di più, pur consapevole di dover preservare una certa esclusività. È la diffe-
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renza che passa fra gioielleria e lusso, sintetizza chi ha avuto a che fare con i primi due e ha un giudizio lucido sul terzo: Ferrari e Montezemolo sono la gioielleria, Marchionne è il lusso.
Nelle pagine precedenti il momento della campanella che segna l’apertura delle contrattazioni del titolo Ferrari alla Borsa di Wall Street il 21 ottobre 2015 a New York. Qui sopra l’Hall of Fame all’interno del parco Ferrari sull’isola Yas ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi.
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Un’auto da oltre 13 miliardi Certo è un bel lusso poter dire che l’azienda di Maranello, scorporata da Fiat Chrysler proprio da Marchionne e portata in Borsa prima a Wall Street nell’ottobre del 2015 e poi a Milano nel gennaio dell’anno scorso, abbia superato un valore di 13 miliardi di euro, galoppando nell’ul-
timo trimestre come non ha fatto per tutto il 2016. Gli azionisti sono contenti. Forse diversamente contenti: più Marchionne, perché ha il volante, parrebbe meno (a sentire le tante voci in giro) gli Elkann-Agnelli che detengono il controllo azionario, perché non hanno il volante. Quel che è già chiaro, il manager lascerà la poltrona di Fiat Chrysler agli inizi del 2019, ma non quella di Maranello almeno fino al 2021, in difesa del suo piano di incentivi legati ai risultati che andranno a maturazione proprio per quella data. Marchionne vuole prendersi la Ferrari e finire lì
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la sua carriera? L’idea non sorprenderebbe: sarebbe – si narra – soltanto l’ultimo dei top manager esterni alla Famiglia, Cesare Romiti escluso, arrivati un giorno a Torino negli ultimi quarant’anni e poi da lì a sognare un futuro in Rosso. Gioie e dolori, come capita sempre con i motori e più che mai in Formula 1, dove la Ferrari – forse come nessun altro - ha moltiplicato polvere e altare. Se tuttavia si chiede in giro, in molti rispondono che la più grande trasformazione tecnica della sua storia sia cerchiata sul calendario del 1989 e si chiami cambio elettro-
attuato, diventato successivamente moneta vincente in tutta la Formula 1 e poi corrente sulle auto che usiamo quotidianamente. Se si chiede invece di guardare al futuro tecnico del mito della nostra Motor Valley, la risposta fa scintille: oltre al celeberrimo 12 cilindri, la Ferrari non potrà fare a meno di elettrificare i suoi propulsori, sulla scia dell’ibrido già esistente su LaFerrari da 963 cavalli (nomen omen, se questo sarà il suo destino). Marchionne nega che un suv possa cavalcare il Cavallino, “imbastardirebbe il dna” per usare le sue parole, alla faccia di Porsche, Lamborghini,
Bentley, Rolls-Royce che si stanno facendo notare perché ce l’hanno o ce l’avranno a breve. Di Ferrari a guida autonoma, invece, nessuno osa parlare. Una questione ancora di sacralità, più che di algoritmi. Eppure nessuno può escludere che, ai prossimi 70 anni, una vettura costruita a Maranello, o in chissà quale altrove se resta in voga l’attuale mantra secondo cui bisogna produrre dove si vende, disporrà di un robot invisibile ai comandi. In fondo, sarebbe un ritorno al futuro. Lo sappiamo tutti che per Enzo contava la sua auto. Non il pilota. 8 Settembre 2017 ·
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COVER STORY RITRATTI
Un uomo. Enzo Ferrari, l’origine del mito. Il privato che diventa pubblico. Debolezze, scontrosità, generosità, passioni. L’importanza delle donne nella sua vita. LUCA DAL MONTE ■ La definizione che forse meglio di tutte le altre – e sul suo conto ne sono state spese tante – descrive la figura e la personalità di Enzo Ferrari è questa: “È stato un costruttore di macchine e un distruttore di uomini, ma se entravi nella sua orbita avresti dato qualunque cosa per non uscirne”. In un mondo maschile come quello delle corse, la definizione è stata coniata da una donna e forse non è un caso. Si tratta di una donna che non trova posto nella biografia ufficiale del costruttore di Maranello. Una donna corteggiata a lungo, ma che ebbe forza e coraggio per resistergli e
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che, pur resistendogli, non riuscì mai ad uscire dalla sua sfera di influenza per il magnetismo che l’uomo Ferrari sapeva emanare nei confronti degli uomini, così come delle donne. La definizione è di Fiamma Breschi, che era stata la compagna di Luigi Musso, uno dei suoi piloti. Margherita Bandini, la moglie di Lorenzo che al volante di una Ferrari perse la vita a Montecarlo, parlando del rapporto tra il marito e Ferrari disse sostanzialmente la stessa cosa: “Nei suoi occhi – negli occhi di Lorenzo – c’era un filtro rosa che gli faceva accettare tutto ciò che decideva Maranello,” cioè Ferrari.
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Il Drake al volante: Enzo Ferrari considerava i piloti poco piĂš di un male necessario. Se fosse stato possibile, avrebbe guidato lui stesso le vetture da corsa.
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Momenti di vita in azienda che Enzo Ferrari si ostinò per tutta la vita a chiamare "fabbrica". Non era ingegnere e neppure tecnico ma sapeva motivare come pochi i suoi collaboratori.
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Dopo aver chiacchierato per due giorni interi con Ferrari, Enzo Biagi disse: “E’ così sincero e umano nelle sue debolezze che gli si può anche voler bene”. La debolezza più grande di Ferrari furono certamente le donne, amate quasi come le sue automobili – da corsa, naturalmente. Perché di quelle stradali gli interessò sempre fino a un certo punto e comunque solo perché la loro produzione garantiva i fondi per poter continuare a correre. La donna, lasciò scritto Ferrari, è “la miglior ricompensa” ai travagli e al lavoro dell’uomo. Lo scrisse, ma c’è da scommettere che non lo pensasse davvero. Lo testimonia la sua vita privata, fatta di tre storie importanti, portate avanti senza che Ferrari trovasse la forza – o vedesse la necessità – di troncare le vecchie per lasciare spazio alle nuove. Le tre donne erano la moglie Laura Garello e madre del primo figlio, la mamma del secondo figlio Lina Lardi, e Fiamma Breschi, appunto, che Ferrari non sposò mai, ma che fu la musa dell’ultimo terzo della sua lunga esistenza. Tutte e tre ebbero un’importanza nella vita di Ferrari maggiore di quanto la gente potesse sospettare. Tutte e tre furono più importanti per lui – come uomo e
come costruttore – di quanto ammiratori e detrattori potessero immaginare e, quel che è ancora più significativo, lo furono simultaneamente. Un inguaribile romantico Liquidare Enzo Ferrari come un impenitente dongiovanni sarebbe tuttavia fuorviante. A modo suo, Ferrari era un inguaribile romantico, un uomo che, per tutta la vita, inseguì il sogno del vero amore. Con ogni probabilità non lo trovò mai, o comunque non riuscì mai a viverlo appieno, e ogni volta per una ragione diversa – la nevrosi della moglie Laura, l’impossibilità di vivere alla luce del sole di una città di provincia la relazione con Lina, il rifiuto di Fiamma di cedere alle sue lusinghe. Alla base del loro rapporto c’era in realtà un grosso equivoco di fondo: lei, e sono parole di Fiamma, “desiderava restare nel mondo dell’automobile, lui riteneva che a lei bastasse vivere nel suo cono di luce”. Se si leggono le lettere che Enzo scriveva alla moglie negli anni Venti e a Fiamma negli anni Sessanta, ci si accorge che, per certi versi, sono le stesse lettere – dolci, delicate, affettuose. Anche se l’iconografia classica
lo ha sempre descritto come un uomo duro, scontroso, cinico. “È scortese,” disse una volta un giornalista dell’automobile, “come certo Lambrusco delle sue parti”. Tutto vero. Ma c’è naturalmente dell’altro. Ferrari sapeva ad esempio essere generoso. Non era raro che mandasse i suoi dipendenti o i figli dei suoi dipendenti dai migliori specialisti medici in Italia. Al conto, poi, pensava personalmente lui. E a chi, sapendo di questa sua generosità, cercava di fargli ammettere una bontà d’animo spesso sapientemente nascosta, rispondeva che lo faceva solo per il tornaconto della sua azienda, perché un dipendente sano – o non distratto per le condizioni fisiche del figlio – era un dipendente che lavorava meglio. Un giorno uno dei suoi collaudatori rimase ucciso al volante di un prototipo con il quale era uscito in prova. Non accadeva spesso, ma accadeva. Il lavoro dei collaudatori era testare i limiti di prototipi dal potenziale ignoto. Di solito erano ragazzi innamorati dell’auto da corsa che non avevano ancora trovato tempo per farsi una famiglia. Sighinolfi una famiglia l’aveva e, come non bastasse, aveva a carico anche i genitori. Per anni Ferrari fece recapitare alla famiglia dello sfortunato collaudatore lo stesso stipendio che avrebbe ricevuto se fosse stato ancora vivo. Così come per le visite mediche, fece tutto con molta discrezione, attraverso don Sergio Mantovani, che anni più tardi avrebbe ribattezzato “Don Ruspa.” Ma anche col proprio barbiere era stato generoso, anticipandogli il denaro necessario per comprare la bottega e dimenticandosi, come dire … di farsi rimborsare. Certo, poi litigava fino all’ultimo centesimo con i propri piloti quando si trattava di rinnovare il contratto. Ma Ferrari era fatto (anche) così. 8 Settembre 2017 ·
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Wilson ed io. ■ Lunedì 1° febbraio, il primo giorno del mese in cui Enzo Ferrari avrebbe celebrato il proprio novantesimo compleanno, il Grande Vecchio era atteso in centro città dove il mondo accademico cittadino – e non solo quello – si era dato appuntamento per una cerimonia che non avrebbe celebrato l’importante ricorrenza quanto i risultati di una vita intera. Quasi trent’anni dopo la laurea honoris causa che gli aveva conferito l’Università di Bologna, l’ateneo della sua città aveva deciso di colmare la lacuna conferendogli una seconda laurea in Fisica. * * * Alle 11:30 l’auditorium San Carlo in centro città era colmo di persone. La cerimonia aveva avuto inizio mezz’ora prima, ma era stato convenuto che Ferrari arrivasse più tardi in modo di non stancarsi oltre il dovuto. Le sue condizioni erano accettabili, ma i dottori avevano avvertito il figlio che il padre non avrebbe dovuto sforzarsi più del lecito. Quella mattina Enzo aveva peraltro lasciato il letto con una certa riluttanza. Ad aspettarlo c’erano il Rettore Marco Vellani e il Ministro dell’Istruzione Giovanni Galloni, arrivato per l’occasione da Roma –
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ma anche una moltitudine impressionante di giornalisti e fotografi, venuti a Modena da tutta Italia. Nel luglio del 1960 i giornalisti erano stati due: Gino Rancati che l’aveva accompagnato e Athos Evangelisti, bolognese, che lo aveva aspettato sulla porta e gli aveva fatto strada all’interno dell’ateneo. Nel momento in cui apparve sulla soglia dell’auditorium, il programma, disturbato più volte nella mezzora precedente da uno sciame di fotografi e cameraman alla ricerca della postazione migliore, si interruppe di colpo. In sala si alzò un vivace mormorio. Poi scoppiò un fragoroso applauso. Il pubblico si alzò nel tentativo di vederlo meglio mentre la sala veniva illuminata da una raffica di flash. Sebbene protetto dalle solite lenti scure, Enzo sembrò infastidito da tutto quel riverbero di luci. Parve addirittura intimidito da tutta quell’attenzione. Aiutato dal suo collaboratore Franco Gozzi, raggiunse lentamente il proprio posto in prima fila. A qualche metro da lui, contro il muro di fondo della sala, il gonfalone giallo e blu dell’Università di Modena, che quel giorno iniziava l’anno accademico numero 812, recava la scritta Universitas Studiorum Mutinensis – Mutina, il nome che lui avrebbe voluto dare alla propria Scuderia
nell’autunno del 1929, quasi sei decenni prima. Di acqua ne era passata sotto ai ponti della sua vita! * * * Avvertito dai dottori e dalla famiglia di Ferrari di fare il più alla svelta possibile per non stancarlo, il Rettore procedette immediatamente con la lettura della motivazione della laurea honoris causa, che faceva riferimento “all’intensa attività di ricerca” svolta da Enzo Ferrari “nel campo della fisica dei materiali per mettere a punto leghe speciali dotate di maggiore leggerezza al fine di massimizzare il rendimento dei motori.” Terminata la lettura della motivazione, il Rettore e il ministro si alzarono dalla rispettive sedie e procedettero solennemente verso Enzo, commosso fin quasi alle lacrime, ma troppo debole per alzarsi. Seduto e visibilmente irritato per la nuova raffica di flash, il Grande Vecchio cercò la mano del Rettore, la strinse con quanta più forza poté e prese la grande pergamena arrotolata, che immediatamente girò a Gozzi. Le labbra di Ferrari si schiusero in un impercettibile sorriso. Quando aveva ricevuto la prima laurea, nel luglio del 1960, aveva 62 anni ed era nel pieno vigore della vita. Mol-
to aveva fatto fino a quel momento e molto altro avrebbe fatto in seguito. Ora invece, nel febbraio del 1988, era perfettamente consapevole del fatto che cerimonie come queste fossero in realtà delle vere e proprie commemorazioni post mortem anticipate. Ma sapeva anche che non poteva sottrarsi. “È un atto doveroso della società italiana” gli disse il ministro dell’istruzione Giovanni Galloni mentre gli stringeva la mano. Per motivi di salute gli era stata risparmiata la lezione che di norma il recipiente una laurea honoris causa avrebbe dovuto tenere sull’argomento per cui veniva onorato. Ciò nonostante, dopo aver soppresso a fatica lacrime che parevano non voler asciugarsi, Enzo afferrò con decisione il microfono che gli era stato offerto con una certa esitazione. Nonostante l’evidente fragilità fisica, desiderava ringraziare l’Università di Modena. * * * Debolissima, la sua voce iniziò ad aleggiare nell’auditorium. Per una volta, anziché guardare avanti, scelse di viaggiare a ritroso nel tempo. In una sala avvolta nel silenzio più perfetto, prese a raccontare del senso di inadeguatezza che aveva provato quando, ventotto anni prima, l’Università di Bologna gli aveva assegnato la prima laurea. “Io che dovetti sedermi nello stesso posto dove si era seduto Guglielmo Marconi,” confessò, “provai un sentimento di profonda vergogna perché consideravo sproporzionato l’onore che si faceva al mio lavoro ed alla mia persona. Oggi,” continuò, “Modena ha voluto conferirmi questa ulteriore onorificenza, che considero particolare perché mi viene dalla mia città.” Nel pronunciare la seconda frase
si concesse il lusso di una certa enfasi, come a rimarcare il fatto che alla sua città natale c’erano voluti quasi tre decenni per fare quello che Bologna aveva fatto all’alba degli anni Sessanta. Nonostante l’età e la salute, sapeva ancora pungere. Concluse il breve intervento ringraziando con modestia “tutti coloro che hanno ricordato un giovane che, dalla lontana periferia di Modena, ha varcato il secolo attraverso il Novecento per affacciarsi a un mondo di conquiste che era considerato da tutti un interrogativo meno che da quel grande precursore che fu il Presidente degli Stati Uniti Wilson quando previde che sarebbe stato il secolo dell’automobile.” Enzo aveva 14 anni quando Woodrow Wilson era stato eletto Presidente. Oggi, a quasi novant’anni, guardava ancora agli anni Dieci del ventesimo secolo come al decennio formativo della propria vita, il periodo nel quale la maggior parte delle sue convinzioni avevano preso forma. E naturalmente solo Enzo Ferrari, che non aveva un interesse
particolare per la storia americana e che non aveva mai messo piede negli Stati Uniti, poteva citare Woodrow Wilson, nel 1988, nel momento in cui riceveva una laurea honoris causa in Fisica dall’Università di Modena. * * * Il pubblico scoppiò nuovamente in un applauso assordante che non si spense fino a quando Ferrari non aveva già lasciato l’auditorium. Sorretto da Gozzi e da Tagliazucchi, Enzo uscì dall’edificio e salì a bordo della Lancia Thema con motore Ferrari con la quale raggiunse Fiorano. Quella sera trovò il tempo di annotare sulla propria agenda qualche parola rivelatrice a proposito della cerimonia della mattina: “Ho sempre voluto bene alla mia città, anche se i modenesi non sempre sono stati dalla mia parte e io non sono per gli amori tiepidi.” (Il testo è tratto dal capitolo 47)
Ferrari Rex di Luca Dal Monte [Giunti, Giorgio Nada editore] ¤ 23,80
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COVER STORY MITI XXXXXX
Rosse si nasce. La storia dei più bei modelli “stradali” di Maranello, la maggior parte di chiara derivazione agonistica. Dalla 166 Inter alla generazione mito delle 250, fino all'integrale FF e all’ultima 812 Superfast.
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MASSIMO TIBERI ■ Dalla Formula 1 ai prototipi, dai prototipi alla serie”. È la sintesi della filosofia Ferrari che il Drake affermava sempre con forza, a sottolineare l’esclusività delle sue creature, anche di quelle non espressamente destinate alle gare. Ancora oggi, poco è cambiato nella sostanza dell’impostazione progettuale per le vetture della Casa di Maranello che possiamo definire “stradali”: basti pensare all’ultima nata e ammirata al Salone di Ginevra, quella supercar battezzata 812 Su-
perfast che celebra i settant’anni del marchio con la imponente potenza di 800 cavalli del suo V12 da 6,5 litri e tecnologie per la dinamica di chiara derivazione agonistica. La doppia identità La 812 è solo la tappa più recente di un percorso segnato da pietre miliari che hanno contribuito al consolidamento di un mito senza eguali in campo automobilistico. Un altro motivo per cui scegliere fra tanti modelli è compito ancora più arduo.
La doppia identità tra utilizzo “normale” e in corsa nasce praticamente con la Ferrari stessa. Già nel 1948, poco dopo l’esordio del Cavallino nel 1947, con la 166 Inter (numero riferito alla cilindrata unitaria e sigla della scuderia dei fratelli Besana che gestiva le versioni da competizione) viene proposto un modello meno estremo, appena addolcito e comunque in grado di prestazioni eccezionali per l’epoca. Sotto il cofano un 2 litri 12 cilindri, frazionamento allora irrinunciabile per una Rossa, che con un centinaio di cavalli permetteva di raggiungere
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Nella pagina precedente la Ferrari 812 Superfast (2017). Qui in basso LaFerrari (2013-2016) e a destra la Ferrari 250 GT berlinetta SWB (1959-1962).
i 170 km/h, mentre a vestire il telaio, e ad offrire spazi di abitacolo e bagagliaio discreti, saranno grandi firme, come Touring, Vignale o Ghia. La matita di Pinin Farina Nel 1952, un altro prestigioso stilista, che in seguito quasi monopolizzerà il design delle Ferrari, si aggiungerà all’elenco: Pinin Farina (la fusione di nome e cognome arriverà negli anni Sessanta) tratteggia una sobria, elegante cabriolet sulla meccanica della 212 Inter (V12 e 2,5 litri da 170 cavalli), derivata dalla coupé Vignale vittoriosa della massacrante Carrera Panamericana del 1951 con Taruffi e Chinetti. Ma il vero balzo in avanti verso
Il vero balzo in avanti verso la produzione in serie arriva con la generazione delle 250. Un’autentica saga dell’auto sportiva, con protagoniste dal fascino incredibile
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la produzione in serie arriva con la generazione delle 250. Un’autentica saga dell’auto sportiva, con protagoniste dal fascino incredibile come la Spider California o le Gto e Testa Rossa da competizione, le auto di Maranello storicamente più ammirate e amate. Dal punto di vista industriale, comunque, sono la Gt del 1958 e la GtW2+2 del 1960, entrambe carrozzate Pinin Farina e con il V12 tre litri, a segnare la svolta verso le Ferrari più propriamente di “serie”: la prima è una coupé che sarà costruita in 335 unità, la seconda una lussuosa quattro posti che raggiungerà le 1.000 unità, due delle quali destinate perfino alla Squadra Mobile di Roma. Dal punto di vista tecnico, segna
un consistente progresso la 275 Gtb del 1964, che adotta per la prima volta il retrotreno a ruote indipendenti, ha il cambio montato in blocco con il differenziale e la seconda generazione quattro alberi a camme. La splendida linea Pininfarina copre un 3,3 litri che toccherà i 300 cavalli. Erede la 365 Gtb/4, soprannominata Daytona: bellissima, ma che deve confrontarsi con una rivale eccellente e dall’impostazione più moderna, la Lamborghini Miura con un 12 cilindri in posizione posteriore-centrale. Dopo le esperienze con la “piccola” marchiata Dino, a Maranello
colmeranno il distacco soltanto nel 1973 con il lancio della 365 Gt/4 Bb, berlinetta boxer, tappa fondamentale nell’evoluzione di una Casa che vende in quell’anno circa 1.800 vetture. Ad equipaggiarla un 4,4 litri a cilindri contrapposti di ispirazione Formula 1 da 380 cavalli, per scavalcare il muro dei 300 km/h. Rotto il ghiaccio, ritroviamo schema analogo di collocazione del motore nella più compatta 308 Gtb tre litri del 1975. Inizia così la lunga storia delle Ferrari V8, con una generazione sviluppata per oltre un decennio moltiplicata per ben 12.000 esemplari: una
tipologia di modello che si è evoluta fino ad oggi, nel costante progresso delle soluzioni di contenuto e stilistiche. Fra i passaggi fondamentali, la F335 Gt del 1994, caratterizzata dalla distribuzione a 5 valvole per cilindro e dal cambio a comando elettronico, con palette al volante, di nuovo un trasferimento di tecnologia dalle monoposto. Quaranta candeline Nel frattempo, la Ferrari non dimentica certo d’impegnarsi su altri fronti d’eccellenza: ecco allora, nel 1987, spegnere le sue quaranta candeline mettendo in campo un’auto veramente di confine tra la pista e la strada. La F40, sotto la pelle di materiali nobili, dal carbonio al kevlar, monta un V8 biturbo da 478 cavalli e può spingersi fino a 324 km/h. È un successo pazzesco, con quotazioni da “mercato nero” e produzione che supererà abbondantemente il tetto prefissato di 1.000 unità. La storia recente porterà ad almeno altre due pietre miliari. Dopo gli esperimenti compiuti nel 1987 con la 408, nel 2011 arriva la FF, shooting brake a trazione integrale, e nel 2013 LaFerrari (963 cavalli, 500 esemplari, più 200 della variante spider Aperta): è la volta dell’ibrido, che probabilmente sarà il leitmotiv delle Rosse del futuro.
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Un amore a stelle e strisce.
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FLAVIO POMPETTI
Gli americani impazziscono per le Ferrari. Le aste sono sempre affollate, le quotazioni salgono e la Rossa diventa un bene rifugio. Tranne in un caso particolare. ■ LOS ANGELES – Gli americani adorano la Rossa. E le sue performance. Anche nelle grandi aste. Non è un caso che tra i compratori ci siano molti operatori di Wall Street, affascinati dal mondo Ferrari ma anche da un ritorno certo degli investimenti. Se c’è una eccezione è la coupé F430 F1 appartenuta a Donald Trump che ha fallito all’inizio di aprile il record di battuta d’asta: partita con una valutazione virtuale di 350.000 dollari, il martello si è fermato a 240.000, poi corretti a 270.000 dagli organizzatori della rassegna di Fort Lauderdale. Grazie ad una offerta arrivata per telefono da un compratore anonimo che l’ha soffiata all’ultimo offerente sul prato. Valutazione della Ferrari di Trump a parte, la Casa italiana domina il mercato delle aste americane delle sport car classiche con un margine quasi assolutistico. Cinquantatre su cento delle vendite più remunerative della storia hanno il suo marchio, a cominciare dalla 250 Gto del ’62 che l’estate di 3 anni fa a Carmel in California ha stabilito il record assoluto con una battuta da 34.650 milioni di dollari. Nella stessa classifica le auto del Cavallino occupano 9 su 10 dei primi posti. L’indice Hagi (la società che registra l’andamento del mercato delle auto classiche) è cresciuto del 348% negli ultimi 9 anni ma ha avuto una flessione dello 0,4% negli ultimi 12 mesi. Nel caso della Ferrari però è più che triplicato tra il 2010 e il 2015, e da allora è stabile sui record storici. Gennaio a Scottsdale nel deserto dell’Arizona, marzo sotto il cielo tempestoso di Amelia Island, in Florida, e
agosto nel lusso dei prati rasati di Pebble Beach in California: la carovana dei venditori è itinerante, così come quella dei ricchi acquirenti che si spostano da un lotto all’altro, seguendo il filo dello champagne e il tam tam dei bollettini che annunciano le presenze più pregiate per ogni battuta. La lista dei collezionisti Non bisogna appartenere al gotha dei miliardari per affacciarsi ad un’asta: un portafoglio tra i 20 e 40mila dollari può puntare a una 308 Gtb/Gts, vettura resa immortale dalla presenza nella serie tv Magnum P.I. Ma siamo davvero sul gradino basso della scala, in una zona abitata dalla Gt4, ex Dino e Mondial. Ma chi frequenta il mercato sa bene che la spesa iniziale non è tutto. È la mano d’opera specializzata a fare la differenza, così come la difficoltà a recuperare ricambi per molti modelli d’annata. Il vertice opposto della classifica di valore è invece molto più affollato. Le 250 Gto dominano con 13 presenze tra le 100 vendite di maggior valore, ma appena sotto di loro ci sono le Scaglietti spider degli anni ’50, le 275 Gtb dei favolosi ’60. La lista dei collezionisti è orizzontale: dall’aristocrazia americana dello spettacolo (Jerry Seinfeld, Jay Leno, Jay Kay), allo sport (Michael Jordan), all’immobiliare (Donald Trump, Peter Kalikow), passando per Silicon Valley (Gerard Lopez) e moda (Ralph Lauren). Sono il fiore all’occhiello di una Ferrari che genera negli Usa un terzo dei 3,1 miliardi di fatturato globale. Sarà anche per questo che il rosso da queste parti non passa mai di moda? 8 Settembre 2017 ·
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COVER STORY DESIGN
Il sogno. MARGHERITA SCURSATONE
Parla Flavio Manzoni, designer delle Ferrari: “Non può nascere un progetto senza guardare lontano, è nel significato stesso della parola: proiettare, pensare oltre”.
Flavio Manzoni, responsabile del design Ferrari posa accanto alla GTC4 Lusso. Sydney 2016.
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■ “Non si crea nulla senza un’idea che vada nella direzione del sogno,” sostiene Flavio Manzoni, dal gennaio 2010 direttore del design Ferrari. Nato a Nuoro, 52 anni, architetto, grande appassionato di musica jazz, inizia la sua carriera nel 1993 al centro stile Lancia e lavora per due periodi nel gruppo Volkswagen, prima alla Seat e poi all’Audi e alla marca che dà il nome al colosso tedesco. “L’atto creativo è un atto d’amore,” ricorda Manzoni nel riprendere l’analisi di Irving Stone nel libro su Michelangelo. “Questo non vale solo per me, ma per tutto il team del centro stile Ferrari. Quando ci troviamo ad affrontare i vari progetti partiamo sempre dalla dimensione del sogno. Tutti abbiamo un desiderio e nel momento in cui si affronta un nuovo modello sono tanti gli stimoli che nascono. In primis la voglia di creare
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qualcosa che non esisteva prima: un’eccitazione legata proprio al momento dell’atto stesso della creazione”. Questione di stile La Ferrari è un orgoglio del made in Italy e alla guida del design c’è un vero “car guy” italiano, una rarità visto che la compagnia si è ristretta a Marco Tencone alla Maserati e Filippo Perini all’Italdesign. Ma Manzoni non sente tanto il peso di essere uno degli ultimi condottieri dell’Italian Style, quanto il carico della responsabilità che ne consegue: “Il lavoro deve essere fatto nel miglior modo possibile, mettendoci l’anima, la passione e la voglia di rendere onore a un marchio che ho la fortuna di interpretare e di rappresentare”. Con 70 anni di storia alle spalle, a Maranello conta più la tradizione o l’innovazione? “Ogni volta che si disegna una nuova Ferrari non c’è solo il valore del prodotto in sé ma anche il valore storico, uno non può esistere senza l’altro. Il nostro è un mestiere un po’ a cavallo tra la prudenza della tradizione e il coraggio dell’innova22
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zione. Non può nascere un progetto senza guardare lontano, è nel significato stesso della parola: proiettare, andare avanti, pensare oltre. L’obiettivo del designer è quello di creare attrazione e concepire con la mente rivolta verso scenari lontani, nel rispetto alla tradizione e del Dna, che è lo spirito del marchio”. E il pensiero non può che andare alle sculture di Anish Kapoor e dalla geometria a quattro dimensioni di Riemann che hanno ispirato la LaFerrari, perché “dovevamo raggiungere l’eccellenza assoluta, il miglior connubio tra innovazione tecnica e perfezione-bellezza estetica”. Oppure a Le Corbusier per la sua capacità di combinare scultura e architettura e a Umberto Boccioni per la celebre opera, forme uniche nella continuità dello spazio. “L obiettivo di Boccioni era quello di rappresentare un continuum sintetico del movimento, invece di una discontinuità analitica. Forme dinamiche dove oltre alla terza dimensione si aggiunge la quarta, che è il tempo”, spiega il designer. Ritornando al rapporto con il passato, tranne che nella LaFerrari, tutti
i nuovi modelli usciti dalla gestione Manzoni hanno sempre uno o due elementi che ricordano le vetture storiche. Non è ora di liberarsi da questo legame? “Un collegamento deve esserci, ma in maniera episodica. Una citazione del passato è voluta ed è importante, ma deve avere un rispetto assoluto dell’innovazione”. Esempi? “Nella F12 Tour de France troviamo la presa d’aria tipica della 250 Gto. Oppure se guardiamo alla J50, (progettata per celebrare i 50 anni di presenza della Ferrari in Giappone, ndr) troviamo una roadster molto ribassata che ricorda le barchette del dopoguerra, ma con un design molto futuristico. E per esprimere i valori di leggerezza e
agilità ritroviamo la linea di fuga nera che divide il volume in due, retaggio di tante rosse del passato”. Comunque si tratta di elementi o di citazioni perché, come ricorda Manzoni, “Pininfarina era un maestro di sapienza e inseriva sempre un elemento evocativo del passato evolvendolo in chiave moderna”. Bellezza e aerodinamicità Come far convivere il concetto di “bello” con le esigenze meccaniche e aerodinamiche? “Cerchiamo di cogliere lo spirito del progetto, che è sempre molto composito, perché la parte ingegneristica e prestaziona-
le è fondamentale per una Ferrari, ogni nuovo modello deve fare meglio del predecessore. Partendo da queste fondamenta, si crea una forma molto evocativa e aderente alle necessità tecnico-funzionali della vettura”. Da Porsche a Bentley e Lamborghini, la sportività ormai si esprime anche attraverso i suv. Voi resistete? “La Ferrari non è mai stata e non sarà mai un follower, non seguiamo le tendenze ma dettiamo i trend di sportività”. E per attrarre i Millennial, più vicini al car sharing di auto elettriche? “Dobbiamo saper emozionare e stupire, due sentimenti imprescindibili per ogni essere umano. Senza distinzioni di età o di ceto sociale”.
“Ogni volta che si disegna una nuova Ferrari non c’è solo il valore del prodotto in sé ma anche il valore storico, uno non può esistere senza l’altro”
In alto a sinistra, Flavio Manzoni. Nella foto grande una Ferrari 488 GTB. 8 Settembre 2017 ·
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COVER STORY MERAVIGLIE
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Nel museo La Sala delle Vittorie è la più intrigante delle sei sale principali del museo Ferrari di Maranello, al 43 di via Dino Ferrari. Già denominata Sala dei Trofei e per un breve periodo Sala dei Campioni, la Sala delle Vittorie ospita l’esposizione delle Ferrari campioni del mondo di Formula 1 dal 1999 ad oggi. Tutte disposte a semicerchio e inclinate con il muso in avanti. Suggestione assicurata. Il museo è suddiviso in due parti, fra mostre permanenti e temporanee. Aperto nel febbraio del 1990, la Ferrari è subentrata nella gestione diretta nel 1995. Il museo ha ricevuto una nuova ala nell’ottobre del 2004 e ha una superficie di 2.500 metri quadrati. Lo spazio espositivo è dislocato nella Sala delle Competizioni, Sala Concept, Sala Cinema, Sala delle Vittorie, Sala Gran Turismo e Sala Mostre Temporanee.
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COVER STORY PILOTI
Schumi & Vettel, eroi in Rosso.
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MICHELA CERRUTI
Grazie a Michael e Sebastian la Ferrari vola. Stesso passaporto, carattere differente, identica dedizione al lavoro. E un solo obiettivo: vincere.
■ Una storia iniziata nel 1950. Debutto in Formula 1. È forse qui che Ferrari diventa una icona di record ancora imbattuti, una sequenza di vittorie, emozioni e sofferenze, di vetture straordinarie e di battaglie memorabili, i cui protagonisti sono stati tra i piloti più forti al mondo. La prima vittoria, al Gp di Monaco con José Froilán González, e poi il primo titolo mondiale con Alberto Ascari due anni dopo, hanno aperto la strada ad una serie di successi che definiscono oggi la squadra italiana come l’unica ad aver partecipato a tutte le stagioni e soprattutto quella che detiene il maggior numero di record, tra i quali 15 titoli piloti e 16 costruttori. La Squadra Rossa nella sua storia ha cercato i suoi eroi in tutto il mondo, ma è proprio in un paese 8 Settembre 2017 ·
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vicino a noi che ha trovato l’uomo che più avrebbe fatto brillare i cuori dei tifosi, all’estero, ma soprattutto in Italia. Nel 1996 dalla Germania arriva il già due volte campione del mondo Michael Schumacher, che non lascerà Maranello per i successivi dieci anni, disputando ben 72 gare con la Rossa e regalando al suo team, 5 titoli mondiali, scrivendo il periodo in assoluto più vincente nella storia della squadra.
lavoro una passione, una dedizione e una concentrazione in grado di rapire tutti i tecnici e meccanici e di trascinarli nella stessa direzione, quella della vittoria. “Poteva sembrare presuntuoso, ma in realtà non ho mai conosciuto persona più rispettosa del lavoro e delle competenze altrui, ha sempre messo in primo piano il fatto che fosse lì grazie a noi. A parte il suo adorato pastore belga, non ha mai avuto distrazioni…”. Esiste quindi un lato tenero di Schumacher, che lasciava sempre accuratamente fuori dall’abitacolo. Le rarissime volte che i compagni di squadra hanno avuto la soddisfazione di mostrarsi più veloci di lui, Michael era in grado di mettere fortemente sotto pressione i suoi tecnici per ribaltare la situazione e tornare immediatamente ad essere il numero uno. Mazzola, che Getty.
L'apparenza inganna Schumacher, in apparenza freddo, distaccato e concreto, è diventato colonna portante della Ferrari per così tanto tempo. L’apparenza che inganna. Michael aveva sì un atteggiamento di un certo tipo all’esterno, ma all’interno della sua squadra si
comportava in maniera profondamente diversa: “Sapeva trascinare le persone con le sue emozioni, era quasi più bravo fuori che in macchina”, ci racconta Luigi Mazzola, dal 1988 al 2009 in Ferrari, prima come ingegnere di pista, successivamente come dirigente coordinatore dello sviluppo della performance. E visto che parliamo di un pilota che nella sua carriera in Formula 1 ha vinto 91 gare, il maggior numero di titoli mondiali consecutivi e che nel 2004 ha vinto 13 gare in un solo campionato vincendolo con 6 gare di anticipo, fuori dalla macchina deve essere stato davvero una persona straordinaria, perché già al volante della stessa ha fatto qualcosa che nessun altro è mai riuscito ad eguagliare. Dotato di un talento fuori dal comune, Michael metteva nel proprio
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pe Massa, persona eccezionale e con ottimo talento, ma meno incisivo e costante nella performance. Perfetti per la Rossa Fino ad arrivare al 2015, quando un nuovo eroe arriva a riaccendere i sogni dei tifosi. È tedesco come Michael. È perfetto per la Rossa. Si chiama Sebastian Vettel, è quatro volte campione del mondo e ha una storia simile al connazionale. A differenza della maggior parte dei piloti, entrambi provengono da famiglie non particolarmente ricche, il loro percorso nel mondo del motorsport contiene elementi simili. Li accomuna la precisione, la concentrazione, la volontà di avere una macchina perfetta e fare quanto possibile per raggiungere l’obiettivo. Michael non ha mai parlato
l’italiano come sa fare Sebastian, e di sicuro in Italia qualcuno ancora non riesce a perdonarlo per questo. Ma di certo i due tedeschi trasmettono la stessa voglia di vincere, e non a caso in questo momento, grazie ai primi risultati della stagione, la Scuderia Ferrari sembra aver ritrovato la motivazione e la positività di quei tempi vincenti, oltre che essere più italiana e unita che mai. Perché la passione italiana e la razionalità tedesca (vera e apparente) nel mondo delle corse, possono davvero conquistare il mondo. E far volare la Rossa.
A sinistra Sebastian Vettel durante il Gran Premio di Corea del 2013; in basso Michael Schumacher a San Marino nove anni prima.
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di piloti Ferrari ne ha visti guidare tanti, ci racconta che “solo Prost forse si avvicina a Michael per quanto riguarda la dedizione al proprio lavoro. Räikkönen sa essere un mastino quando ha la macchina a posto, ma è decisamente più introverso e distaccato, per cui non riesce a trascinare le persone come sapeva fare il tedesco.” Ritiratosi Michael dalla Formula 1, per poi rientrare solo nel 2009 con la Mercedes, la Ferrari ottiene un altro titolo mondiale con il freddo Kimi Räikkönen nel 2007, per poi finire in uno dei periodi più difficili nella storia recente della Scuderia. Sfiora nuovamente il titolo nel 2010 con Fernando Alonso, pilota velocissimo, ma di certo più presuntuoso e meno disponibile al dialogo, affiancato dal compagno di squadra perfetto, Feli-
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COVER STORY MARANELLO
La città del Drake. PAOLO BORGOGNONE
Il ristorante, la statua nell’aiuola, la fabbrica. Breve viaggio in un luogo ricco di simboli di un’epoca destinata a non passare mai. ■ MARANELLO - Sull’autobus blu della linea 800, servizio urbano di Modena, si sale al terminal della stazione, quasi all’ombra delle gradinate del “Braglia”, lo stadio cittadino, nell’area nota ai modenesi come Novi Sad. Il biglietto per la nostra destinazione, Maranello, costa 2 euro e 90, tre se lo si acquista direttamente a bordo, dall’autista. Sono quindici i chilometri che ci separano da quella piccola città che tutto il mondo conosce perché lì un signore, pazzo per i motori e con un grande sogno si chiamava Enzo Anselmo di nome e Ferrari di cognome – ha deciso di aprire una fabbrica diventata un mito mondiale. La aprì qui e non nel capoluogo sperando di sfuggire ai bombardamenti che martoriavano il Paese. Era il 1943, dal cielo cadevano bombe sempre più grosse e la piccola fabbrica della Auto Avio Costruzioni – che Ferrari aveva fondato nel 1939, dopo aver sbattuto la porta in faccia ai pezzi grossi di Alfa Romeo – si spostò tra queste dolci colline. Il viaggio è breve. Basta perdersi un attimo nei propri pensieri e ci si ritrova davanti al cartello con la parola che tutto il mondo associa ai 30
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motori, alla velocità, al desiderio: Maranello. Sotto, un altro cartello che noi ragazzi di città vediamo soltanto a scuola guida: attraversamento animali. Sulla via Abetone inferiore Pochi passi ed ecco la chiesa che rintocca con le sue campane a ogni vittoria della rossa e, proprio lì davanti, un particolare curioso: lo spartitraffico non accoglie, come capita spesso in altre città italiane, un Giuseppe Garibaldi a cavallo, o un Mazzini o un Cavour. No, qui al centro dell’aiuola campeggia un cavallino. Rampante. Rosso. Benvenuti a Maranello. Ogni angolo, strada, balcone o negozio, ricorda dove sei e perché. Non c’è finestra, insegna o vetrina dove non compaia quel cavallino che la mamma di Francesco Baracca, eroe dell'aria della prima guerra mondiale, consigliò a Ferrari come portafortuna. E camminando lungo le strade poco trafficate, dove una fuoriserie pur rombante qui passa quasi inosservata, sembra di essere attratti verso un centro ideale. Eccola, la via Abetone inferiore (la superiore si
Massimo Fornaciari.
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Qui, da 70 anni, batte il cuore Ferrari. Poi basta attraversare la strada ed ecco un altro posto che è icona di questa zona, là dove l’Emilia dà il meglio di sé: la tavola
perde di là verso le colline) e lo stabilimento dei sogni, il cancello nero, la costruzione rossa col marchio che tutto il mondo conosce. Qui, da 70 anni, batte il cuore Ferrari. Poi basta attraversare la strada ed ecco un altro posto che è icona di questa zona, là dove l’Emilia dà il meglio di sé. La tavola.
Oscar Ferrari.
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Cibo da Formula 1 Il ristorante “Il cavallino”, gestito una volta dal signor Athos, oggi è curato da Anna e Armando, che lo portano avanti con la stessa passione di quando nelle sale piene di foto di leggende e di ricordi trionfali ogni giorno pranzava lui, il Drake in persona, che non mancava mai l’appuntamento nella sua saletta riservata. Sedersi ad uno di questi tavoli – oggi con 180 coperti – significa farsi abbracciare dal mito. Tutto è Ferrari. Dalle riproduzioni di auto rosse – ma queste sono a pedali – ai vini, alle ceramiche. E anche il cibo è da Formula 1. Dal culatello di Parma come antipasto, alle rosette alla modenese, alla pasta all’uovo arrotolata col parmigiano reggiano e al prosciutto cotto, poi la carne e mai dimenticare di chiedere il dolce. Uno, in particolare, è speciale. Si chiama “Ancora uno” e non c’è bisogno di dire altro, no?
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Dall’alto verso il basso: una foto del ristorante “Il cavallino”; il simbolo della Ferrari accoglie all'ingresso di Maranello; la biblioteca comunale Mabic.
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e coordinamento dell Automobile Club d Italia Copyright © 2017 ACI Informatica SpA - Tutti i diritti riservati. Foto: Getty Images
COVER STORY INNOCENTI
186 GT, il Cavallino dimezzato. MASSIMO TIBERI
Breve storia di una coupé compatta firmata Bertone, disegnata da Giugiaro, nata dalla collaborazione fra la marca di Lambrate e Maranello. Solo due gli esemplari costruiti. ■ In letteratura e nel cinema, i matrimoni tra nobili e borghesi il più delle volte hanno un lieto fine. Se trasformiamo la tesi in metafora automobilistica, gli esiti sono assai diversi. Soprattutto quando si tratta di “case regnanti” come la Ferrari, da sempre attenta a preservare la purezza del sangue blu: certi compromessi anche blasonati (le Dino o il trapianto di motore sulla Lancia Thema), non hanno avuto grande successo. A differenza delle sinergie di oggi con Maserati e Alfa Romeo, nate su ben altri presupposti, non potevano avere conseguenze positive i tentativi che suscitarono sorpresa ed interesse all’inizio dei passati anni Sessanta, come la “Ferrarina” ASA 1000 e più ancora il progetto, sviluppato tra il 1963 e il 1964, che unì la casa di Maranello alla Innocenti. Puntare in alto In quel periodo in piena espansione, forte dell’ottimo andamento commerciale dei suoi scooter e del favorevole avvio della produzione di 34
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vetture dopo l’accordo con la British Motor Corporation (in campo A40 di derivazione Austin e Spider parente stretta della Austin Healey Sprite), la marca di Lambrate pensa di poter puntare in alto, entrando nel settore delle auto sportive di rango. Così, le aspirazioni di Luigi Innocenti, figlio del fondatore Ferdinando, e il consenso del Drake portano ad un tavolo tecnico capitanato da Franco Rocchi della Ferrari e da Sandro Colombo dell’azienda lombarda. Due più due L’esito è il prototipo di una compatta coupé, 2 posti più 2, battezzato 186 GT, sigla che fa riferimento al motore 6 cilindri a V di 1.800 cc (in pratica un V12 del Cavallino dimezzato), dalla notevole potenza (oltre 150 cavalli) e accoppiato a un cambio a 4 marce con overdrive di scuola tipicamente inglese. Sospensioni anteriori a quadrilateri, quattro freni a disco e le fascinose, classiche ruote a raggi Borrani completano un quadro meccanico e dinamico di assolu-
L insuccesso è stato in qualche modo un segnale di quello che verrà: dopo una parentesi positiva legata all'importazione dal 1965 della Mini in Italia, Innocenti visse un lento declino, passando a De Tomaso e poi a Fiat. Oggi, al posto della fabbrica di Lambrate c’è un quartiere residenziale.
Nella fotografia la Innocenti 186 GT esposta al museo Ferrari di Maranello.
Rahil Rupawala, sotto licenza Creative Commons.
to rispetto. Come, del resto, la bella carrozzeria, firmata Bertone e dovuta alla matita dell’allora emergente Giorgetto Giugiaro. Furono soltanto due gli esemplari costruiti (ne sopravvive uno), abbandonati in nome delle ragioni industriali e di inadeguatezza della rete.
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