l'Automobile Week 09

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Week INNOVAZIONE I MOTORI I LIFESTYLE

Settimanale digitale • Anno 1 • Numero 9 • 15/09/2017

Supplemento settimanale a l’Automobile.

50 anni

ALESSANDRO MARCHETTI TRICAMO ■ Mentre al Salone di Francoforte in corso, l’industria sembra ormai decisa a rivoluzionare il concetto di auto con un’elettrificazione sempre più spinta, sembra giusto ricordare alcune vetture che con il loro stile, questa storia su 4 ruote hanno contribuito a costruirla finora. Non troverete modelli esclusivi dal valore milionario. Siamo piuttosto partiti da un compleanno particolare e forse un po’ trascurato almeno nel nostro Paese, quello della Citroën Dyane. La storia di un’auto che non è sopravvissuta a quella che doveva sostituire: compito difficile se la staffetta in questione doveva essere con un mostro sacro di fascino ed eleganza come la 2CV.

Non è andata benissimo, o almeno come si sperava, neppure alla Honda NSX, un gioiello di sportività e dinamica di guida che aveva fatto impazzire anche uno come l’indimenticato Ayrton Senna. Roba da mettere in difficoltà su qualsiasi strada e circuito perfino la Porsche 911 (e forse anche qualche Ferrari). E restando in tema di divertimento abbiamo scelto l’Autobianchi A112 in versione Abarth: negli anni Settanta era considerata la Mini Cooper italiana, tanto da diventare l’oggetto del desiderio per molti. In 3 metri e 23 centimetri e soprattutto in meno di 700 chilogrammi di peso, racchiudeva tutto il necessario per spingerla al limite, forse anche troppo, in ogni curva di montagna. Buona lettura. 27 Marzo 2017 ·

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STORICHE

Dyane, splendida cinquantenne. MASSIMO TIBERI

■ Cinquant’anni fa il debutto della Citroën Dyane, l’auto nata per affiancare, e poi sostituire, la 2CV lanciata nel 1948, già allora un mito e in realtà niente affatto invecchiata agli occhi di una clientela che, in patria e su molti mercati, continuava ad apprezzarla. La nuova arrivata farà del suo meglio (1,5 milioni le unità costruite fino al 1984), ma non riuscirà mai a prendere veramente il posto di un modello iconico e amatissimo che, anzi, le sopravviverà, uscendo di scena soltanto nel 1990. Ricerca di modernità Era, d’altra parte, un compito difficilissimo quello dei tecnici, e soprattutto degli stilisti, della Casa del Double Chevron, ai quali venne imposto di mantenere le caratteristiche fondamentali e la base meccanica della 2CV per risparmiare sui costi (l’azienda vive tempi difficili e nel 1974 verrà comprata infatti da Peugeot) ed evitare stravolgimenti traumatici rispetto alla immagine acquisita da un’utilitaria dalla personalità fortissima. L’idea era quindi quella di “modernizzare”, pensando alla concorrenza sopravvenuta nel frattempo, piuttosto che di abbandonare un’impostazione che si era rivelata vincente. Anticonformista per natura Ad affrontare il problema più complesso, quello che riguarda il disegno e l’architettura della carrozzeria, è inizialmente Louis Biornier, già autore di alcune avveniristiche Panhard (marchio assorbito dalla Citroën), ma in seguito interverranno il Centro Stile della Casa e, da ultimo, l’appena preso in forza Robert Opron, che firmerà in seguito vetture dai tratti decisamente anticonformisti, dalla GS alla SM, alla CX. La Dyane si presenta così come una sorta di trasposizione nell’attualità

della 2CV, della quale riprende le proporzioni (lunghezza sui 3 metri e 90) squadrandone le forme. I fari sono ora inseriti nei parafanghi, che restano separati dalla carrozzeria, mentre si conferma l’ampio tetto apribile e un pratico portellone dà l’accesso al bagagliaio. I vetri anteriori sono scorrevoli e non più a ribaltina e i sedili, sempre con struttura tubolare, sono più confortevoli. Non viene dunque alterata la funzionale semplicità della progenitrice e anche il cambio mantiene il tipico comando a “manico d’ombrello” sulla plancia. Motore consolidato Sotto pelle, nulla cambia: trazione anteriore, morbide sospensioni tutte indipendenti, freni anteriori entrobordo e il motore bicilindrico raffreddato ad aria di 425 cc per 21 cavalli (diventeranno 435 e 26 nell’evoluzione del prodotto). Modeste le prestazioni, ma la eccellente tenuta di strada e l’economia nei consumi non vengono smentite. Il temperamento si farà più brillante nel 1968 con la Dyane 6 (602 cc, 28, 33 e infine 35 cavalli), battezzata Dyanissima in Italia, Paese dove la nuova Citroën avrà particolare successo, considerando l’interruzione per alcuni anni della vendita della 2CV. Non mancherà neppure la versione furgonetta, Acadiane, estremamente versatile e capiente, a completare una gamma che subirà, nell’arco di vita, soltanto modesti affinamenti estetici e di allestimento. In fin dei conti, la Dyane è stata un’operazione riuscita soltanto a metà, a sottolineare il fatto (e altri esempi non mancano, vedi Mini e Metro) che quando si cerca di sostituire autentiche pietre miliari nella storia dell’auto i compromessi non bastano per vincere la partita. 15 Settembre 2017 ·

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STORICHE

Renault 4, l’essenziale. ROBERTO SPOSINI

rimpiazzare la R4, non raggiunse mai la sua popolarità. E questa è la ragione per cui, ancora oggi, la Renault 4, come le Citroen 2CV e Dyane, gode di un grande interesse sul mercato dell’usato. Bastano poche migliaia di euro per portarsi a casa un esemplare della più diffusa GTL, quella del decennio 1980-90 per capirci. Le condizioni di conservazione non sono sempre ideali (alcune sfiorano il mezzo milione di chilometri percorsi, e vanno ancora!), la ruggine fa quasi sempre parte della dotazione di serie, ma con mille-duemila euro si fanno ottimi affari. E adesso che arriva l’estate, spendendo qualcosa in più, si può dare la caccia a una rara R4 Frog, versione senza tetto e senza portiere, in perfetto stile “spiaggina”, come Citroen Mehari e Mini Moke.

STORICHE

A 112 Abarth, c’è del genio. ■ Era il settembre del 1992 e lei, la rivale per eccellenza della Citroen 2CV e Dyane, una delle auto simbolo degli anni Settanta, usciva di scena dopo 31 anni di carriera e 8 milioni di auto vendute. La mitica R4, “l’auto dei panettieri”, l’utilitaria anticonformista e spartana divenuta simbolo della sinistra con l’eskimo, l’auto (restaurata e conservata nel garage del Viminale) su cui le Brigate Rosse fecero ritrovare il corpo di Aldo Moro nel maggio del 1978, ancora oggi rimane l’icona di uno stile di vita essenziale. Un milione di motivi per averla Era la vettura di chi sceglieva la sostanza rifuggendo dall’apparenza, era spazio ed economia. Ai tempi della lira costava niente, poco più di un milione. E offriva 4 posti e un comodo bagagliaio con il portellone. Per questo i tanti panettieri, i contadini. Gli operai. Ma anche i giovani che nell’utilitaria francese vedevano un’auto pratica, economica e tuttofare. L’auto dei primi viaggi intorno all’Europa. L’auto dei primi amori. Delle prime avventure. E pazienza se l’Errequattro aveva un assetto che faceva venire il mal di mare. Se i vetri laterali scorrevano solo a metà e i tergicristallo erano lunghi appena una spanna e quando pioveva non si vedeva niente. Pazienza. Leggera ma tosta L’R4 aveva dalla sua una meccanica semplice e indistruttibile, la trazione anteriore e un 4 cilindri di 1.108 cc che con appena 34 cavalli e 122 km/h di velocità massima ha portato a spasso per il mondo intere generazioni di giovani. E cosa dire di quel cambio a 4 marce che sbucava accanto al volante? O dello specchietto retrovisore, chissà perché montato sulla plancia al posto che sul tetto come al solito? Non importa. La Twingo, che avrebbe dovuto 4

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ROBERTO SPOSINI

■ Era il 1972 e lei era la Mini Cooper italiana. Forse con meno charme. Ma di certo l’Autobianchi A112 Abarth è stata l’oggetto del desiderio per molti. Una “scatoletta” a vederla oggi, lunga appena 3 metri e 23 e soprattutto con un tetto a poco più di un metro e trenta da terra. Eppure, guidarla era talmente uno spasso che… era facile esagerare (e farsi male). Novembre 1971 Ultimo colpo di genio di un Carlo Abarth ormai prossimo alla cessione della sua azienda alla Fiat, figlia alla lontana di quelle Abarth 850 che avevano già fatto sognare gli au-


tomobilisti italiani nel decennio precedente, la A112 Abarth nasce nel novembre 1971, sotto il segno dello scorpione, simbolo da sempre del preparatore torinese. Sette serie In Fiat nessuno ci avrebbe scommesso, e invece. La famiglia delle piccole Abarth durò ben sette serie successive, fino al 1985. Sotto il cortissimo cofano c’era un 4 cilindri in linea derivato da quello della popolare Fiat 127. Con 982 cc e 58 cavalli aveva già tantissima grinta, soprattutto perché lei, l’anti-Mini, era leggerissima (690 chili) e agilissima. Gomito fuori Con le serie successive la cilindrata è cresciuta a 1050 cc e anche la potenza è salita, fino a 70 cavalli, abbastanza per toccare i 160 orari, una velocità decisamente impegnativa per i tempi. Oggi è un meraviglioso pezzo di memorabilia anni ’70, guidarla col gomito fuori e i Ray-Ban di Top Gun ascoltando “Questo piccolo grande amore” di Baglioni è un sogno senza prezzo. Costa non poco Tanto vale comprarsene una, no? Cercate una delle due prime serie. Quelle senza quella brutta presa d’aria sul cofano. Tenute bene non costano poco (e le plastiche a volte sono mal ridotte). Ma per una A112 Abarth autentica vale di certo la pena. Buona ricerca.

STORICHE

Innocenti 90-120, la Mini italiana.

to nell’estetica, mentre in Italia la nuova proprietà, ora Leyland-Innocenti, decide di mettere in produzione una versione che, pur senza modifiche sostanziali nella meccanica, è completamente diversa nel design firmato dalla Bertone. Viene così presentata nel 1974, al Salone di Torino, la Mini 90-120: sigle numeriche che identificano le due varianti, di 998 e 1.275 cc, dell’arcinoto, non certo all’avanguardia, quattro cilindri “aste e bilancieri” ripreso dalla vettura d’origine. Le potenze di 49 e 65 cavalli, unite alla proverbiale maneggevolezza ereditata, garantiscono comunque buone prestazioni e vivacità di comportamento alle debuttanti, che devono confrontarsi, fra le altre, con la brillante diretta concorrente l’Autobianchi A112, nata proprio per dare filo da torcere alla rivale britannica. Più squadrata e meno rotonda Abbandonate le forme tondeggianti a favore di più moderni tratti squadrati (la simpatia non viene meno), appena allungate di una decina di centimetri (3,12 metri) e con un pratico portellone posteriore di accesso al bagagliaio, le nuove 90-120 si distinguono tra loro per limitati particolari di allestimento e offrono un’abitabilità un po’ ridotta rispetto a quella incredibile (in rapporto alle dimensioni esterne) della Mini classica, ma in tema di allestimenti siamo sempre nell’ambito delle city-car di tono superiore. Tanti nomi L’accoglienza da parte del pubblico è favorevole, pur ad un prezzo base che supera i due milioni di lire, e inizia una vera e propria “avventura” che vedrà la piccola di Lambrate tenere il mare agitato di un’azienda dalle molte traversie, passata nel 1976 nelle mani dell’imprenditore italo-argentino Alejandro De Tomaso per approdare definitivamente nel gruppo Fiat all’inizio degli anni Novanta. In diciannove anni di vita produttiva, prima dell’uscita di scena nel 1993, la Mini italiana verrà dunque costantemente aggiornata, segnando svolte tecniche importanti a partire dal 1982 (la meccanica inglese viene sostituita da quella della giapponese Daihatsu, con motori a due o tre cilindri e perfino a gasolio), proposta anche con carrozzeria allungata e identificata via via con un autentico florilegio di nomi e sigle, da Mille a Minitre, da 990 a Small.

STEFANO ANTONETTI ■ Dal 1965 la Mini è anche italiana, frutto dell’accordo tra la Innocenti e la British Motor Corporation. Sarà un successo di mercato per la piccola vettura che, costruita anche nel nostro Paese, riesce a mettere in discussione il monopolio assoluto della Fiat nella categoria. Un successo che però non impedirà la crisi dell’azienda di Lambrate, costretta all’inizio degli anni Settanta a cedere agli inglesi la sua branca automobilistica. Versione italiana Nel frattempo, in patria hanno cercato di aggiornare la Mini, diventata marchio a se stante, con un modello battezzato Clubman rivisto (un po’ infelicemente) soprattut15 Settembre 2017 ·

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STORICHE

Renault 5 turbo, la belva. ROBERTO SPOSINI

Versione maxi Qualche anno dopo, arriva un’altra evoluzione, ancora più estrema e sempre dedicata alle corse: si chiama Maxi Turbo, ha un motore da 1,5 litri sovralimentato da 350 cavalli e, grazie anche al peso piuma (900 chili), merito di kevlar, carbonio e alluminio, tocca velocità superiori ai 220 orari. I successi sportivi del “Turbone”, così la chiamavano gli appassionati, non mancano: Tour de Corse, Tour de France, un Rally di Monte Carlo nel 1981. Poi, nel 1986, l’uscita di scena, per lasciare il testimone a una meno iconica Clio. Costi alti Chi l’ha guidata almeno una volta nella vita, della R5 Turbo ricorda soprattutto lo sterzo preciso e senza servoassistenza, i repentini passaggi dal sottosterzo al sovrasterzo di potenza non sempre facili da controllare. E l’intervento quasi violento del turbo. Ma anche il piacere di guida puro e quasi “selvaggio”. Oggi la Renault 5 Turbo, in tutte le sue possibili varianti, è davvero rarissima da scovare. Se però una paziente ricerca (meglio se all’estero) non vi spaventa, sappiate che le quotazioni della piccola francese, per un esemplare originale, superano anche i 100mila euro.

STORICHE

■ Per inquadrare il periodo, il 1980 era l’anno delle vittorie nei rally della Lancia Stratos, della Fiat 131 Abarth e della Ford Escort RS. L’anno del tentativo (davvero maldestro) di mandare in pensione la Mini, il capolavoro di Alec Issigonis, la capostipite di tutte le citycar, una delle auto più glamour e longeve (durò 21 anni la sua carriera) della storia. Al suo posto, in quell’anno arriva la Metro, non esattamente un’erede all’altezza. A risollevare gli animi degli appassionati di auto piccole ma di carattere, nello stesso anno arriva anche la Renault 5 Turbo, una belva pensata per le gare e il mondo dei rally.

Honda Nsx, fuori di Senna. ROBERTO SPOSINI

Firma Bertone Della R 5 “normale” non rimaneva quasi nulla. La rivoluzione stilistica era firmata da Marcello Gandini, in quegli anni in Bertone. I posti a bordo erano solamente due. Inoltre – e la vera rivoluzione stava qui – al posto del pacifico motore anteriore qui c’era un 1.4 turbo montato in posizione posteriore centrale; per capirci la stessa disposizione meccanica della Alpine, altra sportiva Renault, campione del mondo Rally nel 1973, appena tornata sulle passerelle all’ultimo Salone di Ginevra. Leggera e da corsa Ma la Renault 5 Turbo aveva altre particolarità, oltre al look abbastanza estremo. La carrozzeria era parzialmente in alluminio e vetroresina, per ridurre al minimo il peso. E per poter essere omologata e correre in Gruppo 4 doveva essere prodotta in almeno 400 esemplari. Da qui l’idea del costruttore francese di costruire una parte di quegli esemplari in versione stradale, con potenza ridotta a 160 cavalli, e l’altra in versione racing con potenza portata a 250 cavalli. Altra differenza importante, rispetto alla Renault 5 “normale”, qui la trazione era posteriore. 6

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■ Se solo il suo V6 da 3 litri avesse avuto anche un bel sound, allora sì che nel 1990 Ferrari 348 e Porsche 911 sarebbero davvero state in pericolo (e un po’ lo sono state lo stesso...). Perché la Honda NSX, quella che è appena tornata sulle scene e che oggi, come già accadeva negli anni 90, ha passaporto giapponese ma viene prodotta sempre negli stabilimenti Honda in Ohio, era davvero una sportiva da intenditori. Quasi perfetta Come accade ancora oggi, il motore era in posizione centrale trasversale, appena dietro i sedili. Aveva 270 cavalli. E da


molti viene considerata ancora oggi una della auto più vicine alla perfezione mai prodotte. Un’esagerazione? Non proprio. Per farla, in Honda avevano spremuto il meglio dal loro reparto Motorsport. Persino coinvolgendo nella messa a punto Ayrton Senna, allora pilota McLaren (scuderia che già allora correva con motore Honda). Montava una sofisticata distribuzione a 24 valvole, le bielle erano in titanio e la scocca in alluminio subiva ben 23 passaggi di verniciatura. Le carrozzeria, frutto di lunghi studi in galleria del vento, aveva un’aerodinamica straordinaria per il tempo. Oltre a uno stile puro e sinuoso. La trazione era posteriore. Il cambio manuale, a sei marce, preciso e veloce. La velocità massima toccava i 270 orari e lo zero-cento scorreva via in soli 5,8 secondi. Oggi come ieri Se ci pensate, tutto sommato la prima Nsx non era così lontana dalle prestazioni del modello attuale, che di cavalli ne ha il doppio (507), che ha un sistema ibrido con tre motori elettrici, un cambio robotizzato a doppia frizione a 9 rapporti e che supera di poco i 300 km/h e accelera da zero a cento in 3 secondi. La carriera della Nsx è durata una dozzina d’anni, dal 1990 al 2002, anni in cui la sportiva giapponese non riuscì mai davvero ad insidiare Ferrari e Porsche. Le ragioni? L’immagine del marchio, troppo debole rispetto a quello delle sportive italiane e tedesche. Ma proprio per questo, gli esemplari venduti finirono nelle mani di intenditori e appassionati che conoscevano bene il valore tecnologico della sportiva Honda e che, per questo, ancora oggi potrebbero avere nei garage esemplari praticamente perfetti. Preparatevi, quella alla NSX non sarà una caccia semplice, è piuttosto rara. Ma se volete un consiglio mirate in alto e indirizzate le vostre ricerche alla versione lightweight “R”, ossia quella con carrozzeria alleggerita, assetto, freni e allestimenti più sportivi. Meno ricercata ma sempre valida, l’ultima versione, quella col V6 portato a 3,2 litri. Vedrete, in Italia ne troverete poche. Ma se allargate la ricerca all’Europa, con 50mila euro la scelta si ampia di molto.

AUTO E MOTO

Emissioni, i costruttori trattano. LUCA BEVAGNA ■ FRANCOFORTE – Il tema delle emissioni rimane al centro della discussione politica qui in Germania e in Europa. L’Acea, l’associazione dei costruttori europei di auto, ha annunciato durante l’IAA, il Salone di Francoforte 2017, la sua proposta: “Ridurre le emissioni di CO2 entro il 2030 del 20% piuttosto che al 2021”, ha annunciato il presidente Dieter Zetsche, numero uno del gruppo Daimler. Il risultato va a sommarsi con quanto raggiunto finora e a quello che

si farà nei prossimi mesi: dal 2005 al 2021, il taglio della CO2 complessivo delle auto in vendita in Europa sarà del 42%. Zetsche, dateci tempo Di fatto le Case provano a giocare d'anticipo sul target 2021 che la Commissione Europea fisserà nei prossimi mesi e pongono un obiettivo – spostato al 2030 – che per Zetsche “è molto ambizioso”. Scegliere il prima possibile il limite da raggiungere, consentirà a dare il tempo necessario – sostiene l’Acea – all’industria di rivoluzionare il concetto di auto e sviluppare nuove tecnologie come l’auto elettrica, in modo sostenibile dal punto di vista economico per tutti, per i profitti dei costruttori e per il prezzo finale ai clienti. Non è una caso, sottolinea ancora Zetsche, che finora “le auto elettriche abbiano una quota di mercato in Europa dell’1,2%”. Il taglio previsto potrà “essere rivisto nel 2025”. I governi facciano la loro parte Per raggiungere l’obiettivo, l’Acea però richiede che nel 2030 il mercato abbia le condizioni al contorno migliori per accelerare l’elettrificazione dell’auto con una rete di ricarica sufficiente (ma anche di distributori di idrogeno e gas metano). Per questo, il target annunciato da Zetsche sarà di tipo variabile: l’obiettivo sulle emissioni di CO2 potrà salire o scendere in funzione della quota di mercato che i veicoli elettrificati raggiungeranno nel 2030 e degli investimenti che i governi metteranno sull’infrastruttura necessaria ai veicoli a basso impatto ambientale. E ora la palla passa alla politica.

AUTO E MOTO

Hyundai, offensiva suv. LUCA BEVAGNA ■ FRANCOFORTE – Resistenza coreana. Nessun timore reverenziale. All'IAA, il Salone dell'auto di Francoforte 2017, Hyundai mostra i muscoli: “Fino ad oggi abbiamo venduto in Europa oltre 7,5 milioni di auto. Negli ultimi anni le nostre vendite sono cresciute dell’87% e per il 2017 ci aspettiamo di 15 Settembre 2017 ·

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chiudere con un altro record di immatricolazioni”, ha dichiarato Hyung Cheong Kim, Ceo di Hyundai Motor Europe. Cinque nuovi suv in due anni La strategia per il Vecchio Continente prevede “il lancio di 5 nuovi suv nei prossimi due anni”, ha continuato Hyung Cheong Kim. Una domanda in crescita che ha portato finora a vendere dal 2001 oltre 1,5 milioni di suv con il marchio coreano e che ora potrà contare su Kona, il nuovo crossover compatto del segmento B lanciato proprio qui a Francoforte e in arrivo sul mercato a ottobre. Kona anche elettrica Ai suv si aggiungeranno, all’interno di un piano globale, a partire dal 2020 “15 modelli a zero o basso impatto ambientale, ibridi, elettrici e con fuel cell a idrogeno”. Tra questi a giugno 2018 è prevista la commercializzazione di una versione solo a batteria della Kona. E non solo. Thomas Schmid Coo di Hyundai Motor Europe ha anche anticipato “l’avvio nei prossimi giorni ad Amsterdam di un servizio car sharing a zero emissioni con una flotta di 100 Ioniq elettriche”.

La prima di una lunga serie “La EV Concept è stata sviluppata su una piattaforma modulare del tutto nuova e destinata ad essere impiegata anche sui prossimi modelli a batteria che faranno dell’Honda entro il 2025 un costruttore con una gamma per due terzi elettrificata.” spiega Katsuya Hishiki, che ne ha diretto lo sviluppo e la progettazione. Lunga 3,9 metri, la giapponese sfoggia all’esterno una singolare fanaleria a led, in grado di comunicare da lontano e nella parte posteriore lo stato di carica. Mentre nell’abitacolo, capace di accogliere quattro persone, incorpora un sistema infotelematico con schermo cinematografico. Parla con il guidatore “Tra le diverse tecnologie innovative, la EV Concept – spiega Hishiki – impiega una interfaccia Automated Network Assistant, prevista nel modello di serie, capace di studiare comportamenti e abitudini di chi è al volante per offrire suggerimenti in tempo reale sul modo di guidare e diverse informazioni, tra le quali preziose indicazioni su come risparmiare elettricità nella marcia”.

AUTO E MOTO

Honda, un’elettrica per l’Europa. LUCA GAIETTA ■ Una carrozzeria che unisce nelle forme elementi hi-tech a tratti vintage e un cuore verde a zero emissioni. Sono le caratteristiche principali della EV Concept: prototipo con cui Honda ha anticipato al Salone di Francoforte una compatta urbana a batteria, attesa sulle strade nel 2019 e progettata espressamente per trovare consensi sui mercati europei. 8

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L'energia nella rete Riguardo alla meccanica della Honda EV Concept, ancora non ci sono informazioni tecniche. Ma le batterie verranno integrate in un sistema per la gestione e l’ottimizzazione dei flussi energetici che consentirà alla vettura di cedere corrente alla rete elettrica per alimentare altri veicoli o un’abitazione.

AUTO E MOTO

Mercedes e Bmw seguono Volvo. FRANCESCO PATERNÒ ■ FRANCOFORTE – Fuori e dentro il Salone dell’auto, l’elettrificazione è diventata la parola chiave della mobilità


di domani. Non di un futuro lontano, ma molto vicino. Alla vigilia dell’apertura della manifestazione, parlando a Sindelfingen agli azionisti, il Ceo del gruppo Daimler Dieter Zetsche ha annunciato che entro il 2022 ci sarà una gamma Mercedes completamente elettrificata. Con modelli dunque sia elettrici puri che ibridi, a fianco dei modelli con propulsori benzina e diesel. La stessa cosa ha fatto il giorno seguente parlando al Salone Harald Krüger, Ceo del gruppo Bmw, anticipando l'evento però al 2020. Smart a zero emissioni La piccola Smart del gruppo Daimler sarà invece venduta soltanto elettrica sempre dal 2022. Un destino per la quale era stata concepita alla fine degli anni 90 e che trova finalmente la sua più corretta definizione per una citycar come nessun’altra. L’accelerazione tedesca La mossa di Zetsche e di Kruger è una risposta all’accelerazione impressa da Volvo per prima e seguita nelle scorse settimane da Jaguar, marchi concorrenti diretti nel premium. Oltre che un messaggio ad Audi e al gruppo Volkswagen sull’elettrificazione, che al Salone hanno annunciato 80 modelli a batteria entro il 2025, soluzione che verrà estesa a tutti i 300 modelli dei 12 marchi entro il 2030. La Volvo aveva dato il via pochi mesi fa a questa

nuova corsa virtuosa, annunciando di voler avere l’intera gamma elettrificata a partire dal 2019, a fianco dei modelli tradizionali che saranno costruiti finché avranno mercato e sarà ancora conveniente farli. Tutto questo non significa, infatti, che i motori a combustione interna non saranno più prodotti da questi costruttori. Per i quali oggi, tra l'altro, la percentuale di vendite diesel sfiora in Europa il 90 per cento del mix. Ma è il segno che il futuro dei propulsori tradizionali, dopo oltre cent’anni di vita, sembrerebbe avere gli anni contati. Almeno per l’automobile.

AUTO E MOTO

Volkswagen, ottanta elettriche per stupire. ALESSANDRO MARCHETTI TRICAMO ■ FRANCOFORTE – L’asticella si alza ancora. Sarà l’aria di casa. Sarà la voglia di chiudere in maniera definitiva il capitolo dieselgate ma il gruppo Volkswagen anticipa alla consueta Group Night che di fatto apre l’IAA, il Salone di Francoforte 2017 (chiusura 24 settembre), la strategia del futuro: elettrificazione senza ritorno. Elettriche crescono Il numero uno di Wolfsburg, Matthias Müller, ha annunciato il suo piano per il mercato: 80 nuovi modelli elettrificati entro il 2025. L’accelerazione è degna di annotazione: erano “solo” 30 quelle annunciate nei mesi scorsi. Ora sono 50 in più. Una Crozz a batteria La strategia prevede 50 elettriche pure e 30 ibride plug-in.

Conferma per la creazione del nuovo sub-brand I.D del marchio Volkswagen, dedicato alle auto esclusivamente a batteria, che qui a Francoforte si presenta anche con il nuovo I.D. Crozz, concept del crossover atteso per il 2020. Investimento di oltre 20 miliardi Non solo, perché come precisa ancora Müller, ogni modello del gruppo tedesco avrà una versione a batterie entro il 2030, per un totale di 300 veicoli. Nel complesso, per garantire l'energia sufficiente alle future elettriche di Volkswagen, serviranno batterie al litio per una capacità complessiva di 150 gigawattora. L'investimento complessivo sarà superiore ai 20 miliardi di euro (6 solo per il marchio Volkswagen) con l'obiettivo, neppure a dirlo, di conquistare la leadership globale dell'auto elettrica. La corsa a Wolfsburg è appena partita. 15 Settembre 2017 ·

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AUTO E MOTO

AUTO E MOTO

Mercedes, Ford, un Salone una giornata da Formula 1. performance. LUCA BEVAGNA

PAOLO ODINZOV

■ FRANCOFORTE – Non si vive di solo elettrico. Per una sera l’IAA, il Salone dell’auto di Francoforte (chiusura 24 settembre) abbandona il “politically correct” di un mondo immaginato a batterie e zero emissioni, e abbraccia la vecchia passione su quattro ruote fatta di potenza e velocità (quasi) senza limiti. È il tema che Mercedes ha voluto giocare in una serata che anticipa solo di qualche ora l’apertura ufficiale dell’IAA, svelando il concept della AMG Project One, giocattolo da oltre 1.000 cavalli.

■ Un test a base di grinta e adrenalina. Abbiamo avuto l’opportunità di provare, sulla pista di Vairano nel pavese, alcune vetture della linea Ford Performance che racchiudono, dietro il loro vistoso vestito, l’anima più sportiva della Casa di Derborn. Prima fra tutte la Focus RS, ma anche la muscle car Mustang Shelby GT350R e il pick-up F-150 Raptor che non sono disponibili, almeno per adesso, sul mercato europeo.

Monoposto stradale L’hypercar, come sono ormai definite oggi le supersportive, porta la Formula 1 in strada, visto che il powertrain ibrido è lo stesso della monoposto di Lewis Hamilton. Ecco allora che i 275 futuri (e fortunati) possessori dell'auto che sarà derivata da questa showcar potranno contare su un motore (posteriore) 1.600 V6 turbo benzina iniezione diretta, al quale sono abbinati quattro propulsori elettrici: due sono abbinati rispettivamente al benzina e al turbocompressore, due sono posizionati sull'asse anteriore (uno per ruota). Meglio di Bugatti e McLaren Sei dunque i motori che spingeranno la due posti tedesca a passare da 0 a 200 km/h in meno di 6 secondi, un centesimo in meno della Bugatti Chiron, 8 centesimi in meno della McLaren P1. La velocità massima è di oltre 350 km/h. E se non bastasse, in caso di conversione al “verde", l’hypercar Mercedes potrà viaggiare anche solo con i motori elettrici a zero emissioni per un'autonomia di 25 km. Il prezzo per questo concentrato di passione e tecnologia? Nulla ancora di ufficiale ma per la versione definitiva di serie potrebbero “bastare” 2,5 milioni di euro. 10

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In pista e fuoristrada L’occasione è stata unica. Abbiamo effettuato liberamente con la Focus e la Mustang derapate, controsterzi e curve al limite: spingendo al massimo l’acceleratore tra i cordoli e le chicane della pista. Mentre, con l’imponente versione “incattivita” del pick-up più venduto nel mondo, ci siamo cimentati in un impegnativo percorso off-road, tra dossi, sassi e ripidi dislivelli, rimanendo sbalorditi per le qualità in fuoristrada. Come va la Focus RS La Focus RS è prodotta in Germania, a Saarlouis, ed è venduta da noi con un listino a partire da 43.125 euro. Fin dalla vista svela il carattere “corsaiolo” con le prese d’aria sparse sulla carrozzeria, i passaruota allargati, le minigonne e un grande alettone posteriore. È equipaggiata con una meccanica che ne fa una vettura dalla doppia anima: buona per andarci in ufficio e su un circuito. Il motore, un quattro cilindri turbo di 2.3 litri da 350 cavalli, le permette di scattare da 0 a 100 km/h in appena 4,7 secondi e raggiungere i 266 chilometri orari di velocità massima. Provandola, la cosa che ci ha colpito è la prontezza e la precisione con cui l'auto reagisce alle alte velocità, permettendo al conducente di correggere anche eventuali errori se ci si


fa prendere troppo la mano nella guida. Contando, per farlo, sul sistema di ripartizione della coppia Dynamic Torque Vectoring e il selettore delle varie modalità di marcia con la posizione “drift mode” per limitare al minimo l’intervento delle elettroniche di assistenza. Scatenando il Cobra Sul tracciato lombardo, la Mustang con il Cobra sul cofano si è invece fatta apprezzare per l’assetto e il telaio irrigiditi, rispetto alle già pompatissime versioni, con il quattro cilindri turbo di 2.3 litri e il V8 5.0, che da noi “conquistano” circa 30 clienti al mese. Trasportati dalla poderosa coppia di 580 Newtonmetri e il ruggito dello scarico con l’apertura programmata delle valvole, l’americana ci ha permesso di entrare e uscire dalle curve con una rapidità fulminea, senza bisogno di giocare troppo con il cambio. Certo, 534 cavalli, quanti ne scarica a terra il suo V8, sono tanti. Tirandola al massimo è da mettere

in conto il consumo della benzina ma, soprattutto, delle gomme. Il divertimento, però, è assicurato e va oltre le aspettative. Un pick-up per andare ovunque Guidare il Ford F-150 Raptor è un po’ come andarsene a spasso con un carro armato che non si ferma davanti a nulla. Il mezzo ideale che tutti sognano per sconfinare dalle strade asfaltate, dove comunque il Raptor si è rivelato essere una sorta di supercar a ruote alte. L'escursione elevata delle ruote, il motore V6 EcoBoost di 3,5 litri da 456 cavalli e i 690 Newtonmetri di coppia, associati al robusto ma leggerissimo corpo vettura, consentono di arrivare in cima a una montagna innevata senza problemi. Facendo appena avvertire, per l’estrema maneggevolezza del veicolo e persino nelle manovre più impegnative, le dimensioni extra-large di 5,9 metri di lunghezza, 2,1 di larghezza e 1,9 metri di altezza.

SICUREZZA

Roma a Vision Zero. MARINA FANARA ■ Più mobilità sostenibile contro i troppi incidenti sulle nostre strade: è un programma straordinario per la sicurezza quello approvato, in sede congiunta, dalle commissioni Mobilità, Lavori pubblici e Scuola di Roma Capitale. Si chiama Vision Zero e punta a ridurre al massimo i sinistri mortali con misure pensate ad hoc: dall’istituzione di nuove zone 30 e raddoppio delle piste ciclabili, all’aumento dei controlli e dei programmi di educazione stradale nelle scuole. Mobilità a impatto zero “Sulle strade di Roma, più o meno ogni due giorni, muore una persona”, dice Enrico Stefàno, presidente della Commissione Mobilità, “è troppo: dobbiamo agire con interventi specifici e il più presto possibile”. Stando ai dati ACI-Istat, nella Capitale, nel 2016, le vittime per incidente sono state 144, in calo rispetto al 2015 (173), ma l’indice di mortalità (numero di morti ogni 100 mila abitanti) rimane il più alto rispetto ad altre metropoli europee: 5 contro 0,7 di Stoccolma, 1,5 di Berlino, 1,6 di Londra e 1,7 di Parigi. “L’alta velocità è uno dei fattori killer”, spiega ancora Stefàno, “per questo tra i provvedimenti proposti c'è quello di creare nuove zone dove non si potrà procedere a più di 30 chilometri orari e la riduzione dello spazio per le auto in modo da scoraggiare una guida spericolata”. Decalogo contro gli incidenti In dettaglio, sono una decina gli interventi in programma: oltre al raddoppio delle piste ciclabili, alla realizzazione

di zone 30 in prossimità dei luoghi più sensibili (come le scuole) e a programmi di sensibilizzazione dedicati ai giovani, l'elenco che ha avuto il via libera delle commissioni del Campidoglio include anche uso di tecnologie per presidiare aree pedonali e attraversamenti più a rischio, messa in sicurezza degli incroci più pericolosi, nuova segnaletica stradale, aree pedonali anche in periferia, aumento degli autovelox nei punti più critici, più controlli del tasso alcolemico, nuova classificazione delle strade urbane. L’ACI in Consulta “Si tratta di un programma ambizioso”, sottolinea il presidente della commissione capitolina, “ma assolutamente urgente. Tutte le misure sono state concordate con i comitati dei cittadini, i commercianti, gli imprenditori che collaborano alla Consulta cittadina sulla mobilità”. Si tratta di un'organismo, il cui ruolo è stato recentemente rafforzato con ulteriori competenze in materia di sicurezza stradale e mobilità dolce e sostenibile, al quale partecipa anche l’Automobile Club d’Italia, interlocutore privilegiato per la mobilità, a difesa di tutti gli utenti della strada, a cominciare dai più deboli. 15 Settembre 2017 ·

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LIFESTYLE

Le supercar di “Pretty woman”. GIUSEPPE CESARO

■ “Un po’ capricciosa”. È così che Richard Tiffany Gere – nato a Filadelfia (Pennsylvania) il 31 agosto 1949 (68 anni l’altro ieri), da genitori anglo-irlandesi, entrambi discendenti di pellegrini del Mayflower (la nave con la quale i padri pellegrini – salpati da Plymouth, Inghilterra – raggiunsero Cape Cod, negli attuali Stati Uniti, l'11 novembre 1620) – definisce una Lotus Esprit SE Type 85 del 1989. Parliamo della supercar con la quale Edward Lewis – fascinoso uomo d’affari senza scrupoli, interpretato, appunto, da Gere – entra per la prima volta in contatto con Vivian Ward – una giovane e brillante prostituta (Julia Fiona Roberts) – in “Pretty Woman” (1990), moderna versione hollywoodiana della favola di Cenerentola e terzo maggior incasso mondiale dell’anno. Lotus Esprit SE “Mamma – commenta Vivian, che si intende di supercar molto più del ricco e imbranato (al volante, s’intende) Edward – questa curva come se fosse sulle rotaie! Non ti fa impazzire?” “Hai mai guidato una Lotus?”, replica lui. “No”. “Allora cominci adesso!” Detto, fatto: Vivian/Julia siede al volante: “Allacciate le cinture di sicurezza! Ti faccio fare la gita della tua vita; ti mostro cosa può fare questa macchina”. “Qualcosina”, in effetti, sapeva fare quell’inglesina dall’anima sportiva, della quale tra il 1976 e il 2004 12

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sono stati prodotti poco più di 10mila esemplari (i primi 5829 ribattezzati Giugiaro, i restanti 4846 Stevens, dai nomi dei due nobili designer) in ben 24 varianti. La versione ‘89 era un coupé a due porte a trazione posteriore, con cambio a 5 marce: 2.174 cc, 172 cavalli, in grado di raggiungere 222 chilometri orari di velocità massima, e di passare da 0 a 100 in 6.8 secondi. Niente male. Cavalli vs cavalli Ma l’Esprit non è certo l’unica supercar a fare bella mostra di sé in una delle storie d’amore cult degli anni Novanta. Alla partita di polo, infatti, va in scena una straordinaria guerra a distanza tra splendidi cavalli a quattro zampe e autentiche meraviglie a quattro ruote. Si comincia con una Rolls-Royce Silver Spirit (V8, 16 valvole, 6.750 di cilindrata, 247 cavalli, trazione posteriore, 208 km/h di velocità massima), per passare a una Jaguar XJ-S XJ27 1982 (coupé, due porte, cambio automatico a tre rapporti, 5.343 cc, 262 cavalli, velocità massima: 236 km/h, da 0 a 100 in 8.7 secondi: prodotta fino al 1991 in circa 55mila esemplari, nell’82 conquista il secondo posto al RAC Tourist Trophy di Silverstone). È, quindi, la volta di una Bmw 325i Cabrio E30, grigio metallizzato, del 1987 e, per finire, si gode della scintillante vista di una Chevrolet Corvette C4 rossa del 1989:


2 porte, decappottabile, da 0 a 100 in 7.2 secondi. Scusate se è poco. Che dire? A una partita di Polo del jet-set californiano, era difficile immaginare di imbattersi in delle utilitarie. Gran finale in Lincoln E dato che di favola per il grande schermo si tratta, il gran finale non poteva che prevedere un happy ending. Gran finale e – va da sé – grande auto. Ecco, allora, che il principe azzurro Edward si presenta sotto la finestra della Cenerentola Vivian, niente meno che a bordo di una Lincoln Town Car Stretched (“allungata”) Limousine del 1989, bianca come un abito da sposa e lunga come una portaerei. Tanto per capire di che genere di veicolo stiamo parlando, quello stesso anno, il presidente degli Stati Uniti George Bush (padre), ne aveva ordinata una simile per sostituire la Cadillac Fleetwood del 1983, utilizzata durante l’amministrazione di Ronald Regan. La musica è cambiata, sia letteralmente che metaforicamente: Giuseppe Verdi (“Amami Alfredo” dal secondo atto de “La Traviata”, 1853), ha sostituito Roy Orbison (autoreinterprete del brano del 1964 che, di fatto, dà il titolo al film), e Richard Gere emerge dal tettuccio apribile della Limousine e, con tanto di rose in bocca, si arrampica sulla scala anti-incendio per andare a salvare la sua “princi-

pessa Vivian”. “Benvenuti a Hollywood! – grida una voce fuori campo – Qual è il vostro sogno?” Beh, a giudicare da questa lista, per altro inevitabilmente parziale, bisogna riconoscere che non c’è che l’imbarazzo della scelta.

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Spedizione Poste Italiane Spa - Postatarget Magazine. Pubblicazione Mensile. Data P.I. 01/07/2017

INNOVAZIONE I MOTORI I LIFESTYLE

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...dal nostro mensile PUBBLICATO SUL NUMERO 4 - FEBBRAIO 2017

COVER STORY VIAGGI

Route 66 senza fine. ANTONIO VITILLO

A bordo di una Harley Davidson per 2.450 miglia, lungo la strada che ha segnato l’America profonda. Un vecchio percorso reso irriconoscibile dal tempo, dove è facile perdere rotta e certezze. ■ CHICAGO - Route 66 o Mother Road. 2.450 miglia in cui perdersi non è impossibile. Nella rotta, e anche in qualche certezza. Solo percorrendo la 66 si scopre quanto siano belli i fili a vista sui pali della linea telefonica. O quanto i colori pastello dei vecchi motel riempiano il cuore di gioia. Da Chicago a Santa Monica, da nord est a sud ovest, ci siamo inebriati di questa lunga strada, lasciandoci guidare da un borbottante, quanto genuino, autoctono motore Big Twin. Divenuto leggenda, soprattutto grazie alle Harley Davidson, identiche alla nostra. In verità è difficile seguire la vecchia Route 66, perché i cartelli che la indicano sono poco consecutivi, perché moderne highway ne hanno affiancato il tracciato originario quasi mangiandoselo. A volte capita di ritrovarla solo ricercando i segni del tempo, vecchie pavimentazioni su strade secondarie e tortuose fra piccoli paesi. La Route 66 mischia la provincia americana, e la sua storia, con la strada. Fin dall’Illinois, da Dwight, dalla Texaco Station, un vecchio distributore che dal 1933, per 66 anni, ha rifornito i veicoli dei viaggiatori sulla “strada madre”. Ora è patrimonio storico, così perfetta e bella da ricordarci l’odore forte di benzina super, quella rossa. “Get gas in town”, consiglia Adam, settantenne con sulle spalle una decina di viaggi verso la California. Basta una pinta di birra per imparare che “along the road” la benzina e i generi di prima necessità, lontano dai centri abitati, costano più del doppio.

Finito l’Illinois, dall’altra parte del Mississippi c’è il Missouri. “Chain of Rocks Bridge” è un vecchio ponte in ferro che lo attraversa, oggi percorribile solo a piedi. Poco distante c’è il Luna Café, si narra frequentato ai tempi da Al Capone. In Missouri, a Springfield, si incontra il Red’s Giant Hamburg Springfield, il primo drive-in della storia. Ritornando a personaggi di mala, da Stanton si arriva alle Meramec Caverns, una volta nascondiglio di Jessie James che, dicono da queste parti, non sia morto per un colpo di pistola nel 1881, ma di vecchiaia nel 1951. È sera quando dalle parti di Tulsa, nello stato dell’Oklahoma, dopo l’ennesima autofficina trovata chiusa, perdiamo la strada maestra. A fianco di una Confederate Chiediamo informazioni a un uomo. Si chiama Brandon, consiglia di riposare, o meglio, insiste per ospitarci la notte. È un cultore di moto made in Usa. Ne ha collezionate fino a sette. Oggi ha solo una Confederate Hellcat, vicino la quale fermiamo la nostra Harley. Ha votato Trump, il male minore secondo lui. Nel piccolo giardino, sull’erba perfettamente rasata, c’è un’asta con la bandiera americana. Come in quello dei vicini. La piastra cuoce hot dog fino a tardi, il frigo contiene due strati di birra Budweiser. Al mattino ripartiamo, destinazione Texas. Facciamo sosta notturna al Big Texan Motel, adiacente

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In alto a destra uno dei rari cartelli informativi, lungo la Route 66. Nella foto grande bikers impegnati come noi nel lungo percorso verso la California.

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In alto un cartello annuncia il Jack Rabbit Trading Post, negozio di souvenir a Joseph City in Arizona. In basso l'arrivo della Route 66 sul molo di Santa Monica a Los Angeles.

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al Big Texan Steak Ranch. Siamo ad Amarillo, la tappa è d’obbligo per gli amanti della 66. E non solo, vista la frequentazione. È qui che, se in un’ora si riesce a mangiare una bistecca di due chili, si finisce iscritti nella Hall of Fame. E senza pagare il conto. In New Mexico la strada corre su spazi desertici, terreno che ospita un bel po’ di, non troppo simpatici, serpenti a sonagli. L’architettura dei centri abitati è caratteristica. Da Santa Rosa, per arrivare ad Albuquerque prendiamo la diramazione a sud, quella che ricalca il tracciato originario della Route 66. Terra dei Navajo. O, meno suggestivamente, location del serial televisivo “Breaking Bad”. Borbotta un po’ di più il bicilindrico, la giornata è calda anche per la moto. Siamo arrivati in Arizona, le Black Mountain sono


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affascinanti. Più divertente è il Jack Rabbit Trading Post a Joseph City, un negozio di cose curiose il cui logo è il caratteristico coniglio, facilmente associabile alla 66 per i cartelli sparsi lungo la strada. In California, passando per il Joshua Tree National Park, si fanno miglia su miglia di zone desertiche, con cittadine pressoché abbandonate, dove le uniche attrazioni sono le vecchie pompe di benzina. Da Barstow, primo centro abitato degno di definirsi tale, proseguiamo per una settantina di miglia brulle e desolate. San Bernardino è la città che diede i natali al primo McDonald’s. Gli americani ne hanno fatto un noioso museo. Santa Monica è solo a un’ora e mezza di strada. Ecco, siamo arrivati. Da Chicago sono serviti diciotto giorni di Route 66. Indimenticabili.

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