Week Settimanale digitale • Anno 2 • Numero 43• 1/6/2018
Supplemento settimanale a l’Automobile.
INNOVAZIONE I MOTORI I LIFESTYLE
Futuro a idrogeno. PAOLO BORGOGNONE ■ Il futuro della mobilità potrebbe avere la leggerezza dell’aria e la limpida sostanza dell’acqua, l’unico residuo che esce dal tubo di scarico. È questo il nuovo modo di muoversi che dall’Estremo Oriente, (Giappone e Corea soprattutto) arriva, passando anche per la California, fino a noi. Auto spinte da un motore elettrico alimentate dall’idrogeno. Pulite, silenziose, scattanti. Abbiamo fatto un giro su una di queste punte di diamante dell’innovazione, una Toyota Mirai una parola che in giapponese significa futuro e attraversando la verde campagna dei Paesi del nord Europa siamo an-
dati alla scoperta di un modo differente di intendere il viaggio. Un viaggio che non lascia tracce al suo passaggio, se non vapore acqueo. E allora cerchiamo di vedere cosa c’è dietro: quante auto a idrogeno esistono, quante ne verranno vendute nel futuro. E scopriamo che anche le roccaforti delle auto tradizionali possono aprirsi a questa tecnologia, che le grandi città europee si stanno dotando di flotte pulite, che anche in Paesi che sembrano essere lontani, il nuovo avanza e gli ultimi ritrovati tecnologici spianano la strada a un utilizzo sempre più sicuro. Aspettando, speranzosi, che il futuro trovi il modo di arrivare anche da noi.
AUTO E MOTO
Toyota Mirai: il futuro. PAOLO BORGOGNONE
■ “Nell’oggi cammina già il domani”: le parole del filosofo e poeta inglese Samuel T. Coleridge – anche se scritte nel 19esimo secolo – riassumono meglio di tante altre il senso del Mirai Road Trip, il viaggio attraverso l’Europa a bordo della berlina Toyota Mirai a idrogeno. 800 chilometri dalla Danimarca al cuore della Germania per scoprire fino in fondo cosa si prova a sedersi al volante di una vettura che comprende in sé il massimo della tecnologia oggi disponibile su questo tipo di alimentazione e che ci proietta contemporaneamente anche verso il futuro, Mirai in giapponese appunto. E un viaggio che ci consente di scoprire e toccare con mano che il domani è arrivato e ci permette di attraversare il vecchio continente emettendo soltanto vapore acqueo e senza impattare sull’ambiente. Comfort e accelerazione Mirai è un’auto che guidiamo oggi ma che deriva dalla quasi trentennale esperienza di Toyota nel settore delle celle a combustibile. Interno, esterno e tecnologia sono all’avanguardia. Massimo il comfort, a iniziare dal silenzio a bordo, garantito dal motore elettrico da 114 kilowattora (equivalente di 155 cavalli) che riesce a spingere gli oltre 1.850 chili della berlina a 188 chilometri all’ora di velocità massima. Garantendo anche uno spunto “giusto” per un’auto che non sarà mai da pista: da 0 a 100 chilometri orari in 9,6 secondi. Una delle cose che si apprezza di più sulla Mirai è proprio la risposta all’accelerazione: il propulsore a batteria alimentato dalle 34 celle a combustibile fa scattare molto rapidamente l’auto appena si affonda il pedale dell’acceleratore. Grazie poi al baricentro basso e al peso dei serbatoi per l’idrogeno, la vettura dà sempre la sensazione di stabilità massima. Facile come un pieno Mirai garantisce un’autonomia intorno ai 500 chilometri (se
non ci si fa prendere troppo la mano, anzi il piede) grazie a due serbatoi nei quali stivare circa 5 chilogrammi di idrogeno a una pressione di 700 bar. Il rifornimento è facile e soprattutto veloce. A patto di essere in una zona dove esistono già le infrastrutture, chiaramente. Il sistema è molto simile a un normale distributore di benzina e – al contrario delle elettriche – bastano davvero pochi minuti per fare un pieno in assoluta sicurezza. Il funzionamento del motore è semplice. L’idrogeno immesso nei serbatoi viaggia separatamente rispetto all’aria che entra dalle ventole anteriori fino alle fuel cell dove gli elementi si combinano con una reazione chimica e producono da un lato energia che fa andare la Mirai e dall’altro nessun’altra emissione che vapore acqueo. A proposito, nella ricca dotazione della Mirai c’è anche un tasto premendo il quale si può “scaricare” l’acqua in eccesso anche mentre si guida. H2O che esce cosi pulita che la si potrebbe anche bere, dicono. Futuro all’italiana A questo punto non rimane che attendere che l’Italia entri nel novero dei Paesi (attualmente sette in Europa più Giappone e Stati Uniti) nei quali la Mirai viene commercializzata. Per questo bisognerà attendere ancora il via libera al piano nazionale per la mobilità a idrogeno MH2IT – in piedi dal cop 21 di Parigi del 2015 – che dovrebbe finalmente consentire la realizzazione di una rete capillare su tutto il territorio italiano delle stazioni di ricarica a 700 bar. A oggi l’unica in funzione nel nostro Paese è a pochi minuti dalla stazione autostradale di Bolzano sud. Le previsioni del piano nazionale parlano di 1.000 esemplari in circolazione in Italia entro il 2020 per poi raggiungere le 27.000 unità 5 anni dopo e le 290.000 entro il 2030. Nel 2050 le auto a idrogeno dovrebbero essere 8 milioni e mezzo. Se davvero si riuscisse a raggiungere questo obiettivo potremmo dire che in Italia “il futuro è arrivato” o – come dicono in Giappone – “Mirai ga torai shimashita”. 1 Giugno 2018 ·
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INNOVAZIONE
Ambiente, Michigan vs California. GLORIA SMITH
ral Motors e Fiat Chrysler, stanno forgiando una competenza specifica nel settore dei combustibili “puliti”: Jeff Guilfoyle, vice presidente di Public Sector Consultants e principale autore dello studio, riferisce che dal 2011 al 2016 nello Stato sono stati registrati oltre 3.000 brevetti per tecnologie green. Tuttavia l’82% delle auto immatricolate in Michigan viaggia a benzina; il 6% va a gasolio e l’11% ha il motore flex, che usa indifferentemente benzina o bioetanolo. All’elettrico non resta che una quota dell’1%: 124.000 auto (incluse le ibride), secondo i dati del dipartimento dei Trasporti statale. In California, dove hanno sede Tesla e la società della guida autonoma Waymo, le auto elettriche sono 340.000, pari al 4,5% del totale immatricolato nel 2017. Lo stato sul Pacifico, attuale numero uno della mobilità “pulita” negli Usa, punta a 1,5 milioni di veicoli elettrici circolanti nel 2025, mentre la società di ricerche Greentech Media Research prevede che in tutti gli Usa per quell’anno ce ne saranno quasi 11,5 milioni. Il Michigan, capitale dell’auto americana, proverà a prendersi una fetta di mercato più grande.
INNOVAZIONE
■ Per lo stato americano del Michigan l’industria dei veicoli a impatto zero – auto ibride, full electric a batteria, elettriche a idrogeno – vale 18,8 miliardi di dollari e ha direttamente creato 29.000 posti di lavoro, che arrivano a 69.000 se si considera l’indotto. A dirlo è uno studio realizzato da Public Sector Consultants per conto di Clean Fuels Michigan, associazione di 30 imprese attive nei settori auto, ambiente e energia. Le ricadute benefiche per lo stato dove sorge la città di Detroit, capitale americana dell’auto, si moltiplicheranno nei prossimi dieci anni, man mano che salirà la percentuale di auto elettriche e a idrogeno sul totale circolante. Servono più stazioni di ricarica Ora è fondamentale continuare a sostenere la diffusione dei veicoli “green” con le politiche governative, scrivono i ricercatori. Molto è stato fatto, ma per mettere su strada più auto a impatto zero e far crescere ulteriormente il valore economico e i posti di lavoro dell’industria della mobilità amica dell’ambiente, bisogna potenziare l’infrastruttura di ricarica. Occorre anche, secondo gli esperti, pubblicizzare i benefici delle auto a batteria e a idrogeno. Uno studio della American Lung Association, organizzazione no-profit per la lotta contro le patologie polmonari, ha indicato che, se la flotta di veicoli pubblici (dalle auto delle municipalità agli autobus) diventerà per la maggior parte a emissioni zero nel 2050, i costi per l’assistenza sanitaria del Michigan legata a malattie respiratorie potrebbero ridursi dell’88%. “Le ricadute economiche attirano l’attenzione del mondo politico, ma i benefici sulla qualità dell’aria e la salute sono più importanti”, sottolinea lo studio. In gara con la California Il Michigan e la città di Detroit, sede dei tre big Ford, Gene4
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· 1 Giugno 2018
L’automobile a idrogeno va a rilento. PATRIZIA LICATA ■ Dal 2013 alla fine del 2017 sono state vendute nel mondo 6.364 auto a celle a combustibile. Nel 2017 le vendite sono raddoppiate rispetto a quelle di tutti gli anni precedenti. Una crescita racchiusa in piccoli numeri, ma che per diversi analisti è destinata a prendere slancio: l’auto a idrogeno avrà il suo ruolo nella mobilità a emissioni zero, sottolinea ResearchAndMarkets.com in uno studio pubblicato contenete i dati di vendita. Dominano California e Giappone Per compiere il salto servono i giusti incentivi – e non solo bonus per l’acquisto – ma di una capillare infrastruttura di rifornimento che dia fiducia agli automobilisti. Non a caso, più della metà di tutti i veicoli a idrogeno circolanti sono stati acquistati in California, seguita dal Giappone, la patria del costruttore Toyota che è pioniere dello sviluppo dei motori a idrogeno. I due paesi hanno in comune la presenza di un numero di stazioni di rifornimento sufficiente a rassicurare chi guida che non avrà difficoltà a “fare il pieno”. Negli altri macro-mercati (nord-est degli Stati Uniti, Corea del Sud, Cina, Europa) ResearchAndMarkets.com pensa che dovremo attendere il 2020 per vedere realizzata un’infrastruttura di ricarica adeguata. Almeno 10 costruttori in lizza C’è un altro elemento che potrà far decollare il mercato
2030, mentre le stazioni di rifornimento saliranno da circa 80 a fine 2016 a 160 nel 2021 e 320 nel 2025. Aggressiva anche la strategia della Corea del Sud, che prevede 90.000 veicoli a idrogeno sulle strade nel 2020 e 630.000 nel 2030, con il supporto di 520 stazioni di ricarica.
INNOVAZIONE
dell’auto a idrogeno: una maggiore offerta di prodotto. Oggi il 77% delle vendite fa capo a Toyota, ma l’azienda giapponese non è l’unica casa automobilistica che offre modelli fuel cell. Entro il 2021, saranno almeno 10 gli altri costruttori che inseriranno nella loro gamma veicoli a idrogeno: Lexus, Hyundai, Kia, Honda, Mercedes-Benz, Bmw, Tata Motors, Pininfarina (oggi di proprietà di Mahindra & Mahindra), Riversimple e RONN Motor Group. Bisogna investire Le cifre di ResearchAndMarkets.com sono in linea con quelle pubblicate a inizio anno da Information Trends, che ha indicato 6.475 veicoli a celle a combustibile venduti nel mondo fino a fino 2017, di cui oltre il 50% in California; il Giappone fa la parte del leone nel restante 50%. L’anno scorso le vendite sono raddoppiate, ma gli esperti avvertono: manca un’adeguata infrastruttura di rifornimento. Serviranno anche alleanze tra aziende private e amministrazioni pubbliche e più investimenti in ricerca e sviluppo per ottenere componenti e tecnologie in grado di ridurre i costi sia dell’infrastruttura che dei veicoli. Sul fronte dei costruttori, dopo la numero uno Toyota, sul podio oggi salgono Hyundai e Honda; il concorrente blasonato che può rosicchiare share di mercato è Mercedes-Benz (gruppo Daimler), ma nei prossimi anni arriveranno i modelli fuel cell di altre case automobilistiche e magari un nuovo entrante che potrebbe sparigliare le carte. I numeri previsti Un precedente report di Information Trends ha sostenuto che di qui al 2032 le vendite totali di veicoli fuel cell toccheranno i 20 milioni di unità, mentre le stazioni di rifornimento passeranno da 285 nel 2016 a 385 a fine 2017 a 1.306 nel 2022 e ai 4.808 nel 2032. Oggi le auto a idrogeno sono per lo più parte di flotte aziendali o di car sharing o rivolte al consumatore di fascia alta, ma, con più stazioni di rifornimento, dal 2020 potranno conquistare fasce più larghe di consumatori. La California contava circa 80 stazioni di rifornimento a fine 2017, ma ha in programma di realizzarne 197 entro la fine del 2022 e 1.208 nel 2032. In Europa la Germania ha un piano per costruire 400 stazioni di ricarica nei prossimi cinque anni. Gli Stati Uniti continueranno a dominare per volumi di vendita ma ma la regione dell’Asia Pacifico cresce a ritmi più veloci perché alcuni governi hanno avviato ambiziosi piani di incentivazione e espansione dell’infrastruttura. In Giappone il primo ministro Shinzo Abe è un convinto sostenitore della “hydrogen society” e punta a 40.000 auto a idrogeno in circolazione nel paese nel 2020, che dovranno balzare a 800.000 nel
La via giapponese all’idrogeno. GIOVANNI PASSI
■ Il Giappone guarda all’idrogeno con occhi diversi rispetto al resto del mondo. Toyota, insieme ad altri costruttori connazionali, segue la politica ufficiale di Tokyo e punta sulle auto con celle a combustibile. L’obiettivo del colosso giapponese – che sta anche ampliando i propri centri produttivi – è di venderne nel mondo almeno 30mila, contro le 3mila attualmente circolanti. La madre patria, da sola, dovrà assorbire 10mila esemplari l’anno. Gli Stati Uniti rimarranno uno tra i paesi di maggior riferimento: nel 2017 quasi tutti gli esemplari di Mirai (unico modello a idrogeno di Toyota attualmente disponibile) sono stati venduti in California. Da non sottovalutare poi l’impatto del trasporto pubblico. Almeno 100 autobus a idrogeno entreranno in funzione in occasione delle Olimpiadi di Tokyo del 2020. L’unione fa la forza A marzo 2018 è stata costituito un consorzio denominato JHyM (Japan H2 Mobility), composto dai principali produttori giapponesi, tra i quali Toyota, Honda e Nissan, uniti in collaborazione con il Ministero dei trasporti e le più grandi società di energia della nazione. Obiettivo è munire il paese di una rete di 160 stazioni di rifornimento entro il 2020. Il numero raddoppierà nei successivi 5 anni, permettendo una diffusione più capillare e quindi calmierando il prezzo di rifornimento del gas: “In questa 1 Giugno 2018 ·
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fase – ha detto il vicepresidente di Toyota, Shigeki Terashi – crediamo vi sia più spazio per la collaborazione che per la competizione.” Secondo il Japan Times l’obiettivo del consorzio è vendere complessivamente 800mila vetture a idrogeno entro il 2030. I perché della scelta Il ricorso a fonti rinnovabili, come l’idrogeno rappresenta una soluzione valida per il governo di Tokyo che vuole fronteggiare cosi la crisi del nucleare successiva alla tragedia di Fukushima del 2011 e anche la mancata integrazione della rete elettrica su scala nazionale tra nord e sud del Paese. Per questo è stata intrapresa una politica di diffusione dell’idrogeno per la produzione industriale. La strategia dei costruttori giapponesi non è casuale e mira ad accrescere il più possibile i consumi di idrogeno, raggiungendo una quantità tale da permettere lo sviluppo di economie di scala che ne consentirebbero la riduzione del prezzo.
SMART MOBILITY
quei servizi che prevedono la copertura di lunghe distanze nel corso della giornata, con attraversamento delle zone centrali più inquinate. Lo scopo è chiaramente quello di abbassare il livello delle emissioni ma anche dimostrare che le vetture a idrogeno sono perfettamente compatibili con la vita quotidiana in una grande città e favorirne in questo modo la diffusione. Debutto sul Tamigi La prima a ricevere le auto è stata Londra. 25 Toyota Mirai sono state consegnate al servizio di noleggio con conducente Green Tomato Cars, che opera soprattutto come collegamento tra la zona centrale della capitale inglese e i suoi numerosi aeroporti. Altre 25 berline a idrogeno saranno consegnate in settembre. Il primo viaggio londinese di una Toyota del progetto Zefer è stato realizzato dal ministro dei trasporti Chris Grayling, accompagnato dai vertici britannici di Toyota e dal co-fondatore di Green Tomato Cars, Johnny Goldstone. Il ministro si è detto felice di essere stato il primo passeggero del nuovo servizio e ha confermato l’impegno del governo per la de-carbonizzazione dei trasporti nelle grandi città inglesi.
Grandi capitali, grandi flotte. Londra, polizia a idrogeno. INNOVAZIONE
COLIN FRISELL
PAOLO BORGOGNONE
■ LONDRA – Sessanta auto a idrogeno per ognuna delle grandi capitali europee, Londra, Parigi, Bruxelles, da utilizzare in una flotta di vetture destinate quasi tutte al noleggio con conducente o al servizio taxi. Questo in breve il progetto Zefer – Zero Emission Fleet for European Roll-Out – finanziato in partnership tra aziende che si occupano di mobilità, amministrazioni pubbliche delle capitali interessate e fornitori di energia, in collaborazione con il consorzio Fch-Ju – Fuels Cells and Hydrogen Joint Undertaking – con uno stanziamento iniziale di 5 milioni di euro. In ognuna delle tre metropoli le auto saranno utilizzate per 6
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· 1 Giugno 2018
■ Il Metropolitan Police Service, la forza di polizia che si occupa della tutela dell’ordine nella zona della Grande Londra (32 quartieri, con eccezione della City), ha acquistato 11 Toyota Mirai che verranno utilizzate sia come vetture di pattuglia che come auto “civetta” nelle strade londinesi. Il dipartimento dispone così della più grande flotta di auto
a idrogeno del mondo in dotazione a questo genere di pubblico servizio. 6 stazioni Le auto potranno rifornirsi nelle 6 stazioni a idrogeno attualmente in funzione a Londra all’interno della M40, la superstrada che circonda la capitale inglese. L’acquisto e l’uso delle Mirai servirà a ridurre l’impatto ambientale delle auto di pattuglia del Metropolitan Police Service. A questo proposito il Comandante del Met, Neil Jerome ha confermato: “L’accordo con Toyota rientra negli sforzi che abbiamo fatto sin dal 2015, a fianco del sindaco e della amministrazione cittadina, per ridurre l’inquinamento in città. Entro il 2020 contiamo di disporre di 550 mezzi a basse emissioni ”. Negli ultimi mesi gli agenti del Metropolitan Police Service hanno sperimentato sette scooter Suzuki Burgman alimentati a idrogeno, utilizzandoli come mezzi di pattuglia in città.
INNOVAZIONE
Idrogeno, la Bulgaria accelera.
Sulle rive del Mar Nero Attualmente non ci sono stazioni di rifornimento sul territorio della repubblica bulgara ma Popov ha annunciato che la prima verrà aperta nella città costiera di Bourgas, lungo le rive del Mar Nero, uno dei principali luoghi di interesse turistico della Bulgaria e sede di un importante aeroporto internazionale. In occasione dell’Hydrogen Summit 2018, Popov ha anche confermato che la Bulgaria ha intenzione di convertire una parte della propria flotta navale turistica a idrogeno e che i lavori per dotare le prime navi di motori a celle a combustibile sono già iniziati.
INNOVAZIONE
Idrogeno, le pile sicure del domani. LUCA GAIETTA
REDAZIONE
■ Anche la Bulgaria accelera sull’idrogeno. Il governo di Sofia ha formalizzato che entro il 2025 il Paese si doterà di 10 stazioni di rifornimento per le auto a celle a combustibile. La notizia è stata data da Angel Popov, ministro dei trasporti bulgaro nel corso dell’Hydrogen Summit 2018. L’evento è organizzato presso il Palazzo Nazionale della Cultura dal consorzio Fch-Ju – Fuels Cells and Hydrogen Joint Undertaking – una associazione pan-europea mista pubblica e privata che si occupa dello sviluppo dell’uso di questa alimentazione.
■ Una pila facile da trasportare e maneggiare e che trasforma l’acido formico in idrogeno a basse temperature senza grande dispendio di energia. Ad inventarla sono stati i tecnici della società svizzera GRT group, in collaborazione con un team del Politecnico di Losanna guidato dal professor Gàbor Laurenczy. Una potenza di 800 Watt Destinata a essere applicata sia in ambito domestico che industriale, la pila della GRT group si compone di una unità reformer di idrogeno (HYFORM) e di un accumulatore a combustibile con membrana a scambio protonico (PEMFC). Produce 7000 kilowattora per anno con potenza nominale pari a 800 Watt (l’equivalente di circa 200 smartphone ricaricati in simultanea) e vanta una efficienza del 45%. 1 Giugno 2018 ·
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Pronta per le auto In un futuro non è escluso che questa pila possa essere impiegata anche nelle automobili per essere in grado di produrre idrogeno strada facendo ma, soprattutto, per la capacità di ridurre al minimo i rischi di esplosione. Cosa, quest’ultima che fino ad oggi ha sollevato non pochi dubbi sull’impiego dell’idrogeno nelle auto, nonostante gli standard di sicurezza delle vetture fuel-cell siano ormai molto elevati come dimostrano i test in materia.
AUTO E MOTO
Citroën C5 Aircross, a passo di suv. FRANCESCO PATERNÒ
al lancio: una motorizzazione ibrida plug-in da 300 cavalli, che arriverà nel 2020. Subito motori benzina e diesel con potenza dai 130 ai 180 cavalli e cambio automatico a 8 rapporti, mentre all’interno dell’abitacolo si notano tunnel alto e sulla plancia display digitale da 12,3 pollici, più un Touch Pad da 8. Per l’assistenza alla guida ci sono 20 sistemi diversi di ultima generazione. La modularità interna La modularità interna sottolineata da Linda Jackson riguarda in particolare i tre sedili posteriori singoli e scorrevoli longitudinalmente, che permettono un uso dello spazio diverso quando si vuole privilegiare la capacità di carico o l’accoglienza di passeggeri. Bagagliaio notevole, che parte da 580 litri di capienza viaggiando nella configurazione base. Strategia dell’elettrificazione La versione ibrida plug-in della C5 Aircross nel 2020 sarà affiancata da un inedito modello elettrico, ha detto ancora Linda Jackson, “entro il 2023 elettrificheremo l’80% della nostra produzione, entro il 2025 il 100%”. L’offensiva di Citroën si basa sui suv, dopo il successo del più piccolo C3 Aircross, senza escludere in futuro l’arrivo di una modello ancora più piccolo. In Cina, secondo mercato del marchio, la vendita di suv funziona per tutti e per Citroën in particolare: a fronte di un +11% di immatricolazioni di suv nel primo trimestre dell’anno, il marchio è cresciuto addirittura del 48% grazie proprio alla spinta della C5 Aircross. La progressiva elettrificazione dei modelli francesi aiuterà: l’obiettivo dichiarato è di vendere entro il 2020 – dal 26% attuale – il 45% della produzione Citroën fuori Europa con Cina in primo piano.
AUTO E MOTO
■ PARIGI – Citroën ha presentato il suo nuovo suv di taglia media C5 Aircross, in arrivo in Europa entro la fine del 2018 dopo il debutto l’anno scorso al Salone di Shanghai e la commercializzazione in Cina dal settembre scorso. Punto di forza, ha detto il capo del marchio Linda Jackson, sono design e modularità interna, insieme a connettività, sistemi di assistenza alla guida e comfort, quest’ultimo un valore proprio nella storia del marchio. Piattaforma di gruppo La C5 Aircross ha una lunghezza di 4,50 metri e nasce nella fabbrica di Rennes in Francia sulla stessa piattaforma del gruppo Psa su cui sono stati sviluppati i suv Peugeot 3008 e 5008 oltre che la Opel Grandland X. Già visto sulla nuova C4 è il sistema di sospensioni Progressive Hydraulic Cushions, che integrano degli smorzatori idraulici progressivi per migliorare il comfort di guida. Ibrido plug-in nel 2020 La novità assoluta per il marchio non è invece disponibile 8
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· 1 Giugno 2018
Nissan, una Leaf senza tetto. LUCA GAIETTA ■ Nissan ha presentato una inedita versione decapottabile della Leaf. Costruita in un unico esemplare, si tratta di una one-off realizzata per celebrare le 100mila unità prodotte della berlina giapponese a zero emissioni, dal lancio avvenuto nel 2010, che ne fanno in assoluto l’auto elettrica più venduta nel mondo. Una Leaf a 3 porte Basata sulla nuova generazione della Leaf, portata nell’autonomia fino a 378 chilometri e dotata di tecnologie uniche come e-Pedal che frena la vettura rilasciando l’acceleratore, la singolare cabrio è destinata a rimanere per adesso un
essere a batteria e non un adattamento elettrico di un modello preesistente. Il costruttore ha già iniziato i test su strada del prototipo da aprile e gli ingegneri hanno ancora 16 mesi di tempo per completare lo sviluppo dell’auto. La “fase di avviamento intensivo”, secondo il gruppo inizierà a settembre, mentre l’esordio sul mercato è previsto in Gran Bretagna all’inizio del 2020. Il prezzo, secondo il nuovo ceo Herbert Diess, “sarà paragonabile a quello dei modelli diesel”.
esercizio di stile impiegato a scopi pubblicitari. Rispetto alla versione “chiusa” da cui deriva è stata privata sulla carrozzeria del montante centrale ed anche delle portiere posteriori facendone di fatto anche la prima Leaf a tre porte. Per adesso Nissan ha svelato soltanto alcune immagini esterne della vettura e non si conoscono i particolari dell’abitacolo. Da quel poco che si può vedere, però, i sedili posteriori sono stati modificati nella forma e si estendono in altezza a coprire, probabilmente, il vano dove si ritrae elettricamente la capote.
AUTO E MOTO
Le caratteristiche L’ID misura 4,1 metri di lunghezza, 1,8 di larghezza e 1,53 di altezza. La versione finale può raggiungere la velocità massima di 160 chilometri orari e impiegare meno di 8 secondi per accelerare da 0 a 100 chilometri all’ora. L’energia utilizzata per azionare il motore elettrico viene ricavata da un pacco batteria agli ioni di litio situato sotto l’auto, all’interno della piattaforma Meb (Modular Electric Platform) per migliorare la distribuzione del peso. Inoltre gli accumulatori possono essere ricaricati dell’80% in 30 minuti. La nuova berlina avrà tre o cinque porte e un motore elettrico capace di erogare una potenza pari a 170 cavalli con un’autonomia tra i 400 e i 600 chilometri. Il concept svela anche una panoramica delle funzioni di guida completamente autonoma che l’azienda sta sviluppando e che intende introdurre dal 2025 su tutti i suoi modelli.
BUSINESS
Volkswagen ID in vendita nel 2020.
Ford, dalla Model T all’elettrica.
SERGIO BENVENUTI
CARLO CIMINI
■ La Volkswagen ha svelato il design finale della ID hatchback – berlina a due volumi, dotata di portellone posteriore – fedele al concept visto per la prima volta nel 2016, protagonista al Salone di Parigi. È la prima auto di Wolfsburg studiata per
■ La Ford torna a casa, a Detroit. Il costruttore Usa ha annunciato il trasferimento della sua squadra di ingegneri nella sede storica The Factory al 1907 Michigan Avenue, nel quartiere di Corktown. Si tratta del Ford Team Edison, 1 Giugno 2018 ·
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composta da oltre 200 dipendenti, specializzata nello sviluppo della guida autonoma e dell’elettrico. Si apre così un nuovo capitolo nella storia del marchio che, più di tutti gli altri, ha incarnato il sogno americano a quattro ruote. Fabbrica dolce fabbrica L’edificio di Corktown è grande 14.000 metri quadrati: recentemente ristrutturato, è attivo e perfettamente funzionante. Ma soprattutto ha 110 anni di storia alle spalle. È proprio qui che il bisnonno dell’attuale presidente Bill Ford, Henry, ha aperto la strada della moderna industrializzazione, iniziando l’epoca della catena di montaggio nell’industria automobilistica. La storia continua A Yorktown a partire dal 1903 fu prodotta la Model A, ma la vera svolta arrivò nel 1908 con la Model T: una delle vetture più importanti della storia dell’industria automobilistica, perché la prima prodotta in grande serie. Per assemblarla da zero erano sufficienti soltanto 90 minuti. In 14 anni per vennero prodotti 15 milioni di esemplari. Tra le gente Il ritorno alle origini di Ford rientra in un piano di investimento da oltre 11 miliardi di dollari: il costruttore prevede di realizzare 40 veicoli elettrificati entro il 2022 (16 di questi totalmente a batteria). Inoltre l’Ovale Blu non distoglie l’attenzione dal processo della tecnologia driverless, grazie alla collaborazione con la start up Argo AI. Il presidente esecutivo della Casa, Bill Ford, in un comunicato ha manifestato tutta la sua soddisfazione: “Stiamo piantando un tassello speciale nel futuro della nostra azienda, nel cuore del quartieri storici di Detroit, tra la nostra gente.”
AUTO E MOTO
Porsche, la 911 diventa ibrida.
Nel 2019 l’elettrica Mission E Le 911 ibride rientrano nel programma di elettrificazione della Porsche dove è previsto nel 2019 anche il lancio della berlina elettrica Mission E, oltre alla partecipazione della Casa al Campionato di Formula E. Entro il 2025 il costruttore tedesco conta di raccogliere circa il 25% delle vendite globali con modelli EV, un 25% con modelli ibridi e il restante 50% con vetture spinte da motorizzazioni termiche.
SMART MOBILITY
Volkswagen, un sito per la mobilità futura. LUCA GAIETTA
PAOLO ODINZOV ■ La nuova Porsche 911, il cui debutto è previsto il prossimo anno, verrà venduta per la prima volta anche in due versioni ibride in alternativa alla Carrera e alla top di gamma 911 Turbo. A riportare la notizia è stata la rivista inglese Auto Express, secondo la quale le 911 ibride utilizzeranno un sistema derivato da quello che equipaggia la nuova Cayenne E-Hybrid. Ovvero un gruppo propulsore che prevede l’accoppiata tra un tremila V6 da 462 cavalli e un motore elettrico da 100 kilowatt, in grado di garantire consumi ridotti al minimo e delle emissioni limitate fino a 80 grammi di CO2 per chilometro. 10
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· 1 Giugno 2018
■ Volkswagen apre in Italia il sito internet MoDo, che si pone come una sorta di vetrina per anticipare i connotati della mobilità del domani secondo il costruttore tedesco.
Il sito si compone di cinque capitoli principali evidenziati da un diverso colore, ovvero Vision, Mobotica, QLife, Lab e Humans, ognuno dei quali strutturato in modo da contenere notizie e innovazioni tecnologiche del relativo settore. Vision Raccoglie le informazioni relative agli scenari che la Volkswagen immagina per il futuro e il suo ruolo all’interno di essi, delineate nel piano Together Strategy 2025 che ha come obiettivo la crescita sostenibile del gruppo con l’impegno di arrivare a proporre per il 2025 almeno 50 modelli 100% elettrici a batterie, e 30 plug-in. Mobotica Quì sono evidenziate le innovazioni della Volkswagen come Ionity, la rete di ricarica rapida che punta a snodarsi su tutta Europa, oltre ai diversi sistemi messi a punto per facilitare il parcheggio e la presentazione di CarLa: primo robot mobile per la ricarica dell’auto. Q-Life Parla dell’impegno Volkswagen per arrivare a una mobilità intelligente in grado di migliorare la qualità della vita. Con un occhio anche ai motori diesel, destinati secondo il costruttore ad avere un ruolo di primo piano anche nel futuro. Lab Quarto contenitore del sito, illustra le attività di ricerca e dei centri d’eccellenza del gruppo, oltre a raccogliere diverse informazioni sul nuovo ciclo di omologazione e come con esso sono destinate a mutare le automobili. All’interno si parla anche delle tecnologie come i motori mild hybrid a 48 volt e le moderne unità a metano, mentre uno specifico focus tratta del design delle automobili destinato a mutare con le nuove esigenze della mobilità. Humans È una “scatola” virtuale dedicata all’uomo e alla risorse umane. Sottolinea come tutta l’attività del gruppo abbia al centro l’uomo e siano costantemente chiamate in Volkswagen persone di talento per contribuire a sviluppare la mobilità del domani partecipando a squadre di lavoro dove il confronto tra i membri viene considerato la base per raggiungere risultati di eccellenza.
BUSINESS
Dazi auto, Trump fa sul serio. PATRIZIA LICATA
■ Dazi fino al 25% su auto e componenti importati: la proposta messa sul tavolo dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump non trova d’accordo (quasi) nessuno. Perché una tassa così pesante? Questioni di sicurezza nazionale, sostiene Trump, che fa leva sulla stessa Sezione 232 della legge sui commerci Trade Expansion Act usata per imporre i dazi su alluminio e acciaio e che permette alla Casa Bianca di aprire un’indagine per capire se l’importazione di un bene minaccia la sicurezza nazionale. Bocciatura dei costruttori I costruttori d’auto hanno già la risposta: no. La Alliance of Automobile Manufacturers (lobby di cui fanno parte anche i big di Detroit Ford, General Motors e Fca) ha scritto in una nota che “le importazioni dell’industria automobilistica non pongono alcun rischio di sicurezza; anzi, le barriere al libero scambio vanno eliminate”. Timida eccezione la United Auto Workers, il sindacato dei lavoratori dell’industria auto, che si è detto soddisfatto che la questione dell’import sia finalmente presa in considerazione, pur se “non al cento per cento d’accordo” con la proposta di Trump. La Association of Global Automakers, che rappresenta i costruttori esteri attivi negli Usa, pensa invece che i dazi non otterranno altro risultato che far salire i prezzi all’acquisto per i consumatori americani. “Caduti in una buca” Ma più che di sicurezza nazionale, Trump dovrebbe parlare di ruolo degli Stati Uniti nei commerci globali. Gli Usa hanno dazi di appena il 2,5% sulle importazioni di auto e questo crea uno squilibrio sfruttato da altri paesi che impongono una tassa più alta all’ingresso di veicoli provenienti dall’America (l’Unione europea ha un dazio del 10%): “Siamo stati stupidi a cascarci finora”, ha dichiarato il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, parlando al canale Cnbc. C’è di mezzo il Nafta Trump vuole anche un più forte potere negoziale con Canada e Messico: gli Stati Uniti stanno ridefinendo i termini dell’alleanza commerciale Nafta, che lega i tre partner in una zona di libero scambio esente da molte delle tariffe cui sono soggetti altri paesi. Canada e Messico rappresentano l’87% delle importazioni dei tre big di Detroit, ma a Trump non sta bene che Gm, Ford e Fiat Chrysler vadano a costruire le macchine nelle fabbriche del Messico o comprino la componentistica in Canada: devono costruire di più negli 1 Giugno 2018 ·
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Usa, dando lavoro agli americani. I super dazi alle importazioni auto varranno anche per i vicini di casa nordamericani? Non è detto, e l’indagine aperta da Trump potrebbe durare mesi, ma il presidente è già in pressing per ottenere clausole del Nafta più favorevoli agli Usa.
2017, una cifra che fa impallidire il valore delle importazioni di acciaio (29 miliardi di dollari). Gli alleati non staranno certo a guardare, ha osservato sul Detroit News Charlie Chesbrough, economista e direttore senior di Cox Automotive: “Eventuali dazi scateneranno azioni di rappresaglia”.
L’auto vale più dell’acciaio Attenzione, però, Trump rischia una guerra commerciale su ampia scala, ha messo in guardia il capo della Us Chamber of Commerce, Thomas Donohue. Unione europea, Giappone e Corea del Sud, insieme a Canada e Messico, coprono la quasi totalità delle importazioni americane di componenti auto; l’import Usa del settore vale più di 324 miliardi di dollari nel
Chi paga davvero Chesbrough ricorda anche che le fabbriche dei costruttori stranieri negli Usa sono concentrate in stati come Alabama, Georgia, Indiana e Ohio, dove Trump in campagna elettorale ha attratto ampi consensi promettendo protezione del lavoro e della prosperità dell’America. Se qualche fabbrica chiude, sarà Trump a pagare il dazio.
BUSINESS
Toyota vale di più, Mercedes scavalca Bmw. CARLO CIMINI
■ Secondo lo studio Brand Top 100 Most Valuable Global Brands pubblicato dall’agenzia di ricerca Kantar Millward Brown, Toyota conferma il primato nella classifica dei marchi automobilistici con più valore a livello globale per il sesto anno consecutivo. La novità viene dalla Mercedes che guadagna il secondo posto, superando per la prima volta Bmw. Fra i migliori Tesla (ottava) che registra un aumento del 60% e mette nel mirino Audi. Numero uno per 11 anni La Toyota resta numero uno grazie a crescita costante della domanda dei suoi modelli sia in Europa che negli Stati Uniti. Un dato che ha fatto impennare nuovamente (+5%) 12
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il valore del brand pari ora a quasi 30 miliardi di dollari. Il costruttore giapponese è stato il numero uno per 11 dei 13 anni in cui è stato condotto lo studio. Solo nel 2010 e nel 2012 è finito al secondo posto. Mercedes invece deve la propria crescita del 9% (25,7 miliardi di dollari) ai mercati della Cina, del Brasile e della Russia. Terza Bmw (+4%) e a seguire Ford (l’unica col segno negativo, -2%), Honda (+4%) e Nissan (+1%). Volkswagen rientra nella top ten, dopo due anni di assenza a causa dello scandalo dieselgate, e si assesta al decimo posto con un valore di circa 6 miliardi di dollari, rispetto ai 5,1 dell’anno scorso. Tra la Casa di Wolfsburg e la già citata Tesla, si inserisce Maruti Suzuki (nona posizione) con 6,38 miliardi di dollari.
SERVIZIO
Colpo di sonno, 12 milioni a rischio. MARINA FANARA
■ Si chiama “Dormi meglio, Guida sveglio” la nuova campagna di sensibilizzazione lanciata da Automobile Club d’Italia e Fisar (Fondazione italiana salute, ambiente e respiro) contro i pericolosi colpi di sonno alla guida. Un fenomeno riconducibile a malattie “conclamate” come l’Osas (Apnee istruttive nel sonno), alla quale, secondo gli specialisti in materia, sono esposti circa 12 milioni di italiani di età compresa tra i 40 e gli 85 anni, ma solo il 20% di loro ne è consapevole. Una norma spesso trascurata A conferma dei rischi per la sicurezza stradale legati a questa sindrome, nel 2016, in recepimento di una direttiva comunitaria in materia, è entrato in vigore un provvedimento (decreto ministero della Salute del 3 febbraio 2016) secondo il quale, tra i requisiti psico-fisici per il rilascio o rinnovo della patente, va accertato anche se l’automobilista soffre di sonnolenza diurna riconducibile ad apnee notturne.La norma, finora, è stata pressoché disattesa: “La riforma del Codice della Strada dovrebbe prevedere norme più efficaci per aggredire questo problema. Nel frattempo, è assolutamente necessario sensibilizzare l’opinione pubblica ed è l’obiettivo della nostra campagna”, spiega Angelo Sticchi Damiani, presidente ACI. Il contributo ACI Il programma prevede la diffusione, presso le oltre 1.500 delegazioni ACI sparse sul territorio nazionale, di un semplice questionario per valutare il rischio Osas, i cui sintomi sono molti diffusi e sottovalutati: russare ed essere sovrappeso, per esempio, sono segnali che potrebbero far sospettare al medico la presenza di apnee notturne. In caso di risposte positive al questionario, sempre presso le sedi ACI, viene proposto
all’automobilista di effettuare un esame specialistico, in convenzione, con gli specialisti della Fisar. “Le apnee notturne sono un problema di cui bisogna parlare di più”, ha ribadito il presidente Sticchi Damiani, “ma, stando ai medici, se ci si sottopone ad adeguata terapia, non costituiscono un ostacolo per la guida. Sono convinto che, quando si parla di sicurezza stradale, oltre a mettere in atto azioni repressive contro i comportamenti più pericolosi, occorra fare molta prevenzione”. Sui colpi di sonno “serve un’analisi approfondita”, anche per il prefetto Roberto Sgalla, direttore delle Specialità della Polizia di Stato (tra cui la Polizia Stradale). “Per aggredire efficacemente un fenomeno”, sostiene il prefetto, “bisogna prima conoscerlo bene. Noi ancora non ci siamo, per questo è difficile dare una stima precisa di quanti incidenti siano riconducibili a questo fattore come causa o concausa”. Una società che non dorme “Le apnee notturne sono un problema di salute pubblica”, aggiunge Sergio Garbarino, specialista in disturbi del sonno e sonnolenza del Dipartimento Neuroscienze dell’Università di Genova, “perché concorrono ad aumentare il rischio delle patologie croniche del nostro tempo, come malattie cardio e cerebrovascolari tra cui ictus, ipertensione, infarto, colesterolemia e diabete”. Un altro aspetto da non trascurare, però, è che il colpo di sonno alla guida non è sempre dovuto alle apnee notturne, ma anche a errati stili di vita, tipici della nostra epoca, a cui siamo tutti sempre più esposti: “In una società connessa, 24 ore su 24”, conclude Garbarino, “tendiamo a sacrificare il sonno per fare altre cose e durante il giorno accumuliamo stanchezza e sonnolenza, a scapito delle normali attività quotidiane che richiedono la giusta concentrazione, tra cui, appunto, guidare”. 1 Giugno 2018 ·
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LIFESTYLE
John Wayne: la Grand Safari del Duca. GIUSEPPE CESARO
■ “Oscar ed io abbiamo qualcosa in comune: Oscar è arrivato per la prima volta sulla scena di Hollywood nel 1928. Anch’io. Siamo entrambi un po’ segnati dalle intemperie, ma siamo qui e abbiamo intenzione di rimanere in giro ancora molto a lungo”. Los Angeles, lunedì 9 aprile 1979. Nel Dorothy Chandler Pavilion si celebra la cinquantunesima “notte degli Oscar”. La grande sala – 3.156 posti, distribuiti su quattro livelli – non smette di risuonare dell’eco di un applauso che sembra non voler finire. Tutto il mondo del cinema è in piedi. L’uomo che guadagna il centro del palco, scendendo la scalinata d’onore con passo svelto e sicuro, è alto, decisamente più magro di quanto l’America e il mondo non si siano ormai abituati a vederlo, ha lo sguardo segnato dal dolore, il sorriso tirato, la voce rotta e trattiene a stento la commozione. “Grazie. Grazie. Grazie, signore e signori”, dice, invitando tutti a sedere, con un amichevole gesto delle mani. “Un applauso come questo è davvero l’unica medicina di cui una persona abbia veramente bisogno”. “Il grande C” L’uomo ha quasi 72 anni (è nato a Winterset – Iowa, Usa – il 26 maggio 1907: 111 anni fa oggi) e ha girato 215 film in 50 anni di una carriera senza eguali. È un’autentica leggenda del cinema: risponde al nome di Marion Michael Morrison, 14
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anche se tutti lo conoscono come John Wayne e lo chiamano “Duca”. Da quindici anni combatte contro il cancro - “Il grande C”, come lo chiama lui. Quella sarà la sua ultima apparizione in pubblico. Ha sconfitto quello ai polmoni, che lo ha colpito nel ’64, liberandosi di un polmone e quattro costole (“Quando me l’hanno diagnosticato – ha dichiarato – mi sono seduto, cercando di essere John Wayne”), ma non riuscirà ad avere la meglio su quello allo stomaco. Morirà due mesi dopo la cinquantunesima notte degli Oscar, esprimendo il desiderio che la sua famiglia e i suoi innumerevoli fan ed estimatori utilizzino il suo nome e la sua immagine per sostenere la ricerca contro il cancro. Così sarà. Nel 1985, per onorare la memoria di questo gigante dello schermo e del fisico (1 metro e 93 centimetri per un uomo di più di un secolo fa è una misura davvero imponente), la sua famiglia darà vita alla John Wayne Cancer Foundation (JWCF), per dare coraggio, forza e grinta – parole che l’attore amava e incarnava – a quanti lottano contro “Il grande C”. La “Maledizione del Conquistatore” Secondo alcune fonti, il tumore ai polmoni potrebbe essere stato il drammatico lascito delle riprese del film “Il Conquistatore” (1955), nel quale Wayne interpretava la parte di Genghis Khan. Il film, in effetti, era stato girato in una località dello Utah molto vicina (e sottovento) rispet-
to a un’area che, un paio d’anni prima, era stata teatro di esperimenti nucleari. Difficile, ovviamente, stabilire una relazione diretta tra tali esperimenti e il tumore di Wayne, ma è un fatto che, dei 220 componenti della troupe, ben 91 abbiano contratto una qualche forma di tumore e addirittura 46 ne siano morti. Tra questi – oltre allo stesso Duca – tutti i protagonisti principali della pellicola: Dick Powell, Susan Hayward, Agnes Moorehead, Pedro Armendáriz e John Hoyt. Coincidenze? Forse. Non, però, secondo alcuni esperti, per i quali, in presenza di percentuali così elevate, il legame tra malattia ed esposizione alle radiazioni avrebbe potuto essere sostenuto in tribunale. Non mi fido di chi non beve Wayne, però, la pensa diversamente. Per lui non esiste alcuna “Maledizione del Conquistatore”. Il cancro ai polmoni è la conseguenza delle sigarette che fuma: sei pacchetti al giorno! Quanto a quello allo stomaco, invece, è probabile abbia avuto il suo peso la dieta tutt’altro che salutista che segue: quantità esagerate di cibo (carne rossa, soprattutto), accompagnate da fiumi di alcol. “Adorava bere”, ha dichiarato Michael, uno dei suoi sette figli. “Una volta l’ho visto vuotare un’intera bottiglia di tequila prima di mangiare e un’intera bottiglia di brandy dopo mangiato”. “Non mi fido – replicava lui – di un uomo che non beve”. Da Morrison a Wayne Nato da famiglia umile e religiosa (“Un uomo deve avere un codice e un credo per il quale vivere”, ripeteva spesso), il Duca (il soprannome gli era stato affibbiato da alcuni vigili del fuoco che avevano deciso di dare al ragazzino lo stesso nome del suo amico più fedele: il suo amato Airedale Terrier) era un avido lettore fin dall’infanzia (aveva un debole per Tolkien, citava Shakespeare e Dickens e leggeva quattro quotidiani al giorno) e diventerà un appassionato giocatore di bridge e scacchi (arte nella quale barava, muovendo due pezzi alla volta, protetto alla vista altrui delle sue mani extra-large). Prima del successo e per sopravvivere alla Grande Depressione, farà ogni genere di lavoro: camionista, raccoglitore di frutta, trasportatore di ghiaccio. Alla fine degli anni Venti, diventerà una sorta di tuttofare negli studi della Fox Film Corporation, all’interno di una squadra addetta a spostare mobili, materiali e attrezzature. Sarà lì che John Ford – uno dei più grandi registi di Hollywood – noterà il giovane Morrison, proponendolo per alcune piccole parti. La cosa funzionerà, i dirigenti degli Studios gli cambieranno il nome et voilà la leggenda di John Wayne è, finalmente, pronta a decollare. Eroe inquieto Lontano dalle luci dei riflettori, però, il Duca rimarrà sempre un uomo profondamente diverso dall’immagine che ne davano i film. “Il tipo che vedete sullo schermo – diceva – non sono davvero io. Io sono Duke Morrison e non sono mai stato e non sarò mai un personaggio cinematografico come John Wayne. Lo conosco bene: sono uno dei suoi allievi più vicini. Devo esserlo: mi dà da vivere.” Parliamo di un uomo inquieto, malinconico, tormentato da fallimenti economici (affari sbagliati lo costringeranno a lavorare fino alla fine, perché non si sentirà mai finanziariamente sicuro) e affettivi: tre matrimoni falliti, costellati da continui tradimenti (durerà vent’anni la sua storia go-no-go con Marlene Dietrich) e cattivi rapporti personali con i figli.
Un uomo pieno di sensi di colpa per aver evitato il servizio militare durante la Seconda Guerra Mondiale (forse per problemi di salute, forse a causa dei quattro figli) mentre stelle come Henry Fonda e l’amico Ronald Reagan si erano arruolate, anche se è probabile che Wayne abbia fatto di più per lo sforzo bellico Usa con film che hanno affascinato generazioni di soldati. Un uomo costretto a nascondere la sua sensibilità e le sue inclinazioni artistiche, perennemente accompagnato dal senso di inadeguatezza e dal bisogno di conquistare quel rispetto che credeva di meritare. Persino sua madre – fredda e ipercritica – rimarrà sempre insensibile al successo del figlio, ricambiando la sua continua generosità con indifferenza, se non addirittura disprezzo. Da socialista a maccartista Entrato all’università grazie a una borsa di studio sportiva, Wayne aveva inizialmente maturato convinzioni socialiste. Poi – dopo aver studiato gli esiti, a suo avviso nefasti, della Rivoluzione d’Ottobre – si era spostato su posizioni sempre più conservatrici e anti-comuniste. Nel 1944 fonderà addirittura la “Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals” (“Alleanza cinematografica per la conservazione degli ideali americani”), che verrà accusata di aver fornito i nomi di sospetti comunisti dell’industria cinematografica alla famigerata “Commissione per la repressione delle attività anti americane” presieduta dal senatore McCarthy. Un paio di anni fa, alcune prese di posizione su neri (“Credo nella supremazia bianca finché i neri non saranno educati alla responsabilità. Non credo sia il caso di dare autorità e posizioni di leadership a persone irresponsabili.”) e nativi americani (“Quando [noi bianchi] siamo arrivati in America, c’erano poche migliaia di Indiani su milioni di miglia [di territorio], e non credo che abbiamo fatto male a togliere questo grande paese a quella gente. C’era davvero un sacco di gente che aveva bisogno di nuova terra, e gli Indiani si comportavano da egoisti a volerla tenere tutta per loro.”) gli costeranno il no del Parlamento della California all’idea di trasformare il 26 maggio (giorno del suo compleanno) nel “John Wayne Day”: un’intera giornata dedicata alla celebrazione di una delle più grandi leggende del cinema americano. Stalin lo voleva morto Il suo patriottismo sciovinista diverrà la rovina del Duca. Rovina economica (a partire dal costosissimo flop di “La battaglia di Alamo”, 1960) e di immagine: il suo “Berretti Verdi” (1968), infatti, gli alienerà le simpatie dell’opinione pubblica americana, ormai contraria alla guerra nel Vietnam. Quello che non tutti sanno, però, è che le sue idee anticomuniste gli sono quasi costate la vita. Pare, infatti, che Joseph Stalin – che seguiva il cinema con particolare attenzione – indignato per le posizioni anticomuniste di Wayne, avesse addirittura incaricato il Kgb di eliminarlo. Per fortuna del Duca e dei suoi fan, l’Fbi avrebbe intercettato e neutralizzato il complotto. Sembra, inoltre, che nel 1958, quando Wayne incontrò Nikita Krusciov – il successore di Stalin – questi si sia addirittura scusato con lui per “l’incidente”: “È stata una decisione di Stalin nei suoi ultimi anni di follia – avrebbe detto Krusciov – ho annullato l’ordine”. Pontiac Grand Safari 1975 Ma che tipo di auto amava un uomo così? In fatto di quattro ruote, il Duca era “Un uomo tranquillo”, come recita il titolo 1 Giugno 2018 ·
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di uno dei suoi film più belli (1952). Né lusso né super car: per lui contavano soprattutto solidità, affidabilità e spazio. Tutti a stelle e strisce, ovviamente. Solidità, affidabilità e spazio per lui, la famiglia, gli amici e, naturalmente, il suo cappello da cowboy, che non voleva essere costretto a togliersi per entrare in macchina. Per questa ragione, Wayne fece rialzare il tetto della sua Pontiac Grand Safari 1975, la terza (e ultima) station wagon personalizzata per lui dal grande George Barris – il “re dei customizzatori” (a chi altri avrebbe potuto rivolgersi un Duca?) – e una delle ultime auto che ha guidato. La prima (1970), aveva vernice bicolore, ruote dorate, tetto in vinile e persino un parafango da cowboy al galoppo; la seconda (1972) era, invece, più sobria e si discostava dall’originale solo per il tetto rialzato e il rivestimento in vinile. Pare, infatti, che, nell’ultima parte della sua vita, il Duca avesse cominciato ad apprezzare una certa discrezione. Livrea bronzo scuro e interni in pelle rossa, la Grand Safari era stata disegnata da uno dei più famosi designer americani del Novecento: Bill Mitchell. È lui – solo per ricordare un nome – il padre della Corvette Sting Ray. Parliamo dell’auto più grande e pesante di casa Pontiac: lunga quasi 6 metri (5.791 o 5.875mm), larga più di 2, alta quasi un metro e mezzo, poteva pesare tra i 2.300 e i 2.400 chili. Le personalizzazioni per Wayne l’avevano appesantita di quasi 100 chili. Questa station vantava un portellone posteriore automatizzato a scomparsa davvero rivoluzionario (la parte superiore spariva sotto il tetto, quella inferiore sotto il pavimento), che consentiva di effettuare le operazioni di carico e scarico senza impegnare ulteriore spazio. Motore anteriore e trazione posteriore, era equipaggiata con un V8 (6,6 o 7,5 litri a seconda del modello) governato da un cambio automatico a tre rapporti. Tra le dotazioni di serie: cruise control, aria condizionata, volante inclinabile, sedile 16
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guidatore motorizzato, pedali di freno e acceleratore regolabili, alzacristalli elettrici, radio AM/FM con tanto di registratore a 8 tracce. Chissà se, quando qualche FM passava “The Star-Spangled Banner” – l’inno americano – il Duca si toglieva il cappello. Lo spazio non gli mancava. Il segreto del successo “Qual è il segreto del successo? – ripeteva John Wayne – Le giuste decisioni. E come si fa a prendere le decisioni giuste? Con l’esperienza. Ma come si fa esperienza? Con le decisioni sbagliate”. Che dire – caro Duca – considerata la portata del tuo successo, devi averne prese di decisioni sbagliate. Tranquillo: viste da qui, sembra proprio che ne sia valsa la pena.
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COVER STORY IDROGENO
L’elettrica differente. Fuel cell al posto delle tradizionali batterie per autonomie elevate e tempi di rifornimento veloci. Quanto basta per l’interesse d’industria e governi.
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INNOVAZIONE I MOTORI I LIFESTYLE
Anno 119°
...dal nostro mensile
Nuova serie • Anno 2 • Numero 12 • Novembre 2017 • €3,00
PUBBLICATO SUL NUMERO 12 - NOVEMBRE 2017
LUCA BEVAGNA
AUTO STORICA, IN SCENA UNA PASSIONE CHE PARLA ITALIANO
■ L’altra elettrica. È l’auto a idrogeno. Il motore è sempre elettrico ma l’energia è prodotta direttamente a bordo del veicolo facendo reagire, all’interno delle fuel cell (celle a combustibile), l’ossigeno dell’aria con l’idrogeno stoccato in forma gassosa in serbatoi ad alta pressione. La mini centrale di energia è in grado di sostituire le batterie al litio e spingere l’auto a idrogeno verso autonomie e tempi di rifornimenti identici a quelli di una vettura tradizionale. Il vapore acqueo è l’unica emissione allo scarico. La tecnologia a metà anni ‘90 aveva fatto sognare più di qualcuno, salvo poi risvegliarsi bruscamente di fronte ad una soluzione ben lontana dal definirsi matura. Oggi qualcosa sembra cambiare. La velocità dell’innovazione sulle fuel cell, elemento fondamentale del veicolo a idrogeno, è più lenta di quella delle batterie al litio (per la quale esistono ingenti investimenti anche da parte di altri settori industriali), eppur si muove. E l’industria torna, sebbene con molta cautela, a crederci. Olimpiadi a idrogeno In prima fila ci sono i giapponesi, forti della promessa del premier Shinzo Abe: fare delle Olimpiadi di Tokyo 2020 i Giochi a idrogeno. Nella capitale è in costruzione una “hydrogen town” dove verranno realizzati distributori necessari ai 40 mila veicoli a fuel cell previsti per il periodo olimpico. Nel complesso, entro il 2020, le stazioni di rifornimento in tutto il Giappone saranno 160. Promesse che hanno spinto Toyota e Honda ad avviare la produzione di serie delle berline Mirai e Clarity (seconda generazione). A crederci è anche la sudcoreana Hyundai: il lancio di 31 modelli elettrificati (marchio Kia compreso) entro il 2020 passa anche per l’idrogeno. A gennaio 2018 al Ces, il Consumer Electronics Show di Las Vegas, sarà presentato un suv a idrogeno (nome non ancora comunicato) da 800 chilometri di autonomia a zero emissioni, che andrà a sostituire l’attuale iX 35 Fuel Cell, prodotta in serie dal 2013. Interesse anche da parte dei tedeschi. Se Matthias Müller, numero uno del gruppo
A sinistra, il concept del prossimo suv Hyundai con fuel cell a idrogeno.
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Sopra il concept della Mercedes GLC Fuel Cell.
Volkswagen, ha confermato che “lo sviluppo delle tecnologie a idrogeno continuerà con il marchio Audi”, Mercedes allo scorso Salone di Francoforte, con una GLC Fuel cell ha anticipato la strada intrapresa: batterie e fuel cell insieme, per fornire in modo più efficiente possibile l’energia ai motori elettrici. Una soluzione ibrida che consente anche di ridurre dimensioni e costi (altro punto debole dei veicoli a idrogeno). È probabile che un veicolo con questa tecnologia possa far parte dei 50 modelli elettrificati annunciati per il 2022 da Mercedes. Tedeschi che possono contare su un piano che prevede in Germania 100 distributori d’idrogeno entro la fine dell’anno (400 nel 2023). Italia, un solo distributore Numeri lontani dalla situazione italiana ferma all’unica stazione di rifornimento di Bolzano. Qualcosa però lentamente sembra muoversi: il governo ha recepito la Direttiva europea 2014/94 e inserito l’idrogeno nel piano strate-
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gico nazionale. Il nostro Paese dovrà contare entro il 2025 su un numero adeguato di stazioni di rifornimento e prevedere la revisione delle norme tecniche che oggi limitano l’erogazione di idrogeno a una pressione di 350 bar, portandola così fino ai 700 bar possibili con le attuali tecnologie. Particolare non trascurabile: il raddoppio della pressione consente di immagazzinare all’interno dei serbatoi una maggior quantità di idrogeno, aumentando così l’autonomia, con tempi di rifornimento simili a quelli di un’auto tradizionale. Il processo si è messo in moto ma ci sarà da attendere. I numeri lo dimostrano: nel primo semestre dell’anno, nel mondo si sono immatricolati solo 1.600 veicoli a idrogeno, dei quali poco più di 1.000 in California, dove il governatore Jerry Brown, noncurante delle critiche del presidente Donald Trump, continua a incentivare l’acquisto di auto a fuel cell e la realizzazione di distributori. Forse l’idrogeno per vincere la sua sfida avrebbe bisogno soprattutto di questo: tanti Jerry Brown sparsi in giro per il mondo.
Honda Clarity Fuel Cell, coccolati dal silenzio. Era il 1998 quando Honda presentava la V0, la prima vettura sperimentale alimentata a idrogeno, definita come “laboratorio chimico mobile”: in pratica era una grande monovolume dove il sistema fuel cell si estendeva per tutto l’abitacolo, lasciando disponibile solo il posto per il guidatore. Oggi la nuova generazione della Honda Clarity a idrogeno si presenta come una autentica ammiraglia di quasi cinque metri di lunghezza, con un design innovativo e capace di ospitare comodamente cinque persone tra finiture di gran pregio. Il sistema propulsivo è compatto, posizionato tutto all’avantreno dove celle a combustibile e motore elettrico hanno le dimensioni simili a quelle di un motore tradizionale sei cilindri a V. Su strada, la Honda Clarity è parago-
nabile per efficienza a una vettura elettrica, con il vantaggio che la scorta di energia non è immagazzinata esclusivamente nelle batterie ma viene generata on-demand grazie all’idrogeno. Il nuovo stack con fuel cell è in grado di erogare fino a 103 chilowatt ma, quando viene richiesta maggiore potenza per il motore sincrono da 130 chilowatt (176 cavalli), viene in aiuto un pacco batterie a ioni di litio disposto sotto il sedile di guida. Nonostante l’utilizzo di alluminio, compositi e acciaio ad altissima resistenza per la scocca, il peso della Honda Clarity si attesta intorno ai 1.840 chili, aspetto che limita le prestazioni: sono necessari 9 secondi per scattare fino a 100 km/h con partenza da fermo, la velocita mas-
sima è limitata a 165 km/h per non pregiudicare i consumi. Nell’unica stazione di rifornimento esistente in Italia, a Bolzano, in pochi minuti abbiamo rifornito i 141 litri complessivi dei due serbatoi della Clarity che, caricati a 700 bar, equivalgono a 5 chili di idrogeno. Poi abbiamo ripreso la nostra prova, in un silenzio di marcia disturbato solo dal rumore di rotolamento degli pneumatici. A bordo si è coccolati dalla tecnologia. Il sistema di infotainment è integrato con Apple CarPlay e Android Auto, quello hi-fi ha una acustica professionale con 12 altoparlanti mentre l’impianto di areazione si preoccupa di controllare, pulire, deodorare e rimuovere gli allergeni dall’aria prima che raggiungano (e.m.) l’abitacolo.
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