FragilitĂ e leggerezza
“Rifettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia
fsica e
psichica, della condizione adolescenziale - con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell'insicurezza e della disperazione -, ma anche il volto della condizione anziana, lacerata dalla
solitudine
e
dalla
noncuranza,
dallo
straniamento e dall'angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l'immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell'indicibile e dell'invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con piú facilità e con piú passione negli stati d'animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi”.
Eugenio Brogna
Pubblicato in occasione della mostra “Fragilità e leggerezza” Palazzo Vernazza Castromediano – Lecce- 7-17 aprile 2016 Organizzazione: Le Ali di Pandora Testi critici: Claudia Forcignanò Impaginazione grafca: Giulia Gazza Fotografa: Marco Vitale
"Città di Lecce – Assessorato Cultura, Turismo, Spettacolo ed Eventi
FragilitĂ e leggerezza
La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre Albert Einstein
La parola «Fragilità» ha la stessa radice di frangere, che signifca rompere e l’essere umano è capace di spezzare gli schemi consapevole che la fragilità sia un atto di forza, non di debolezza. Fulcro della società è la famiglia, che sia monoparentale, ricostituita, di altra cultura o arcobaleno. Famiglia è anche la famiglia delle 60mila separazioni e dei 30mila divorzi ogni anno, spesso teatro in cui si sviluppano relazioni mortifcanti per i bambini e per i suoi componenti più fragili. Le Famiglie fragili, dove si vive il contatto con la disabilità o la malattia, andrebbero sostenute, ascoltate, protette così che la fragilità possa diventare forza. Fragile è l’anziano perché invecchiare in quest’epoca, è diventata una malattia. Parlare di vecchiaia signifca parlare del senso e delle prospettive dell’esistenza umana: l’identità del soggetto, la comunicazione tra gli esseri, le somiglianze, l’esclusione, il distacco dalla realtà, la malinconia, elementi che troviamo non solo negli anziani ma anche nelle giovani generazioni che soffrono di mancanza di prospettive e dove la parola speranza riempie uno spazio muto. Fragile è la gioventù che cerca riferimenti e ideali da perseguire; “(…) come carne priva di vita in cella ibernatrice dei miei sentimenti” riporta Vincenzo Leone - Medico delle Dipendenze, Comunità Emmanuel - nella sua testimonianza “Il vissuto dell’esperienza”. Fragili sono le frontiere dove uomini, donne e bambini sono resi vulnerabili e fragili dalle guerre, costretti all’esilio, spezzando le loro storie, annichilendo le speranze. La Fragilità è anche fuori di noi, se posiamo lo sguardo sul nostro paesaggio con la nostra storia in abbandono, con la storia che svanisce sotto i colpi dell’incuria, sotto i colpi dei mortai, sotto i colpi del radicalismo. L’arte incide sulla memoria a breve e lungo termine educando alla bellezza e al rispetto, analizzando la condizione nella nostra società, una società, l’attuale, caratterizzata spesso dal male di vivere e dalla paura. Gli eventi di questi ultimi anni ci inducono a rifettere sulla pericolosità della forza, la forza distrugge l’uomo, la fragilità, forse, lo ricrea. “Fragilità e leggerezza” è una mostra che partendo da una visione contemporanea si snoda nel
tempo, nella memoria, occasione per immaginare, in un'ottica realista, le stagioni della vita dove protagonista è il tempo, i luoghi, l’uomo e la sua fragilità. Per la realizzazione delle opere abbiamo chiesto agli artisti di usare un materiale fragile e leggero ma che nel corso dei millenni ha dato voce alla memoria e alla civiltà: la carta. Artisti stimati hanno abbracciato la nostra idea dando corpo al pensiero di Hegel: “(...) l’arte scava un abisso tra le parvenze e le illusioni di questo mondo basso ed effmero e il contenuto reale degli eventi, rivestendo questi eventi e fenomeni di una realtà superiore, generata dallo spirito (...). Lungi dall’essere semplici apparenze e illustrazioni della realtà ordinaria, le manifestazioni dell’arte hanno una realtà più elevata e un’esistenza più vera (…)”. Artisti emergenti hanno lavorato, sotto la visione di Lucia Ghionna, sulla tematica in questione e una rigorosa selezione ha premiato solo alcuni di loro. In ultimo ma non ultimi gli Ospiti della Comunità Emmanuel hanno rappresentato la loro visione e condizione: “(…) Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità”. Vittorino Andreoli
Ambra Biscuso Le Ali di Pandora
Artisti Silvia Beccaria Roberto Bergamo Mario Calcagnile Glauco Lèndaro Camiless Daniela Cecere Enzo De Giorgi Oreste Ferriero Lucy Ghionna Massimo Marangio Luigi Martina Maurizio Martina Francesco Pasca Enza Santoro Elia Stomaci Paola Zampa
Testo di ispirazione degli artisti Testo critico di Claudia Forcignanò
Silvia Beccaria Il femminile, il visibile e l’invisibile
…come se in un soffo sottile la materia stentasse ad andarsene e imponesse il suo esserci. Presenze leggere, di corpi, percepibili seppure invisibili, occupano lo spazio. Trasparenti ed eterei fli disegnano in forme impalpabili le rotondità di corpi femminili.
La volontà di maneggiare la materia, accarezzarla, lavorarla e plasmarla, guida Silvia Beccaria attraverso l’esplorazione di strade nuove e sconosciute, fno a creare l’ordito perfetto del calco di un volto di donna, leggero come un ricordo o un sogno in cui si cerca di dare un nome a quel volto perduto nel tempo e del quale permane solo l’involucro, reo di voler lasciare una traccia del suo passaggio nel mondo. Una presenza che si trasforma in assenza e viceversa perché i fli argentati diventano il punto di partenza per addentrarsi in un percorso che valica il senso estetico e tocca apici di segni metafsici nella sensazione di vuoto e solitudine che affora quando ci si rende conto di trovarsi in uno spazio indefnito in cui si percepiscono altre presenze che stentano a manifestarsi, forse perché oramai abitanti di una realtà altra e superiore in cui il corpo resta un guscio da lasciare in dono a perenne memoria. L’opera in mostra è parte di una serie di creazioni realizzate utilizzando un tealaio e che confermano ancora una volta l’impossibilità di imprigionare il valore stilistico di Silvia Beccaria entro sterili confni interpretativi poiché la scelta di effmeri materiali di uso quotidiano ben si presta alla volontà di creare opere nelle quali il particolare è solo il pretesto per raccontare aneddoti, imbastire storie o riportare alla memoria profumi ed episodi in un gioco di accenni e rimandi che tocca le corde della memoria.
Roberto Bergamo Sovrappensiero Un colpo, un colpo… un altro colpo… / Ancora un colpo…ed ecco che / Boris Butkeev, detto Krasnodar/Piazza un suo uppercut. / Mi spinge nell’angolo, / Quasi gli sfuggo… / Ma un suo uppercut mi stende a terra ,/ E non mi sento affatto bene! / E Butkeev pensava, mentre mi spaccava la mascella: / “Vivere è bello, la vita è bella!” / Si conta fno a sette e io sto ancora steso, / (...) Ma ecco che colpisce: una, due, tre volte, / Fino a perdere le forze. / L’arbitro mi alza il braccio / Con il quale non ho combattuto. / Lui stava a terra e pensava che la vita è bella. / Bella per qualcuno; per altri, una rottura di palle! Vladimir Semënovič Vysockij
Parole frutto di pensieri che si rincorrono l’un l’altro senza un apparente flo conduttore e riempiono, rigo dopo rigo, l’intero contorno della carta in un fusso continuo. Il misterioso potere della mente che concede al corpo di continuare meccanicamente a svolgere il proprio lavoro, mentre apre infnite fnestre su nuove prospettive. Può accedere mentre si cammina per strada, o mentre si legge, spesso accade senza un motivo preciso, ed è uno dei momenti in cui è realmente possibile raggiungere uno stato mentale simile alla pace interiore. Roberto Bergamo realizza la sua opera impregnando la carta di inchiostro nero che dà origine a parole confuse, a tratti sbavate, come se la mano avesse indugiato in quel punto, forse in un repentino guizzo di razionalità realizzando una poesia visiva, dove il tratto grafco diventa il pretesto per guidare lo sguardo oltre il segno, suggerendo infnite possibilità interpretative che, come in un mandala, confuiscono nella parola centrale scritta a lettere cubitali, chiare e sopraelevate. “Love”, amore come centro unico e innegabile dell’esistenza, ma amore per cosa? L’amore di Roberto Bergamo non è identifcabile con uno stereotipo perché rappresenta un concetto universale: amore per l’arte, per le vita, per una donna o un uomo, per la poesia. Amore che stordisce e concepisce l’esistenza di pensieri liberi, amore attorno al quale, per quanto lo si neghi, ruota l’intero universo.
Mario Calcagnile Luce – ombra
Non ho gioia senza peso - bilancio ogni pressione con semplicità e leggerezze - non c’è luce senza ombre - non ho conosciuto bianchi senza neri - ogni forza è fglia di fragilità.
Segni e graff su una superfcie che si sporca di nero, creano parole indecifrabili ingabbiate in una rete oltre la quale il colore sbava colpito dalle gocce di una pioggia che anziché lavare e dissetare, brucia e ferisce, si concretizzano, attraverso l’opera informale di Mario Calcagnile, in una rifessione sulla dualità delle esperienze umane che non sono mai totalmente positive o totalmente negative, perché a fronte di una giornata all’apparenza perfetta, ci saranno giorni di tristezza, in un perenne circolo vizioso dove il bene sconfna sempre nel male e la frustrazione si trasforma in una rabbia che si esprime attraverso colori scuri, frutto di un percorso durato una vita nell’arco della quale l’energia iniziale ha lasciato il posto ad una pacata e rassegnata constatazione che prende le mosse dall’impossibilità di organizzare ogni cosa sul medesimo piano emotivo, perché ad ogni medaglia corrisponde sempre il suo rovescio, come la parte oscura della luna, dove regna il freddo più assoluto, elementi che però non possono in alcun modo prescindere l’uno dall’altro perché non possono esistere i chiaroscuri senza gli esatti opposti, così come non si può apprezzare la leggerezza se prima non si è assaporato il gusto amaro della fragilità.
Glauco Lèndaro Camiless L’ombra dell’Anima Dai “cieli stellati della gioia” che narrano ciò che io sono stato, mi ritrovo nell’“abisso” dell’oblio. Fortuna vuole che lungo la strada ritrovo una guida, un messaggero... prima che arrivi la tempesta, ossia un angelo donna. Rappresentandola coniugo tutti i tempi della sua ineguagliabile sensibilità, della sua innata delicatezza, sinonimi della fragilità. Si può rappresentare ciò che non conosciamo, si può dire inenarrabile, si può scrivere ciò che non vediamo? Certo, è possibile ma solo se chiamiamo in causa l’Arte e quella lunga scia, quella “polvere di stelle” sta proprio a signifcare tutti i tentativi prodotti prima di raggiungere il valore oggettivo della conoscenza. Infne la trama, l’ordito sono antonimi della materia e dello spirito; presenze che si sovrappongono, si intrecciano, si compenetrano per dare vita a ciò che chiamiamo “l’uomo giusto”. Bianco come il silenzio che regna sovrano in uno spazio all’interno del quale tutto accade al di là del tempo e dell’umana ragione, mentre il fato intreccia pazientemente l’ordito dell’esistenza su un telaio infnito, dove bene e male, gioia e dolore, fortuna e sfortuna si alternano come pedine. Il bianco di Glauco Lèndaro Camiles è totalizzante, scelto con perizia per creare il giusto contrasto con l’altra cromia che spicca nella sua opera, il rosa della lunga scia lasciata dalla fgura che svetta verso l’alto, abbandonando con leggerezza la trama sottostante e rimandando ad una ritrovata libertà emotiva ancor prima che fsica. Una scia composta dalle esperienze, dai tentativi falliti, attimi infniti di solitudine e prove interminabili che, nell’arte come nella vita, diventano parte integrante e imprescindibile dell’opera. Come una musa ispiratrice, la fgura protagonista di quest’opera il cui minimalismo sconcerta e appaga al contempo, assolto il suo compito si libera da ogni costrizione e si erge sicura di sé e della propria delicatezza e fragilità enfatizzata dalla luminosità dell’opera che rifette la luce restituendo un’immagine di sé immateriale. La mano leggera ed esperta dell’artista, formatasi già con la tecnica dell’incisione, accarezza la materia abbozzando le forme e lasciando a chi osserva la libertà di rispecchiarsi nella storia sapientemente narrata, il cui fnale viene volutamente lasciato aperto per chi voglia coglierlo.
Daniela Cecere Ricordo di un ricordo
Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti. J. L. Borges
Dondolare dolcemente sul flo dei ricordi accarezzandoli attraverso una vecchia fotografa per visitare un tempo che affonda le sue radici nei lontani Anni Trenta, quando il mondo si raccontava con lenti color seppia e i giorni profumavano di caffè, visti e rivisitati qualche decennio dopo, in un momento storico in cui si era pronti a cambiamenti epocali irreversibili, per abbracciare la propria storia. Questo il coraggioso gesto poetico compiuto da Daniela Cecere, che fa rivivere la memoria su carta da architetto, lavorando con delicatezza ogni elemento che tra le sue mani diventa fondamentale per costruire il mosaico della propria identità attraverso gli occhi della nonna che ritrae, ancora giovane donna, con lo sguardo fsso verso l’obiettivo e le labbra sfziosamente accarezzate da un flo di rossetto, a tradire una femminilità consapevole, seppur innocente. Un viaggio nel tempo, dunque, a cavallo tra ricordi propri e altrui, lasciandosi cullare dalle acque di Lete, il fume dell’oblio che danza con la dea della memoria, Mnemòsine, il suo eterno valzer, ma è anche un viaggio in un luogo in cui una farfalla ricorda la fragilità del presente e del passato, la fugacità dei pensieri e il valore di ogni singolo gesto. Un monito ad essere fedeli alla propria storia, forse, ma soprattutto un omaggio a ciò che si può diventare avendo la forza di specchiarsi negli occhi di chi è stato prima di noi.
Enzo De Giorgi The Paper Boat
Dovete capire, che nessuno mette i suoi fgli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra. Warsan Shire
C’è una barca di carta che arranca tra le onde, piccola e delicata, come quelle che costruiscono i bambini quando giocano in riva al mare. C’è una barca, ma non è un gioco, c’è anche il mare, ma non custodisce pesci e stelle marine, ci sono persino i bambini e le loro mamme, ma i bambini non giocano e le mamme non li rimproverano. Quello che Enzo De Giorgi narra attraverso la sua Paper Boat, è il binomio inscindibile tra la guerra in Siria e la fuga attraverso il Mediterarraneo, testimone silenzioso e geloso custode delle anime perse che, abbandonandosi tra le sue increspature, assumono colori cangianti e tratti sfumati, mentre a prua della barca, la piccola Adi Hudea si sporge con le manine alzate e Aldin protegge il suo violino. Tutti i protagonisti di questa storia di disperata speranza sono intenti a fssare un punto verso l’orizzonte, solo una donna si accorge del dramma che si sta consumando a bordo: una bambina rischia di cadere in acqua, la madre tenta di trattenerla. Enzo De Giorgi narra una guerra che rende fragili come fogli che si adagiano sull’acqua, gioca con la cromia delicata dei tramonti estivi, abbozza le forme, in netta contrapposizione alla drammaticità dell’evento narrato, contribuendo a renderlo ancora più brutale e surreale. Un omaggio al coraggio e alla disperazione di chi sceglie di correre il rischio di morire tra le onde, piuttosto che sotto i colpi dei fucili, mentre le note pietose di un violino accompagnano questo triste viaggio.
Oreste Ferriero A Teresa
…e l’alba di un nuovo giorno sforì la rosa più bella.
Nell’immensità di un azzurro ipnotico che si staglia contro la
superfcie come una scenografa
postmoderna, fori dalle sfumature tenui che vanno dal giallo al panna si accasciano inermi, sforendo uno dopo l’altro, fno all’ultima rosa, la più bella, la cui morte lascia emergere prepotentemente il dolore di un’assenza, il vuoto lasciato da chi va via per sempre e lo sgomento di fronte ad un evento irreversibile. Ѐ una scena immobile quella di fronte alla quale ci si trova osservando quest’opera, degna di rispetto e silenziosa contemplazione, in un muto omaggio all’amore e al ricordo che rifutano di sforire e si imprimono sulla carta raccontando la loro vita a chiunque abbia voglia di ascolta. Sorprende, nell’opera di Orieste Ferriero, l’abilità dell’artista di dare risalto e rendere protagonisti assoluti i fori nonostante siano immersi in uno scenario abnorme il cui colore, steso con ampie campiture che sanno catturare la luce, offre un seppur minimo conforto allo spettatore confermando la totale accettazione dell’evento luttuoso, inteso come passaggio naturale dell’esistenza, al pari, appunto dello sforire di una rosa, fosse anche la più bella. Un addio dal sapore poetico dato con la certezza che cadono i petali, ma non svanisce il profumo che da essi si propagava, perché quel profumo si insinua nella mente, tra i ricordi e saranno insignifcanti accenni a risvegliarlo.
Lucy Ghionna Scena famigliare
Lo chiamano dramma perché si tratta di scena famigliare, la scena di un flm di cui noi, da giovani, abbiamo scritto battute. Sappiamo solo che lo stesso tipo di avvenimenti continua ad accaderci.
La vita si compone di tasselli che non sempre vanno al loro posto, non sempre seguono il giusto ordine, anzi, spesso accade che alcuni tasselli si perdano lungo il cammino, oppure si frantumino in mille pezzi che si tenta inutilmente di incollare l’uno con l’altro, pur sapendo che nulla sarà più come era prima di quella rovinosa caduta. Sono i piccoli e grandi drammi: amori sbagliati, scelte infelici compiute lontano dallo sguardo protettivo di una mamma e un papà andati via anzitempo, sconftte e delusioni. La vita che inizia col primo vagito e non si arresta di fronte a nulla, neppure quando tutto si complica, mentre con la memoria si torna indietro nel tempo alla disperata ricerca dell’attimo in cui tutto è iniziato, chiedendosi il perché di scelte delle quali si è poi perso il controllo, in un turbinio di domande senza risposta che Lucy Ghionna semina su nove cartoncini che collega tra loro attraverso un’edera disegnata con una penna blu che riempie e incornicia i passaggi di una vita segnata della fragilità, diventando un flo di Arianna che alla delicatezza del tratto associa la forza che da sempre accompagna questa pianta, nota per la sua tenacia nel nascere e morire nel medesimo luogo. Ѐ un racconto intimo di estremo candore che l’autrice regala al pubblico spogliandosi da pudori e pregiudizi, confdando nella forza espressiva di un’opera in cui i particolari sono sapientemente disseminati tra le tessere come indizi di un mistero da svelare.
Massimo Marangio A Elisa
…amatemi nella mia stoltezza, fra i sospiri notturni e le gaiezze miste a gemiti di giorno… io vi amerò ma non sempre vi riconosco… dopo tanti colori, la mia vita si spegne in bianco e nero…
Una donna, un tempo probabilmente bella, ora avvolta nell’abbraccio pietoso delle rughe che si confondono con le dita inermi di mani che sembrano non trovare la loro giusta collocazione, trascina sul pavimento la biancheria intima, mentre si muove a fatica sulle gambe malferme, colta in un insolito momento di intimità. Alle sue spalle, unico angolo illuminato, il bagno. I capelli sciolti e in disordine, lo sguardo perso nel vuoto, un pensiero che non si ferma di fronte al silenzio assordante che regna nella stanza e si fssa sulle pareti, mimetizzandosi e quasi scomparendo: una preghiera appena accennata rivolta a chi vive al di là di una solitudine imposta dalla vecchiaia, dalla demenza, o forse da entrambe, ma in ogni caso una condizione straziante che trasforma un essere umano in personaggio grottesco e allucinato, nei confronti del quale provare un profondo senso di frustrazione e impotenza per il mondo privo di colori in cui si trova a vivere, per le piaghe che non possono essere curate, per la fanciulla che è stata e che non ricorda. Massimo Marangio esalta la delicatezza dei tratti segnati con la matita forgiando ombre che esaltano ogni dettaglio dell’ambiente in cui ambienta la scena, fermando il tempo in una frazione di interminabile e incolpevole fragilità nel tentativo, riuscito, di denunciare una società che concepisce la vecchiaia come una malattia imbarazzante.
Luigi Martina Rosemary
Quando una piuma è sospinta da un vento leggero, tutto può succedere, la sua leggerezza è la sua forza, segna nell’aria morbide traiettorie, si appoggia con grazia sulle superfci ma quando il vento è impetuoso la piuma non ha scampo, la direzione è obbligata e il suo destino segnato. Leggerezza e fragilità sono il carattere di una piuma di nome Rosemary Kennedy, sorella del più famoso John: lobotomizzata in giovane età parchè imprevedibile sarebbe stata la sua traiettoria. Rosamary Kennedy, fglia imperfetta di Joseph P. Kennedy e Rose Fitzgerald, sin da piccola mostrò diffcoltà nell’apprendimento e in seguito rivelò una inopportuna predisposizione alla libertà sessuale e affettiva. Onde evitare scandali e imbarazzi, la famiglia la sottopose ad una lobotomia che la riconsegnò al mondo in stato semi-vegetativo. Luigi Martina dedica a Rosemary un’opera che racchiude in se la storia di tutte le Rosemary del mondo, la cui identità è stata raschiata via con inaudita violenza. I lineamenti di Rosemary si contorcono e deformano in linee continue monocromatiche il cui tratto si alterna tra spessori differenti dando forma ad un labirinto psichico che prelude una tragica implosione. Rosemary è il ritratto dell’essenza di una donna incolpevole e di una società che per decenni ha scelto volontariamente di scrivere alcune tra le pagine più tristi della storia. Un accenno grafco agli occhi e alla bocca, risulta essere l’unico barlume di vacua umanità cui lo spettatore può aggrapparsi prima di essere travolto e stravolto dalla potenza espressiva di un viso che qualcuno ha tentato invano di relegare nell’oblio riducendolo al silenzio e alla cecità mentale, dove non esistono colori, profumi, emozioni, dove le forme si confondono stagliandosi contro pareti bianche, inermi come i corpi di chi le abita, impossibilitati a vivere, destinati a sopravvivere.
Maurizio Martina Assad, la bruta leggerezza dell’essere
Ci fa tanto male. Questo minuscolo universo dell’umanità / edifcato a ferro e fuoco / dove debole o forte / c’è una vittima onesta / come ultima istanza / della necessità del nostro minuscolo universo / dove c’è la ricaduta morale jihadista / come necessità del nostro piccolo universo / che come ultima istanza / ha una vittima onesta / debole o forte / fnché il mondo non si arresta fra loro inumani.
C’era un Paese in cui i colori si mischiavano ai profumi e alle tradizioni, i bambini giocavano nei cortili delle case, le giovani donne frequentavano l’Univesità e le mamme lavoravano. Quando tutto cambiò, nessuno era pronto, certo non lo erano le donne e bambini, non lo erano neppure gli uomini che vivevano di lavoro e preghiera, ma si trovarono catapultati in una guerra senza nome e senza eroi. Dove si rifugiano i colori quando tutto intorno si vedono solo macerie e si sentono padri piangere i propri fgli? Dove si nascondono le parole quando non c’è più tempo per pensarle? Maurizio Martina non cerca risposte, ma rappresenta un universo piccolo e disperato, tutto racchiuso in un uomo accartocciato, abitato da un’esplosione di colori che si mischiano trattenuti a stento dai confni tracciati dal pennello, mentre sullo sfondo una galassia priva di stelle e pianeti la cui violenza cromatica mette in soggezione e spinge lo sguardo a vagare in cerca di conforto visivo, prima di scontrarsi col rosso intenso di una macchia così simile al sangue da convincere lo spettatore a chinare infne il capo e guardarsi intorno ringraziando la vita per ogni attimo di pace e concedendosi il privilegio di ritagliarsi uno spazio in cui indugiare anche solo per pochi minuti beandosi della luce del sole e della fortuna, sottovalutata, di poter ancora essere sommersi dai colori e dai profumi.
Francesco Pasca D’aria
Leggero ... Fragile il segno D’aria misuro il passo e le parole così come le conto per chi legge e non son poi così i tanti né lo sono mai stati.
Poesia e arte si incontrano e fondono in una sintesi perfetta nell’opera di Francesco Pasca, abile giocoliere delle parole che lascia scorrere sulla carta con una grafa semplice, nero su bianco, senza orpelli, senza girotondi fasulli che potrebbero distrarre lo spettatore che qui non si limita più ad osservare passivamente l’opera, ma le si avvicina, la studia, legge, interpreta e traduce ogni parola, a tratti perdendosi tra i signifcati, a tratti tornando indietro per rileggere, mentre in primo piano una serie di linee si intrecciano tra loro in un’ideale rappresentazione del percorso attraverso cui i pensieri dell’autore, dall’intimità della mente si preparano a donarsi al mondo. Chi si sofferma davanti all’opera si stupirà della potenza inaudita che le sue parole hanno indipendentemente dal concetto espresso, che come un abito si cuce addosso a chi legge, perché sono suoni che accarezzano l’udito, danno lo spunto per ricordare o semplicemente elaborare immagini che giacciono nel profondo dei pensieri e rendono appieno il signifcato di fragilità e leggerezza elaborato grazia al minimalismo assoluto di un segno preciso e delicato che resta impresso nella memoria proprio per la sua semplicità.
Enza Santoro Di antica memoria Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, / non dimenticare il cibo delle colombe. / Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, / non dimenticare coloro che chiedono la pace. / Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, / coloro che mungono le nuvole (…) Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, / coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. / Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, / e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio. Mahmoud Darwish
Avevamo un mondo libero e inesplorato, fatto di foreste e mari, fori e animali, tutto questo prima che perdesse la sua libertà e si trovasse prigioniero di una cortina di ferro. Un mondo indifeso rappresentato utilizzando carta fragilissima i cui frammenti sono assemblati secondo un’antica tecnica giapponese. Il senso di crisi e assenza di stabilità si percepisce nell’aria, come si percepisce un desiderio sempre più imperante di arrendersi e lasciar perdere tutto, fermarsi in attesa che fnalmente giunga la fne o che qualcuno decida per il destino di tutti, perché alzare gli occhi al cielo e vederlo attraverso le trame di una grata è più di quanto un essere umano possa sopportare, nonostante quella cortina l’abbia costruita proprio lui in tempi in cui non conosceva, o non voleva conoscere l’importanza del convivere come fratelli. Eppure, nonostante tutto, il mondo continua ad esistere, ed Enza Santoro lancia un’ancora di speranza attraverso il bellissimo azzurro del mare e il ciottolo appeso ad un flo sottile che, se toccato, fa muovere l’installazione, in un invito a fare un primo passo, fosse anche solo un piccolo gesto per liberare il mondo e i suoi abitanti da una gabbia in cui non merita di stare, proponendo di iniziare ad abbandonare l’egocentrismo imperante per dedicare il proprio pensiero agli altri, imparando e ricordando il signifcato del termine “empatia”.
Elia Stomaci Il fore di campo appassito
Malinconico è il fascino di un fore di campo che ha manifestato il suo colore. Ora, faccido, va ad accarezzare la solitudine di un corpo in stato di abbandono. Tutto è fragile come la tristezza di una mente stanca che ripudia il sussulto alla vita.
Quel confne labile tra la vita e il preludio alla fne diventa, nell’opera di Elia Stomaci un momento di delicata rifessione che vede protagonista un’anziana donna dai capelli raccolti nel gesto classico di chi ama la semplicità e non si cura dell’apparenza, come dimostrano le ciocche che sfuggono conferendo un aspetto quasi infantile alla capigliatura, sulle cui spalle curve nel gesto di appoggiarsi alla spalliera di una sedia, sembra gravare il peso di anni vissuti tra lacrime e sorrisi, solitudine e moltitudini di anime più o meno affni, fgli cresciuti e ormai lontani, nipoti da amare. La vecchiaia rende fragili, fa regredire nel tempo e genera uno scontro tra la mente, che ancora si aggrappa alla voglia di stupirsi e un corpo che ormai non ce la fa e si prepara lentamente ad abbandonarsi ad un inevitabile destino. Una leggerezza commovente, quella con cui Elia Stomaci delinea i contorni di questa donna esausta: tratti brevi, segni sottili, tracciati con mano sicura e veloce, come se anche l’artista percepisse l’urgenza del momento, la necessità di immortalare un attimo preciso e irripetibile nel quale luci e ombre, danzano penetrando da una fnestra fuori campo che ancora per pochi attimi scalderà le membra di una donna il cui aspetto appare fnalmente sereno.
Paola Zampa Il mio autunno privato Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie G. Ungaretti
Una coreografa di foglie sospese a mezz’aria nella loro caduta, immortalate nell’attimo in cui si concedono l’ultima danza nel vento, nel gioco dell’illusione di poter tornare indietro a stringere ancora i rami che si vanno lentamente spogliando. Paola Zampa racconta l’autunno attraverso un lavoro dal sapore autobiografco su carta oleata, restituendo splendore e vita alle foglie che immerge nell’oro e fssa su un supporto candido che ne esalta la luminosità. Inevitabile il rimando alla precarietà dell’esistenza che vede tutti coinvolti, ma è proprio l’oro, che con la sua patina protegge le foglie dalle offese del tempo, a renderle un dono di rara bellezza per lo spettatore che si lascia ammaliare dalla grazia aristocratica della composizione, il cui contrasto cromatico si mescola alle forme offrendo una chiave di lettura per l’ineluttabilità degli umani accadimenti che non lascia posto al rancore e ai rimpianti, ma inneggia alla leggerezza di chi decide di lasciarsi accarezzare dagli eventi della vita proprio come le foglie in autunno, stagione in cui il mondo si prepara ad un lungo riposo e al contempo tutto si evolve. Osservando l’opera di Paola Zampa è impossibile non ricordare le parole del poeta ermetico Giuseppe Ungaretti col quale l’artista condivide l’amore per la sintesi espressiva: pochi e semplici elementi che invitano ad una immersione nell’atmosfera degli odori di un autunno che rende fragili le persone e sfuma i colori.
Artisti emergenti Cristina Baldari Veronica Cavone Franco Chiarello Dario De Iacob Giulia Gazza Romualdo Gerardi Mariangela Martinelli Stefania Martino Francesco Paglialunga Giulia Piccinni Alberto Renisi Giulio Ribezzo Silvia Sparro Marco Vitale Sara Za
curatela Lucia Ghionna testo critico Claudia Forcignanò
Avere vent’anni o poco più, oggi, signifca sentire la fragilità come un marchio sulla pelle, tra parole che non si riescono a pronunciare e gesti fermi a mezz’aria, rivoluzioni annunciate e appuntamenti mancati con le grandi occasioni, al punto che la realizzazione di queste quindici opere il cui flo conduttore obbliga a scavare a fondo tra le pieghe dei sorrisi, delle facce pulite, delle mode passeggere, degli schizzi su fogli di carta, diventa una sfda emotiva che spinge a rifugiarsi nei ricordi alla ricerca di una agognata serenità, effettuando un’estenuante lavoro su se stessi, prima ancora che sulla carta. Ore di lavoro e introspezione hanno prodotto un ampio campionario la cui potenza espressiva crea un’affascinante commistione con il supporto scelto, carta realizzata artigianalmente, archetipo della fragilità e della leggerezza, sulla quale gli artisti hanno sviscerato sentimenti ed emozioni, raccontati attraverso l’uso sapiente della tecnica, dando vita ad un microcosmo variegato in cui sesso, esperienza ed età perdono il proprio valore sociale restituendo un’esperienza visiva che invita ad andare oltre la forma per concentrarsi sul contenuto. Ogni senso viene sollecitato dalle opere che si presentano come un’affascinante iperbole visiva che parte dall’utilizzo massiccio dell’espressività materica, come il bassorilievo di Stefania Martino, con mani grandi e rassicuranti che afferrano altre mani più piccole, in un tentativo di salvezza e protezione, o il connubio perfetto tra supporto ed espressione artistica raggiunto da Dario De Iacob, che omaggia il Barocco leccese riproducendo una fgura barbuta presa in prestito dalle decorazioni di uno dei palazzi storici della città ed evidenziando, attraverso le crepe e gli strappi della carta, la fragilità della materia in contrasto con i rivoli della barba e dei capelli che sembrano increspati da un vento leggero. L’iperbole tocca il suo punto centrale con Mariangela Martinelli, che ha scelto la tecnica del patchwork cucendo le tessere l’una con l’altra in un suggestivo mosaico che pare uscito dal cassetto dei ricordi: un’opera fragile, resa leggera dai materiali utilizzati, mentre Giulio Ribezzo cuce, taglia,
unifca attraverso una cerniera i confni di un mondo che va in frantumi e Cristina Baldari fa una breve incursione al confne tra fantasia e realtà presentando una donna dai tratti somatici universali, perché universali sono i volti degli anziani, i cui delicati capelli bianchi sono accarezzati da una pettine guidato da una mano invisibile. Al contempo, Giulia Piccinni regala al fruitore un vortice di forme, colori che spaziano dal freddo grigio alle calde sfumature dei marroni, tra elementi astratti e fori fnemente cesellati, sapientemente adagiati in precario equilibrio. Sara Za si avvicina all’apice con la netta frattura visiva tra le rotondità di un corpo fortemente stilizzato, la cui testa richiama il ventre tondo, richiamando ad una maternità vissuta non solo a livello fsico, e le algide linee rosse laterali, forse tracce di sangue che genera vita, forse indicazione di una via che tende verso l’infnito. Veronica Cavone, si spinge oltre i confni del minimalismo lanciando un messaggio che vuole essere di accettazione e amore per se stesse e per gli anni che passano regalando al volto rughe e segni. Proseguendo nel viaggio, l’atmosfera diventa più suggestiva, con le delicate “Intrusioni” di Giulia Gazza, un richiamo all’impalpabilità che si fa materia, alle leggerezza dei fori e delle foglie delicatamente cucite sulla carta, quasi a volerle trattenere, invitandole ad una danza di eleganti cromie che avvicina alla terra pur propendendo verso l’aria. Macro Vitale, tocca l’apice dell’immaterialità con impercettibili tracce di colore sparse su una superfcie candida, simili a coriandoli posati per caso dal vento su una lastra protetta da una pellicola, affnché il tempo non ne scalfsca l’effmera essenza. La realtà di ciò che accade nel mondo, dove sulla leggerezza predomina sempre più spesso la fragilità, viene raccontata attraverso la serie di opere cui protagonisti assoluti sono sguardi umani che raccontano storie di vita, dolore, povertà e miseria, o semplicemente sgomento di fronte a ciò che non si può comprendere. Franco Chiarello, raffgura un uomo il cui sguardo, perdendosi nel vuoto, inevitabilmente incontra quello dello spettatore, insidiandosi fno agli angoli più remoti della sua psiche e lì fermandosi a
lungo. Romualdo Gerardi invece racchiude rabbia, follia, alienazione in un’opera dai colori forti, e violenti, le labbra si contorcono in un sorriso ambiguo, a metà tra urlo e ghigno, follia e disperazione. Protagonista dell’opera di Francesco Paglialunga è invece una donna, il cui corpo parzialmente in ombra lascia intravedere un volto disfatto eppure dignitoso, frutto di una muta desolazione che toglie il fato e ferma il tempo. Non poteva mancare una menzione particolare, fatta da Alberto Renisi, a colui che della leggerezza ha fatto una bandiera da sventolare a testa alta contro chi non credeva che i suoi sogni fossero possibili, contro una battaglia che ha paradossalmente messo a nudo la fragilità della condizione umana in generale: Steve Jobs, i cui contorni si dissolvono nel vento, consegnando la sua esistenza all’immortalità. Silvia Sparro raccoglie una manciata di semi che distribuisce sapientemente sulla carta dando vita all’infruttescenza di un fore di tarassaco i cui semi volano lontano. Basta il tocco sbadato di un dito, o una folata di vento perché di questa preziosa pianta resti solo il triste stelo, eppure i suoi semi daranno comunque vita a nuove piante e così sarà di stagione in stagione. Lo scorrere del tempo, il ritmo scandito dalle fasi lunari, la fragilità dei semi e l’innegabile senso di leggerezza che trasmette la vista di un fore, sono racchiusi in questa opera la cui preziosità consiste nel suo essere viva e quindi in continua evoluzione: i semi, incuranti degli spettatori, cambieranno di giorno in giorno, fno a schiudersi e rendendo il lavoro sempre nuovo. Tra foglie, forme, geometrie e sguardi, soprattutto emergono le percezioni degli artisti, che hanno in questo ambito dimostrato empiricamente la veridicità dell’assioma postulato da William Somerset Maugham: “l’arte è una manifestazione emotiva e l’emozione parla un linguaggio che tutti possono intendere”.
Cristina Baldari Io e te
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tutt'ora, nè più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Eugenio Montale
Veronica Cavone Carta : pelle = piega : ruga
La vecchiaia, immaginando, un giorno la mia ... niente. Carta increspature come rughe ed allora sĂŹ "carta : pelle = piega : ruga".
Franco Chiarello Portrait of my father
Segni, forti e veloci: ictus. Il mondo stravolto. Lo sguardo un tempo sicuro e sereno.
Dario De Iacob Si sta come cretto sul viso il Tempo
L’uomo cresce col tempo che passa / il tempo è prezioso, / non bisogna sprecarlo / a volte succede / non possiamo evitarlo / grazie per la tua attenzione e per il tuo tempo speso a leggere queste righe.
Giulia Gazza Senza titolo
Giulia Gazza nasce nel febbraio del 1993. Poi punto dopo punto è arrivata qui.
Romualdo Gerardi Urla e ragioni
Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise.
Mariangela Martinelli Forma e senso di un dono
Frammenti di una memoria inaffdabile. Pezzi che appartengono, regalano, mostrano e rincuorano. Immagini di ciò che era e sempre rimarrà . Immagni di occhi che il cuore guida, che i sensi appagano che il ricordo mostra. Segni fragili costretti a restare come forma e senso di un dono.
Stefania Martino Leggerezza e fragilitĂ della forza
Fa delle tue mani due bianche colombe e portino la pace ovunque e lordine delle cose Alda Merini
Francesco Paglialunga Ricordi futuri Si vive di ricordi e per i ricordi, dietro le spalle c’è la nostra gioventù, chiara e nitida. Pensieri e memoria legano ogni uomo alle origini e alle tradizioni, divenendo unico strumento di conoscenza che l’uomo ha per creare un ponte fra passato, presente e futuro. Ricordo ancora la mia cara nonna col suo viso rugoso sempre pronto al sorriso, con la sua testa bianca, sferruzzava la lana seduta di fronte al camino, pensando al suo lungo e passato cammino. Avrei voluto fermare il tempo, avere per sempre vicino la sua bontà e la sua dolcezza che sfora come se fosse una carezza, ma non mi resta altro che un suo ricordo futuro.
Giulia Piccinni Antiche tradizioni
Un richiamo al passato attraverso un collage di centrini tradizionali che hanno subito una trasformazione in chiave contemporanea.
Alberto Renisi Fase temporale # 1 – fase temporale # 2
Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, per vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.
Giulio Ribezzo Trasformazione
Tutti problemi inutili? O domande che per forza di cose bisogna farsi? Questo sicuramente! La semplicità che noi riusciamo a vedere ci può risultare banale se davanti la sua apparenza non ci poniamo le stesse domande, se non la scrutiamo o non la osserviamo. La semplicità è come una cerniera che copre tutto un mare di informazioni.
Silvia Sparro La fragile purezza
Il piccolo etereo cappuccio / poggiato sulla testa / modisteria fessibile / di un dio sagace / fn quando scivola via /un nulla alla volta / e il dramma del soffone / si estingue in uno stelo. Emily Dickinson
Marco Vitale Sgura (II)
Una spedizione rintracciabile nel passato, sono tornate alla mia memoria le sue mani: la pelle quasi trasparente intessuta di piccoli e ftti solchi opalescenti che non nascondevano le sue vene blu di Berlino all'immaginazione.
Sara Za La creazione
La donna simbolo di creazione che ruota in un cerchio virtuoso dal quale nascono, crescono e procreano; alla fne del cerchio la vita ci impone di essere fragili e leggeri.
Comunità Emmanuel Amedeo Antonio A. Esposito Cosimo Francesco Gennaro Gerardo Giuseppe Marcello Massimiliano Michele Narciso Paride Vladimir
Progetti: Lo specchio dell’anima - Eboli a cura dell’equipe psicopedagogica coordinatore Mimmo Porcelli Self Portrait Project - Lecce equipe psicopedagogica Tenda d’Abramo coordinatore e fotografa Laura Scalcione
Lo specchio dell’anima - Eboli
“(…) Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità” (Vittorino Andreoli)
È comune dire che “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Quando ci avviciniamo all’altro il nostro sguardo incontra i suoi occhi, forse nel tentativo di scrutare nel profondo del suo essere ma sempre più spesso gli sguardi sono superfciali, veloci e fugaci. Viviamo distratti e l'abitudine a “vedere” scivola nel superfciale guardare, si è disabituati a sentire l’altro, l’empatia, abbiamo sviluppato una capacità immediata al giudizio e della condanna . Dovremmo soffermarci a rifettere che dietro gli occhi dell'altro a volte c’è una storia, fatta di dolori, paure, sofferenze, delusioni, angosce e gioie. La stessa gamma di emozioni che ognuno di noi si ritrova a vivere lungo il percorso della propria esistenza, ma con la differenza, delle volte sostanziale, di essere solo meno fortunati. Quindi quando guardiamo gli occhi di Michele, Francesco, Gerardo, Vladimir, Narciso, Antonio, Cosimo o Giuseppe ritroviamo noi stessi, guardiamo vedendo oltre e più in profondità nella convinzione che a questo mondo siamo tutti fratelli e tutti prima o dopo durante la nostra vita avremo bisogno dell’altro.
Self Portrait Project – Lecce L’autoritratto fotografco delle emozioni
Queste immagini sono il prodotto fnale e la sintesi dei laboratori che ho avuto l’opportunità di svolgere assieme alle persone accolte in tre centri della Comunità Emmanuel, che ringrazio. Nei laboratori che ho proposto, i ragazzi hanno avuto modo di fotografarsi ed esprimere con il proprio corpo quelle emozioni bloccate, nascoste, diffcili da riconoscere in se stessi e da esprimere per mezzo delle parole. Ognuno ha potuto fotografarsi e ritrarsi in uno spazio “neutro” (in un set da me pre-impostato) seguendo alcune mie indicazioni guida per entrare più facilmente in contatto con le proprie emozioni. Successivamente alla sintesi e all’organizzazione guidata degli scatti realizzati, ognuno ha potuto commentare e rivedere, o talvolta scoprire, un po’ del proprio “sé nascosto”, dimostrando sincerità e coraggio. Le opere create esprimono e rappresentano l’essere umano in tutta la sua fragilità, ma al tempo stesso in tutta la sua grandezza e forza. L’utilizzo dell’autoscatto per ritrarre in fotografa se stessi può essere un’esperienza utile se fatta con l’intento di scavare nella propria interiorità, senza menzogne e aiuta a gettare via la maschera che spesso ci siamo costruiti come corazza. Questo tipo di fotografa può essere un’occasione di viaggio dentro di sé, nelle proprie emozioni per ottenere nuove informazioni che ci riguardano e trasformare i nostri punti deboli in punti di forza tramite un processo creativo e catartico.
Laura Scalcione
Andrea
Armando
Massimo
Nello
Pietro
Antonio Esposito L’arte è leggera e fragile ma ci riempie l’anima
Comunità Piccoli Passi
Antonella Emanuela Maristella e altri
Comunità Alloggio “Piccoli Passi” curati da Valeria Calò
Gli operatori in ambito psicosociale, non sono solo gli esperti della relazione o i “delegati” ad accompagnare i percorsi riabilitativi, ma anche, e soprattutto, persone “innamorate” della vita e del mistero che, come un chiaro-scuro, illumina e dà tono all'esistenza. L’esperienza appena vissuta nella Comunità Alloggio “Piccoli Passi”, ha signifcato mettere insieme i pezzi di una storia comune che si apre a nuove possibilità che sembravano negate e che, stranamente, ricevono nuovo impulso proprio da chi è stato archiviato come “senza fssa dimora” ed emarginato come straccio sporco. Quello che succede in questi casi lo sappiamo bene, ma è sempre una sorpresa scoprirsi “soggetti pensanti” e mani al lavoro per tirare, fuori da sé e dal gruppo, un briciolo di quella bellezza che, è vero, lo gridiamo insieme, salverà il mondo!!! La bellezza nascosta in un volto fuori dagli schemi estetici, in un cartone che fa da cornice o che diventa un veliero; un velo di bomboniera che, a mò di ventaglio, incornicia e dà leggerezza alle maschere di un mondo perfetto e stereotipato, ci ha divertito e ci ha fatto ritrovare, ancora una volta, “il bambino” che è ancora capace di sorridere mentre piange tra le lacrime.
Mariavaleria Calò
Questa pagina è dedicata a Stefania che dal buio è volata leggera verso la luce infnita
Stefania Brancaccio da molti anni ha chiuso gli occhi del corpo per aprirli al Mondo dei Viventi che ha incontrato nella lettura della Bibbia. Ho conosciuto Stefania nel mio servizio di volontaria responsabile del Settore Salute Mentale e disabilità della Comunità Emmanuel. La sua è una storia di dolore profondo, di abbandoni, di reazioni forti, di trasgressione e, alla fne, di resa incondizionata a chi ha incontrato ed amato come Gesù, l’amore incarnato del Padre, l’Uomo tradito e messo a morte come un delinquente, fratello di tutti gli appestati e rifutati dal potere. Così Stefania è guarita, ma mai placata... la sua ricerca è viva nei suoi schizzi, nel tratto deciso e pulito, nei chiaro-scuri, negli occhi e nello sguardo che interroga e pone ancora oggi domande...
Mariavaleria
In queste pagine ospitiamo il pensiero di realtà a cui riconosciamo sensibilità, passione, impegno e azione con una testimonianza sul concetto di fragilità e leggerezza.
ringraziamo: Comunità Emmanuel Ass. Consortium Iuris Ass. Le Cento Pagine Ass. Vitruvio Laura Madonna RETE TIAPP Maria Grazia Anglano
Un impegno che ha fatto della “fragilità” una “forza”… al servizio dell’uomo! Sono trentacinque anni che la Comunità Emmanuel è nata a Lecce tra le pietre e i monumenti, cogliendo la sfda di trasformare povere pietre in opere d’arte, povere vite umane rinsecchite, fredde, corrose, in vite restituite al loro vero volto, al nome proprio della loro identità originalità, al senso autentico della loro esistenza; tutto è partito dall’accoglienza e dalla condivisione di vita con la nascita della prima casa-famiglia nel 1980. L’ispirazione/motivazione/formazione/accompagnamento personale e comunitario è nell’aiuto a discernere, a fare unità/comunità, ad andare “oltre”, a muoversi ritornando alle sorgenti e proiettandosi verso il futuro, nella continuità e nella creatività, nella fede che si fa amore umile e servizievole e nei volontari diviene, di giorno in giorno, amante della vita, familiare della morte e pellegrino della speranza. Il nucleo fondamentale è l’accompagnamento personale e comunitario, dalla dipendenza alla libertà, dall’evasione alla realtà, dall’immaturità alla maturità. Il metodo di base è mettere vita con-vita con gli accolti, prolungando Cristo che mette vita-con-vita con noi (Emmanuel = Dio con noi) e prendendo come nostra via la via dell’amore incarnato nel servizio.
Quando qualcuno bussa alle nostre porte si comincia dall’ascolto, coinvolgendo la famiglia e i servizi territoriali. Se viene accettato il programma che proponiamo, si parte insieme per un cammino di liberazione, guarigione, maturazione, socializzazione e responsabilizzazione attraverso le tappe della preaccoglienza, accoglienza, esserterapia, responsabilità, prerientro e rientro/testimonianza. La durata media del cammino, ordinariamente, è di due anni, ma si cerca di personalizzare il programma anche per quanto riguarda i tempi. L’obiettivo è sempre quello di ritrovare se stessi, il senso e le vie della vita autentica. La Comunità sul piano dei servizi è organizzata in sei settori di intervento – Famiglia e Minori; Salute Mentale e Disabilità; Dipendenze; Amministrazione e Imprenditorialità; Migrazioni e Sud del Mondo; Diakonia – e tra i nuovi progetti ha avviato: un Centro Diurno per l’Alzheimer, un Emporio Solidale per famiglie indigenti; un “Pronto Soccorso sociale”, un “Condominio solidale”. Attraverso le tante esistenze ferite, spezzate e distrutte incontrate negli anni di servizio ai più poveri, la Comunità ha anche sperimentato che i mali della vita, anche quando sono mali fsici o sociali, hanno sempre per radice “mali dell’anima”, per la loro guarigione ha, perciò, sviluppato “percorsi dell’anima”, che ha tradotto in itinerari specifci e diversifcati, che hanno come luogo di riferimento l’Istituto di Salute e Medicina Spirituale “Ignazio di Loyola”-Centro “Le Sorgenti”, a Lecce, sulla via Lecce- Novoli 23-25. Il sogno è da sempre, e resta, quello di un mondo “diverso”, meno scandaloso, meno diviso e più condiviso; lo costruisce la “conversione del cuore”, una cultura alternativa di sobrietà e di solidarietà, diversi modelli di sviluppo e nuovi stili di vita.
Padre Mario Marafoti s.j.
«Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità» Vittorino Andreoli
La Comunità è stata un’avventura, un’avvincente storia umana e professionale cominciata all’inizio degli anni ‘80. La Comunità come fabbrica di emozioni da governare, la Comunità il luogo, la palestra dove poter sperimentare comportamenti e scoprire quali avevano, per me, per noi, più valore. Nei primi anni dell’epidemia dell’Aids non riuscivo ad abituarmi, ad assuefarmi a quel dolore, a quella sofferenza, e, come medico, alla frustrazione che provavo ogni volta che mi accostavo al letto di un malato morente. Poi ho lasciato posto alla possibilità di presentarmi nell’incontro con l’altro, libero da pretese, come medico dis-armato, senza mezzi, solo da uomo a uomo, vita a vita, vissuto a vissuto. Accogliere, farsi prossimo, domandarsi chi è l’altro di fronte a me, cercare di comprendere la sua visione, il suo modo di vedere e di stare nel mondo, leggere e sostenere la fatica di tante storie di sofferenza e di ferite mi ha fatto crescere nella competenza della relazione d’aiuto. A distanza di trent’anni rimane il ricordo di un percorso di conoscenza di un fenomeno complesso, quello del mondo delle dipendenze, sempre mutevole e in evoluzione, comprendere il fenomeno per quello che è, non per un sentito dire o attraverso letture di libri, ma direttamente, dalla vicinanza corpo a corpo, vissuto a vissuto, con esistenze di carne e di sangue. L’esperienza della vita comunitaria, vissuta in quel modo giorno-dopo-giorno, incontro-dopoincontro, è stata l’opportunità per misurarmi con i miei limiti, paure, certezze. L’altro di fronte a me è stato lo specchio prezioso che mi rimandava modi di fare, di comunicare, di pensare. Vincenzo Leone Medico delle Dipendenze - Comunità Emmanuel - Lecce
Tutti i bambini, a prescindere dall'età, dalla nazionalità, dal colore della pelle sono anime in divenire, diamanti grezzi in attesa di brillare. Sono individui, portatori essi stessi di diritti da rispettare. E, nel rispetto di quella natura primigenia e della semplicità del linguaggio che è tipico dei piccoli, mi piace ricordare questi diritti attraverso una poesia di Madre Teresa di Calcutta: “Chiedo un luogo sicuro dove posso giocare, chiedo un sorriso di chi sa amare, chiedo un papà che mi abbracci forte chiedo un bacio e una carezza di mamma. Io chiedo il diritto di essere bambino, di essere speranza di un mondo migliore. Chiedo di poter crescere come persona. Sarà che posso contare su di te? Chiedo una scuola dove posso imparare, chiedo il diritto di avere la mia famiglia, chiedo di poter vivere felice, chiedo la gioia che nasce dalla pace. Chiedo il diritto di avere un pane, chiedo una mano che m’indichi il cammino. Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso”. E nella semplicità di queste parole che è racchiuso quel richiamo al senso di responsabilità e di cura che vede nella famiglia la prima comunità chiamata ad accogliere, preservare e tutelare i piccoli. Purtroppo, di questo, spesso ci si dimentica, fnendo per calpestare quei fori in attesa di sbocciare. Non parlo dello strazio della guerra, dell'infamia della pedoflia, dove la brutalità umana trova la sua massima espressione. Parlo di situazioni contingenti, più vicine, ormai consuetudinarie in questo nostro mondo occidentale: parlo delle violazioni dei diritti che si perpetuano durante una separazione o divorzio nell'inconsapevolezza di chi dovrebbe accudire. La separazione provoca profondi cambiamenti nelle vite e nelle storie personali e, quando ci sono fgli, nelle storie familiari. Gli ex partner sono chiamati a garantire la continuità dell’esperienza di genitore e del rapporto con i fgli in una situazione che comporta il mantenere un legame ma, nel contempo, impone il distacco da una
persona e da una situazione di crisi. La presenza di fgli richiama alla situazione critica e alle scelte operate anche quando il desiderio è di allontanarsi. Un ruolo fondamentale potrebbe avere in questa fase un percorso di mediazione la quale si pone come possibile intervento per la riapertura dei canali comunicativi e l’elaborazione dei reali bisogni creando però uno spazio relazionale non facile: essa chiede ai genitori di parlare e di parlarsi spesso dopo anni di silenzio o di litigi. Chiede di sospendere il risentimento, il rancore, la rabbia per fare spazio dentro di sé ai bisogni e ai desideri dei fgli. La mediazione familiare offre, quindi, l’occasione di vivere autonomamente la propria paternità e maternità, riconoscendo il ruolo fondante dell’altro/altra nella cura e nell’educazione dei fgli. Solo nel momento in cui la coppia riuscirà a riaprire i canali di comunicazione, ad ascoltarsi, a rispettare i bisogni dell’altro e ad accettarlo per quello che è, solo allora si potranno stilare degli accordi duraturi nei quali coniugalità e genitorialità avranno riconosciuta la loro natura ontologica. Il confitto familiare nasce dall’incapacità delle parti di comunicarsi, di ascoltarsi. Ognuno reagisce a suo modo al dolore: silenzi, rabbia, rancore e rammarico avvelenano l’animo e alimentano l’odio e l’incomprensione. Purtroppo il contesto emozionale vissuto dalla coppia si ripercuote negativamente sui fgli i quali vivono la separazione soffrendo. E mi piace concludere nello spirito della leggerezza e universalità che è tipica della poesia, con una mia poesia dal titolo Lettera di un fglio, una lettera immaginaria di un fglio ai propri genitori affnché, deposte le armi del confitto, ritorni ad occuparsi di lui a donargli amore. “Caro padre, Cara madre, io sono qui. Aspetto quell’abbraccio mai arrivato, quel sorriso che un tempo riempiva le nostre vite. Aspetto e, nell’attesa, l’inverno sovrasta il tepore del sole. La tempesta vi allontana, ora, in balia delle onde che, di me, paion cancellar l’esistenza. Le mie parole … il mio silenzio si dissolvono, soffocate dal dolore delle vostre anime. Aspetto senza dire il tempo del perdono. E intanto sogno le dolci parole sussurrate, le parole che furono fragranza di primavera”. Alessandra Capone
Ginestre nel vento L’arte chiama a sorridere al mondo in un girotondo di emozioni e voci, porta lontano da questo vivere, distoglie l’attenzione dalla quotidianità, ma soprattutto abbatte, frantuma, sgretola ogni barriera mentale. Le donne che respirano arte si riconoscono tra mille perché portano sulle spalle il peso delle proprie scelte, la desolazione di ogni dito puntato contro, ma anche l’orgoglio della propria diversità. Sono belle, le donne che si nutrono di arte, splendono e abbagliano, intuiscono, scoprono, si ribellano e sanno che il peccato non è nascere donna: il peccato, è nascere donna con l’arte che nelle vene si mischia al sangue. In risposta alla paura, si sferrano attacchi fsici che lasciano segni sulla pelle, ma anche attacchi psicologici, subdole violenze che si consumano tra le mura di una casa o in pubblica piazza. La storia ci riporta un agghiacciante elenco di donne la cui mente è stata defnita “labile”, donne rinchiuse in manicomio, umiliate e torturate, nel tentativo di piegarle al comune desiderio di vederle casalinghe, amorevoli madri e mogli devote, senza sogni di gloria, condannate alla mediocrità. Non tutte si sono arrese, alcune hanno preferito la morte, altro hanno stoicamente resistito continuando a scrivere,
dipingere, ballare, suonare, hanno affrontato a viso aperto ogni ingiuria: si sono lasciate sommergere dal fango e hanno atteso in silenzio che giungesse il momento della rinascita, come ginestre tenaci e fessibili che vivono, esistono e resistono a dispetto del male. Ginestre che si lasciano accarezzare dal vento stagliandosi contro nuovi orizzonti, sono quelle che racconteremo nel corso dell’incontro che vedrà protagoniste dieci grandi donne e artiste che riveleranno con i loro versi tracce di vita autentica, ricordando tutte coloro che le hanno precedute, in un vorticoso valzer di emozioni scandite dalle note e dalla voce di un cantautore che renderà loro omaggio creando un connubio perfetto in risposta all’odio, alla paura e al dolore. Saranno le immagini, la musica e le parole a scrivere, nel corso della serata, il nostro invito ad essere libere, sovversive, ad urlare forte il diritto ad esserci a modo nostro, senza mai lasciarci condizionare da uno stereotipo che non ci appartiene.
Canto Remoto
Frammenti d’anima, appena sussurrati
Leggerezza: appello amoroso dell'ineffabile e del tremendo. Voce dell'illimitatezza che rovescia il senso di gravità. Salendo, salendo, sprofondo.
l’Anima sforano ed il notturno abbraccio l’improvvisa luce coglie di tepore diffusa, su inattese note sorprendi squarci di luna, frammenti d’anima oltre il buio e la luce carezzano i sensi respirano il cuore
Chiara Armillis
Enrico Romano
Nel Ventre dei Luoghi è un percorso antropologico che oscilla tra idea e suono, che individua nell'istante poetico interposto tra la fragilità e la leggerezza la necessità di ispezionare il momento di rottura del buio con la luce, della contrazione e della distensione dell'Anima attraverso l'esplorazione del liquido amniotico e dell'antica legge sonora dell'ospitalità femminile, per elaborare, attraverso l'immagine poetica, un nuovo pensiero etico, politico e architettonico dell'ospitalità che va oltre i concetti frammentati, distorti e bulimici di integrazione, inclusione, abbattimento degli stereotipi e delle diversità di genere della società multiculturale di oggi. Il percorso poetico rappresenta un cammino in verticale che tende e insiste nel voler scorticare l'Essenza verso l'idea di una rispettosa, pacifca, e consapevole vicinanza dell'individuo con sé stesso e con il mondo. La società ha urgenza di pensarsi come pacifca e leggera, ha bisogno di Ri-trovare l'ancoraggio del senso della Maternità che è nello Sguardo, rintracciare il principio femminile, tutto quanto racchiuso nei non-Luoghi della Poesia e della musica che, con la loro scientifcità e complessità, sono l'espressione della creatività, dell'imprevedibilità della vita e si propongono come trasformatori sia a livello sociale che individuale. Arte e Scienza dialogano per impostare una nuova cultura dell'ospitalità e degli spazi di condivisione di diritti e doveri tesi a concepire un'architettura interna ed esterna all'Uomo che renda possibile la compresenza e la coesistenza. delle molteplici diversità e l'incontro tra individui, per innestare una nuova cultura dell'ospitalità in grado di accogliere ogni corpo e ogni altra cultura recuperando le antiche immagini e atmosfere del Grembo materno che custodisce e nutre il bambino tenendolo distinto dall'Unicità della madre, garantendo il sacro principio della differenza e della dualità.
Chiara Armillis
Sono, queste, parole che riportano ad una condizione esistenziale che tutti indistintamente, consapevolmente o meno, accomuna da sempre. Sostantivi femminili dotati di molti sinonimi, compagni di avventura nelle trame del Tempo e dello Spazio, nelle soglie dei tanti attraversamenti del pensiero e dell’agire: tra cieli limpidi o minacciosi; terreni spinosi e impervi o verdeggianti e ricchi di promesse; tra approdi e naufragi verso quell’ ipotetica Itaca da cui, sempre, si riparte. La fragilità è in relazione con la materia, la leggerezza col pensiero. Distanti solo in apparenza ma gemelle…Basti pensare ai miti legati al volo, alle metamorfosi e, venendo ai giorni nostri, a quella sorta di “funambolismo” che ci mostra sospesi tra cielo e terra come contemporanei Icaro, gli sguardi ai voli delle specie alate che ci circondano. Sono gli uccelli che ci mostrano la possibilità di volare e l’impossibilità di sottrarci alla terra: per quanto le loro ali siano ampie e atte a percorrere lunghi spazi non possono prescindere dal ritorno alla terra! Il rapporto tra l’uomo e il volo è nei racconti iconografci, musicali e letterari di molta parte dell'arte di tutti i tempi: i silenzi del volo su una tela o in una scultura, la sua voce su un pentagramma o tra le righe di pagine di letteratura esprimono lirismo e tragicità: sono la sintesi della dualità umana!
Le Sette opere della Misericordia è uno stupefacente quadro del periodo napoletano di Caravaggio, pittore il cui fascino permane nel tempo perché ha mostrato, attraverso un linguaggio innovativo e trasgressivo,i chiaro-scuri dell’ interiorità. Un mondo tormentato, il suo, frequentato fondamentalmente dal Dubbio. Il territorio del Dubbio è, nell’opera in questione, abitato dalla necessità della Misericordia, del soccorso alla sofferenza umana. E sono tante le dialettiche di questa dimensione terrena: interagiscono con le necessità materiali e con le dinamiche sociali, etiche, umanitarie. La scena è sovrastata da un volo: gli sguardi tendono, dal basso, verso le angeliche presenze che mostrano la sfda al senso di gravità, la possibilità dell’ “oltre”. Volendo usare il linguaggio del Cristianesimo, la Speranza. E’, questa, una splendida metafora della Fragilità e della Leggerezza, poiché l’unico esito della fragilità umana che possa produrre leggerezza è nella possibilità di uno spazio “altro” rispetto a quello terreno e meramente materiale. In letteratura di Leggerezza hanno raccontato, tra le tante autrici femminili, Emily Dickinson, Etty Hillesum, Maria Zambrano. I loro sono stati sguardi che hanno varcato, di volta in volta, le soglie di una camera della casa paterna, di un campo di reclusione, dell’ esilio per cercare nell’“altrove” della Natura un antidoto alla solitudine, all’orrore, all’ingiustizia. Alla Fragiltà! Nell’oggi altre autrici, coraggiose testimoni di un’ “Alterità che ci Abita” alla ricerca di una metaforica Itaca, consegnano a pagine immacolate il sogno di un Tempo rispettoso dei Diritti, della Pace, del Futuro. Sono le autrici del Concorso Letterario Lingua Madre.
Laura Madonna
Un abbondante decennio di esperienze facendo, quasi esclusivamente, prevenzione delle dipendenze, ha consentito di maturare la convinzione che una tale attività non può essere esclusiva prerogativa di un singolo soggetto o di più soggetti, pubblici e privati, scollegati e indipendenti. Tale convincimento ha generato un sogno coltivato con entusiasmo, a volte fantasioso, frenetico ma subito contenuto, si è nel tempo chiarito, circostanziato, delineato, cominciando a mettere a fuoco una complessa mappa, nella quale si cercava di precisare, sistemare, ordinare idee certe e illusioni, percorsi possibili e agevoli ma anche quelli complessi e da costruire. Il sogno, ormai suffcientemente sviluppato, si concretizzò in un ideale progetto che, ottenuto il parere favorevole e di incoraggiamento, fu condiviso nel gruppo di lavoro costituito nel 4 novembre 2013. L’iniziale entusiasmo generò una puntuale ricerca di chiarezza e precisione, scandendo i lavori del gruppo, per un intero anno, mentre prendeva forma uno schema di accordo in cui sintetizzare mission, obiettivi, target, attività. Fu così che il 4 dicembre 2014 si costituì la Rete T.I.A.P.P. – Tutti Insieme Alla Pari per la Prevenzione con la prima frma del Accordo di Rete, arricchendosi con le successive frme dell’accordo il 4 marzo e il 31 agosto 2015; signifcando con ciò che è stata concepita e resta una Rete Aperta a tutti che, per esperienza e competenza, intendono condividere i contenuti dell’accordo e avviare la possibile sinergia.
Oggi la Rete T.I.A.P.P., dopo una naturale selezione, gode del prezioso contributo di soggetti pubblici e privati, impegnati a diventare sempre più Gruppo, sintonizzato in un “Noi” caratterizzato da una armonica eterogeneità, con l’obiettivo di una corretta informazione e sensibilizzazione, soprattutto delle giovani generazioni, promuovendo “salute” proponendo sani stili di vita.
Dino Pizzoleo
Tondo il tuo frutto come la Grande Madre terra. Varco e vuoto al nascere grido dell' esserci. Ed è femmina l'origine la x non recessiva dimenticata in te. Depositario anche tu del femminino sacro. Algebrico numero in dispari della tua specie. E in circolo tutto torna alla Grande Madre. La doppia incognita a indicare il moto leggero dell'aria nei campi di cielo e il saldo legame delle radici alle viscere della terra. - Leggerezza e fragilità Il peso che soccombe alla tara per essere corpo unico libero in purezza.
Maria Grazia Anglano
Associazione Socio Artistico Culturale “Le Ali di Pandora” Viale Giovanni Paolo II ang. Via Pistoia,1 Centro polifunzionale San Massimiliano Maria Kolbe - 73100 Lecce Tel. 0832.391862- 339.5607242 – e-mail: lealidipandora@libero.it http://www.facebook.com/leali.dipandora