Franco Manzitti
1893 • 2013
I Top Ten La storia di Genova
e del Tennis Club attraverso i suoi presidenti
1893-1895 1895-1908 1908-1913 1913-1939 1939-1976 1976-1980 1980-1983 1983-1986 1986-2008 2009-
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Nino Brocchi Pierino Negrotto Cambiaso Emilio Bocciardo Beppe Croce Angelo Costa Gian Vittorio Cauvin Gian Piero Mondini Aldo Mordiglia Giorgio Messina Rodolfo Lercari
l Tennis Club ha compiuto 120 anni e li vuole ricordare attraverso la storia dei dieci presidenti che lo hanno governato dal 1893 fino ad oggi. Venti anni dopo “Un set lungo cent'anni” arriva così “I Top Ten”, che sono appunto i dieci personaggi succedutisi in quel posto incantato che sono gli Orti Sauli, dove sorgono i campi e la sede del Tc. Non è una storia di solo tennis, anzi lo sport qui è raccontato poco, anche se è il motore del libro. Si parla di personaggi, di famiglie che li hanno espressi e si parla sopratutto di Genova, che attraverso di loro, spesso per merito loro, progredisce, si sviluppa, attraversa anche grandi difficoltà come le guerre e le grande crisi, ma rimane Superba. Almeno per come la si può raccontare attraverso le figure dei primi dieci presidenti. Non è un caso che in quel ruolo si siano schierati figure del calibro di Angelo Costa, Beppe Croce, Giorgio Messina per indicare un podio misurato sulla longevità delle loro presidenze. Neppure un caso che gli altri nomi siano stampati nella storia dell'economica, delle professioni, perfino dell'arte di questa città: dal meno conosciuto di tutti il commendator Nino Brocchi, a Piero Negrotto Cambiaso, a Emilio Bocciardo, a Gian Vittorio Cauvin, a Giampiero Mondini, a Aldo Mordiglia, fino al presidente di oggi Rodolfo Lercari.
Franco Manzitti
1893 • 2013
I Top Ten La storia di Genova
e del Tennis Club attraverso i suoi presidenti
TENNIS CLUB GENOVA 1893 - 2013
TENNIS CLUB GENOVA 1893 - 2013
I Top Ten La storia di Genova e del Tennis Club attraverso i suoi presidenti
CON IL PATROCINIO DI REGIONE LIGURIA
CON IL CONTRIBUTO DI
FOTOGRAFIE Archivio Tennis Club Archivi privati Ringraziamenti I contributi di tutte le famiglie dei nostri presidenti sono stati fondamentali per scrivere i capitoli del libro. Ma devo ringraziare anche molti soci, che mi hanno aiutato con i loro ricordi e concedendomi un po’ del loro tempo. Cito in ordine di ascolto: Tito Tasso, Romano Grondona, Andrea Volonteri, Gian Enrico, Pietro Romanengo, Santino Pesce. Un grazie particolare a Aldo Padovano, senza il quale non avrei trovato nulla sulla figura più
© 2013 Tennis Club Genova - © 2013 Essegraph ISBN 978-88-906975-5-5
RICERCHE STORICHE Daniele Boasi - Redazione Ansa Genova
antica, quella di Nino Brocchi, il primo presidente e Claudio Loreto, un altro storico locale, che mi ha concesso l’accesso ai suoi preziosi file nei quali c'erano tracce importanti proprio della storia più antica. Grazie anche a Anna Galleano della Camera di Commercio per averci fornito documenti economici importanti custoditi nell'archivio. Infine un ringraziamento particolare alla redazione regionale dell’Ansa che ci ha fornito i dispacci riferibili alle attività dei nostri Top Ten.
Presentazione rischiavano un immeritato oblio, ma significative direttamente indirettamente per il Club. Storie che ci hanno permesso di diventare quello che siamo oggi: un Club vitale, capace di testimoniare i valori sportivi con la pratica dei soci, degli allievi della scuola tennis e, last but not least, delle squadre agonistiche. Un circolo dotato di una prestigiosa sede, funzionale non solo ad ospitare la vita conviviale dei soci, ma anche coinvolgenti iniziative benefiche e la pratica del bridge agonistico, particolarmente cara a molti dei nostri presidenti. Già due volte i Soci mi hanno conferito l’onore di portare avanti il testimone di tale glorioso passato: questo libro aiuterà anche me a comprendere l’importanza del compito affidatomi e a indirizzare al meglio l’impegno che vi profondo, confidando di riuscire a consegnare all’undicesimo presidente un Club moderno e rivolto al futuro, ma al contempo consapevolmente fiero delle proprie tradizioni. Infine, un sentito ringraziamento a tutti coloro che, insieme con me, hanno voluto questo libro e ne hanno permesso la realizzazione ed in particolare a Franco.
n altro modo di raccontare i 120 anni del Tennis Club Genova 1893 è farlo attraverso la storia dei suoi dieci presidenti. Innanzi tutto colpisce il numero. Solo dieci presidenti si sono avvicendati in un così lungo lasso di tempo. Ciò dimostra il profondo coinvolgimento trasmesso da questo Club a chi è chiamato di volta in volta a rappresentarlo. Poi i personaggi, tra loro spesso diversi, ma tutti accomunati dalla profonda passione per il nostro sport e dal desiderio di diffonderlo e farlo amare nel e tramite il Club. Personaggi che hanno saputo autorevolmente rappresentare il Club in ambito sportivo, conferendogli prestigio e contribuendo a renderlo un punto di riferimento, non solo nel tennis. I nostri dieci presidenti sono, infatti, tutte figure molto importanti nella storia di Genova, della sua economia, del suo sviluppo economico e sociale. E non solo: hanno rappresentato in tempi diversi e in settori anche molto differenti del vivere civile il nostro Paese. Curiosando tra le pagine del libro e tra le sue belle foto riscoprirete così, attraverso i dieci presidenti, assieme a tante vicende a Voi note e care, anche storie che
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Ad multos annos! RODOLFO LERCARI
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I magnifici dieci campione italiano di Doppio, grande imprenditore ed anche grande civil servant di Genova negli anni della sua complicata trasformazione, Aldo Mordiglia, grande tennista e agonista e avvocato di livello internazionale, inventore di un ufficio legale che il mondo dello shipping ci ha invidiato a lungo, leader duro e puro del Circolo, giocatore indomito, Giampiero Mondini, uno dei capi e padroni della Erg, grande signore dello sport e diplomatico, baricentrico nella città e nelle sue vicende, Giorgio Messina, l’armatore di una grande famiglia che ha messo in mare una delle flotte del nostro riscatto, che ha sistemato il Tennis Club nel cuore della città per sempre e ha costruito le squadre agonistiche targate Tc di un prestigio che continua e cresce e ha riportato la Coppa Davis e i grandi campioni a giocare nella città ex capitale, Rodolfo Lercari, il presidente che ha incominciato da bambino la sua vita sulla terra rossa degli Orti Sauli e non ha mai smesso di giocare e di considerare quel posto casa sua, malgrado viaggi per l’Italia e il mondo a onorare e far crescere la professione dei suoi nonni di perito dei periti, non nel senso di giudice ma di chi misura i danni, di chi assiste il lavoro degli assicuratori, un altro mestiere affinato dai genovesi ed ora messo dalla famiglia Lercari in rete nel mondo. La storia dei Top Ten è, insieme, la storia di grandi famiglie e di una città che una volta si chiamava Superba e che nel corso di questi 120 anni ha mostrato molte volte di esserlo ancora. Oggi i tempi sono diversi e molto più difficili, ma riannodare il filo dei Top Ten, delle dieci famiglie e quindi del Tennis Club attraverso i suoi presidenti è anche rendere un atto d’omaggio a questa Genova e alla sua storia. Certo, è un modo molto diverso di raccontare un Centoventesimo compleanno di un Circolo dove si gioca a Tennis, a bridge e dove ci si intrattiene. Ma offre la possibilità non solo di rievocare dieci grandi figure
ià il numero è perfetto. Dieci. Dieci presidenti per 120 anni, per festeggiare un compleanno importante. E’ stato facile immaginare un titolo che mettesse insieme questi dieci personaggi che in 120 anni hanno presieduto il Tennis Club: Top Ten. Come vogliamo tradurlo, ispirandoci alla suprema gerarchia del tennis, a quella classifica dei migliori in assoluto che giocano sui campi di tutto il mondo e alla fine si sfidano tra di loro per stabilire chi è il meglio dei meglio, il Top dei Ten? I migliori di oggi sul campo dei tempi moderni e i migliori dei nostri 120 anni, che hanno contribuito a scrivere la storia. Appunto i top e come non pensare che non siano stati al Top Nino Brocchi, il pioniere-fondatore quasi sconosciuto e con una vita così difficile da ricostruire, Piero Negrotto Cambiaso, il conte che giocava a tennis con il monocolo, faceva la guerra e non una volta sola, ma dalle campagne d’Africa al conflitto del ‘15-’18, alle sorvolate aeree di Fiume, fino al ruolo di deputato e senatore del Regno d’Italia, Emilio Bocciardo l’artista pittore, industriale della Conceria in Val Bisagno che ha scritto con la sua famiglia una pagina della nostra storia di aziende e lavoro nel cuore profondo della città e che per eleganza innata non metteva sul mercato i suoi quadri dipinti al massimo livello, Beppe Croce, nonno di quello che tutti abbiamo conosciuto, forse uno dei più celebri genovesi del suo tempo per ruoli, presenza nella città, colui che fece costruire il primo campo da tennis a Genova, nel giardino della sua villa di Nervi e che fece spostare la sede della Fit a Genova per quindici anni, trasformandola nella capitale italiana dello sport dai gesti bianchi, Angelo Costa il presidente dei presidenti dal regno eterno, l’imprenditore che ha creato la costellazione della sua azienda Costa, il leader imprenditoriale della Ricostruzione, il “nume tutelare della città”, che governava gli Orti Sauli insieme a tutto il resto, Gian Vittorio Cauvin,
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tro la paralisi dei traffici e la rocciosità dei monopoli. E quella di Giampiero Mondini era già la città capace di sfruttare le occasioni dei Grandi Eventi che si sarebbero succeduti uno dietro l’altro, i Mondiali di calcio, poi l’attesissimo Cinquecentenario della Scoperta d’America, il 2004 della Capitale Europea della Cultura: una pioggia di miliardi e finanziamenti pubblici, destinati a cambiare faccia alla città. Lui, Mondini, presidente del Col, cioè del Comitato che aveva la responsabilità di gestire il Mundial genovese aveva maturato quell’esperienza, quella capacità non solo nei suoi ruoli di vertice alla Erg, ma gestendo il Tennis Club in quella triade di eredi al super regno di Angelo Costa. E che Genova è stata quella di Aldo Mordiglia? Certamente una città senza confini, considerato il mestiere del grande avvocato marittimista, abituato a navigare con le sue cause e con i suoi processi nel mondo intero, ma partendo dalla città che anche grazie a lui e ai professionisti della sua taglia è stata a lungo considerata la capitale dello shipping. Lo sarà ancora, potrà tornare ad esserlo? Quella che ha visto e conosciuto Mordiglia dal suo ruolo di presidente, il settimo dei Top Ten, era certamente di quel livello, che la si guardasse con i piedi piazzati sul campo 1, pronto a chiudere la sua micidiale volèe, che la si studiasse in uno dei grandi processi che capitavano sul suo tavolo o su quelli dei suoi collaboratori. Gli anni di Giorgio Messina, così decisivi per le sorti del Circolo, sono quasi i nostri e attraversano il tempo difficile della nostra era, nella quale non si parla più di trasformazione della città, ma di un’epoca nella quale tutto il destino della ex Superba sembra venir messo in discussione. E un grande armatore-presidente, protagonista con la flotta della sua famiglia di una rivitalizzazione del porto, finalmente uscito dal vecchio modello pubblico, ma non certo fuori dalle sue difficoltà, ha coinciso da presidente con queste muta-
che sono perfino proporzionate l’una rispetto all’altra, malgrado i tempi, i secoli e pure i millenni di distanza, ma di inserire il loro percorso di presidenti negli sviluppi di quella complessa storia cittadina. Quale era la Genova di Brocchi, Negrotto Cambiaso e Bocciardo, appena baciata dalla superfesta dei 400 anni dalla Scoperta d’America, cavalcante verso la sua potente industrializzazione? E come era quella di Beppe Croce, uno dei presidenti più longevi, che ha governato gli Orti Sauli fino al 1939, la vigilia della II Guerra Mondiale, mentre i Reali d’Italia e delle altre Nazioni arrivavano a Genova con la racchetta in mano e, entrando al Tennis, venivano accolti da quell’impeccabile signore, elegantissimo che li scortava sul campo? Angelo Costa un bel pezzo di storia di Genova l’ha scritta per sé, per la sua famiglia, per la sua città, per il suo Paese ed anche, ovviamente, per il Tennis Club. L’ha ricostruito dalle bombe, lo ha fatto crescere, lo ha scortato nei tempi moderni. GianVittorio Cauvin gli è succeduto con il pragmatismo di una nuova generazione, cosciente del grande cambiamento maturato dopo gli anni della Ricostruzione, del Boom economico, delle congiuntura e poi della inarrestabile trasformazione della città. Tempi “corti” per lui, come aveva deciso subito e come era inevitabile per chi voleva scegliere un impegno dentro alla città , rispettando la sua operatività nelle aziende di famiglia. Erano già tempi diversi da quelli di Costa e nessuno poteva avere la universale autorevolezza del presidente di Confindustria che con un borbottio in genovese risolveva da solo qualsiasi problema. La Genova coeva di Cauvin presidente era già quella dei conflitti portuali, della potente de industrializzazione, della ritirata Iri, di Roberto D’Alessandro presidente del Cap contro Paride Batini, console dei camalli della Culmv, della marcia dell’utenza portuale con6
zioni. E le ha osservate da una tolda - è il caso di chiamarla proprio così - di eccezionale visuale. Basta pensare alla primogenitura dei Messina che inventarono a Spezia l’autonomia funzionale delle banchine e poi la trasferirono a Genova... Nella storia dei Top Ten, delle loro famiglie, della loro epoca in senso “globale” c’è quello che siamo stati e diventati per 120 anni. È come se raccontare Brocchi, Negrotto Cambiaso, Bocciardo, Croce, Costa, Cauvin, Mondini, Mordiglia, Messina ed ora Lercari sia mettere su una scena un pezzo della nostra vita recente. L’angolo visuale potrebbe essere quello stretto degli Orti Sauli, dal campo 1 o dal 2 o magari dalle sale dove ci sono i tavoli pieni di bridgisti e fuori gli alberi del Parco Serra e il muro cieco della Salita della Provvidenza. Ma attenzione, perché quello spazio che si apre con i nomi dei presidenti diventa subito largo e abbraccia tutta la città. Con una preferenza alle visuali aperte alla sua economia, alle sue professioni, ma con una fama per ognuno dei Top Ten tanto larga da potervi includere tutto. O quasi. Come si conviene ai Magnifici Dieci. Una sola precisazione finale: i ritratti dei Top Ten non
potevano essere tutti uguali nelle proporzioni tra di loro e nel contenuto. Sono personaggi anche molto diversi, legati all’unico filo del tennis e della storia della città, del suo sviluppo. In ognuno di essi si trovano, quindi, diverse memorie a seconda di quanto è rimasto, della possibilità di trovare testimoni, eredi, “raccontatori”, amici e parenti disponibili. E nel racconto di ognuno di essi prevale una parte o l’altra della storia: o il ruolo di presidente, o la propria posizione nel mondo genovese o il carattere o gli avvenimenti che segnano la sua epoca. Non potevo avere la pretesa di scrivere una vera biografia completa. Non era questo il luogo, né l’occasione. Ho cercato di tracciare dieci ritratti, aiutato molto da Daniele Boasi, un giovane e brillante cronista genovese che mi ha assistito a trovare il materiale biografico e i curriculum di ognuno dei dieci, con grande diligenza e capacità. Ho fatto solo due eccezioni: per Giampiero Mondini e per Rodolfo Lercari, due grandi presidenti che hanno potuto raccontare con le parole loro l’avventura agli Orti Sauli, la passione del tennis e la storia della loro presidenza. Per loro, quindi, ci sono due belle conversazioni e non il ritratto, tracciato in modo definitivo per gli altri.
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il pioniere
Nino Brocchi Presidente dal 1893 al 1895
Remo, racchetta e pitture: la “partenza” del pioniere
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a quale Genova inglese era quella effervescente, elegante, perfino mondana nella quale arriva, chissà a bordo di quale treno o di quale nave, la magica scatola del maggiore Walter Copton Wingfield,“rimbalzata” da Bordighera, dove gli attrezzi primordiali del tennis avevano fatto la loro comparsa nel 1878? Quattro racchette, una rete, due pali e dodici palline. Era una città più bella di quella che riusciamo a immaginare, nella quale c'era un gruppo di giovani, atletici, sportivi, fantasiosi scatenati, espressi da un’alta società, assetata di novità, i quali nello spazio stretto di pochi anni importano, fondano e si inventano una raffica di sport appunto di origine anglosassone. Nino Brocchi, per l'esattezza Fernando Brocchi, che passerà alla storia per essere stato il primo presidente del Lawn Tennis degli Orti Sauli, il padre fondatore o se vogliamo il “primus inter pares” di quel gruppo che “svela” a Genova il tennis, Piero Negrotto Cambiaso, Emilio Bocciardo, Beppe Croce, è la sintesi perfetta di questa tendenza. Lui è il commendator Nino Brocchi, spesso citato an-
che come il Cavalier Brocchi, la cui unica immagine riconoscibile è quella stupenda foto che ritrae un gruppo di questi giovani fondatori, che passano con disinvoltura dal canottaggio, sport nato come salvamento degli incauti bagnanti di fine Ottocento e diventa poi, Società di salvamento, Canottieri Genovesi, Rowing Club e altro ancora sulla scia di schiuma di barche stupende. Tutti in marsina e cravatta, bombetta o paglietta, fieri, impettiti, eleganti. Brocchi il penultimo alla destra estrema della foto, leggermente rivolto verso l'interno di questa storica immagine. E ci credo che erano eleganti in quel fervore di feste, ricevimenti celebrazioni, nobili arrivi, che a Genova si tenevano e poi esplodevano nell'anno precedente il mitico 1892 del Quattrocentesimo Anniversario della Scoperta dell'America. 8
naggi passa sempre per Nino Brocchi, che abita a Nervi, che gioca a tennis a Villa Croce con Beppe Croce, con Emilio Bocciardo e con gli inglesi, con i quali studia lo sbarco agli Orti Sauli. Ma prima c'è il canottaggio, il salvamento che era stata la spinta per “inventarsi” lo sport remiero. Come nasce tutto questo? “Nel luglio dell'anno 1871 alcuni benemeriti cittadini -scrivono i giornali dell'epoca- preoccupati del continuo verificarsi di casi di annegamento, dovuti in gran parte all'imperizia dei bagnini... costituiscono una nuova società avente lo scopo di incoraggiare il salvataggio in mare, di premiare con medaglie e somme di denaro i salvatori, di diffondere a mezzo conferenze e lezioni popolari, i mezzi idonei a ridare la vita agli asfittici, combattendo il barbaro metodo in uso di capovolgere il naufrago, col rischio di accelerarne la morte...”. E non a caso alla Società, madre dei futuri canottieri venne dato il nome di Società ligure di Soccorso ai Sommersi. Il boom del canottaggio nasce lì e si propaga rapidamente attraverso gare, competizioni che si svolgono nel porto di Genova e richiamano gli equipaggi delle principali città marinare, con disfide che vedono migliaia di spettatori e inviti a personaggi più che illustri. Nel 1876 invitano perfino Giuseppe Garibaldi, già rifugiato a Caprera, che risponde: “Sarò con voi nel cuore e sempre. Vostro G. Garibaldi.” Ci sono bande musicali, associazioni aristocratiche e operaie ad assistere alle regate e arriva perfino il professore e poeta Giosuè Carducci... Ci sono più di ottomila spettatori stipati sulle tribune del porto. Ma l'aggancio stretto tra questo sport e il tennis, che sta per arrivare, diventa una vera e propria coniugazione nella figura di Nino Brocchi e nei colori dei suoi “Canottieri Genovesi”, il bianco e rosso, che sono la bandiera di Genova nei secoli, il vessillo che faceva tremare le flotte del mondo dai tempi in cui le ciurme
Era esattamente l'anno prima della fondazione del Tennis Club e il giovane Brocchi si era già ampiamente distinto nell'altro sport appena esploso, partecipando alla fondazione dei Canottieri genovesi nel 1875 e poi alla liquidazione della stressa società avvenuta, però, per fondarne una seconda. Fernando Brocchi appare negli atti del notaio Paolo Cassanello, nel magico maggio del 1899, quando quel gruppo genovese-inglese aveva già fondato il tennis, il canottaggio, lo Yacht club e qualcuno, lì vicino, aveva anche messo le fondamenta del Genoa Cricket and Football Club. Il primo presidente-fondatore non era solo un bon vivant che si poteva permettere di esperimentare le prime partite di tennis a Genova sul campo di villa Croce a Nervi, vero Lawn Tennis per il fondo d'erba, era anche un noto commerciante-imprenditore della città. Nato a Bastia da Carlo Brocchi, era titolare di una ditta che portava il suo nome F. Brocchi & C., che aveva come ragione sociale la produzione di vernici sottomarine, copali per opere di coperta e alberatura. Una ditta proiettata sul mare, sulle barche, sulle navi, che produceva anche verricelli a mano e a vapore della rinomata American Ship Widlass&Co, una azienda di Providence negli Stati Uniti d'America, evidentemente titolare del brevetto per quelle attrezzature che interessavano a tutto il comparto marittimo. Gli uffici della ditta del cavalier e poi commendator Nino Brocchi sono in un primo tempo a Piazza Fossatello 8 e in seguito in via delle Compere. Deve essere una attività fiorente, proiettata come è sul mare, che appare come una vera passione parallela a quella del tennis, la vera rivoluzione sportiva che piove a Genova e in Liguria e più in generale in Italia e in Europa in quel lungo fine secolo. In questa Genova così pimpante che ha digerito l'Unità d'Italia, l'“assoggettamento” ai Savoia, mai tanto ben accettato, il filo che lega tanti sport e tanti perso9
mo Cassanello, nel quale si documenta la liquidazione di un'altra ditta di proprietà di Brocchi. Avviene il 16 maggio 1905 che il nostro presidente, cavalier Ferdinando Brocchi, compaia davanti a Cassanello insieme ai suoi soci Carlo Maria Nevia fu Francesco e al conte senatore, Gerolamo Rossi Martini, per dichiarare sciolta “la società di fatto per le commissioni e il commercio e la lavorazione del legno ed altri rami di commercio, con sede in Genova, esistente dal settembre 1891 sotto la ditta F. Brocchi & C.“ Purtroppo gli atti che a noi interessano più da vicino e che riguardano la fondazione del Lawn Tennis agli Orti Sauli, nei quali la firma principale è quella di Brocchi, se li è portati via la micidiale alluvione dell'ottobre 1970 con il Bisagno che sommerse tutto fino a via XX Settembre. Ma quella fondazione è ben indirettamente documentata nella storia di una antica villa patrizia, la Sauli, della quale - come si scrive nel libro di Camillo Arcuri e Marco Francalanci,“Un set lungo cento anni” - gli antichi fasti sono ancora visibili attraverso la vecchia fontana dell' Alessi, sommersa dalla vegetazione e in altre vestigia, come la cripta recentemente “riscoperta” in fondo agli spogliatoi maschili del moderno Circolo. Il Lawn Tennis che Brocchi, con gli amici genovesi Pierino Negrotto Cambiaso, Emilio Bocciardo, Bepppe Croce senior e inglesi Willy Kirby, George Le Mesurier, Edelman, Buckley, inaugura, prende il posto del, vecchio sodalizio ciclistico “Lighting Cloub”, che aveva nelle fasce tra salita della Misericordia e il parco piste ciclabili sulle quali si esibivano velocipedisti, maschi e femmine, con cappelli di paglia e nastri, tanto per cambiare, bianchi e rossi. I padri fondatori, i pioneri, usano quegli stessi colori, sicuramente su suggerimento di Brocchi che li aveva scelti per i Canottieri. I campi sono quattro e avranno, come zona di riposo e ristoro, solo un chiosco di vetro neppure riscaldato d'inverno. Ma lì germogliava una
genovesi andavano all'assalto con la bandiera di san Giorgio, bianco e rosso, urlando “Arremba, San Zorzo” e si facevano pagare dagli inglesi i diritti anche per usare le insegne di San Giorgio che da sole incutevano terrore nei nemici. Eccolo lì che spunta nei secoli il legame con gli inglesi, che allora ci chiedevano aiuto e nei tempi di Nino Brocchi vengono a insegnarci il canottaggio con il console Brown e poi il tennis con la magica scatola del maggiore Walter Clopton Wingfield. Brocchi ricompare ai massimi livelli remieri in una grande regata a bordo di una lancia “Maria Pia”, nella quale il timoniere è C.Vilson e oltre a lui remano l'avvocato Vincenzo Poggi e Pietro Stanco. Abbigliamento bianco e rosso, bandiera bianca con lo stemma dei Canottieri in mezzo. In gara nove imbarcazioni e equipaggi di tutta Italia. Si salta così alla Grande Regata, quella delle Colombiane del 1892, al cuore della grande Esposizione Colombiana italo-americana, il vero Evento che schiera in questo sport tre consecutivi pomeriggi di regate e ben 107 equipaggi per 425 atleti. Chi organizza è il Rowing Club, fondato da Beppe Croce, futuro grande presidente degli Orti Sauli e ovviamente da Nino-Ferdinando Brocchi che l'anno dopo “battezzerà” con i suoi amici fedelissimi anche il Lawn Tennis. Bisognerebbe leggerla bene questa Regata Colombiana, che precede il“nostro 1893” e mobilita la città, compresa quella sportiva, con Eventi indimenticabili. L'esercizio serve a far capire come era la città in quella fase e dove si preparava la culla del tennis che Brocchi sta per far nascere. Ma Nino Brocchi, come abbiamo visto non era solo sport, ma anche affari, aziende, in quel crogiolo della città. Lo abbiamo scoperto non solo attraverso la sua ditta di Piazza Fossatello, ma ce lo confermano altri documenti che la Camera di Commercio conserva ancora nei suoi archivi, dove sono depositati gli atti di una operazione del notaio Gerola10
Presidente dal 1895 al 1908
Pierino Negrotto Cambiaso
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1599 Filippo II di Spagna nomina Cavaliere (Hidalgo) il capostipite Gio-Ambrogio Negrotto ordinando che tutti i suoi discendenti mantenessero il titolo nobiliare. Dei suoi eredi cinque vennero ascritti al Patriziato di Genova nel 1673. 1867 Nasce il 26 dicembre a Genova. 1876-1877 Suo padre il marchese Lazzaro Negrotto Cambiaso è sindaco di Genova. 1894 Partecipa al primo “Campionato Internazionale” di Lawn Tennis all’Expo 1894 di Milano. 1895-1908 E’ il secondo presidente del Tennis Club Genova. 1895-1896 Partecipa come ufficiale di cavalleria alla Guerra d’Abissinia. 1898 Fonda il Foot Ball Club Casteggio. 1905-1911 E’ sindaco di Arenzano (Genova). 1908-1909 E’ membro del comitato centrale della CRI, delegato generale del presidente della Croce Rossa Italiana nelle aree colpite dal Terremoto di Messina. 1909-1919 E’ deputato eletto nel collegio di Voghera. 1911-1912 Partecipa alla Guerra di Libia in qualità di Commissario generale delegato della Croce Rossa. 1915-1918 Partecipa alla Grande Guerra. 1919 Aderisce all’Impresa di Fiume. 1920 A bordo dello yacht “Grappa” fa rotta nell’Adriatico portando il tricolore sulle coste dalmate. 1923 E’ uno dei fondatori dell’associazione genovese “A Compagna”. 1924 E’ nominato senatore del Regno d’Italia. 1925 Muore a Roma il 20 febbraio, il Senato lo ricorda il 25 marzo 1925, la Camera il 9 marzo 1925.
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Presidenza. Aiuta in prima fila, in qualità di membro del comitato centrale della Croce Rossa, le popolazioni colpite dal Terremoto di Messina il 28 dicembre 1908, uno degli eventi più catastrofici del XX secolo: circa 100.000 morti. Allo scoppio della Guerra di Libia (1911-1912) parte in qualità di Commissario generale delegato della Croce Rossa al comando delle ambulanze e per le sue generosità viene insignito della Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Salute Pubblica. In Italia si unisce in matrimonio con la marchesa Matilde Giustiniani, di Arenzano. Matilde sposata in prime nozze con il marchese Giacomo Filippo Durazzo Pallavicini, non ha figli dal primo marito e neppure dal secondo. Nella Grande Guerra parte come capitano di cavalleria nella IV divisione. Passa dalla cavalleria ai mitraglieri, è promosso maggiore, entra nel corpo d’aviazione prendendo parte al bombardamento diurno di Pola, impresa che gli vale la Croce al Merito di Guerra e la Medaglia di Benemerenza dei Volontari di Guerra. Il 12 settembre 1919 aderisce all’Impresa di Fiume, 2.600 militari ribelli guidati da Gabriele D’Annunzio, che invadono la città contesa con il Regno di Jugoslavia e proclamano l’annessione al Regno d’Italia. Per protestare contro il Trattato di Rapallo, l’accordo del 1920 con cui Italia e Jugoslavia stabiliscono consensualmente i confini dei due Regni: Pierino arma lo yacht “Grappa”, fa rotta per una crociera nell’Adriatico portando così il tricolore sulle coste dalmate. Il 21 gennaio 1923 a Genova è uno dei fondatori de “A Compagna”, l’associazione storica e culturale genovese e ligure. Il 18 settembre 1924 è nominato senatore del Regno d’Italia nella XXVII legislatura, in carica dal 22 novembre dello stesso anno, ma pochi giorni dopo il suo giuramento, il 20 febbraio 1925, un acuto malore lo colpisce, muore a Roma a seguito di una brevissima malattia.
l marchese Pierino Negrotto Cambiaso, secondo presidente del Tennis Club Genova dal 1895 al 1908, è un protagonista della vita politica, economica e sociale dell’Italia dall’Unità nazionale all’inizio della dittatura fascista, capace di coltivare l’amore per il tennis mentre partecipa alla Guerra d’Abissinia, alla Guerra di Libia e alla Grande Guerra. È stato il primo campione di tennis al mondo, sempre in campo con un monocolo ben incastrato nell’occhio sinistro anche durante gli scambi più focosi, una lente correttiva che diventerà leggendaria. Nato a Genova il 26 dicembre 1867 Pier detto Pierino, figlio del marchese Lazzaro Negrotto Cambiaso e di Maria Teresa Pallavicino, appartiene all’antica famiglia patrizia genovese dei Negrotto Cambiaso. Suo padre Lazzaro è un senatore liberale e sindaco di Genova dal 1876 al 1877. Durante la primavera 1894 partecipa a Milano al primo “Campionato Internazionale” di Lawn Tennis nella sede delle Esposizioni Riunite, l’Expo 1894, e riesce ad arrivare alla finale del torneo contro il conte romano Gino De Martino. In una Genova che corre verso il ‘900, guidata per breve periodo anche da suo papà sindaco, Pierino cresce e consegue la Laurea di Giurisprudenza. Compie il servizio militare come ufficiale di cavalleria e partecipa alla Guerra d’Abissinia del 1895-1896. All’età di 28 anni combatte a Debra, Aila, e Aderà, meritandosi ad Adua, luogo simbolo della disfatta dell’esercito italiano, la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Rientrato in Italia si dedica al lavoro di industriale agricolo gestendo le terre di famiglia. Nel 1898 fonda il Foot Ball Club Casteggio 1898, squadra di calcio pavese che dopo alcune stagioni di alto livello (addirittura uno scontro con l’Inter) retrocede nelle serie minori. Dal 1905 al 1911 ricopre la carica di sindaco di Arenzano, comune costiero della provincia di Genova, dal 1909 al 1919 è deputato eletto nel collegio di Voghera e diventa Questore nell’Ufficio di
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Giocare con il monocolo
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ardito marinaio...” Lasciamo da parte la retorica agli albori del Ventennio fascista: quell’epitaffio lascia intendere, anche senza iperboli militaresche, quale pezzo di uomo fosse Pierino Negrotto Cambiaso, il secondo presidente dei nostri Top Ten, in carica dal 1895 fino al 1908, traghettatore fino alla presidenza di Emilio Bocciardo che avrebbe introdotto il lungo regno, per molti aspetti cruciale, di Beppe Croce. Nell’anno prima della sua nomina alla presidenza, durante la primavera del 1894, Negrotto Cambiaso partecipa a Milano al primo “Campionato Internazionale” di Lawn Tennis, nella sede delle Esposizioni riunite, l’Expo del 1894, uno dei primi eventi fieristici in grado di accogliere un grande pubblico internazionale. E riesce ad arrivare in finale, lui marchese, contro il conte romano Gino De Martino, in quel momento giocatore numero uno in Italia, praticamente imbattibile, ma araldicamente un gradino sotto il marchese di Genova. Alla fine vince il conte romano, ma si crea la leggenda di Pierino Negrotto Cambiaso, che è sceso in campo con il monocolo. Già lo sport non è molto conosciuto e quel nobiluomo che calca il campo elegante e raffinato, che riesce a colpire la palla con evoluzioni mai viste senza che la lente si stacchi dall’occhio, lascia il segno. Le ammiratrici di quell’impeccabile signore, che allora ha ventisette anni, si chiedono, sotto gli ombrellini e tra le velette delle loro raffinate toilettes, se quel monocolo sia un vezzo o se veramente, Pierino Negrotto Cambiaso, ne aveva bisogno per colpire bene la pallina bianca. Ma lui non molla, dopo quella sconfitta in finale si prende subito la rivincita per avere perso a Milano. E nel 1895 vince il primo torneo organizzato agli Orti Sauli, una vera prima per il Circolo di Genova, dove
esterà famoso per quel monocolo piantato nell’orbita dell’occhio sinistro, e un tocco di classe in più che risalta nei ritratti ufficiali, barba e baffi perfettamente curati, marsina scura, colletto duro, cravatta perfetta, sguardo fiero. Perfino il suo nome, la sua dinastia patrizia, una delle più illustri di Genova, quella dei Negrotto Cambiaso, moltiplicata nel censo, nell’eredità, nel peso storico dal matrimonio con la marchesa Matilde Giustiniani, sposata in prime nozze con un marchese, Giacomo Filippo Durazzo Pallavicini, lo staglierà sull’orizzonte genovese più di quel particolare del monocolo, reso celebre dal fatto che con quello lui giocava a tennis ai massimi livelli. Pierino Negrotto Cambiaso, il “secondo” presidente, ma uno dei padri fondatori del Lawn Tennis Genova, insieme al suo predecessore Nino Brocchi, al suo successore Emilio Bocciardo e al successore del successore Beppe Croce, e agli inglesi appassionati di quello sport nuovo e curioso, Willy Kirby, George Le Mesurier, Edemnann, Buckley, quel monocolo lo indossava, infatti, anche in campo, quando affrontava la partita, perfettamente vestito di bianco, al posto della cintura una striscia di seta bianca. E anche con quella, che poteva apparire una limitazione negli spostamenti, il secondo occhio di vetro, sopra quello probabilmente miope, lui vinceva le partite o combatteva fino all’ultima palla. Si può restare alla fine famosi per un monocolo, su un campo da tennis, per quanto ai tempi pionieristici di questo sport, quando per celebrare la grande figura di questo protagonista, il 25 marzo 1925, nell’aula di Palazzo Madama, il presidente del Senato del Regno d’Italia,Tommaso Tittoni ti ricorda con queste parole: “D’illustre famiglia patrizia, fervido, appassionato, combattente per l’italianità, per la grandezza e la prosperità della Patria adorata. Imprenditore agricolo, aviatore, mitragliere, coraggioso soldato, abile e 15
Pierino Negrotto Cambiaso Giocare con il monocolo
la Scoperta d’America, un Evento al quale la città ha partecipato con grandi trasformazioni. Lui, il marchese Negrotto Cambiaso, è il figlio di Lazzaro Negrotto Cambiaso, e di Maria Teresa Pallavicino. La sua famiglia è proprietaria di ville e terreni, dove lavorano centinaia e centinaia di uomini di servizio, contadini, fittavoli e braccianti. Ha proprietà non solo a Genova, ma ad Arenzano, Varazze, nel Basso Piemonte, in particolare nella zona di Voghera-Casteggio. Ha ville, tenute e grandi appezzamenti di una terra ricca, ben coltivata. Tanto per dare un’idea del patrimonio di questa famiglia: la Basilica di Santa Maria Assunta a Genova, la più grande chiesa della Liguria intera, in cima alla collina di Carignano, in origine chiesa gentilizia della famiglia Sauli, di cui Pierino era erede per parte di madre, ancora oggi fregiata dal titolo di parrocchia gentilizia, era dei marchesi Negrotto Cambiaso Giustiniani. E quando un suo discendente, indiretto, come il marchese Giacomo Cattaneo Adorno, figlio di una sua nipote, Carlotta Giustiniani Cattaneo Adorno, celebra i suoi sessanta anni, alla vigilia del centoventesimo compleanno del tennis Club, il concerto per celebrare quel compleanno si tiene in Carignano, nell’abbazia “di famiglia”. Un segno di come si trasmettono le eredità e i patrimoni nella Genova, che un tempo si poteva definire patrizia. Tra il 1876 e il 1877 il padre di Pierino, Lazzaro è senatore liberale e anche sindaco di Genova, dopo essere stato per ben sette volte presidente di Municipio, proprio quando, in piena Belle Époque c’è il grande risveglio della città. Sono gli anni nei quali il marchese Raffaele De Ferrari, diventato anche Duca di Galliera, grande finanziere e imprenditore di taglio europeo, nato a Genova, marito di Maria Brignole Sale, la mitica duchessa di Galliera, regala al Comune venti milioni di lire per costruire la nuova diga foranea, che farà grande il
La Chiesa di Carignano ai primi del 900
lui e Nino Brocchi, hanno “creato”, nel luogo in cui aveva sede una vecchia società di biciclette, il TC. È il primo vincitore che alza un trofeo sotto gli alberi del Parco Serra, a tre passi dalla Stazione Brignole. E contemporaneamente a quella vittoria “sacra” nella nostra storia, a soli 28 anni, diventa presidente, dopo Nino Brocchi. È un presidente-giocatore al massimo livello italiano. Un caso unico, sicuramente possibile solo a quei tempi. È uno che, monocolo o no, vince nella epoca pionieristica e nel cuore di un circolo che sta diventando un’isola felice, in mezzo alla città, che era una Genova pimpante, alla fine della Belle Epoque, pochi anni dopo il Quattrocentesimo Anniversario del16
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Panorama di Genova e del porto in una foto d’epoca
temente emergente, dei nuovi uomini d’affari attirati e lanciati in una città che ha un’importanza capitale nella neonata geografia italiana, dove si crea una mentalità cosmopolita. Come potrebbe essere diversamente? Dalle banchine genovesi si salpa per ogni angolo del globo sulle navi, sui bastimenti a vapore. È come se quel porto, fosse ciò che qualche decennio dopo diventerà l’aeroporto di New York: a Genova si comprano i biglietti per viaggiare in ogni direzione a Ovest, come verso Est, anche se le rotte più frequentate sono verso le Americhe, verso New York, capolinea principale delle ondate migratorie, ma anche metropoli alla quale non avventatamente Genova si paragona, nella sua architettura, nella sua trasformazione urbana che vedrà costruire i grattacieli, nei palazzi di via XX Settembre, nei ponti come quello Monumentale. Il nostro presidente, intanto, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Genova, ma ben presto gli impegni diventano molto diversi da quelli di studio, dello sport e della mondanità. Nel 1895, e per tutto il 1896, quindi dopo le prime partite a tennis con il monocolo, Negrotto Cambiaso parte per la guerra di Abissinia, la guerra sanguinosa tra il Regno d’Italia e l’Impero di Etiopia.
porto genovese nei decenni a venire e che ancora oggi gli garantisce traffici e primati, in attesa che qualcuno finanzi i nuovi moli e gli sbarramenti a mare di uno scalo, che oramai nel terzo Millennio guarda al gigantismo navale, sia delle grandi portacontainer, sia degli immensi bastimenti da crociera. Sono gli anni nei quali si insediano le prime grandi fabbriche e l’Ansaldo incomincia a costruire transatlantici nei Cantieri di Sestri Ponente. Oggi lo definiremmo un boom globale, perché in Europa in quegli anni si diffondono: l’illuminazione elettrica, le linee ferroviarie (grazie sempre al genovese De Ferrari, duca di Galliera), la radio, l’automobile, il cinema, i primi vaccini contro la tubercolosi. Insomma l’umanità progredisce e questo diffonde nel cuore dell’Europa una vera ondata di ottimismo, che coinvolge anche la cool Genova, ancora legata al suo passato, poco felice di essere finita sotto i Savoia, ma beneficiata dalla industrializzazione, che il conte Camillo Benso di Cavour vi sta impiantando. A Genova, nel piccolo ma non secondario mondo fatato degli Orti Sauli, c’è l’incantesimo del nuovo sport “bianco”, che provoca incontri tra quella aristocrazia rappresentata al diapason da personaggi come Negrotto Cambiaso e una borghesia prepoten17
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tornato dalla guerra d’Abissinia si butta nel lavoro industriale del settore agricolo, gestendo le estese terre di famiglia, in Liguria ma anche nel fertile Oltre Po pavese, usando le nuove macchine agricole, i nuovi sistemi di semina, sfruttando la modernità per migliorare la produzione. È un uomo talmente vivo e pieno di interessi che riesce a fondare una società di calcio, l’altro sport che sta esplodendo di popolarità, il Foot Ball Club Casteggio 1898, che giocherà anche ad alto livello (memorabile una partita con l’Ambrosiana Inter) prima di retrocedere nelle serie minori. A Codevilla, comune vicino a Voghera, costruisce a sue spese e in memoria di suo padre il Palazzo delle scuole comunali. E sarà proprio il collegio di Voghera che rappresenterà alla Camera dal 1909 fino al 1919 e all’incarico di Questore nell’ufficio di Presidenza. Giocatore, dirigente, militare decorato, grande e moderno agricoltore, Negrotto Cambiaso mica si ferma qua. Ama anche la vita pubblica e diventa un protagonista a tutti i livelli. Aveva incominciato assumendo la carica di sindaco di Arenzano, la cittadina ligure dove la sua famiglia possiede molta terra, che poi passando da un’eredità all’altra, finirà nel patrimonio dei Cattaneo Adorno. Ad Arenzano il marchese lascia segni importanti: la costruzione del grandioso Grand Hotel, i giardini, la passeggiata a mare, l’Ospedale Civile. Il ruolo di presidente del Lawn Tennis dura fino al 1908, quando gli subentrerà Emilio Bocciardo, il pit-
È un ufficiale di cavalleria e combatte a Debra, Ailòa, e Aderà, meritandosi anche una medaglia di Bronzo al Valor Militare nella catastrofe di Adua, la sanguinosa sconfitta, “per l’eroismo dimostrato nel riuscire con un pugno di eroi a farsi largo e compiere una missione che gli aveva affidato il suo generale”, come recita la motivazione della onorificenza. È un eclettico, un coraggioso il marchese tennista: 18
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Genova: particolare del Palazzo Cattaneo Adorno
strofi dove mostra la sua generosità, nelle guerre dove combatte, nel governo della cosa pubblica, dove partecipa, nella politica vera e propria dove sarà chiamato a fare il deputato e poi il senatore del Regno d’Italia. Quando scoppia la guerra di Libia nel 1911 parte in qualità di commissario generale delegato della Croce Rossa, al comando delle ambulanze e si merita, dopo i campi di battaglia abissini, anche una medaglia d’oro ai Benemeriti della Salute Pubblica. Si sposa con Matilde Giustiniani, futura zia, appunto, della già ricordata Carlotta Giustiniani, sposata Cattaneo Adorno, colei che venne considerata l’“ultima regina di Genova”, madre dei gemelli Giacomo e Marcello Cattaneo Adorno, tutt’ora alla ribalta sui diversi orizzonti, che i grandi patrimoni confluiti nella loro famiglia e le loro iniziative più moderne di intrapresa economica hanno disegnato per loro, non solo a Genova, Arenzano, in Liguria, in Piemonte, ma anche in Spagna e in Brasile.
tore-artista-tennista-industriale, che già faceva parte del nucleo storico di fondatori. Negrotto Cambiaso non molla quel monocolo, nel senso che la sua determinazione, fotografata nel particolare della lente incastrata nell’orbita oculare anche durante le partite accanite sull’erba dei campi privati o sulla terra battuta degli Orti Sauli, è come un marchio del suo carattere. Si mette a disposizione personalmente e con i suoi mezzi ingenti per aiutare le popolazioni di Reggio Calabria e di Messina, travolte dal terremoto catastrofico del 28 dicembre 1908, una delle sciagure naturali più terribili che mai abbiano colpito l’Europa con 100 mila morti. Negrotto Cambiaso è in prima fila, come membro del comitato centrale della Croce Rossa Italiana: ispeziona, controlla i campi dove confluiscono gli aiuti, vive tra i terremotati di una specie di apocalisse. Non perde un colpo di quegli anni iniziali di un secolo che sarà così denso di avvenimenti. Nelle cata-
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Jugoslavia e proclamarne l’annessione al Regno d’Italia? Lui, il marchese di Genova Negrotto Cambiaso, che annuncia il suo impegno “per l’Adriatico”. Come se prima non si fosse impegnato. E poi la ribellione non si ferma: per protestare contro il Trattato di Rapallo con cui l’Italia e la Jugoslavia stabiliscono nel 1920 i confini consensualmente decisi dai due regni, Pierino arma lo yacht “Grappa” e fa rotta per l’Adriatico con lo scopo di sventolare il Tricolore sulle coste dalmate, per tenere viva l’italianità di quelle popolazioni. Non si dimentica di Genova, anzi. Nel 1923 è uno dei fondatori de “A Compagna”, la storica associazione culturale genovese che conserva i valori e i principi di Genova e della Liguria e che è ancora ben in vita nei tempi moderni. Lo nominano console di quella “Compagna”, richiamando con quel titolo, la grandezza della Repubblica, di cui Negrotto Cambiaso sembra veramente un erede. Nel 1924 è nominato senatore del Regno d’Italia, dopo essere stato per oltre dieci anni, deputato, ma il destino è in agguato e, pochi giorni dopo il giuramento, un malore lo stronca. Morirà a soli 57 anni, dopo una brevissima malattia, nel febbraio del 1925. Il tributo del Senato e della Camera sono quelli che può meritare un grande patriota, quello che la retorica del Regime nascente può definire un “grande italiano”. Negli annali del Comune di Genova la sua effigie fotografica, senza il leggendario monocolo, il pizzo bianco sormonta un epitaffio che riassume le sue imprese di “uomo generoso, dalla fibra generosa e fiera, di soldato e di gentiluomo.”
Quando la regina Elisabetta d’Inghilterra verrà in visita a Genova, nell’autunno del 1980, chiederà di visitare in via Balbi il palazzo dei Cattaneo Adorno e la mitica quadreria ivi custodita, facendosi ricevere dalla marchesa Carlotta Giustiniani Cattaneo Adorno, nipote del nostro presidente- giocatore. Ma Matilde Giustiniani, diventata con quel matrimonio Negrotto Cambiaso, dopo avere sposato in prime nozze un altro nobile marchese Giacomo Filippo Durazzo Pallavicini, come non aveva avuto figli da quella prima unione così non ne ha dalla seconda. E, quindi, Pierino Negrotto Cambiaso non ha eredi diretti. Scoppia la Prima Guerra Mondiale e il marchese che gioca a tennis con il monocolo non è certo uno che si sottrae: parte, primo tra i primi, come capitano di cavalleria nella IV Divisione, poi viene schierato nella I e nella II Armata, diventa prima mitragliere, con il grado di maggiore, e poi entra nel Corpo dell’Aviazione. La sua vita bellica nella cosiddetta Grande Guerra, sembra un romanzo: prende parte al bombardamento diurno di Pola, una impresa che gli vale la Croce al Merito di Guerra e la Medaglia di benemerenza dei Volontari di Guerra. E chi c’è il 12 settembre del 1919, al seguito dei ribelli guidati da Gabriele D’Annunzio, i 2.600 che invadono Fiume per strapparla al Regno di
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Palazzo Madama, 25 marzo 1925 Intervento del presidente del Senato del Regno d’Italia Tommaso Tittoni in ricordo del marchese Pierino Negrotto Cambiaso, Senato del Regno, Atti parlamentari: Discussioni, Onorevoli Colleghi, Il 20 febbraio, dopo brevissima malattia, moriva in Roma il marchese Pierino Negrotto Cambiaso. Nato in Genova il 26 dicembre 1867, d’illustre famiglia patrizia, dotato di fervida intelligenza e di spirito aperto a tutte le più nobili ed elette manifestazioni della vita, non si chiuse nell’adorazione del passato e nello sterile orgoglio di casta, ma conscio dei nuovi doveri che il bene della Nazione impone, seguendo l’esempio preclaro del padre marchese Lazzaro, che fu anche membro di questa Assemblea, seppe unire ad uno sconfinato amore della Patria, spinto fino al sacrifizio, aspirazioni vivissime e operose pel progresso sociale e pel bene del popolo. Conseguito il dottorato in giurisprudenza nel patrio Ateneo, prestò poi servizio quale ufficiale di cavalleria. Nell’imminenza dell’infausta guerra italo-abissina, nel febbraio 1895, egli, ch’era in congedo, chiese d’essere richiamato in servizio, senza assegni, nelle truppe coloniali e fu destinato allo squadrone di cavalleria Cheren. Nell’ottobre di quell’anno prese parte alla spedizione di Antalo, quale ufficiale d’ordinanza del maggior generale Arimondi, e fece tutta la campagna, partecipando alla sciagurata battaglia di Adua, ove, travolto anch’egli dalle orde scioane, riuscì con un pugno di eroi a farsi largo per compiere una missione che gli aveva affidato il suo generale. Per l’eroismo allora dimostrato, ebbe la medaglia di bronzo al valor militare. Reduce dal triste episodio si dedicò con fervore all’agricoltura, portando nelle sue vaste terre i mezzi più moderni e progrediti. Il collegio di Voghera nel 1909 lo volle suo rappresentante politico per la XXIII Legislatura e gli riconfermò il mandato anche per la XXIV, fino al 1919. Alla Camera si fece notare per i discorsi pregevoli pronunziati in varie occasioni e fu anche questore nell’Ufficio di Presidenza. Ma, pur durante la sua deputazione, ebbe modo di mostrare il suo patriottismo e il suo spirito ardimentoso allorquando, scoppiata la guerra Libica, volle nuovamente partire quale Commissario delegato della Croce Rossa, al comando delle ambulanze, dando prova di una alacrità infaticabile e di uno sprezzo temerario del pericolo. Anche nell’ultima grande guerra, fervido interventista della vigilia, prima ancora che l’Italia scendesse in campo, volle tornare sotto le armi, quale capitano del Piemonte Reale cavalleria, e fu aviatore e mitragliere, conseguendo la promozione a maggiore e la croce al merito di guerra. Dopo l’armistizio, fu apostolo fervente d’italianità, onde la città di Zara ha preso viva parte al lutto che ci ha colpito. Da pochi mesi soltanto, dal 18 settembre scorso, egli era fra noi, ma già godeva le vivissime simpatie di noi tutti e la sua balda, tipica immagine di cavaliere senza macchia e senza paura resterà a lungo nei nostri cuori. Pierino Negrotto Cambiaso è stato sovratutto un fervido, appassionato, devoto combattente per l’italianità, per la grandezza e la prosperità della Patria adorata. Un triste destino ha voluto troncare, ancor nel pieno vigore, la sua nobile vita, quando ancora avrebbe potuto dare alla Patria tanta utile operosità. Mandiamo un mesto affettuoso saluto alla sua memoria e alla illustre famiglia ed alla nobile città di Genova i sensi del nostro dolore più vivo.
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Presidente dal 1908 al 1913
Emilio Bocciardo
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1861 Suo padre Sebastiano a Genova fonda la conceria Bocciardo. 1869 Nasce a Genova. 1875-1885 (circa) Compie gli studi artistici a Venezia e si perfeziona all’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova. 1890 (circa) E’ direttore amministrativo della conceria Bocciardo. 1898 e 1900 Suo fratello Giovanni, mezzala sinistra, vince due scudetti del Campionato di calcio italiano con la maglia del Genoa. 1902-1904 Insieme alla moglie Alice Bauer (1873-1958) erige una tomba monumentale di famiglia nell’area dei protestanti del cimitero di Staglieno per la morte improvvisa del fratello Hermann Bauer, fondatore della Federazione Italiana Football, presidente del Genoa nel 1897, erede di una famiglia di imprenditori di origine svizzera attivi nel settore del carbone. 1903 Nasce suo figlio Roberto, campione universitario del tennis mondiale nel 1928 e vincitore della Coppa Davis. 1908-1913 E’ il terzo presidente del Tennis Club Genova. 1910 Partecipa a Firenze alla fondazione della Federazione italiana tennis. 1921-1931 Suo fratello Arturo è presidente dell’Ilva. 1929 Espone i suoi quadri in una personale alla Galleria Valle di Genova. 1936 E’ nominato Accademico di Merito dell’Accademia Ligustica nella categoria pittura. 1938 Espone i suoi quadri in una mostra alla Galleria di Palazzo Rosso a Genova. 1939 Muore allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
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lazzo di piazza Manin e dalle ville di famiglia a Niasca, nella baia di Paraggi, o dalla casa di Torre Pellice, vicino a Pinerolo. Tra il 1902 e il 1904 Emilio Bocciardo e sua moglie Alice Bauer (1873-1958) erigono una tomba monumentale di famiglia nell’area dei protestanti del cimitero di Staglieno per la morte improvvisa del fratello Hermann Bauer (Genova, 20 marzo 1876- Genova, 24 novembre 1901), calciatore, imprenditore, dirigente sportivo italiano, fondatore della Federazione Italiana Football, presidente del Genoa nel 1897, sotto la cui guida la squadra vinse il primo campionato di calcio italiano disputato, erede di una famiglia di imprenditori di origine svizzera attivi nel campo del carbone. Il monumento funebre accoglierà presto le spoglie del loro secondo figlio Andrea Bocciardo scomparso prematuramente nel 1906 a nemmeno un anno d’età. L’artista scelto dalle famiglie Bauer e Bocciardo per la realizzazione del monumento è il noto scultore Leonardo Bistolfi, importsnte esponente del simbolismo italiano. Il 18 maggio 1910 a Firenze partecipa alla fondazione della Federazione italiana tennis, il Tennis Club Genova, nel 1910 è uno dei primi 26 circoli affiliati alla federazione italiana nata per promuovere e organizzare il tennis in Italia. Il figlio di Emilio Bocciardo, Roberto detto Roby (19031984), è campione universitario del tennis mondiale nel 1928 e gioca in Coppa Davis. Artista, imprenditore, tennista, con un figlio campione della racchetta a livello internazionale, a Emilio Bocciardo nel 1929 viene dedicata una mostra personale alla Galleria Valle di Genova. Il suo valore artistico è testimoniato dalla nomina di Accademico di Merito dell’Accademia Ligustica, nella categoria pittura, riconoscimento ottenuto nel 1936, e dalla mostra che gli dedica la Galleria di Palazzo Rosso nel 1938. Muore nel 1939 allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
rtista ligure e imprenditore a livello nazionale tra Otto e Novecento, appartenente a una facoltosa famiglia Emilio Bocciardo è il terzo presidente del Tennis Club Genova dal 1908 al 1913, pochi anni prima che suo figlio Roberto negli anni ‘20 diventi un tennista di fama mondiale. Nato a Genova nel 1869, è il secondogenito di Sebastiano Bocciardo, fondatore dell’omonima conceria in Val Bisagno, e di Elisa Beker, il secondo di quattro figli maschi destinati ad avere successo in diversi ambiti, preceduto da Ettore, seguito da Arturo nel 1876 e da Giovanni nel 1877. Il più giovane dei fratelli Bocciardo, Giovanni, diventa uno dei primi calciatori del Genoa Cricket and Football Club 1893, mezzala sinistra, con i rossoblu vince due scudetti del Campionato di calcio italiano. Arturo Bocciardo diventa amministratore delegato della San Giorgio, amministratore delegato della società Terni, presidente dell’Ilva, senatore e presidente della Finsider. La conceria Bocciardo nasce nel 1861 a Genova grazie all’impegno di Sebastiano si trasforma in breve tempo da ditta ad azienda di livello industriale, divenuta, successivamente, una delle principali industrie italiane del settore, leader nella lavorazione del cuoio. Sul finire dell’Ottocento Emilio si trasferisce per alcuni anni da Genova a Venezia per compiere gli studi artistici, torna nella città natale, si perfeziona all’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova, assumendo nel contempo la carica di direttore amministrativo della conceria Bocciardo. Si appassiona alla pittura, concentrandosi in particolare sui paesaggi della Liguria, i suoi soggetti sono il Mar Ligure, i pescatori, la flora mediterranea, le spiagge e le scogliere. I suoi quadri si ispirano ai luoghi dove trascorre i momenti di riposo evadendo dalle responsabilità dell’industria. Fotografa con il pennello i panorami di Genova osservati dalle finestre del pa-
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Bocciardo, l’industria nella città
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che lavori le pelli, il cuoio: c’è l’acqua del fiume, se così lo possiamo chiamare, vicino alla sua Foce, c’è il vento che serve e asciugare ed essiccare, c’è vicino il porto, dove attraccano le navi che trasportano le pelli prevalentemente dal Sud America, dall’Argentina e dal Brasile, ma poi anche dagli altri paesi che “producono” la materia prima dalle loro sconfinate mandrie di bestiame. La materia prima, appunto, della conceria Bocciardo e delle altre fabbriche di quel settore che attecchiscono in una città lanciata da Cavour verso una potente industrializzazione, più radicata nel Ponente genovese dove scintillano i cantieri navali e dove sorgeranno i grandi stabilimenti siderurgici e degli altri settori manifatturieri. Stabilimenti che cambieranno il volto alla Superba e troveranno spazio anche nel resto del territorio cittadino: Genova sarebbe stata paragonata presto alle altre capitali industriali dell’Europa e del mondo occidentale. A torto o a ragione. È in questo fermento che scatta la scintilla del vero imprenditore per Sebastiano Bocciardo, figlio di una famiglia di radice genovese, forse con qualche ascendenza in Corsica, in un anno fatale per Genova e l’Italia, appunto il 1861 dell’Unità conquistata da casa Savoia. Che quella dei Bocciardo sia una vera dinastia di grande spicco non solo a Genova lo dimostra subito la progenie dello stesso Sebastiano, che ha approfittato dei suoi studi e dei suoi viaggi in Inghilterra per importare i macchinari e i metodi della lavorazione del cuoio con l’obiettivo di impiantarli nel sistema genovese, che elenca già almeno una dozzina di concerie in Valbisagno ed altre nella zona di Borzoli e a Varazze. Sebastiano ha le idee chiare su come devono crescere i suoi figli: Ettore viene spedito a studiare al Politecnico di Dresda, Arturo al Politecnico di Torino, Giovanni in Svizzera, Emilio, il nostro futuro presi-
n pittore, un artista, un imprenditore, un pioniere-tennista che nasce all’ombra di una grande fabbrica nel cuore della città a neppure un chilometro dagli Orti Sauli. Il terzo presidente di quello che allora si chiamava Lawn Tennis è un Bocciardo e questo cognome significava già molto nel momento in cui Emilio, nel ruggente anno 1908, prende le redini del Circolo, dopo Nino Brocchi e dopo Piero Negrotto Cambiaso. E significherà molto per tanti anni ancora nella storia industriale della città e dell’Italia, almeno fino alla fine del XX secolo. Bocciardo vuole dire quella grande Conceria sulla riva del Bisagno, nella zona di Ponte Monticelli, una grande fabbrica dietro la Stazione ferroviaria di Brignole, tra la rive gauche e la rive droite del fiume-torrente, che impiegava più di duemila operai, fino al compimento del suo centenario, esattamente nel 1961, e che resterà una realtà produttiva molto importante nel settore della lavorazione delle pelli, in una posizione chiave nella storia dell’industria genovese e strategica nella Val Bisagno e non solo. Emilio Bocciardo era figlio di Sebastiano, il fondatore della conceria, fratello di Ettore, di Arturo, di Giovanni. Tutti personaggi di grande rilievo con singole storie eccezionali non solo nelle vicende imprenditoriali della loro potente famiglia, ma anche in altri campi della società civile dell’epoca. L’incrocio con il tennis di Emilio Bocciardo è facile e quasi istintivo in quel mondo borghese e di ampie frequentazione che è il germoglio di ogni nuova iniziativa: da quelle imprenditoriali, appunto a quelle dei nuovi sport, delle nuove mode, oggi diremmo delle tendenze che agitano una Genova avviata a una potente industrializzazione, con nelle vele il vento forte del suo porto. Genova, la Val Bisagno, il fondo della stessa Val Bisagno, sono il luogo ideale per piazzare una industria 27
Emilio Bocciardo, l’industria nella città
Coppa del Re, ma all’inizio del secolo abbandona l’attività calcistica e, ovviamente, torna in Conceria, qualche centinaio di metri sotto il luogo dove sorgerà lo stadio che diventerà il tempio della sua squadra. Un grande manager, un grande calciatore, ed Ettore, capofamiglia solidamente impegnato nella Bocciardo, in questo quadro che fa Emilio, il nostro terzo presidente? Il terzo, ma probabilmente il primo che fa uscire il Tennis Club dalla vera e propria era “pionieristica”. Non ha una vocazione imprenditoriale, preferisce l’arte e la pittura e la sua famiglia può permetterselo e lo manda a perfezionarsi a Venezia, ma senza mai abbandonare l’azienda di famiglia, di cui diventerà direttore amministrativo. Come artista Emilio si afferma nel ruolo di autore di paesaggi liguri, predilige il mar Ligure, i pescatori, le spiagge, le scogliere. Ha successo, indipendentemente dalla forza della sua famiglia, ma potrebbe averne molto di più. Germano Beringheli, “storico” critico d’arte che scrive ancora oggi su “Il Lavoro” e su “Il Secolo XIX”, ne traccia questo ritratto nel Dizionario degli Artisti genovesi: “Autore di paesaggi e marine esposte alle mostre della società genovese promotrice di Belle Arti dal 1897. La sua pittura riprende alcune delle maggiori lezioni del Novecento, ispirandosi in particolare ai paesaggi marini di Antonio Discovolo. Inoltre gli effetti paesaggistici dipinti di Torre Pelice, molto debbono alla coeva scuola piemontese”. Emilio Bocciardo è un pittore che non dista molto dai celebri Rubaldo e Domenico Merello. Certe sue opere come “Pini a Portofino” o “Uscio a Portofino” sembrano quasi un omaggio proprio ai Merello. Il fatto di non volersi mettere “sul mercato” probabilmente è la ragione della sua notorietà limitata, ma che non gli impedisce di entrare con tutti gli onori all’Accademia Ligustica. Bocciardo è veramente poliedrico e d’altra parte
Genoa Cricket and Football club - 1900
dente, che dimostra un profilo da artista fino dalla giovane età, all’Accademia di Venezia. Non c’è nessuno dei fratelli che non si faccia strada e non abbia successo vero nelle attività che svolge. Arturo avrà incarichi di grandissimo rilievo: amministratore delegato della San Giorgio dal 1907 al 1917, una delle più importanti aziende genovesi, direttore del servizio materiali Metallici del Ministero della Guerra nel 1918, direttore della Società Ligure dei proiettili tra il 1917 e lo stesso 1918, amministratore delegato della società Ilva dal 1921 al 1931, membro del Consiglio Superiore dell’Economia nazionale tre il 1926 e il 1928, senatore nel 1933, Cavaliere del Lavoro nel 1937 e poi presidente della Finanziaria dell’Iri. Un curriculum imparagonabile anche a quello dei più potenti e rampanti manager del Dopoguerra, sia della Prima che della Seconda Repubblica e una carriera che, comunque, imponeva sulla scena nazionale un genovese. Giovanni su un versante completamente diverso diventerà un calciatore vero e giocherà nell’appena nato Genoa Cricket and Football Club, nel ruolo di mezz’ala sinistra. Vince due scudetti nel 1898 e nel 1900, gioca anche in 28
Emilio Bocciardo, l’industria nella città
quelli sono anni nei quali la città è tutta un fermento, di trasformazioni e rilanci. Incominciano proprio nel 1892 i lavori per costruire via XX Settembre, dove sorgeranno i palazzi del più enfatico stile Liberty, il Ponte Monumentale, il Mercato Orientale, infine il palazzo della Borsa. È una città che pulsa nel suo cuore vivo e che nei quartieri di Ponente incomincia un apparentemente inarrestabile processo d’industrializzazione che farà chiamare Sampierdarena la “Manchester d’Italia”. Grazie alla super donazione del Duca di Galliera, Raffaele De Ferrari, si ristruttura tutto il porto. E quindi, la celebrazione del Quattrocentesimo anniversario della Scoperta d’America da parte di Cristo-
La famiglia Bocciardo a Niasca: 1 Emilio, 2 Giovanni, 3 Arturo, 5 Elena, 7 Ettore, 8 Agnese, 11 Anna.
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e di vera nicchia a un periodo successivo nel quale la sua fama cresce e i praticanti si fanno numerosi non solo nelle classi sociali che si possono avvicinare alla famosa scatola che l’inventore inglese di questo sport, Walter Clopton Wingfield, ha spedito anche in Italia e che conteneva due racchette, alcune palline e una rete. In Liguria il tennis è “atterrato” a Bordighera, grazie, ovviamente, agli inglesi, ma quando rimbalza, come le magiche palline, a Genova l’esplosione diventa piano piano inarrestabile. Emilio Bocciardo è un appassionato dilettante di questa grande novità, ma è già nel cerchio di coloro che hanno fondato il Lawn Tennis e lo hanno fatto crescere nella realtà genovese, superando poi anche il fallimento della federazione Italiana Lawn Tennis, la “madre” della futura Fit, la Federazione che avrà a lungo una casa genovese, grazie alla verve del successore di Bocciardo, Beppe Croce. Sembra quasi fisiologico che la presidenza passi a lui, a un Bocciardo, figlio di una famiglia così duttile
foro Colombo,“battezza” una città che si può a tutti i titoli definire Superba e nella quale le famiglie come i Bocciardo hanno un ruolo di traino in tutti i settori. Tutto cresce e si costruisce come lo stadio di Marassi, dove Bocciardo avrebbe potuto giocare se non avesse già interrotto la sua carriera, il carcere di Marassi, i tram che diventano un mezzo di trasporto che invade tutta la città e si impreziosisce perfino il Monumentale Cimitero di Staglieno, dove Bocciardo fa costruire una grande tomba di famiglia con una scultura nientemeno che di Leonardo Bistolfi, grande artista, esponente del simbolismo italiano. La decisione di erigere quel monumento, quella tomba, è la morte improvvisa del cognato Hermann Bauer e la prematura scomparsa del secondogenito Andrea scomparso nel 1906 a solo un anno d’età. Sono gli anni che precedono la nomina di Emilio Bocciardo a presidente del Tennis Club, dopo il “regno” di Pierino Negrotto Cambiaso. Il nuovo sport del tennis si trova in un momento cruciale, perché sta passando da una fase pionieristica 30
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e avanzata nell’apprezzamento delle novità. Con un fratello che ha giocato nel Genoa, una villa ad Albaro, dove nasce uno dei primi campi da tennis della città, dopo quello primogenito di Nervi dei Croce, in quella che diventerà la villa Grimaldi. D’altra parte a Genova c’è uno dei primi ventisei circoli affiliati alla Federazione Italiana, che nasce per promuovere e organizzare il tennis in Italia, uno sforzo che poi nel 1922 porterà la squadra italiana a partecipare per la prima volta alla Coppa Davis. Nella villa di Albaro gioca e giocherà tutta la famiglia e nascerà l’estro impareggiabile del figlio di Emilio, Roberto, che nella storia della città e del tennis italiano e anche mondiale resterà sempre come Roby, probabilmente uno dei più talentuosi (oggi si dice così) giocatori che questo sport ha avuto in Italia e, nella sua epoca, il numero tre-quattro delle classifiche italiane. Roberto Bocciardo, l’unico figlio di Emilio, si laurea rapidamente in Giurisprudenza a Genova con il massimo dei voti e, ovviamente, va a lavorare in Conceria ma poi si prende quelli che oggi chiameremmo due “anni sabbatici”, per dedicarsi al tennis, dove ha subito scoperto il suo talento. Va in giro per il mondo, come si racconta ancora con una punta di divertimento nella sua famiglia di oggi, tra i 27 e i 28 anni, con la racchetta e gioca i tornei più importanti di quello che era già un circuito mondiale con le sue capitali, allora meno numerose di oggi, ma sempre significative. Gioca a Wimbledon nel torneo più importante per molte edizioni e a un nipote che gli chiede, un po’ ammirato da quella splendida carriera, quale era stata la sua più importante vittoria, risponde con il suo classico stile ironico da perfetto understatement inglese-genovese: “Quella volta che a Wimbledon ho perso in cinque set da Fred Perry...” Perdere da uno dei miti eterni del tennis, quello an-
cora celebrato con l’alloro sulla maglietta al posto del coccodrillo della Lacoste, su quei campi e a quel modo è -fatte le dovute proporzioni- come portare al quinto sull’erba londinese un contemporaneo, Nadal, Federer o Djokovic. Tanta fama illumina certamente la famiglia Bocciardo e retrospettivamente la presidenza di Emilio, che arriva fino al 1913. Roberto Bocciardo tornerà presto in azienda, nella conceria della Val Bisagno insieme al cugino Giorgio, figlio di Ettore, amministratore delegato negli anni del centenario, il 1961, quando la fabbrica pulsa ancora di lavoro e di mano d’opera, quando c’è perfino il problema di trovare in città gli operai, e soprattutto le operaie, per mandare avanti le commesse che il settore conciario riesce a catturare nel comparto genovese. Almeno tre-quattrocento donne fanno parte della 31
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potrebbero inquinare. Non solo perché proprio nel capoluogo ligure si trovano ad agire quelli che saranno poi soprannominati i pretori d’assalto, Adriano Sansa, Mario Almerighi e Carlo Brusco, particolarmente interessati a intervenire dove l’ambiente sembra minacciato dagli scarichi industriali. E così Sansa, scatena la battaglia sul mare “inquinato”, bloccando nel 1970 i bagni marini, Almerighi si dedica nel 1976 agli scarichi industriali nei fiumi e nei torrenti, dopo il varo della famosa legge Merli, appunto quando la legislazione italiana incomincia ad affrontare i problemi ed esplodono casi clamorosi come quello della Stoppani, la fabbrica produttrice di cromo, tra Arenzano e Cogoleto, i cui scarichi arrivano in mare. Nasce così inevitabilmente anche il caso della Bocciardo, che i suoi amministratori incominciano a pensare di dover trasferire dalla sua sede originaria. Sono lungimiranti e trovano già un terreno a Sezzadio, oltre Appennino, nel Basso Piemonte. E lo acquistano seguendo quella spinta forte che fa già immaginare alla categoria degli imprenditori che bisogna trovare spazio oltre Appennino. Genova è stretta, è scomoda, l’espansione industriale si strangola da sola. I Costa, la grande famiglia che ha espresso il leader della Ricostruzione italiana, Angelo Costa, lo storico presidente del Tennis Club, forse uno dei genovesi del Dopoguerra più conosciuti in Italia, hanno progettato Rivalta Scrivia, il centro intermodale logistico che “Giacomino” Costa, altro esponente chiave della dinastia, è riuscito a far costruire e che sarà inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Saragat e dal ministro Giulio Andreotti negli anni Sessanta, con una grande cerimonia che pare gettare le basi del futuro industriale genovese oltre Appennino. L’operazione Sezzadio è in quella direzione, ma non è così semplice trasferirsi e spostare aziende e ope-
forza lavoro della Bocciardo di quegli anni e si racconta che nei momenti di maggiore richiesta, quando c’è bisogno di mano d’opera con urgenza, i capi del personale dell’epoca andassero ad assoldare le operaie in via Prè, dove l’immigrazione dal Sud, soprattutto da Napoli e dalla Campania, aveva creato un serbatoio di personale, prevalentemente femminile, che cercava impiego e che poteva quindi trovarlo tra le fabbriche genovesi, in particolar modo nel settore tessile e conciario o tra mestieri tanto diversi e ben più pericolosi, il contrabbando di sigarette, se non addirittura la prostituzione. All’Associazione Industriali di quegli anni il settore conciario era uno dei più solidi, perché dietro la Bocciardo c’erano altre importanti realtà, almeno 10-12 aziende in Val Bisagno con nomi come Rivara, Nicolini, Saccomanno, a Borzoli con i Dufour, a Varazze con i Rocca e la loro fabbrica, il cui nome resiste ancora nello stesso settore anche in questi anni, anche se solo come firma commerciale e non più industriale. Tra gli anni Sessanta e Settanta del 1900 incominciano, però, le difficoltà in tutto il settore manifatturiero e ovviamente anche per la Bocciardo, nella quale entrano i capitali di un’altra grande famiglia, i Cameli, che poi prenderanno le redini dell’azienda in un incrocio che non riguarderà solo le famiglie, ma anche le azioni dell’azienda stessa. Le concerie sono ancora fabbriche che alimentano potentemente dalla Liguria settori industriali in grande espansione, come i calzaturifici e le pelletterie. Ma sono anche fabbriche altamente inquinanti in una società che vede crescere in modo esponenziale la coscienza ecologica, la difesa dell’ambiente. Genova, occorre ricordarlo anche in questo contesto, diventa molti decenni più avanti della storia iniziale dei Bocciardo in Val Bisagno, un crocevia nella difesa dell’ambiente minacciato dalle industrie che 32
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Roby Bocciardo
Emilio Taviani e provocando la furia del cardinaleprincipe Giuseppe Siri e in parte anche dello stesso Angelo Costa. Qualche anno più tardi, quando esploderà il caso Bocciardo, un altro sindaco-chiave della città, schierato in ben altra posizione nella difesa dell’occupazione industriale, il socialista Fulvio Cerofolini, lombardiano, regnante a Tursi tra il 1974 e il 1985 con le giunte “rosse”, proclamerà: “La Bocciardo resta a Genova, non si tocca...”. Guai a toccare in quegli anni il mito della città industriale e a rischiare una deriva che - sempre secondo il Pci dominante- avrebbe condotto la Superba a diventare “una città di camerieri”. Finirà in un altro modo, con Giorgio Bocciardo, l’amministratore delegato di quell’epoca, figlio di Ettore, figlio a sua volta di Sebastiano, il fondatore, che si batterà senza tregua per un trasferimento Ol-
rai dal cuore della città che fa parte del triangolo industriale e deve anche fare i conti con una cultura egemone, fondata sul mito della fabbrica, che deve restare a Genova e non spostarsi di un millimetro. È il tempo nel quale una sinistra nella quale il Pci domina, il Psi “stacca” inaugurando con la Dc il primo centro sinistra proprio nell’amministrazione comunale di Genova, con sindaco Vittorio Pertusio, la protezione del leader storico scudocrociato Paolo 33
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Borgo Incrociati in una cartolina d’epoca e sotto la conceria Bocciardo
tre Appennino e per nuove infrastrutture che colleghino Genova al suo hinterland in modo più rapido ed efficiente. “Per mio padre -racconta Ettore, l’ultimo dei Bocciardo che si è occupato della storica azienda- quella del trasferimento e del collegamento veloce con l’Hinterland era una specie di ossessione.” Ossessione, o meglio lungimiranza di chi vedeva nel trasferimento in spazi aperti e infrastrutturalmente funzionali il futuro del proprio e altrui sviluppo industriale. Finirà con il mezzo trasloco dell’azienda nell’inizio degli anni Ottanta nell’alta Val Bisagno, all’altezza del Giro del Fullo, quando oramai il timone è passato nelle mani dei Cameli e dei loro manager, come Fabio Tombetti, veronese, grande manager, che terminerà la sua carriera studiando il progetto del treno veloce da Genova a Milano, il famoso Terzo Valico, voluto da Giorgio Bocciardo, e da non molti altri imprenditori di buona volontà, a tutti i costi. Non si sfugge a quel trasloco che ritarderà solo la fine di quella fabbrica, di quell’azienda, anche se da
decenni i Bocciardo hanno provato in tutti i modi ad affrontare il futuro, le sue difficoltà, perfino le sue complicate sfide. Tra il 1962 e il 1969 c’è perfino un carteggio tra la famiglia e il premio Nobel della Chimica, vinto nel 1963, Giulio Natta, imperiese d’origine, per avviare ricerche, finanziate ovviamente dalla Bocciardo, presso l’Istituto di Chimica Industriale del Politecnico, sviluppate fino all’ottenimento di materiali con proprietà simili a quelle del Corfan, materiale di lavorazione della pelletteria, con minori impatti inquinanti. La storia finale dell’azienda passa anche attraverso una tragedia che le cronache ricordano con il suo effetto quasi simbolico: il 19 settembre 1978 si verifica un gravissimo incidente sul lavoro nella fabbrica di Lungo Bisagno e via Canevari. Durante le operazioni di scarico di un’autobotte con rimorchio che trasporta 295 quintali di salcromo 34
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Genova 1 settembre 1997 Aree urbane: implosione da record, scompare ex conceria. Centotrenta chilogrammi di esplosivo hanno oggi cancellato, in pochi secondi, uno dei simboli di Genova, l’ ex conceria Bocciardo, un edificio di circa 70 mila metri cubi realizzato alla fine dell’ ottocento, fatto saltare per far posto a parcheggi e aree verdi. Per rendere possibile l’ operazione, la seconda del genere mai effettuata in Italia per mole dell’ edificio di 110 mila metri cubi (il primato è di una fabbrica di Palermo) sono state fatte evacuare dalle case circa 500 persone. Ma nonostante i ripetuti annunci dei giorni scorsi qualcuno si è fatto trovare ancora in casa e la ‘’distrazione’’ ha causato un ritardo sulla tabella di marcia dell’ intervento. L’implosione, in un primo tempo programmata per le 15.30 è stata via via rinviata fino alle 17.20. Le forze dell’ ordine sono dovute, fra l’ altro, intervenire buttando giù la porta dell’ abitazione di un cileno, in Via Canevari, che si era rifiutato di uscire di casa. ‘’È stato uno spettacolo veramente suggestivo, straordinario’’ ha detto l’ assessore al patrimonio Aleandro Longhi - migliaia di persone hanno assistito all’ evento. Se l’avessi saputo avrei fatto pagare il biglietto, rifacendomi sulle spese della demolizione’’. Erano presenti il sindaco Adriano Sansa, il vicesindaco Claudio Montaldo, ed il vicepresidente della giunta regionale Graziano Mazzarello. Per impedire l’accesso alla zona, nel quartiere popoloso di Marassi, erano stati organizzati presidi delle forze dell’ ordine. Il traffico automobilistico tutt’ intorno al vecchio complesso è stato chiuso con conseguenze notevoli per la circolazione in città rimasta bloccata per parecchio tempo. L’ edificio, acquistato dal comune di Genova nel 1977, era già stato in parte demolito e ristrutturato per ospitare due istituti scolastici. La demolizione dell’ ala ancora intatta, seppur fatiscente, consentirà di realizzare oltre 200 posti per auto e moto, verde attrezzato e giochi. Costo complessivo dell’operazione (demolizione e sistemazione dell’ area) due miliardi e 635 milioni.
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brica, il destino si fosse accanito. Il primo settembre del 1997 la fabbrica dei Bocciardo sul Lungo Bisagno, una delle prime aziende moderne per la lavorazione del cuoio in Italia, uno dei luoghi simbolo di Genova, con un periodo d’intensa fortuna tra Otto e Novecento, scompare in pochi secondi, demolita da trenta chili di esplosivo e diciotto detonatori. Ci sono migliaia di genovesi intorno che contemplano quella demolizione, la seconda del genere mai effettuata in Italia per la mole dell’edificio: 110 mila metri cubi. In quella fabbrica, dentro a quegli uffici che hanno pulsato dai tempi dell’Unità d’Italia fino agli anni Ottanta del cosiddetto secolo breve, il Novecento, anche Emilio Bocciardo ha lavorato a lungo. Gli operai parlavano di quel signore con la fama di grande artista, riservato e poco incline alla pubblicità come di un “padrone” gentile, attento e molto sensibile al lavoro delle maestranze. Cosa collega la racchetta da tennis, la passione per questo sport ancora di nicchia, addirittura la responsabilità di diventare il terzo presidente del Tennis Club, con il resto dei suoi impegni per Emilio Bocciardo? Vale ripeterlo: forse nasce tutto in quel campo da tennis di Nervi, che i Croce fanno costruire in erba, come si voleva allora e come si era imparato da Bordighera dove quello sport “dei gesti bianchi”, di una naturale eleganza e stile era sbarcato con l’arrivo degli inglesi e la conseguente scoperta del turismo in Riviera. A Nervi, intorno al prato verde con le strisce bianche e la rete, nascono le amicizie famigliari tra i Croce, i Bocciardo, i Crosa di Vergagni, nasce la passione per il tennis che è parallela a quella per la barca a vela. Emilio, eclettico e disponibile come è, accetta di diventare il presidente, senza sapere che preparerà nei cinque anni del suo mandato il terreno a Beppe Cro-
Roby Bocciardo, in secondo piano Aldo Mordiglia
(solfato basico di cromo) per un errore nell’attacco del bocchettone la sostanza è immessa nella vasca di stoccaggio del solfidrato di sodio. La miscela dei due liquidi si scatena una reazione chimica che produce una nube tossica: le esalazioni provocano quattro morti e tredici feriti gravi. Una giornata nera, un lutto gravissimo non solo per la fabbrica, i suoi lavoratori, i suoi proprietari, ma anche per la città e per il quartiere di Marassi. La giornata nera dei Bocciardo che non sono più al timone dell’azienda, ma che ne restano l’anima storica. Filippo Cameli e i suoi due figli Alberto e Sebastiano, partecipano ai funerali degli operai morti in un clima di grande tristezza e composto dolore. Si avverte come la fine di una lunga e importante storia in quel pezzo di città contro il quale poi il destino degli eventi deciderà quasi di accanirsi, le alluvioni, la terribile esplosione nel quartiere di Borgo Incrociati nel luglio del 1987. La storia dei Bocciardo non c’entra nulla con queste vicende della cronaca cittadina, ma è come se, smontato il presidio della grande fab36
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ce con il quale Genova diventerà per molti anni la capitale del tennis in Italia, la città primogenita, quella che - lo si può ben dire - fonderà il nuovo sport in Italia. Non è per molti anni stata considerata la Superba, a torto o a ragione, la più inglese delle città italiane? La tradizione del tennis entra ovviamente nel DNA della famiglia Bocciardo intorno al campo della villa di famiglia ad Albaro e non solo perché produce un campione indimenticabile come Roby Bocciardo, considerato nella storia, il terzo-quarto giocatore italiano della sua epoca, un campione di grande fascino anche per la sua figura elegante, lo stile inap-
Opere di Emilio Bocciardo: in alto Uscio a Portofino, a sinistra Vista da casa di giorno Bocciardo ritratto dal pittore Giorgio Tabet
puntabile non solo quando giocava. Suo cugino Giorgio, figlio di Ettore, uno degli ultimi amministratori della Bocciardo, era un secondo categoria e Giacomo detto “Comino”, altro cugino, un 37
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pittore della sua epoca. La memoria della fabbrica, della conceria resiste nella storia industriale ora che i muri della mitica conceria in Valbisagno non ci sono più e al loro posto ci sono le attrezzature moderne di un mercato rionale, quasi di fronte allo stadio di Marassi, contornato dalle sue gabbie. Certo, viene da sorridere a pensare che la concorrente di quella grande azienda dei Bocciardo era anche stata la CIR di Carlo De Benedetti, il potente imprenditore di oggi, il quale, uscito traumaticamente dal ruolo di amministratore delegato della Fiat, alla fine degli anni Settanta, era tornato proprio alla CIR, che allora stava per Conceria Italiana Riunita e che poi, sull’onda delle grandi trasformazioni imprenditoriali della famiglia e dell’economia italiana e mondiale, si sarebbe trasformata in Compagnia Industriale Riunita, mantenendo la stessa sigla.
giocatore discreto tra la seconda e la terza. Nei tempi moderni la famiglia è sempre presente nel cuore degli Orti Sauli con Ettore, figlio di Giorgio, che per una trentina di anni ricopre cariche direttive nel Club, dopo essere cresciuto fin da bambino tra i campi di terra rossa dove suo bisnonno era stato presidente. Oggi è lui il custode fedele di quella memoria. La memoria di Emilio è stata recuperata almeno per quanto riguarda la sua arte principale, quella della pittura da una mostra antologica delle sue opere curata dalla Fondazione Garrone negli anni recenti con l’aiuto affettuoso e competente della pronipote Antonietta, figlia di Roby Bocciardo. E in quella occasione anche i contemporanei hanno potuto apprezzare l’estro di Emilio Bocciardo, che solo il suo stile riservato e principi solidi e severi come quello di non fare mercato delle proprie opere avevano impedito di riconoscere come un grande
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Presidente dal 1913 al 1939
Beppe Croce
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1859 Nasce a Genova l’11 marzo. 1879 E’ tra gli 80 giovani che si costituiscono quasi come scorta d’onore per la visita a Genova di Umberto I d’Italia e Margherita di Savoia. 1879 E’ uno dei soci fondatori del Regio Yacht Club Italiano. 1880 Fonda la sezione genovese del Club Alpino Italiano. 1881-1901 Diventa sindaco di Nervi (Comune genovese autonomo fino al 1926). 1883 Dall’unione con Nina Crosa di Vergagni nasce Luigi Croce, il suo unico figlio. 1893 E’ uno dei fondatori del Tennis Club Genova. 1908 In qualità di vicepresidente del Comitato Provinciale della Croce Rossa organizza i soccorsi genovesi a favore dei terremotati di Messina e Reggio Calabria. 1913-1929 E’ presidente della Federazione Italiana Tennis. 1913-1939 E’ il quarto presidente del Tennis Club Genova. 1914 Nasce Beppe Croce junior. 1914 Da interventista organizza al Politeama Genovese la serata-concerto pro Belgio, Paese invaso dalla fulminea avanzata dell’esercito tedesco. 1917 E’ tra i fondatori della società di assicurazione Lloyd Italico. 1918 Perde il suo unico figlio “Gigino” nella Grande Guerra. Alleva Beppe Croce junior di appena 4 anni d’età. 1922 Porta l’Italia a partecipare alla Coppa Davis per la prima volta. 1930-1932-1933 Ospita per tre volte la Coppa Davis al Tennis Club Genova. 1939 Muore domenica 13 agosto a Genova, i funerali si svolgono in forma solenne lunedì 14 agosto 1939 nella Basilica di Santa Maria Immacolata in via Assarotti. Un minuto di silenzio il 14 agosto 1939 a Viareggio durante l’incontro di tennis Italia-Germania, in campo Taroni-Quintavalle contro Redl-Beuthner, lo ricorda. 1969-1986 Suo nipote Beppe Croce junior è il primo presidente non anglosassone della Federazione Internazionale Vela.
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più volte consigliere comunale e assessore all’Economato del Comune di Genova occupandosi anche della gestione del Teatro Carlo Felice. Dall’unione con Nina Croce nata Crosa di Vergagni (1854-1937) nel 1883 nasce Luigi Croce, il suo unico figlio, detto “Gigino”, che prende il nome da suo nonno scomparso tre anni prima. Papà, sindaco e dirigente sportivo, a fine ‘800 Beppe Croce porta per la prima volta nella storia il tennis a Nervi, a Villa Grimaldi Fassio, allora palazzina di villeggiatura della famiglia Croce, l’unica reggia immersa nei Parchi di Nervi a poter vantare un campo da tennis. Nel 1893 è uno dei fondatori del Tennis Club Genova, che inizia la sua storia approdando agli Orti Sauli, nel quartiere di San Vincenzo. Per molti anni è vicepresidente del Comitato Provinciale della Croce Rossa, nel 1908 organizza i soccorsi genovesi a favore dei terremotati di Messina e Reggio Calabria, il sisma è uno degli eventi più catastrofici del XX secolo, tale l’impegno solidale gli vale la Medaglia d’Argento di Benemerenza. Spirito di servizio in aiuto di chi ha più bisogno, nazionale e locale: a Genova Beppe Croce diventa presidente dell’assemblea dell’Istituto per Ciechi David Chiossone. Nel 1913 diventa contemporaneamente presidente del circolo genovese e della Federazione Italiana Tennis. Un vero e proprio “padre costituente” del nuovo sport: il 16 febbraio 1913 l’assemblea dei circoli ha già davanti la “Magna Charta” del tennis italiano, non solo l’approva, chiama Croce al timone. La città di Genova diventa sede della federazione nazionale, la Capitale del tennis italiano. Nel 1914 nasce Beppe Croce junior: appena ventunenne Luigi Croce junior detto “Gigino” decide di chiamare suo figlio come il papà neoeletto presidente della Fit.All’inizio della Prima Guerra Mondiale, il 29 dicembre 1914, Beppe Croce senior organizza al Politeama Genovese la serata-concerto pro Belgio,
enova per tre lustri Capitale del tennis italiano. È merito di Beppe Croce, imprenditore, assicuratore, uomo politico, sportivo in mare, a cavallo e con la racchetta, quarto presidente del Tennis Club Genova dal 1913 al 1939, ma soprattutto presidente della Federazione Italiana Tennis dal 1913 al 1929. Nato a Genova l’11 marzo 1859 da una famiglia d’armatori, negozianti d’olio e proprietari terrieri, originaria di Nervi, è figlio di Luigi Croce (1827-1880) e di Giuseppina Croce nata Ferro (1841-1859), grande dinastia della borghesia d’affari genovese. Nel 1879 Umberto I d’Italia e Margherita di Savoia, prima regina d’Italia, arrivano per la prima volta come sovrani a Genova, l’adolescente Beppe Croce è tra gli ottanta giovani che si costituiscono quasi come scorta d’onore della coppia, fiancheggiando e seguendo a piedi per le vie cittadine la berlina reale. Appena ventenne nel 1879 è uno dei soci fondatori del Regio Yacht Club Italiano, il più antico club velico del Mediterraneo, insieme a Umberto I d’Italia. Alpinista appassionato nel 1880 fonda la sezione genovese del Club Alpino Italiano, nel 1930 Croce riceverà l’Aquila d’Oro, simbolo d’appartenenza per oltre 50 anni all’associazione.Ama cavalcare, è proprietario e guidatore di tiri a quattro e a sei, che conduce nel centro di Genova e non solo, lungo via Assarotti, per le strettoie di via Giulia (l’attuale via XX Settembre compresa tra Piazza De Ferrari e il Ponte Monumentale), di San Francesco d’Albaro e di Nervi. Promuove e organizza corsi floreali a Nervi e nel centro di Genova all’Acquasola, rimasti a lungo nei fasti equestri cittadini, a cui prende parte alla guida dei tiri; ama i “puro sangue” e pochi decenni più tardi diventerà socio della Società d’Incoraggiamento delle Razze Equine. A soli 22 anni nel 1881 diventa sindaco di Nervi (Comune autonomo fino al 1926), carica pubblica che ricoprirà per circa 20 anni. Successivamente sarà eletto 41
dato a Genova soprattutto per l’inverno polare con punte di 12 gradi sotto zero, la sede della Federazione Italiana Tennis si trasferisce da Genova a Roma. Finisce l’Era degli Orti Sauli, per tre lustri al centro dell’impero della racchetta, non quella del grande tennis protagonista sotto la Lanterna. Nel 1935 accoglie al Tennis Club Maria Josè di Savoia, destinata a diventare un decennio più tardi l’ultima regina d’Italia, la “Regina di maggio”. Domenica 13 agosto 1939 muore a Genova nella sua abitazione di via Assarotti 5 all’età di 80 anni dopo una lunga malattia dovuta a problemi cardiaci. I funerali si svolgono in forma solenne lunedì 14 agosto 1939 nella Basilica di Santa Maria Immacolata in via Assarotti. Un minuto di silenzio il 14 agosto 1939 a Viareggio durante l’incontro di tennis Italia-Germania, in campo Taroni-Quintavalle contro Redl-Beuthner, ricorda la scomparsa di Beppe Croce, pioniere del tennis italiano.
Paese invaso dalla fulminea avanzata dell’esercito tedesco. È interventista, avversa la decisione della neutralità italiana presa nel Consiglio dei Ministri del 2 agosto 1914. Nel 1918, poco prima della fine della Prima Guerra Mondiale, Beppe Croce perde il suo unico figlio “Gigino”, ufficiale dell’esercito morto di febbre spagnola in un ospedale militare a Trieste, si prenderà cura così del nipote, Beppe Croce junior, che aveva solo quattro anni. È tra i fondatori della società di assicurazione Lloyd Italico, è tra i primi sostenitori del Fascismo, camicia nera appartenete al “Gruppo Giordana”, nel 1922 porta la squadra italiana di tennis per la prima volta a partecipare alla Coppa Davis. Nei primi mesi del 1929 cede lo scettro del tennis italiano ad Augusto Turati. Il 15 aprile 1929, anno settimo dell’era fascista, le federazioni sportive vengono fatte confluire nel Coni e tutti gli uffici di presidenza si concentrano a Roma.A fine giugno 1929, l’anno ricor-
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Il gentleman che fece Genova capitale
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orse questo è il periodo d’oro del tennis a Genova in assoluto. Forse mai come negli anni di Beppe Croce, questo sport ottiene tanti successi. Forse, facendo pure le dovute proporzioni tra gli albori di questo sport nella nostra città e tutti i 120 anni precedenti e il tumultuoso sviluppo che seguirono, gli anni nei quali agli Orti Sauli governa Beppe Croce, figlio di Luigi Croce e di Giuseppina Ferro, nato nel fatidico 1861 dell’Unità d’Italia, in quella famiglia di armatori, proprietari terrieri e commercianti d’olio, esponenti di una borghesia d’affari, mai la Genova del tennis, è stata così “centrale”. Primo record: grazie a Croce per quindici anni di fila la capitale di questo neonato sport è nella città che a giusto titolo si poteva chiamare Superba. È lui il presidente che ricopre per secondo la carica di numero uno della Federazione Italiana, insieme a quella di quarto leader del Tennis Club genovese, dopo il commendator Nino Brocchi e dopo il marchese Pierino Negrotto Cambiaso e dopo Emilio Bocciardo. Il suo tempo attraversa una fase storica complicatissima: dal 1913 della vigilia della Prima Guerra Mondiale al 1939 della vigilia della Seconda, con tutto il Ventennio del fascismo al suo interno. Lo si può chiamare Beppe Croce senior, il quarto presidente, per distinguerlo dal suo adoratissimo nipote Beppe, celebre uomo d’affari e soprattutto grande personaggio nel mondo della vela internazionale fino quasi alla fine degli anni Ottanta, uno dei genovesi più illustri del Novecento con relazioni mondiali e di altissimo livello, che pochi hanno potuto coltivare nella storia di Genova moderna. E si può ricordare, di questo vero gentleman senior, anche l’altro record che fece guadagnare al nostro tennis la primogenitura di avere costruito nel giardino della propria villa di Nervi il primo campo di gioco rigorosamente in erba e poi anche il secondo a Varazze, nella leggendaria altra villa del Boschetto, così cara al-
la memoria della famiglia Croce. Anni d’oro, perché sono anche i tempi nei quali decisamente il tennis esce dalla sua fase pionieristica e diventa uno sport nazionale di grande importanza, anche un crocevia di incontri e occasioni che per quei tempi nessun altro “intrattenimento” della vita mondana e sportiva può vantare. Beppe Croce è l’uomo giusto per quest’operazione di lancio, perché lui stesso è al centro di quasi tutti gli eventi importanti della cosiddetta “vita di società”, grazie alle sue molteplici vocazioni. Basta leggere le righe che gli dedica il “Giornale di Genova” nel giorno della sua scomparsa a 80 anni, il 14 agosto del 1939:“È impossibile immaginare il quadro della vita di società, non solamente, ma di tutta la vita pubblica genovese tra Otto e Novecento, senza vedervi capeggiare o comunque apparire la bonaria, elegante, signorilinissima e simpaticissima figura di Beppe Croce... per una serie lunghissima di avvenimenti officiali e mondani, di manifestazioni di ogni genere, patriottiche, civiche, sportive, artistiche fino alle ultime esposizioni, agli ultimi concorsi ippici che avemmo a Genova, fino alle ultime visite che i Sovrani, i Reali imperiali, principi, il Duce o altri eminenti personaggi fecero alla città nostra, senza che il Grand’ Ufficiale Beppe Croce stesse sempre in prima fila...” 43
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battersi per una autonomia e indipendenza di quella che era stata la Grande Repubblica di Genova. Battaglia perduta, orgoglio genovese intatto, turbolenze di guerre, d’indipendenze conquistate con il sangue, tutto è venuto dopo. Nel 1879, quando Umberto I d’Italia e Margherita di Savoia arrivano a Genova, per la prima volta come sovrani, Beppe Croce, diciottenne, è tra gli ottanta giovani che fanno da scorta per le strade della città al regio corteo. Con un esordio simile la vita pubblica è quasi inarrestabile: a soli ventidue anni Croce è già sindaco di Nervi, che allora era ancora Comune autonomo. Lo sarà per sette mandati consecutivi, un ventennio intero, e sarà quasi scatenato nel lanciare iniziative che illustrino quel gioiello che è la sua città, alla vigilia della riunificazione nella Grande Genova, voluta da Mussolini e mai del tutto digerita, su cui si continua a discutere anche nei tempi moderni. Nervi autonoma, Nervi indipendente, perfino Nervi secessionista. Nei ricordi di famiglia Beppe senior è, prima di tutto, un amante, un ammiratore sconfinato degli inglesi, dei loro modi di vivere, di vestire, di abitare, di prendere la vita. Sarà da questo atteggiamento anglofilo che nasce una delle sue passioni sportive, quella che, comunque, lo segna di più, negli incarichi, nel ruolo pubblico, senza togliere al resto, che non era poco: appunto il tennis. Quello che contraddistingue il nostro presidente è proprio il suo stile, che usando questa volta la lingua francese in famiglia aveva una parola d’ordine quasi perentoria, come ricorda oggi Carlo Croce, il degno successore di Beppe Senior e di Beppe junior, insieme al fratello Luigi, una delle colonne dell’attuale TC: “Estetique d’abord”. Come dire, prima viene lo stile. Viene prima lo stile nell’importare il campo da tennis in erba a Nervi, nonostante il vento di mare, il salino che non favoriva certo un prato simile a quelli di
Riesce difficile circoscrivere al solo tennis e al solo sport più in generale lo scenario nel quale questo personaggio si muove fin dall’età più giovane, lungo un filo di tradizione e poi di stile, di prospettiva pubblica che egli sa costruire a Genova per la sua famiglia, per le associazioni, le società, i Club, i Circoli che rappresenta e per gli ideali e le passioni che lo muovono incessantemente. La prospettiva che interessa qua è quella del tennis del quale Beppe Croce è giustamente considerato un pioniere, della ristretta e qualificata cerchia che lo portò a Genova, fondando con i teachers inglesi, con Brocchi, Negrotto Cambiaso e Bocciardo il “Lawn Tennis” in Salita Misericordia, in quella storica Villa Sauli del futuro parco Serra, dove prima correvano le biciclette. Come potrebbe essere diversamente per chi decide di costruire il primo campo a casa propria, copiando la ricetta inglese, ma innestando quel seme nella storia della sua città? Beppe Croce è sempre in prima fila, da subito, in quella Genova che ha finalmente aderito con tutte le sue sensibilità e la sua forza al nuovo Regno d’Italia, dopo le perplessità iniziali, le difficoltà, le visioni diverse che affondano nei travagli politici e diplomatici fino al Congresso di Vienna, dove il suo ambasciatore, il marchese Antonio Brignole Sale, andò cercando di 44
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Nella pagina accanto Concorso Ippico a Genova (1911)
Reali agli Orti Sauli: a destra Maria Josè di Savoia sotto Gustavo V re di Svezia
Wimbledon. Lo stile con il quale confezionare le prime tessere da socio del Tennis Club, di un elegantissimo, inimitabile cuoio blu. Lo stile delle case Croce, non solo quella di Nervi dentro al grande parco, alla fine di una strada che ancora oggi è di proprietà della famiglia, ma anche quella del Boschetto di Varazze, sede dell’altro campo da tennis in erba, dove è cominciato tutto e che i Croce poi abbandoneranno per spostare la casa al mare a Portofino. Lo stile con cui Beppe si occupava delle altre sue passioni: ovviamente le barche a vela, che amava disegnare e di cui amava addirittura costruire i modellini. Insomma, non è un caso se, appena ventenne, è uno dei fondatori nel 1879, anno evidentemente per lui molto importante, del Regio Yacht Club Italiano, il più antico club velico dell’intero Mediterraneo. Gli altri soci sono: Umberto I re d’Italia, Vittorio Emanuele, principe di Napoli, Jack La Bolina, cioè, al secolo, Augusto Vittorio Vecchi, il Duca degli Abruzzi, l’ammiraglio Biscartetti di Ruffia e, ovviamente, suo padre Gigi. Ma non c’erano solo il mare, la vela e perfino il remo
nel cuore di questo figlio di una Genova in procinto di esprimere tutte le sue potenzialità: era innamorato della montagna, al punto di fondare la sezione genovese del Club Alpino Italiano, che festeggia insieme al nostro Centoventesimo, il suo Centocinquantesimo compleanno, proprio nel 2013. Ovviamente Beppe Croce ama cavalcare e guidare su e giù per le strade di Nervi e di Genova i suoi tiri a quattro e a sei, che conduce per le strade di Nervi, ma anche fino a Genova su e giù per via Assarotti e per via Giulia che, diventerà in breve la monumentale via XX Settembre. 45
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zione “crociana” e del debito che questo sport ha per i Croce è quella di un grande campione italiano del nascente sport che fu il conte genovese Mino Balbi di Robecco, grandissimo protagonista negli anni successivi . Il conte, che si fregerà per dieci anni del titolo italiano, ricorderà così l’esordio del tennis: “In Italia si è già giocato a tennis sull’erba negli ultimi anni dell’Ottocento e precisamente a Nervi, nella villa Croce. Malgrado la località non fosse la più adatta per le condizioni meteorologiche e per la prossimità del mare, dirò subito che la cosa fu possibile per due ragioni: prima, la grande passione per il tennis dell’indimenticabile Beppe Croce, il secondo presidente della Federazione Italiana che ne resse il timone nel periodo aureo... secondo la eccezionale competenza e abnega-
Andrà a cavallo nei giardini dell’ Acquasola, che allora erano una magnificenza nel centro della città. Poi, in un’età più matura, quando i tempi lo consentiranno e il progresso avrà fatto i suoi passi da gigante, Beppe Croce scoprirà le automobili e le sue preferite saranno sicuramente le macchine inglesi. Una vera passione per le Panhard, di cui i pronipoti ricordano ancora la sagoma come quasi un arredamento molto elegante e ricercato nelle loro ville, nei giardini. E il tennis? La testimonianza più diretta della sua inizia-
Uno dei primi modelli di Panhard
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zione del suo fido giardiniere.” Chi gioca a Nervi su quel tappeto primogenito? Beppe, suo figlio Gigino, il commendator Nino Brocchi, il primo presidente del Tennis Club, of course il console inglese, cui non pareva vero, il marchese Pierino Negrotto Cambiaso. Dal 1894 Croce è giocatore di Prima Categoria e intreccia il neonato tennis con altri eventi, sfide, feste, tutti avvenimenti nei quali lui, con la sua aria bonaria, l’eleganza innata, i baffi curati, è sempre al centro. Era anche un generoso, un benefattore come era facile, anche se non certo obbligatorio, negli esponenti di quella che potremmo chiamare la upper class genovese e italiana: vice presidente del Comitato Provinciale della Croce Rossa Italiana, nel 1908 organizza i soccorsi genovesi per il terrificante terremoto di
Vedute del Tennis Club A pag: 49: manifesto del primo incontro di Coppa Davis svoltosi a Genova nel 1928
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La fine della guerra non ferma neppure per un secondo il neopresidente del Tennis Club in alcuno dei suoi impegni imprenditoriali, civili, politici e da dirigente sportivo. Nasce allora la società di Assicurazione Lloyd Italico e questo fatto riguarda il fronte del lavoro, nel quale quell’operazione è una specie di garanzia per il futuro professionale di almeno tre generazioni dei Croce, nel cuore della città e dei suoi business più centrali. Per il tennis, come già ricordato, sono quelli gli anni d’oro anche perché Beppe Croce gioca sui due tavoli di presidente della Fit e del Tennis Club. Si può dire che nasce veramente il tennis in Italia, con la creazione di strutture periferiche, la nascita delle classifiche nazionali e finalmente la partecipazione italiana alla Coppa Davis. E tutto questo porta la firma di Croce e di Genova. Non solo nasce anche fisicamente la struttura fissa del Tennis Club Genova, la club house, gli spogliatoi e la segreteria, uno chalet di legno ospita la sede sociale, affiancata da una tribuna coperta con un tetto in stile coloniale. Con un personaggio mondano, socievole come Beppe Croce alla guida come potrebbe incominciare tutto, sotto gli alberi di quello che poi verrà chiamato Parco Serra? Con un indimenticabile ballo, che si svolge nel 1923, un vero evento per tutta la città. E arriva, sempre sotto questa presidenza, la Coppa Davis che sbarca a Genova, agli Orti Sauli con un match quasi mitologico perché l’Italia affronta i canguri australiani, che negli anni a venire diventeranno i grandi maestri del tennis, forse ancor più dei “padri inglesi”. E incredibilmente la squadra azzurra batte per 4 a 1 gli australiani, pur schierandosi senza allenatore, né massaggiatore, senza aiuti di sorta, con soli dieci giorni di allenamento. Giocano Uberto De Morpurgo, Giorgio De Stefani, Placido Gaslini e il genovesissimo Roberto Bocciardo. Siamo nel 1928 e gli anni d’oro di Genova proseguo-
Messina e Reggio Calabria, a Genova diventa presidente dell’Istituto per Ciechi David Chiossone e legherà questo impegno alle sue passioni sportive in modo diretto con un grande evento mondano, organizzato proprio agli Orti Sauli per raccogliere fondi per l’istituto. Si raccoglierà la cifra non indifferente di 40 mila lire. Il tennis per lui diventa centrale, dopo le passioni e le intuizioni iniziali, quando nel 1913 è eletto presidente del Tennis Club Genova e della Federazione Italiana Tennis, rivestendo i panni di “padre costituente”. I suoi vice saranno il genovese ingegner Guido Brian e il milanese dal cognome celeberrimo, conte Alberto Bonacossa. Un anno dopo, nel diversamente fatidico 1914 che prepara la Guerra, Beppe Croce sa dove schierarsi e lo fa con tutta la potenza del suo ruolo pubblico, organizzando un concerto al Politeama Genovese pro Belgio, il paese che l’esercito tedesco sta invadendo. Croce è un interventista, non crede alla neutralità, ma il concerto, la musica di Chopin, Siding, Rossini non fermano i fucili e in breve la guerra con il suo carico di lutti, anche terribilmente diretti, colpisce proprio i Croce. Gigino, il figlio tanto amato di Beppe, ufficiale del Regio Esercito muore di spagnola in un ospedale di Trieste nel 1918. La guerra si è portata via l’unico figlio di Beppe: il dolore e il lutto saranno insuperabili, ma c’è Beppe junior, che alla morte del padre ha solo quattro anni e verso il quale il nonno nutre uno sconfinato affetto. Lo stesso nome, in qualche modo lo stesso destino, seppure in tempi diversi. Sembra quasi che la grande spinta che manda avanti nella vita Beppe Croce Senior, nel suo lavoro, nelle sue passioni, nel vivere civile sia alimentata dalla necessità di “tracciare la strada” per un nipote sentito così vicino. 48
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maggio”, che arriva con la racchetta in mano e che calcherà i campi genovesi. Quando mai un re o una regina? In quei tempi era possibile, se sono vere quelle foto che raffigurano in quell’epoca anche Carlo Gustavo, re di Svezia, impegnatissimo sul terreno dei Tennis Club genovese. Avere sfondato con il tennis e avere dato un contributo tanto forte all’affermazione di questo sport non ha distolto Croce dagli affari di famiglia: nel 1934 il Lloyd Italico si fonde con altre tre importanti compagnie genovesi: l’Ancora, l’Oceanus e l’Ermes, diventando uno dei più importanti gruppi assicurativi del paese. È come se Beppe Croce avvertisse che il suo così ricco percorso di vita si stesse esaurendo. È ancora forte e vigoroso: sopporta il dolore per la scomparsa della moglie Nina Croce, nata Crosa di Vergagni, avvenuta nel 1937, viaggia ancora sulle sue amate automobili, compiendo lunghe gite su percorsi per quegli anni non agevoli, fino a Udine e allo Stelvio. Domenica 13 agosto si spegne nella sua casa di via Assarotti 5, all’età di 80 anni. I funerali sono di fronte a casa, nella Basilica dell’Immacolata e basta annotare chi partecipa per capire quanto quell’uomo abbia lasciato un segno: tutta l’aristocrazia genovese, il maresciallo Caviglia, il sottosegretario alla Marina Cavagnari, il presidente della Provincia di Genova Gardini, i rappresentanti della prefettura, del Federale di Genova e del Podestà e ovviamente il segretario della Fit, Enrico Piccardo. Come dimenticare quel signore genovese che ha organizzato tutto il tennis in Italia. E per quello che riguarda Genova e il Tennis Club come dimenticare uno dei suoi presidenti più longevi ed anche più “circolari” nella storia della città? La salma viene sepolta nella monumentale tomba di famiglia a Staglieno, la numero 368 nel porticato superiore, lato Levante del Pantheon, dove raggiunge la moglie e l’adorato figlio Gigino, scomparso 21 anni prima. Il Comune di Genova gli intitolerà, dopo qualche de-
1932 Coppa: Davis Grandguillot, Beppe Croce e De Stefani
no, ospitando la Davis per altre tre volte, nel 1930 contro il Giappone, nel 1932 contro l’Egitto e nel 1933, di nuovo contro l’Australia. Con questa sequenza la squadra italiana vince e si qualifica per la finale della zona europea e quegli incontri conquistano per la prima volta nello sport del tennis l’attenzione della Radio, che trasmette la cronaca dei match. Ecco cosa significa avere in casa la sede della Fit e un doppio presidente come Beppe Croce, che amava il tennis come un vero primo amore sportivo. Il doppio presidente può concludere il suo bilancio di dirigente italiano nel 1929, in un ultima assemblea della Fit , rivendicando settemila soci, novantaquattro enti affiliati, cinquantasei tornei svolti in un anno, più tre campionati. Genova è stata in quegli anni veramente l’ombelico del tennis italiano e internazionale; il Tennis Club ospita i campionati Italiani assoluti e nel 1935 Beppe Croce in pompa magna va ad accogliere, all’ingresso del Tennis, Marià Josè di Savoia, la futura “regina di 50
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Beppe Croce tra i giocatori dei tempi d’oro
pianto sportivo.
cennio, il campo centrale di Valletta Cambiaso, la moderna struttura inaugurata negli anni Sessanta, sede della scuola del Coni, un vero Stadio di Tennis, dove finalmente la Coppa Davis tornerà, a decenni di distanza dalle partite di Beppe Croce, per un incontro ItaliaRhodesia, in cui scenderanno in campo anche Nicola Pietrangeli e Giordano Maioli. Ci vorranno, dopo, altri presidenti e altri tempi per riportare di nuovo la Davis in città, mentre lo stadio dedicato a Beppe Croce non viene gestito all’altezza del nome che porta dalle Autorità Comunali genovesi che, anno dopo anno, lasciano degradare quell’im-
Ma per fortuna il nome dei Croce e la loro inarrestabile passione per lo sport non si spengono, anche le tradizioni di stile e di rapporti che il quarto presidente del Tennis Club Genova ha innescato, rimangono ben consolidate nella sua famiglia e , quindi, nella città. C’è come una continuità di stile, di intenti, di classe tra i due Beppe senior e junior. Quando muore nel 1939 il senior, Beppe Croce Junior è solo più che un ragazzo, ma il nonno gli aveva già regalato, a soli nove anni di età, “il dono fatale”, cioè un dinghy dodici piedi, 51
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mente lo stesso ruolo del padre al vertice della Federazione internazionale della Vela .
quella deliziosa barca di legno con la vela, tornata recentemente di gran moda, che fa scattare il colpo di fulmine tra il ragazzo Croce, la vela, il mare. E Beppe Croce trasferisce proprio sulla vela e sul mare quanto suo nonno aveva fatto per il tennis, soprattutto riportando Genova al ruolo di capitale di un grande sport, quello della vela, imponendo non solo in Italia, ma addirittura nel mondo, con l’incarico di presidente della Federazione Internazionale della Vela il timbro “made in Genoa”.
Beppe Croce junior gioca a tennis e vince anche un torneo importante negli anni Trenta, in un doppio nel quale il suo compagno era niente meno che Roby Bocciardo, figlio di un altro presidente e grande campione di quello sport. I geni Croce producono così un altro miracolo a favore anche della città e del suo prestigio. Certo il tennis qui non c’entra più, semmai solo attraverso a questa eredità di stile e di “attaccamento alla maglia”, che è la città, che è il proprio sport, che passa e che non cambia i connotati. Si possono ricordare molti episodi e aneddoti sul nipote di quel prestigioso presidente del TC per dimostrare la forza della famiglia e il suo spirito. Quando la sede dello Yacht Club, al porticciolo Duca degli Abruzzi, durante la guerra, viene bombardato dagli inglesi, terribile gioco delle coincidenze, il club più inglese di Genova e Beppe Croce, allora leader di una delle famiglia più “inglesi” di Genova, se così si può dire, colpiti proprio dagli inglesi tanto amati, porta in salvo le Coppe, le medaglie, le targhe e tutto il bagaglio di premi nella casa di via Assarotti per salvare la tradizione. Lo avrebbe fatto anche suo nonno e a quel nonno, sempre charmant, mondano, galante con le signore, con la leggerezza giusta nei momenti giusti e con la capacità, invece, di essere deciso e fermo quando occorreva, il nipote ruba queste capacità. Insieme a quella incomparabile di far sentire importante qualsiasi interlocutore con il quale ci si intrattiene, dal grande leader mondiale al marinaio, al mozzo, al raccattapalle. Diventa Beppe jr, amministratore delegato del Lloyd Italico, diventa primo presidente, non anglosassone della Federazione Internazionale della Vela oltre che,
Siamo negli anni nei quali il boom di quest’altro sport prende il massimo del vento e diventa anche una delle bandiere più illustri che possano sventolare in un paese che si sta affermando nello scenario internazionale, che organizza le Olimpiadi di Roma, dove gli sport velici ci portano onore e medaglie. Un personaggio come Beppe Croce impone la sua figura con uno stile genovese-inglese che gli spalanca ogni porta, anche quelle più esclusive. Come per Beppe Senior, il timbro è quello di una scelta netta per uno stile molto english, nella vita degli affari, nei comportamenti privati, nei rapporti sul campo di gara, che in questo caso non è più “l’erba di casa nostra”, direbbero i Croce, alludendo ai primi due campi da tennis di Nervi e Varazze, ma quello delle regate. Beppe, bambino piccolo, ragazzo, adolescente, ha respirato quel clima, quello stile. Ha frequentato quella stupenda casa di Nervi al bordo del parco con il campo da tennis, dove il nonno voleva che la squadra italiana si allenasse. Lo ha seguito nel suo ruolo di ventennale sindaco e ha assorbito molto. Carlo, figlio di Beppe Junior, a sua vota figlio di Gigino che era figlio di Beppe Senior, il nostro presidente, è oggi insieme al fratello Luigi, fedele custode di una memoria tanto ricca e di una tradizione che lui stesso sta portando avanti al massimo livello: ricopre attual52
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ovviamente presidente dello Yacht Club italiano, cofondato da suo nonno. Non si contano gli incarichi nei comitati olimpici e nelle grandi giurie delle più importanti competizioni internazionali. Il curriculum è ampio come la carta geografica o il mappamondo che comprende tutte le tappe veliche possibili di Olimpiadi, Grandi regate, grandi incontri da organizzare. Beppe Croce è il primo italiano ad arbitrare la Coppa America e si prende anche delle belle gatte da pelare, quando arriva all’apogeo, di essere nella giuria di quella mitica Coppa e deve dipanare le contese tra americani e australiani, che, nell’edizione del 1972, litigano su una regata decisiva, che si svolge in mezzo alla nebbia. Bisognava fermarla quella regata, sparando il colpo di cannone o era giusto riconoscere il vincitore? Il barone von Bic si infurierà con Beppe Croce per la sua decisione. La conquista del ruolo di presidente internazionale della Vela è un vero evento, anche perché il concorrente di Beppe Croce era stato Peter Scott, figlio del grande esploratore che conquistò il Polo Nord e che si arrese a Croce, proponendolo lui stesso e dedicandosi poi a fondare il WWF. Per i Croce dell’una e dell’altra generazione la frequentazione dei più grandi personaggi in Italia e nel mondo è una caratteristica costante. Se Beppe senior faceva da scorta alla principessa Maria Josè, Beppe junior, insieme a Gianni Agnelli, sale sulla barca di John Kennedy ed è ospite in casa sua a Newport, in un memorabile incontro, esattamente un anno prima che il presidente della “nuova frontiera” venga assassinato a Dallas. È ancora Carlo Croce, a raccontare di quella gita in America, che è rimasto sicuramente l’incontro più ravvicinato tra lo storico presidente USA e un genovese doc. Agnelli e Croce vanno negli USA in un’unica missio-
Beppe Croce jr in barca con Gianni Agnelli, John e Jacqueline Kennedy
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Beppe Croce Il gentleman che fece Genova capitale
tori Gianni Agnelli?:“Hallò Jack...”. Nell’aneddoto si ricorda anche che quella foto, religiosamente custodita in casa Croce, era stata stampata dalla security americana, che si era presa i rullini del giovane Carlo Croce. Quella missione a casa Kennedy non aveva avuto un esito positivo da un punto di vista velico, perché gli americani avevano elegantemente respinto la sfida, raccomandando agli italiani, a Giulio Gargano in particolare, che Jacqueline Kennedy aveva definito “the silent genius”, il genio silenzioso, di tornare quando erano più preparati. Ci sarebbero voluti ancora trent’anni prima che arrivasse “Azzurra” a sfidare gli americani a vela. La storia di Beppe Croce Junior, dei suoi successi, degli onori tributatigli anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1986, perfino con una cerimonia a Westminter Chatedral di Londra, c’entra forse poco con il tennis, con i nostri presidenti, i Top Ten, ma dimostra quanto la storia delle famiglie che hanno governato gli Orti Sauli abbia un peso che dura nel tempo. Oggi quella tradizione è ancora ben viva non solo dentro allo stesso Tennis Club, dove Luigi, detto “Gigi”, “olimpico” nella vela, è una delle colonne del Circolo, e ha ricoperto per decenni ruoli di dirigente, ma anche nel mondo velico: Carlo Croce, come già detto, è tutt’ora presidente della Vela Internazionale, porta in giro il prestigio dell’Italia e di Genova sul mare. Come suo padre e come il suo bisnonno, il presidente del Tennis che fece Genova capitale.
ne molto glamour e anche un po’ snob, con scopi diversi.“Agnelli voleva a tutti i costi lanciare la “128” Fiat negli Usa e aveva i contatti giusti per arrivare ancora in casa dei Kennedy, che lo avevano già ricevuto come l’amico italiano, mio padre voleva portare negli Usa la sfida nella Coppa America alle barche americane. Aveva con sé i disegni di una nuova imbarcazione, d’impostazione rivoluzionaria, che aveva concepito Giulio Gargano, il mitico progettista delle Moto Guzzi, anche lui protagonista di quel viaggio - racconta Carlo Croce. Gli interessi si combinano e arriva, recapitato da due superpoliziotti americani a bordo di rombanti moto, l’appuntamento a casa Kennedy a Newport dove Beppe Croce, Gianni Agnelli e il progettista Gargano sono, infine, invitati a pranzo e dove c’ è anche Carlo, diciottenne, che scatterà la famosa foto, passata alla storia, dove si vede Beppe Croce insieme ad Agnelli sulla barca dei Kennedy con John e Jacqueline, affabili ospiti. Per dimostrare quanta confidenza c’era tra Agnelli e Kennedy, Carlo Croce racconta che una sola raccomandazione aveva fatto il presidente americano all’amico italiano Gianni Agnelli, chiedendogli di non chiamarlo in pubblico Jack, che era l’appellativo famigliare per la ristretta cerchia degli amici. Quando, dopo l’escursione in barca, durante la quale Agnelli, Croce e Gargano avevano mostrato i disegni della nuova barca sfidante, il presidente era stato scortato a bordo di una piccola nave della Marina Americana, come lo aveva salutato con ampi gesti provoca-
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Presidente dal 1939 al 1976
Angelo Costa
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1901 Nasce a Genova il 18 aprile. 1914-1919 Compie gli studi superiori all’Istituto Arecco, la scuola dei Padri Gesuiti in piazza Manin nel centro di Genova. 1924 Si laurea con il massimo dei voti alla Scuola Superiore di Commercio dell’Università di Genova. 1925 Inizia a lavorare nella ditta paterna. 1926 Costruisce uno stabilimento per la raffinazione dell’olio a Genova Sampierdarena. 1928 Sposa Pinuccia Musso da cui avrà nove figli. 1930 (circa) Investe nel settore armatoriale. 1939-1976 E’ il quinto presidente del Tennis Club Genova. 1942 I bombardamenti inglesi colpiscono il Tennis Club Genova. 1945-1955 E’ presidente nazionale di Confindustria. 1945-1972 E’ presidente della Confederazione italiana armatori. 1948 Parte da Genova a Buenos Aires la “Anna C”, il primo transatlantico ad attraversare l’Atlantico meridionale dalla fine del conflitto mondiale. 1950 Ricostruisce il Tennis Club Genova. 1951-1968 E’ presidente dell’Associazione nazionale dell’industria olearia. 1952 Diventa Cavaliere del Lavoro. 1952-1953 Investe nel settore crocieristico. 1959 E’ vicepresidente nazionale di Confindustria. 1963 Partecipa alla costituzione della Rivalta Scrivia SpA. 1966-1970 E’ nuovamente presidente nazionale di Confindustria. 1976 Muore il 2 luglio a Genova.
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ma in breve tempo come principale responsabile dell’azienda. Nel 1928 sposa Pinuccia Musso, da sua moglie avrà nove figli: Giacomo nel 1929, Maria Bice, Maria Teresa, Nicolina, Maurizio, i gemelli Franco e Caterina, Paola ed Enrica, l’ultimogenita, nata vent’anni dopo Giacomo. Gli anni ‘30 sono il “Decennio della Svolta”: Angelo Costa, dopo l’esordio con i piccoli piroscafi Ravenna (1924) e Langano (1928), investe nel settore armatoriale. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nell’autunno 1939, è eletto quinto presidente del Tennis Club Genova. Nell’autunno 1942, i bombardamenti aerei inglesi radono al suolo Genova provocando centinaia di vittime e distruzioni mai viste prima in città. Il Club, promosso mezzo secolo prima da uomini d’affari inglesi innamorati delle Lanterna, è devastato dalla bombe inglesi. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la flotta Costa è decimata: solo il Langano sopravvive, ma riprende l’attività armatoriale, risponde alla domanda crescente del traffico passeggeri sulle rotte transatlantiche. È un industriale di medie proporzioni quando il 10 dicembre 1945 a Roma la prima assemblea nazionale dei delegati di Confindustria lo nomina presidente. Nello stesso anno è eletto presidente di Confitarma. È uno dei capi carismatici della Ricostruzione italiana, appena insediato compie il gesto rivoluzionario di concedere la tredicesima mensilità a tutti gli operai, sigla l’accordo per l’istituzione della scala mobile, si batte contro il blocco dei licenziamenti, insiste affinché il Piano Marshall aiuti le Pmi italiane, sostiene l’apertura internazionale dell’Italia, l’accompagna verso il Gatt, la Ceca e l’Unione doganale. Il lavoro della “Giacomo Costa fu Andrea” continua senza soste, nel 1947 la compagnia di navigazione diviene nota come “Linea C”, il 31 marzo 1948 parte da Genova a Buenos Aires la “Anna C”, il primo transatlantico ad attraversare l’Atlantico meridionale dalla fine del conflitto mondiale. A terra
l “Presidente della Ricostruzione”, al timone del Tennis Club Genova dalla polvere della Seconda Guerra Mondiale al cielo del Boom economico: è Angelo Costa, quinto presidente del circolo dal 1939 al 1976, nel contempo il più longevo presidente nazionale nella storia di Confindustria e di Confitarma. Cattolico, liberale, liberista, imprenditore e armatore, guida per quattordici anni la Confederazione Generale dell’Industria Italiana, per ventisette anni la Confederazione italiana armatori, è presidente della Banca d’America e d’Italia, vicepresidente della Pirelli, l’uomo simbolo che porta in Italia e nel mondo l’immagine di una Genova concreta e vincente. Un protagonista nell’Italia del dopoguerra che si confronta con personaggi del calibro di: Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Giuseppe Di Vittorio, Emilio Colombo, Ernesto Rossi, Giulio Andreotti, Achille Lauro, Gianni Agnelli,Vittorio Valletta, Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani, Guglielmo Giannini, Amintore Fanfani, Dino Penazzato, fino all’arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri, e altri. Nato a Genova il 18 aprile 1901 da Federico Costa e Beatrice De Ferrari, Angelo è il terzo di sette figli, erede di una dinastia originaria del XVI Secolo a Santa Margherita Ligure, una famiglia di antiche tradizioni mercantili che all’inizio del XX Secolo ha già salde radici a Genova. Compie gli studi superiori all’Istituto Arecco, la scuola dei Padri Gesuiti in piazza Manin nel centro di Genova, si laurea con il massimo dei voti nel 1924 alla Scuola Superiore di Commercio dell’Università di Genova, sostiene una tesi su “L’olivicoltura, l’industria e il commercio dell’olio di oliva”. Nel 1925 inizia a lavorare nella ditta paterna: la “Giacomo Costa fu Andrea”, fondata nel 1854 da Giacomo Costa, figlio di Andrea, una delle prime imprese a commerciare, prima dalla Sardegna alla Liguria, poi dal Mediterraneo al resto del mondo, in particolare verso le Americhe, olio d’oliva e tessuti. Si affer57
tre nuovi campi mentre ne ricava altri due nella parte alta degli Orti Sauli in un terreno lasciato libero da un floricoltore. Per la seconda volta la “casa” del tennis genovese, minacciata prima dalle bombe poi dal cemento, è salva. Insieme a suo figlio Giacomo nel 1963 partecipa alla costituzione della Rivalta Scrivia Spa, una società con 150 soci, tra i quali I’IfiFiat e la Pirelli, per la creazione di un grande centro logistico al confine tra Liguria e Piemonte. È presidente dell’Ente Bacini Spa a Genova, della Banca Passadore & C., dello Stabilimento Duca Visconti di Modrone e di vicepresidente del Cotonificio Cantoni di Milano. La nuova elezione a presidente di Confindustria arriva il 9 marzo 1966, quello di Angelo Costa è il ritorno di una guida alla vigilia della “tempesta” dell’Autunno Caldo. Il 16 aprile 1970, cede il timone a Riccardo Lombardi. Resterà il più longevo presidente dell’associazione fino ad oggi, l’unico presidente nazionale dei 29 succedutesi in 103 anni, dalla fondazione nel 1910, ad aver guidato per tre mandati la Confederazione Generale dell’Industria Italiana. La flotta Costa nel corso degli anni ‘70 si arricchisce delle gemelle Daphne e Danae, si prepara al salto di qualità, rappresentato dalla nascita di Costa Crociere nel 1986. A seguito di un viaggio di lavoro a Roma, il 2 luglio 1976 muore a causa di un’emorragia celebrale.
come in mare, Costa ricostruisce. Affida all’architetto Giuseppe Abbiati il compito di ridisegnare il Tennis Club Genova distrutto dalla Guerra Mondiale, nella primavera del 1950 inaugura la nuova sede in muratura del circolo, ospite d’onore della cerimonia il presidente della Federazione Italiana Tennis Aldo Tolusso. Nella Capitale il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, nel 1952 lo nomina Cavaliere del Lavoro, un anno prima era stato chiamato al vertice dell’Associazione nazionale dell’industria olearia. La “Linea C” inizia ad impiegare le navi per vere e proprie crociere, nei periodi di minor traffico del servizio “di linea” tra Mediterraneo e Sud America, tra le prime crociere quelle mediterranee della “Andrea C” nel 1952 e della “Anna C” nel 1953. Il decennio della prima presidenza Costa al vertice di Confindustria termina nell’assemblea confederale dell’8 febbraio 1955, che lo nomina membro a vita del comitato di presidenza e della giunta esecutiva. Nel 1959 Costa realizza la prima nave al mondo completamente dedicata alle crociere da svago, vacanze di 7 o 14 giorni negli Stati Uniti e nei Caraibi. Il ciclone urbanistico del Boom sconvolge l’equilibrio del Tennis Club Genova, nel 1959 il Comune sceglie l’area degli Orti Sauli per costruire due licei, il Cassini e il Barabino. Il circolo deve cercare spazio in altre direzioni, verso via Galata e il parco Serra, dove grazie al legame di Angelo Costa con il cardinale Giuseppe Siri, affitta un terreno di proprietà della Curia e può costruire
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C
Guerra Mondiale, è uno degli orgogli italiani e la sua attività di imprenditore e di super dirigente delle grandi organizzazioni imprenditoriali ha avuto i maggiori riconoscimenti possibili. La sua azienda è un caso unico della storia moderna: vi lavorano in perfetta armonia decine e decine di membri della sua grande famiglia, immortalata in una grande foto, simbolo imperituro del capitalismo famigliare “made in Genoa”. Mettere di fianco al tennis, ai campi di terra rossa degli Orti Sauli, alle poltrone della sua Club House, ai tavoli del suo amato bridge, una vita come questa con la densità di risultati, con il peso delle enormi responsabilità, con i ruoli pubblici e privati, con la profondità delle relazioni intrattenute con i grandi del tempo, potrebbe essere quasi superfluo. Angelo Costa è stato un gigante del nostro tempo, del millennio che è appena finito, ma si può anche raccontarlo attraverso quel suo ruolo di presidente del Tennis Club, durato come per nessun altro, trentasette anni senza mai staccare nonostante tutto il resto, a incominciare dalla guerra che faceva cadere le sue bombe anche sui campi di terra rossa. Il più longevo presidente di Confindustria, dal 1945 al 1955 e poi dal 1966 al 1970 e il più longevo presidente di Confitarma dal 1945 al 1972, non poteva non battere il record anche in casa sua, restando fedele a un incarico che aveva molti significati “ombelicali” nella città. Si può raccontare la sua presidenza rincorrendo i ricordi di chi l’ha vissuta o di chi l’ha saputa ricostruire, conferendole un valore centrale anche nella storia della città, che ebbe in Costa un baricentro fondamentale in tanti suoi equilibri. Si può tentare una sfilata di queste testimonianze che danno un valore anche al Tennis Club, alla sua posizione geografica, sociale, civile e sportiva. Ci sono negli archivi rare immagini nelle quali si vede
ercare Angelo Costa, forse il genovese più importante del nostro Dopoguerra, nelle viscere del Tennis Club, nelle vicende degli Orti Sauli, che celebrano 120 anni, nella storia della sua quasi eterna presidenza, dal 1939 al 1976, da Beppe Croce senior fino a Gian Vittorio Cauvin, può sembrare quasi un’operazione laterale. È come andare a caccia di una subordinata, quando le frasi principali formano uno dei discorsi più importanti della nostra storia: l’imprenditore, l’armatore, il presidente della Ricostruzione Industriale privata, il leader di Confindustria e di Confitarma nella fase eroica del boom italiano, il capo famiglia, il grande arbitro di ogni contesa cittadina, il collezionista e amante dell’arte, il civil servant della città. E anche il presidente più longevo del Tennis Club. Angelo Costa era tutto questo e anche di più fino al 1976 della sua morte improvvisa, negli anni che hanno segnato il nostro “secolo breve”. Quando è nato, nel 1901, Genova stava sulle barricate del porto incendiato dagli scioperi, l’industria pesante doveva ancora segnare completamente il suo solco sulla nostra terra, i grandi partiti della Prima Repubblica o non erano nemmeno neonati o vagivano, venti anni prima dalla Marcia su Roma. Quando è morto, la città stava già bruciando per gli “Anni di Piombo” del terrorismo, che avrebbe colpito anche la sua famiglia, l’industria di Stato annunciava già il suo declino e la politica battezzava le giunte rosse, che conquistavano anche palazzo Tursi, che lui aveva censurato, quindici anni prima, per la primogenita alleanza di centro-sinistra, l’“incesto” Dc-Psi. Quando è nato Angelo Costa, l’azienda di famiglia si occupava di un commercio di olio, che lui trasformerà in industria, prima di varare la flotta Costa, quella che conquisterà, trasportando prima merci e poi anche passeggeri, i mari del mondo con la “C” sul fumaiolo. Quando muore, quella flotta, rinata dopo la Seconda 59
Angelo Costa La superpresidenza
Angelo Costa premia Enzo Vattuone
“Arrivava stanco da Roma, in vagone letto a fine settimana, il sabato mattina e non mancava mai di andare al Tennis”, ricorda Giacomo III uno dei suoi nove figli, il primogenito, raccontando come suo padre inquadrasse il suo ruolo agli Orti Sauli. “Del tennis era più un tifoso che uno sportivo”, spiega Giacomo III, mentre ricostruisce il rapporto tra Angelo Costa e il tennis stesso, che “era certamente lo sport di famiglia”. “Giocava a tennis soprattutto d’estate a Sarissola, a Ponte Savignone, durante le vacanze e ricordo di come spesso si organizzassero partite tra cugini e amici anche d’inverno”, rammenta ancora Giacomo, sfatando la leggenda che suo padre
Angelo Costa impeccabile nei suoi vestiti grigi, i suoi grandi baffi bianchi, quel sorriso ampio ma non esagerato, sicuro, con cui porgeva una coppa al vincitore di un torneo o assisteva a un match o salutava signori vestiti di bianco pronti a sfidarsi, magari un sabato pomeriggio, prima della partita di bridge. Non sembra mai un protagonista di altri grandi fatti, capitato lì per dovere o invitato per l’occasione. Sembra l’anima di quel posto, di quel luogo, magari con un po’ di polvere del tempo, come se solo lui e non altri potesse stare lì, in quel momento. Rassicurante, autorevole, qualcuno oserà dire anche autoritario, ma di un’autorità “sana” per un bene comune.
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Genova dopo il bombardamento del 1941
non fosse un praticante dello sport di casa. Dopo la guerra, con la massa di impegni che aveva tra Genova e Roma, lo spazio per giocarlo, il tennis, non doveva esserci più, anche se la matrice sportiva era sempre rimasta. Giacomo III ha un ricordo preciso e indelebile del rapporto tra suo padre e il TC, con una data storica stampata nella memoria, il 9 febbraio 1941, il giorno dopo il tragico bombardamento navale che colpì Genova dal mare, per opera di una flotta inglese che neppure si vedeva all’orizzonte. Le bombe caddero in quasi tutto il centro cittadino, anche in via Galata, in via Santi Giacomo e Filippo, in salita della Misericordia. “Avevo 12 anni e ricordo bene di avere accompagnato mio padre al Tennis, tra le macerie della sede e sul campo 3, nel cui centro c’era proprio il cratere di una bomba.” Gli altri campi danneggiati, la Club house, lo chalet in
legno sono praticamente rasi al suolo. Le bombe vanificano l’ultimo sogno sportivo che anche Costa aveva cullato: quello di un torneo internazionale che si giocasse con l’incontro tra il campione ungherese Joseph Asboth e Gianni Cucelli, il campione italiano. La guerra spazza tutto. Quello era stato un giorno “nero” della storia di Genova e Angelo Costa era corso anche là a controllare i danni. Era presidente da due anni e si sarebbe trovato davanti il compito di ricostruire anche il Tennis, non solo la sua flotta che, dopo l’epoca pionieristica del “Ravenna” e del “Langano” e poi del ”Federico”,“Eugenio” e “Enrico”, si era arricchita anche dei piroscafi “Antonietta”,“Beatrice” e “Giacomo”, e durante il conflitto era andata a fondo con tutte le sue 28 mila tonnellate di stazza, capaci di coprire le rotte transoceaniche. “Era il più giovane di quella generazione, che aveva 61
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pegnatissima. “Gli uffici della Costa prima erano in piazza Raibetta, poi in via Filippo Turati e nella modernità” - dice proprio così Giacomo Costa “nella modernità”- “si sarebbero trasferiti nel Grattacielo, occupando gradualmente tre piani e mezzo, il 18°, il 19°, il 20° e il 21°, con una forza lavoro impiegata lì che era di almeno 130-150 dipendenti.” La casa privata era in via Bertora e poi, quella storica di corso Magenta 1, nel grande palazzo costruito dalla Sci, l’impresa costruttrice, diventata di famiglia, con un percorso a dispetto della guerra. La guerra, infatti, distrugge ma non piega, né Angelo Costa imprenditore, né Angelo Costa presidente del TC, il circolo colpito al cuore. Come imprenditore nel 1942, con la Verrina di Genova-Voltri, produttrice di macchine utensili si allarga al settore meccanico e vara a Riva Trigoso la “Caterina C”, prima nave costruita su ordinazione e nel 1943 diventa presidente della Filanda e delle tessiture Costa e nel 1944 acquista la maggioranza azionaria della Società Costruzioni Immobiliari, una Spa di proprietà dei Romanengo, antica famiglia di imprenditori genovesi che tira su anche quel palazzone di Corso Magenta, che qualcuno definirà poi il palazzo degli armatori: oltre al capostipite Costa ci andranno ad abitare anche i Corrado. La ricostruzione della flotta “C”, dell’economia distrutta, del tessuto imprenditoriale italiano, dei palazzi, delle case di Genova, dei campi da tennis e della Club House è un’operazione congiunta che segna la vita di Angelo Costa, numero uno ininterrottamente dal 1945 al 1955, anno in cui lascerà la presidenza di Confindustria.
Filanda e tessiture Costa
seguito i “fondatori” Beppe Croce, Emilio Bocciardo ed aveva accettato il ruolo di presidente, assecondando la sua natura che era di far andare d’accordo le persone”, spiega ancora Giacomo III. Dopo la guerra, quando non solo gli Orti Sauli dovevano “ripartire”, quell’impegno preso davanti ai vecchi era andato avanti con i tempi stretti di una vita im62
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Sono gli anni chiave, che visti con il binocolo rovesciato dall’angolo del Tennis Club, quell’oasi di verde stretta tra le serre del giardiniere Peirano, gli edifici “sacri” dell’Apostolato Liturgico e della redazione tipografia del quotidiano diocesano cattolico “Il Cittadino”, via Galata, possono sembrare anche miracolosi. “Il tennis a Genova era lì”, spiega ancora Giacomo III, “gli altri club, gli altri impianti pubblici e privati sarebbero arrivati dopo e non si trattava di tirare su solo i muri abbattuti dalle bombe e rifare i campi devastati, ma si doveva ricostruire la base dei soci, che dopo la guerra erano pochi e che rappresentavano certamente un’élite, ma non ci si poteva limitare a quella. Ci voleva un’élite anche un po’ di facciata per dare un senso al Club, ma anche questa crema doveva essere fatta da forti giocatori che riseminassero la pianta del tennis.” Giacomo Costa precisa ancora: “È vero, il tennis era ‘centrale’ e anche da un punto di vista urbanistico cittadino quell’operazione andava condotta tenendo conto che si pagavano affitti importanti al Comune, che allora era ben gestito, da sindaci forti, come Vittorio Pertusio, che Costa riteneva amico ma che criticava e con il quale bisognava fare accordi certi. E dall’altra parte c’era la Curia, con il cardinale Giuseppe Siri e con il suo delegato, monsignor Giovanni Cicali, certamente un sacerdote capace di difendere gli interessi della Chiesa genovese”. Come riuscì Angelo Costa, allora quarantaquattrenne, a fare tutto questo? Costa era riservato, modesto ed essenziale in tutti i
ruoli che in quegli anni ruggenti gli capitò di svolgere. Ma - si direbbe in gergo strettamente tennistico - non mollava una palla. Fu scelto come presidente di Confindustria e commentò così quella nomina che assumeva un valore enorme: “Sono stato scelto per caso. Nel 1945 i grandi erano compromessi con il passato e i giovani erano troppo giovani, pensarono a me che rappresentavo una via di mezzo.” Certo, la sua figura a Genova crebbe in modo tanto evidente da suscitare le immancabili invidie di una città sempre molto caustica con chi ha successo.“I capitani del passato”, ha scritto uno dei giornalisti più importanti che Genova ha espresso nel Dopoguerra, Giulio Anselmi, in un saggio degli anni Ottanta sulle grandi famiglie genovesi, “non apprezzavano la sua modestia e ritenevano che la sua bonomia fosse affettazione. Micidiale il giudizio di uno di questi grandi, Rocco Piaggio: “Angelo? Alle 6,30 si alza. Alle 7 sente Messa, alle 7,30 fa colazione da Mangini e alle 8 ha già fregato qualcuno.” Invidia polemica, intanto Costa cresceva esponenzial63
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mente: acquistava in modo oculato buone navi di seconda mano per “tenere la linea” tra Genova e il Rio de La Plata.“Anna C.”,“Andrea C.”, navi miste per passeggeri e per merci collegavano Genova con i porti sudamericani e il movimento dei viaggiatori diretti in Argentina e in Brasile, dopo il blocco della guerra, aumentava sensibilmente. Racconta ancora Giacomo III: “In quegli anni ogni partenza per l’Argentina e il Brasile da Ponte dei Mille era un avvenimento. C’era così tanta gente che facevamo pagare i biglietti per accompagnare a bordo chi partiva.” E dopo “Anna” e “Andrea” arrivò il turno negli anni del cosiddetto boom economico e in quelli seguenti della “Federico C.”, dell’ “Eugenio C.”, della “Enrico C.” e della “Giacomo C.”. Già nel 1948, a tre anni dalla fine della guerra, venne inaugurata la linea commerciale con l’America del Nord. Insomma, dal ventesimo piano del Grattacielo di piazza Dante, Angelo Costa, un patriarca appena quarantenne, era già a capo di un impero armatoriale, oleario, tessile, meccanico, immobiliare, alberghiero-turistico. A Roma reggeva il polso dell’imprenditoria italiana con una forte contrapposizione nei confronti di Giuseppe Di Vittorio, capo carismatico del sindacato comunista, del quale era amico, malgrado gli scontri frontali. Da una parte un imprenditore con visioni di stampo liberale e liberista, conservatore se vogliamo, puntiglioso, che scriveva non solo per se stesso, per quella monumentale raccolta di scritti che adorna ancora molte case di genovesi e di italiani, ma anche lettere continue a giornali e riviste, amico di De Gasperi e Einaudi e sostenitore di una visione appunto conservatrice, nemico di Ernesto Rossi, democratico di sinistra che criticava la sua visione dei rapporti tra potere politico e potere economico. E di fronte a questo perso-
Langano
Giacomo C. nel porto di Livorno
Eugenio C.
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Ravenna
Anna C. Eugenio C. e Federico C.
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autonomia funzionale dei moli sui quali potevano attraccare le navi dell’acciaio, in un regime diverso da quello monopolistico del grande porto genovese, governato dal duopolio di ferro Cap e Culmv, il Consorzio e la allora potentissima Compagnia dei camalli, forte di oltre 9 mila lavoratori, altro che i novecento scarsi di oggi. “Per Costa”, ha scritto ancora Giulio Anselmi nel suo saggio, “il proprio ruolo era quello non tanto di difendere gli interessi di una categoria imprenditoriale, ma piuttosto di rappresentare una dimensione della società italiana essenziale alla vita e allo sviluppo del Paese”. Sentiva come una missione nel convincere gli industriali, suoi iscritti, alla propria visione, contraria a un connubio tra pubblico e privato e aveva rapporti duri e complicati con i politici di Roma e di Genova che contestavano la sua strategia da liberista e da cattolico conservatore per non dire integralista. Si racconta che una volta passò una notte intera a discutere con alcuni consiglieri comunali genovesi della Dc per farli tornare indietro su una decisione esecutiva già presa. Chiusa la riunione, mentre tornava a casa, in Corso Magenta, con l’avvocato Giuseppe Manzitti, allora direttore dell’Associazione Industriali di Genova, gli aveva chiesto, pieno di dubbi: “Cosa dici, li avrò convinti?”.
Milano 16 febbraio 1984 Presentazione “Scritti e Discorsi” di Angelo Costa Con interventi di Giovanni Spadolini, Gianni Agnelli, Giovanni Malagodi e Paolo Baffi è stata presentata ieri sera presso l’Associazione Industriale Lombarda l’opera ‘’ Scritti e discorsi di Angelo Costa’’. Doveva parlare anche Luciano Lama e, Leopoldo Pirelli, in apertura, si è rammaricato ‘’ per la sua assenza e per i motivi che l’hanno provocata’’ . Tutti gli oratori hanno ricordato la figura di Angelo Costa, che fu presidente della Confindustria in due periodi, dal 1945 al 1955 e dal 1966 al 1970. ‘’Questo industriale in senso antico - ha detto Spadolini - pilotò, negli anni degasperiani, un indiretto ma operoso ed efficace ‘’patto sociale’’ . Ebbe la stima di De Gasperi e il rispetto di Di Vittorio’’. ‘’Quando Costa tornò alla guida della Confindustria, con Moro presidente, il centrosinistra moderato, i socialisti al governo - ha quindi sottolineato - in Italia tutto era cambiato. Nasceva un’Italia nuova. Il miracolo economico era solo un’etichetta, anche ingannevole. Il vetero-capitalismo era crollato; si erano delineate piuttosto forme nuove e inedite di speculazioni finanziarie che non avevano niente a che fare con il capitalismo, ne’ vecchio ne’ nuovo, e che magari trovavano aiuti e impulsi in centri di potere occulto inquinante e corruttore’’
naggio da un’altra parte un sindacalista epico, imbevuto della visione marxista ma capace di dialogare, di mediare con i principii del bene comune. Non c’è forse mai stato un confronto tanto costruttivo in Italia tra uomini espressioni di visioni tanto diverse come quello Costa-Di Vittorio. Se l’Acciaieria di Genova, Ilva, poi Italsider, poi di nuovo Ilva, è stata nel bene e nel male, nei posti di lavoro per generazioni e generazioni e nelle difficoltà ambientali, uno dei “caposaldi” dell’economia di Genova, si deve a una semplice stretta di mano tra Costa e Di Vittorio, che risolsero in un faccia a faccia tra loro a Roma la questione della
E fuori e al Tennis, come sono gli anni dell’apogeo Costa, gli anni di quella foto, scattata per l’esattezza nel 1958, che ritrae la famiglia con novantasette membri, tutti sorridenti per un futuro apparentemente senza ombre? Nella Genova che si avvia ai suoi boom, quello demografico che sfiorerà i 900 mila abitanti, con il Pci che prepara una città da un milione di abitanti, quello dei traffici portuali, dei traffici siderurgici, nella Genova ossessionata dalla mancanza di spazio per nuove in66
Angelo Costa La superpresidenza
vato alla Seconda Categoria, contro Alberto Della Croce sul campo 1, prima delle bombe,“ma tanti altri Costa scendevano in campo e continuano a farlo. Lorenzino era bravo. Angelo era un grande giocatore di bridge, non di tennis, ma la politica del Circolo sapeva condurla eccome. Sua, per esempio, era la scelta di non alzare le quote sociali, che non sarebbero mai state toccate fino a quando non arrivò Gian Vittorio Cauvin.” Nel dopoguerra c’erano da ricostruire la sede e i campi e, quindi, anche l’attività agonistica, che sarebbe ripresa eccome, ma che non avrebbe raggiunto i livelli del passato e neppure quelli che sarebbero arrivati dopo. Nell’album di quel tempo si ricorda una Coppa Facchinetti, vinta nel 1955 e un’altra sfiorata in finale, da Riccardo,“Richi” Roghi l’anno successivo. Come Angelo Costa riuscisse a governare il consiglio del tennis nelle sue puntate genovesi, malgrado la valanga di impegni, lo racconta anche uno dei suoi più giovani consiglieri degli Anni Sessanta, Romano Grondona: “Sono arrivato in consiglio nel 1960, a trent’anni. Ero il più giovane e in consiglio c’erano Norrish, Gagna e Maffei. Angelo Costa mi prese a ben volere e mi meritai la sua fiducia. Dopo gli anni della prima ricostruzione bisognava cercare di aumentare il numero dei campi e così si decise una prima operazione, con la quale costruimmo il campo 6. Certamente Angelo aveva una grande capacità di amministrare e di
1954 Internazionali: Angelo Costa si congratula con Fausto Gardini, al centro Jean Lercari
dustrie, Costa arriva il sabato e la domenica e si dedica anche alla famiglia sempre più numerosa e impegnata nella “Ditta”, al ruolo a cui tiene di più di nume tutelare della città, e, ovviamente, anche al Tennis. Il Tennis è un luogo non solo dedicato a quel gioco, che fa parte della tradizione di famiglia, ma è anche il “centro” dove Costa può esercitare molte azioni positive per la città, dietro lo schermo elegante, se vogliamo un po’ esclusivo, ma certamente anche neutro, di un Circolo, un Club riservato a un numero ristretto di soci. Anche lì è passata la ricostruzione e non solo Angelo, ma tanti altri Costa sono scesi rapidamente in campo. Con la racchetta e senza. “Il più bravo a tennis era Enrico”, ricorda Tito Tasso una delle colonne storiche, che tuttora può rinfrescare la memoria del Circolo e ricorda bene gli incontri tra suo padre, Emilio un altro grande giocatore, arri67
Angelo Costa La superpresidenza
deva piede con regole anche rigide nella distribuzione dei campi. Il sabato e la domenica, quando Angelo Costa “presiedeva”, giocando a bridge o si occupava della sede e dei problemi di gestione, sui campi potevano giocare solo doppi maschili. E immancabilmente in campo c’erano Serrati- Mordiglia, il doppio storico, che magari stava scannandosi sul campo 1 o sul 2 con l’altro doppio storico, Siccardi-Botteri. Era come un’egemonia, che escludeva i più giovani e soprattutto le donne. Fu il giovane consigliere Grondona a forzare in un memorabile pomeriggio quel blocco, come racconta lui stesso: “Scrissi sulla lavagna dove si segnavano i campi: «Vecchie Glorie e Giovani Promesse», alludendo al fatto che io e Bagnara sfidavamo Mordiglia-Serrati. Accettarono la sfida e noi riuscimmo a giocare nel bel mezzo di un sabato pomeriggio.” E vinsero pure...
decidere. Radunava il consiglio, ascoltava tutti e poi decideva. Rigorosamente da solo. Non si votava. Ma nessuno fiatava. Lui si girava verso il segretario e in genovese gli diceva:“Mia, oua scrivi.” È vero che la sua grande passione era il bridge, di cui era un giocatore molto acceso.“Raccontava che era il modo migliore di liberargli la testa, di farlo concentrare, riposandolo, ma tenendolo impegnato”, spiega ancora Giacomo III, suo figlio. La sua presenza sulla poltrona di presidente non era solo esercitare un saggio decisionismo da nume tutelare e giocare partite accanite di bridge. Ogni tanto c’era qualche grana, che Angelo Costa affrontava con arguzia, senza paura, magari, di entrare in rotta di collisione con i “poteri forti” che lo circondavano agli Orti Sauli, la Curia di Siri e il Comune, padrone dei terreni. È ancora Romano Grondona a raccontare uno di questi episodi di tensione, sempre nel cuore degli anni Sessanta, sagacemente risolto dal superpresidente. “Bisognava aprire una nuova finestra nell’ultima sala della Club House, quella che guardava verso gli edifici della Curia, l’Apostolato e le altre costruzioni. Ovviamente la Curia non voleva concederci il permesso. Così accadde che io e Duccio Garrone, che facevamo parte del l’Ucid, l’Unione degli imprenditori cattolici, strettamente legati a Piazza Matteotti, andammo a trovare monsignor Cicali per chiedergli il permesso. “Nun se fa!”, ci disse perentorio il monsignore. E noi, confortati dal presidente, rispondemmo: “Apriamo lo stesso quella finestra e semmai lei citerà in Tribunale noi e Angelo Costa, il nostro presidente... Evidentemente eravamo sicuri che con quel nome la cosa sarebbe finita lì. E cosi fu, salvo il fatto che Cicali, che era furbo come una volpe, ci suggerì di scrivere una lettera in cui annunciavamo l’apertura della finestra, alla quale lui avrebbe risposto con un’altra lettera...”. Quelli di Costa, dopo la guerra e la ricostruzione, erano stati anche anni nei quali il gioco in se stesso pren-
Costa presidente stava molto attento ai conti. Che cosa ci si doveva aspettare dal capo dei Costa, oculatissimi nel gestire le loro case, le loro aziende, ogni loro affare? Non solo si batteva per non alzare le quote dei soci, ma era precisissimo nel controllare il bilancio del Tennis. I premi nei tornei importanti dovevano essere forniti dai soci, che non si sottraevano. Si ricorda un famoso torneo per non classificati, nel quale era in palio come primo premio una Vespa, ovviamente messa a disposizione da Rinaldo Marsano, un’altra grande famiglia genovese. Immancabile era il “premio Costa” che consisteva sempre in una Crociera gratis sulle navi di famiglia. La generosità del presidente qualche volta suscitava qualche mugugno dei parenti, impegnati nella gestione della flotta, che Angelo rintuzzava con frasi del tipo: “Sulla nave c’è sempre posto e l’economia non ne soffre se occupiamo una cabina.” Costa ci teneva a esserci quando poi il torneo con i 68
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premi special era finito e bisognava consegnare il frutto della vittoria. Era l’occasione per i suoi discorsi, che avevano sempre una loro morale, sicuramente dedicata non solo alla partita, al gioco. Intanto, ovviamente anche il Costa armatore cresce nell’attività principale del suo impero: tornato in Confindustria come vice presidente nel 1959 realizza la prima nave al mondo completamente dedicata alle crociere da svago, vacanze di 7 o 14 giorni negli Stati Uniti e nei Caraibi: è la “Franca C.”, che nei mesi invernali sarà affiancata dalla “Anna C.” con viaggi più brevi, mini crociere di 3 o 4 giorni. Alla luce di quello che avverrà nei decenni a seguire e di ciò che abbiamo sotto gli occhi adesso si può capire quale geniale intuizione fu quella. All’inizio degli anni Sessanta, quelli del boom, la flotta Costa ammonta a 43.098 tonnellate di navi da carico e 74.787 tonnellate di navi passeggeri. I Costa hanno visto in anticipo la fine dei viaggi di linea, che l’aviazione civile sta per surclassare, e si sono messi al vento. Intorno alle loro navi, i cui fumaioli bianchi si stagliano nel porto genovese, che sta battendo i suoi record di traffici nel Mediterraneo, la città è veramente cresciuta con la Fiera del Mare, che svetta a Levante e brilla con i primi Saloni Nautici, con l’aeroporto Cristoforo Colombo quasi ultimato, con la Sopraelevata, costruita tra il 1964 e il 1965 in soli diciotto mesi di la-
vori, e i cantieri di Sestri Ponente varano la grande rivale della flotta Costa: la Michelangelo, che con la Raffaello, navi Finmare, deve sanare la ferita inguaribile della perdita dell’Andrea Doria. La rivoluzione della crescita genovese evidentemente ha toccato urbanisticamente anche il Tennis Club, perché il Comune ha scelto l’area degli Orti Sauli per costruire due licei, che segneranno generazioni e generazioni di giovani genovesi, il Cassini e il Barabino. Vuol dire perdere tre campi da gioco, compreso quel69
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sce a Indro Montanelli, smentendo il carattere chiuso dei genovesi. E c’è il suo fitto epistolario con molti giornali e giornalisti dell’epoca. Scritti che dimostrano la grande apertura verso l’Italia sui temi cruciali sociali e civili di anni così intensi, di crescita vertiginosa. Costa dialoga con Arrigo Benedetti de “L’Espresso”, con Piero Colombi di “24 Ore”, con Mario Tedeschi de “Il Borghese”, con Giorgio Fattori de “L’Europeo”, con “Concretezza” di Giulio Andreotti, con “Il Giorno” di Italo Pietra, un genovese di adozione, che abita quattro portoni più in là in Corso Magenta. Sono gli anni di maggiore spinta, nei quali Costa è al centro di ogni evento, come mai è successo e mai più succederà a un imprenditore genovese. Costa è anche presidente dell’Ente Bacini, della Banca Passadore, dello Stabilimento Duca Visconti di Modrone ed è vice presidente del Cotonificio Cantoni di Milano. E come dimenticare, in questo fervido clima d’impegno, il dibattito sui temi religiosi per un fedele così “forte” come il pluripresidente, nella fase storica che ha visto l’arrivo in Vaticano di papa Giovanni XXIII con il suo Concilio Vaticano II, che cambia le carte in tavola alla Chiesa di Roma e pone a ogni cattolico problemi enormi? Costa non si sottrae certo e “sfida” addirittura le aperture di Roncalli con un aforisma che ha come protagonista proprio “Il papa buono”: “Pio XII e Giovanni XXIII certamente odiavano ugualmente il peccato comunismo ed amavano ugualmente i peccatori comunisti, ma non c’è dubbio che Pio XII, dando l’impressione di odiare di più il comunismo, ha dato anche l’impressione di amare meno i peccatori comunisti e Giovanni XXIII dando l’impressione di amare di più i peccatori comunisti ha dato l’impressione, sia pure errata, di indulgere di più con il comunismo.” Visto più da vicino, come era questo personaggio così importante, autorevole, dialogante con i potenti del
lo centrale, che tante foto storiche ricordano, con le tribune piene di folla impegnata a seguire i grandi match di Coppa Davis, portata a Genova dal predecessore di Costa, Beppe Croce. Anche il Tennis Club, come le industrie genovesi, ha bisogno di spazio. E se per il primo problema Costa si era inventata con la sua famiglia e in particolare con Giacomino, Rivalta Scrivia, grande intuizione ante litteram per una base logistica Oltre Appennino, soci la Ifi-Fiat e la Pirelli, per il secondo che si può fare, nel cuore della città? Costa cerca spazio verso via Galata e il parco Serra della Curia e affitta, con una seconda operazione dopo la prima, il terreno che poi farà nascere i conflitti, per i quali si dovrà scendere in campo non con le racchette e le palline, ma discutendo con i monsignori della Curia. Così saltano fuori altri tre campi mentre due erano stati ricavati negli Orti Sauli sui terreni lasciati liberi dal floricoltore Peirano. Questa operazione è una pietra miliare nella storia del TC che il super presidente ascrive alla sua gestione: ha recuperato il Club distrutto dalle bombe e ora lo salva dal cemento. Ma Costa, grande imprenditore non lavora solo per gli spazi dei suoi soci agli Orti Sauli, la sua missione è larga e la sua voglia di impegnarsi socialmente anche sul piano di un dibattito pubblico italiano è insistente e molto variegata: propone alla giunta della Confindustria un piano per favorire l’accesso dei lavoratori dipendenti alla proprietà della casa, difendendo il suo concetto di proprietà privata, che va interpretato nell’incontro tra liberismo e socialità cattolica. Difende, ovviamente, anche gli imprenditori, quasi predicando nei suoi scritti che “soltanto proporzionando i compensi ai meriti si può sperare in un aumento di ricchezza generale e nell’ascesa dei più meritevoli.” C’è una famosa lettera, intitolata “I nostri industriali sono bravi ma non lo sanno”, che Angelo Costa spedi70
Roma 5 maggio 2000 Confindustria: i presidenti dalla fondazione ad oggi In novant’anni si sono succeduti alla guida di Confindustria 26 numeri uno, ai quali si andrà ad inserire nei prossimi giorni il nome di Antonio D’Amato. Le regole attuali prevedono che il mandato presidenziale duri 4 anni, ma in precedenza il limite era meno rigido. Così Antonio Stefano Benni restò sulla poltrona numero uno di Confindustria per ben dieci anni tra il 1923 ed il 1933, e Giuseppe Volpi di Misurata rimase in carica per un periodo analogo, dal novembre 1934 all’aprile 1943; entrambi furono però superati da Angelo Costa, altro patriarca dell’impresa italiana, la cui presenza al vertice di Confindustria durò complessivamente 14 anni (dal dicembre 1945 al febbraio 1955, e successivamente dal marzo 1966 all’aprile 1970). Ecco l’elenco delle presidenze di Confindustria dal 1910 ad oggi: -Luigi Bonnefon Craponne (1910-1913) -Fernando Bocca (1914-1918) -Dante Ferraris (1919) -G.B. Pirelli (1919) -Giovanni Silvestri (1919-1920) -Ettore Conti (1920-1921) -Emilio De Benedetti, Federico Jarach, Francesco Sacchetto, Raimondo Targetti (direttorio, 1921-1922) -Raimondo Targetti (1922-1923). -Antonio Stefano Benni (1923-1933) -Alberto Pirelli (commissario ministeriale, 1933-1934) -Giuseppe Volpi di Misurata (1934-1943) -Giuseppe Mazzini (commissario ministeriale, 19431944) -Fabio Friggeri (1944-1945) -Angelo Costa ( 1945-1955) -Alighiero De Micheli (1955-1961) -Furio Cicogna (1961-1966) -Angelo Costa (1966-1970) -Renato Lombardi (1970-1974) -Giovanni Agnelli (1974-1976) -Guido Carli (1976-1980) -Vittorio Merloni (1980-1984) -Luigi Lucchini (1984-1988) -Sergio Pininfarina (1988-1992) -Luigi Abete (1992-1996) -Giorgio Fossa (1996-2000) -Antonio D’Amato (designato 2000-2004).
suo tempo, della sua città, del suo Paese, uno che quando parlava in Consiglio al Tennis non volava una mosca e poi si faceva solo come decideva lui? “Sicuramente anche in famiglia la sua figura era mitizzata”, spiega una sua nipote Anna Orlando, oggi nota storica dell’arte, figlia di Nicolina, dei nove fratelli e sorelle di Angelo e di Peppino Orlando, un genero molto poliedrico e impegnato nella vita civile. “C’era un’enfasi tutte le volte che parlava Angelo... E quello che colpiva anche noi piccoli era l’assoluta sua coerenza in ogni settore e la sua influenza indiscutibile. Lui comprava pezzi pregiati di arte genovese del ‘600 e chi poteva farlo lo seguiva ciecamente. Se lo faceva Angelo Costa… Per noi nipotini era una figura mitizzata. Alto, ieratico con quei baffi bianchi, sempre vestito con la giacca e la cravatta anche nelle gite in montagna. Ricordo i Natali, tutti insieme, nove figli e ventotto nipoti e un regalo dei nonni per ognuno di noi... Come una lunga sfilata, ogni nipote un pacco da sfasciare…”. Secondo Anna Orlando le passioni di Angelo Costa, oltre il suo impegno di lavoro così massiccio e diffuso, erano nell’ordine: i quadri genovesi del 1600; il Genoa e il calcio; il bridge e le bocce da giocare possibilmente a Cogne. I quadri erano una passione pura, che aveva il suo codice perfetto ed anche etico. Angelo non comprava per speculare, ma per fare un affare in due, chi vendeva e lui che comprava. La speculazione dell’acquisto per rivendere era lontanissima dalla sua mentalità. Come poteva essere diverso per lui che considerava il gioco di speculare in Borsa come il Diavolo? Comprare bei quadri era fare più bella la sua casa e quelle dei suoi figli: eccola una attività economica molto più saggia. Il calcio e il Genoa erano un bell’intermezzo domenicale. Accompagnato da qualcuno dei figli, magari da Franco, che era un forte centroavanti, quasi abile co71
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simi, che saranno l’anticamera di scontri sindacali e poi del terrorismo, di cui il presidente vedrà solo la terribile alba e proprio nella sua città, a Genova. Sono anche gli anni in cui si aboliscono le gabbie salariali e si introduce lo Statuto dei Lavoratori. Nel suo discorso d’insediamento c’è un monito che potrebbe suonare molto attuale anche oggi: “Se si mette in discussione la via da seguire per fare star meglio i cittadini italiani e particolarmente le categorie più bisognose, siamo certi di arrivare all’accordo. Se il fine è quello dichiarato; se il vero fine è, invece, quello di servirsi dei problemi economici della povera gente per conservare o conquistare il potere o per far prevalere le proprie ideologie, l’accordo diventa impossibile.” Nella prima, eroica, fase della sua presidenza di Confindustria, Costa ha vissuto la grande spinta della Ricostruzione, in questa seconda fase affronta la pressione della conflittualità operaia e le divisioni interne alle categorie imprenditoriali. Si riduce nel 1966 l’orario di lavoro dei metalmeccanici e si lotta per fermare le invasioni dello Stato nell’economia. E anche su questo tema c’è una specie di anatema di Angelo Costa, che oggi suona come un terribile presagio: “Ci sono degli industriali che fanno gli industriali perché credono di poter produrre e creare per il Paese. Ma c’è anche qualcuno che si mette a fare l’industriale perché i soldi glieli dà lo Stato: e questo bisogna evitarlo.” Nel 1969 il presidente Costa delibera la nascita della “Commissione Pirelli”, incaricata di ammodernare lo statuto dell’Associazione, ringiovanendolo e favorendo nel 1970 il famoso “Rapporto Pirelli”. Questa è la nuova Confindustria e Costa può cedere il timone al suo successore Riccardo Lombardi, che aiuterà ancora nel 1974, da grande saggio, in un’operazione non facile e molto significativa nella storia imprenditoriale italiana: proporre la candidatura alla presidenza di Gianni Agnelli.
me un calciatore professionista della squadra di casa, il “Gruppo C” e poi della “Levante”, la sua versione più professionale o dal genero Peppino Orlando, marito di Nicolina, scendeva verso Marassi lungo la mitica scalinata Burlando, che collega la parte alta di via Burlando con via Bobbio e quindi lo Stadio Luigi Ferraris. “Il Genoa”, spiega Peppino, “era un po’ una malattia per tutta la famiglia, soprattutto per padre Maurizio, un fratello di Angelo, che si fece seppellire con le foto della squadra. Anche Angelo tifava con il suo stile.” Il calcio era, comunque, una sana passione per tutti i Costa e a Cogne d’estate non si sfuggiva alla partita tra quelli di Genova e gli altri.Angelo presiedeva, bonario e interessato. Le bocce erano un gioco di Cogne, giocato rigorosamente in giacca e cravatta e sono memorabili le partite in montagna.“Capitava”, racconta ancora Orlando, “che gli avversari potessero essere Saragat, Nenni, Togliatti, perfino Giolitti, che passavano qualche giorno di vacanza in val d’Aosta. Tra i genovesi pronti a bocciare con il superpresidente c’erano spesso Augusto Pedullà o l’avvocato Cristofanini.” Il radicamento Costa a Cogne fa parte della storia della famiglia e offre anche esempi e modelli della sua generosità, molto “segreta” come capita ai benefattori genovesi: Angelo si prodigò per organizzare, attraverso la Confindustria, una Casa Alpina che accogliesse chi non poteva permettersi vacanze sane in un posto così bello. L’assistente spirituale, che non mancava mai nelle organizzazioni Costa, in quella casa di Cogne, era stato don Giacomino Piana, un sacerdote genovese molto “centrale” per diverse generazioni di cattolici impegnati ed anche “border line”, negli anni del sopravveniente “dissenso” alla gerarchia della Chiesa. Costa torna al vertice di Confindustria, dopo undici anni di pausa, nel 1966 e la sua guida sicura precede la tempesta del Sessantotto, l’autunno caldo, gli sconvolgimenti nella società che si prepara ad anni duris72
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Angelo Costa sta dunque battendo tutti i record di longevità: in Confindustria, in Confitarma. Ma lo sappiamo: il record dei record è quello della presidenza al TC che arriverà al 1976, al giorno della sua morte. “Quando sono entrato giovanissimo, quasi un ragazzo di 23 anni come vice segretario dei segretario del Tennis Club, il Circolo era come governato da una triade”, racconta il testimone più attendibile e continuo della presidenza di Angelo Costa agli Orti Sauli, Pietro Romanengo, che fu poi segretario generale e spalla effettiva del leader Costa fino al giorno della sua morte. “Questa triade era composta da un vicepresidente operativo, l’avvocato Giulio Marsano, da un segretario, Ugo Gagna e da un tesoriere, Mario Mossa: facevano tutto loro e Costa era sopra tutti. Nel 1967 “il nocciolo duro”, cioè Mossa e Gagna chiedono rinforzi, hanno bisogno di due vice e veniamo scelti io e Gussi Ragnoli.” Romanengo ricorda bene, quasi nei particolari più sottili, come era quel governo del Tennis, che per quanto riguarda il superpresidente, era arrivato all’anno ventotto della sua leadership, in un mondo e in un circolo così diversi da quello delle origini e delle bombe belliche: “Giocava o non giocava Angelo Costa? Me lo hanno chiesto spesso. Credo che come tutti i Costa giocasse “prima”, tanto è vero che non dimenticherò mai la sua battuta, quando lasciò il vertice della Confindustria e mi disse: “Finalmente posso giocare
di nuovo a tennis, ho dovuto smettere quando sono andato a Roma...”. Evidentemente era una battuta. Il lavoro di vice segretario in un vertice così articolato era quotidiano e tanto impegnativo che è Romanengo stesso a non giocare più, perché si deve occupare di gestire il personale, assumere camerieri, preoccuparsi dei contratti per il caffè, altra grana storica... “Angelo arrivava al tennis il sabato e la domenica e trascorreva il pomeriggio giocando a bridge. ‘Se non giocassi a bridge sarei morto’, mi diceva spesso, spiegando che quell’esercizio gli liberava completamente la testa, lo rilassava, lo liberava”, commenta Romanengo, tornando su un rapporto che già il figlio Giacomo III aveva confermato: la funzione quasi taumaturgica di un gioco di carte che appassiona quasi tutti i giocatori di tennis. “Certo, se c’era da fare una premiazione, interrompeva la sua partita e presenziava con il suo stile. Ma in 73
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Il segno forte di quella presidenza era lo stile, la signorilità: Costa si raccomandava con la sua squadra di rispettare i soci benefattori, quelli che magari non pagavano puntuali la quote, ma che davano prestigio al Circolo. “Tutto il mondo cambia in peggio”, spiegava a Romanengo, “noi cerchiamo di cambiare un po’ meno.” Di questo stile, che a volte poteva apparire anche un po’ severo, ci sono stati esempi che Romanengo può ricordare con un sorriso e con un bel po’ di nostalgia. La stessa nostalgia delle “puntate” che ogni tanto lui segretario generale e il vicepresidente facevano al Grattacielo per sottoporre a Angelo nel suo ufficio i problemi improvvisamente urgenti. “De Ferrari o Gagna, mentre salivamo al Grattacielo mi ricordavano come era un privilegio andare a parlare da Costa. ‘Sai quanta gente sognerebbe di avere un rapporto diretto con lui...’, mi dicevano”. Costa era intransigente con i soldi. Una volta che uno dei soci più storici, il dentista Frido Serrati, aveva deciso di sua iniziativa una spesa non concordata gli fece sul posto firmare un assegno che ripianasse quella spesa, e quell’altra volta che Giorgio Messina aveva fatto trasportare da La Spezia dei pali della luce per migliorare l’illuminazione dei campi esterni, senza avere chiesto nulla a nessuno, Angelo glieli fece riportare indietro. Non erano decisioni concordate e non si transigeva. Messina non fece una piega. Poteva anche succedere che in una assemblea, magari un po’ più vivace delle altre, ci volesse un intervento più deciso, che magari non era in quello stile di Angelo. “Ricordo un’assemblea, nella quale c’era un gruppo molto vivace di commercialisti, nuovi soci che, appunto, noi chiamavamo ‘i commercialisti’, racconta sempre col sorriso Pietro Romanengo. “Ebbene questi commercialisti si misero a fare una critica, sostenendo che il bilancio del tennis era solo di cassa e questo non era corretto. Costa stette a sentire,
quei pomeriggi non si occupava di null’altro del club. Al tennis dedicava, invece, molto tempo, quando c’erano i Consigli, in genere una volta al mese.” E come era nel pieno esercizio della sua funzione questo presidente superimpegnato in azienda, in Confindustria, in mille altre azioni della sua vita famigliare, professionale, civile, perfino religiosa? Romanengo ricorda bene i diversi periodi nei quali lo ha assistito sempre più da vicino, soprattutto dopo che morì Marsano, sostituito alla vicepresidenza da Giulio De Ferrari, che vinse la concorrenza di Jean Lercari. A lui toccò sostituire Gagna e, quindi, essere sempre più vicino al presidente, capire come studiasse ogni pratica da portare in Consiglio, come arrivasse documentato e con le idee chiare, pronto, appunto, ad ascoltare tutti. “Era molto signore, corretto, attento e poi decideva da solo. Chiudeva la seduta e se ne andava. Non voleva il voto segreto. Non si fermava neppure un minuto e andava dritto a casa. Era sereno e rilassato, ma quello che colpiva me, giovane, era che sembrava che si occupasse solo di quello, che non avesse altro da fare ed era attentissimo a ogni particolare. Quando lo accompagnavo a casa in macchina, stava attento anche al percorso e se cambiavo strada, me ne chiedeva la ragione”. Eppure le grane c’erano eccome e Angelo Costa le affrontava con il suo stile e con le sue relazioni: con la Curia si confrontava con Cicali, il monsignore delegato ad omnia, dal quale si prese in affitto il parco Serra per costruirci i tre campi. Con il Comune il rapporto era più duro, di fronte alla richiesta frequente di adeguamento dei canoni. “Ma Angelo era sempre tranquillo”, racconta ancora Romanengo,“faceva questo ragionamento: il Comune non potrebbe far giocare 600 persone allo stesso prezzo con il quale affitta a noi. Spenderebbe molto di più e quindi noi restiamo qua.” Aveva ragione e il tempo lo ha dimostrato nel corso dei decenni. 74
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cine ai Costa per parentele strette, erano in una posizione ancora diversa, più prossima alla costellazione di Angelo. In questa città Angelo Costa esercitava un ruolo centrale sempre, governasse dal consiglio di amministrazione di una delle sue società, dal tavolo di bridge, dalla sedia di capotavola in famiglia e, ovviamente dall’ombelico del Tennis Club. Ci teneva. Arbitrava, componeva conflitti, liti e beghe di ogni qualità e di ogni protagonista, magari anche tra i suoi concorrenti armatori. Memorabili le sue pacificazioni con Ernesto Fassio, che lo chiamava a dipanare le grane con suo fratello Ugo. Fu così fino alla fine improvvisa, nel luglio del 1976, al ritorno da un viaggio a Roma, dove c’erano stati incontri con il Ministro della Marina Mercantile e riunioni in Confindustria per la successione a Lombardi. Qualcuno in famiglia attribuì alla tensione di quel viaggio il malore che rapidamente fece finire il suo percorso terreno. Genova lo salutò con un grande funerale nella chiesa dell’Immacolata e rimase come decapitata di una figura assolutamente insostituibile per le tante e delicate posizioni che ricopriva, a incominciare da quella di capofamiglia e capo azienda. Il sistema stellare, che era nato con lui, non poteva essere lo stesso e in città l’epicentro di un altro sistema, quello delle grandi famiglie borghesi che garantivano un equilibrio e che già avevano sentito i primi morsi di una crisi inarrestabile, prese un colpo micidiale. Non ci sarebbe più stato un Angelo Costa, comunque referente alternativo di una politica che, attraverso i suoi leader di quegli anni, appunto Taviani, ma anche Giorgio Bo, ministro delle Partecipazioni Statali, Francesco Cattanei, deputato, sottosegretario, presidente della Commissione Antimafia, potenziale “delfino”, considerasse Genova un territorio già spartito tra le aziende dell’Iri sempre più potenti e la borghesia do-
poi incominciò tranquillo e pacato a impartire una lezione sui risconti e sul loro significato, talmente dettagliato, convincente e bonario che la assemblea si spense. Lui terminò, si mise il cappotto e sorridendo a tutti se ne tornò a casa.” La leggenda che in quegli anni che si avviavano a una brusca svolta sul finire dei Settanta il potere di Genova fosse nelle mani di un triumvirato, Taviani-Siri-Costa va sicuramente ridimensionata da ogni lato del triangolo, ma probabilmente in maniera più forte da quello di Angelo Costa. Costa aveva ottimi rapporti con il cardinale Siri, considerato un po’ esageratamente per la sua posizione conservatrice rispetto a Giovanni XXIII il vescovo dei ricchi, ma non c’era quella consonanza stretta, quella confidenza che la leggenda ha alimentato. Con Taviani, il personaggio politico sicuramente più importante del Dopoguerra genovese, quasi sempre ministro, Angelo Costa aveva un rapporto “funzionale” non certo confidenziale. Anzi. Quando a palazzo Tursi nacque il centro sinistra e Vittorio Pertusio, il sindaco democristiano, battezzò quella alleanza tra Psi e Dc, Costa criticò duramente. La sua visione era diversa, come si è detto, molto più liberista, quindi contraria a una politica che il centro sinistra inaugurava. Costa era affezionato soprattutto a un suo ruolo centrale di nume tutelare della città e si teneva a debita distanza dai poteri istituzionali. Il modello Costa di assetto aziendale-famigliare era simbolo di solidità e successo in tutta la città e presso le altre famiglie della borghesia, che erano sicuramente diseguali per stile e abitudini, i Cauvin, i Cameli, i Corrado, i Bibolini, i Ravano, i Campanella, per non dire i Piaggio, tutti sicuramente meno sobri, più snob, anche se equilibrati nel perseguire l’obiettivo di una grande città portuale, mercantile, industriale. Bozzo, Dufour, Romanengo, altre grandi famiglie, vi75
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scelti Mario Mossa o Roby Bocciardo, l’ultimo vicepresidente di Angelo Costa o perfino un giovane Giorgio Messina. Ma poi la scelta cadde su Gian Vittorio Cauvin. Qualcuno chiese a Giacomo III, figlio di Angelo - così lui ha raccontato - se se la sentisse di prendere il posto di suo padre, non una richiesta ufficiale, ma un sondaggio. La risposta fu negativa. Come era possibile occuparsi non solo della immensa eredità famigliare e aziendale lasciata da Angelo, ma anche di quella del tennis? E così la monarchia illuminata, durata trentasette anni al Tennis Club, sotto il nome Costa, ebbe fine.
minante sul mare e sul porto e su ciò che allora era il mercato. Taviani era un leader nazionale, “pontiere” tra le correnti Dc e la città, con l’intera Liguria, erano affidate ai suoi proconsoli, certi che qualsiasi questione sarebbe poi stata risolta dal capo ogni domenica, quando tornava dalla capitale nella sua residenza genovese di Bavari. Per il Tennis Club la morte del suo grande presidente, che aveva regnato trentasette anni, fu ancora più traumatica. Non era facile trovare un successore e anche semplicemente aspirare a esserlo. Avrebbero potuto essere
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Presidente dal 1976 al 1980
Gian Vittorio Cauvin
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1890 Suo nonno Vittorio Cauvin fonda a Genova l’omonima ditta che ha come prima attività l’importazione di fertilizzanti. 1930 Nasce il 14 giugno a Genova. 1951-1953 Suo padre Ernesto Cauvin assume la presidenza del Genoa riportando la squadra in serie A. 1954 Si laurea a pieni voti in Economia e Commercio all’Università di Genova. 1958 (circa) Inizia a lavorare nell’azienda di famiglia. 1960-1965 Il Gruppo Cauvin crea una presenza operativa al Cairo (Egitto) e costituisce Sideriberica con uffici a Madrid e Barcellona. 1965-1966 Fonda la Acciai di Qualità SpA. 1976-1980 E’ il sesto presidente del Tennis Club Genova. 1980-1991 E’ presidente della Camera di Commercio di Genova. 1982 Assume la presidenza della Vittorio Cauvin SpA. Fonda la Com. Int. Srl. e la Diffel Spa, concessionaria Ibm per la vendita di personal computer. 1983 Acquisisce la Fantino & C. SpA. Fa parte del comitato dei promotori per la rinascita della Banca Popolare di Genova e San Giorgio. 1986 Costituisce la Alluminio di Qualità Srl. Fonda Mondimpresa, agenzia delle Camere di Commercio per la mondializzazione dell’impresa di cui è presidente. 1987 E’ insignito della Legion d’Onore. E’ tra i protagonisti della rinascita della Banca Popolare di Genova e San Giorgio. 1988 Organizza a Genova la quinta Assemblea permanente delle Camere di Commercio del Mediterraneo. 1991 Fonda la Cauvin Agricoltura. Diventa presidente della nuova Banca Popolare di Genova e San Giorgio. 1992 Diventa Cavaliere del Lavoro. 2000 Muore il 28 febbraio a Genova.
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pione italiano di tennis - seconda categoria in doppio. Quattro maschi, Ernesto il primogenito nel 1955, Umberto, Francesco e Michele, più la secondogenita Vittoria. Negli anni ‘60 il Gruppo Cauvin apre una sede al Cairo (Egitto), costituisce Sideriberica, società mista Finsider-Cauvin per la vendita di prodotti siderurgici italiani in Spagna, fonda una nuova azienda: la Acciai di Qualità Spa. Nel febbraio 1980 diventa presidente della Camera di Commercio di Genova, a seguito di una larghissima intesa tra le principali associazioni imprenditoriali genovesi. Nel 1982 assume la presidenza della Vittorio Cauvin Spa, la holding del gruppo e della altre società, dopo la morte di suo padre Ernesto l’anno prima, il 23 dicembre 1981. Sempre nel 1982 fonda la Com. Int. Srl, azienda specializzata nelle forniture ai Paesi in via di sviluppo. Nello stesso anno crea la Diffel Spa, concessionaria Ibm per la vendita di personal computer, attraverso cui il Gruppo Cauvin diventa un importante realtà dell’informatica italiana. Nel 1983 il Gruppo acquisisce la Fantino & C. Spa, una delle principali società italiane specializzate nel commercio di lamiere. Un annuncio storico segna Genova il primo dicembre 1983: “l’insegna del Banco di San Giorgio, la banca più antica del mondo (1407), tornerà a rivivere in un nuovo istituto di credito a carattere cooperativo e popolare”, Cauvin è nel comitato dei promotori. Riconfermato nel 1985 alla guida della Camera di Commercio di Genova, nello stesso anno in qualità di presidente del World Trade Center Genoa inaugura la prima videoconferenza Italia-Usa in diretta nella storia delle telecomunicazioni italiane, realizzata dalla Sip. Nel 1986 costituisce la Alluminio di Qualità S.r.l, società per la commercializzazione di estrusi e laminati. Il gruppo acquisisce partecipazioni in due società, la Proteca (brokeraggio assicurativo) e la Ligure Piemontese Commissionaria, specializzata in gestioni patrimoniali, intermediazione monetaria,
mprenditore di livello internazionale in oltre 20 settori, artefice di un impero da 190 miliardi di Lire di fatturato nel 1998, presidente della Camera di Commercio di Genova per 10 anni, fino a protagonista della rinascita della banca più antica del mondo: è Gian Vittorio Cauvin, sesto presidente del Tennis Club Genova dal 1976 al 1980. Dai fertilizzanti alla siderurgia, dall’informatica all’automazione industriale, dalla finanza all’impiantistica elettrica, dall’aeronautica alle gestioni patrimoniali: un industriale da record, tanto da ricevere la Legion d’Onore da Francois Mitterand e la nomina a Cavaliere del Lavoro da Oscar Luigi Scalfaro. Nato a Genova il 14 giugno 1930 da Ernesto Cauvin e Gabriella Bertolini, appartiene alla quarta generazione di una famiglia francese originaria della Provenza (Draguignan) trasferitasi in Italia alla metà dell’Ottocento, insieme al fratello Massimiliano è l’erede della tradizione imprenditoriale della famiglia. Suo nonno Vittorio Cauvin, nel 1890 fonda a Genova l’omonima ditta che ha come prima attività l’importazione di fertilizzanti, un commercio nuovo per l’epoca. Suo padre Ernesto, nato nel 1903, durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale continua a far crescere l’azienda ampliandola nel secondo dopoguerra al settore siderurgico. Si laurea a pieni voti in Economia e Commercio nel 1954 all’Università di Genova. Appena conseguito il titolo di studio trascorre un periodo negli Stati Uniti per acquisire esperienze dirette presso le maggiori aziende dei settori in cui la Vittorio Cauvin opera. Tornato a Genova inizia a lavorare nell’azienda di famiglia, si occupa di organizzare la distribuzione in Italia dei prodotti siderurgici importati dagli Usa. Nel frattempo l’azienda apre uffici a Roma, Milano e Bologna e allarga la propria attività all’export dall’Italia e al commercio internazionale. Sposa Giuliana Campi. Da sua moglie avrà cinque figli, tutti sportivissimi come lui, che nel 1957 è cam79
dite (16 miliardi e 800 milioni) e la trasformazione dell’istituto di credito da cooperativa a responsabilità limitata a società per azioni. Il successo imprenditoriale di Cauvin nel 1992 è coronato dalla nomina a Cavaliere del Lavoro da parte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Dal 1982 al 1992 i dipendenti del Gruppo Cauvin passano da 100 a oltre 250, 453 comprendendo le aziende partecipate in cui il gruppo ha un ruolo di rilievo, e il fatturato consolidato sala dai 36 miliardi del 1982 a oltre 150 miliardi nel 1991. Negli anni ‘90 la Banca Popolare di Genova e San Giorgio è pilotata da Gian Vittorio Cauvin fuori dalla crisi, ecco i dati registrati dall’Ansa: 9,4 miliardi di perdite nel 1992, 2 miliardi e 274 milioni di perdite nel 1994, 339 milioni di utile nel 1995, 1 miliardo e 669 milioni di utile nel 1996 (il Credito Agrario Bresciano sale al 70 per cento, il 30 per cento resta ai piccoli azionisti). Nel 1997 viene distribuito il primo dividendo pari a 70 Lire per azione, l’assemblea dei soci conferma Cauvin presidente per tre anni. Un utile di circa 4 miliardi nel 1997, il dividendo cresce a 120 Lire. Muore prematuramente all’età di 69 anni il 28 febbraio 2000. Il Banco di San Giorgio dal 2006 lo ricorderà consegnando due borse di studio a favore della ricerca nel reparto di Ematologia dell’ospedale San Martino di Genova, reparto presso il quale Gian Vittorio Cauvin fu aiutato ad affrontare la propria malattia.
diazione monetaria, consulenza finanziaria aziendale. Un’altra partecipazione acquisita è quella nella Orsi Automazione Spa, una delle principali aziende italiane nel campo dell’automazione industriale. Nel 1986 realizza il progetto “Mondimpresa” affidatogli dal consiglio nazionale di Unioncamere. Per il suo impegno imprenditoriale nell’import-export, il 17 ottobre 1987 nella Sala Dorata della Camera di Commercio di Genova è insignito con la Legion d’Onore, onorificenza concessa dal presidente della Repubblica francese Francois Mitterand. Solo due settimane più tardi, il 31 ottobre 1987, è tra i protagonisti della nascita della nuova Banca Popolare di Genova e San Giorgio. Il 1990 è l’anno del centenario della Vittorio Cauvin Spa. All’inizio del 1991 nasce la Cauvin Agricoltura, una joint venture con il Gruppo Unifert, uno dei principali operatori mondiali nel trading di fertilizzanti. Nel febbraio 1991 Gian Vittorio Cauvin lascia la prima poltrona della Camera di Commercio di Genova. Con il rinnovo del CdA della Banca Popolare di Genova e San Giorgio il 30 aprile 1991 diventa il nuovo presidente dell’istituto di credito in piena crisi: oltre 16 miliardi di Lire di perdite nel 1991. Il 9 giugno 1992 dopo oltre quattro ore di discussione l’assemblea straordinaria dei soci della Banca Popolare di Genova e San Giorgio approva l’alleanza con il Credito Agrario Bresciano. L’operazione consente di ridurre le per-
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Quello smash al cuore
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riale impegnato sui tanti fronti, ma il presidente deve andare... Le seconda scena è quella della morte improvvisa del presidente dei presidenti Angelo Costa, nel luglio del 1976, dopo il suo regno di 37 anni al Tennis Club degli Orti Sauli, quella specie di lunga monarchia quasi assoluta. Chi è degno di succedere, chi è in grado di raccogliere una eredità simile, che non è semplicemente quella di presiedere il Tennis Club, oramai ricostruito, rilanciato, che vive anche il boom del tennis come sport corroborato dai successi azzurri della Nazionale (in quella estate fatidica un italiano, Adriano Panatta, vince finalmente due grandi tornei internazionali, quelli di Roma e di Parigi) e tra pochi mesi la squadra italiana conquisterà per la prima volta la Coppa Davis a Santiago del Cile. La figura scomparsa, il patriarca dei Costa, è un autorevole leader italiano, che ha assunto nella città, ma ancor molto più generale nel Paese, un ruolo di grande rilievo nella ricostruzione post bellica e poi nel boom economico, un cardine anche a Genova, una specie di nume tutelare della città, rappresentante di una forte tradizione aziendale, come leader della “sua” Costa. Forse per tutti questi motivi e per un senso strategico che non è mai mancato nel governo del Tennis Club, abituato a scegliere i suoi leader tra personalità forti anche al di là del campo di terra rossa e della organizzazione sportiva, la scelta cade su Gian Vittorio Cauvin, che in quel momento ha 55 anni, è al culmine della sua vita professionale nella azienda di famiglia. Ed è anche un campione di tennis, che ha vinto un titolo italiano di Doppio di Seconda Categoria nel 1957, che continua a giocare e nella cui famiglia quello sport è una specie di religione. Inoltre sta per affacciarsi in quel ruolo pubblico che lo distoglierà in parte quasi dagli impegni aziendali, dove restano il fratello Max e i suoi figli. Gian Vittorio Cauvin è un uomo deciso, ha le idee chia-
a prima scena più o meno è questa: Ernesto Cauvin, il primogenito sta sulla porta di quell’ufficio “storico” dell’azienda nel palazzo di via XX Settembre, sotto i portici. La ditta “Vittorio Cauvin” ci abita da decenni, è un bell’ufficio classico per l’establishment economico genovese, arredamento scuro, grandi ritratti alle pareti. Gian Vittorio Cauvin, il nostro sesto presidente, è seduto dietro la sua scrivania, ma sta per alzarsi e correre via, pressato dai suoi tanti impegni di presidente della Camera di Commercio o dagli altri incarichi che ricopre nella città in ebollizione, che è la Genova degli anni Settanta-Ottanta. Come si sosterrà poi, in mille teorizzazioni, in definizioni difensive e magari anche accusatorie, quella è una città in trasformazione, che cerca di trovare una nuova identità, dopo la fine dell’era industriale, che si è già annunciata, dopo la progressiva caduta delle grandi aziende Iri, dell’ombrello protettivo del parastato, sotto la cui ombra si salva un indotto sterminato di piccole aziende, di grandi competenze professionali. Il porto, che è il fulcro della città, il suo “sale”, vive la grande crisi del passaggio tra un modello pubblico e una privatizzazione, bloccata dai mille monopoli in vigore: da quello secolare dei camalli, riuniti nella Culmv dei potenti consoli, agli altri che hanno impedito fino ad allora di far entrare sulle banchine i principii chiave della economia di mercato. Cauvin è uno dei civil servant che si è schierato, compiuti i cinquanta anni, sul fronte di quella trasformazione, anche un po’ a discapito dell’impegno totale nelle sue aziende, quelle che suo nonno Vittorio e suo padre Ernesto e poi lui e suo fratello Max hanno impiantato a Genova con grandi successi. La scena prosegue: sullo stipite di quella porta del suo ufficio si affaccia suo figlio primogenito Ernesto, che vorrebbe fermarlo per fargli affrontare qualcuna delle questioni urgenti che pressano un gruppo imprendito81
Gian Vittorio Cauvin Quello smash al cuore
Gian Vittorio Cauvin tennista
re e quindi precisa subito che il suo impegno non sarà superiore ai quattro anni di un mandato agli Orti Sauli. Conosce la lunghezza del regno di Angelo Costa ed anche le ragioni che lo hanno protratto tanto a lungo.Vive e respira da giocatore, da imprenditore annusa l’aria che circola negli spogliatoi, conosce la sua generazione, dove le aspirazioni per dare una spinta moderna al circolo sono tante e ha già firmato un tacito accordo generazionale. Dopo Costa ci saranno presidenti con tempi rapidi, gestioni pronte a cambiare il proprio leader. Genova è una città che sta entrando in quella complicata epoca di trasformazione e la spinta verso il nuovo la si deve leggere anche attraverso quei segnali che il Circolo ha sempre dato nella sua storia. In quel momento anche le stanze ombreggiate dai grandi alberi del parco Serra sono pronte ad avviare e cavalcare cambiamenti importanti. Escono di scena i “grandi vecchi” e si affaccia la nuova generazione che ha, appunto, l’età di Cauvin, i quarantenni-cinquantenni. Il “cambio” riguarda tutti i settori della vita civile ed economica ed è accentuato da due grandi vicende che coinvolgono Genova: la crisi delle grande azien-
de a Partecipazione Statale, che però sono ancora l’architrave dell’economia cittadina e il tramonto delle grandi famiglie borghesi-produttive, industriali e armatoriali, che incominciano un lento, ma inesorabile declino, salvo rare eccezioni tra le quali, appunto i Cauvin. La terza scena è di nuovo in famiglia e la possiamo figurare, anche se non è avvenuta proprio così e magari spostarla un po’ più avanti nel tempo, quando la presidenza del Tc si è già esaurita: Gian Vittorio ha scritto una lettera ai suoi figli, raccolta in un libro che ha un titolo chiarissimo “Lettere al futuro”, nel quale 33 imprenditori italiani di successo affrontano con un loro messaggio il tema delicatissimo del passaggio generazionale nelle proprie affermate aziende. “Sono stato buono - scrive quasi alla fine di una lettera lunga e commovente Gian Vittorio a Ernesto, Michele, Francesco e Tony e ovviamente anche a Vittoria, Vicki - non vi ho raccontato per l’ennesima volta il famoso 82
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colpo di genio del nonno per finanziare il pellegrinaggio spagnolo nell’anno Santo 1950 e neppure la storia della sua leggendaria parola d’ordine nel caso del solfato di rame acquistato a Londra. Datemene atto. In compenso, però, vi faccio uno smash dritto al cuore: avete nelle vostre mani non solo un piccolo gruppo di imprese, non solo, mi auguro, una fonte di reddito e la futura serenità vostra, delle vostre famiglia e dei vostri collaboratori, ma anche il sorriso tranquillo e orgoglioso di vostra padre e vostra madre quando pensiamo a voi. Agite in modo di non spegnerlo mai.” La scena che serve a raccontare questo presidente del Tc e la sua storia è di questi ragazzi, già diventati uomini, che ascoltano la lettera e continuano a sorridere sul serio, anche se magari hanno affrontato prove dure e sanno che le affronteranno ancora di più e non sanno quanto quella lettera è in qualche modo preveggente: il libro è del 1999 e il male inesorabile che lo porterà via ha già aggredito Gian Vittorio Cauvin subdolamente, silenziosamente, come avviene spesso. Poi ci potrebbero essere altre scene per descrivere la personalità di questo imprenditore, una delle ultime espressioni forti di un establishment genovese-internazionale, ci potrebbero essere altri flash su Gian Vittorio Cauvin, il sesto presidente del tennis, forse il primo dell’era moderna, che riguardano la sua personalità di amante del tennis, di giocatore di classe vera, di dirigente, di presidente, di imprenditore, di leader della città in momenti chiave, anche, se vogliamo commuoverci un po’, di combattente fiero, orgoglioso e silenzioso anche contro la malattia che lo ha portato via troppo presto, come capiterà - destino incredibile - a un altro grande presidente che arriverà qualche anno dopo di lui, Giorgio Messina. Come dimenticare per chi “batte” i campi di terra rossa e gli spogliatoi degli Orti Sauli, quel giorno, in mezzo a quella malattia, nel quale come una ventata di felicità e ottimismo percorreva il Parco Serra, la sede, i
Genova 1 dicembre 1983 Fondata “Banca popolare di Genova e San Giorgio” Genova avrà, prossimamente, un nuovo Istituto di Credito, la ‘’Banca Popolare di Genova e San Giorgio’’, a carattere cooperativo e popolare. Oggi si è infatti costituito ufficialmente il comitato dei promotori che provvederà a richiedere alla Banca d’Italia l’autorizzazione ad operare l’esercizio del credito e la raccolta del risparmio, nonché tutte le altre operazioni di banca a Genova e provincia. L’iniziativa - è stato detto nel corso della presentazione alla stampa - viene a colmare un vuoto nella città e in provincia, uniche in Italia ad essere prive di una propria Banca Popolare a carattere cooperativo. Il comitato dei promotori, di cui fanno parte, tra gli altri, il presidente dell’Associazione Industriali, Riccardo Garrone, e il presidente della Camera di Commercio, Gian Vittorio Cauvin, rappresenta numerose categorie economiche e professionali locali. ‘’Questa iniziativa - è stato aggiunto - costituisce un atto di fiducia nel futuro della città e nella sua rinascita socio-economica. La stessa forma sociale a carattere cooperativo, con amplia partecipazione, viene a coinvolgere direttamente imprenditori, professionisti e grosso pubblico, senza possibilità di formazione di gruppi di controllo’’. Il capitale sociale sarà inizialmente di 10 miliardi di lire, diviso in un milione di azioni da 10 mila lire di valore nominale, con possibilità di sottoscrizione da un milione a 15 milioni. campi, lo spogliatoio.“Gian Vittorio sta per giocare - diceva come una voce, un tam tam - annunciando l’uscita dagli spogliatoio dell’ex presidente, che dopo la prima fase della malattia e delle cure, si sentiva in grado di impugnare ancora la racchetta. Poteva essere la prova della vittoria sulla malattia, che l’incubo era finito, che il male era stato domato. Il tennis, quello spogliatoio dal quale la sua voce usciva sempre con un tono più alto, che la sentivi nelle risate, nei commenti molto più delle altre, era ancora una 83
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no usuale andare d’accordo in quattro (già nel doppio ci sono difficoltà, come ben sapete frequentando la terra rossa), ma poi vi si aggiungono altrettante mogli, che non è proprio detto si debbano trovare bene insieme a organizzare un tifo concorde: quindi arrivano i figli ad aumentare il numero dei giocatori e anche loro avranno la loro individualità… insomma fin’ora va tutto per il meglio, non potrei davvero desiderare una famiglia più unita, però vi scongiuro di stare attenti, molto attenti, perché l’armonia è un bene primario.” L’armonia - scrive Cauvin, raccomandandola ai figli e facendo l’esempio del doppio di tennis, nel quale lui era un campione da giovane, come da giocatore maturo, l’armonia come principio base nella vita di famiglia e in quella delle aziende famigliari. Ma da dove parte tutto questo, dove si crea l’intreccio che lega queste scene appena abbozzate, che ci raccontano chi era Cauvin: appunto l’amore famigliare, la capacità imprenditoriale, l’impegno civile, la passione per la propria città, il tennis giocato da campione, il tennis, il campo sul quale si avvicendano i giocatori e i confronti come luogo che riassume tutto il resto? O molto del resto. Anche qui tutto parte da una famiglia forte, con i figli che ricevono quella lettera toccante alla quinta generazione imprenditoriale. Gian Vittorio Cauvin, nato da Ernesto e da Gabriella Bertolini nel 1930 appartiene alla quarta generazione di una famiglia francese, originaria della Provenza (Draguignan), trasferitasi in Italia alla metà dell’Ottocento. È il nonno Vittorio Cauvin che fonda a Genova una ditta per l’importazione di fertilizzanti,“inventando” un business veramente nuovo per l’epoca. Suo figlio Ernesto, nato nel 1903 continua l’attività e la amplia al settore siderurgico. Ernesto è un bel personaggio, già aperto alla città a 360 gradi: nel 1951 due tifosi d’eccezione, il cardinale Giuseppe Siri e Angelo Costa lo sollecitano addirittura ad
Genova 15 ottobre 1985 Prima videoconferenza Italia-Usa “Colombo ha scoperto la strada, Marconi l’ha sviluppata ed ora siamo giunti alla comunicazione in tempo reale collettiva’’. Lo ha affermato il Ministro al bilancio On. Pier Luigi Romita nel corso dell’inaugurazione, avvenuta oggi pomeriggio a Genova, nell’attuale sede del ‘’World Trade Center Genoa’’, della sala pubblica per videoconferenze realizzata dalla Sip con un collegamento Genova-New York, primo in Italia. Erano presenti, tra gli altri, il presidente della Camera di Commercio di Genova e del W.T.C. Genoa, Gian Vittorio Cauvin, il console generale Usa Richard Higgins, il direttore generale Sip Armando Fiumara, il direttore generale Italcable Umberto Malta. Da New York hanno parlato anche il governatore dello stato Mario Cuomo, il sindaco Edward Kock, l’ambasciatore d’Italia negli Usa Rinaldo Petrignani. ‘’L’Italia - ha detto ancora il Ministro Romita - è impegnata ad allargare il più possibile lo scambio con gli Stati Uniti. Il nostro intento è quello di rendere il sistema economico italiano più competitivo’’. La videoconferenza GenovaNew York realizzata via satellite dalla Sip, Telespazio e Italcable, costituisce un esperimento significativo di utilizzo delle nuove tecnologie di telecomunicazioni consentendo la sostituzione del trasporto delle persone con quello dell’immagine e della parola.
volta l’ esperimento che lui faceva su se stesso, con il consueto distacco, per ritrovare non solo il suo corpo, i suoi movimenti di antico campione, l’impugnatura, quella volèe elegante e mai eccessiva, l’occhiata precisa prima del colpo da far partire, ma tutto se stesso. Il tennis come parametro della vita, del lavoro, della propria mentalità, del proprio carattere, quello era anche Gian Vittorio Cauvin e quella era la sua misura. In quello stesso libro con la lettera ai figli, che incominciava con “Cari ragazzi...” c’erano altre frasi indicative sull’inesorabile perifrasi esistente tra il tennis e la vita in generale.“Non è per nulla semplice e tanto me84
Gian Vittorio Cauvin con i genitori Enesto e Gabriella, il fratello Max e le sorelle Maria Bice e Maria Elisa
fondisce i filoni di interesse delle aziende di famiglia: alla Us Steel Corporation, i prodotti siderurgici e alla International Mineral & Chemical Co, i fosfati e i fertilizzanti. Allora, quando aveva preso quella strada di famiglia, non senza difficoltà interiori, Gian Vittorio Cauvin era già un campione di tennis. Giocava bene, leggero, efficace, elegante come poi sarebbe stato in ogni gesto della sua vita, non solo nei cosiddetti “gesti bianchi”, definizione del tennis inventata dal suo amico e partner tennistico, Gianni Clerici, il giornalista-scrittore-grande giocatore di tennis. Per capire subito chi era Cauvin giovane, in qualche modo incerto sulle strade da seguire, ma nello stesso tempo deciso a adempiere un dovere del suo “status” sociale e famigliare, potrebbero bastare, come in un altro flash, le righe di prefazione che Clerici gli ha dedi-
assumere la presidenza del Genoa, incarico che ricoprirà fino al 1953. Non è solo una presidenza di salvataggio, come capiterà spesso alle due sponde calcistiche genovesi fino ai giorni nostri, ma con essa il Grifone rossoblù riconquista la seria A, dopo due anni di inferno in B. È il segno di una propensione cittadina della famiglia, di una esposizione pubblica “forte” che i Cauvin riconoscono di avere. Gian Vittorio, che come spesso capita ai figli di un padre identificato calcisticamente con una delle due squadre della città, è tifoso dell’altra, cioè della Sampdoria ed è un predestinato alla carriera di capo azienda e di imprenditore, anche se probabilmente nel fondo del suo cuore le aspirazioni, come vedremo, potevano essere diverse. Si laurea a pieni voti in Economia e Commercio all’Università di Genova e poi va negli Usa, dove appro85
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una volta, non eri venuto ad una convocazione della nazionale. ‘È malato’, diceva qualcuno - non ha il fisico per diventare campione. Calunnie che vennero schiacciate da una nuova folgorante comunicazione: è andato in ritiro, per gli esercizi spirituali”. Insomma, sembra di capire, anche dai ricordi che si possono raccogliere in famiglia, che Cauvin giovane si trova ad un bivio. È un bel campione di tennis, che ha vinto un titolo italiano di doppio, è figlio di una famiglia impegnata in una attività imprenditoriale molto proiettata nel mondo che cresce tra gli anni Cinquanta e Sessanta ed è un ragazzo molto sensibile, che ha le sue vocazioni, la sua spiritualità forte. Si racconta che avesse fatto parte di quel circolo di giovani genovesi incantati da Padre Arpa, un gesuita che predicava con grande successo, incantando e conquistando molte “anime belle” di quella generazione. Si dice che i sintomi di una vocazione sacerdotale fossero stati da lui provati, evidentemente senza un seguito, ma a riprova di “quegli esercizi spirituali” ricordati da Gianni Clerici nella sua prefazione, anche con una certa invidia, confessata nella stessa lettera dal celebre giornalista scrittore: “... ti invidiai moltissimo: leggevo Guenon e Mircea Eliade e Herman Hesse e nei momenti di ispirazione mi credevo pronto a partire per il Tibet. Ho capito molto più tardi, proprio sulla tomba di Hesse, che non c’era bisogno di andare lontano. Tu, forse, l’avevi capito subito.” Ma che significa essere il figlio di una famiglia che intraprende con successo, che occupa centinaia di lavoratori, che sviluppa le sue attività in una prospettiva internazionale sempre più vasta, scopre altri mercati e nuovi filoni? Quanto pulsa la spinta a guardare anche oltre i confini della propria azienda sempre più grandi e a occuparsi della propria città, a assumersi ruoli più sociali, più collettivi in un interesse comune? Eccola l’altra vocazione di Cauvin. Imprescindibile, si dice oggi.
Gian Vittorio Cauvin e Bitti Bergamo
cato nel libro primogenito del centenario del Tc, pubblicato nel 1993. Le altre lettere del libro “centenario” erano dedicate, non a caso, a Bitti Bergamo, fratello per molti versi di Gian Vittorio, Gian Enrico Maggi, campione di tennis e a Placido Gaslini, campione di un passato recente e gentiluomo-maestro di modi non solo tennistici. A Gian Vittorio Gianni Clerici scrisse:“era destino che tu restassi insieme a noi speranze diciottenni l’espace d’un matin, un paio di match della Nazionale, vittoriosi. Eravamo se non proprio giovinastri, carognette, capaci di gioire di una sconfitta di un compagno e di odiarlo se una ragazzina sorrideva a lui, non a noi”. E più avanti nella lettera:“Tu eri diverso, chissà se buono davvero o vagamente consapevole di una predestinazione, a certi comportamenti di casta. Mi par di ricordare che 86
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A suo padre Ernesto, uomo forte e deciso, che aveva le idee ben chiare sul suo futuro, Gian Vittorio non provoca nessuna delusione, gli esprime il suo desiderio che sarebbe stato quello di studiare Lettere e Filosofia, con la franchezza diretta dal suo carattere, ma accantona il progetto: sa bene che lo aspetta un altro destino, per il quale si prepara alla perfezione: prima studiando, poi entrando in azienda, con il passo giusto, quel passo deciso, ma mai sfrontato con il quale entrava agli orti Sauli e salutava con la sua voce inconfondibile. Chi se lo è dimenticato quel passo un po’ calcato il sorriso e la decisione di quell’ingresso in campo? Il tennis è una specie di religione in famiglia che Gian Vittorio tramanda ai suoi figli insieme a tutto il resto, come si legge in quella lettera dello smash al cuore. È una specie di religione che si pratica, ovviamente al Tennis, ma anche a Principiano nella villa di famiglia, dove il campo del tennis è la scuola, il centro di aggregazione, il luogo dove nasce la sana competizione famigliare che da bambini parte con il gioco, ma educa a tutto il resto, i cui germi sono sempre nella famiglia. L’altra religione è il lavoro e l’intrapresa che deriva sempre dai geni di famiglia, coltivati quasi con lo stesso spirito con il quale si gioca la pallina, stile, precisione, preparazione, esecuzione e coraggio imprenditoriale. Chi era Gian Vittorio Cauvin all’inizio dei ruggenti anni Ottanta, quando stava per andare a sedersi tra gli ori e gli specchi della Camera di Commercio, in via Garibaldi 4, tra il Banco di Chiavari, via Garibaldi 1 e l’Associazione degli Industriali, via Garibaldi 6, di fronte al nobile palazzo di una leggenda genovese, Giamba Parodi, erede dei banchieri Bombrini, il prototipo dell’imprenditore-finanziere-leader di città con l’accento di Govi, lo stile sobrio riservato, la parsimonia criticata nel vano tentativo di narratori superficiali che volevano trasformarlo in macchietta e la generosità segreta dei zeneisi doc? I venti anni precedenti sono stati ricchissimi di smash,
Genova 7 aprile 1992 Banche: popolare Genova e S. Giorgio diventa Spa La Banca Popolare di Genova e San Giorgio subirà una trasformazione da cooperativa in Società per Azioni e vedrà l’ingresso nel suo capitale del Credito Agrario Bresciano (CAB), che assumerà una partecipazione del 48%. Il progetto, che ha già ottenuto l’ assenso della Banca d’Italia, dovrà ottenere l’ approvazione dei soci e quindi essere deliberato nel corso di un’assemblea che si svolgerà a Genova il 28 aprile. L’ iniziativa è stata illustrata dal presidente della Banca Popolare di Genova e San Giorgio Gian Vittorio Cauvin e dall’amministratore delegato del CAB Corrado Faissola. ‘’Il Credito Agrario Bresciano - ha spiegato Cauvin - è stato individuato come partner ottimale presentandosi come il più dinamico e forte soggetto bancario che abbia colto le opportunità offerte dall’ area ligure garantendo, nello stesso tempo, alla San Giorgio la forte caratterizzazione di genovesità che ne ha contraddistinto l’origine”. Il CAB verserà 21 miliardi e mezzo a sottoscrizione di un aumento di capitale riservato, preceduto dalla trasformazione in Società per Azioni della società cooperativa nella cui forma la San Giorgio è oggi costituita.
di volèe ed anche, magari, di serve and volley, se ci vogliamo divertire con le perifrasi tennistiche. Gian Vittorio Cauvin ha impugnato il suo destino imprenditoriale con la forza con la quale dirigeva la sua racchetta per “finire” una delle sue fantastiche volèe. All’incrocio delle righe. Tornato dagli Usa Cauvin ha organizzato la distribuzione in Italia dei prodotti siderurgici americani, aprendo uffici a Bologna, Milano e Roma e ha imposto il business dell’export dall’Italia, calzando una delle vocazioni più genovesi che ci siano, aggredire e conquistare i mercati internazionali con i propri prodotti. Crescono gli affari come la sua famiglia con i cinque figli, avuti da Giuliana Campi, Ernesto, Umberto, Francesco e Mi87
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lo eravamo ancora...) hanno bisogno per incrementare gli scambi e far prosperare le economie nazionali. Borsa paragona Gian Vittorio Cauvin degli anni Ottanta a un altro grande genovese “internazionale” di quella epoca per molti versi ancora fastosa, Jack Clerici, “un amico e concorrente, titolare della omonima ditta, altrettanto antica e altrettanto capace di rinnovarsi continuamente. Otto aziende, compresa la capogruppo, specializzata nei fertilizzanti e nei prodotti siderurgici con 250 persone che fatturano 50 miliardi ma hanno un movimento di affari di 200 miliardi. Due anni fa - continua Borsa alludendo al 1983 Da sinistra: Ido Alberton, Cesare Guercilena, Orlando Sirola, Bitti Bergamo Cauvin ha comprato un’azienda, Fantini e Gian Vittorio Cauvin & Co che opera nella distribuzione delle chele, tutti maschi, ad eccezione di Vittoria la numero lamiere navali e delle caldaie. L’equivalente dell’uffidue,“i ragazzi”, che hanno ricevuto la famosa lettera. cio di Mosca della Coe&Clerici, è l’ufficio del Cairo Si apre l’ufficio del Cairo, diventata la liasion-office nel della Cauvin”. 1974 e si costituisce la Sideriberica (società mista FinCinquantenne, sportivo, grande padre di famiglia Causider-Cauvin) per la vendita di prodotti siderurgici in vin, si trova, dunque, nel cuore della Genova mercantiSpagna, con uffici a Madrid e a Barcellona. le e ne esprime tutta la capacità imprenditoriale, proNel 1966 un passaggio quasi cruciale nella storia Caubabilmente conscio che bisogna ammodernare la citvin: insieme al fratello Max una delle svolte del gruppo, tà, le sue infrastrutture, i suoi sbracci e economici e fia 76 anni dalla fondazione della ditta di famiglia, la nanziari. E non basta farlo dal centro delle proprie fondazione della Acciai di Qualità Spa, un centro di aziende che crescono con il vento in poppa in una citservizi alla piccola e media impresa per la lavorazione tà dove, invece, il vento sta cambiando e accidenti se di lamiere in acciai speciali. sta cambiando. Si potrebbe concludere che sulla creIl gruppo è decollato e proprio negli anni nei quali sta di quell’ultima onda, sul finire del cosiddetto SecoGian Vittorio accetta la eredità di Angelo Costa un lo Breve, il Novecento, c’è anche quel signore dai modi grande giornalista economista come Marco Borsa gentili, ma decisi, dallo stile elegante ma anche perenpuò raccontare così l’attività del gruppo in forte torio nel perseguire i suoi affari. espansione, definendolo uno degli esempi degli avamNel 1981 la grande crisi del porto diventa una emerposti delle correnti di esportazione italiana, dove opegenza totale. Nella notte di Capodanno, per la prima rano gli uomini che fanno davvero quella diplomazia volta nella storia moderna, non si sente il suono festoeconomica di cui tutti i paesi industriali (e noi allora so delle sirene che salutano l’anno nuovo. La ragione 88
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to la “rosa” espressa da Assindustria che esprimeva armatori come Bruno Musso, imprenditori come Attilio Oliva, persino professori universitari di diritto commerciale come Enrico Zanelli. Cauvin, più diplomatico non combatte muro a muro con la politica ma lancia, invece, in un importante convegno della Camera di Commercio il progetto concreto di trasformare il grande porto pubblico con banchine continue, monopolizzate dal binomio Cap-Culmv, in uno scalo con tanti Terminal in concessione ai privati. È una visione che proietta improvvisamente il futuro a Genova e anche se ci vorranno decenni di lotte, contrasti, polemiche, scioperi e perfino inchieste giudiziarie e processi, è anche la proiezione giusta del futuro . Al Tennis Club, dove il mandato di Cauvin “brucia” rapidamente come lui stesso aveva annunciato, probabilmente molto conscio di quanto lo aspettava fuori dal giardino incantato degli Orti Sauli, negli anni successivi (non a caso, come abbiamo visto, la sua fine mandato coincide con l’incarico alla presidenza della camera di Commercio), Cauvin usa la stessa visione pragmatica e decisa. La struttura dirigenziale che supportava il grande Angelo Costa è modificata e rimpiazzata. Cauvin sceglie una figura storica del tennis genovese come segretario-direttore, Ido Alberton, maestro dei maestri, colui che era riuscito a far costruire l’impianto del Coni a Valletta Cambiaso e a trasferirvi la scuola, che prima era nei campi comunali di via Campanella. Un grande maestro, un grande manager di tennis, che ha insegnato ai migliori, che ha scoperto talenti come quello celebre a Genova, anche per la sua incompiutezza, Mario Caimo, detto “Cillin”, il giovane che ha avuto più possibilità di affermarsi nella storia recente, anche se non recentissima, di questo sport. Ma la sfortuna è in agguato e un infarto si porta via presto, troppo presto Alberton e la sua direzione degli Orti Sauli. Cauvin è troppo impegnato in azienda e negli incari-
semplice viene scoperta dai cronisti de “Il Secolo XIX”, che nella mattinata del 1 gennaio vanno a contare le navi in porto. Non ce ne sono. È il punto più basso dei traffici. La città cerca di scuotersi tra conflitti e mobilitazioni che ruotano proprio intorno al porto. Cauvin è in una posizione cruciale che riesce a esercitare con l’equilibrio che gli deriva dal suo carattere, ma anche dal suo ruolo di presidente della Camera di Commercio. È arrivato a ricoprire quella posizione cruciale proprio in coincidenza con il suo saluto da presidente del Tennis Club. È entrato nel magico portone di via Garibaldi dopo una serie di tentativi della classe dirigente politica della città di risolvere quella presidenza con soluzioni più vicine alla politica stessa che all’imprenditorialità. Quindi Cauvin è come un “ritorno a casa” in quel luogo chiave dell’economia cittadina del modello-tipo per una città come Genova, dalla storia profonda fatta di mercanti, imprenditori commerciali, agenti marittimi, gente collegata con il mondo attraverso il porto, il mare, il commercio. “Sopporta”, il nuovo presidente, gli scossoni provocati nella città dei muri ideologici contrapposti dall’arrivo alla presidenza del Cap di Roberto D’Alessandro, spedito dal governo di Craxi a sradicare il monopolio dei camalli e cerca di “accompagnare” le riforme che possono essere utili allo sviluppo dei traffici e le infrastrutture che possono spingere la velocizzazione di collegamenti imprescindibili di fronte a una concorrenza che sta diventando spietata. Suo cognato, un altro grande imprenditore della città, leader di tutt’altro settore, Riccardo Garrone, dal carattere molto diverso dal suo, arriva a dimettersi polemicamente dalla presidenza dell’Associazione degli Industriali per protesta contro la nomina di D’Alessandro in porto, piovuta dall’alto della politica e contraria alle rose di candidati messi sul piatto dalle categorie imprenditoriali. Il pugno di ferro di Craxi ha schiaccia89
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tennis per il mondo, è nella stessa stanza di GianVittorio e di Max, tre scrivanie e un legame eccezionale, che si strappa troppo presto e violentemente quando Bitti muore, alla guida della sua auto, tornando da un viaggio di lavoro e schiantandosi contro un camion, alla vigilia di un match di Coppa Davis. Un lutto e un dolore enorme per Gian Vittorio che perde un amico, un collaboratore fondamentale, ma anche l’anima del suo tennis nel senso romantico. Erano coetanei, erano vincenti tutti e due, erano diversamente estrosi e sempre in sintonia, mentre giocavano, ma anche nel lavoro, mentre uno era a dirigere in via XX Settembre e l’altro magari nell’ufficio del Cairo a concludere l’ultimo affare. Era Bitti ad avere costruito il rapporto commerciale con l’Egitto, che tanti affari porterà alla Cauvin, lungo filoni diversi di business che poi si allargano. Con Gian Vittorio rappresentava una coppia che si compensava in modo magistrale. Bitti parlava sette lingue e aveva il vezzo di dichiararsi un arabo analfabeta, nel senso che parlava benissimo l’arabo, ma non lo scriveva. Conduceva una vita sregolata, era un giramondo. Ma riusciva a integrarsi perfettamente con lo stile un po’ british dei Cauvin e con il carattere di Gian Vittorio. L’aneddoto che Ernesto ama ricordare e che definisce bene qual era il rapporto tra suo padre e questo informale manager-supertennista e super campione, adorato dalle donne, ricostruisce una riunione importantissima, che si doveva tenere in via XX Settembre alle 8,30 di mattina e alla quale Bitti doveva assolutamente partecipare. Gian Vittorio si era raccomandato come non mai, chiedendo una puntualità assoluta: la pratica era troppo delicata. “State tranquilli ci sarò”- aveva assicurato Bergamo, di ritorno dai suoi viaggi intorno al mondo. E effettivamente, lui abituato a sbucare in ufficio non prima delle 10,30, era al suo posto all’ora giusta, intorno al tavolo
chi che si stanno sovrapponendo: non può ricoprire nessun ruolo federale, può solo governare il Tc e ci tiene e continua a amare il suo sport. Era stata un forte Seconda Categoria negli anni Cinquanta e, come già ricordato, aveva avuto la soddisfazione di vincere il campionato nazionale di doppio in quella categoria a 23 anni. Il tennis era lo sport di casa. Tutti giocano e si sfidano in quegli incontri famigliari e fraterni, tra la terra rossa degli Orti Sauli e quella di Principiano in Valle Scrivia dove i Cauvin hanno la loro villa di campagna, un altro luogo ombelicale, dove spesso ci si gioca anche di più che la partita stessa e dove i significati sono molteplici. “Era sempre il più forte di tutti e ha dovuto compiere sessanta anni prima che qualcuno di noi figli riuscisse non a batterlo, ma a strappargli qualche set “- ricorda Ernesto, il primogenito. La trama dei Cauvin tennisti forti continua ancora nel ricordo di Gian Vittorio, famoso nei doppi per il suo fortissimo gioco al volo e per il suo senso della posizione in campo. Insomma lo sport, la disciplina e la passione collegate fanno parte del suo stile. Era sampdoriano, ma applaudiva anche il Genoa, al di là delle battute sarcastiche, che sono il sale della polemica e della sottile ironia. È, comunque, il tennis e la sua perizia in quello sport, a fargli incontrare colui che probabilmente è l’amico della sua vita, colui che segna il suo gioco giovanile, ma che poi traccia insieme a lui anche un percorso importante nella gestione della azienda, che sta crescendo con la sua generazione e che diventa sempre più internazionale. Il tennis, e inizialmente solo il tennis, fa incontrare Gian Vittorio e Bitti Bergamo, il grande giocatore, il capitano della nazionale italiana, ma per i Cauvin sopratutto un grandissimo collaboratore, un uomo chiave nello sviluppo dell’azienda, tanto importante che il suo ufficio in via XX Settembre, nelle poche volte che ci sarà per il suo continuo peregrinare di lavoro e di 90
Gian Vittorio Cauvin Quello smash al cuore
Gian Vittorio Cauvin con la moglie, i figli e i primi nipoti
de emissario era un prezioso consulente in combinazione con la Cauvin. Si è mai visto un allenatore-capitano prelevato alla vigilia di una partita decisiva da un jet per volare e tornare dall’altra parte del mondo, mentre i suoi giocatori sono sul campo ad allenarsi? Potenza del fascino di Bitti.” Cosa sarà mai stato a spingere Gian Vittorio Cauvin, un uomo dalle tante passioni, così ben controllate e instradate, in una vita piena di impegni, di affetti, di amicizie e di capacità flessibili per passare dalla partita di doppio agli Orti Sauli al consiglio di amministrazione di una sua società, alla barricata conflittuale nella contesa del porto, magari nel Comitato portuale di Palazzo San Giorgio, a pensare anche a una banca nuova, un altro “sbraccio finanziario”, che serva a quelle attività, verso le quali non solo la sua azienda ma il “quadro di riferimento” dello sviluppo genovese punta diretta-
con tutta la linea di comando dell’azienda. Solo che dopo pochi minuti si era messo a dormire, appoggiando clamorosamente la testa sulle braccia, proprio sul ripiano del tavolo.Alla stupefatta domanda di Gian Vittorio:“Ma Bitti cosa fai, ti metti a dormire?”, lui aveva risposto come se niente fosse.“Ti avevo garantito che sarei stato puntuale, ma non ti avevo assicurato che non mi sarei messo a dormire.” Il valore e la centralità business-tennis di Bitti Bergamo sono svelati da un altro aneddoto che ha sempre furoreggiato in casa Cauvin: “Durante il match di Coppa Davis Francia-Italia a Parigi, nei giorni precedenti il match, mentre la squadra, e il suo capitano erano in ritiro preparatorio, evidentemente in Francia, Bitti dovette essere prelevato con un aereo speciale perché serviva il suo intervento in una delicata trattativa petrolifera tra gli arabi e la Cameli Petroli, della quale il gran91
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istituto di credito a carattere cooperativo e popolare.” Si riunisce il comitato dei promotori, sotto la guida di Cauvin e tra di essi c’è anche suo cognato, Riccardo Garrone, un’altra delle figure chiave, dell’economia di Genova e non solo, il petroliere che in quegli anni ricopre un ruolo importante anche all’Associazione degli Industriali, dove diventerà presidente l’anno successivo. Così mentre la Banca di San Giorgio decolla, nel suo “motore”ci sono quei due cognati, che ricoprono ruoli di vertice nell’associazionismo imprenditoriale genovese di quei tempi cruciali. La Banca d’Italia autorizza al credito e a tutte le attività connesse la nuova-vecchia banca e Cauvin incomincia a vivere una delle sue avventure più complicate, quella che alla fine gli infliggerà anche più sofferenze. Ma intanto sono anni di grande spinta, che viaggiano con il suo secondo mandato alla Presidenza della Camera di Commercio, datato 1985. Nello stesso anno inaugura la prima video conferenza Italia-Usa,dalla sua posizione di presidente del World Trade Center, nel 1986 costituisce la Alluminio di Qualità Srl, per la commercializzazione di estrusi e laminati per l’edilizia, l’industria e la cantieristica, sia in qualità di concessionaria che di agente del gruppo Alumix, il maggiore produttore italiano di alluminio. Anche le assicurazione e la finanza sono settori nei quali il gruppo Cauvin si impegna, acquisendo la Proteca (brokeraggio assicurativo) e la Ligure Piemontese Commissionaria, specializzata in gestioni patrimoniali e di intermediazione monetaria e consulenze aziendali. Insomma,chi più di lui si merita in quegli anni a Genova la Legion d’Onore francese, che il presidente Francois Mitterand gli conferisce e che lui riceve nel posto giusto dalle mani dell’ambasciatore di Parigi: nella sala dorata della Camera di Commercio. Il processo di nascita della Banca di San Giorgio si completa proprio in quel 1987,“anno d’oro” per Gian Vittorio Cauvin, che sta per conquistare anche la quinta
Genova 9 giugno 1992 Banche: Popolare Genova si allea con Credito Bresciano Dopo oltre quattro ore di discussione l’assemblea straordinaria dei soci della Banca Popolare di Genova e San Giorgio ha approvato questa sera l’alleanza con il Credito Agrario Bresciano. L’operazione consente la riduzione delle perdite (16 miliardi e 800 milioni) e la trasformazione dell’Istituto di Credito da cooperativa a responsabilità limitata a quella per Società per azioni. Il Credito Agrario Bresciano con un esborso di 21 miliardi e 500 milioni ha acquisito complessivamente il 47,7 per cento del capitale della Banca Popolare genovese. La riduzione delle perdite è avvenuta mediante l’utilizzo del fondo ex legge 413/91 e con la riduzione del capitale. La trasformazione in Società per azioni, è avvenuta invece con l’aumento del capitale sociale a carico del Credito Agrario Bresciano per 11 miliardi e 994 milioni, in denaro, e con il contestuale versamento di un sovraprezzo emissione azioni di 9 miliardi e 500 milioni. Il valore unitario delle azioni attribuito da Credito Agrario Bresciano è di 8011 lire. Il Presidente del Consiglio di Amministrazione Gian Vittorio Cauvin nel suo intervento preliminare alla discussione aveva ribadito che la proposta avanzata da Credito Agrario Bresciano era la più interessante, l’unica in grado ad evitare il commissariamento dell’Istituto Popolare di Credito.
mente in anni che si annunciano difficili? Probabilmente quella spinta arrivava da una conoscenza, così profondamente maturata del territorio genovese e ligure, delle sue connessioni finanziarie, delle sue aspettative così ben osservate dall’angolo visuale della Camera di Commercio, ma anche da quello di un imprenditore così massicciamente presente in tante attività diverse. E così, nel dicembre del 1983, ecco l’annuncio storico: “L’insegna del Banco di san Giorgio, la banca più antica del mondo, datata 1407, tornerà a rivivere in un nuovo 92
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Quirinale 1992 Motivazione del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la nomina di Gian Vittorio Cauvin a Cavaliere del Lavoro su proposta dei ministri dell’Industria e dell’Agricoltura Guido Bodrato e Giovanni Goria nel 1992 “Laureato in Economia e Commercio, operatore di commercio internazionale, è Presidente del Gruppo Cauvin, al quale fanno capo diverse aziende operanti nel settori della distribuzione interna ed estera di prodotti siderurgici, fertilizzanti fosfati e altre materie prime, dei servizi alla piccola e media impresa per la lavorazione di lamiere in acciai speciali, dell’informatica, del brokeraggio assicurativo, dell’automazione industriale. Cauvin ha iniziato la sua attività nel 1954 nell’azienda di famiglia, la Vittorio Cauvin. Dopo un primo periodo trascorso negli USA, è incaricato dal padre titolare dell’azienda di organizzare la distribuzione in Italia dei prodotti siderurgici importati dagli USA. Negli anni successivi, assieme al fratello Massimiliano, si è occupato dello sviluppo del Gruppo Cauvin, operando attraverso la costituzione di nuove aziende e l’acquisizione di significative partecipazioni in altre, con un’ampia diversificazione rispetto alle attività originarie dell’azienda di famiglia, puntando su settori innovativi nel servizi e nel terziario avanzato, interpretando così la nuova domanda nascente dal mercato. In particolare per ciò che concerne le ultime iniziative aziendali in ordine di tempo Cauvin ha colto le possibilità offerte dalla Comunità Europea - in materia di cooperazione allo sviluppo - per istituire un gruppo europeo di interesse economico (GEIE) tra imprese di diversi Paesi europei con attività e interessi affini. Oggi le aziende del Gruppo Cauvin, di cui la Vittorio Cauvin S.p.A. e holding, sono: 9 controllate e 5 partecipate. Nell’ultimo decennio i dipendenti del Gruppo sono quasi triplicati. Inoltre nel decennio dal 1980 al 1990, Cauvin ha svolto un’intensa attività pubblica quale Presidente della Camera di Commercio”.
con questi risultati: il suo leader è in una grande posizione di spicco, mentre il gruppo di famiglia schiera un bel gruppo di società, che operano in molti settori: import export di fertilizzanti, prodotti siderurgici, alluminio, perfino l’informatica, l’impiantistica e l’automazione, attraverso Diffel e Orsi, brokeraggio assicurativo e finanza. Quando Cauvin lascia la presidenza della Camera di Commercio nel 1991, alla fine del suo secondo mandato, lo scenario genovese e italiano è alla vigilia di grandi mutazioni. Intanto scoppia una specie di guerra di successione per la sua poltrona, in via Garibaldi 4, che contrapporrà con una serie incredibili di colpi di scena due grandi personaggi del classico establishment genovese, Adriano Calvini e Gianni Scerni, un leader dell’import-export e un armatore-agente marittimo. Quella battaglia tra corsi e ricorsi e interregni, come
Assemblea permanente delle Camere di Commercio del Mediterraneo. La riunione, che apre lo scenario del Mediterraneo, parte con un appello del presidente sui rapporti tra l’Europa e i paesi del Sud del Mediterraneo, che oggi si potrebbe leggere sotto ben altra luce:“Il processo di integrazione economica che si produrrà con il Mercato Unico significherà, anzitutto, la nascita di un mercato di oltre tre milioni e duecentomila consumatori, destinati a orientare in maniera determinante i processi produttivi e comportamentali delle aziende. Ma lo scenario commerciale mondiale è dominato dalla competizione tra Stati Uniti e Giappone, che rischia di schiacciarci: per questo i Paesi Europei devono necessariamente rafforzare i legami con i paesi del bacino mediterraneo,accentuando l’integrazione e la specializzazione a livello d’impresa..” La Vittorio Cauvin Spa compie i cento anni nel 1990 93
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extra, il passaggio generazionale, sempre così delicato ovunque, ma ancora di più a Genova, dove le famiglie nutrono profondi sentimenti al loro interno, ma dove spesso la successione riveste aspetti tanto delicati. In quella lettera Gian Vittorio è molto esplicito, quando scrive direttamente al suo primogenito:“Mi sembra di vederti, Ernesto, con quella tua espressione di disapprovazione ogni volta che, trovandoti una grana tra le mani, mi dovevi cercare fuori azienda, invece di poter aprire semplicemente la porta tra i nostri due uffici e dirmi. «Papà, che facciamo?» per trovare insieme una soluzione in tempo reale. Ripenso a una tua frase, detta una volta a mezza voce, che suonava più o meno così: «...io posso anche capire perché lo fai e lo spirito di servizio che tutti ti riconoscono. Io, intanto, non ne sarei capace...» Chissà se è vero, perché qualcuno di voi non ci prova? Va bene, chiudiamo questo capitolo e riprendiamo da dove eravamo rimasti.”
quello dell’ultimo vice di Cauvin, Antonio Pellizzetti, avrà come sfondo i preparativi e i festeggiamenti per lo storico Cinquecentenario della Scoperta d’America, le tanto attese Colombiane del 1992, la caduta della Prima Repubblica, sotto i colpi di una Tangentopoli che alla fine risparmierà abbastanza il territorio genovese. Insomma, anni duri e difficoltà, nelle quali entrerà anche la Banca San Giorgio, una delle creature più delicate di Gian Vittorio Cauvin, che sarà costretto a correre ai ripari, di fronte a un forte disavanzo, malgrado l’incremento della raccolta media. Sarà proprio Gian Vittorio Cauvin a trovare un socio forte nel Credito Agrario Bresciano, che investe a Genova fino a pesare oltre al 45 per cento nell’azionariato. Forse quel salvataggio in extremis è lo stress più pesante che Cauvin sopporta in una fase della sua vita nella quale da una parte il successo gli arride (proprio nel 1992 viene nominato Cavaliere del Lavoro) e dall’altra si profilano le difficoltà di tempi così diversi. I settori “forti” del gruppo che resistono ai tempi e che la famiglia continua a gestire anche scavalcato il millennio sono quello siderurgico, che amministra Tony, i fertilizzanti, da cui tutto era partito, nelle mani di Michele e l’alluminio, affidato a un collaboratore storico dei Cauvin, Eugenio Paroletti. Alla testa di tutto c’è ovviamente Ernesto, il primogenito che ha in pugno tutto il gruppo con la presidenza della holding. E allora si può tornare alla scena iniziale di questa storia e magari collegarla allo spirito della famosa lettera ai figli, scritta da Gian Vittorio nel 1999 e mettere in sintonia tante cose: il ruolo del capofamiglia, i suoi impegni nell’azienda da combinare con gli
La scena può riassumere alla fine anche la presidenza di Cauvin al Tennis Club e si può immaginare di vederlo uscire dalla porta del Circolo, dopo aver spinto via quella dello spogliatoio con passo svelto e deciso, verso uno dei suoi tanti impegni, e magari immaginare di osservarlo mentre svolta verso il campo 1, dove si sta giocando una bella partita e fermarsi mentre un giocatore, chissà magari uno dei suoi figli o uno dei tanti amici, schiaccia uno di quegli smash che fanno saltare la pallina in cielo. E sorridere soddisfatto, con il viso di uno che ha chiari tutti i suoi doveri, ma che quello smash non lo avrebbe tirato certo peggio. Anzi. All’incrocio delle righe. Imprendibile.
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Presidente dal 1980 al 1983
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1929 Nasce il 25 novembre a Genova. 1954-oggi Inizia a lavorare nel Gruppo Erg assumendo le più alte cariche aziendali: presidente di Erg SpA, di Isab, di Finerg, amministratore delegato dell’Italiana Carburanti, della Garrone SpA, dell’Immobiliare Garrone, vicepresidente di Erg SpA, consigliere di amministrazione di Erg SpA, di Abbacus Sim SpA, e membro del consiglio di sorveglianza della San Quirico SpA (incarico attuale). 1955-1960 E’ tra i protagonisti della firma dei primi contratti con la British Petroleum. 1957 Ha l’idea della prima sponsorizzazione sportiva nella storia del Gruppo Erg: quella di reclamizzare una squadra al Giro d’Italia, la Girardengo-Erg. 1960 Insieme a Edoardo Garrone e il figlio Riccardo firma un contratto con la Gulf a Saint Moritz. 1960-1962 E’ membro del Comitato di presidenza del Genoa, riporta la squadra in serie A con la vittoria del campionato di serie B nella stagione 1961-62. 1980-1983 E’ il settimo presidente del Tennis Club Genova. 1984-1985 E’ presidente della Isab. 1985-1990 E’ membro del Comitato organizzatore ligure (Col) per i Mondiali di calcio di Italia ‘90. 1988 Inaugura il nuovo “mezzo” stadio di Genova, l’esatta metà del Luigi Ferraris. 1990 Accoglie all’aeroporto Cristoforo Colombo di Genova il presidente della Uefa Lennart Johansson. 1997 Il Gruppo Erg si quota in Borsa risultando detenuto per il 60,35 per cento dalle famiglie Garrone e Mondini. 2003 Suo figlio Giovanni diventa vice presidente del Gruppo Erg. 2004 Partecipa alla nascita della Fondazione Edoardo Garrone, protagonista dell’impegno delle famiglie Garrone e Mondini in campo sociale e culturale.
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mondo, la Gulf. Nel biennio 1960-1962 assume un incarico nel Comitato di presidenza del Genoa, con la vittoria del campionato di serie B nella stagione 1961-62 e il ritorno in serie A. Per superare i limiti della raffineria di Genova San Quirico la Erg di Mondini nel 1971 entra nel progetto di realizzazione della raffineria Isab (Industria Siciliana Asfalti e Bitumi) a Priolo Gargallo (Siracusa), all’epoca il più moderno impianto d’Europa. Nel biennio 1984-1985 diventa presidente della Isab. All’azienda affianca l’incarico di diciannovesimo presidente del Circolo Artistico Tunnel, club storico della città di Genova. È presidente del Comitato organizzatore ligure (Col) per i Mondiali di Calcio di Italia ‘90. Il 9 ottobre 1988 inaugura il nuovo “mezzo” stadio di Genova con la partita Genoa-Messina 0-0. Accoglie il presidente della Uefa, Lennart Johansson, il 7 giugno 1990 all’aeroporto Cristoforo Colombo di Genova. Nel 1997 Erg si presenta in Borsa, al termine dell’offerta globale, il capitale di Erg SpA risulta detenuto per il 60,35 per cento dalle famiglie Garrone e Mondini. Nel 2003 Giovanni Mondini è nominato vice presidente. Nel 2004 nasce la Fondazione Edoardo Garrone come naturale evoluzione dell’impegno delle società del Gruppo Erg e delle famiglie Garrone e Mondini in campo sociale e culturale. Nel 2006 Erg entra nel capitale sociale di Enertad SpA, società che produce energia elettrica da fonti rinnovabili. Il 2008 è l’anno dell’accordo con Lukoil, si realizza una solida partnership nelle attività di raffinazione costiera. Oggi il Gruppo Erg è controllato dalla famiglia Garrone-Mondini tramite la holding italiana San Quirico SpA (circa il 56%). Attraverso la controllata Erg Renew SpA, è il primo operatore nell’eolico in Italia (1.062 MW) e il nono in Europa (1.232 MW).
espansione del più grande gruppo energetico italiano, la Erg, acronimo di Edoardo Raffinerie Garrone, fondato a Genova San Quirico il 2 giugno 1938, ha tra i protagonisti assoluti Gian Piero Mondini, per oltre mezzo secolo ai vertici dell’azienda e settimo presidente del Tennis Club Genova dal 1980 al 1983. Dal 1954 a oggi assume le più importanti responsabilità del gruppo: presidente di Erg SpA, di Isab, di Finerg, amministratore delegato dell’Italiana Carburanti, della Garrone SpA, dell’Immobiliare Garrone, vicepresidente di Erg SpA, consigliere di amministrazione di Erg SpA, di Abbacus Sim SpA, e membro del consiglio di sorveglianza della San Quirico SpA (incarico attuale). Nato a Genova il 25 novembre 1929 Si unisce in matrimonio con Carla Garrone, figlia del fondatore del gruppo Edoardo, da cui avrà quattro figli: Emanuela, Giulia, Monica e Giovanni, futuro vicepresidente di Erg SpA e presidente del consiglio di gestione della San Quirico SpA. La storia del Gruppo Erg inizia quando Gian Piero Mondini ha appena 9 anni: nel 1938 il podestà di Genova, il marchese Carlo Bombrini, concede a Edoardo Garrone, nonno dell’attuale presidente Edoardo, la licenza per “il commercio di prodotti derivati dalla lavorazione del petrolio e del catrame”. Dagli anni ‘50 Mondini entra in azienda diventando un’assidua presenza al vertice di tutte le principali società del gruppo, ne guida il “salto di qualità” con la firma del primo rilevante contratto di lavorazione per la British Petroleum. Lo sviluppo aziendale nel 1957 si traduce nella prima sponsorizzazione sportiva nella storia di Erg, un’idea di Mondini: quella di reclamizzare una squadra al Giro d’Italia, la Girardengo-Erg. È protagonista nel 1960 a Saint Moritz della firma di un contratto con uno dei più grandi consorzi del settore petrolifero al
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stato lungo e molto autorevole, ci aveva fatto uscire dalla guerra, ci aveva fatto ricostruire e trattare con la Curia di Giuseppe Siri, proprietaria del terreno che circondava i campi e con il Comune, che su quell’area poteva avere chissà quali intenzioni nell’epoca della ricostruzione della città.” “Lo faccio solo per tre anni il presidente”, mi aveva detto Gian Vittorio Cauvin un amico della vita, un campione di tennis, un grande imprenditore, che era stato chiamato per primo e che aveva già tantissimi impegni nelle sue aziende e non solo. “Ero il suo vicepresidente ed era quasi implicito che gli succedessi nel 1980, quando il suo mandato si era esaurito. Ci fu una piccola battaglia elettorale.Toccava a me o a Aldo Mordiglia, che era stato presentato da una lista di soci? Come rispettando quel patto, il giorno prima delle elezioni Aldo si ritirò e io diventai presidente”. Mondini racconta quei tre anni come un periodo impegnativo con svolte importanti nella storia del Circolo, anche tensioni nei rapporti con la Curia e con il Comune. Non era facile trattare con i monsignori della Curia di Siri, in particolare con monsignor Cicali, “delegatus ad omnia” del cardinale-principe e discutere dei confini con l’Apostolato Liturgico. Cicali è abile e deve fare i conti con un’area del centro di Genova, nella quale esisteva fino a qualche anni prima non solo l’Apostolato Liturgico, ma anche la redazione e la tipografia del quotidiano cattolico “Il Cittadino” di proprietà della Curia stessa e degli industriali genovesi, sotto lo stretto controllo politico del leader democristiano di allora, il potente Paolo Emilio Taviani. Insomma ai confini del TC si incontravano quelli che, a torto o ragione, sono stati considerati gli uomini che insieme hanno determinato le decisioni chiavi per Genova dal Dopoguerra in avanti, Siri, il cardinale potentissimo, quasi papa per due volte, Taviani il capo
uando parla del suo tennis, nel senso del suo spirito rispetto al gioco e al contorno, non ancora della sua presidenza, Giampiero Mondini sorride dietro la sua scrivania, in quel bel palazzo nell’ombelico dei vicoli, dove c’è la Fondazione Garrone, dove c’è il suo ufficio Erg, da dove parte poi per andare al Tennis, che vuol dire Orti Sauli. Là c’è il TC, là ci sono gli amici, un pranzo, una cena, magari una partita, quattro chiacchiere. Ci arrivi con passo svelto, dallo sprofondo dei carruggi genovesi di via Luccoli al parco Serra, agli Orti Sauli, con passo agile, su per piazza Banchi, poi Campetto, poi San Matteo, poi De Ferrari... Sorride Mondini come un ragazzo, il presidente che può raccontarci con parole sue quello che brevemente si chiama il Tennis e che sta per il Tennis Club, 120 anni, uno dei più nobili d’Italia, di cui lui è stato presidente dal 1980 al 1983, il secondo dopo Gian Vittorio Cauvin e prima di Aldo Mordiglia, la triade che si mise sulle spalle la immensa eredità di Angelo Costa, secondo un patto tra gentiluomini che doveva modernizzare il Circolo e metabolizzare i cambiamenti necessari, dopo l’epoca pionieristica e dopo quella del grande prestigio nazionale e internazionale e dopo le ferite della guerra, le bombe anche sul campo 3 e poi la rinascita, la ripresa, le nuove grandi scommesse. La triade che doveva sostituire quel signore che insieme aveva presieduto il Tennis, la Confindustria, Confitarma e la Costa, una delle più grandi aziende del Paese e che insieme a un gruppo di altri uomini di nobile razza, stava ricostruendo l’Italia e Genova. E tutti i sabati era là, agli Orti Sauli, magari con le carte da bridge in mano e i suoi baffi candidi, autorevoli ma anche quasi paterni. “Quando è morto Angelo Costa, tutti insieme abbiamo pensato che era necessario che la presidenza andasse ricambiata rispettando anche il passo delle generazioni”, racconta Mondini. “Il ‘regno’ di Costa era 99
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1938 il podestà di Genova, il marchese Carlo Bombrini, concede a Edoardo Garrone, la licenza per “il commercio di prodotti derivati dalla lavorazione del petrolio e del catrame”.
Raffineria San Quirico particolare - 1966
Società Sportiva Girardengo/ERG - 1957 100
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politico e Costa l’imprenditore, leader di Confindustria, che era anche il presidente del Circolo. Si può immaginare che durante la presidenza di Costa, i rapporti con la Curia e con il Comune, fino a quando questo era stato retto da giunte di centro sinistra (cioè fino al 1975 della prima giunta “rossa”, presieduta da Cerofolini sindaco e da Giorgio Doria, padre di Marco, vicesindaco) fossero molto diplomatici. Mondini, dopo Cauvin, si trova in mezzo alle trattative che possono determinare il futuro degli spazi per il Tennis, in crescita sotto tutti i profili. Sotto la sua presidenza si acquisisce il Parco Serra, si crea una società chiamata Orti Sauli, che compra l’area, dove sorgono il parcheggio e i campi 5 e 6. Lo spazio per il campo 7, dove c’era una collinetta da spianare, monsignor Cicali non lo cede ancora. Se lo vuole riservare ancora, come sfogo per l’Apostolato Liturgico. Saranno i successori di Mondini ad affrontare quel problema. Più generalmente negli anni di Giampiero Mondini esiste l’occasione di fare un’operazione complessa, che potrebbe risolvere definitivamente i problemi con la Curia e con il Comune, ai quali il Circolo pagava gli affitti per la zona delle sede e per le aree confinanti con la Curia. “Ma la mia impostazione”, spiega Mondini,“era quella di coinvolgere tutti i soci in una operazione così impegnativa, come poteva essere quella di acquisire definitivamente i nuovi spazi.” La discussione sui tempi di quella decisione “democratica” o di sensibilità particolare per un consenso generale è andata avanti molto ed anche questo fa parte dei diversi stili di presidenza, che si sono succeduti alla guida del TC: ognuno aveva il suo stile e questa sì che è stata una forza globale di crescita. Mondini racconta quei passaggi cruciali, legandoli anche al carattere e alla personalità dei suoi successori nella presidenza.“Quando sono scaduti i miei tre
Genova 28 aprile 1983 Assemblea Raffinerie Garrone: utile 427 milioni L’assemblea degli azionisti della ‘’Erg Spa Raffineria di Edoardo Garrone’’ ha approvato il bilancio 1982 che si chiude con un utile di 427 milioni dopo aver accantonato a fondo ammortamenti 10,6 miliardi di lire. Sono stati pure nominati il consiglio di amministrazione ed il collegio sindacale per il triennio 1983/85. Dopo l’ assemblea, si è riunito il neo consiglio di amministrazione che ha provveduto ad assegnare le cariche sociali. il consiglio risulta così composto: presidente Gian Piero Mondini, Alberto Ferrucci vice presidente, Lorenzo Golin amministratore delegato, direttore generale Domenico Dartizio, consiglieri: Mauro Berti, Riccardo Garrone, Enrico Lauro, Giuseppe Manzitti. Del collegio sindacale fanno parte: Orlando Dalauro (presidente), Nazzarino Ferri (sindaco effettivo), Antonio Rossi (sindaco effettivo), Renato Rovita (sindaco supplente), Augusto Paliani (sindaco supplente). Riccardo Garrone ha lasciato la presidenza della società avendo assunto nei giorni scorsi la carica di presidente dell’Associazione Industriali della Provincia di Genova anni e io e il mio vice stavamo uscendo di scena, ho chiamato Aldo Mordiglia: tocca a te.” Un carattere una personalità diversa, quella dell’avvocato Aldo Mordiglia, molto applicato al suo ruolo di presidente, alla funzione, quasi alla sua sacralità, della quale Mondini parla, lodandone l’efficienza, ma specificando che non era un presidente al quale interessasse molto “l’agonistica”, cioè l’aspetto della competizione che le squadre del TC potevano schierare nei campionati nazionali, cercando affermazioni tecnicosportive, schierando in quei grandi campionati nazionali formazioni con giocatori forti, conosciuti, popolari, in grado di spingere in alto il nome del club, farlo conoscere attraverso l’alta classifica dei suoi team. “Questa sarebbe stata la politica, qualche anno dopo, 101
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venne centroavanti del Gruppo C, la fortissima squadra della società Costa, poi diventata Levante con grandi allenatori come Sarosi e una nidiata di giocatori forti e molto conosciuti nei quartieri alti, che hanno sempre confinato con gli Orti Sauli. Nel Tommaseo, nel Manin, Mondini incontra Gian Vittorio Cauvin, Gigi Croce, che poi saranno amici della vita intera. Lo sbocco che porta il giocatore di calcio a innamorarsi del tennis e poi a diventare anche dirigente è quasi naturale. La presidenza di Mondini, i suoi anni, si confondono per questo motivo con tanti ricordi che magari non coincidono con il periodo 1980-1983, ma ne pescano in pieno lo spirito e soprattutto i collegamenti, le relazioni e le amicizie. Essere amici da anni di Gian Vittorio Cauvin, più che amici, anche attraverso Riccardo Garrone, cognato dell’uno e cognato dell’altro, significa fraternizzare anche con il leggendario e mitico Bitti Bergamo, che è stato una pietra miliare del tennis italiano, giocatore grande, dirigente insuperabile, uomo di grandi relazioni pubbliche, oltre che una delle figure più importanti nel gruppo Cauvin. Di lui, come di Gian Vittorio, il presidente Mondini parla come se fossero ancora lì, o in campo a schiacciare lo smash o seduti nello spogliatoio a scherzare o a sfottersi dopo l’ultima partita. Uno dei ricordi più belli, di quando Giampiero non era ancora presidente e Gian Vittorio stava per diventarlo, è la finale di Coppa Davis, vinta a Santiago del Cile dalla nazionale azzurra di Adriano Panatta, Corrado Barazzuti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, allenatore Nicola Pietrangeli, tra mille polemiche sulla decisione di giocare quella finalissima in un Paese funestato da una dittatura durissima, quella del generale Augusto Ugarte Pinochet. “Incontrai Bitti a Perugia per lavoro”, racconta Mondini,“e mi disse che stava partendo per Santiago, per an-
di Giorgio Messina, che nei miei anni non era neppure in Consiglio”, racconta ancora Mondini, alludendo al presidente che sarebbe venuto dopo e che avrebbe avuto il regno più lungo, dopo quello di Angelo Costa. Anche Mondini, come molti, sempre di più, si illumina quando parla di Messina: “Per lui il tennis era tutto e quando decideva di fare una cosa la portava fino in fondo. Fu lui a comprarsi la sede da solo, partecipando a un’asta comunale e fu lui a coinvolgere dopo, a cose fatte i soci...”. L’ammirazione per il successore e il riconoscimento per le sue iniziative e per l’importanza nella vita di Messina che ha avuto il TC, non deviano nel racconto di Mondini dalla sua filosofia personale di amante del tennis, di dirigente e di tennista praticante, di uno che alla fine amava molto, come ama ancora, scendere in campo. “Per me è una parte consistente della vita”, confessa con quello stesso sorriso iniziale.“È un posto dove ci sono famiglie che tramandano la propria appartenenza alla tradizione da quattro, cinque generazioni. Nel mio caso siamo alla terza generazione. È un posto dove hai sempre saputo che puoi lasciare i tuoi figli tranquillamente, dove i tempi cambiano, ma le regole fondamentali sono sempre quelle. C’è come una radice comune che nasce anche banalmente nell’amicizia che ti fai negli spogliatoi... Lì nascono i legami più duraturi, perché in partenza sono sempre disinteressati. Non saprei dire come ho cominciato... Ho sempre fatto sport con grande passione”. Come spesso succede anche per Mondini è il calcio la porta d’ingresso per arrivare al tennis nel 1953-54 . Le squadre di appartenenza nel foot ball (lo chiama ancora così, come si usava una volta con uno stile inconfondibile, all’inglese), sono quelle di categoria dilettanti, in cui anche la buona società genovese ha i suoi giocatori, che magari diventano anche proprio bravi, come quel figlio di Angelo Costa, Franco che di102
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dare a vedere quella finale. Ti prenoto una stanza? Non ci pensai due volte e organizzai con lui il viaggio. Partimmo con Lea Pericoli e Bitti stesso il mercoledì, il giorno prima del sorteggio. Giorgio Messina non mi ha mai perdonato di non averlo avvertito perché, a parte il successo e quella Coppa levata per la prima e unica volta dall’Italia al cielo di Santiago, nel 1976, quella è stata una delle più fantastiche vacanze della vita così legate al tennis. Nello stadio cileno eravamo seduti proprio nella fila dietro le riserve italiane e ci gustammo tutti i minuti di quei match, nei quali l’Italia aveva avuto un po’ di fortuna, trovando i cileni come avversari finali, ma dove schierava una squadra molto forte. Certo, mi ricordo bene le polemiche di chi non voleva giocare nella tana del generale Pinochet e mi ricordo la determinazione del capitano non giocatore, Nicola Pietrangeli, che era pragmatico e deciso. Si gioca e si deve vincere!”. Questo era lo spirito “forte” che legava anche il TC, come si dice in modo abbreviato e confidenziale, ai vertici dello sport nazionale e faceva partecipare i suoi dirigenti ai grandi eventi. “La finale successiva alla quale partecipammo in Coppa Davis è stata quella di San Francisco contro gli Usa”, continua Mondini,“e anche in quel caso Bitti mi aveva provocato, annunciandomi che mi aveva prenotato una stanza.” A quella finale lui non arrivò, ucciso da quell’incredibile, tragico, incidente automobilistico, mentre tornava a Genova...”. La ricaduta di quell’amicizia con un personaggio così importante e oggi si direbbe strategico per il Tennis Club, fu che Adriano Panatta, allora all’apice della sua carriera, proprio in onore di Bitti e nella sua memoria, si tesserò a Genova e disputò le partite con i colori bianco e rossi degli Orti Sauli. Quel rilancio e quella vocazione, a stare nei piani alti
Genova 19 maggio 1984 Gruppo Erg: situazione e prospettive Il punto della situazione attuale e sul futuro della società ‘’E.R.G.’’ , azienda petrolifera facente capo alla famiglia Garrone di Genova, è stato fatto oggi dal presidente della società Gian Piero Mondini che si è incontrato con i giornalisti. La ‘’Erg’’, nel 1983 ha avuto un fatturato di 980 miliardi di lire con 800 dipendenti diretti con un monte salari di 15 miliardi di lire l’ anno ‘’ma - ha detto Mondini - per il futuro ci sono preoccupazioni che nascono da vincoli di carattere generale e specifico quali la scadenza che grava sulla raffineria di Genova la cui cessazione dell’ attività è prevista nel 1990 secondo una convenzione sottoscritta con il comune’’. Mondini ha rassicurato i genovesi sostenendo che l’ azienda ‘’è intenzionata a prendere le iniziative necessarie a rendere possibile la prosecuzione dell’attivita’ della raffineria genovese’’. Perché ciò sia possibile, è necessaria ‘’la rimozione da parte della amministrazione comunale dei vincoli che impediscono attualmente all’azienda di programmare le proprie attività oltre il 1990 e nella concessione di agevolazioni finanziarie destinate all’innovazione tecnologica sia per proseguire le nuove esigenze del mercato che per migliorare l’efficienza degli impianti secondo l’evoluzione in atto nel settore petrolifero’’.
del tennis italiano, che era giustificata dalla storia centenaria, dalle radici profonde, che risaliva alle origini, è stata poi giustificata da tanti grandi giocatori che nell’era moderna hanno portato in alto il nome del Circolo. Se il miracolo di far decollare la scuola agonistica, le squadre verso le categorie e i campionati più importanti lo avrebbe compiuto poi Giorgio Messina, il seme era già gettato da tempo nella terra rossa dei campi intorno al Parco Serra, nel cuore di Genova. “Non a caso abbiamo vinto il trofeo Colombo”, rievoca Mondini,“che la Federazione Tennis, la Fit assegna103
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Coppa Davis 1976 Santiago del Cile
nella quale l’impegno era molto più accelerato e la frequenza era molto alta. “Ogni settimana viaggiavo per il mondo a seguire gli affari della Erg, ma quando arrivavo rimbalzavo al Tennis e in fondo certe trattative difficile del lavoro non erano tanto diverse da una partita. Quante volte bisogna prolungare la partita più che si può, sperando di recuperarla e poi, magari di vincerla, quante volte in campo si decide di alzare dei pallonetti per prendere tempo e spazio, come quando in una discussione ti allarghi, cerchi altri argomenti per evitare che l’avversario, il contendente o la controparte, prenda il sopravvento e ti faccia il punto, ti metta in difficoltà e al-
va a chi aveva le migliori classifiche.” I nomi dei giocatori e anche dei maestri, che si sono succeduti sui campi e nelle classifiche e nelle scuole, Mondini le ricorda forse più come memoria storica di antico socio che di presidente per tre anni: i maestri Rovati, Maffei, Balestra e giocatori “eterni” nella memoria, come Maria Teresa Bozano. “Questi personaggi hanno dato un contenuto anche morale non solo tecnico tennistico alla nostra storia, alla continuazione della nostra storia”, spiega ancora Mondini. Il periodo della sua presidenza sta dentro quel clima, anche se il presidente lo ricorda bene come una fase 104
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la fine si possa dire: game, partita, incontro”. Il ricordo di quello stile, che avvicinava spesso, certo non sempre, lo stile alla vita lavorativa può far riflettere Mondini più in generale su come le cose stanno cambiando e sono cambiate. “Oggi tutto il mondo dello sport è molto diverso”, sospira quasi, “ci sono sempre i genitori dei ragazzi che tifano ai bordi del campo e magari lo fanno con troppa foga e poco stile... e pensare che il Tennis Club mandava il padre di un campione come Gian Enrico Maggi a arbitrare una partita lontano, per tenerlo distante dal campo dove giocava il figlio-campione... E che io, come presidente dello Champagnat, avevo messo la regola che certi dirigenti potevano assistere solo alle partite delle squadre dove non giocavano i loro figli...”. Ma il vero grande problema che i presidenti come Cauvin, Mondini e poi Mordiglia si erano trovati sul tavolo nella sede degli Orti Sauli era proprio quello di trovare in generale una linea di condotta decisionale, di gestione del circolo, che uscisse dall’indimenticabile, ma non tramandabile stile di Angelo Costa che, di fronte a un problema, grande o piccolo che fosse, diceva in genovese, magari interrompendo una partita di bridge: “Ghe pensu mi” o che nei consigli ascoltava tutti, prendeva nota o la faceva prendere dal segretario e poi decideva: Alua femu cusciiii”. Potevano permetterlo i tempi e il personaggio, la sua indiscutibile autorevolezza. Ma dopo? Mondini ricorda la sua squadra: Attilio Bagnara, un segretario efficientissimo e preciso, l’indimenticato Franco Ginatta, “Cicci”, l’avvocato che si occupava delle cause, degli aspetti legali, che non erano cose da poco con tutte le questioni aperte tra il TC e la Curia e il Comune di Genova, le trattative spinose davanti alle ipotesi di sfratto addirittura e degli aumenti dei canoni. Quanto spazio prendeva la presidenza a un dirigente di alto bordo di una società come la Erg, sposato con
Genova 9 ottobre 1988 Calcio: inaugurato nuovo “mezzo” stadio di Genova Non c’è stata alcuna cerimonia ufficiale, ne’ sarebbe potuta esserci, visto che il nuovo stadio di Marassi, a Genova, è completato solo per metà e fervono i lavori che, quando tra un anno saranno ultimati, porteranno alla realizzazione di un vero e proprio “gioiello”, con 45 mila posti tutti a sedere e tutti al coperto. Oggi però, nonostante la mancanza di ogni ufficialità, in tribuna a Marassi c’erano tante autorità, dal presidente della Regione Liguria, Rinaldo Magnani, al vice presidente della Camera On. Alfredo Biondi, al presidente del “Col’’ ligure Gian Piero Mondini. Unico assente il sindaco Cesare Campart, negli Stati Uniti per impegni di rappresentanza. ma, sopratutto, c’ erano tanti tifosi, che occupavano i circa ventunomila posti disponibili, e che hanno dapprima ammirato le nuove e bellissime strutture, poi hanno fatto un tifo infernale per il Genoa, poi, alla fine, sono usciti delusi per lo 0-0 imposto ai rossoblù dal Messina, che però non impedisce al Genoa di restare, grazie agli altri risultati, solo al comando della classifica della serie B. e domenica, contro il Como, anche la Sampdoria farà la sua “inaugurazione’’ del nuovo impianto.
la figlia del leggendario Edoardo Garrone il padre fondatore? “Sono entrato nella Erg nel 1954”, rievoca Mondini, “ed ho visto cambiare il mondo, non certo solo quello dell’energia”. I ricordi di lavoro si confondono certamente con quelli della presidenza, anche perché tutte e due le attività sono impegnative e i ruoli possono anche sovrapporsi e la memoria fa pescare anche veri e propri eventi che hanno determinato il destino, le svolte importanti della città e dei suoi protagonisti. Come per esempio nel 1955, quando Mondini è appena entrato nell’azienda del suocero e siamo a decenni 105
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Lo choc è enorme, solo grazie all’intervento di un altro grande personaggio della Genova di quegli anni, Vincenzo Cazzaniga, allora presidente della Esso Italia, che aveva il suo centro direzionale a Genova, in piazza della Vittoria, gentilissimo a intervenire con la Esso Norvegia, si riesce a far rientrare rapidamente la salma in aereo in Italia, dove viene accolta da una folla commossa e molto colpita. “Il problema era prendere immediatamente in pugno la situazione”, racconta Mondini. “Ricordo ancora con affanno come, arrivati a Genova, ci precipitammo a controllare tutta la situazione bancaria.” Per dare una idea delle difficoltà che i giovanissimi Riccardo Garrone e Giampiero Mondini si trovarono davanti basta consultare il libro che più ricostruisce quella vicenda, scritto da illustri storici economisti sulla storia della Erg e nel quale quella tragedia viene giudicata tecnicamente “un dramma sociale”. È “dramma sociale” la perdita improvvisa del capo di una grande azienda in espansione. Nella notte in cui un infarto improvviso lo uccideva, Edoardo Garrone era stato nominato presidente del Genoa Cricket and Foot Ball Club da un consiglio riunito per dare una svolta al destino della società rossoblù. “Io ero nel consiglio del Genoa”, ricorda Mondini, “insieme a Dapelo, Norrish, Rinaldo Piaggio e Valperga.” Era il Comitato dei Cinque, nel quale Mondini era entrato come apripista per preparare l’ingresso di Garrone. Per capire come era quella Genova, dove le grandi famiglie esistevano e si alleavano e intervenivano nelle questioni della città, che esulavano dalla gestione delle aziende, ma anche da quella politica amministrava, l’esempio del Genoa quasi in mano alla famiglia Garrone, può anche apparire oggi paradossale o provocatorio, per quello che è successo qualche decennio dopo tra la stessa famiglia e la Sampdoria. Ma questo passaggio è anche significativo per raccontare come si intrecciavano lo sport e queste gran-
Genova 10 aprile 1990 Mondiali Calcio: situazione a Genova A due mesi dall’apertura dei campionati mondiali di calcio nello stadio di Genova (la prima gara, Costarica-Scozia, si giocherà l’11 giugno) il Comitato Organizzatore Locale (col) ligure ha oggi illustrato la situazione dell’impianto sportivo genovese e delle varie strutture collegate allo svolgimento dei mondiali. I problemi principali riguardano una normativa che prevede la creazione di una cinta fissa a 30 metri dallo stadio così da isolare l’impianto. Un provvedimento che a Genova non può assolutamente trovare attuazione a causa della particolare situazione urbanistica che vede il ‘’Luigi Ferraris’’ collocato al centro di un quartiere ad alta densità abitativa. “per risolvere il problema - ha spiegato questa mattina il presidente del Col ligure, Gian Piero Mondini - abbiamo chiesto una deroga, motivata dalle caratteristiche urbanistiche della città, che è stata però respinta. Ora abbiamo riproposto la cosa e attendiamo con fiducia una risposta’’. Se la deroga alla normativa non dovesse giungere, affinché i mondiali si possano svolgere regolarmente, non vi sarà altra soluzione che quella attuata durante tutto il campionato e legata all’autorizzazione speciale concessa dal sindaco su responsabilità dell’intera giunta comunale. Si tratta, comunque, di una soluzione di tipo provvisorio.
di anni prima dalla sua presidenza al TC. In quel 1955 Edoardo Garrone, che è ancora un uomo giovane e in piena spinta imprenditoriale, vuole festeggiare i successi dell’azienda con un viaggio al quale partecipa tutta la famiglia, anche per soddisfare una sua grande passione, la pesca del salmone. E tutta la famiglia, con il giovane Giampiero, parte per la Norvegia. Il primo giorno di vacanza Edoardo Garrone, che aveva solo 56 anni, viene folgorato da un infarto.“In quel momento l’azienda era lui”, ricorda Mondini,“Riccardo era poco più di un ragazzo di 26 anni e si trovava sulle spalle quell’eredità...”. 106
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Lo stadio Luigi Ferraris ricostruito per i mondiali Italia ‘90
che erano nel cuore del Tennis Club e che Samp e Genoa blandivano. Giampiero Mondini, in questo senso, è un vero pozzo di aneddoti, un custode della memoria che solo chi è stato al centro di tanti eventi può conservare. E così nei ricordi sfilano altri passaggi chiave della storia sportiva: la mediazione di uno dei politici più importanti che Genova abbia avuto dopo Taviani, Francesco Cattanei, democristiano, per convincere proprio Armando Piaggio a prendere il Genoa, il tentativo di convincere lo stesso Duccio Garrone a entrare nella società rossoblù, ma alla presenza di un bel conflitto, perché erano gli anni nei quali la Erg doveva ottenere dal Comune il rinnovo della concessione in Valpolcevera per le sue raffinerie. E in questo libro della memoria c’è anche un altro tentativo di convincere un socio di Paolo Mantovani, leggendario presidente della Sampdoria, Mario Contini, azionista con lui e con Lorenzo Noli della Pontoil, di entrare nel Genoa.
di famiglie. “Per convincere Garrone padre ad assumersi la responsabilità di diventare presidente del Genoa”; racconta ancora Mondini, “si erano mossi anche personaggi come Armando Piaggio, uno dei padri della ‘Vespa’”. Insomma, ma tutto questo cosa ci azzecca con il tennis, con la presidenza Mondini e il suo ruolo agli Orti Sauli? C’entra, perché spiega, anche seguendo il filone delle avventure e delle disavventure di una delle due squadre di calcio cittadine, in questo caso il Genoa, quale fosse l’intreccio tra l’imprenditoria, i suoi personaggi di spicco e lo sport. Bene inteso, si tratta di sport molto diversi in tutti i sensi: sia quello più dilettantesco, ma profondamente tradizionale, quasi culturale nelle sua evoluzione storica cittadina, come il tennis e l’altro, il calcio, che sarebbe esploso e diventato un colossale business, schierando come protagonisti, corteggiati, tentati e alla fine coinvolti anche i grandi imprenditori genovesi,
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l’America, da parte di Cristoforo Colombo. “Scelsi un gruppo forte di collaboratori, nei quali c’era il giornalista della Rai Emanuele Dotto, l’architetto Enrico Doria Lamba, un altro giornalista televisivo, Roberto Martinelli, l’imprenditore Paolo Samengo e affrontammo bene quell’avventura.” Il tempo della presidenza agli Orti Sauli resta fondamentalmente un periodo di serenità e impegno per Mondini, che forse rimpiange un po’ quei ritorni a Genova dai suoi viaggi di lavoro e, subito dopo l’atterraggio, la corsa al Tennis, per affrontare i problemi di una presidenza, ma soprattutto per restare lì, trovare gli amici di una vita, scherzare negli spogliatoi, organizzare al volo una partita, un doppio con Gigi Croce o Gian Vittorio Cauvin, per esempio, o semplicemente raccontarsi reciprocamente le ultime notizie. Tutto questo in realtà non si è per niente perduto. Il Tennis Club resta lì come una bussola, in mezzo al centro della città. In questa giornata di luglio, calda e serena, in cui chiacchieriamo di quei tempi, non tanto lontani e della sua presidenza, Giampiero Mondini se ne torna al Tennis con il suo passo flemmatico e parla di quelli che ci sono ancora ad aspettarlo, magari per un piatto di baccalà con sorrisi ed ironia,Tito Tasso,Attilio Bagnara, Andrea Volonteri, Romano Grondona e tanti altri e di quelli che non ci sono più, come se ci fossero ancora. Lo stesso sorriso e magari qualche ricordo anche commovente ma di una orgogliosa amicizia:“Gian Vittorio ha combattuto la sua malattia come un leone...Ah Giorgio, quando si metteva in testa una cosa...”. Di Mondini gli amici di ieri e di oggi restituiscono un’immagine soprattutto di grande correttezza e rispetto per il consenso che cercava sempre. Come, appunto, fece quando gli si prospettò l’occasione di acquistare una parte consistente del Parco Serra e rimandò la decisione all’assemblea di tutti i soci.
Mondini è quasi testimone oculare di questo tentativo, abortito per un’indiscrezione pubblicata sul giornale “Il Lavoro” e sfuggita al presidente dell’Autorità Portuale dell’epoca (siamo all’inizio degli anni Ottanta), il travolgente Roberto D’Alessandro, genoano, con precedenti anche un po’ turbolenti nella società genovese.“Quando Contini vide pubblicata quella notizia”, racconta Mondini,“fece una retromarcia totale e annullò l’appuntamento con me e con l’avvocato Meneghini, che stava convincendolo al grande passo.” Questa centralità di Giampiero Mondini nelle grandi vicende sportive della città, il suo amore, la passione per lo sport e l’esperienza dirigenziale maturata in trenta anni di Erg, socio dei Garrone, spiegano bene non solo la presidenza del Tennis Club, ma anche altri ruoli importanti, che gli sono stati assegnati e che lui ha accettato con il suo spirito di servizio, quando si trattava di scegliere un personaggio capace di forti relazioni non solo cittadine e di sensibilità sportiva. Fu per questo che qualche anno dopo che aveva terminato la sua esperienza di presidente, ma che restava ben presente nel cuore degli Orti Sauli, fu scelto proprio lui, per la posizione di presidente del COL di Genova, il Comitato che stava preparando a gestire il Mundial di calcio del 1990, organizzato in Italia e che avevano anche a Genova e nel ricostruito stadio Luigi Ferraris dall’architetto Vittorio Gregotti e dalla Gepco del marchese Giacomo Cattaneo Adorno, una delle sue basi importanti se non centrali. Anche in questo caso, come alla presidenza del TC, Mondini ha dimostrato che valeva la forza della squadra che lui riusciva a mettere insieme per far funzionare un’organizzazione così complessa, come un Mundial e poi un mondiale di calcio, in una città come Genova in quegli anni in piena ebollizione. All’indomani del torneo mondiale di calcio c’erano gli Eventi per il Cinquecentesimo Anniversario della Scoperta del-
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Presidente dal 1983 al 1986
Aldo Mordiglia Questo capitolo è stato realizzato in collaborazione e con interventi direttamente scritti dalla famiglia Mordiglia
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1915 Nasce a Genova il 18 Novembre 1937 Si laurea in giurisprudenza all’Università di Genova 1942 Sposa Pucci Lopez de Gonzalo da cui avrà 4 figli 1937-1945 Servizio militare - Ufficiale di complemento. Richiamato allo scoppio della guerra, è per quattro anni al fronte e si congeda col grado di Capitano d’Artiglieria 1950 Fonda a Genova lo Studio Legale Mordiglia, studio associato secondo i modelli anglosassoni, corrispondente legale dei più importanti P&I Clubs britannici. Inizia la specializzazione in diritto marittimo. 1972-1973 Presidente del Rotary Club Genova 1924 Distretto 2032 1976 -1984 Presidente del Golf Tennis Club Pineta di Arenzano 1977 Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana 1983-1986 Presidente del Tennis Club Genova. Celebra i 90 anni del circolo 1995 All’età di 80 anni lascia la leadership operativa dello Studio, ma continua ad esserne la guida e a seguire i casi più importanti 2002 Accordo di collaborazione con lo Studio De Andrè 2003 Muore a Genova il 27 Novembre
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vvocato marittimista di fama internazionale, fondatore di uno degli studi legali specializzati in diritto della navigazione e dei trasporti più conosciuti in Italia e all’estero, Senior Partner e Leader dello Studio per oltre 50 anni: è Aldo Mordiglia, ottavo Presidente del Tennis Club Genova dal 1983 al 1986. Segue personalmente o in stretto contatto con i suoi principali soci e collaboratori alcuni tra i più gravi sinistri navali della seconda metà del Novecento: affondamento dell’Andrea Doria (1956), naufragio della London Valour (1970), collisione della Moby Prince con l’Agip Abruzzo (1991), incendio e affondamento della Haven davanti ad Arenzano (1991). Sempre sotto la guida e l’insegnamento di Aldo i suoi colleghi di studio sono avvocati protagonisti nelle pratiche relative all’affondamento della Cavtat al largo di Otranto (1977), al disastro ambientale della Patmos (1085), al sequestro della River Kerawa (1987), all’affondamento della Espresso Trapani (1980), al naufragio della Erika (1999), alla collisione nello stretto di Messina fra la Susan Borchard ed il traghetto Segesta fino alla tragedia della Costa Concordia (2012) ed al sinistro del Jolly Nero nel Porto di Genova (2013). Nato a Genova il 18 Novembre 1915 da Giuseppe Mordiglia e Gilda Alessio, studia giurisprudenza all’Università di Genova, si laurea in diritto civile col massimo dei voti nel 1937 e lo stesso anno inizia il servizio militare quale ufficiale di complemento. Nel 1942 sposa Pucci Lopez de Gonzalo da cui avrà 4 figli, Massimo (1943), Marinella (1946), Marco (1950) e Michele (1955). Congedato da Capitano dell’esercito nel 1945, ritornato a Genova, inizia la pratica forense e dopo alcuni anni ha un incontro professionale con un anziano avvocato inglese, David Neill, che si è stabilito a Ge-
nova, dove svolge la professione di avvocato soprattutto quale corrispondente legale dei P&I Clubs britannici che assicurano su base mutualistica i rischi relativi alle responsabilità armatoriali. Neill offre ad Aldo l’opportunità di diventare suo partner e nel 1950 nasce lo Studio Neill & Mordiglia, cui Aldo si dedica anima e corpo facendolo diventare Studio Legale Mordiglia, corrispondente dei P&I Clubs, stringendo rapporti di collaborazione sempre più stretti con i principali studi legali inglesi, americani, francesi ecc., entrando in quella élite di avvocati marittimisti a cui si rivolgono gli armatori italiani e le più importanti compagnie di assicurazioni. Rapidamente lo studio si ingrandisce con nuovi soci, Alberto Tarantino, Enrico Mazier, Paola Danieli, Carla Perfumo, Gianni Caruana, i figli Massimo e Michele, Maurizio Mazzocchi e tutti coloro che sono ancora oggi partners dello Studio Mordiglia. All’impegno lavorativo Aldo Mordiglia affianca quello sociale: dal 1972 al 1973 è Presidente del Rotary Club Genova 1924 Distretto 2032. Il 2 Giugno 1977 riceve dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Nel 1983 diventa Presidente del Tennis Club Genova, dopo essere stato per molti anni membro del Consiglio Direttivo. Tennista di seconda categoria, vincitore per due volte della Coppa Facchinetti, gioca a tennis fin da giovanissimo, una foto degli anni 30 lo immortala sul campo con Frido Serrati, suo compagno di doppio per oltre mezzo secolo. Nel 1987 è nominato Presidente onorario del TC Genova. Analogo riconoscimento gli viene dato dal Golf Tennis Club di Arenzano. Nel nuovo millennio assiste e collabora alla crescita
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Aldo Mordiglia con Frido Serrati suo compagno di doppio per oltre mezzo secolo.
crociere, del turismo, costruzioni navali, commercio internazionale e diritto societario. A 88 anni appena compiuti il 27 Novembre 2003 Aldo muore circondato dall’affetto della moglie, dei figli e dei numerosi nipoti.
dello Studio, che conta 11 soci e 11 collaboratori; lo Studio apre un ufficio a Milano, stringe un rapporto di collaborazione con lo Studio De Andrè, allarga la propria attività anche al diritto dei trasporti aerei, stradali e ferroviari, della logistica integrata, delle
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Il colpo segreto del guerriero
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o di metallo, così la chiamerebbero oggi in linguaggio calcistico. Ma lo scambio andava avanti e l’occasione sarebbe arrivata e se non fosse successo Mordiglia aveva pronto un altro dei suoi colpi definitivi. O se andava male ecco la battuta caustica, verso il compagno o gli avversari, tanto per far vedere che a perdere lui non ci stava, mai. “Lo stile secco di Mordiglia, tra rigore e efficienza” aveva intitolato il quotidiano “La Repubblica”, il giorno dopo la sua morte, nel Novembre del 2003, a venti anni dalla sua presidenza del Tennis Club, eletto nella terna dei soci illustri che erano stati designati a raccogliere, uno dopo l’altro, la gravosa eredità di Angelo Costa, il presidente di tutti i presidenti, e che erano, appunto Gian Vittorio Cauvin, Giampiero Mondini e Aldo Mordiglia. E in realtà quello stile secco, rigoroso ed efficiente e sottilmente abile racchiude una formula, che non ha certo funzionato solo sul campo, ma anche nella vita, nella professione, nella famiglia, nella presidenza, in tutta l’esistenza di un personaggio non certo facile e accomodante, ma sicuramente forte e determinato nelle sue chiusure, quell’essere spesso burbero apparentemente scontroso, ma poi capace di improvvise aperture. Non si crea uno dei primi studi di diritto marittimo della città, conosciuto in tutto il mondo dello shipping, non ci si trasforma in una specie di patriarca di una grande famiglia, con le coordinate di ferro tra professione e campo da tennis, per tutte le generazioni a seguire, in modo che “Mordiglia” vuol dire garanzia di successo perseguito fino in fondo, non si trasformano gli Orti Sauli nella base non solo di una grande passione personale sportiva, ma anche nel cuore di un impegno pubblico di presidenza, perseguito e applicato con una grande forza esclusiva, senza quello stile inconfondibile. La storia della passione tennistica di Aldo Mordiglia
on avrebbe mai immaginato che il suo colpo segreto sarebbe stata quella volée di legno o di metallo, giocata a rete con il bordo della racchetta, la palla che muore lì sotto, gli avversari incapaci di raggiungerla, il punto garantito.“Colpo Mordiglia” - si poteva battezzare quella soluzione imprendibile, beffarda ma anche inesorabile nella quale in fondo c’era molto del carattere, non solo della formazione tennistica di Aldo Mordiglia, il past president diventato onorario, che giocava le ultime partite della sua lunga e brillante carriera sul campo 1 o sul 2, quando gli impegni professionali si erano diradati, quando il tennis non era più soltanto lo sfogo dal lavoro, l’impegno agonistico di un torneo nel quale vendere cara la pelle, perfino la passione nata nell’infanzia, coltivata sempre con l’idea che si gioca per vincere, senza mollare mai, contro tutti, magari anche contro i figli che hanno alzato un po’ la cresta dentro il campo di terra rossa. Quando il tennis era il tennis e basta, da giocare libero da tutto, meno che dalla voglia di fare quel punto, di vincere. Fino all’ultimo Mordiglia era così: si piazzava a rete, pancia contro la corda tesa del net , ma guai a toccarla, come ti insegnano i maestri, con quell’aria severa e determinata , ma carica di ironia, pronta a scaricarsi sugli avversari o anche sul compagno di doppio che era sempre, era stato quasi sempre, lui, Frido Serrati, il medico dentista, partner da più di una vita, dai tempi del campetto artigianale costruito intorno a quel muro del giardino nella casa di via Jacopo Ruffini, fino ai tornei veterani vinti a bizzeffe e non certo solo in virtù di quel colpo assassino sotto rete. In modo che Mordiglia-Serrati era diventato come un marchio di fabbrica, qualcosa di indissolubile, quasi immortale. “Tua Frido!” - urlava Mordiglia, quando gli avversari avevano risposto al servizio. E voleva dire che non si poteva piazzare il colpo letale, la “spizzicata” di legno 113
Aldo Mordiglia Il colpo segreto del guerriero
speciale, Gilda Alessio, “la vera capofamiglia” raccontano orgogliosi i nipoti, figli di Aldo, ricordando quella nonna nata in Argentina, figlia di quella emigrazione che avrebbe portato nelle “Meriche” decine di milioni di italiani. Gilda era nata da Giuseppe Alessio, che, a sua volta, doveva essere uno bello tosto: se era andato in Argentina a cercare suo padre, che faceva parte di quelli che improvvisamente scomparivano dalla casa e dalla famiglia e cercavano la fortuna pensando di essersi chiusi la porta alle spalle per sempre. Invece il nonno di Aldo Mordiglia lo aveva inseguito, quel padre emigrato, e lo aveva anche trovato, al punto che in famiglia si racconta con sorrisi ironici e divertiti di come avvenne l’incontro a Buenos Aires tra il fuggitivo e il figlio inseguitore. “Còsse ti fé chi?” - avrebbe chiesto stupito e molto sorpreso al figlio, che lo aveva scovato. Ma quel bisnonno non aveva sbagliato continente e fortuna e avrebbe fatto carriera, sposando poi una di tre sorelle di origine basca, che avevano una lavanderia a Buenos Aires e che parlavano francese, quasi che quell’origine separatista avesse spinto anche una dissidenza linguistica rispetto al castigliano della madre patria spagnola. Ma poi tutta la storia dei Mordiglia, quella che avrebbe lanciato il giovane Aldo verso le sue passioni professionali e sportive, torna a Genova con la famiglia che riattraversa l’Atlantico… A Genova, dove quella passione per il tennis esplode in tenera età. Certo, poi ci voleva di più di quell’angu-
Aldo e Pucci fidanzati
ha un inizio quasi romantico. Tutto incomincia, se vogliamo seguire il filo della terra rossa o magari di quel colpo “proibito” sotto rete, nel giardino di via Jacopo Ruffini, quella strada riservata di Carignano che corre verso Villa Croce e lo sbocco aperto sul grande porto, dove va ad abitare nel 1929 la famiglia Mordiglia, per la precisione la famiglia di Giuseppe Mordiglia, medico dentista nato a Rocca Grimalda. Allora il giovane Aldo ha 14 anni ed è il terzo fratello, dopo Enrico, nato nel 1911 e Ugo del 1913. Il dottor Pippo Mordiglia morirà a ottanta anni giocando a bocce nella bocciofila degli Orti Sauli, accanto al Tennis Club. Quasi come un messaggio: questo, tra i campi da bocce e campi in terra rossa, è il luogo dove si spostano gli affetti e le passioni private che condiscono il senso di una vita di lavoro, di famiglia, di amicizie… Sua moglie, la moglie di Giuseppe, era una donna 114
Aldo Mordiglia Il colpo segreto del guerriero
sto spazio nel giardinetto di via Ruffini, il muro, la rete, la ghiaia, che formano il giocatore con canoni anche un po’ diversi da autodidatta-pioniere. Mordiglia trova nei campi vicini a casa dell’Andrea Doria il terreno per far crescere quella passione della racchetta. Intanto la impugna al contrario e questo sarà per tutta la sua lunga vita di giocatore e, di conseguenza, userà molto più spesso il rovescio del diritto: una specie di marchio indelebile insieme al “colpo letale” a rete. L’Andrea Doria non è solo il campo vicino a casa, che diventerà l’anticamera del Tennis Club Genova ed anche la palestra per salire nelle classifiche di III e II Categoria, fino alla doppia vittoria nella Coppa Facchinetti, con uno dei pochi che contenderà a Serrati la partnership nel doppio, Virgilio Ferretto, che morirà in guerra. Ma non c’è solo il tennis nella vita del giovane Aldo. Frequenta il liceo D’Oria, dove si distingue nel profitto con la stessa grinta che sfodera nei campi di tennis. Poi c’è lo sci, sport ancora un po’ pioneristico, cui indirizzerà anche i figli, tutti appassionati di montagna, e poi anche i nipoti. “Nostro padre ha sempre vissuto immerso profondamente nel suo tempo…, nelle vicende che si consumavano in quegli anni difficili, basta pensare che era nato in piena guerra, nel 1915” - raccontano i figli - si era sposato nel 1942, nel pieno dell’altra guerra, aveva avuto il primo figlio nel 1943 e aveva vissuto tutte le vicende belliche, le tragedie, la lontananza, restando al fronte per quattro anni gli ultimi due in Ca-
Sul campo
labria, dove vive la confusione del 8 settembre. Da casa non hanno avuto sue notizie per due anni di fila… e lui non sapeva nulla di sua moglie e del primo bambino che era nato”. Nell’estate del 1945 arrivò finalmente a Genova con gli Alleati (l’ottima conoscenza della lingua inglese gli era servita per diventare ufficiale di collegamento) e in luglio, a bordo di una jeep americana, giunse come “liberatore” a Voltaggio dove la famiglia era sfollata. I voltaggini lo accolsero al grido “sono arrivati gli americani”. Aldo poté così riabbracciare Pucci ed il primogenito che non aveva più visto per due anni. Durante la guerra Aldo aveva perso il fratello Ugo nella disastrosa campagna di Russia. Soltanto nel 1989, dopo la caduta di tutti i muri e dell’apertura degli archivi la famiglia Mordiglia venne a sapere dove in Russia era sepolto Ugo. Laureato in legge prima della guerra,Aldo inizia la sua 115
Aldo Mordiglia Il colpo segreto del guerriero
Aldo Mordiglia con Pucci e i figli Massimo, Marinella, Marco e Michele
1957, ma i collaboratori di grande fedeltà e capacità professionale non mancheranno mai: nel 1957 arriva Alberto Tarantino e nel 1958 Enrico Mazier, colonne portanti dello Studio. Da via Padre Santo l’ufficio si trasferisce in quella che è ancora oggi la sua sede, nel Palazzo dei Giganti in via XX Settembre. Sono gli anni nei quali la famiglia cresce: dopo Massimo e Marinella, nel 1950 nasce Marco e nel 1955 arriva Michele. La casa dei nonni è in piazza Galeazzo Alessi, quella della nuova numerosa famiglia si sposta: è inizialmente in via Caffaro, dove i bambini Mordiglia giocano nella “stanza del carbone” (allora, nel dopoguerra, il riscaldamento funzionava così) poi in Corso Magenta 3, poi in viale Odino, una strada privata, che scende parallela alla funicolare di Sant’Anna e infine in Salita della Rondinella, un grande appartamento con un bellissimo terrazzo sui tetti e sul porto di Ge-
nuova vita di avvocato quale collaboratore nello studio Cobianchi-Afferni, specializzato in diritto civile. Nei primi passi della ricostruzione di una vita sociale, civile e professionale, il trentenne avvocato incontra a Genova David Neill, anziano avvocato inglese marittimista, col quale discute alcune pratiche. Ecco l’intuizione, il colpo di fortuna o il destino che proietta Mordiglia verso una grande carriera di avvocato marittimista e che mette il primo mattone di uno Studio che oggi è tra i più importanti d’Italia nel settore e che è conosciuto in tutto il mondo dello shipping. “Perché non viene a lavorare con me?” - gli chiede Neill, quando siamo nel 1950 e l’inglese trapiantato a Genova capisce il valore del giovane collega che parla bene la sua lingua e si muove abile e preparato tra le pratiche. Il primo ufficio è in via Padre Santo, sopra Piazza Corvetto, lo studio Neill & Mordiglia. Neill morirà nel 116
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nova, che Aldo amerà molto. È la casa che la famiglia ha sempre sognato e che Aldo e sua moglie Pucci considerano la loro base definitiva come poi sarà, dove i figli cresceranno fino a diventare autonomi e dove il loro legame molto profondo e molto romantico troverà il completo coronamento: la casa, appunto i figli, il lavoro che cresce e porta Aldo alla ribalta dei più importanti casi di diritto marittimo che passano per Genova, grazie alla sua professionalità che insieme a quelle di altri prestigiosi studi genovesi, tra gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta fino ai nostri giorni stabilisce un primato di Genova nel diritto della navigazione. Genova può cambiare, modificarsi, il suo porto, attraverso conflitti e epocali ristrutturazioni salire e scendere, l’economia può passare dalla ricostruzione, al boom, alle difficoltà congiunturali, alla ripresa, all’austerity, può, questo porto così centrale nel Mediterraneo, sopportare vere rivoluzioni, ma lo shipping resta quello di qualità, di capacità che il mondo invidia ai genovesi, anche quando la Superba prende i suoi colpi più duri, prima nella riconversione industriale, poi nella trasformazione della sua economia, infine nei tempi difficili di oggi. Nel 1956 lo Studio Mordiglia studia le carte di quella tragedia marittima che sarà una delle ferite mai rimarginate della storia moderna della navigazione. Si tratta dell’affondamento dell’Andrea Doria, il gioiello della Finmare, speronata dalla rompighiaccio svedese Stockolm. Una vicenda che segna non solo da un punto di vista della cronaca tragica, ma anche da quello del diritto, della assicurazione, della riassicurazione, del risarcimento danni, la storia marittima italiana. E gli avvocati dello Studio Mordiglia si occuperanno
dell’incendio della Bianca Costa, con Enrico Mazier che volerà sul luogo del sinistro per interrogare l’equipaggio e ricostruire l’evento. Poi verrà nel 1970 la tragedia sotto casa, sulla diga foranea del porto di Genova, della nave inglese London Valour. L’incendio scoppiato a bordo della Leonardo da Vinci, la grande nave anche essa della flotta di stato Finmare e in quella della Michelangelo, transatlantico 117
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Questi sono i grandi processi che tutto il mondo conosce, ma poi c’è il lavoro quotidiano di uno studio affermato, che si arricchisce continuamente di nuovi talenti, che farà crescere i figli di Aldo, Massimo e Michele, legati anche dalla passione del tennis, come una catena che tiene strette le generazioni. Fare l’avvocato marittimista a Genova significa avere concorrenti ma anche amici, professionisti che di volta in volta sono avversari in tribunale, negli arbitrati o altri che sono schierati dalla stessa parte, come consulenti o partner. La forza professionale che Genova sviluppa in questo settore dello shipping in senso generale sta anche in quel crogiuolo professionale che si crea nel periodo fortunato della storia cittadina, dopo l’accumulo storico di queste competenze, quando le attività marittime prosperano, anche con le liti sia ben inteso, ma con l’acuminarsi delle diverse personalità professionali. C’è come un cerchio magico che si crea tra gli avvocati, l’Università dove insegna Sergio Ferrarini e poi il più giovane Sergio Maria Carbone, che sono anche avvocati, il foro di Genova e le altre professioni che gravitano intorno alle navi e ai traffici: dai tecnici puri, agli ingegneri navali, ai periti, ai liquidatori di avarie, ai broker. In questo senso Genova è veramente un punto centrale a cui si guarda quando si pensa a un problema di shipping, materia che abbraccia un ampio spettro di casi. È questo l’ambiente davvero speciale nel quale Mordiglia coltiva le sue competenze, in un mondo marittimo che cavalca i grandi cambiamenti del trasporto. L’ufficio rimane ben piantato in quel Palazzo dei Giganti che diventa un riferimento del mondo marittimo e che lo resterà nel tempo, nel futuro affidato ai due suoi figli, Massimo e Michele, non a caso tutti e due tennisti appassionati, sportivi assidui dello sport
Pisa 28 agosto 1987 Sequestro nave nigeriana alla Spezia: magistratura Pisa Il tribunale di Pisa esaminerà il 4 settembre prossimo il ricorso presentato dal procuratore della società statale nigeriana di navigazione ''Nigerian National Shipping Line'' di Lagos contro il sequestro conservativo nel porto della Spezia disposto il 28 luglio scorso dallo stesso tribunale della nave 'River Kerawa''. Nel ricorso presentato attraverso gli avvocati Massimo Mordiglia di Genova e Mario Martinelli di Pisa si sostiene l'inefficacia del provvedimento di sequestro e si chiede una cauzione di cinque miliardi di lire. Il sequestro - secondo quanto si è appreso negli ambienti giudiziari pisani - è stato disposto nell'ambito di un procedimento per un recupero di crediti intentato attraverso gli avvocati pisani Corrado Rinaldi e Fabio Squarcini dal mobilificio ''Condor'' di Ponsacco e dalla azienda di concerie ''Robur'' di Santa Croce. La ''Condor'' rivendica un credito di 200 milioni di lire nei confronti di aziende nigeriane; un altro credito di 260 milioni di lire è rivendicato dalla Robur per forniture ad altre aziende anche queste del paese africano. Le ditte debitrici, secondo quanto si è appreso a Pisa, avevano provveduto a saldare i propri debiti versando le relative somme presso la Banca Nazionale della Nigeria di Lagos per la conversione in dollari.
della generazione successiva, che viene colpita nel Golfo del Leone da un’onda anomala. Ci sono anche i casi più recenti, nei quali lo Studio Mordiglia interviene e che segnano vicende come quella della Haven, la petroliera che esplode al largo di Genova in una limpida giornata dell’Aprile 1991 con un rogo infernale e inquina il golfo di casa, sollevando problemi di inquinamento ambientale inediti alla nostra latitudine. O come la immane tragedia della Moby Prince, il traghetto che uscendo il 10 Aprile del 1991, dal porto di Livorno si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo, provocando 140 morti. 118
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dai “gesti bianchi” e di altre discipline, la racchetta e il codice, il diritto della navigazione, ma anche la mazza da golf o gli sci, la canoa o la picozza per salire in montagna. Negli anni Sessanta, Settanta e oltre l’ambiente forense genovese è straordinariamente vivace e propositivo. Aldo Mordiglia ha rapporti di leale colleganza con tutti i marittimisti di Genova, Venezia, Napoli, Livorno, Ravenna, Taranto creando una rete di corrispondenti competenti ed entusiasti. Stringe però rapporti di vera amicizia con Sergio Ferrarini, Francesco e Renzo Berlingieri, Plinio Manca, Ugo Maresca, con il quale restano memorabili le discussioni, anche accese, magari a tavola, quando per dibattere qualche caso più delicato, da avversari o anche da alleati, i due avvocati si davano appuntamento da Mannori, la nota trattoria toscana in Via Galata. E ancora: Carletto Persiani, Vincenzo Massabò, Sergio Turci, Paolo Cugurra, il notaio Gaetano Gessaga, il penalista Giovanni Salvarezza e il re dei fiscalisti Victor Uckmar. Grande amico di Aldo e supporto all’inizio della sua professione è stato Massimo Risso, amico di gioventù e imprenditore protagonista negli anni dello sviluppo di Genova, presidente della Camera di Commercio. Per molti anni Aldo Mordiglia è stato avvocato di fiducia della Costa Armatori ed al contempo era membro del Consiglio del Tennis Club Genova, presieduto da Angelo Costa. In quel periodo, sotto la presidenza di Angelo Costa, così impegnato in tanti settori nella vita civile, socia-
Aldo Mordiglia con Maffei, Serrati, Loewy, Bottai e P. Lercari
le ed economica, i vice presidenti del TC Genova erano Giulio Marsano, Mario Mossa e Ugo Gagna, da anni amici e compagni di gioco di Aldo. Ma come non ricordare i doppi con Jean e Pulin Lercari, gli accaniti singolari con Giorgio Profumo ed Enrico Costa, il quale perdeva “quasi” sempre: “berettin, mi hai fregato ancora una volta!”. I misti con la fortissima Maria Teresa Bozano, gli spassosissimi doppi con Rinaldo Corrado e Raffaello Sansò, che festeggerà il suo centesimo compleanno sul campo da tennis! I rapporti talvolta burrascosi ma sempre amichevoli con Gino Maffei, inesorabile giudice arbitro. E che dire della competizione e fortissima amicizia con Bubi Loewy, presidente del Tennis Park, il circolo rivale da sempre! Aldo amava giocare anche con i suoi figli e con i loro amici: famosi i doppi ad Arenzano con Fabrizio Pisano dal mitico drive. E le infinite partite estive a Voltaggio sul campo dei 119
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I figli Massimo e Michele seguono le orme paterne e diventano avvocati. Marinella svolge la professione di psicologa a Roma e Marco è professore di lettere. Massimo e Michele condividono la passione per il tennis, partecipano a tornei e difendono i colori del circolo sui campi di terra rossa, ma occorrerà aspettare una nuova generazione per eguagliare le gesta sportive di Aldo: soltanto Pietro e Luca, figli di Michele, raggiungono la II categoria! C’è un passeggero innamoramento per il Golf, usuale
Genova 17 aprile 1991 Petroliera Genova: assicurazioni Sarà il Tribunale di Genova con una sua ordinanza ad attivare i risarcimenti dei danni derivati dall'esplosione e dall'affondamento della petroliera cipriota ''Haven'', previsti dalla copertura assicurativa del club internazionale ''P & I (Protection & Indennity)'' al quale aderiscono assicuratori e armatori a livello mondiale. Il giudice dovrà in pratica fissare il ''fondo di limitazione'' previsto da una convenzione internazionale siglata a Bruxelles nel 1969. Il massimale dovrebbe sostanzialmente coprire la responsabilità civile verso terzi dell'armatore della nave e comprende quindi, qualora sia accertata la sua responsabilità, oltre ai danni derivati dall' inquinamento marino e atmosferico, anche quelli per i morti nell' incendio e nel naufragio della petroliera. Secondo lo studio legale Mordiglia, rappresentante a Genova del club ''P & I'' al quale era iscritta la petroliera cipriota, il risarcimento, una volta attivato dal Tribunale, sarà di 18 milioni di dollari. Qualora il massimale non risultasse sufficiente a coprire tutti i danni, con un ulteriore ricorso all'autorita' competente, scatterebbe una seconda convenzione di Bruxelles (del 1971), che prevede un risarcimento fino ad un tetto massimo di cento miliardi di lire (85 milioni di dollari). Oltre alla copertura ''P & I'' l'armatore della nave cipriota potrebbe essere socio del ''Tovalop'' che è un accordo volontario gratuito di mutuo soccorso tra armatori.''.
Luca e Pietro Mordiglia
Romanengo, su quello in terra dei Bagnasco al Fodro e i tornei dai Bolla a Borgo Fornari. Il percorso che porterà Aldo Mordiglia alla presidenza, ma che prima lo appassionerà sempre di più al tennis e, quindi, al “suo circolo”, incomincia allora, quando si cementano amicizie che dureranno tutta la vita, dentro al campo, sulle poltrone del tennis, sulle sedie a guardare gli altri giocare, aspettando il proprio turno. Come non ricordare Rinaldo Schiaffino, con cui avrebbe giocato tutta la vita, per non citare ancora il partner dei partner, appunto Frido Serrati, compagno di centinaia, che dire, migliaia di match ufficiali, tornei, partite quasi quotidiane, magari strappate per l’uno ad un processo o ad una udienza in tribunale, per l’altro a un paziente nel suo studio dentistico. Nei tornei veterani Mordiglia-Serrati spopola per decenni, dai 45 anni di età dell’avvocato in su. Ci sono poche deviazioni a questa passione per il tennis che si concentra negli Orti Sauli. 120
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per i tennisti anche se non per tutti e che porta Aldo a diventare anche presidente del Circolo di Arenzano, dove la famiglia trascorre una parte dei mesi estivi e delle vacanze. Ma vogliamo paragonare questa breve parentesi con il tennis? Il golf e quella presidenza, semmai, dimostrano la passione di Mordiglia per la vita associativa, per un ruolo di responsabilità, di dirigente, di motore dentro il Club, dove la leadership può trasmettersi proprio per una vocazione intrinseca al proprio carattere. Durante la sua presidenza al TC Genova Mordiglia promuove il gioco del bridge, organizzando tornei ai quali partecipa con entusiasmo; secondo alcuni bridgisti, Aldo non era bravissimo, ma la grinta era sempre la stessa. Anche dopo gli 80 anni va in ufficio tutti i giorni, è informato su tutte le pratiche più importanti, ha la soddisfazione di vedere i nipoti Aldo ed Enrico diventare avvocati ed entrare nello Studio. E continua a giocare, fino a quando le forze ci sono, a stare da una parte del campo insieme a Raffaello Sansò o a Frido, a urlargli “Frido, tua…” e dopo che il suo fedelissimo compagno ha sferrato il suo micidiale diritto, è pronto a finire il colpo sotto rete, per poi spostarsi dall’altra parte del campo e aspettare ancora, imperturbabile, il servizio di Frido. Dopo la sua scomparsa, i colleghi, clienti ed amici inglesi lo hanno commemorato con questa ultima frase: “He was a warrior!”
da Lloyd’s Li st
Aldo Mordiglia tra i figli Massimo e Michele
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Aldo Mordiglia Il colpo segreto del guerriero
Ricordi di tempi lontani. Crawford e Patterson, entrambi ai vertici dei valori mondiali sia in singolo che in doppio. Al termine della terza giornata le due squadre erano pari ed il singolo decisivo fu vinto da De Morpurgo su Crawford. Vi furono anni intorno al 1925-1930 in cui il TC Genova fu, ritengo, il più importante Club d’Italia sia per il prestigio dei suoi presidenti (Beppe Croce e Angelo Costa) sia per l’eccellenza di alcuni suoi campioni. Mi riferisco soprattutto al Conte Mino Balbi di Robecco, a Roby Bocciardo, a Bacigalupo e Boy Galindez. Erano tra i più forti giocatori italiani, mentre su un piano di ottime seconde categorie ricordo Millo Tasso, Nino Ricci, Jean Lercari, Oscar Cifarelli, Manlio Pietrafraccia, Mario Traverso, Alberto Marmont, Giorgio Sala, Alberto Della Croce, Vittorio Trombetta, Giorgio Profumo ed i fratelli Rinaldo e Momo Schiaffino che formavano un affiatatissimo doppio. In campo femminile il mio ricordo va soprattutto a Maria Teresa Bozano e ad Anna Botteri, entrambe forti seconde categoria. Aldo Mordiglia
I miei ricordi tennistici più lontani nel tempo salgono al 1929 e, curiosamente, sono collegati a località diverse. Ricordo in Via Iacopo Ruffini la casa paterna con un piccolo giardino, al centro del quale avevamo steso una corda al posto della rete. Nel nostro giardino convenivano quasi ogni giorno Marietto Catalano (divenuto poi un forte seconda categoria e scomparso in guerra con il suo aereo), Frido e Giancarlo Serrati, Riccardo Ginatta, Paolo Rivara e qualche altro, oltre naturalmente ai miei due fratelli Enrico e Ugo. La seconda località che nitidamente ricordo è il Colle San Benigno che allora divideva Genova da Sampierdarena. Ci recavamo a Dinegro sul tram elettrico e poi ci arrampicavamo su per la ripida strada fino al campo di tennis in cima al colle. In quell’anno (1929) si svolse sul Campo Centrale del TC Genova un importante incontro di Coppa Davis, Italia contro Australia. La squadra italiana era composta dal barone De Morpurgo, da De Stefani e da Gaslini, riserva era il fortissimo Roby Bocciardo. Lo squadrone australiano era composto da
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Presidente dal 1986 al 2008
Giorgio Messina
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1938 Nasce il 21 maggio a Genova. 1956 Inizia a lavorare nell’azienda di famiglia. 1962 Sposa Maria Pia Bonaccorti da cui avrà tre figli. 1963 Si laurea in Ingegneria Navale Meccanica all’Università di Genova. 1963-1968 (circa) E’ protagonista del processo di rinnovamento della flotta a seguito dell’invenzione del “container”. La Ignazio Messina & C. allaccia collegamenti con porti del Golfo Persico, Sudafrica e Australia. 1967 Durante la chiusura del Canale di Suez a seguito della Guerra dei Sei Giorni le navi Messina sono le uniche di nazionalità italiana a garantire il servizio di linea per l’Africa Orientale e il Mar Rosso ed è proprio una nave della compagnia la prima ad attraversare nel 1975 il riaperto canale. 1974 La Ignazio Messina & C. diventa SpA. 1977 La Ignazio Messina & C. trasferisce il terminal da Genova alla Spezia. 1982 Diventa vicepresidente della Ignazio Messina & C. 1986-2008 E’ il nono presidente del Tennis Club Genova. Celebra i primi 90 anni del circolo. 1993 E’ protagonista dei festeggiamenti per i 100 anni del Tennis Club Genova. 1994-2000 E’ vicepresidente e amministratore delegato della SpA petrolifera Italiana Energia e Servizi (I.E.S.). 1996 La Ignazio Messina & C. riporta il terminal dalla Spezia a Genova. 1998 Porta sui campi degli Orti Sauli un turno della Coppa Davis, oltre tre edizioni dei Campionati europei individuali under 14 e un Europeo under 16. 2002 Inaugura insieme alla famiglia la “Bolla”, il progetto di Renzo Piano per la realizzazione del nuovo simbolo della città nel Porto Antico di Genova. 2008 Muore il primo maggio 2008 a Genova. Il Tennis Club Genova gli intitola la nuova “Scuola Tennis Giorgio Messina”.
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L’
d’adozione, alla “conquista” degli oceani di tutto il mondo: è la storia di Giorgio Messina, che insieme ai fratelli Gianfranco e Paolo, dal 1956 entra in azienda sotto la guida del padre, contribuisce allo sviluppo delle attività iniziando dalla gavetta il mestiere di armatore. Nell’ottobre 1962 sposa Maria Pia Bonaccorti dalla quale avrà tre figli Roberto, Rossella e Fernanda. Nell’ottobre 1963 consegue la laurea in Ingegneria Navale Meccanica e dopo un tirocinio presso la Fiat Grandi Motori entra a tempo pieno in azienda. In quel periodo la compagnia apre una rotta del tutto nuova siglando un contratto con la multinazionale United Distribution Trading, monopolista dello zucchero, che porta le navi della società nei porti di Venezuela, Cuba, Curaçao, e Canarie. La “Rivoluzione del Container” è ormai alle porte, a partire dagli anni ‘60 l’intuizione dell’imprenditore americano nel campo dei trasporti Malcolm Mclean datata 1956, quella “scatola” di metallo lunga 20 o 40 piedi, larga 8, alta 8 e 6 pollici stravolge il commercio internazionale, in particolare quello marittimo. Grazie alle sue competenze tecniche l’Ing. Giorgio Messina è protagonista del processo di grande rinnovamento della flotta e di ristrutturazione dei servizi. Lavora per trasformare le navi tradizionali, uno studio precursore di quelli che in seguito diventeranno i RoRo, con la creazione di portelloni e rampe laterali. È l’inizio di un importante rinnovamento della flotta sociale che vedrà di lì a poco l’ingresso della Jollyemme, la prima nave traghetto di nuova concezione. In questa fase la compagnia allaccia collegamenti con porti del Golfo Persico, Sudafrica e persino Australia. Durante la chiusura del Canale di Suez a seguito della Guerra dei Sei Giorni (1967) le navi Messina sono le uniche di nazionalità italiana a garantire il servizio di linea per l’Africa Orientale e il Mar Rosso ed è proprio una nave della compagnia la prima ad attraversare nel 1975 il riaperto canale. Nel 1974 la compagnia diventa SpA,
Ingegnere che, con la sua famiglia, creò la flotta dei record, la prima compagnia italiana di navi ro-roportacontenitori, un “equipaggio” di oltre 1.000 dipendenti per 300 milioni di euro di fatturato nel 2008: è l’armatore Giorgio Messina, vicepresidente della Ignazio Messina & C. SpA, nono presidente del Tennis Club Genova dal 1986 al 2008. A lui Genova deve il ritorno della Coppa Davis, tre edizioni dei campionati europei individuali under 14, un europeo under 16, fino alla costruzione della “Bolla” di Renzo Piano, il nuovo simbolo della città al Porto Antico. Ma deve soprattutto l’esempio di un’azienda di successo nata sotto alla Lanterna. Dai porti di Gedda, Karachi, Durban, a quelli di Aqaba, Nhava Sheva, Dar es Salaam, passando per Abu Dhabi,Tripoli, Mogadiscio, Kuwait, Port Sudan, Doha e molti altri: non c’è un chilometro di costa nel Mediterraneo, Africa, Medio Oriente e India, che non abbia mai visto, fotografato o salutato, una nave della “Linea Messina”. Nato a Genova il 21 maggio 1938, è il terzogenito di Rosa Maria Poggi e Ignazio Messina, fondatore nel 1921 insieme al padre Giuseppe della storica compagnia genovese. È il terzo di quattro figli, dopo Maria Grazia (1933) e Gianfranco (1935), prima di Paolo (1943). Suo nonno Giuseppe (1871-1942), erede di due generazioni di armatori di Riposto (Catania), a cavallo tra XIX e XX Secolo gestisce una flotta di navi vinicole lungo la rotta tra la Sicilia e Genova, dove alla vigilia della Prima Guerra Mondiale trasferisce famiglia e attività, aprendo nel 1921 una linea mercantile verso la Libia. Nello stesso anno suo padre Ignazio (1903-1982), a soli diciott’anni d’età, inizia a gestire i nuovi collegamenti di linea con navi battenti bandiera italiana. Nel 1929 la società prende il nome di Ignazio Messina & C. e grazie agli efficienti servizi per il Nord Africa ottiene il “Guidone postale” per la Libia. Una “Dinastia delle Navi”, siciliana d’origine, genovese 125
vicepresidente e amministratore delegato fino al 2000.Tornato a concentrarsi sul core business del trasporto marittimo internazionale, il 1996 è un anno storico per Giorgio, per la Ignazio Messina & C. e per il porto di Genova tutto, con il ritorno, dopo 19 lunghi anni, della compagnia dalla Spezia di nuovo sotto alla Lanterna. All’inizio del nuovo millennio segue in prima persona l’operazione “Bolla”, il progetto di Renzo Piano per la realizzazione del nuovo simbolo della città nel Porto Antico di Genova, l’enorme sfera di cristallo con felci e farfalle inaugurata nel 2002 grazie al sostegno della compagnia armatoriale, che la dedica alla memoria di papà Ignazio. L’Ing. Giorgio, il “tecnico” della Ignazio Messina & C., da mezzo secolo al timone della società insieme ai fratelli Gianfranco e Paolo ed ai nipoti, muore giovedì primo maggio 2008 a Genova nella clinica Montallegro dopo aver lottato a lungo contro un male incurabile. Avrebbe compiuto settant’anni tra 20 giorni. I funerali si svolgono sabato 3 maggio nella chiesa Sant’Antonio a Genova Boccadasse gremita dalla famiglia, dai colleghi e dagli amici più cari. Il circolo intitola al compianto presidente la nuova “Scuola Tennis Giorgio Messina”, per offrire ai giovani “un gioco che li formi come atleti e come persone”, così come Giorgio Messina intende il tennis per una vita intera.
trasferendo nel 1977 il terminal della società da Genova, oramai con spazi insufficienti, alla Spezia. Il 12 ottobre 1982 un grave lutto colpisce Giorgio, la sua famiglia, l’azienda e l’intero mondo armatoriale italiano: la morte di suo padre Ignazio, il fondatore della compagnia. I fratelli Giorgio, Gianfranco e Paolo Messina tengono ben saldo il timone dell’azienda assumendosi definitivamente il compito di dirigere l’azienda. È inoltre presidente della Finemme SpA, la holding cui fanno capo le attività imprenditoriali di famiglia, presidente della Ririfi Srl, consigliere della Terminal Rinfuse Genova, della Terminal Rinfuse Vado, del Terminal Molo B Venezia, del Terminal Marghera Venezia e membro del Comitato Portuale dell’Autorità Portuale di Genova. Nel 1986 diventa presidente del Tennis Club Genova, dopo l’esordio a livello dirigenziale a fine anni ‘70 come presidente del Comitato Regionale della FIT. A fine anni ‘80 approda in azienda la quarta generazione: con Andrea Gais (erede del genero Luigi Maria Gais, marito di Maria Grazia, proveniente dalla Olivetti ed entrato in azienda a fine anni ‘50), Massimo, Ignazio, Stefano ed Emanuele Messina, garantendo così la continuità della gestione familiare. Una nuova “rotta” è aperta da Giorgio Messina nel 1994: quella della neonata Spa petrolifera Italiana Energia e servizi (I.E.S.), azienda specializzata nella raffinazione del petrolio, di cui assume l’incarico di
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tore, presidente, imprenditore, tennista, cittadino appassionato della sua città e del suo sviluppo e amante del porto, delle banchine; presidente dei tennisti, manager del tennis, organizzatore di tornei, padre di famiglia, nonno delicatissimo, uomo quasi indispensabile non solo per il tennis, per la sua azienda, per il Tennis Club e, ovviamente, per la sua famiglia. Per ricostruire un minimo di ritratto di questo signore, alto, quasi sempre sorridente, terzo di quattro fratelli, Maria Grazia nata nel 1933, Gianfranco del 1935, lui del 1938 e Paolo del 1943, tutti figli di Ignazio, il grande Ignazio, a sua volta figlio di Giuseppe Messina e di Amalia Silvestri. Bisogna partire da lontano. I Messina sono venuti dalla Sicilia prima della Prima Guerra Mondiale, e poi sono andati avanti e indietro tra Genova e l’isola, come facevano anche le loro navi, che erano la passione di famiglia e il loro lavoro e che lo sarebbero stati per il loro futuro e quello delle generazioni successive, in attesa di fermarsi e diventare genovesi. Per ricostruire questo ritratto devi scavalcare la barriera emotiva di ricordi, quasi una ricchezza di spinte e controspinte, che ti fanno sembrare la sua scomparsa un vuoto non di oltre cinque anni fa, ma come un lutto ancora da elaborare del tutto. Devi scavalcare i ricordi quasi torrenziali della sua famiglia, allargata ai nipoti ai pronipoti, perfino al personale della Messina, anche di quelli - che a noi toccano, in questo racconto, ancora più da vicino - del Tennis Club, le tante voci, di diverse generazioni, di differenti gradazioni di amicizia, stretta, strettissima, più blanda, quelli che “vivevano” con Giorgio come Gian Enrico, quelli che lo circondavano al Tennis, seguendolo come “il capo”, ma che anche e soprattutto giocavano con lui e dirigevano al suo fianco, come Andrea Volonteri, quelli che lo facevano sudare e divertire in campo come D’Avanzo, che ancora adesso, negli spogliatoi lo vedi e cerchi Giorgio due passi di lato, quelli che lo seguivano, invece, un passo dietro, attenti,
iorgio Messina non portava l’orologio. Ma sapeva sempre che ora era. Giorgio Messina era molto distratto, era capace di dimenticare un figlio piccolo a scuola o in palestra, ma non gli sfuggiva mai nulla, neppure un dettaglio, non solo nella sua vita di lavoro, ma in ognuna delle sue numerose attività. Giorgio Messina era geniale e la sua intuizione folgorante poteva “partire” davanti a una grande operazione di shipping da compiere, che lui traguardava in anticipo, oppure quando organizzava un viaggio con gli amici o quando ripensava a una soluzione per un grande problema di una delle navi della flotta di famiglia, o, più precisamente quando intuiva come modificare lo scafo delle navi in servizio per caricare e scaricare meglio, oppure, in qualche altro campo del suo molteplice impegno, quando c’era da aggirare un ostacolo insormontabile, magari un problema che al suo Tennis Club non sapevano come gestire e lui era già a trattare la soluzione con il Comune, con la Curia, da solo, con quell’aria elegante, distaccata, gentile, ma con dentro un fil di ferro invisibile. Giorgio Messina era imprevedibile, come quando alle quattro di un pomeriggio di duro lavoro in ufficio, con tutti, fratelli, nipoti, collaboratori, comandanti, impegnatissimi sulle scrivanie, annunciava che aveva preparato ogni cosa per una battuta di pesca, barca, marinaio, rotta, esche: “Dai, partiamo tutti insieme alle quattro!”. Cerchi un personaggio come Giorgio Messina, il nostro presidente numero nove, uomo dei più longevi in quel ruolo, del quale nessuno voleva che il regno finisse mai, come se fosse stato Re Artù e intorno a lui ci fossero, e in parte c’erano davvero, i Cavalieri della Tavola Rotonda, e subito ti imbatti in una onda emotiva di ricordi, di amarcord, di emozione tutt’ora viva, che ti sembra quasi impossibile arrivare alla storia vera, al curriculum si direbbe oggi, di questo ingegnere, arma127
Giorgio Messina Il genio senza orologio
Gli inizi: Riposto
fedeli, pendenti dalle labbra, a patto che lui non se ne accorgesse e ne hanno raccolto il lavoro là dentro, come il suo successore “Fuffetto” Lercari, che cerca di coltivarne l’eredità e se gli chiedi troppo direttamente di Giorgio, gira un po’ lo sguardo. Diventa serio e non sai se si commuove o se si concentra per essere più preciso e poi magari conclude con un sospiro. E tutti gli altri, ai quali puoi chiedere di Giorgio Messina, il loro presidente, su e giù , per gli Orti Sauli, dallo sprofondo dello spogliatoio, alle sale del bridge, al campo 1, al posteggio, qualsiasi età o generazione o ruolo rappresentino e ti rispondono tutti con un sorriso mezzo allegro, mezzo melanconico.“Ah Giorgio...”. Oppure, se sono proprio genovesi riservati e pudici, si fermano un attimo, riflettono e con la faccia seria ti commentano la sua figura, le sue gesta, come quelle, comunque, di un Cavaliere unico, di chi considerava il Tennis come la sua casa, ma ci stava dentro con la leggerezza di chi può avere in qualsiasi momento un’intuizione, un’idea, che lo porta via, verso un altro obiettivo, tanto si sa che torna e lascia il segno, magari non sul campo da tennis che era il posto dove divertirsi, sudare, magari arrabbiarsi e sfruttare anche giocosamente il suo ruolo, per cui lui al servizio in una partita poteva sempre fare il doppio fallo e ripetere all’infinito, finché la pallina non si infilava giusta, perché “era il presidente” e quello a lui era concesso, uni-
co contrappeso a un gioco tecnicamente un po’ deficitario, pagato con la moneta della sua totale disponibilità al resto. Un predestinato? Come armatore, uomo di navi, di flotta, di banchine, di traffici, sicuramente lo era. Nel suo sangue i geni c’erano tutti, germogliati su quella rotta di mare tra la Sicilia e l’Italia, tra quel nonno Giu128
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toriale Ignazio Messina, sotto la spinta, la determinazione fortissima di Giuseppe, dietro il quale c’erano i figli con quel ragazzo Ignazio tanto forte da decidere di prendere un diploma di ragioneria per completare la formazione umanistica, che si era guadagnato nello storico e nobile Liceo Classico Andrea Doria. Ignazio era il “prescelto” dal padre tra i suoi fratelli per spingere la flotta che stava diventando sempre più importante e che, nella prospettiva di Giuseppe avrebbe avuto un futuro sempre più solido, una volta superate le difficoltà della guerra e della rinascita. La sede della società da via del Campo era stata trasferita in via Milano, più vicino alla Lanterna, dove i Messina abitavano anche, facendo, quindi, un po’“casa e bottega”. Il grande rimpianto di Ignazio era stato quello di non avere avuto il tempo di laurearsi come sognava e come gli suggeriva la sua personalità molto complessa, molto intrigante, attratta anche da moltissimi interessi culturali. Quel legame genetico imprescindibile, che rimbalza di generazione in generazione e ancor di più quando le generazioni sono vicine, una dopo l’altra, probabilmente spiega come Giorgio, nel 1963, anche lui dopo avere frequentato il liceo Andrea Doria, si laurea a Genova Ingegnere navale meccanico a 25 anni e incomincia la sua vita di lavoro con un tirocinio alla Fiat Grandi Motori. Quella laurea corrisponde sicuramente a una vocazione che si intravvedeva già in giovane età, nella propensione a disegnare e “copiare” quasi gli schizzi del padre, che “costruiva” con la matita sulla carta le navi della sua flotta, ma è anche la risposta famigliare a una aspirazione che Ignazio non aveva avuto il tempo e il modo di realizzare. Come è diversa la Genova, in cui il giovane Giorgio cresce e afferma la sua personalità, da quella di Ignazio, ma anche come è uguale se viene declinata nel
seppe e quel padre Ignazio dalle personalità forti, indomite. Il nonno era stato a lungo incerto tra la dolce Sicilia e i suoi traffici verso la Libia e Genova, per l’esattezza tra Riposto, via Vittorio Emanuele, la casa di famiglia e Genova che allora era una potentissima calamita per chi intravvedeva nel suo futuro i traffici sul mare. I Messina portavano in quegli anni-chiave dello sviluppo genovese una forte tradizione armatoriale, che sarebbe calzata perfettamente sotto la Lanterna, dove tra l’altro Giuseppe, “Peppino”, avrebbe trovato la sua sposa, Amalia Silvestri, figlia di una solida famiglia genovese che abitava in Piazza Manin. Traffico di vini e di olio da trasportare con le navi che partivano da quell’ansa naturale del porto di Riposto, che, come scrive Paolo Lingua nel suo bel libro sulla storia di “Ignazio Messina- un armatore genovese”, era il luogo tranquillo dove le botti di vino trovavano riparo prima di essere imbarcate e le navi una ansa protetta per un facile approdo. Riposto, un nome con una ragione pratica che si giustificava bene anche con l’altro business di famiglia dei soci di Messina, i Tambuso, proprietari terrieri e produttori di vino, che portavano là per l’imbarco i fusti pieni del loro nettare, appunto a Riposto, come dire al riparo. I Messina diventano così genovesi, armatori genovesi, quando la scelta definitiva si concretizza, ma il legame con la Sicilia non si interrompe mai, per via di parentele forti, di viaggi e perfino di vere e proprie benedizioni, come quelle di monsignor Rosario Calì, figlio di primo letto di Angela Tabuso, che avrebbe poi sposato il padre di Giuseppe, nonno quindi di Giorgio e dei suoi fratelli, tutti genovesi, nati a Genova. Monsignor Calì, arrivava sempre a Genova per matrimoni, cresime, battesimi e manteneva vivo il caldo legame con la madre patria. E sicuramente sarà stato lui a benedire nel 1921 la nascita della compagnia arma129
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lyemme Messina, ma che spalancò un nuovo mondo a tutto il trasporto marittimo. Tempi eroici, nei quali il giovane Giorgio Messina, al fianco del fratello Gianfranco e poi a Paolo, il più piccolo, nato cinque anno dopo di lui, contribuisce a far allacciare collegamenti con i porti del Golfo Persico, del Sudafrica e dell’Australia. Durante la chiusura del canale di Suez, durante la guerra dei Sei Giorni le navi Messina sono le uniche di nazionalità italiana a garantire il servizio di linea per l’Africa Orientale e il Mar Rosso ed è proprio una nave della Compagnia la prima a attraversare, nel 1975, il Canale appena riaperto. Giorgio era geniale e ogni giorno aveva un’idea da inseguire, magari senza dirlo esplicitamente, ma perseguendola quasi in silenzio, quasi sussurrando agli altri. Aveva passioni segrete e brucianti, controllate con un understatement che faceva più parte del suo carattere che del mood genovese, già così consono alla riservatezza. Il tennis era una passione di quel tipo. Parla Gian Enrico, che è stato suo vice presidente per otto anni agli Orti Sauli e che lo conosceva bene e sicuramente era uno dei suoi Cavalieri: “Era uno sponsor del tennis da sempre, da prima di entrare nei meccanismi dirigenziali, aveva una passione enorme per giocare, per veder giocare, per far giocare e per organizzare le cose in modo che la squadra, la sua squadra vincesse.” Vuole dire che quel signore si è sempre prodigato perché il tennis avesse una squadra agonistica in grado di competere al massimo livello. Forse la sua strada per diventare presidente e per essere poi uno dei presidenti più determinati nel raggiungere i suoi obiettivi parte da lì: costruire le squadre per vincere, come costruiva le navi per renderle
senso del mare, del porto, del traffico che con il capostipite cresce e si rinvigorisce, sotto la spinta della navigazione a vapore che oramai trionfa e cambia i connotati del trasporto e con Giorgio e i suoi fratelli affronta, dal loro ingresso in azienda, la nuova era in arrivo, quella dei container. È proprio Giorgio, anche grazie alle sue competenze tecniche e alla sua passione, a cavalcare quella trasformazione degli anni Sessanta e non è difficile immaginarlo in tuta da lavoro, con i suoi uomini a lavorare nella pancia delle navi della flotta per modificarle in modo da prendere l’onda della trasformazione. È cosi che i Messina si trasformano da armatori di navi tradizionali a vettori specializzati nei servizi regolari ro-ro container. Le fotografie che documentano anche fisicamente la trasformazione ante litteram delle navi in Ro-Ro con la creazione di portelloni e rampe laterali sono custodite negli archivi come la prova di quella intuizione che cambiò non solo la storia dell’azienda di famiglia, imponendo l’ingresso in attività della prima Jol130
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La Jollyemme
altri avevano un’idea, lui ne aveva 100 e le realizzava tutte”. Insomma, la passione per l’agonismo e quella per il Circolo da lanciare andavano di pari passo ed era come se negli anni precedenti alla sua presidenza, mentre Cauvin, Mondini e Mordiglia governavano, lui si preparasse al grande salto. Nel 1979 era già un dirigente che vinceva la serie A Maschile e che faceva giocare la squadra a Casella, perché a Genova non c’era un palazzetto dello Sport adeguato ai suoi progetti vincenti. Intanto era già
più efficaci ed efficienti, quelle che facevano prima e caricavano meglio. Era questo atteggiamento che gli ha sempre fatto avere un’idea “espansiva del tennis”. “Ci siamo frequentati quando eravamo tutti e due a lavorare a Spezia - ricorda ancora Gian Enrico - e ci siamo ritrovati dopo, all’inizio degli Anni Settanta a giocare al tennis: lì ho scoperto la sua vocazione sportiva ed anche un altro aspetto importante del suo carattere, il disinteresse per i soldi.” E un altro dei suoi Cavalieri, Andrea Volonteri, quando ti parla di come Messina ha lanciato il Tennis dimostra che a partire dal suo ruolo di direttore sportivo la sua visione si è dispiegata quasi come una svolta rivoluzionaria: costruire squadre sempre più forti, scoprire campioni per imporre il nome di Genova nel tennis italiano e fare sempre più bello il Tc. “La sua è stata la svolta rivoluzionaria - dice Volonteri - aveva idee folgoranti, camminava sempre davanti agli altri, senza che nessuno se ne accorgesse, ma poi lo scoprivi. Gli
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Qual è la conclusione di questo primo abbozzo del presidente Top Ten numero 9? Che era un leader, in un modo diverso da come lo era stato, per esempio,Angelo Costa, al quale - sussurrano le indiscrezioni più segrete del tennis poteva addirittura già succedere direttamente alla presidenza nel 1976, o da come era stato Gian Vittorio Cauvin, manageriale e rapido o il duro Aldo Mordiglia o il morbido e “democratico” Giampiero Mondini. Leader dappertutto, ma a incominciare dalla sua azienda, in quel sistema di organizzazione di vertice della “Ignazio Messina” che si sarebbe ampliato con l’arrivo in azienda della quarta generazione, dei “ragazzi” Ignazio, Stefano, Andrea Gais, Massimo e Emanuele. Ma ci voleva anche un po’ di tempo. Leader della flotta, insieme ai fratelli Gian Franco e Paolo, Giorgio Messina ha incominciato ad esserlo da subito, probabilmente quando a Pietra Ligure le navi del Cantiere Mediterraneo - dove le vocazioni si affermavano e dove si prendevano le misure alle navi convenzionali, pensando probabilmente a quelle che sarebbero venute dopo - venivano costruite e davano a quella cittadina del Ponente ligure un orizzonte industriale che poi è sparito, annegando nella vocazione turistica. È lì che, studiando gli scafi e concependo la nave come qualcosa di quasi personale, Giorgio Messina sceglie i nomi di battesimo per due scafi, che stanno per affrontare il mare “Carola” e “Gian Vittorio”, racconta suo fratello minore Paolo, ripescando quel ricordo, come fosse il segno della sua predestinazione a occuparsi delle navi quali vere creature, quelle che avrebbe
La famiglia Messina nei suoi uffici
consigliere del Comitato regionale, di cui poi diventa presidente, incominciando ad accumulare benemerenze nazionali, che lo faranno trasformare quasi istintivamente in un leader di tutto il tennis italiano. È quella la strada lungo la quale la Coppa Davis torna a Genova dopo decenni di astinenza con il match Italia-India nel 1998. “Messina voleva le gare nazionali e internazionali e voleva fare grande il Circolo”, aggiunge Volonteri, sottolineando che “se puntava a qualcosa la otteneva”. Facile sgranare il nome dei ragazzi, dei campioncini che tutto questo lavorio sforna nel suo tempo, Pietro Ansaldo, Filippo Figliomeni, Giorgia Mortello, Giorgia Buchanan e tanti altri. Si vince due volte il Trofeo Fit, si scopre un giovanissimo Fabio Fognini, under 14 che gioca contro Figliomeni. 132
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la sua vocazione fondamentale, quella che contribuirà a far decollare la flotta,“mettendo le mani nella costruzione delle navi”. Anche questo pezzo della vita di un Giorgio appena trentenne è raccontato da Gian Enrico, che ricorda come la sua intuizione-chiave fu di comprare navi che erano quasi rottami a prezzi irrisori e trasformarle con una certosina capacità ingegneristica-meccanica in scafi capaci di navigare, caricare, scaricare, viaggiare tra i porti. “In assenza di capitali, quella era la strada per ripartire, ma ci voleva, appunto “un capo” e una squadra ben affiatata.” Ben altra Genova, ben altro porto, ben altri leader sarebbero stati quelli che Messina avrebbe incontrato nella sua crescita e maturità professionale, mano a mano arricchita dalla sua capacità di guardare bene tutto l’orizzonte marittimo per far funzionare meglio, con il padre prima, con i fratelli dopo, la sua azienda, la sua flotta. Ben altri personaggi con cui confrontarsi rispetto ai Nino Ronco, anche un po’ invecchiato ma ancora un monumento, ai Carlo Canepa, presidenti del Cap, Consorzio Autonomo del Porto, con cui si confrontavano Giuseppe e Ignazio Messina e che lui Giorgio e i suoi fratelli imparavano a conoscere da bravi e composti bambini, seduti a tavola insieme al padre con quegli illustri ospiti. Inventate le navi ro ro con il portellone laterale, reinventata, quindi, tutta la flotta, allacciati quei grandi collegamenti con i grandi porti del mondo i Messina devono guardarsi bene intorno e scoprire che lo spazio del porto di Genova non basta più e sopratutto non funziona il meccanismo di carico e scarico, che non ha più i tempi necessari per stare dietro ai propri clienti. I container hanno ridotto dell’80 per cento la sosta nei porti. Genova non ce la fa e la “Ignazio Messina”, che intanto è diventata una Spa, se ne va a la Spezia, dove le
studiato, disegnato, quasi modificato con le sue mani, come documenta la foto leggendaria in tuta, in mezzo ai suoi operai, nella pancia di una nave in costruzione, giovane, quasi spensierato, ma con negli occhi quella determinazione sorridente che era il suo timbro. Una fucina. Il leader si forma anche in una fucina, che potrebbero essere appunto quei cantieri di Pietra Ligure, vissuti con gli occhi da ragazzo-giovanotto o ancor di più l’officina meccanica Boccardo, ubicata proprio nella omonima Calata Boccardo dalla Caim (Cooperativa Armamento Imprese Marittime) che Ignazio Messina aveva creato sulle macerie portuali della guerra nel 1945 e che aveva lo scopo iniziale di sminare il porto, come volevano i trattati di pace firmati con gli Alleati e che divenne dopo una vera officina per la costruzione di strumenti di bordo e di carte nautiche. Insomma una bottega di Archimede per un ragazzo-futuro ingegnere che può misurare la sua creatività, la sua manualità navale, pensando alle navi che sono il pane della sua famiglia. Qui Giorgio Messina era poco più di un ragazzo e non poteva che percepire solo quel grande fiume della ricostruzione bellica che avrebbe incanalato a Genova e in Liguria anche le attività armatoriali, nelle quali suo padre e suo nonno avevano costruito la loro impresa. Che angolo visuale stupefacente poteva essere quello e cosa sarebbe diventato per misurare la rinascita del porto e della città intorno, dalle macerie, alle piccole officine, ai cantieri, ai metri di banchina, mentre tutto intorno rullava e il porto di Genova, rinasceva con una velocità esponenziale, così come risorgeva la Confitarma, che prima si chiamava Associazione Armatori Liberi e sarebbe stata rilanciata dal Grande Predecessore di Giorgio agli Orti Sauli, Angelo Costa. Ma è probabilmente in quel maneggiare gli attrezzi, gli strumenti del mestiere che Giorgio Messina scopre 133
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autostrade per il Nord Italia e Europa e che fa risparmiare quasi cento chilometri di strada, anche se laggiù, verso la Toscana, tutto è più fluido, consequenziale. Si inventano così l’“equalizzazione” del trasporto, che vuol dire che nel prezzo dei Messina entra anche il passaggio terrestre. Giorgio diventa anche vicepresidente dell’Associazione Industriali della Provincia. Il clima imprenditoriale della città è fervido, con i cantieri Oram e Santa Maria a fianco del Terminal stipato di containers. La famiglia si occupa pure della squadra di calcio, lo Spezia, che oggi gioca in serie B e questo dimostra la centralità assunta nella città e l’intenzione di instaurare un dialogo aperto e non chiuso oltre le banchine. La “ditta” prospera, la vita di lavoro è impegnativa e Giorgio fa il pendolare tutti i giorni, ma Genova, ovviamente è sempre nel cuore. Le sirene da laggiù, negli anni più bui dello scalo, in quel Capodanno maledetto del 1981, quando le altre sirene, quelle delle navi, non salutano l’anno nuovo, perché in porto di navi non ce ne sono, continuano a richiamare i Messina, la loro flotta, la prosperità che hanno portato in uno scalo concorrente, in una città che Genova ha sempre considerata lontana e quasi “nemica”. E passano gli anni e mentre il Golfo dei Poeti diventa quello dei record, sotto la Lanterna si battono tutti i record negativi. Fino a quando... “Un giorno che eravamo tutti a lavorare a Genova racconta Paolo, il fratello minore - Giorgio ci telefona da una banchina del porto. Era il giugno del 1993: «Avete voglia di fare un giro per le banchine», ci chiede. Lui era già lì, ovviamente e ci accoglie sul molo Nino Ronco, mezzo abbandonato, pieno di erbacce... senza una nave.” I Messina rimettono così piede sulle banchine genovesi e trovano il fratello con quella sua aria un po’ misteriosa, un po’ divertita, che aveva spesso.
condizioni sono migliori nettamente e dove proprio Giorgio con i suoi fratelli inventerà l’autonomia funzionale, il sistema con il quale una nave arriva, scarica, carica e riparte, regolando i suoi rapporti all’interno dello scalo e del suo Terminal a misura di cliente e non subendo i tempi portuali tradizionali. È l’uovo di Colombo, ma solo a La Spezia quell’operazione, che fa cadere per tutto il mondo del trasporto un muro più alto di quello di Berlino ai tempi della Cortina di ferro, si riesce a realizzare. Gli anni di La Spezia sono intensissimi e non spostano certo il cervello della flotta da Genova, dove, anzi la sede della Ignazio Messina si trasferisce nella zona di via Madre di Dio, più in centro, più nell’ombelico zeneise. Ma la Spezia, dopo il grande colpo di trasformare le navi-rottame e quello di inventare i portelloni laterali, è l’altra grande fortuna, che bacia i Messina e premia il coraggio di Gian Franco e di Giorgio che hanno lasciato il porto-madre di Genova, diventato patrigno per lo spazio negato e sono andati cento chilometri più in là. A Spezia i Messina si insediano profondamente, non solo sulle banchine e nell’invenzione della Autonomia funzionale per conquistare la quale vivono anche scontri duri con le istituzioni locali, alle quali quel “terminalismo privato” non va mica tanto giù, ma che poi comprenderanno che bel business anche per la città diventa quel traffico, che fa quasi scoppiare il Terminal dei genovesi Messina. La Spezia diventa un caso portuale nazionale, vengono a studiarlo anche dall’estero, mentre in Italia diventa un modello vero e proprio davanti al quale i genovesi rosicano. Ma non tutto è facile: bisogna anche convincere i clienti ad attraccare a Spezia, al loro Terminal e non nelle angustie del vecchio attracco genovese di calata Tripoli, che sarà stretto e scomodo ma è attaccato alle 134
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I Messina assistono a quella battaglia, che avrà anche momenti di grande tensione, da La Spezia, ma con l’attenzione vigile di chi è uscito dallo scalo genovese proprio perché non gli veniva garantita le possibilità di lavorare le navi in un regime di effettiva concorrenza con gli altri scali mondiali e di chi osserva da lontano, ma non da troppo lontano, le eventuali aperture, gli spiragli. Lo scontro tra D’Alessandro e Paride Batini, il mitico console dei camalli della Culmv, il commissariamento della Compagnia, la marcia degli utenti privati, la città assediata e paralizzata dagli scontri in porto, la mediazione del cardinale Giuseppe Siri, che trova una quadra tra lo stesso D’Alessandro e Paride Batini, la prima pagina del giornale “Il Lavoro”, fondato dai carbonini e dai socialisti nel 1903, che esce bianca per protesta contro la paralisi delle banchine, sono pagine di storia che girano una dietro l’altra e che in qualche modo preparano il terreno a quel ritorno. Nel frattempo i fratelli Gianfranco, Giorgio e Paolo tengono ben saldo il timone dell’azienda, assumendosi in toto la guida, da quando nel 1982 la morte di Ignazio segna completamente la svolta generazionale. Giorgio, oltre ad essere vicepresidente della Spa, si impegna anche in altri ruoli dirigenziali, in imprese legate al business del mare e non solo. Diventa presidente della Finemme Spa, la holding cui fanno capo le attività imprenditoriali di famiglia, presidente della Ririfi Srl, consigliere della terminal Rinfuse Vado del Terminal Molo B di Venezia, del Terminal Marghera e membro, ovviamente, del Comitato portuale di Genova. Sono gli anni in cui cresce la fortuna dei Messina e in quel periodo, e anche dopo, Giorgio è instancabile, avanti e indietro e dopo un’idea dietro l’altra... Lui e Gianfranco sono legatissimi.“È vero: non portava l’orologio, ma non perdeva un minuto” - racconta ancora, con un tono ammirato e serio, Gian Enrico. Eccoli, questi che precedono quel grande ritorno del-
Perché ci hai fatto venire qua? - gli chiedono Gianfranco e Paolo, un po’ perplessi. “Perché potrebbe essere una opportunità” - spiega Giorgio con la sua nonchalance, girando lo sguardo intorno, sulla distesa dei moli genovesi di quell’inizio anni Novanta. In quella specie di bollezumme di un porto in mezzo a una mutazione epocale, mezzo abbandonato, mezzo operativo, pieno di scommesse, ma ancora irto di ostacoli. Questa scena, più o meno aderente alla realtà, ma reale-effettiva nella sua sequenza-base, è l’anticipo del Grande Ritorno dei Messina a Genova, qualcosa che Giorgio vive ovviamente da protagonista e che segna la fine del Millennio in porto nella Superba o ex tale che dir si voglia. Con l’operazione Messina “gira” praticamente una storia di quei moli, di quelle banchine e ne incomincia un’altra, che non si esaurirà certamente solo con fatti marittimi, portuali, di navi, di trasporti, di armatori, di cantieri. Messina a Genova vuole dire tante altre cose, a incominciare da quell’ufficio di Piazza Dante, zona Madre di Dio, che assume un’altra centralità, per non dire, come vedremo, un’altra “circolarità”. In quegli anni, e prima che tutto si perfezioni, fino al fatidico anno 1997, anno del ri-attracco effettivo della flotta Messina “a casa”, il presidente del Cap è Rinaldo Magnani, l’ex presidente della Regione, della Provincia, il leader socialista che era stato anche console dei Carenanti, al quale poi si ascriverà, con alcuni dei suoi dirigenti, tra i quali Filippo Schiaffino, presidente della società delle Merci Convenzionali, il merito di avere finalmente privatizzato il porto genovese. Sono gli anni duri che seguono la grande riforma dei libri blu di Roberto D’Alessandro e della sua tentata, e in parte riuscita, prima riforma attraverso le societàsatellite nelle quali viene riformato il porto pubblico. 135
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ghi verso i vostri figli (eccessivo tennis per Giorgio, fuoristrada per Gian e Paolo, fumo per tutti!). Scrive proprio così Ignazio Messina: “eccessivo tennis”. Ma quella passione che dura, che impegnerà Giorgio non solo nel senso indicato da un anziano padre in apprensione per la salute dei suoi figli, testimonia, probabilmente, anche il legame con Genova, che gli anni spezzini non hanno certo affievolito e che proprio gli Orti Sauli hanno sicuramente contribuito a mantenere vivo, se non a rinfocolare.
Genova 20 gennaio 1993 Tennis: a Genova Campionati Europei under 14 Si svolgeranno a Genova dal 19 al 25 luglio prossimi, organizzati dal Tennis Club del capoluogo ligure, i Campionati Europei under 14 di tennis. L' annuncio è stato dato oggi dal presidente del Tennis Club Genova Giorgio Messina, che era affiancato da Eugenio Gollo, Giampiero Mondini e Giuseppe Scarpiello, in rappresentanza del comitato organizzatore e del Coni. Alla manifestazione, che torna ad essere affidata ad un club italiano dopo moltissimi anni, parteciperanno oltre 120 ragazzi provenienti da più di trenta nazioni che si contenderanno il titolo europeo di categoria. ''Questi campionati - sostengono gli organizzatori - consentono di assistere al miglior tennis giovanile internazionale ed è da questa rassegna che escono i campioni del futuro''. Tra i vincitori delle passate edizioni del Campionato Europeo under 14, infatti, ci sono la Maleeva, la Graf e la Hingis in campo femminile e Wilander, Edberg e Sabau per il settore maschile. I campionati, affidati al Tennis Club Genova che compie quest'anno i cento anni di attività, comporteranno un notevole impegno organizzativo in quanto saranno necessari almeno quindici campi per lo svolgimento in contemporanea degli allenamenti e degli incontri di finale.
Lo sport in generale era qualcosa che faceva parte della sua vita da sempre. “Aveva cominciato con il calcio - ricordano in famiglia - e giocava da portiere ed era spericolatissimo. Tornava a casa dal campo dell’Arecco pieno di sbucciature. Il tennis è venuto dopo e non è finito mai. E c’erano altri sport come l’equitazione, praticata all’Ippica di via Piave, lo sci...” L’equitazione è un ricordo dolce, perché è praticandolo che Giorgio conosce la moglie, Maria Pia Bonaccorti, dalla quale avrà tre figli Roberto, Rossella e Fernanda e con la quale, dopo via Medici del Vascello, andrà a vivere in quella stupenda casa di via Capo Santa Chiara, che sembra emergere dal mare, anche questo il segno di un amore sconfinato per il suo elemento base della vita, del lavoro, si può dire dell’amore. Il tennis, il tennis, che grande evasione e che grande impegno per lui che giocava senza rovescio e aveva quel dritto teso, secco e a cui non piaceva certo perdere e quale occasione per misurare tante cose della vita, della città, della sua incredibile capacità di relazione se non quel gioco e il Tennis Club, così baricentrico, così carico già di storia, ma anche di prospettive! Se vai a cercare la sua memoria dentro agli Orti Sauli e tenti di cavalcare ancora quell’onda emotiva del ricordo che non si ferma, trovi ovunque e con chiunque quasi lo stupore mai cessato per tanto impegno e
la flotta Messina a Genova, sono gli anni nei quali, su tutto un altro piano Giorgio, sta per diventare presidente del Tennis Club, un ruolo al quale, come abbiamo visto, si era preparato da tempo, consciamente o inconsciamente, lungo il filo di quella passione per il gioco del tennis, che poi viene fuori come in una lenta, inesorabile eruzione. Non sarà un caso se, nella commovente lettera-testamento che Ignazio Messina scrive prima di morire ai suoi figli, raccomanda la concordia tra di loro, ma chiede anche di “curare la salute senza trascurarvi, pensando alle vostre responsabilità e ai vostri obbli136
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Giorgio Messina tennista e una manifestazione organizzata dalla scuola Tennis Giorgio Messina
gli alberi, le barriere che tenevano protetto quell’angolo di verde e terra rossa.“Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella città, poteva fare il senatore, il deputato, rifiutava sempre le offerte che i politici gli facevano... Aveva in testa il porto, il mare, il tennis da migliorare, quei ruderi che circondavano i campi da eliminare...” - aggiunge Volonteri. E un’altra memoria storica che tanto può raccontare dei Top Ten, Tito Tasso, (figlio di Millo, grande campione di Seconda Categoria, altra figura mitica, nella vita civile, orefice con laboratorio in via Orti Sauli quasi all’ombra del Tennis) consigliere Tc negli anni di Angelo Costa, rievoca la scena di quando un bel giorno Giorgio presidente lo incontrò che tornava, forse solo un po’ più trafelato di sempre, smosso dal suo classico aplomb e gli disse, sulle scale tra i campi e il bar, con una certa soddisfazione:“ Ehi Tito, ho comprato il Tennis!” Era vero: Giorgio aveva appena partecipato, a tito-
tanta sorprendente inventiva. È sopratutto grazie a lui che si giocheranno agli Orti Sauli tre edizioni dei campionati Europei individuali under 14, quella specie di fucina di campioni dalla quale sono usciti vincitori gente come lo svedese Edberg, mito anni Ottanta-Novanta, un Europeo under 16, insomma il percorso giusto per arrivare a quella Davis dell’Italia contro l’India, che non tornava in città da decenni. Negli anni della grande spinta organizzativa Giorgio Messina non diventa presidente della Fit, come era stato il suo predecessore Beppe Croce, solo perché rifiuta elegantemente: dove avrebbe trovato il tempo? “La grande capacità di creare consenso era il motore delle sue cento idee ed era unanime quel consenso ricorda ancora Andrea Volonteri, anche con una punta di rimpianto per quello che poteva essere e non è stato, fuori dai muri incantati del Tennis, oltre 137
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re ai ragazzi del Tc il top giovanile e piazzandolo nel ruolo di quelli che più hanno vinto in Italia con i ragazzi. Lo scenario di fondo, che viene fuori da tutti questi racconti, spezzettati tra la nostalgia, la memoria, la simpatia e a volte anche con un po’ di enfasi commemorativa è, comunque, inequivocabile: Messina aveva proprio una idea fortemente espansiva del suo Tennis Club. Voleva comprare il terreno della Bocciofila, faceva progetti, anzi li commissionava agli architetti, studiava spazi e misure, “disegnava” silos sotterranei... Certo: Messina aveva ancora tanti sogni nel cassetto del tennis, proiettati anche fuori dagli Orti Sauli, ma in una logica estensione: creare un vero centro tecnico a Genova con cinque campi, una sede, una palestra, un campo di calcetto, che potevano costituire secondo Andrea Volonteri, altro custode tra gli altri di questa idea chissà quante volte espressa, ripetuta, magari negli spogliatoi o durante un cambio di campo - i costi di urbanizzazione di una di quelle operazioni nelle quali la famiglia si era impegnata. Più idealmente quell’idea, che va avanti attraverso l’impegno dei figli e in particolare di Fernanda, detta Lalla, e che continua anche con la scuola “Giorgio Messina”, era il progetto di radicare il tennis ancora di più a Genova, dove era arrivato quasi primogenito in Italia per le mosse degli avi tennistici, con i primi presidenti dei Top Ten, i predecessori di Messina. Il disegno era complesso e prevedeva anche altri passaggi, come una alleanza con il Circolo Ip di Valletta Cambiaso, dove c’erano stati anni fervidi con la presenza genovese al vertice della società petrolifera di Guido Albertelli, un manager molto attivo, non solo nel tennis, ma anche in una specie di “riorganizzazione” e “ricalibratura” della classe dirigente ligure. Albertelli romano di origine, perfettamente integratosi nell’ humus quasi sempre impenetrabile di Geno-
lo personale, a un’asta dell’ Aster, una delle società comunali e l’aveva vinta, portando a casa un bel pezzo dei terreni del Comune. Un golpe? No, semplicemente una di quelle mosse d’anticipo con le quali Messina aveva fiutato l’affare e se l’era giocata in singolare, bloccando il terreno con le sue fideiussioni. Poi l’assemblea dei soci avrebbe sottoscritto e il terreno sarebbe passato definitivamente nella proprietà del Circolo. Romano Grondona, un altra memoria “storica” e dettagliata, rivendica addirittura in cinque punti le mosse importanti della sua lunga presidenza: 1) il rilancio del gioco delle carte, che nasceva anche dalla sua forte passione per il bridge. Non significava solo allestire i tavoli, era far venire grandi giocatori, pagare loro le spese personalmente per alzare la qualità del gioco; 2) i grandi tornei organizzati e che coinvolgevano tutti, alzando un altro livello, quello tecnico sportivo; 3) l’avvio del gioco del biliardo, fondamentale per l’aggregazione dei soci; 4) avere affittato l’edificio confinante alla Club House dalla Curia, creando nuovi grandi spazi vitali per il biliardo, per il ristorante, per le carte; 5) il rilancio dell’agonismo facendo raggiunge138
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va, si era addirittura inventato una specie di rivoluzione generazionale che facesse fare un salto di rinnovamento alla classe dirigente locale. La Ip era a quei tempi lo sponsor della Nazionale Italiana di calcio, aveva una bella potenza commerciale e la sua spinta anche sul tennis, attraverso i campi di Albaro e l’invenzione del torneo di tennis internazionale potevano essere risolutive. Probabilmente Giorgio Messina, che era tornato a Genova dalla Spezia, che spingeva sulle ali delle sue idee il Tc verso nuovi orizzonti, vedeva in quella spinta socio economica di aggregazione e selezione del vertice Ip, uno di quei terreni dove trovare nuovi spazi. I grandi tornei, come quello dell’Ip, che vinsero anche campioni del livello dell’ austriaco Muster e del russo Metreveli, erano dei passi che mettevano in sintonia personalità diverse, ma concordi: dare degli scossoni alla città, alle sue attività, comprese quelle sportive e mondane. Erano o no gli anni che in qualche modo seguivano la presunta “trasformazione” della città, attraverso i grandi Eventi e i grandi cambiamenti, obbligati da drastiche dismissioni, ridimensionamenti di un’economia che vedeva vacillare i suoi pilastri? Basti pensare alle grande aziende Iri e alla stessa Ip, diventata un motore di iniziative, poi scomparsa rapidamente dallo scenario cittadino, a decenni di distanza dalla caduta dei altri storici centri direzionali Esso, Shell, della stessa Italcantieri, la desertificazione di Piazza Della Vittoria, che pulsava di questi uffici e di questi impiegati e ora rigurgita di pizzerie... la desertificazione dei centri direzionali in generale, che non si era certo fermata nel cuore degli anni Ottanta, con l’esplosione di San Benigno e della Corte Lambruschini, voluti da grandi imprenditori privati come la Sci di Romanengo-Costa e i Cattaneo di Bergamo, assecondati da amministrazioni comunali un po’ miopi nel misurare le prospettive del futuro, rincor-
Giorgio Messina tra Gian Vittorio Cauvin e Sergio Tacchini
renti un facile consenso. Scossoni, in questo contesto, di Giorgio Messina a un tessuto socio economico che sta incominciando a rattopparsi qua e là e che solo pochi uomini di buona volontà osservano con preoccupazione. Messina e la sua famiglia, i fratelli, i nipoti vanno avanti in questa città ondeggiante, avendo ben presenti i punti cardinali. Loro lavorano sui traffici marittimi, ben compatti e all’unisono in quella mitica stanza di comando, che sembra una plancia di una grande nave, negli uffici di piazza Dante, con affaccio sui famosi Giardini di Plastica, la ex Madre di Dio, il quartiere della Coella, raso al suolo, tirandosi dietro senza scrupoli perfino la casa di Nicolò Paganini, uno dei miti nella storia di Genova. Grandi cambiamenti, macerie, dismissioni in cambio di che? Otto forse nove scrivanie in circolo in un open space, una a fianco dell’altra, Giorgio, Gianfranco, Paolo, Ignazio Jr, Stefano,Andrea... le idee circolano, magari impattano una con l’altra, comunque germogliano. Chi ha 139
Giorgio Messina Il genio senza orologio
grande anticipo sui tempi nei quali sarebbe maturata, nella sensibilità di un uomo di porto e di mare. Il mare, la grande passione embrionale dei Messina, viene declinata da Giorgio, non solo attraverso le navi della flotta di famiglia, ma anche come luogo di piacere, di pesca, di navigazione privata. Messina ha sempre navigato, noleggiando belle barche a vela, solo dopo i cinquanta anni, però, se ne era comprata una bellissima e diventata quasi leggendaria , che ha portato in giro per il mondo lui e i suoi amici. Le vacanze erano sempre sul mare, mai in montagna come ricordano sorridendo le figlie. Ma poi che tempo libero aveva questo signore distratto, geniale, sempre in movimento, sempre sollecitato dalle sue pulsioni interne in una specie di moto perpetuo? Poco e sempre intuito all’improvviso con l’organizzazione folgorante di viaggi su cui caricare amici e parenti, magari dopo avere spedito la barca in anticipo in qualche Paradiso dei mari del Sud. Le foto che amava di più e che sono ancora in parte là nel mitico ufficio di Piazza Dante, nel cuore della flotta, sono immagini di grande pesca, lui, gli amici, i nipoti, insieme a qualche superpreda, tirata su in chissà quale mare caldo. L’ondata emotiva dei ricordi ti mette sotto il naso queste immagini molto di più di quelle di una vita di duro lavoro o di quelle del “motore” inesauribile nel tennis di Genova. Che carattere aveva alla fine Giorgio Messina, portato via a soli 69 anni da una malattia che forse pensava di avere domato e che, invece, lo ha sconfitto nel 2008? Oggi , cinque anni dopo, i fratelli, i nipoti e sopratutto le figlie Rossella e Fernanda, ricordano ancora sopratutto la sua leggendaria distrazione, perché è un modo di continuare a sorridere. Quella volta che andò a Milano guidando la sua macchina per un incontro importante e poi tornò senza, andandosene a denunciare il furto e invece l’aveva semplicemente dimenticata
avuto la fortuna di stare in mezzo a quel cerchio ha potuto misurare bene il ruolo di Giorgio nella grande squadra Messina. Spesso in piedi, come inquieto, ma invece riflessivo, il nostro presidente sembra il calmiere di quella vera“tavola rotonda”, dove piombano buone e cattive notizie, della flotta, ma anche della città. Un cerchio “magico” in mezzo a una stanza di lavoro, che sta in mezzo a una città così mutante. Certo, Giorgio Messina non portava l’orologio ma - lo ripetiamo ancora - non si fermava mai. Mentre tutto questo avviene, e spesso si consuma, lui prende quote di Energy Coal e Italiana Coke, entra, quindi, nel Terminal Rinfuse a Venezia,“invade”Vado Ligure, si compra il 35 per cento della Yes, una società petrolifera di Mario Contini, uno dei soci storici di Paolo Mantovani, il mitico presidente della Sampdoria (Giorgio era genoano) recentemente scomparso nel 2013. In quella città, che cambia oramai quasi vertiginosamente, la famiglia Messina entra anche negli affari immobiliari, quasi spinta da un tessuto urbano che sta cambiando la sua pelle, che, o cade a pezzi o pone urgenti problemi di ricostruzione, di rilancio, occasioni da raccogliere. Non gli mancano anche qua le visioni strategiche globali, come ricorda ancora Gian Enrico.“Quindici anni fa aveva commissionato a un ingegnere navale un progetto per spostare la diga foranea più al largo, perché aveva capito che il porto era stretto e che il gigantismo navale avrebbe obbligato nuove infrastrutture.” Centodieci anni prima un altro grande uomo d’affari genovesi il Duca di Galliera, marchese De Ferrari, aveva finanziato l’ampliamento del porto, pagando una parte della nuova diga foranea,“obbligata” dalla rivoluzione del vapore. In tempi diversi, in un mondo diverso Messina sforna la stessa idea, applicata al terzo Millennio in arrivo. Anche in questo caso l’idea è partita prima con un 140
Giorgio Messina Il genio senza orologio
zia Varani, che lo ha seguito dal 1973 fino al 2008 e che di tutti questi anni racconta un solo unico, episodicissimo furore per un documento importante smarrito e il saluto quotidiano battendo il vetro del suo box di lavoro, ogni mattina all’ingresso in ufficio... E come padre? Fernanda, “Lalla” ricorda “che era “apparentemente autoritario”, ma dolcissimo e non c’era domenica mattina che tra diecimila impegni non organizzasse per i suoi bambini una caccia al tesoro con i disegni del nonno. Immancabilmente disegni di navi. Quando Giorgio muore il presidente di Confitarma di quegli anni, Nicola Coccia, che rappresenta 250 aziende, dice che “lo shipping italiano perde l’artefice del consolidamento e del successo di una compagnia nazionale che vanta un giro d’affari di oltre 300 milioni di euro, impiega più di 1.000 dipendenti, gestisce un terminal purpose da 253.355 metri quadrati di cui 11 mila coperti nel porto di Genova e possiede 17 navi fra ro-ro e full container.” Siamo nel 2008, sembra passata una vita sul mare, nei porti, a Genova, eppure sembra passato un solo giorno da quel lutto. Sotto gli alberi degli Orti Sauli, tra i campi di terra rossa, il bar, la sala del bridge, alla quale non rinunciava neppure quando, malato e fiaccato dalle cure, c’era una bel torneo da giocare, sanno che sarà difficile immaginare un altro ambasciatore così forte del loro sport, così capace di lottare per una cultura dello sport sopratutto tra i giovani. E nell’intimo qualcuno dei suoi Cavalieri sogna di giocare con lui un bel doppio e di concedergli di battere di nuovo il servizio, anche se lo ha già sbagliato due volte. Era o non era il doppio fallo del presidente?
in un regolare posteggio... Quelle volte, frequentissime, quasi ogni giorno, che usciva di fretta dall’ufficio afferrando la prima giacca che trovava e non era la sua... Quella unica volta che andò a comprarsi un paio di scarpe e tornò a casa con due destre... Dei tre fratelli lui era considerato il geniale, Gianfranco il solista e Paolo il commerciale. A suo nipote Ignazio, che giovane apprendista armatore sedeva nella scrivania vicina alla sua e che una volta imbarazzato gli aveva espresso una perplessità preoccupata per alcune scelte di famiglia sulla flotta, aveva risposto secco e diretto: “Quando capirai qualche cosa di navi torna a parlarmi...”. Quindi anche severo, se era necessario. O spesso silenzioso e mimico in questi silenzi, che volevano dire molto in quella sala di comando, in mezzo al cerchio magico. Non usava il cellulare e come avrebbe potuto con la sua gigantesca distrazione? E allora, in momenti di urgenza, se non di emergenza, come si poteva fare a raggiungerlo? “Bisognava assolutamente sapere con chi era in quel momento e raggiungerlo indirettamente”- ricorda il nipote Stefano. Quella distrazione era tanto leggendaria da trasformarsi in assenza del senso di forma. Giorgio era abituato a mangiare, pescando con naturalezza anche dal piatto dal vicino di tavola, magari mentre stava inseguendo qualche suo pensiero, qualche progetto, qualche idea anticipatrice. Ma cosa era successo quella volta che in un noto ristorante, seduto vicino all’emiro del Kuwait, affezionato cliente delle navi di famiglia, lo avevano visto pescare dal piatto del principe arabo? “Era di un disordine mostruoso, ma riuscivamo a stargli dietro” - racconta la sua segretaria di una vita, Gra-
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Presidente dal 2008 ad oggi
Rodolfo Lercari
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1948 Nasce il 9 agosto a Genova. 1968 Inizia a lavorare nella Lercari Srl. 1974 Sposa Marcella Odone da cui avrà quattro figli: Gian Luigi (1975), Giovanni (1979), Alessandro (1981) e Francesca (1985). 1980 Apre la prima filiale dei Lercari ad Alessandria cui seguono quelle di Milano,Torino, Savona, Bologna, Rapallo, Mestre, La Spezia,Verona, Livorno. 1989 Il Gruppo Lercari si occupa dell’incendio dell’interporto di Rivalta Scrivia. 1997 Il Gruppo Lercari si occupa dell’incendio del Duomo di Torino in cui rischia di scomparire la Sacra Sindone. 1998 Fonda la Sircus Srl e la Piramid Srl. 1999 Fonda la Cunningham Lindsey Lercari Srl. Il Gruppo Lercari si occupa dell’incendio nel traforo del Monte Bianco. 2000 La quinta generazione di Lercari entra in azienda. 2003 Il Gruppo Lercari si occupa del black out totale nazionale. 2005 Fonda la Verify Shipping Survey Services. Il Gruppo Lercari si occupa dell’incendio di una fabbrica di caldaie in Gran Bretagna. 2008 Fonda la San Filippo Srl. Il Gruppo Lercari si occupa dell’affondamento in mare di una gru in Thailandia e dell’incendio di un parco eolico in Costa Rica. 2008-oggi E’ il decimo presidente del Tennis Club Genova. 2009 Il Gruppo Lercari festeggia i 130 anni di attività con un convegno a Milano, si occupa della tragedia ferroviaria di Viareggio e dell’incendio di una centrale elettrica in Slovenia. 2011 Fonda la Centro Servizi Integrato Srl. 2012 Fonda la Contec Lercari Srl. 2013 Il Gruppo Lercari si occupa del crollo della Torre di controllo del Porto di Genova.
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peratore si arrende. Ancora oggi sul lato sinistro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova è murata la scacchiera di Megollo Lercari, nella chiesa di San Eleuterio a Trebisonda c’è una lapide (1361) della famiglia Lercari, che quando nel 1571 costruisce il suo palazzo in “Strada Nuova”, colloca all’ingresso due cariatidi maschili con il naso tagliato. Palazzo Lercari dal 2006 è Patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco inserito nei Rolli di Genova. La storia dei Lercari periti inizia nel 1879 in un ufficio nell’area portuale di Genova quando il quadrisavolo Luigi Salvatore (1832) fonda lo Studio Lercari fortemente legato ai traffici navali, in quel periodo l’arretratezza della marina mercantile italiana consegna imbarcazioni di legno in cui incendi e affondamenti sono frequenti. Il trisavolo Filippo Rodolfo (1870) continua l’attività paterna, come pure i suoi figli Gian Luigi (1907) e Oreste (1921), che sviluppano il business, ma il salto in avanti arriva con Rodolfo (1948) e Vittorio (1953), figli di Gian Luigi, che in qualità di amministratore delegato e presidente strutturano l’azienda all’interno di un network internazionale specializzandola in 14 Divisioni, dai trasporti alla finanza, dall’energia all’inquinamento, dai sinistri complessi alle catastrofi, fino ai danni indiretti. Nato il 9 agosto 1948 a Genova, Rodolfo Lercari è il primo figlio di Gian Luigi e Giovanna Casareto, entra in azienda nel 1968 dopo il conseguimento del diploma di geometra e successi sportivi come la vittoria del Campionato italiano giovanile di tennis a squadre per il Tennis Club Genova in una finale contro il T.C. Parioli del giovanissimo Adriano Panatta. Si specializza nei rami property, in particolare nel settore incendio, diventa un esperto di livello internazionale nella “fire investigation”, l’analisi forensica del fenomeno di incendio al fine di poter caratterizzare le cause, le responsabilità e stimare i danni a seguito di
l mondo in una perizia. Dal rogo de “La Rinascente” di Milano alle devastazioni del G8 di Genova, dal salvataggio della Sacra Sindone all’incendio nel traforo del Monte Bianco, dal furto di opere d’arte nella Palazzina di caccia di Stupinigi alla strage di Viareggio, fino al crollo della Torre di controllo del porto di Genova. E’ la storia di Rodolfo Lercari, amministratore delegato della Lercari Srl, società peritale fondata nel 1879 a Genova per l’accertamento e la definizione dei sinistri, un’azienda familiare diventata nell’arco di cinque generazioni un gruppo multi service per il mercato assicurativo domestico e internazionale. Decimo presidente in carica del Tennis Club Genova dal 2008, Rodolfo è un continuatore della dinastia dei Lercari, grande famiglia guelfa, legata alla Francia e agli Angiò, arrivata a Genova probabilmente intorno al 1100 circa da Moneglia, cittadina della riviera ligure di Levante o forse dalla lontana Armenia. I Lercari si radicano nel tessuto imprenditoriale italiano dal XII secolo, danno tre Dogi alla Repubblica di Genova: Giovanni Battista (1563-1565), Giovanni Battista II (1642-1644) e Francesco Maria Lercari Imperiale (1683-1685), sono ambasciatori, consoli e persino arcivescovi di Genova con monsignor Giovanni Lercari (1767-1802). Ma la figura più nota della dinastia è Megollo Lercari, commerciante che recatosi alla corte dell’Imperatore di Trebisonda Alessio II nel 1314-1315 (circa) in qualità di ambasciatore genovese, subisce l’oltraggio del cortigiano Andronico che per invidia durante una partita a scacchi lo insulta e lo schiaffeggia. Tornato a Genova, Megollo espone l’accaduto al Capitano del Popolo, arma due galee e parte per una feroce spedizione punitiva nel Mar Nero: ogni qual volta un suddito di Alessio II cade nelle sue mani gli fa tagliare il naso e le orecchie mettendo poi le cartilagini in salamoia in un barile. Di fronte a tanto orrore l’Im145
zate ed autonome fra loro. Fonda così nel 1998 la Sircus Srl per la gestione dei sinistri e la liquidazione danni, la Piramid Srl per la valutazione danni e rischi d’opere ingegneristiche, nel 1999 la Cunningham Lindsey Lercari Srl per gli interventi internazionali, nel 2005 la Verify Shipping Survey Services per il settore armatoriale, nel 2008 la San Filippo Srl per i sinistri da fenomeno elettrico, nel 2011 la Centro Servizi Integrato Srl per fornire a terzi servizi informatici e amministrativi, nel 2012 la Contec Lercari Srl per il settore trasporti. Una struttura societaria coronata dalla Lercari Cult, un’accademia interna all’azienda che forma i collaboratori del Gruppo. “La gestione del cambiamento nel contesto imprenditoriale assicurativo e riassicurativo nazionale ed internazionale”: è il titolo del convegno con il quale nel 2009 a Milano Rodolfo e Vittorio Lercari festeggiano i primi 130 anni di storia dell’azienda, entrata di diritto nel Registro delle Imprese Storiche Italiane istituito da Unioncamere. Nell’arco di mezzo secolo Rodolfo e suo fratello moltiplicano i dipendenti e i collaboratori del Gruppo dai circa 15 d’inizio anni ‘60, ai 60 di fine anni ‘80, fino agli oltre 200 d’inizio nuovo millennio, costruiscono le basi per l’ingresso in azienda della quinta generazione di Lercari e allargano gli interessi dalla navigazione a tutti i tipi di rischio fino all’energia, il petrolchimico e le nuove tecnologie. Uno sviluppo da record per un’impresa attiva in tutto il mondo che continua ad avere Genova come quartier generale. Rodolfo Lercari è socio senior dell’Associazione Italiana Periti Assicurativi Incendio, membro dell’International Institute of Loss Adjusting, membro del Collegio dei Geometri Liguri, socio del Rotary Club di Genova e del Circolo Artistico Tunnel, nonché membro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e socio fondatore dell’Associazione San Michele Valore Impresa.
un incidente o evento delittuoso. Nel 1974 sposa Marcella Odone, da cui avrà quattro figli: Gian Luigi (1975), Giovanni (1979), Alessandro (1981) e Francesca (1985), che insieme a Giovanna (1983) e Lucia (1986), figlie di Vittorio, costituiscono la quinta generazione di Lercari pronta ad entrare in azienda nel nuovo millennio dopo l’esperienza universitaria. Nel 1980 apre la prima filiale dei Lercari ad Alessandria cui seguono quelle di Milano, Torino, Savona, Bologna, Rapallo, Mestre, La Spezia, Verona, Livorno, rapporti di collaborazione con il centro e sud Italia, l’Europa e tutti i continenti. Sotto la lente di Rodolfo Lercari passano eventi come l’incendio dell’interporto di Rivalta Scrivia (1989), l’incendio del Duomo di Torino in cui rischia di scomparire la Sacra Sindone (1997), l’incendio nel traforo del Monte Bianco (1999), gli atti vandalici del G8 di Genova (2001), il black out totale nazionale (2003), il furto di opere d’arte nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (2004), il danno ad un cavo sottomarino in alta tensione trifase che collega Ischia alla Penisola (2007), la tragedia ferroviaria di Viareggio (2009), fino al crollo della Torre di controllo del Porto di Genova (2013). Il Gruppo Lercari si sviluppa in campo internazionale seguendo l’incendio di un’industria cartaria in Svizzera (2002), l’incendio di un deposito di merci e di un’industria alimentare in Russia (2004), l’incendio di una fabbrica di caldaie in Gran Bretagna (2005), l’incendio di un cementificio in Egitto (2006), l’incendio di un’industria tunisina (2007), l’affondamento in mare di una gru in Thailandia (2008), l’incendio di un parco eolico in Costa Rica (2008), fino all’incendio di una centrale elettrica in Slovenia (2009). L’impegno di Rodolfo Lercari per lo sviluppo dell’azienda, porta a implementare e differenziare l’attività professionale di famiglia, parallelamente all’evolversi della domanda di servizio da parte del mercato assicurativo, attraverso la creazione di strutture specializ146
Crescere a pane e terra rossa
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po’, senza nascondere l’orgoglio di esserlo davvero, anche in cima a quella storia di 120 anni che si celebra e dei nomi che l’hanno preceduto, fino a colui che gli ha dato certamente la spinta finale, il suo predecessore, Giorgio Messina. Lercari nella società, negli affari, nel “mestiere”, è una grande firma genovese che, mentre il giovane Rodolfo cresceva, diventava un’azienda internazionale, fondata su una di quelle competenze che fanno la fama, potremmo dire l’onore di Genova, insieme allo shipping, all’armamento, al brokeraggio, a tutti mestieri connessi con le navi, il porto, le assicurazioni, il mare. Oggi Lercari è diventata una holding di famiglia, che tiene insieme cinque, sei società, Lercari Srl, Sircus Srl, Piramid srl, Cunningham, Lindsey Lercari srl, Contec Lercari, Cult srl e San Filippo Srl. Siamo alla quarta generazione con Rodolfo, suo fratello Vittorio, mentre la quinta già rulla da tempo negli uffici di via Roma, nelle dodici sedi territoriali, ultima quella di Londra e quel mestiere di perito, al servizio delle Compagnie di assicurazione nazionali ed estere, è diventato veramente globale. Rodolfo ha incominciato a lavorare nella “bottega” di famiglia con il padre a diciannove anni, dopo il diploma da geometra e non ha mai smesso, così come ha fatto con il tennis. Chissà quante scarpe avrà consumato da bambino a correre verso “il tennis”, come si dice sinteticamente, alludendo agli Orti Sauli, al Circolo. E chissà quanti chilometri avrà già fatto e ancora farà per inseguire e far inseguire dalle migliaia di tecnici, collegati dalla sua rete sempre più estesa, i sinistri che “scoppiano” nei quattro punti cardinali. Ogni sinistro una perizia, un tipo di perito e che sinistri! Se scorri il palmares della Lercari negli ultimi anni rimbalzi dai fatti più traumatici della cronaca italiane e europea, dall’incendio del Duomo di Torino la sacra Sindone a rischio, al blackout da choc italiano
uanti passi, quanti metri ci sono tra Viale Brigata Liguria e gli Orti Sauli? Un pezzo di via XX Settembre in leggera salita, la svolta verso Piazza Colombo, volendo un’altra svolta in San Vincenzo, per approdare in Salita della Misericordia, se hai scelto quel percorso per tuffarti tra i campi di terra rossa, il paradiso, il parco giochi, la libertà di quell’oasi nell’ombelico di Genova, partendo da casa tua. La storia del tennista Rodolfo Lercari, decimo presidente del Tennis Club, incomincia proprio da quella strada, da quel percorso, fatto con i passi da bambino, poi da ragazzo, magari già con quell’aria dinoccolata che gli si è accentuata con l’età e che rivela anche molto del suo carattere.“Sono cresciuto lì e come facevo a non diventare un tennista? Quelli erano i miei giardinetti!”, ti spiega con quel sorriso un po’ sbieco, in una delle grandi stanze del suo ufficio di superperito, nel palazzo Rolli di via Roma, dove c’è la sede della Ditta di famiglia, quel luogo simbolo nel cuore di Genova, il presidente che è veramente cresciuto “a pane e terra rossa”. Si sarebbe mai immaginato di diventare presidente, il numero uno di quel Circolo, che via via lui ha visto con gli occhi del bambino, poi con quelle del giocatore in erba, alla scoperta dei suoi talenti sportivi e tecnici, guardato a vista, con il tipico understatement genovese, dal padre Jean, dallo zio Pully, tennisti appassionati e figure storiche di quel “giardino”. Ora quel giardino può essere osservato con gli occhi del giocatore fatto che è passato da un torneo all’altro, che vince, rivince, perde, fa squadra e continua imperterrito a giocare, con gli occhi di chi piano piano, quel posto di campi di terra rossa lo interpreta come una casa, magari la sua vera casa, da dirigente, da membro di commissioni, da presidente, infine, da Lercari semplicemente e complessivamente. “Non avrei mai creduto possibile diventare Presidente, forse qualche volta l’ho sognato”, si schernisce un 147
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per intervenire sul luogo del sinistro. Tutto questo nasce dalla tradizione di una famiglia che aveva cominciato nel 1879 e che non ha mai cambiato. “Tennisticamente sono nato dove oggi ci sono le scuole Cassini che hanno fatto cambiare faccia al nostro Circolo”, racconta Lercari tornando alla sua origine strettamente sportiva, quando il “mestiere” era ancora lontano e in testa c’era solo la racchetta, le palline allora di colore bianco e il campo da conquistare, rubandolo ai “grandi”. Già il destino era in agguato, con i soprannomi per il futuro presidente che tutti conoscono e chiamano a Genova “Fuffetto”, usato inesorabilmente malgrado l’età e il ruolo. Citare l’origine del soprannome ha un senso che pesca nella tradizione tennistica del TC e non solo. Da sinistra Alfredo Carrea, Ido Alberton, Alberto Marmont, Jean Lercari, A battezzarlo con quel nomignolo è stato Aldo Mordiglia, Oreste Lercari, Rinaldo Schiaffino nella culla, infatti, uno dei tennisti “storidel 2003, alla catastrofica strage nella galleria del ci” genovesi, celebre per essere finito sui giornali e Monte Bianco. E potresti continuare fino a comprensui libri sportivi perché scendeva in campo ancora a dere centinaia e centinaia di eventi, molti dei quali 100 anni, Raffaello Sansò, una specie di mito del TC e raccontano l’epoca moderna in Italia e in Europa. del tennis in Italia, celebrato anche dal vate dello Le Assicurazioni avevano bisogno di una perizia? Ci sport, il giornalista Gianni Clerici. pensava Lercari: così era una volta, dal 1879 in avanti. “La prima volta che mi venne a conoscere, quando Oggi quella attività strettamente peritale, si è trasforero appena nato, da amico affezionatissimo di mio mata in un sistema imprenditoriale con una struttura, padre, Raffaello mi aveva battezzato “Fagiolino”, perappunto societaria, che si è costruita nel tempo e che ché allora ero già lungo e di pelle scura.” risponde all’evolversi della domanda di servizio da Poi Sansò corresse in “Fuffetto” e quell’appellativo parte del mercato assicurativo. non glielo ha più tolto nessuno. Si creano organizzazioni specializzate ed autonome All’inizio della storia tennistica c’è, con “Fuffetto”, tra di loro, che pur mantenendo la radice comune deluna banda di bambini-ragazzini che è cresciuta insiela tradizione Lercari, si trasformano in vere task force me negli Orti Sauli, Memo Boero, Franco Mossa, Emi148
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“I miei m’incentivavano eccome”, racconta Lercari,“e quale divertimento più sano e quale lezione più utile c’era? Mio padre era stato un seconda categoria e mi mandava a lezione da Riri Ballanti, che era stato un Prima. Giocavamo anche insieme io e mio padre. Doppi veri con Maria Teresa Bozano, la campionessa, una gloria indiscussa del Tennis e Gerda Misuri.” Giocare e imparare, ma senza quel tifo famigliare che oggi appare spesso tanto stonato.“Quando giocavo una partita vera, un torneo, mio padre si nascondeva, mica lo vedevo, mi spiava da dietro una siepe, una rete, ma dopo mi faceva tutte le sue osservazioni: non gli scappava nulla. Ci teneva che imparassi bene: quando all’inizio degli anni Sessanta, a Genova, finalmente tornò la Coppa Davis, con un incontro tra Italia e Rhodesia mi fecero fare uno stage con Martin Mullighan, un grande giocatore australiano che si era trasferito in Italia e allenava gli azzurri”. Poi, dopo l’età della formazione tennistica, è venuto il tempo delle partite vere, dei tornei che lasciano il segno e che oggi il presidente del Centoventesimo compleanno elenca come se fossero passaggi normali di una carriera sportiva, ma che sono un po’ delle medaglie. Il trofeo Bonfiglio, per esempio, vinto insieme a Mario Caimo e a Gianki De Vecchi.Anni d’oro nei quali ti potevi trovare, se eri in quella generazione, dall’altra parte del campo uno come Adriano Panatta, il grande campione del Dopoguerra italiano, insieme a Nicola Pietrangeli. “Era piccino, sembrava fragile, ma come giocava già quel ragazzino romano,” racconta Lercari, ricordando come Panatta era il figlio del custode del Circolo dei Parioli.“Ci ho perso secco da quel gracilino”, ricorda con una piccola smorfia, che è, comunque, da una parte il commento a una sconfitta che un tennista appassionato ammette sempre con un po’ di sofferenza, ma dall’altra l’orgoglio di avere incrociato la racchetta con uno dei giocatori più forti nella storia d’Italia.
lio Casareto, Gianluca De Lucchi e tanti altri che si aggiungono, se ne vanno e magari tornano. La banda era sempre in agguato per accaparrarsi un campo libero e “fregare” i grandi. Un’altra figura storica del TC, Gerda Misuri, svolgeva le funzioni da cerbero e cercava di impedire quelle invasioni. Invano i genitori dei tennisti in erba, che “viaggiavano” col futuro presidente”, cercavano di dettare delle regole a quei ragazzini che volevano a tutti i costi giocare. Li mandarono al Coni, in Albaro, dove insegnava tennis un altro mito genovese, il maestro Ido Alberton, che avrebbe “inventato e lanciato” Valletta Cambiaso e l’impianto del Coni, con lo stadio centrale intitolato a Beppe Croce, un altro storico presidente del TC, che fece di Genova la capitale del tennis italiano con la sede della Fit sotto la Lanterna, per quasi un quindicennio, fino all’intervento fascista che inghiottì tutte le federazioni sportive. Ma “Fuffetto e la sua banda spesso arrivavano in ritardo alle lezioni di Alberton e la punizione per loro era di decine e decine di flessioni, prima di cominciare a giocare. Questa è stata l’età della formazione tennistica per Lercari e i suoi amici che a 11, 12, 13 anni erano già scatenati giocatori, pronti a qualsiasi sfida tra loro e gli altri. Il primo torneo vinto dal futuro presidente è sul campo di Casella dove in doppio insieme a Emilio Casareto vince contro Rossi-Costella. L’età è tredici anni e lo scenario quello dei tornei estivi, che si giocano nella cosiddetta “campagnetta” dei genovesi, subito al di là dei Giovi, tra Busalla, Savignone, Casella, Borgo Fornari, Novi Ligure, paesi e cittadine della villeggiatura allora molto frequentati. Certo, dietro questa grande voglia di giocare, di praticare il tennis, di stare in campo anche dieci ore al giorno, di diventare più bravi e di divertirsi ci sono le famiglie, anche se in un modo molto diverso da oggi. 149
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
1963 Coppa Bonfiglio da sinistra: Mario Mossa, Franco Mossa, Rodolfo Lercari, Guglielmo Boero, Jean Lercari e Mario Caimo
1964 seconda edizione della Coppa Bonfiglio
Prenditela questa medaglia e custodiscila sempre nel tuo armadio con le palline da tennis, le magliette, le scarpe consumate dai milioni di passi sulla terra rossa. In questa attività quasi frenetica di giocatore che si diverte troppo a tutte le età, che deve giocare sempre tutti i giorni, “altrimenti sto male”, Lercari avrebbe un elenco lunghissimo di tornei e partite da ricordare, quasi impossibile fare un elenco completo. Come scordare la vittoria nella coppa Bossi del 1964, ancora con la banda dei ragazzini under 18, Caimo, Mossa, Boero, e lui, Lercari. Guardi la foto e vedi nei volti soddisfatti e orgogliosi di questi ragazzi-tennisti lo stile del TC e gli atteggiamenti che poi loro si sono scambiati probabilmente per tutta la vita: primo a sinistra Franco Mossa, mano destra in tasca, racchetta
che pende sulla sinistra, sguardo indifferente ma dentro chissà che soddisfazione, Caimo che tutti allora conoscevano come Cillin, alto con la faccia da bambino, negli occhi un po’ sfacciati già la consapevolezza della sua forza “bestiale”, che gli avrebbe fatto sfiorare la grande fama sportiva, Lercari, il presidente un po’ impettito con la racchetta impugnata vicino alle corde, come fosse un fucile con il manico verso il basso e Boero, sguardo ironico, mani sui fianchi, impeccabile con la divisa elegante di quei tempi più for150
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
mali di oggi, bianco rosso e bianco bordato di rosso. Ma di tutte queste vittorie, di questo tornei, di queste partite qual è il ricordo più bello per uno che è diventato presidente? “Quando abbiamo vinto la Coppa Facchinetti in serie A con Augusto Possenti, sconfiggendo a Bologna CocchiArmellini 6-4 6-4”, risponde senza esitazioni. Il carnet è pieno, anzi rigurgita quasi di ricordi, tutti ovviamente targati con lo scudetto bianco rosso del Tennis Club, eccetto un anno giocato con la maglia del Tennis Park perché gli Orti Sauli non giocavano la Coppa Croce. “Salvo quell’anno ho giocato tutta la vita per il TC”, racconta con un sussiego trattenuto il presidente, che potrebbe continuare per ore a elencare i suoi preferiti compagni di doppio di una vita tennistica che era incominciata scappando ai giardinetti e che continua anche ora, di corsa al ritorno delle trasferte di lavoro, facendo qualsiasi capriola per essere alle 18 o alle 19 in campo a giocare, comunque: Franco Mossa, Memo Boero un po’ saltuariamente, Emilio Casareto, Davide Olivari (tre anni senza perdere una partita), Paolo Samengo e negli ultimi anni Carlo Avanzo e ora Santino Pesce. Lercari ha giocato spesso, anzi spessissimo, la Coppa del Sindaco, la grande competizione genovese aperta a tutti i non classificati, che è una maratona lunghissima, molto trasversale per la partecipazione globale dei giocatori di ogni ambiente e estrazione e capacità, nella quale, per esempio, uno come lui a 14 anni può arrivare in finale di singolare, contro uno molto più grande di lui, Chicco Reale e poi negli anni e nei decenni successivi vincere tre finali di Doppio Misto con Dada Galletto, il doppio con Carlo Avanzo
Il Presidente Rodolfo Lercari con un gruppo di giovani tennisti
e il doppio libero, cioè senza vincoli di età, con suo figlio Gian Luigi, il maggiore. Poi ci sono i tornei serali in casa negli Orti Sauli, innumerevoli. Ci sono ovviamente le sconfitte, che non si dimenticano, come quella di Campione d’Italia, insieme con Emilio Casareto.“Vincevamo 6-4 e 4-0 e hanno incominciato a suonare le campane di una chiesa, non ci abbiamo capito più nulla...” Storie di tennis che i giocatori amano trattenere nella propria memoria e poi tornarci sopra con lo stesso rovello, magari, della inspiegabilità sul come è finita. Ma questo è sempre il mistero del tennis per il quale diventa uno sport così sottile anche psicologicamente. “Un torneo a Biella, per esempio, sotto un’acqua che non smetteva di cadere e un compagno, Giagnotti, che quel giorno giocava tanto male che tornando a casa per la rabbia della sconfitta l’ho mollato a Voghera, mentre comprava i giornali a un’edicola e lui si è pure incavolato, ma io ero troppo furibondo per avere perso a quel modo.” Ma ci sono anche le sconfitte che si ricordano magari con un po’ di dolcezza, più che di rammarico, come quella del 3 luglio 1975 il giorno della nascita del suo 151
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
di tanti tornei, di tante Coppe e magari già carichi di trofei, era quasi fisiologico. E così Lercari siede nella Commissione sportiva, consigliere, praticamente da sempre, con i presidenti suoi predecessori nel ruolo di direttore sportivo, Cauvin, Mordiglia, Mondini e, ovviamente Messina. Parlare di presidenti con il presidente di oggi, anno 2013, giunto al suo secondo mandato, dopo il lungo e floridissimo regno di Giorgio Messina, significa sentirlo riconoscere la fortuna per il Tennis Club di avere sempre avuto in quella posizione e lungo tutta la propria storia di 120 anni grandi manager, grandi imprenditori, rappresentanti di famiglie ben piantate nella società civile ed economica della città, figure genovesi di grande spicco ancor prima che fossero chiamati al ruolo di responsabile nel TC, tutti appassionati di tennis, forse con la eccezione di Angelo Costa, il più famoso e il più longevo come presidente di tutti, ma interprete dello sport sui campi di terra rossa più come una tradizione famigliare che come praticante. Certo il presidente per il quale batte più il cuore di colui che il mitico Raffaello Sansò soprannominò indelebilmente “Fuffetto” è Giorgio Messina. Per raccogliere la sua eredità, per non disperdere il suo patrimonio di iniziative, soprattutto quelle “agonistiche” che avevano rilanciato il prestigio del Club con i challenger, la riconquista della Coppa Davis a Genova, quel sogno di Lercari è diventato una realtà. “Costa è sicuramente stato un presidente molto autoritario, temuto da tutti, decisionista,“storico” per l’affermazione del Tennis Club e prima ancora per la sua ricostruzione nella città. Giorgio Messina, invece, è stato il più operativo, colui che oltre a essere il presidente spessissimo era anche il capitano in panchina”. Raccogliere direttamente questa eredità di un leader che ha governato dal 1986 al 2008, anno della sua prematura scomparsa, significa anche essere coinvolto nei progetti a lungo inseguiti e discussi di migliorare il
Aosta 1 giugno 1999 Incendio Traforo Monte Bianco: risultati perizie a fine estate - ''Per ipotizzare eventuali responsabilità nella tragedia bisognerà attendere l'esito delle perizie e spero che i consulenti riescano a completarle entro la fine dell'estate. Solo allora deciderò se iscrivere qualcuno nel registro degli indagati''. Lo ha detto oggi pomeriggio il procuratore di Bonneville (Francia), Bruno Charves, titolare dell' inchiesta sul rogo del tunnel del Monte Bianco in cui hanno perso la vita 42 persone. ''Nei prossimi giorni - ha aggiunto - dovrebbero terminare le operazioni di riconoscimento degli ultimi due corpi, praticamente ridotti in cenere. Mancano solo piccoli dettagli e verifiche incrociate, che saranno compiuti dai tecnici dell'Istituto di Medicina Legale di Grenoble''. I corpi non ancora riconosciuti sono quelli di due camionisti: il trentottenne Stefano Manno, di Jovencan (Aosta), e un uomo di origine serbo-croata. Al magistrato francese saranno consegnati anche i verbali degli interrogatori affidati con ''rogatoria'' al magistrato Paola Odilia Meroni e alla polizia stradale di Entreves, che dal 24 marzo scorso, giorno della tragedia, ad oggi hanno raccolto le deposizioni di 46 persone ''informate sui fatti''. Infine, le operazioni di sgombero del tunnel dalle carcasse degli ultimi 22 camion dovrebbero iniziare nei prossimi giorni.
primogenito Gian Luigi, quando si giocava la finale di doppio del torneo sociale e Lercari era insieme a Boero. Se diventare presidente era un sogno, ricacciato indietro al pensiero del tanto lavoro che lo aspettava e che neppure lui probabilmente sapeva quanto si sarebbe allargato sotto la spinta sua e di Vittorio, che avevano preso in mano l’azienda dopo Jean e lo zio Pully, il ruolo di dirigente di responsabile dentro al TC era stato quasi fisiologico a partire dalla Commissione sportiva nella quale l’accesso per i giocatori “forti”, esperti 152
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
Circolo, spingere avanti quel programma di ampliamento, di completa ricostruzione e di recupero di una parte della città abbandonata intorno agli Orti Sauli, quella salita della Misericordia che confina con i campi, che è un vero buco nero e che da decenni i responsabili del Tennis Club cercano di ristrutturare nell’interesse del Circolo stesso. Ma c’è, ovviamente anche l’interesse della città che acquisterebbe un altro polmone di verde sotto la tanto discussa Acquasola. “Il Tennis Club di Genova costituisce ormai un’isola di verde non solo nel mare di cemento del centro cittadino ma soprattutto in una zona di grande abbandono dove sono ancora evidenti i segni dell’ultima guerra: interi edifici diroccati sono oramai praticamente abbandonati, centinaia di metri quadrati nel pieno cuore della Superba sono diventati un monumento di degrado”, diceva proprio Giorgio Messina nell’intervista sul libro che ha celebrato i 100 anni di vita del Circolo “Un set lungo cent’anni”, lanciando un progetto di grande recupero del circolo stesso, ma anche di una parte della città, che chiude le sue strade per evitare che i calcinacci colpiscono i passanti e si dimentica di una intera area nel suo centro. Venti anni dopo Lercari riprende quel tema con una confessione anche un po’ amara: “Il mio cruccio di presidente fino ad ora è quello di non essere riuscito a compiere l’operazione di Salita della Misericordia e, quindi, di non avere bonificato quella zona e fatto crescere il circolo là dove poteva allargarsi.” A quasi sessanta anni dalla fine della guerra, dopo che il presidente Costa aveva incominciato a intervenire facendo disinnescare le bomba cadute sul campo 3 e ricostruito la Sede ridotta in macerie, la lotta per migliorare è complicata e sembra costituire una vera sfida per il presidente Lercari, come lo è stata certamente per i presidenti che sono venuti prima. La presidenza Lercari ha sicuramente affrontato e risolto il problema dell’accesso al circolo e del posteg-
Rodolfo Lercari con i figli Gian Luigi, Alessandro, Francesca e Giovanni
gio, che non era un problema da poco. Ha continuato, quindi, la lunga azione di sistemazione di tutta l’area intrapresa dai suoi predecessori nei decenni del Dopo Guerra, che avevano acquistato il terreno dei campi cinque e sei, di proprietà della Curia, annettendosi, prima ancora, tutta la zona che era del fiorista Peirano, realizzando la palestra, allestendo il campo sette sulla collinetta sotto la sede dell’Apostolato Liturgico, facendo proprio anche il secondo edificio della sede dove si trova il ristorante, che ha aperto spazi nuovi per le altre attività del Circolo, notevolmente cresciute negli ultimi anni. Sotto il mandato di Lercari si è realizzata anche la passerella tra il campo 1 e il campo 2, una “invenzione” molto spettacolare.“Ma”, dice con un po’ di amaro in bocca o di sano realismo il presidente di oggi,“tutti i cambi del Circolo che siamo riusciti a realizzare negli 153
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
tentare due strade. O tornare sui campi di terra rossa e rispolverare il valore basico di chi parte dal tennis, come appunto Lercari, che si culla un po’, neppure troppo, nel suo curriculum lunghissimo di giocatore che non ha mai smesso e che può ricordare con una punta di civetteria come solo lui e Gian Vittorio Cauvin sono stati nell’epoca recente i più forti tra i presidenti, come a marcare una identità specifica. O si può ricordare il valore della dinastia familiare, chiamiamola così con un po’ di altisonanza che sta dietro a quella carica presidenziale. Ci sono sempre famiglie importanti che rappresentano una forza nella realtà genovese e che hanno manifestato la propria continuità in più generazioni. “Abbiamo introdotto la perizia, l’accertamento tecnico che era di un singolo superesperto della materia”, spiega Lercari, “in un contesto imprenditoriale. Ora siamo 250 persone in 12 uffici d’Italia e facciamo parte di un network internazionale che è collegato con seimila periti. L’ultima creatura è l’ufficio di Londra. Con la “Lercari International”.
Roma 28 settembre 2003 Black out: Grtn, causato da guasto con linee estere Secondo prime informazioni raccolte agli uffici del Gestore della Rete Nazionale (Grtn), il black out su tutto il territorio nazionale e' stato causato da un malfunzionamento delle linee attraverso le quale giunge dall'estero energia elettrica in Italia. A catena, poi, la mancanza di tensione si e' propagata su tutto il territorio nazionale. Sono in corso - ha riferito la stessa fonte - le procedure per il ripristino del servizio anni migliorano sempre il preesistente ma sono sempre peggiorativi rispetto al passato, ai tempi degli inizi.” E non c’è in ballo solo la questione di salita della Misericordia, ma la possibilità di portare avanti un disegno più vasto di tutta l’area, partendo, magari dal famoso progetto degli architetti Polastri Tomasinelli, che era già disegnato alla celebrazione del Centenario, sotto la guida di Giorgio Messina. È quello il tempo nel quale la prospettiva di allargamento, della creazione di nuovi spazi, di miglioramento di quelli esistenti diventa quasi urgente per Messina e poi per Lercari, nella scia del suo predecessore. Quel progetto che prevedeva la costruzione di altri due campi nello spazio recuperato alle macerie della guerra, lungo la Salita della Misericordia e una nuova sistemazione di tutti i servizi, diventa quasi un imperativo, anche se non c’è presidente che non sappia come le grandi trasformazioni devono avere il consenso dei soci e si possono assumere iniziative anche consistenti, ma poi tutto passa dall’assemblea. Così anche Lercari fa preparare il suo progetto e ne sollecita la discussione, piazzando il plastico nella sede perché tutti lo possono valutare e aspettando le risposte. Quanti mestieri deve saper esercitare un buon presidente? Di fronte alle difficoltà obbiettive si possono
Per ripescare la loro storia i Lercari sono andati molto indietro nella ricostruzione delle vicende genovesi, addirittura fino al 14 luglio 1259, a una lapide che ricorda come Percivalle e Simonetta Lercari morirono assistendo gli infermi nel grande ospedale di San Giovanni di Prè, fondato e amministrato dagli ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme. E hanno fatto questa ricostruzione in un libro che recupera quella storia ultracentenaria della famiglia da un punto di vista commerciale nel 1879, anno di fondazione dell’azienda e che la celebra fino ai nostri giorni. In un altro libro, che narra la storia dell’“Oro d’Italia”, scritto da Carlo Ruggiero, si elencano le aziende centenarie d’Italia e ci sono molte pagine per i Lercari e la loro vicenda così profondamente genovese. Basta pensare a colui che viene considerato una specie di capo154
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
Palazzo Lercari Parodi: Luca Cambiaso La costruzione di un fondaco a Trebisonda. I due Telamoni con il naso mozzato all’ingresso del palazzo
stipite, Megollo Lercari, un commerciante del Medioevo genovese, che si recò in qualità di ambasciatore genovese dall’imperatore di Trebisonda, dove si scontrò con un cortigiano il quale lo schiaffeggiò. Per lavare quell’onta i Capitani del Popolo di Genova esortarono il Lercari a organizzare una spedizione punitiva. A tal punto era in quell’epoca il sentimento dell’onore genovese. Megollo partì e mise in atto la sua terribile vendetta: chiunque veniva preso prigioniero dalla spedizione genovese aveva mozzati il naso e le orecchie che finivano in salamoia in un barile. Quando l’imperatore di Trebisonda venne a conoscenza del macabro dono, inviatogli dal genovese Lercari, consegnò a Megollo il cortigiano che lo aveva offeso e che disperato chiese pietà. E il Lercari di qualche secolo fa così gli rispose: “Sappi tu e sappiano i greci tutti che chi offende un 155
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
Insomma per arrivare ai Lercari, che fondano nel 1879 l’azienda che ora la sua sede in via Roma e che è alla quarta-quinta generazione, bisogna scorrere una storia molto lunga, passando anche per un doge, Giovanni Battista nel 1563. Lunga strada per arrivare a Luigi Salvatore che nel 1879 si lanciò nella sua attività di perito per sinistri, trasporti e avarie, merci e altri rami, partendo ovviamente dal porto di Genova. Ma da lì a oggi quell’attività non si ferma più, si raffina, si modifica con i tempi e si adegua, diventando sempre più larga: dal porto, alle navi, ai sinistri per le assicurazioni dei trasporti, alla globalità dei sinistri. Ci sono di mezzo le guerre del Novecento, che non fermano per nulla i Lercari.
Milano 19 novembre 2009 Generali: De Puppi, in anticipo le sinergie di Alleanza Toro ''Siamo totalmente soddisfatti di come procede la fusione. Si stanno già verificando le sinergie che avevamo previsto e con una tempistica anticipata''. Lo ha detto Luigi De Puppi, amministratore delegato di Alleanza Toro, a margine di un convegno organizzato dal Gruppo Lercari. Alleanza Toro e' la compagnia del gruppo Generali che opera nei rami vita e danni attraverso le reti distributive Alleanza, Toro, Lloyd Italico derivanti dall'integrazione delle attività assicurative di Alleanza e Toro, Augusta Assicurazioni e Das. La fusione e' diventata operativa dal primo ottobre
A cavallo delle guerre Gian Luigi (Jean), il padre del presidente Rodolfo e Oreste (Pully), il fratello più giovane, entrati in azienda nel mitico anno 1929 della grande Depressione, gettano le basi della nuova filosofia della perizia assicurativa, che deve inseguire la velocità dei tempi moderni che sta diventando frenetica. Oggi quella rete internazionale di rapporti, quei periti sparsi per ogni dove (una volta si sarebbe detto per ogni porto), mostrano bene come i geni genovesi non si disperdono. E come le “firme” delle famiglie restano stampigliate nella storia e nella cronaca recente della città.
genovese deve attendere inesorabile il castigo. Noi genovesi siamo tutti della stessa tempra, per cui s’io fossi morto o fossi stato preso prima che la mia vendetta fosse compiuta, altri genovesi sarebbero sortiti per portarla a termine.” La profondità della tradizione Lercari e questo episodio così lontano nel tempo che mostra il carattere di questo popolo e i geni “duri” dei Lercari, hanno una prova che chiunque può verificare, andando a cercare sul lato sinistro della Cattedrale di San Lorenzo. Qui è murata una scacchiera che si dice fosse appartenuta proprio a Megollo Lercari, colui che diede scacco matto a chi gli aveva recato offesa a Trebisonda. Le gesta di Megollo, fulgido campione dell’indipendenza genovese, sono ricordate nel bacile d’argento conservato a Venezia e negli affreschi all’interno di palazzo Lercari-Parodi e Lercari-Spinola.
Lui, il presidente, quella velocità di inseguire la rete dei suoi periti riesce sempre a coniugarla con l’ altra rete, quella del campo, dove continua a giocare, ogni giorno che può,“se no sto male”.
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Tennis, lezione di economia Postfazione di Letizia Radoni - Direttore Banca d’Italia - Sede della Liguria
H
cambio di residenza, di trovarmi un nuovo parrucchiere o un dentista o prima della scelta del medico di base. Talvolta capita di sbagliare mossa e poi doverla correggere ricalcolando le opportunità di gioco, la vicinanza alla abitazione o altri fattori, ma tant’è: quando arrivo in “territorio straniero” mi devo subito mettere al sicuro e mi devo dare le opportunità di conoscere il nuovo ambiente dove dovrò lavorare e soprattutto dove vivrò la mia dimensione privata e ludica. Ma c’è dell’altro. Il tennis, se vogliamo darne un inquadramento che mi è familiare in termini aziendalistici, è uno sport efficiente, efficace e sicuro: sul piano fisico e mentale il rapporto impegno/beneficio è ottimale; è una attività di elevata produttività, perché con poco tempo (calcoliamo due ore tutto compreso) il vantaggio che se ne trae è elevato. Non è uno sport rischioso, visto che il tennis elbow con un po’ di pazienza si cura, e lo strappo - sempre incombente a questa età - poi passa. Dal punto di vista manageriale è un ottimo training, da consigliare alla SDA della Bocconi: ci hanno mai pensato i professori che insegnano alla Scuola di Direzione Aziendale che giocare a tennis vuol dire elaborare strategie, saper accettare temporanee sconfitte in termini di games e sets, per costruire & conseguire l’obiettivo finale della vittoria? E quanta visione, inventiva, capacità di rapido problem solving, quanta positiva aggressività e reattività alle condizioni di difficoltà ci vogliono per vincere una partita? E poi il tennis è una attività che ha un conto economico da costruire con l’attenzione del buon amministratore, in cui i colpi persi vengono sottratti da quelli vinti per portare al conteggio dell’utile che decreta la vittoria in termini matematici. E ancora, sappiamo quanto nella vita e nel lavoro conta una comunicazione efficace: pensate al dialogo con l’avversario, rilassato ma impegnato, cui può essere accostato il palleggio di riscaldamento; o al bat-
o iniziato a giocare a tennis da quando avevo 13 anni, e cioè in “tarda età” se si ragiona con il metro di oggi, quando da bordo campo si possono ammirare bambini di 6 anni che eseguono servizi, top spin e voleè con una discreta efficacia e con un impeccabile stile. Ho iniziato dopo avere provato la scherma, che non mi era sembrata faticosa e avevo abbandonato, e quando già praticavo da qualche anno lo sci e l’equitazione; non so dire con precisione perché io allora abbia scelto il tennis nell’ampio panel di possibilità offertomi da un padre che credeva fermamente nel principio “mens sana in corpore sano”: suppongo mi piacesse la divisa rigorosamente bianca immacolata, o che mi subissi il fascino del maestro che mi chiamava “signorina Letizia” e mi dava del voi, con suggestioni anglosassoni; o magari perché ero incline a un certo individualismo ed ero un’ adolescente che amava assumersi responsabilità e fare scelte autonome, standard emotivo tipico di uno sport che si gioca da soli contro un avversario. O forse solo perché il circolo era vicino alla casa dove abitavo e questo mi consentiva libertà di movimenti e una conciliazione con i tempi dello studio. Fatto sta che da quei tempi remoti, con alti e bassi, gioco ancora e provo una passione inversamente proporzionale alle possibilità di impegno fisico e di disponibilità di tempo: direi di più, provo un acuto senso di colpa se non gioco! Dunque se devo rispondere a una domanda sul perché ancora oggi mi piace il tennis ho molte più certezze; provo a spiegarmi, magari forzando un po’ il discorso con immagini e accostamenti che spero non appaiano arbitrari. Il tennis mi ha aiutato in una vita raminga, di trasferimento in trasferimento, a ritrovare fin da subito una dimensione sociale: iscrivermi a un circolo è sempre la mia prima mossa strategica, che viene anche prima del 157
po la vittoria riportata in un match del tutto amichevole. E c’è qualche giocatore che potrebbe negare di essere confortato, fronteggiando gli anni che avanzano, dal pensiero che il tennis si gioca fino a 90 anni? Mi verrebbe da continuare, ma penso che sia sufficiente a dimostrare a me stessa perché ancora gioco a tennis. Non so a voi...
tibecco tipico di uno scambio veloce a rete; o alla provocazione di un pallonetto e alla rivalsa-sberleffo che ne deriva se l’avversario riesce a intercettarlo e punirti con uno smash. Potrei continuare a lungo citando il valore di accettare una sconfitta e la consolazione di meditare la rivincita, o la “leggerezza dell’essere” che ti scopre bambino do-
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Indice Presentazione I magnifici dieci
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1
il pioniere Nino Brocchi
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Pierino Negrotto Cambiaso Giocare con il monocolo
11 15
3
Emilio Bocciardo Bocciardo, l’industria nella città
23 27
4
Beppe Croce Il gentleman che fece Genova capitale
39 43
5
Angelo Costa La superpresidenza
55 59
6
Gian Vittorio Cauvin Quello smash al cuore
77 81
7
Gian Piero Mondini La tradizione, lo sport, l’amicizia
95 99
8
Aldo Mordiglia Il colpo segreto del guerriero
109 113
9
Giorgio Messina Il genio senza orologio
123 127
10
Rodolfo Lercari Crescere a pane e terra rossa
143 147
Tennis, lezione di economia Postfazione di Letizia Radoni
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Finito di stampare in Genova nel mese di Dicembre 2013 per i tipi della Essegraph
Franco Manzitti Genovese, laureato in Giurisprudenza all'Università di Genova, giornalista professionista, ha incominciato la carriera al “Il Giornale” di Indro Montanelli, è stato per otto anni caporedattore della cronaca de “Il Secolo XIX”, direttore de “Il Lavoro”, de “La Provincia Pavese” e di “AGL”, l'agenzia dei giornali locali del gruppo “Espresso” e caporedattore dell'edizione ligure di “Repubblica” per tredici anni. Attualmente collabora con “Il Secolo XIX”, con Blitzquotidiano ed è autore e conduttore della trasmissione tv “La Storia”. Ha scritto diverse pubblicazioni su Genova e la sua storia economica-portuale, tra le quali “Bucare il futuro”, edizioni De Ferrari sul problema del Terzo Valico.
Con la collaborazione di
Daniele Boasi per le ricerche storiche
ISBN 978-88-906975-5-5 euro 30,00 (i.i.)