Vajont, futuro spaccato

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primopiano

FUTURO SPACCATO Mezzo secolo fa le acque del Vajont spazzavano via un’intera comunità. Oggi nella vallata sottostante la diga l’industria fiorisce. Ma le ferite restano aperte FOTO: © SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO

di Fabio Dessì

C

inquant’anni fa una piccola valle stretta fra Veneto e Friuli si affacciò tragicamente sulla storia italiana: alle 22.39 del 9 ottobre 1963, 270 milioni di metri cubi di roccia franarono dal monte Toc nel bacino della diga del Vajont. L’onda in parte risalì il versante opposto distruggendo gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte scavalcò la diga lanciandosi verso la valle del Piave. Quattro minuti dopo la cittadina di Longarone fu spazzata via dall’acqua.

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La nuova ecologia / OTTOBRE 2013

‘È brutto da dire ma se il bellunese ha un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Italia si deve al disastro di allora’

per “prevenire altre ondate” poi smantellato nel ’98. La diaspora dei valligiani, le leggi speciali. Lo sciacallaggio di chi per poche lire rilevava le licenze per poi incassare da Roma miliardi di contributi a fondo perduto. La partita risarcimenti trascinatasi fino al 2000.

PERDONARE O NO

È proprio alla luce di quella notte, di come ci si arrivò e di quel che accadde dopo, che poche settimane fa hanno fatto discutere le parole del sindaco di Longarone, Roberto Pedrin – classe ‘70, in carica dal 2009 – quando ha dichiarato di “essere indotto a perdonare coloro, geologi e ingegneri, che portano la responsabilità della tragedia”. La Nuova Ecologia l’ha incontrato nel suo ufficio, nel pieno dei preparativi per le celebrazioni. «Ho dato un giudizio personale, cercando di alimentare una rif lessione generale. Resto convinto che dopo cinquant’anni il tema del perdono

FOTO: © GIUSEPPE LIAN / SINTESI

Le vittime furono 1.910, l’energia liberata dalla frana pari al doppio di quella sprigionata dalla bomba di Hiroshima. “Fu come un colpo di falce” scrive nel suo Vajont: quelli del dopo l’ertano Mauro Corona (vedi intervista a pag. 20). Un colpo di falce annunciato, tanto che nel 2008 l’Assemblea generale dell’Onu l’ha indicato come caso esemplare di “disastro evitabile”. E a lungo rimosso dagli stessi sopravvissuti. C’è voluta l’Orazione civile di Marco Paolini, trasmessa da Rai2 in diretta dalla diga nel ‘97, per far tornare a galla la tragedia. È lui che ha ricordato all’Italia quello che la giornalista dell’Unità Tina Merlin chiamò “genocidio dei poveri”. Meno conosciuta è la storia del post Vajont, che qui si può solo accennare: il processo che si è concluso con pene lievi per pochi imputati, opere completamente inutili come il “Muro della vergogna”, allestito sul Passo di Sant’Osvaldo fra Cimolais ed Erto

Roberto Pedrin è sindaco di Longarone dal 2009. In alto, i giorni successivi alla tragedia e uno scorcio della cittadina ricostruita

si possa affrontare. Le mie parole sono state apprezzate da molte persone, da altre no. Non era però mia intenzione dire “il sindaco di Longarone perdona quelli del Vajont”, non sono nessuno per poterlo fare». Il centro ricostruito ha una tipologia archittettonica molto distante da quelle tradizionali di montagna: è un centro immerso nel cemento armato, criticato dagli stessi longaronesi. Conta poco più di quattromila abitanti, e quattromila sono gli impiegati nella zona industriale nata grazie alla “legge Vajont” (357/1964), la più grande della provincia di

Belluno. «Grazie ai fondi arrivati per la ricostruzione si sono potute realizzare aree industriali anche a Paludi, Sedico e Feltre – spiega Pedrin – È brutto da dire, ma se il bellunese ha un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Italia lo deve al Vajont». La città ospita anche un polo fieristico, il quarto del Veneto. «Organizziamo dodici eventi all’anno, il più importante è la Mostra internazionale del gelato, che porta migliaia di operatori del settore». Già, perché prima di essere marchiata dal nome “Vajont” la zona era conosciuta per i suoi gelati. «E poi abbiamo 103 km quadrati di territorio con montagne stupende, molte tutelate come “patrimonio mondiale dell’umanità” dall’Unesco». Ma di turisti, fatta eccezione per quelli che passano a visitare la diga, non se ne vedono tanti. «Dobbiamo far crescere il turismo proprio attraverso il Vajont, non per sfruttare la catastrofe ma per far conoscere a più persone possibile la nostra storia».

GENERAZIONI IN FUGA

Se Longarone è stata ricostruita dov’era e nei primi anni la sua comunità è rimasta unita (crescendo molti figli dei sopravvissuti hanno lasciato il “posto” a chi lavorava nella zona industriale), altra sorte è toccata a Erto e Casso. Tanti “scelsero” di andare a vivere nella Piana di Maniago, dove ottennero un loro Comune che non potevano non chiamare Vajont. Altri in un centro chiamato Nuova Erto, un quartiere di Ponte delle Alpi, altri ancora a Belluno. E poi c’erano quelli che non vollero lasciare la loro montagna. E che caparbiamente sono riusciti a costruire la Erto attuale sopra il vecchio abitato, con una strada provinciale a dividere passato e presente. A Erto abbiamo incontrato Luciano Pezzin, classe ’61, sindaco dal 2001: «Spero che queste celebrazioni siano lo spartiacque fra un prima e un dopo. Dobbiamo programmare il nostro futuro, OTTOBRE 2013 / La nuova ecologia

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