Vajont, futuro spaccato

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FUTURO SPACCATO Mezzo secolo fa le acque del Vajont spazzavano via un’intera comunità. Oggi nella vallata sottostante la diga l’industria fiorisce. Ma le ferite restano aperte FOTO: © SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO

di Fabio Dessì

C

inquant’anni fa una piccola valle stretta fra Veneto e Friuli si affacciò tragicamente sulla storia italiana: alle 22.39 del 9 ottobre 1963, 270 milioni di metri cubi di roccia franarono dal monte Toc nel bacino della diga del Vajont. L’onda in parte risalì il versante opposto distruggendo gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte scavalcò la diga lanciandosi verso la valle del Piave. Quattro minuti dopo la cittadina di Longarone fu spazzata via dall’acqua.

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‘È brutto da dire ma se il bellunese ha un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Italia si deve al disastro di allora’

per “prevenire altre ondate” poi smantellato nel ’98. La diaspora dei valligiani, le leggi speciali. Lo sciacallaggio di chi per poche lire rilevava le licenze per poi incassare da Roma miliardi di contributi a fondo perduto. La partita risarcimenti trascinatasi fino al 2000.

PERDONARE O NO

È proprio alla luce di quella notte, di come ci si arrivò e di quel che accadde dopo, che poche settimane fa hanno fatto discutere le parole del sindaco di Longarone, Roberto Pedrin – classe ‘70, in carica dal 2009 – quando ha dichiarato di “essere indotto a perdonare coloro, geologi e ingegneri, che portano la responsabilità della tragedia”. La Nuova Ecologia l’ha incontrato nel suo ufficio, nel pieno dei preparativi per le celebrazioni. «Ho dato un giudizio personale, cercando di alimentare una rif lessione generale. Resto convinto che dopo cinquant’anni il tema del perdono

FOTO: © GIUSEPPE LIAN / SINTESI

Le vittime furono 1.910, l’energia liberata dalla frana pari al doppio di quella sprigionata dalla bomba di Hiroshima. “Fu come un colpo di falce” scrive nel suo Vajont: quelli del dopo l’ertano Mauro Corona (vedi intervista a pag. 20). Un colpo di falce annunciato, tanto che nel 2008 l’Assemblea generale dell’Onu l’ha indicato come caso esemplare di “disastro evitabile”. E a lungo rimosso dagli stessi sopravvissuti. C’è voluta l’Orazione civile di Marco Paolini, trasmessa da Rai2 in diretta dalla diga nel ‘97, per far tornare a galla la tragedia. È lui che ha ricordato all’Italia quello che la giornalista dell’Unità Tina Merlin chiamò “genocidio dei poveri”. Meno conosciuta è la storia del post Vajont, che qui si può solo accennare: il processo che si è concluso con pene lievi per pochi imputati, opere completamente inutili come il “Muro della vergogna”, allestito sul Passo di Sant’Osvaldo fra Cimolais ed Erto

Roberto Pedrin è sindaco di Longarone dal 2009. In alto, i giorni successivi alla tragedia e uno scorcio della cittadina ricostruita

si possa affrontare. Le mie parole sono state apprezzate da molte persone, da altre no. Non era però mia intenzione dire “il sindaco di Longarone perdona quelli del Vajont”, non sono nessuno per poterlo fare». Il centro ricostruito ha una tipologia archittettonica molto distante da quelle tradizionali di montagna: è un centro immerso nel cemento armato, criticato dagli stessi longaronesi. Conta poco più di quattromila abitanti, e quattromila sono gli impiegati nella zona industriale nata grazie alla “legge Vajont” (357/1964), la più grande della provincia di

Belluno. «Grazie ai fondi arrivati per la ricostruzione si sono potute realizzare aree industriali anche a Paludi, Sedico e Feltre – spiega Pedrin – È brutto da dire, ma se il bellunese ha un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Italia lo deve al Vajont». La città ospita anche un polo fieristico, il quarto del Veneto. «Organizziamo dodici eventi all’anno, il più importante è la Mostra internazionale del gelato, che porta migliaia di operatori del settore». Già, perché prima di essere marchiata dal nome “Vajont” la zona era conosciuta per i suoi gelati. «E poi abbiamo 103 km quadrati di territorio con montagne stupende, molte tutelate come “patrimonio mondiale dell’umanità” dall’Unesco». Ma di turisti, fatta eccezione per quelli che passano a visitare la diga, non se ne vedono tanti. «Dobbiamo far crescere il turismo proprio attraverso il Vajont, non per sfruttare la catastrofe ma per far conoscere a più persone possibile la nostra storia».

GENERAZIONI IN FUGA

Se Longarone è stata ricostruita dov’era e nei primi anni la sua comunità è rimasta unita (crescendo molti figli dei sopravvissuti hanno lasciato il “posto” a chi lavorava nella zona industriale), altra sorte è toccata a Erto e Casso. Tanti “scelsero” di andare a vivere nella Piana di Maniago, dove ottennero un loro Comune che non potevano non chiamare Vajont. Altri in un centro chiamato Nuova Erto, un quartiere di Ponte delle Alpi, altri ancora a Belluno. E poi c’erano quelli che non vollero lasciare la loro montagna. E che caparbiamente sono riusciti a costruire la Erto attuale sopra il vecchio abitato, con una strada provinciale a dividere passato e presente. A Erto abbiamo incontrato Luciano Pezzin, classe ’61, sindaco dal 2001: «Spero che queste celebrazioni siano lo spartiacque fra un prima e un dopo. Dobbiamo programmare il nostro futuro, OTTOBRE 2013 / La nuova ecologia

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senza avere sempre sopra di noi questa cappa di morte». Negli ultimi anni – proporzionalmente al numero di abitanti, meno di 400 – a Erto hanno aperto tante attività. Secondo la Confartigianato di Udine quello di Erto e Casso è uno dei pochi casi in controtendenza rispetto al resto del Friuli, dove le imprese artigiane diminuiscono. Un fenomeno determinato dal ritorno degli abitanti e forse dall’effetto Corona: scultore, oltre che alpinista e scrittore, e vera e propria istituzione di Erto, col suo laboratorio in via IX ottobre diventato meta di pellegrinaggi. Ma lavorazione del legno a parte, di cosa vive Erto? «Abbiamo la fortuna di essere vicini alle più grandi fabbriche di occhiali d’Italia (nella zona industriale di Longarone, nda). Altri sono impiegati in piccole aziende edili, altri ancora vanno fuori a lavorare per rientrare nel fine settimana». E il turismo? «Un’integrazione al bilancio familiare, diciamo che si vive anche di quello. Ma se non cambia la mentalità, troppo legata ai contributi, è difficile competere con zone come quella del Fornese». In questi cinquant’anni a Erto, 775 metri slm, non è mai venuto nessuno: nel 2003 Ciampi si fermò alle gallerie della diga, Napolitano provocò malumori quando nel 2012 andò a rendere omaggio alle terre friulane colpite dal terremoto del ‘76, a neanche 50 km da qui. «Mi auguro che il presidente venga (al momento di scrivere non sappiamo se il Capo dello Stato andrà a rendere omaggio alle vittime, nda). E che salga da noi, perché qui il Vajont non si può dimenticare: ce l’hai di fronte e se vai da qualche parte passi sulla frana». Davanti agli occhi degli ertani c’è anche il disastro ambientale su cui nessuno, a partire dall’Enel che ne avrebbe la responsabilità, ha mai messo mano. «Il recupero del lago non è mai partito, qualche anno fa per un’interrogazione parlamentare dell’Idv qualcosa sembrò muover16

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‘Ognuno ha fatto i conti con se stesso, non biasimo chi ha scelto di andare a vivere altrove per assicurare un futuro ai propri figli’ si, ma restò tutto lettera morta». Chiediamo infine a Pezzin che pensa di chi ha lasciato Erto. «Ognuno ha fatto i conti con se stesso per assicurare un futuro migliore ai propri figli. Non biasimo chi ha scelto di andare a vivere più vicino ai servizi e alle zone industriali». Per molti si è trattato invece di un tradimento. Ma nessuno cancella la scritta su una casa di Erto vecchia: “Vai che ritorni ertano, torna al tuo paesello ch’è tanto bello”. Sopra, uno scorcio di Erto vecchia. Nelle foto piccole, dall’alto: il sindaco di Vajont, Felice Manarin, e quello di Erto e Casso, Luciano Pezzin

GIORNO PER GIORNO

Raggiungere Vajont da Longarone (52 km la distanza), senza macchina, richiede mezza giornata. Bisogna prendere un pullman la mattina presto, aspettare un paio d’ore la coincidenza a Cimolais, raggiungere Maniago e da lì attendere un altro bus o farsi 3 km a piedi. Nel nostro caso è stato il sindaco – Felice Manarin, classe ‘69 – a venirci a prendere. È a bordo della sua auto che entriamo nel comune più piccolo d’Italia – appena 2 km quadrati per 1.714

abitanti – nato dal nulla per dare una casa agli abitanti di Erto e Casso. L’area scelta per la new town, come verrebbe chiamata oggi, fu quella di Ponte Giulio. La disposizione delle vie ricorda gli accampamenti romani, a forma di rombo coi lati paralleli alla fascia montana e alla Valcellina. Vajont formalmente nacque il 12 luglio 1971, tre mesi prima a Cimolais il Consiglio comunale (riunito nel prato perché la sede provvisoria era occupata da chi voleva l’insediamento a Erto) decise la scissione dal Comune di Erto e Casso. «Per me il cinquantesimo dovrebbe essere uguale agli altri anniversari – dice Manarin – E vorrei che il prossimo anno ci fosse ancora più attenzione sulla nostra storia, ma so di scontrarmi contro un sentire comune». Alla domanda come la sua comunità vive il 9 ottobre risponde che bisognerebbe parlare di un prima e dopo Marco Paolini. «È come se prima ci vergognassimo di essere vittime. Siamo stati massacrati, ma ci dicevano: “Avete preso i

sghèi”... Come a dire, “state zitti, accontentatevi”. Meno se ne parlava meglio era. Paolini ci ha “sdoganato”, e per farlo ha dovuto superare la nostra stessa diffidenza. Quand’è venuto a Vajont non sono andato a vederlo. Perché, pensavo, dovevo farmi spiegare quello che era successo da un attore? Dobbiamo invece ringraziare la lungimiranza di Virgilio Barzan (classe ’50, già sindaco di Erto e Casso e di Vajont, di cui oggi è vicesindaco, nda). È anche grazie a lui se Rai2 ha trasmesso l’orazione civile di Paolini. Più di 9 milioni di italiani l’hanno visto. Ed è cambiato tutto». Virgilio Barzan, «memoria storica del Vajont» come si definisce, assiste all’intervista e alla domanda “che risponde a chi sostiene che Vajont è un paese senz’anima?” non si trattiene. «Dove la trovi l’anima di Roma? Ai Fori, al Colosseo, a San Pietro. Ma se vai in un nuovo quartiere? La storia va costruita giorno per giorno. Come Comune di Vajont siamo orgogliosi di aver partecipato alla realizzazione del film di Renzo Martinelli (La diga del disonore, 2001, nda), che riteniamo eccezionale memoria storica. Gli altri sindacucoli di paese ci consideravano come quelli che dovevano farsi l’immagine, ma a noi era la storia di Vajont che interessava. Poi i benefici del film sono andati in valle, e noi non abbiamo ricevuto neanche un grazie». Manarin dice che immaginava un’intervista più rilassata, Barzan insiste nel voler dire quello che pensa. E non si può non pensare che i 17 anni di differenza fra i due pesino, che uno aveva 13 anni quando il Toc è venuto giù e ne ricorda il rumore, mentre l’altro non era neanche nato. Che la rabbia potrà passare con le generazioni, ma la memoria sarà difesa con le unghie. n

ACQUE DI MEZZO Lo spazio per i grandi impianti idroelettrici è finito, ora si cerca di sfruttare i torrenti più piccoli. Spingendosi anche in luoghi inaccessibili e integri di Elisa Cozzarini

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cque cristalline e abbondanti, che scorrono incuneate in una forra profonda. Questo è il Grisol, uno degli ultimi torrenti ancora liberi da derivazioni idroelettriche nelle Dolomiti bellunesi. Ma qui, come per altri piccoli corsi d’acqua di montagna, la minaccia è la costruzione di minicentrali, il cui impatto ambientale può risultare devastante. Ci troviamo a pochi km dalla diga del Vajont, a cinquant’anni dalla tragedia. Un triste anniversario che offre lo spunto per indagare su cos’è cambiato in questi anni nella produzione di energia idroelettrica in Italia. Finito lo spazio per i grandi impianti, il tentativo è sfruttare i più piccoli salti d’acqua, spingendosi anche in luoghi inaccessibili e integri. Oggi le centrali fino a 1 MW sono il 75% degli impianti idroelettrici nelle Alpi, ma contribuiscono per meno del 5% della produzione. La convenienza è data dagli incentivi per le rinnovabili. «Va superata la logica del “piccolo è bello”, perché un intervento di dimensioni ridotte può rivelarsi più dannoso di un grande impianto ben gestito», sottolinea Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf). Ma se si moltiplicano le richieste di nuove derivazioni idroelettriche ad alta quota, allo stesso tempo nascono movimenti e comitati per la salvaguardia della montagna e dei suoi torrenti. Meno di un anno fa, per esempio, il comitato “Acqua bene

comune” di Belluno ha incassato una storica vittoria in Cassazione contro la ditta Eva Valsabbia di Chicco Testa, che aveva ottenuto l’autorizzazione per una centrale sul Mis, nel Parco delle Dolomiti bellunesi. L’opera è stata dichiarata illegittima, ma restano altre 130 domande per 70 impianti nel solo bellunese. Ecco perché il comitato ha presentato una denuncia all’Ue per quelle che ritiene continue violazioni della direttiva Acque. Non va meglio sull’altro versante dell’arco alpino. Quest’anno la Val d’Aosta ha guadagnato la bandiera nera della Carovana delle Alpi di Legambiente per il progetto di una minicentrale ai

Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale

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piedi del ghiacciaio del Monte Rosa, nell’incontaminata alpe di Cortlys. In provincia di Sondrio, invece, una situazione di sfruttamento estremo ha portato a una grande mobilitazione e alla costituzione dell’Intergruppo acque provincia di Sondrio (Iaps), con assemblee di cittadini nelle valli, la raccolta di 45.000 firme, l’adesione di tutti i Comuni e il coinvolgimento delle istituzioni: ministero, Regione e Provincia. Un percorso innovativo che è riuscito a bloccare una cinquantina di domande di nuovi impianti, portando allo sfruttamento degli acquedotti comunali per la produzione di energia. «La scommessa è riuscire a conciliare l’obiettivo fissato dalla direttiva Acque, cioè il raggiungimento del “buono stato” per i fiumi entro il 2015, con la crescita delle rinnovabili, fra cui l’idroelettrico», afferma Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente. Oggi le energie pulite coprono il 28% del fabbisogno elettrico nazionale. La metà proviene da impianti idroelettrici, con un notevole risparmio di emissioni di CO2 e garantendo un’alternativa a carbone e petrolio. Sono più di

Lo scorso febbraio in soli 20 giorni, un terzo del tempo previsto, Edipower ha rilasciato 56.000 metri cubi di fango nel torrente Lumiei e nel Tagliamento, devastando l’ecosistema

1.300 i comuni italiani in cui funziona almeno un impianto alimentato da questa fonte. «Ma questo non deve portare alla distruzione degli ecosistemi. Servono regole chiare: le Regioni devono stabilire delle linee guida, indicando dov’è possibile costruire nuove centrali e dove no, e come gestire i grandi impianti». Secondo il rapporto Comuni rinnovabili 2013 di Legambiente, la potenza totale installata dei piccoli impianti, quelli fino a 3 MW, è di 1.179 MW, una quantità in grado di coprire il fabbisogno di 1,8 milioni di famiglie. Esistono buone pratiche, che permettono di immaginare uno sviluppo rispettoso dell’ambiente. Canali, acquedotti e vecchi mulini possono esse-

re utilizzati per produrre energia (vedi box in fondo alla pagina). «Bisogna fare attenzione però, perché nuove centrali in un sistema artificiale potrebbero rendere più difficile la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua – sostiene Goltara del Cirf – In altri paesi c’è una forte spinta a rimuovere gli ostacoli che impediscono il fluire delle acque. Se andiamo verso lo sfruttamento di canalizzazioni e salti artificiali, il rischio è che ci sia la scusa per congelare la struttura dei reticoli irrigui. E l’utilizzo degli acquedotti a fini idroelettrici non deve essere il pretesto per aumentare le derivazioni». Insomma, è cruciale che per ogni intervento su un corpo idrico ci sia una valutazione sul suo stato di salute. In base alla direttiva Acque, questo non deve peggiorare. «Quanto agli incentivi – precisa Edoardo Zanchini, che per Legambiente si occupa di energia – il nostro invito è copiare il modello tedesco, che premia la qualità degli interventi e ha elaborato sistemi di certificazione dell’impatto ambientale». Ma per mantenere gli attuali livelli di produzione idroelettrica è necessario guardare soprattutto ai grandi impianti, che sono il

CORRENTI VIRTUOSE

Dall’allevamento di trote agli impianti per singole utenze. Cinque buone pratiche di sfruttamento dell’energia dai fiumi n Grazie alla ricerca applicata oggi è possibile utilizzare anche piccoli salti d’acqua naturali di 1,5-2 metri per produrre energia elettrica in maniera più sostenibile. Un esempio è l’impianto da 160 kW installato a Cerano (No), che produce oltre 1 GWh/a di energia elettrica, sfruttando un salto di soli 2 metri, grazie a un’inno vativa turbina che ha ridotto i costi di gestione e migliorato l’operatività.

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n Innovativi anche i mini e micro impianti idroelettrici connessi a opere idrauliche già esistenti, come quello da 60 kW, realizzato a Ferentillo (Tr) su una presa d’acqua che alimenta un allevamento di trote. Produce circa 300 Mwh/a, che immessi in rete soddisfano il fabbisogno di 120 famiglie. n Sempre più diffusi i micro e i pico impianti (≤ 5 kW), al servizio di singole utenze in alta monta-

gna. Come il rifugio Perrucca Vuillermoz, a Valtournenche (Ao), dove un pico impianto off grid da 5 kW sfrutta un salto naturale di 75 metri per produrre l’energia elettrica necessaria al funzionamento della struttura.

n In Valbisenzio il progetto Fabbriche di energia, che coinvolge aziende ed enti pubblici locali, prevede l’installazione di 24 micro turbine per sfruttare i “gradini” del fiume Bisenzio. Le imprese aderenti risparmieranno circa 200.000 euro l’anno e l’investimento sarà ammortizzato in un quinquennio. A questi impianti si aggiungeranno pannelli fotovoltaici sulle coperture dell’80% dei capannoni industriali e un impianto a biomassa alimentato dagli scarti dei boschi circostanti.

10% del totale ma producono il 90% dell’energia da questa fonte. Fino agli anni ‘60 l’idroelettrico soddisfaceva l’80% del fabbisogno nazionale di energia. Oggi l’età media degli impianti oltre i 10 MW è di 65 anni, e solo 11 sono infatti nati dopo il 1960. Ecco perché servono interventi di manutenzione e ammodernamento. «C’è molto da fare, sia per migliorarne l’efficienza che per renderli compatibili col raggiungimento del buono stato ecologico dei corsi d’acqua – sottolinea Zampetti – Vanno fatti i passaggi per i pesci, c’è bisogno di interventi per favorire il trasporto solido e si devono rivedere le norme sul deflusso minimo vitale, la quantità d’acqua rilasciata in alveo per mantenere la funzionalità del fiume». Sono essenziali interventi di svuotamento dei bacini dai sedimenti accumulati, sapendo che queste operazioni possono avere un fortissimo impatto. Il caso più eclatante è stato quello di Sauris, in Friuli: a febbraio 2013, in soli 20 giorni, un terzo del tempo previsto, Edipower, l’ente gestore della diga, ha rilasciato 56.000 metri cubi di fango nel torrente Lumiei e nel Tagliamento, distruggendo

n Per gli impianti superiori ai 3 MW sono molte le opere che possono renderli più efficienti del 20-30%. Nella centrale da 6,6 MW di Forno d’Allione, a Berzo Demo (Bs), costruita nel ‘20, una riqualificazione strutturale e tecnologica, con l’installazione di nuovi organi di manovra e messa in sicurezza, ha reso possibile l’attuale produzione di oltre 24.000 Mwh/a. Mentre a Sparone (To) la centrale da 2.000 kW, costruita nel ‘23, a parità di potenza installata produrrà a regime più di 6 milioni di kW/a. (a cura di Adriana Spera)

«La soluzione? Le centrali a pompaggio» Accumulo e piccole centrali. L’opinione di Gianni Silvestrini, direttore di “Qualenergia”

S

vizzera, Austria e Germania puntano sulle centrali idroelettriche a pompaggio per farne la “batteria verde” dell’Europa. È una strada che anche l’Italia dovrebbe seguire, sfruttando al meglio i suoi impianti per stoccare l’energia intermittente prodotta da fonti rinnovabili. Parola di Gianni Silvestrini, ingegnere, da trent’anni impegnato sul tema energetico, direttore scientifico del Kyoto Club e della rivista QualEnergia. Quali saranno gli sviluppi per la prima fonte rinnovabile nel nostro paese? Gli impianti idroelettrici producono, a seconda della piovosità, tra i 40 e 50 miliardi di kw/h ogni anno, circa la metà dell’energia verde e il 15% del totale. Con la crescita del fotovoltaico, dell’eolico e delle biomasse, il peso dell’idroelettrico sta tuttavia diminuendo. Anche le grandi dighe sono destinate a essere meno produttive: per il progressivo insabbiamento degli invasi e perché le norme sul deflusso minimo vitale stabiliscono che una quantità maggiore d’acqua debba essere rilasciata negli alvei dei fiumi. Le potenzialità per l’idroelettrico stanno soprattutto nei sistemi di accumulo e pompaggio. La capacità di stoccare energia dell’idroelettrico può risolvere il problema dell’intermittenza che caratterizza fonti come l’eolico o il fotovoltaico? Esatto. Le centrali a pompaggio sono costituite da due bacini idrici, uno a monte, l’altro a valle. Durante i picchi di domanda, l’acqua viene fatta scendere all’invaso inferiore, passando attraverso le turbine e producendo energia; quando la richiesta è minore, invece, viene pompata nell’invaso a monte. Ciò può essere fatto grazie all’energia in eccesso, per esempio quella prodotta di notte dalle turbine eoliche, che in questo modo non si disperde e si sfrutta nei momenti di necessità. In Italia è una potenzialità ancora sottoutilizzata per motivi geografici, visto che la gran parte degli impianti di pompaggio si trova al Nord

e le rinnovabili si sono sviluppate più al Sud. Ma si potrebbero anche usare i bacini agricoli del Meridione, inoltre le ragioni della mancata connessione fra sistemi di pompaggio e rinnovabili sono anche aziendali: a Enel non conviene adottare questo sistema, che invece porterebbe vantaggi al paese. L’altro fronte di sviluppo è il mini idroelettrico, che cosa ne pensa? Le tecnologie attuali permettono di sfruttare salti anche molto bassi, così il

Grazie agli incentivi si aprono possibili collaborazioni fra pubblico e privato per la manutenzione dei fiumi piccolo idroelettrico può rappresentare una possibilità di riutilizzo di molte opere già esistenti, su canali di irrigazione, vecchi acquedotti e così via. Gli incentivi lo rendono un campo di notevole interesse e si aprono possibilità di collaborazione fra pubblico e privato per la manutenzione dei fiumi. Faccio l’esempio del Gruppo Loccioni, che con la Provincia di Ancona e la Regione Marche ha avviato un progetto per riqualificare due chilometri dell’Esino, permettendone la fruizione da parte della popolazione, in cambio della possibilità di realizzare due impianti idroelettrici che contribuiscono a rendere l’azienda, con sede nelle vicinanze del fiume, autosufficiente dal punto di vista energetico. (Elisa Cozzarini)

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Parole di pietra

Dal nuovo romanzo che evoca il Vajont alla Val di

FOTO: © ANTONIO DI DOMENICO / SINTESI

È

Certificato in turbina

Produzione di energia e sostenibiltà. Gli obiettivi del progetto Ch2oise

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’idroelettrico può essere 100% sostenibile? Gli ideatori del Progetto Ch2oice ne sono convinti e per questo hanno ideato una certificazione che va oltre i criteri previsti dalla direttiva quadro sulle acque e fa sì che gli impianti operino con standard elevatissimi di qualità ambientale. Frutto di anni di lavoro congiunto fra associazioni ambientaliste, produttori ed esperti di ecologia dei fiumi, il marchio Ch2oice (“Certification for HydrO: Improving Clean Energy) garantisce che l’energia prodotta sia pienamente compatibile con l’ecosistema del fiume. Il progetto, finanziato dal programma Ue “Intelligent energy Europe”, è gestito dal centro di ricerche Ambiente Italia in collaborazione con la fondazione Reef onlus, che già gestisce il marchio di

ogni forma di vita (vedi Nuova Ecologia di aprile 2013, ndr). «È infine urgente ridurre gli effetti dell’hydropeaking», conclude Zampetti. Sono le centrali a pompaggio (costituite da due bacini, uno superiore e l’altro inferiore) ad essere caratterizzate da questa pratica, devastante per l’ecosistema fluviale. In un breve intervallo ci sono grandi variazioni della portata, picchi diurni e minimi notturni, per soddisfare la mag20

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garanzia “100% energia verde”. «Gli operatori non trovano interesse in un percorso di certificazione – spiega il coordinatore del progetto Giulio Conte, di Ambiente Italia – Vedono soltanto l’aspetto dei costi e non i benefici, perché non c’è ancora coscienza dell’impatto di questi impianti». I piani di gestione dei bacini infatti sono spesso scatole vuote e non rilevano «quello che è sotto gli occhi di tutti, cioè che i prelievi contribuiscono a peggiorare la qualità delle acque». Soltanto sotto la minaccia di revoca della concessione, o del mancato rinnovo in favore di un operatore certificato, si potrà ottenere un idroelettrico sostenibile. «Lo strumento c’è – conclude Conte – Ora bisogna che Regioni e altre autorità competenti ne comprendano l’importanza». (Giorgio Ventricelli)

giore richiesta di elettricità del giorno. È come se ci fossero piene continue, seguite da un flusso minimo d’acqua, con uno stravolgimento della vita nel fiume. E si apre un’altra questione delicata, perché gli impianti a pompaggio, grazie alla capacità di stoccaggio dell’energia, sono un’opportunità per le rinnovabili. La sfida, ancora una volta, è trovare un equilibrio fra sviluppo delle fonti alternative e tutela dei fiumi. n

uno degli scrittori italiani che vendono di più. Ma è anche un alpinista che ha aperto più di trecento vie di roccia sulle Dolomiti e uno scultore di fama. «Il mestiere è lo stesso: togliere. Scrivi 1.000 pagine e devi ridurle a 700, fai una scultura e devi togliere materiale, scali e devi sottrarre movimenti per non stancarti e cadere». Abbiamo incontrato Mauro Corona nella sua Erto, paese di neanche 400 abitanti collegato a Longarone col bus e all’Italia dal Vajont. Della tragedia, come ci aveva avvisato via sms, non vuole parlare: “Per quello ci sono già i professionisti: professione superstiti”. Ma il Vajont, e forse è inevitabile, torna spesso. A breve uscirà il suo nuovo romanzo, “La leggenda degli uomini freddi”. Di che parla? Sono alle battute finali, il titolo è ancora provvisorio. Racconto di un paese dove nevicava sempre, anche d’estate. Ma chi lo abitava aveva trasformato la sfortuna in gioia, adattandosi a questo posto infame. Ingegnandosi per salvare la frutta e la verdura dalle nevicate improvvise, che rappresentano la sorte, il colpo basso. Loro invece di starsene a piangere e chiedere lo stato di calamità circumnavigavano le difficoltà e le risolvevano. Coltivavano il torrente come un campo liquido: era la forza motrice, dava da bere a uomini e animali. A un certo punto però sparisce. Partono allora in cinquanta a vedere “dove l’hanno tagliato come un ramo”. Camminano per giorni finché non trovano un muro e dietro il muro l’acqua che cresce. Chiedono spiegazioni ma il boss – uno che anni prima era scappato dal loro paese, stufo di quella vita – li caccia via: “Fuori di qua, pezzenti. L’acqua è mia, ci faccio quello che voglio”. Provano a ribattere che a loro serve. “L’acqua è di tutti” dicono. “No, è di chi la compra”. Finisce che vengono spazzati via da questa montagna che cade… In pratica è il Vajont, ma non c’è né un nome né un cognome. Il romanzo è comunque imperniato tutto sul lavoro: è un inno alla resistenza sulla terra, coltivandola. Ci crede davvero quando dice che bisogna tornare alla terra? È una necessità, altrimenti restiamo di fronte al baratro. Che cosa serve a un uomo

Susa. A colloquio con l’ertano Mauro Corona per restare in piedi? Cibo. E allora intanto investiamo le nostre forze per produrlo. Nel momento di bisogno serve tornare alla terra. Negli ultimi cinquant’anni non siamo stati attenti, neanche abbiamo pensato che si potesse finire in una situazione simile. C’è stata una corsa forsennata all’arricchimento e ci andava bene: chi faceva i coltelli di Maniago o gli occhiali del Cadore te li faceva pagare un prezzo esorbitante. Poi sono arrivati i cinesi, che gli stessi occhiali li vendono a 10 euro invece che a 100 ed è stato il patatrac. Una cosa deve avere il prezzo giusto, ma hanno voluto arricchirsi… La salvezza del pianeta e degli uomini è diventare tutti imprenditori di terra, tornare a produrci il cibo. Ho detto queste cose in un incontro in cui era invitato anche Zanonato (il ministro dello Sviluppo economico, nda), che s’è messo a fare dell’ironia. “Saremo tutti boscaioli”, mi ha detto. “No, lei creperà di fame perché con le mani non sa neanche masturbarsi”. Insegniamo ai nostri figli la manualità, a fare il fuoco, a coltivare la terra. Che cosa intende quando scrive “proteggere la natura è una missione nobile, anche se oggi si fa con retorica e falsità”? Che si protegge la natura soprattutto in funzione politica. Verdi, gialli o turchini, che con questo pretesto creano un partito. Proteggere la natura, ripeto, è una missione nobile, ma bisogna farlo in maniera intelligente. Non proteggerla al punto che sono un criminale se calpesto l’erba. Qui (nel Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, nda) neanche fanno passare le greggi. La natura deve essere al servizio dell’uomo, che preleva da essa quanto serve a vivere dignitosamente. L’uomo che piantava alberi di Jean Giono non ha formato un partito, s’è messo a piantare alberi dove non c’erano e ha creato un bosco. Bisogna darsi da fare, non blaterare e borbottare. Le leggi devono farle quelli che sanno che cosa serve. E dove sei nato non proteggi il costone o l’albero, proteggi la memoria. Quelli della Val di Susa hanno ragione perché lì scombinano il loro mondo. L’uomo avrà diritto a vivere in pace? No, perché arrivano questi che parlano di democrazia: i vari Lupi, Cicchitto... Siamo in una democratura, come dice il mio amico Predrag Matvejevic:

FOTO: © MAURIZIO MAULE

FUTURO SPACCATO

‘La vera necessità sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all’altra. Per questo si battono i No Tav. E vinceranno’ un misto di democrazia e dittatura. A me serve quel posto lì, punto. Se noi del Vajont avessimo fatto come i No Tav forse quelle duemila persone sarebbero morte di vecchiaia. Invece li hanno uccisi. Anche lei come Erri De Luca si schiera con i No Tav? Certo, hanno ragione loro. Quando gli altri hanno le armi del potere ci si deve difendere con le armi, qui con le armi del potere hanno fatto duemila morti. L’arma micidiale è quando decidono di venire a casa tua e spazzartela via. Ma siccome hanno fatto la legge se ti opponi sei un fuorilegge. Scriva pure, mi beccherò una denuncia come Erri De Luca, che qui a Erto ha una casa. Prima di fare l’Alta velocità pensassero a chi vive in montagna. Qui non ci sono servizi, non c’è nulla. Noi per ogni cosa dobbiamo andare a Longarone, Claut, Maniago. Adesso chiudono la Posta per tre giorni a settimana, per non parlare delle scuole... La vera necessità sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all’altra.

È questo il vero senso dei No Tav, è per questo che si battono. E vinceranno. Che futuro immagina per la sua Erto? Immaginavo un futuro di turismo intelligente, di “sfruttare” la nostra tragica fama. Ma se lei oggi guarda la diga cosa vede? Che abbiamo 100.000 visite l’anno, se non di più, e ci sono ancora due latrine di plastica. L’ufficio informazioni è in una baracca di legno sbilenca. Erto, la vecchia Erto sta crollando: perché lo Stato non se lo prende questo paese? Ci sono i parenti, i fratelli con le case in comunione che non si mettono d’accordo, intanto il paese crolla. Facciamo una legge. Cari signori, io Stato lo metto a posto dalla prima all’ultima casa, tutt’e quattro le vie, a spese mie, e faccio un’università: geologia, scienze forestali, scienze naturali, botanica. Affittiamo agli studenti e in cinquant’anni, forse meno, lo Stato recupera l’investimento. Ci sarebbe poi l’indotto: osterie, pizzerie, negozi. Quando lo Stato avrà recuperato l’investimento, le case ritorneranno ai padroni. Questo è un progetto per la memoria del Vajont. Ma sa perché non lo fanno? Perché tutto finisce in quella merda di politica, quando ho detto queste cose a un politico friulano, fortunatamente decaduto, mi ha detto: “Ma che pretendi Corona, io i voti di tutta la Valcellina li prendo nel mio condominio”. (Fabio Dessì)

OTTOBRE 2013 / La nuova ecologia

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