La memoria delle cose

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LA MEMORIA DELLE COSE Progetto di Letizia Iannaccone



LA MEMORIA DELLE COSE Progetto di Letizia Iannaccone


ISIA

URBINO

Diploma accademico di II livello in Grafica delle immagini A A 2013/14 Relatore Cecilia Giampaoli Correlatore Leonardo Romei


LA MEMORIA DELLE COSE Ricerca



1 BUGIE A FIN DI BENE “Il pensiero occidentale e specialmente la filosofia francese hanno per costante tradizione di svalutare ontologicamente l’immagine e psicologicamente la funzione d’immaginazione, <maestra d’errore e di falsità>. Si è notato, a giusto titolo, che il vasto movimento d’idee che da Socrate, attraverso agostinismo, scolastica, cartesianesimo e secolo dei lumi, sfocia nella riflessione di Brunchvicg, di Lévy-Bruhl, di Lagneau, di Alain o di Valéry, ha come conseguenza il <mettere in quarantena> tutto ciò che esso considera come vacanza della narrazione. Per Brunchvicg ogni immaginazione, anche quella Platonica, è <peccato contro lo spirito>; per Alain, più tollerante, <i miti sono idee allo stato nascente>, e l’immaginario è l’infanzia della coscienza.” 1

1 Gilbert Durand, ”Strutture antropologiche dell’immaginario”, Dedalo, Bari, 2009, p. 15

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Ma se così non fosse, o se lo fosse solo in parte? Se l’immaginazione legata fortemente alla narrazione nascondesse scottanti verità? Forse ha una funzione tutt’altro che erronea e piuttosto realista. L’esagerazione dell’immaginazione, del modo in cui sa narrarci delle storie, potrebbe servire proprio a colpire le nostre menti pigre e a farci ricordare da cosa rifuggire e cosa invece abbracciare. L’immaginazione c’impressiona ed è forse questo il termine più giusto da usare. Come per sviluppare una foto s’impressiona la pellicola, l’immaginazione colpisce duramente il nostro io per lasciare una traccia nella memoria. Ci spaventa e ci sorprende più del necessario, esagerando ed arricchendo il racconto di dettagli crudi, oscuri o squisitamente benefici. L’esagerazione colpisce l’uomo più della semplice verità. Quanti avrebbero seguito un Dio se fosse stato un semplice filosofo? Forse avrebbe avuto un minor numero di seguaci se si fosse rivelato solo un uomo migliore di noi; magari l’invidia l’avrebbe semplicemente scansato dalle scene. Non avrebbe avuto nulla di straordinario da dire perché non avremmo “visto” nulla di straordinario in lui. Così arriviamo alle immagini, perché le parole non sono sufficienti a raccontare l’inenarrabile che per definizione non può essere raccontato. Necessitiamo di un riscontro visivo per “credere” o quantomeno per far sì che il nostro catalogo personale di riconoscimento, si arricchisca tanto da poter dare un volto a concetti troppo complessi per essere visualizzati da noi soli. Se nessuno ci avesse mai mostrato un’immagine negativa come “sentiremmo” il buio, 2


la paura? Un infinito buco nero, che ora possiamo delineare in un serpente, in una mano arcigna, in uno sguardo freddo. Le immagini se pur esaltandola, limitano l’immaginazione e ci aiutano a dare un senso a ciò che sentiamo e proviamo. Ma tornando all’esagerazione, questo testo non vuol certo suggerire che siano tutte bugie. Come detto inizialmente, potrebbe essere che l’immaginazione se pur decorando a suo piacimento le storie, nasconda spesso e volentieri delle verità. Avremo quindi bisogno di interpretarle e sta a noi decidere quanto spingerci in profondità. Ogni livello di lettura è lecito e più livelli troveremo, più quella narrazione potrà abbracciare un più ampio pubblico di lettori.

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1.1 Propp e la fiaba, fabula e intreccio “Gran parte degli sviluppi moderni della narratologia, riconosce la propria origine nella pubblicazione della Morfologia della fiaba di Propp, uscita in Unione Sovietica nel 1928 e per la prima volta in Occidente, a Parigi , nel 1958. // Secondo questa prospettiva, Propp ha analizzato un vasto corpus, composto di centinaia di fiabe. Sottoponendole ad un’analisi comparativa, ciò che ha innanzitutto evidenziato è una curiosa contraddizione: da una parte, questi racconti manifestano un’incredibile varietà di personaggi, situazioni, luoghi, e, dall’altra, rivelano invece un’insospettabile ripetitività. In altre parole, nell’apparente ricchezza inventiva delle fiabe, Propp ha individuato delle costanti. Queste, di numero limitato, articolerebbero una grammatica che tutte le accomuna.”

Quanto estrapolato dal manuale di Semiotica di Patrizia Magli, introduce il concetto di “Fabula”, ossia la struttura narratologica che per Propp tende a ripetersi nella maggior parte delle fiabe. Diversamente è detto “Intreccio” la parte significante di queste, il modo di narrare le vicende e tutti gli elementi caratterizzanti che la rendono unica ed irripetibile. Lo studio Proppiano delle fiabe sottolinea quindi i momenti o le azioni che i personaggi (sempre uguali sotto diverse spoglie) compiranno affinché la narrazione abbia

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completo svolgimento. Propp distingue inoltre nel suo lavoro, 31 diverse azioni/funzioni, più un numero definito di personaggi cui si legano necessariamente delle rispettive sfere d’azione. In questo caso quindi si parla di Eroi, antagonisti, aiutanti etc.. Starà all’intreccio fornire loro nomi e caratteristiche peculiari per i quali poi saremo in grado di riconoscerli come il principe, lo stregone e la fatina buona.

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1.2 I luoghi di Greimas Di seguito alle teorie Proppiane, secondo cui la Fabula ha uno svolgimento del tutto simile alla forma di un viaggio (a partire dallo spazio familiare come incipit, fino allo spazio estraneo, in cui si svolgono le azioni), Greimas riprende questo schema approfondendolo come “localizzazione spazio-temporale”. Secondo Greimas la narrazione si svolge all’interno di tre principali luoghi che possono ramificarsi, come ripetersi.

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1_Spazio Eterotopico 2_Spazio Topico

(

2a_Paratopico 2b_Utopico

3_Spazio Eterotopico

1_ spazio familiare, luogo di partenza, luogo di nascita. 2a_ spazio esterno, luogo di acquisizione della competenza, tempo adolescenziale. 2b_ spazio esterno, luogo della performanza, età adulta. 3_ spazio familiare, luogo di ritorno, tempo della vecchiaia.

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La narrazione assume in questo modo un andamento circolare che suggerisce non solamente una forma narratologica riconducibile alla fiaba, ma anche allo svolgimento della vita stessa. La definizione di storia come “viaggio”, in questo caso assume più i connotati di un pretesto narrativo, che non un significato strettamente letterale, come invece accadeva in Propp. I personaggi, non catalogati, ma semplicemente collocabili nei momenti spazio temporali, fanno sì che un’ipotetica struttura narrativa sia più libera e meno legata ai ritmi di una fiaba classica. Ciò che accomuna il pensiero Proppiano a quello Greimassiano, è la presenza constante in entrambe le teorie di un elemento acquisibile dal protagonista del racconto, fa sì che egli divenga speciale e quindi in grado di completare il viaggio. Se per Propp questo è rappresentato da ciò che lui chiama “elemento magico” (un oggetto particolare che l’aiutante consegna all’eroe e/o l’aiutante stesso), in Greimas è rappresentato dalla competenza che il personaggio acquisisce nello spazio paratopico (la comprensione di un concetto, l’aver imparato un mestiere, la coscienza di sé). L’oggetto e/o la competenza propria del nostro protagonista lo rendono diverso dagli altri, lo caratterizzano definendolo in un certo modo collocandolo in un contesto e facendo sì, che non solo egli possa completare il suo percorso, ma anche che egli divenga “qualcuno” (Marco, Paolo, la ballerina, il cuoco etc..). L’elemento caratterizzante, dona quindi al personaggio un’identità riconoscibile, un punto di partenza per la struttura narrativa. 7


2 INTIMITA’ Spesso abbiamo la presunzione di credere di poter parlare per tutti. Forse è possibile farlo in linea generale narrando per archetipi, seguendo delle direttive precise, studiando la struttura narrativa di tutte, o quasi, le storie venute prima. Estremamente interessanti in questo caso sono il pensiero Proppiano e quello Greimassiano. Eppure, riflettendoci, possiamo davvero raccontare “la storia di tutti”, o è più giusto dire che potremmo raccontare una storia in cui molti si potrebbero riconoscere? Ci sono alcune fasi della vita che ognuno si trova, con tempi diversi e diverse modalità, a dover affrontare. E’ assodato che si debba nascere, che crescendo si affronti l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la vecchiaia e che in fine si muoia. Tutto questo, è ovvio, nel caso non ci siano particolari impedimenti durante il percorso. La semiotica narrativa studia appunto la circolarità di questi eventi e le figure che canonicamente intervengono affinché una storia abbia pieno svolgimento.

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2.1 Binomi Se si pensa a un personaggio o a un soggetto reale che possa dare uno spunto narrativo, capita spesso di riflettere anche su qualcosa, qualcun altro, un’abilità da affiancargli o che gli manchi. Questo perché urge la necessità di connotare e collocare detto soggetto, così da renderlo narratologicamente interessante. Molti tra i personaggi pubblici più noti, compresi quelli di fantasia, sono impressi nelle nostre menti in relazione a qualcosa che hanno fatto, creato o che usano portare sempre con sé, a partire da Eva e la mela, Cesare e la corona di alloro, Napoleone con la sua giubba blu, la Regina d’Inghilterra e una miriade di cappelli, per non parlare di Linus e la sua coperta, Cappuccetto Rosso che porta il nome dell’oggetto che la rende unica e del Gatto..con gli stivali. Più genericamente potremmo parlare anche del cuoco e il suo cappello, del supereroe e il suo mantello, della strega e la scopa, del cacciatore e la pelliccia, del bambino e il suo giocattolo e via dicendo. Il binomio tra il protagonista del racconto e l’elemento che lo rende unico è molto stretto, intimo. Spostando per un attimo l’attenzione dal soggetto all’oggetto che lo connota, è possibile rendersi conto quanto la presenza di quell’elemento, a volte minimo e a volte platealmente dichiarato, sia fondamentale ai fini della narrazione ed alla definizione del soggetto stesso. 9


In alcuni casi l’oggetto diviene il pretesto per il racconto, ponendosi come fine, obbiettivo da raggiungere o unico mezzo affinché il cammino del soggetto giunga a compimento. Questo meccanismo è rintracciabile in molti media narrativi, dal cinema, al romanzo, all’albo illustrato, mezzo di cui ci interessa parlare. Ci sono albi in cui gli oggetti sono posti al centro della storia. Essi hanno la capacità di condurci là dove con altri mezzi non potremmo arrivare. Il caso vuole che essi giungano fino al nostro eroe e diventino per lui l’incipit che dà inizio all’avventura. L’oggetto inanimato diventa curiosamente esso stesso un personaggio importante oltre che, ovviamente, un interessante strumento narrativo. Un esempio di questi è il gioco da tavolo di “Zathura, un’avventura spaziale” di Chris Van Allsburg, che come già accaduto per Jumanji, mette in scena un elemento che ha il potere di diventare “spaventosamente” reale. Le regole del gioco in scatola, trovato per caso in soffitta, non sono semplici metafore, ma come poi scopriranno i piccoli protagonisti di questo libro, traducono l’esito della partita in verità. L’assurdo diventa palpabile, ad ogni azione segue una conseguenza, l’oggetto si rivela magico. Come per Zathura e Jumanji, anche in “Flotsam” di David Wiesner lo spunto della storia nasce dal ritrovamento di un oggetto speciale. Il ruolo dell’oggetto ritrovato è ancora una volta quello di fare da tramite tra luoghi diversi e nel caso specifico della macchina fotografica di Flotsam anche tra proprietari diversi. Essa viaggia da una spiaggia all’altra del mondo, mostrando al suo nuovo e provvisorio 10


proprietario le meraviglie che il mare nasconde. Nel caso di Wiesner chi viene a contatto con l’oggetto è più spettatore che partecipe, la vera avventura sta in ciò che scopre dalle fotografie e dallo scambio generazionale che riesce ad avere con i precedenti ed i futuri proprietari dell’apparecchio. Nei due casi sopra citati, gli oggetti del racconto si presentano come magici, ma non appartengono davvero ai protagonisti. Essi si prestano a loro per fargli vivere un’esperienza altrimenti impossibile. In altri tipi di narrazione invece gli oggetti/soggetti appartengono al mondo del quotidiano e sono dotati di un ruolo patemico oltre che funzionale. Essi sono oggetti di memoria, che simboleggiano e rappresentano il loro proprietario e la storia che porta con sé. Forse l’esempio più famoso e lampante è proprio la figura di Cappuccetto rosso, il cui oggetto non solo dà il nome a lei ed è titolo al racconto, ma ne narra la storia. Il cappuccio rosso va a simboleggiare il profilo del personaggio - per alcune comunità dell’Inghilterra del XV sec. Dc la mantella rossa era la veste da indossare durante il giorno della prima comunione - e di chi similmente, si riconosce in quelle caratteristiche.Così avviene che gli oggetti “facciano la storia” e che basti dare un’occhiata veloce perché ci suggeriscano l’intera vicenda. Storicamente, specialmente se si parla di posizione sociale, l’oggetto definiva la persona dandole una collocazione 3 Chris Van Allsburg, “Zathura, un’avventura spaziale”, Houghton Mifflin, Boston, 2002 - “Jumanji”, Logos, Modena, 2013 4 David Wiesner, “Flotsam”, Houghton Mifflin, Boston,2006

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all’interno.. o all’esterno della società. Il costume in primis dettava le regole di tale divisione e raccolta di dati. Un tempo, certo più facilmente rispetto ai giorni odierni, era facile “leggere” la storia personale di un individuo, del suo mestiere e della sua estrazione sociale, basandosi su ciò che indossava e su ciò che possedeva. Per alcuni versi siamo fortunati a non avere più, perlomeno nel mondo occidentale, una così facile e netta lettura fra caste, eppure anche se può sembrare un controsenso, l’abbattimento di tali differenze se pur scansando il mal giudizio, stende una coltre di polvere sull’emergere della nostra identità personale e sottolinea la sempre più diffusa incapacità di raccontare di noi stessi.

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2.2 Oggetti illustrati Se alcuni oggetti, come detto, hanno la capacità o la funzione di raccontare il soggetto, si può presumere che non debbano forzatamente passare tramite altri media per raccontare la storia che hanno in serbo per noi. Essi stessi potrebbero essere il mezzo diretto tra i fruitori ed i narratori, ciò per dire che non sempre è necessario raccontare un oggetto per indurre la narrazione, a volte è sufficiente” leggere” quell’oggetto così da comprenderne la storia. Una coperta ricamata in un certo modo, ci parla della vita di nostra nonna a cui da ragazza è stato insegnato a rappresentare certe figure anziché altre. Una cassapanca intagliata può parlarci del suo autore e della coppia di sposi per cui è stata realizzata, del corredo che un tempo ha contenuto, delle origini della famiglia che la si tramanda. Lo stesso vale per le porcellane, le tovaglie, i merletti; tutti quegli oggetti che non solo simboleggiano idealmente e per forma qualcosa, ma che sono stati usati volutamente come supporto per una narrazione. Domandiamoci quindi se sia davvero un azzardo definire tali elementi “oggetti illustrati”, o se forse questa è una definizione piuttosto calzante. Ciò che si vuol prendere in esame non è semplice decorazione, ma è quel che rimane della memoria di alcune storie, che altrimenti andrebbero perdute. 13


3 ESERCIZI DI SCRITTURA Per far sì che questa ricerca ponga le basi per un progetto /prodotto, sono state sviluppate appositamente due diverse narrazioni. Punto cardine delle storie è il ruolo assunto non solo dal protagonista della vicenda, ma anche dall’oggetto cui viene a contatto. In entrambi i casi è stato scelto come “oggetto di narrazione” un prodotto tessile che potesse essere tradotto successivamente, in qualità di supporto fisico per la lettura, sotto forma di una stola. Le due narrazioni, scritte ed illustrate, sarebbero quindi fruibili sia come libro di stoffa serigrafato, che come abito. La scelta di destinare la stampa ad un supporto indossabile pone le sue basi nella volontà di innescare un molteplice scambio tra fruitore/lettore, ossia il soggetto che indossa la narrazione e coloro che vedendolo indossare la storia, ne divengono lettori a loro volta. Questo scambio di sguardi, consente un’interessante inversione di ruoli; la lettura dell’oggetto/libro, canonicamente frontale ed intima tra colui che legge ed il testo, o in alcuni casi tra colui che legge ed alcuni ascoltatori, diviene più libera ed ampia. Immaginate dunque un libro aperto passeggiare, attirerà molti sguardi. Nel migliore dei casi essi non si limiteranno ad osservare, ma leggeranno ciò che colui che indossa l’abito, ha scelto di condividere. Indossare la narrazione non vuole essere quindi sinonimo di semplice decorazione 14


dell’abito, ma supporto attivo di comunicazione. Il primo esercizio di scrittura intitolato “L’abito di A”, narra il percorso di una giovane che secondo la storia ha perduto la testa e con essa la possibilità di sviluppare la propria identità; solo alla fine del viaggio ella comprenderà che lei sola è in grado di “cucire un abito su misura” per la sua persona. La seconda narrazione invece, “Giona il cacciatore e l’orso della montagna”, si mostra più simile ad una buona novella; la storia narra infatti le vicende di un cacciatore poco amato, che pagherà le sue cattive scelte con delle aspre conseguenze. Per la realizzazione di un prototipo indossabile, di cui verranno approfondite le specifiche nella sezione di progetto, la scelta è ricaduta sul secondo soggetto narrativo.

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3.1 L’abito di A. Anna non è né vecchia, né giovane, né bambina. Anna ha due braccia. Anna ha due gambe. Anna ha una pancia, ma le manca l’ombelico e ha perso la testa a causa di un gioco di parole. Le è stato consigliato di cercarla nelle città dei fabbrica teste, dove gliene sarebbe stata assegnata una insieme a una bella veste adatta a lei. Così Anna parte alla ricerca di una testa e di una veste. Nella prima città, un vecchio le consegna una testa di gatto e un mantello di pelo. E’ pieno di gatti intorno a lui: alcuni con un piede umano, alcuni con una mano, tutti stretti attorno al proprio padrone. Anna è felice di poter vedere al buio e di essere protetta da quel mantello caldo, ma inizia a sentire uno strano prurito sulla schiena. Le sta crescendo la coda! Spaventata, grida di non essere un gatto, ma dalla sua bocca esce solo un flebile <meow..> allora butta via la testa di gatto e fugge via. Arrivata nella seconda città, tutto appare meraviglioso, le strade sono ricolme di piante rigogliose e sugli alberi è pieno di pappagalli ed altri uccelli canterini. Una signora gentile le consegna una testa d’uccello e una maglia di piume. La maglia sembra calzarle a pennello ed anche la testa, Anna canta allegra insieme agli altri finché vede che tutti si radunano in piazza. La signora gentile le spiega che 16


si stanno preparando per migrare, ma lei non può volare e in poco tempo la città si svuota e diviene silenziosa. Anna resta sola. Addolorata restituisce la testa di uccello con la maglia di piume e riprende il suo cammino. Alle porte della terza città, Anna è ormai sfiduciata e triste. Al mercato delle teste le si avvicina un bambino che vende la sua testa per pochi soldi. Anna accetta di comprarla se lui è disposto a darle anche il giacchetto di finta pelle che indossa. Calzata la testa di bambino e indossato il giacchetto Anna inizia il suo giro per la città, ma poco dopo incontra di nuovo il bambino. Un gruppo di discoli lo ha circondato e lo prende in giro perché è senza testa e non può rispondere né chiamare aiuto. Allora Anna dispiaciuta gli restituisce tutto e lui felice la ringrazia e si allontana. Quando la speranza di trovare una testa sembra svanire del tutto, Anna sente una voce chiamarla. La sua testa su uno dei banchi del mercato chiama “Anna!” a gran voce, pochi nel caos delle compravendite ci fanno caso. Anna stenta a crederci, com’è possibile che la sua testa sia arrivata fin lì? Qualcuno l’ha trovata e ha deciso di venderla? Senza ulteriore indugio Anna si avvicina al banco, afferra la testa e la calza. Di colpo ogni ricordo le riaffiora alla mente, vede la sua casa e la strada per farvi ritorno. Ancora una volta in cammino si accorge che pur avendo ritrovato la sua testa è ancora sprovvista di un abito. Decide allora di cucirlo da sé e di ricamarvi la sua storia. Comprende che con la sua testa ben calzata sul collo, nessuno sarebbe più adatto di lei per confezionare un abito che le calzi a pennello.

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3.2 Giona il cacciatore e l’orso della montagna Correva l’anno del chissà quando, il giorno in cui Giona, cacciatore dissoluto, decise che avrebbe convolato a nozze. La giovane sfortunata, oggetto delle attenzioni di Giona rifiutò più di una volta la proposta di matrimonio; nessuna ragazza del villaggio avrebbe mai voluto per marito un uomo tanto saccente e borioso. Eppure Giona tutt’altro che dissuaso dalle numerose risposte negative, decise di fare un patto con il padre della ragazza. Nel loro villaggio, chiamato Villaggio dell’Orso, si credeva che l'anima ed il favore della montagna, ai cui piedi erano state costruite le case, risiedesse in un orso tanto benevolo quanto gigantesco, che da secoli abitava una caverna tra gli alberi. Il cacciatore abituato ad ottenere sempre quello che voleva, giurò così al padre della giovane che sarebbe partito la notte stessa verso le montagne per uccidere l’orso e portare in dono la sua pelliccia il mattino seguente, in cambio della mano di sua figlia. Secondo la leggenda colui che avesse indossato la pelle dell'orso avrebbe ottenuto un enorme potere, ma mai nessuno aveva osato disturbarlo per timore di subire l'ira della montagna. Giona convinto che nulla potesse sfiorarlo decise di ignorare quest’avvertimento e stretta la mano dell’uomo, s’incamminò verso casa per prepararsi a partire. 22


Calato il buio il cacciatore è già sull’uscio, unico bagaglio, un fucile ed il suo coltello preferito. Silenzioso scivola tra le case dove pian piano ogni luce si spegne e varca il confine del villaggio per insinuarsi tra gli alberi. Il passo di Giona è felpato, nulla si ode nel verde tranne il frusciare dei rami e qualche piccolo animale in fuga nel sottobosco. Il percorso in salita è stancante e impervio, nella penombra l’unica luce è data dalla luna che segue passo passo l’avventore avvicinarsi al suo obbiettivo. Giona, ceco e sordo, vede e ascolta esclusivamente il proprio desiderio, non si accorge che col passare del tempo qualcosa intorno a lui si sta risvegliando. Il fruscio dei rami si fa più violento, la luna più accesa che mai, il terreno arido e le radici degli alberi in superficie più arricciate, quasi colleriche. Consumatedue ore di cammino, il cacciatore si ferma, esamina i tronchi intorno come a seguire delle tracce, supera alcune rocce e la vede, l’ingresso della tana dell’orso. Di fronte a lui si erge una parete rocciosa, quasi del tutto ricoperta da vegetazione, piccoli arbusti, piante rampicanti. La montagna è imponente quasi quanto il proprio ego, sente accendere in sé una forte eccitazione, ma tentenna, scruta nel buio accertandosi di essere solo, l’unico mai arrivato fin lì. L’ingresso della tana è un buco nero alto poco più di due metri e largo altrettanto, non vi si scorge null’altro che buio e a fatica se ne distinguono le pareti. La roccia è tiepida all’interno, quasi respirasse. Giona lentamente vi si addentra, è cauto, sa che deve attendere che i suoi occhi si abituino al buio per poter avere la meglio sull’orso. Nell’aria all’interno della caverna viaggia un respiro leggero,

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un respiro caldo di sonno. L’orso ignaro sta dormendo alla fine del tunnel, accoccolato contro una delle pareti di roccia, appare come un’ombra gigantesca e placida. Giona felice di averlo colto di sorpresa avanza e imbraccia il fucile. Arrivato a pochi passi da lui, l’animale apre lentamente gli occhi ancora mezzo addormentato, ma è troppo tardi. Lo sparo produce una luce improvvisa, come un faro acceso di colpo sullo sguardo incredulo dell’orso, ma si ripiomba presto nel buio, che pare più scuro ancora che in precedenza. Il rumore dello scoppio percorre tutto il tunnel fino all’uscita e si libera nella notte avvertendo il bosco dell’accaduto, l’orso è morto. Con grande abilità Giona libera il corpo dell’animale dalla sua pelliccia e ne fa un grosso pacco. Caricato di quel peso esce velocemente dalla caverna e riprende la strada in senso opposto; durante il cammino immagina tra sé il momento in cui poche ore dopo avrebbe consegnato il manto dell’orso al padre della ragazza. Vede scorrere davanti agli occhi la scena del proprio matrimonio e la gloria per aver sfatato il mito della montagna. Tantissimi fiori ad accoglierlo, il villaggio in giubilo, doni d’ogni genere ed ossequioso rispetto ovunque decida di andare. Il padre della ragazza li avrebbe sommersi d’oro e consegnato loro una grande casa, Giona non avrebbe più dovuto fare niente perché il suocero ormai potente avrebbe pensato a tutto. Poi un pensiero attraversò la sua mente: perché mai avrebbe dovuto consegnare la pelliccia? Per avere una moglie ed essere sempre secondo a suo padre? 24


No, avrebbe indossato lui stesso lo scalpo dell’orso. Ottenuto tutto il potere desiderato avrebbe avuto lo stesso la ragazza e con lei tutto ciò che voleva senza dover chiedere niente a nessuno, anzi sarebbero stati gli altri a chiedere a lui ed a supplicarlo per ottenere il suo favore. Ridacchiando soddisfatto della propria idea, Giona sfila la pelliccia dal pacco e la indossa. Mancano ancora pochi metri di cammino e sarà fuori dal bosco, sulla strada sterrata che porta al villaggio. Chissà come reagiranno gli altri quando lo vedranno entrare in paese così bardato! Pensa. Gli faranno degli inchini? Applaudiranno? Urleranno il suo nome? Poco importa, Giona sente d’aver vinto in ogni caso. Superati una manciata di alberi si trova infine sulla strada che conduce a casa, l’aria inizia a riempirsi di una luce sottile, è quasi l’alba e la notte si ritira. La strada è deserta, alla destra di Giona si estende qualche campo coltivato a frumento, una visione gradevole dopo tanto buio. Il cacciatore procede fiero, ma col passo un po’ incerto perché la pelliccia pesa ed inizia a sentire la stanchezza di una notte faticosa ed insonne. In lontananza vede un contadino armeggiare nel suo campo, è forse l’unico già in piedi di tutto il villaggio. Giona impaziente di far sfoggio dell’impresa, afferra un pezzo della pelliccia che lo ricopre e la sventola sopra la testa saltando goffamente e producendo un verso di vittoria un po’ simile a quello di un animale. Il contadino impietrito non risponde al saluto bensì resta immobile, non crede ai propri occhi. Un orso si è spinto fin fuori dal bosco? Vuole depredare i suoi campi? Vuole mangiare i suoi animali… 25


Vuole ucciderlo? Giona da lontano non immagina minimamente i pensieri dell’uomo cui va incontro, anzi è irritato dalle poche attenzioni ricevute, così non contento esegue nuovamente il rumoroso balletto. Il contadino preso dal panico afferra il fucile che porta sempre nel paniere e glielo punta contro. Per la seconda volta il bosco ode uno sparo, il rumore rimbomba nella valle facendo fuggire gli uccelli appollaiati sugli alberi più vicini, ormai è giorno. Il sangue di Giona viene assorbito dalla strada battuta, il contadino credendolo un orso non lo soccorre e anzi prima di avvicinarsi va in paese ad avvertire gli altri di quanto accaduto. Un’ora dopo tutto il villaggio circonda il corpo coperto di pelliccia, alcuni parlottano sul da farsi, poi una ragazza visto il viso dell’uomo ucciso, batte le mani per la contentezza, dando il via ad un applauso generale proprio come quello che Giona si aspettava.

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4 COSTUME, MODA E TRAVESTIMENTO Data la natura di questa ricerca è oltremodo giusto soffermarsi su un argomento, spesso giudicato effimero, quale la moda e l’arte dell’apparire. Innanzitutto è utile sottolineare le differenze correnti tra le definizioni di costume, moda e travestimento; concetti estremamente diversi che spesso vengono confusi e mescolati tra loro. “Per <costume> intendiamo qui principalmente il termine nel suo significato di <modo di vestire>, apparso nella nostra lingua già nel Cinquecento, senza dimenticare tuttavia che implicitamente questa espressione indica di solito un carattere di durabilità, ed anche di una certa uniformità: così costume popolare, costume ecclesiastico, costume aulico.”

Il termine costume nasce quindi solo in parte ai fini più strettamente pratici della necessità di vestirsi, ma anzi esso viene inteso come termine atto a distinguere precise funzioni sociali, classi e mansioni. “Invece la parola <moda>, introdotta in Italia verso la metà del Seicento, ci propone una brillante immagine di fugacità, di variabilità, di novità.” 5

5 Rosita Levi Pisetzki, “Il costume e la moda nella società italiana”, Einaudi, Torino, 1978

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La moda quindi, riservata esclusivamente alle classi sociali più alte, ci racconta di identità della durata di una stagione, sfuggenti e prossime ad un ricambio continuo. Storicamente infatti la popolazione appartenente alle classi sociali più povere non aveva la possibilità di acquistare capi d’abbigliamento su misura e quindi ripiegava sull’acquisto di vestiario di seconda mano. Diversamente i signori, che spesso si servivano di un sarto personale, si facevano confezionare abiti unici disegnati sulla loro persona. Il mestiere del sarto quale lavoratore indipendente, come anche i manuali di taglio e sartoria presero piede con molta lentezza, infatti non esistevano le taglie ed ogni vestito era da considerarsi un pezzo unico, tanto prezioso fino alla fine dell’Ottocento, da venire annoverato nei beni testamentari. Più squisitamente psicologico è l’aspetto del travestimento o mascheramento, anch’esso riservato solo a talune caste. Il travestimento consiste nel far sì che il proprio aspetto muti con abiti o altri mezzi atti a nascondere l’identità originale. Alcuni travestimenti sono diventati nel tempo dei simboli per rappresentare qualcos’altro, un esempio sono i baffi, il naso o gli occhiali finti che indicano generalmente la frode. In società il travestimento era usato per partecipare a feste in maschera private, come anche in occasione del carnevale. Un altro caso di mascheramento è quello teatrale, di scena, in cui la maschera oltre a far apparire qualcosa come qualcos’altro, assume una valenza narrativa importante.

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4.1 Ricamo e pittura su stoffa Per secoli il ricamo e la pittura su stoffa sono stati quanto di più vicino al concetto che qui si cerca di esprimere. Per quanto queste due pratiche sono da considerarsi decorative e non narrative, in alcuni sporadici casi sono state utilizzate per raccontare le vicende di alcune importanti personalità. Un esempio di questa applicazione è da ritrovarsi in alcune vesti ecclesiastiche, come anche in alcuni degli abiti appartenuti al Sultano e conservati nel palazzo Topkapi a Istanbul. Il ricamo è una pratica molto antica, abbiamo addirittura dei frammenti risalenti all’antico Egitto, se pure molte testimonianze sono andate perse a causa del logorio dato dall’uso delle vesti su cui erano applicati. Come molte pratiche di decorazione non strettamente necessarie, la maggior parte dei reperti appartengono ad una categoria sociale alta e solo poche al mondo della cultura popolare. Il ricamo, come anche la pittura su stoffa, non sono da confondere con l’arazzo, che diversamente era utilizzato come arredo e non come tessuto da indossare.

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4.2 Storie che tornano indietro Vorremmo definire “storie che tornano indietro” o storie circolari, le narrazioni da ipotizzare su un capo di vestiario. La ragione, oltre che ritrovandola negli studi sulla struttura narrativa di Greimas e Propp (ved. 1.1 e 1.2), si può spiegare facilmente analizzando un possibile elaborato. Un libro, per sua forma e struttura ci consente di seguire la storia sfogliando le pagine, una dopo l’altra, lasciando indietro e coprendo ciò che abbia già letto, o visto nel caso di un’immagine, e spingendoci in avanti verso una nuova tavola bidimensionale. Una persona può essere sfogliata? Forse si, se l’abito che indossa ha molti strati e ci è consentito di spogliarla, ma se così non fosse, una persona, certo no, non può essere sfogliata, ma è sicuro che le si possa girare intorno senza violare la sua intimità. Data quindi la forma che si va a creare, quella geometrica se mi è consentito, di un cilindro, è possibile dire che le storie che essa può accogliere tornano sempre al principio, quindi tornano indietro. Tale concetto si potrebbe confutare, portando all’attenzione un abito su cui la narrazione va a concentrarsi sulla schiena, o sul ventre, ma la storia non è fatta solo da se stessa. Parte della storia è fatta dal lettore, che probabilmente farà comunque tutto il giro per assicurarsi che non ci sia dell’altro. 32


E’ usanza infatti, quando si prova un abito nuovo, di ruotare su noi stessi davanti allo specchio o che un amico ci chieda di fare questo movimento per guardarci nella nostra completezza, per leggerci dall’inizio alla fine… e poi di nuovo dall’inizio.

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4.3 Mappe, abiti e percezione Seguendo i concetti di moda e costume (ved. 4), ci è consentito dire che la scelta di un abito nasconde spesso altri significati oltre a quello che probabilmente abbiamo freddo o che le regole sociali ci impongono di coprirci. La scelta di un abito al mattino, sottilmente, può creare la mappatura della nostra persona o della nostra giornata. Se lavori in un dato posto è possibile che indosserai una divisa, se hai un incontro di lavoro sarai abbigliato diversamente rispetto a quando sei a casa da solo, se hai una certa età, certe amicizie, se abiti in un dato luogo è molto probabile che sarai sempre vestito diversamente. Al giorno d’oggi non è più solo una questione di prezzo, la diversità è data da un numero indefinito di elementi diversi. Il concetto di mappa è quindi molto interessante perché in questo caso non esprime unicamente il trasporre grafico di un luogo su una cartina, ma ci racconta degli avvenimenti, ci dà delle informazioni sulla persona che stiamo guardando e viceversa. La struttura della “mappa” è oltremodo utile se si sceglie di utilizzarla per trasporre una narrazione in immagini. Un tentativo di questo tipo è stato apportato infatti agli esercizi di scrittura riportati in questo testo (ved. 3.1 e 3.2) in cui la narrazione illustrata, similmente ad un reportage aereo, segue da una certa distanza i suoi protagonisti. 34


Nella moda e nell’arte esistono degli esempi estremamente rilevanti di applicazioni simili, che rendono l’elaborato 6 sartoriale narrativo. Con Issey Miyake gli abiti mutano per forma in paesaggi, simulando attributi naturali come onde, montagne, dune. Diversamente nello splendido lavoro di Elisabeth Lecourt,7 delle vere cartine geografiche vengono cucite come abiti. Non a caso mettiamo a confronto il lavoro di questi due artisti. Essi infatti mettono alla prova la nostra percezione non solo narrando con uno strumento poco canonico, ma anche simulando materiali che in realtà non vengono utilizzati. Proprio perché la caratteristica della narrazione è generalmente riservata all’oggetto libro, Miyake utilizza la tecnica dell’origami con la stoffa e la Lecourt crea capi di sartoria con la carta.

6 Issey Miyake, fashion designer, www.isseymiyake.com 7 Elisabeth Lecourt, visual artist, www.elisabethlecourt.com

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5 EDITORIA DI STOFFA Ora facciamo un passo indietro e torniamo al mondo dell’editoria. Abbiamo parlato precedentemente (ved. 2.1) del rapporto che s’instaura tra taluni oggetti e la storia, di come essi entrano in contatto e si compenetrino. Ma se l’oggetto stesso fosse proprio il libro e se questo libro lo volessimo di stoffa? C’è molto da dire sul legame tra stoffa e carta, se pure sembrino due materiali a se stanti ed esistano svariate qualità sia dell’uno che dell’altro, ci sono casi in cui questi due supporti s’incontrano. Come c’insegnano ingenuamente da bambini la carta proviene dalla corteccia degli alberi, ma non solo, perché moltissime carte pregiate sono, per fare un esempio banale, costituite da fibra di cotone, lo stesso delle vostre t-shirt. La lavorazione a monte è giustamente diversificata a seconda del risultato che si vuole ottenere, ma non è banale l’accostamento dei due materiali considerando che nel corso della storia, per i libri più importanti, è sempre stata impiegata una percentuale di materiale che oggi ricondurremmo facilmente al termine “tessuto”. Discostandoci dal discorso delle fibre, di origine vegetale, si può parlare anche di filati di origine animale come la lana. Ugualmente in editoria per secoli, l’uso della pelle l’ha fatta da padrone. La pelle (anche umana purtroppo) 36


è stata usata e viene tuttora impiegata nella manifattura delle sovraccoperte dei libri. In alcune culture viene utilizzata anche la lana, come la seta, la canapa, il lino e via dicendo. Stoffa e carta sono dunque due mondi affini ed anche per questo possiamo asserire che nonostante la loro diversità, sono in grado di portare un bagaglio culturale e narratologico simile. Rispetto alla stampa il discorso cambia, eppure non si discosta di molto. Anche in questo caso col progredire delle tecnologie, essa è passata dall’essere “scrittura a mano” degli amanuensi per i libri, equiparabile alla pittura su stoffa o al ricamo, all’essere stampa digitale e serigrafia in alcuni casi, per imprimere testi e immagini su entrambi i supporti. La serigrafia in particolare è lo strumento designato alla stampa del prototipo cui fa monte questa ricerca. Tale tecnica di stampa a metà tra il digitale (utile alla realizzazione di una prematrice) e una tecnica di stampa d’arte, è oggi molto diffusa sia nel mondo industriale che in quello artigianale e consente di stampare su una varietà di materiali molto ampia, dai vinili, al metallo, alla plastica, la stoffa e ovviamente la carta. Anche il concetto di “foglio” è da considerare, vista la natura fisica simile tra una certa misura di carta e una certa misura di stoffa. La stoffa, come una bobina di carta, è conservata in rotoli e similmente ad essa, viene venduta e distribuita misurandone peso, lunghezza, ampiezza e composizione.

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5.1 Il morbido è solo per i bambini? Facendo una piccola ricerca, viene da chiedersi se il morbido sia solo per bambini. Esistono sul mercato molti libri di stoffa, destinati generalmente ad una fascia di età che va da 0 a 3 anni. I libri così detti “morbidi” o “tattili”, realizzati in alcuni casi anche in plastica, appartengono a una fascia di mercato che si occupa prevalentemente della prima infanzia. Questo accade per alcune ragioni; una fra queste è che materiali inusuali, o quantomeno considerati tali rispetto alla carta, servano ad usare un linguaggio che non sia esclusivamente verbale o visivo, ma che coinvolga anche altri sensi, quelli che il bambino appunto usa maggiormente quando è molto piccolo. Una seconda ragione riguarda la resistenza dell’oggetto, che in quanto morbido non può strapparsi o rompersi come succederebbe ad un libro di carta. In ultimo c’è da considerare il prezzo del prodotto, piuttosto alto se paragonato alla stampa di un libro canonico. Tristemente quest’ultima nota è forse quella che fa pendere di più l’ago della bilancia, privando gli adulti del piacere di sfogliare un albo di tessuto. Tra i libri morbidi di maggior nota, che usano la stoffa non solo in modo sostitutivo alla carta, ci sono i libri tattili per non vedenti, che da qualche tempo a questa parte non utilizzano solo il braille, ma anche diversi 38


elementi di tessuto. Un esempio è Le petit chaperon rouge,8 un riadattamento della celebre fiaba dei fratelli Grimm. Discostandoci leggermente dal concetto di libro, ma avvicinandoci di più alla ricerca sulla narrazione indossabile, è giusto ricordare il bellissimo lavoro di Munari ed il suo Libroletto. Il Libroletto non ha la forma di un libro, bensì è riconducibile ad una grande coperta su cui ci si può sdraiare. Il testo è riportato sul bordo del tessuto ripiegato su se stesso, man mano che il Libroletto viene dispiegato si scoprono parti di stoffa fino ad avere la totalità della coperta/libro aperta e l’intera storia stesa intorno a noi.

8 W.Lavater, “Le Petit Chaperon Rouge”, Maeght, Paris, 2009 9 Bruno Munari, “Libroletto”, Danese, Milano, 1972

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5.2 Vestire l’illustrazione La tendenza a realizzare capi d’abbigliamento avvalendosi della collaborazione di grafici e illustratori sta prendendo piede sempre di più. In Italia come spesso accade, con lentezza, ma con grande successo in Finlandia con 10 il mastodontico marchio Marimekko e nel resto d’Europa con l’apertura di tante piccole realtà più o meno autoprodotte. L’illustrazione o l’immagine in generale non viene utilizzata solo per realizzare tessuti per capi di vestiario, ma l’uso di questa viene spesso declinato ad una serie di oggetti, alcuni tessili ed altri d’arredo, creando una grande varietà di coordinati. Quest’uso dell’immagine fa si che l’illustrazione venga trasposta su tantissimi oggetti di uso quotidiano. Tale fenomeno è interessante considerato che tale attenzione era solitamente destinata a manifatture considerate “d’arte” e d’alta moda o in modo estremamente più scadente in una produzione industriale in cui l’importanza del creativo veniva completamente trascurata. Nonostante i lati positivi sopraelencati e l’evidente valore aggiunto dato ai prodotti, la maggior parte delle illustrazioni utilizzate in questo senso, sono da considerarsi ancora una volta fini a loro stesse, quindi con uno scopo puramente decorativo se pure estremamente soddisfacente. Tra le realtà più interessanti si segnalano 40


due piccole attività spagnole; La casita de wendy,11 che si occupa prevalentemente di fashion disegnando 12 appositamente i tessuti che utilizza e Nobodinoz che cura una numero di oggetti più vario, a partire dall’abbigliamento per bambini, ai libri tattili, all’interior design. Ribaltando il punto di vista e quindi ponendo lo sguardo al mondo dell’illustrazione nell’ambito editoriale, troviamo ugualmente dei riferimenti alla moda e ad alcune tecniche sartoriali. Sempre più spesso infatti è possibile trovare albi stampati su carta le cui tavole originali sono state realizzate in stoffa, a volte interamente ed a volte in parte. Il ricamo in particolare sta prendendo piede, sostituendo in alcuni sporadici casi strumenti da disegno come matite 13 e pastelli. Di Beatrice Alemagna in particolare sono stati pubblicati una serie di albi realizzati in questo modo.

10 Marimekko, textile design, Finland, www.marimekko.com 11 La casita de wendy, fashion design, Madrid, www.lacasitadewendy.com 12 Nobodinoz, interior design, Barcelona, www.nobodinoz.com 13 Beatrice Alemagna, “Nel paese delle pulcette”, Phaidon, New York, 2011

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5.3 Indossare la narrazione Vestire l’illustrazione e indossare la narrazione sono dunque due concetti estremamente diversi. Con il primo vogliamo riferirci a quelle odierne realtà che fanno un uso interessante dell’illustrazione applicandola, con più o meno sapienza, ad oggetti di uso comune. Con “indossare la narrazione” si vuol portare avanti l’idea che sia possibile trasporre la narrazione per immagini su supporti diversi da quello del libro, in particolare su supporti che possano essere indossati dalle persone. Questa concezione dell’immagine narrativa si distingue sia dall’uso che fa la moda della pittura su tessuto che dalla stampa degli albi illustrati, perché vorrebbe unire le due realtà e farne una sola in modo efficace. Con questo non si vuol dire che le prime due siano inefficaci in termini comunicativi o siano scadute nel tempo. L’intento non è certo di accantonare nessuna di queste realtà, ma è quello di affiancare ad esse una terza possibilità, interessante in un modo tutto nuovo.. o volendosi riferire ad alcune pratiche popolari, in modo molto antico. Dare la possibilità ad una storia di camminare indisturbata, aggiungerebbe qualcosa in più al materiale che già troviamo ogni giorno in strada. Come già anticipato (ved. 2.2) diviene possibile “leggere” un oggetto non esclusivamente nel suo contenuto, ma nella sua totalità. 42


Una narrazione indossata, suggerisce allo sguardo, prima ancora di leggere la storia, che la persona che la porta ce ne sta suggerendo la lettura, che questa si sente, fosse anche in minima parte, rappresentata dalla narrazione che porta con sé e che ha scelto coscientemente di condividerla con gli altri. Lo stesso meccanismo è rintracciabile, anche se in modo più sintetico, nell’uso di t-shirt con un logo, una frase, un disegno che fa un riferimento esplicito a qualcosa, qualcuno o a un concetto. La differenza tra le due torna ancora una volta alla presenza o all’assenza della narrazione, perché nel caso della t-shirt, come in molti altri, non vi è un seguito; sarebbe come paragonare un’esclamazione ad un romanzo.

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LA MEMORIA DELLE COSE Progetto

*à+!

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1 DAL PROGETTO ALL’OGGETTO Obiettivo di questa ricerca è far si che segni normalmente utilizzati dai media più canonici, conservino la loro peculiarità narrativa se impressi su supporti diversi. Nello specifico è intenzione di questo progetto dimostrare come sia possibile realizzare una narrazione indossabile. A questo scopo è stato realizzato un prototipo che conservi sia parte delle caratteristiche tipiche di un albo illustrato sia le proprietà di un abito. Il prototipo in questione si compone di più elementi fruibili assieme come separatamente: la stola, un libro di testo e la cover che li contiene. Se conservato nella cover, il prototipo apparirà simile ad un grande albo rilegato, sulla cui costa appare il titolo della narrazione ed il nome dell’autore. Questo perché il progetto prevede che l’oggetto, se si desidera, possa essere riposto non solo come un abito, ma anche come si farebbe con un albo in una libreria. Rispetto a questo punto è anche facile presupporre che sarebbe possibile realizzare una serie di narrazioni indossabili, da riporre poi come una collana editoriale sul proprio scaffale. Diversamente, una volta estratta la stola dalla cover è ugualmente possibile riporla su una gruccia all’interno di un armadio, come un normalissimo capo di vestiario. Nel prototipo testo e immagine sono separati. Il libro conservato all’interno di una tasca nella cover contiene 46


il testo della narrazione ed una breve presentazione fotografica della stola illustrata. Questa separazione è una scelta fatta in funzione di separare due momenti di fruizione diversi; il primo più intimo, di lettura del testo ed il secondo esposto allo sguardo altrui, di condivisione della storia. Questo punto, molto importante ai fini del progetto, sottolinea una delle peculiarità della narrativa indossata, ossia la possibilità di portare fisicamente all’esterno le storie che scegliamo per noi stessi. Così posso leggere un libro a casa e poi decidere di indossarlo per uscire.

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1.1 L’oggetto libro Similmente ad un albo illustrato classico, la copertina della cover sarà rigida e rilegata al modo bodoniano, quindi rivestita di stoffa. Per coerenza è stata utilizzata la stessa stoffa di cui è composto l’abito, parte in lana nera e parte in lino color sabbia. Questo per dare l’idea a chi si trovasse ad averla tra le mani che aprendola potrebbe effettivamente trovarsi a sfogliare le pagine di un libro. Diversamente all’apertura s’incontrano dei nastri che è necessario sciogliere per accedere all’interno; soluzione a volte adottata nelle rilegature di libri a leporello che se troppo corposi faticano a chiudersi perfettamente da soli.All’interno oltre alla stola si trova una tasca contente il testo della narrazione. Il libretto di testo estraibile e fruibile separatamente dal resto, raccoglie sia il testo che alcune fotografie che mostrano il modo in cui è possibile ripiegare la stola. Rispetto a quest’ultima parte, si potrebbe dire che esso assume anche i toni di un piccolo manuale di istruzioni all’uso dell’abito.

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_Cover 50 x 30 x 3 cm chiusa 63 x 50 cm aperta






_Cover, stola, libro





_Libro 18 x 14,8 x 1 cm pag. 16





1.2 L’oggetto abito A chiudere la ricerca la realizzazione di un capo d’abbigliamento narrativo. Per la serie “la forma segue la funzione”, il taglio sartoriale del prototipo è del tutto simile ad una stola, silhouette che meglio si presta ad una narrazione di tipo lineare. La lettura dell’abito non è da considerarsi rigida, necessariamente da destra verso sinistra o viceversa, anzi valutando la “non forma” dell’oggetto una volta indossato, lo sguardo dell’osservatore è libero. Diversamente il capo se non indossato e riposto correttamente, segue una serie di pieghe ben precise. Dispiegandolo infatti è possibile individuare man mano porzioni di narrazione ed elementi che canonicamente troveremmo in un libro. In primis la copertina, che similmente al libro di testo, ci mostra delle montagne, a seguito il titolo della storia, tagli di stoffa ripiegati obliquamente come un paesaggio campestre o alpino e in centro le illustrazioni. La scelta ipotetica della stola come supporto, si basa sul fatto che essa ben si adatterebbe ad ulteriori narrazioni e non solamente a quella proposta. L’uso di questo taglio consentirebbe di estendere la ricerca ad una collana editoriale indossabile.

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/01

/02

/03


/05 /04

_Stola 50 x 30 cm chiusa 160 x 100 cm aperta










BIBLIOGRAFIA Patrizia Magli _ Semiotica. Teoria, metodo, analisi Marsilio editori, Venezia 2004 Francesco Di Nocera _ Che cos’è l’ergonomia cognitiva Carocci editore, Roma 2009 Massimo Boldini _ Semiotica della moda Armando editore, Roma 2005 Danilo Montanari _Libro / Opera Legatoria Universo, Ravenna 2011 Rosita Levi Pisetzky _ Il costume e la moda nella società italiana Giulio Einaudi editore, Torino 1978 Egidijus Rudinskas _ Opere incise, catalogo Grafica Vadese, Urbino 2009 74


Anna Sobol-Wejman _ Siedzace / The sitting women Jan Fejkiel Gallery, Krakòv 2009 Gilbert Durand _ Le strutture antropologiche dell’immaginario Edizioni Dedalo, Bari 2009 Gaston Bachelard _ La poetica dello spazio Edizioni Dedalo, Bari 1975 Danilo Montanari _Libro / Opera Legatoria Universo, Ravenna 2011 Zaletova, Ciofi, Panzini _ L’abito della rivoluzione Gruppo GFT, Firenze 1987 Hughes, Vernon-Morris _ The printmaking bible Chronicle books, San Fancisco 2008 75


INDICE La memoria delle cose / ricerca _1 Bugie a fin di bene

pag. 1

1.1_ Propp e la fiaba, fabula e intreccio 1.2_ I luoghi di Greimas

pag. 4 pag. 6

_2 IntimitĂ

pag. 8

2.1_ Binomi 2.2_ Oggetti illustrati

pag. 9 pag. 13

_3 Esercizi di scrittura

pag. 14

3.1_ L’abito di A. 3.2_ Giona il cacciatore e l’orso della montagna

pag. 16 pag. 22

_4 Costume, moda e travestimento

pag. 29

4.1_ Ricamo e pittura su stoffa 4.2_ Storie che tornano indietro 4.3_ Mappe, abiti e percezione

pag. 31 pag. 32 pag. 34


_5 Editoria di stoffa

pag. 36

5.1_ Il morbido è solo per i bambini? 5.2_ Vestire l’illustrazione 5.3_ Indossare la narrazione

pag. 38 pag. 40 pag. 42

La memoria delle cose / progetto _1 Dal progetto all’oggetto

pag. 46

1.1_ L’oggetto libro 1.2_ L’oggetto abito

pag. 48 pag. 63

_ Bibliografia

pag. 74


Ringrazio Roma che mi ha lasciata andare; ringrazio Urbino che mi ha annoiata fuori intrattenendomi dentro e ringrazio Genova, che è la mia nuova casa.




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