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TENDERE ALL’INFINITO
Traiettorie ed esperienze nel lavoro di Mario Pagliaro
Seduto alla scrivania, sdraiato sul letto o appeso alle cinghie dei suoi attrezzi ginnici Mario Pagliaro ritaglia il suo spazio vitale in una sola stanza, tra le molte disponibili della sua casa-laboratorio a Casoria (in provincia di Napoli), dove progetta e sperimenta in solitudine. Basta una rapida immersione nel suo mondo per capire quanto poco conceda agli eccessi.
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Poco interessato agli ambienti patinati, ai vernissage, alle attrazioni glamour comunemente associate al settore, Pagliaro non è uno che rincorre le tendenze. Non viaggia molto. I suoi viaggi sono piuttosto esplorazioni alla scoperta di sé. Condotti in isolamento, spesso in bici, fatti per mettersi alla prova.
Dice che da Napoli un uomo sarebbe in grado di raggiungere Capri a nuoto1, e chi lo conosce un po’, sa che lui potrebbe riuscirci, o che almeno avrebbe l’ardire di provarci. Quella tensione gli appartiene. Il suo modo di fare, nel progetto come nella vita, è quello di un atleta, fatto di disciplina, di esercizi ripetuti e vincoli stringenti. Il fine non è raggiungere l’obiettivo, ma allenarsi regolarmente affinché sia possibile avvicinarsi.
Non stupisce dunque che il suo rapporto con i materiali sia dello stesso tipo. Stressarne le caratteristiche, per permettere a ciascuno di esprimere il proprio valore in potenza, curandosi però – come in un allenamento – di organizzare gli stimoli secondo una sequenza che impedisce sovraccarichi, con l’abilità di chi conosce i singoli effetti di ciascuno sforzo.
Si potrebbe dire che il suo sia un rituale di devozione verso le forze che spendono energie. Nel refettorio del convento di Santa Chiara a Napoli campeggia una scritta: “quello che fai, fallo bene”. Il monito monastico ritorna alla memoria pensando al lavoro attribuito il compito di veicolare le fattezze di un oggetto. Il progetto, dunque, non serve a costringere un materiale in un’idea astratta di forma ma nasce dallo scambio reciproco. «Questo significa – come ricorda Brancusi – che non dobbiamo cercare di far parlare ai materiali il nostro linguaggio, bensì assecondarli fino al punto in cui altri capiranno il loro»3. L’equilibrio tra tensione ed esasperazione si gioca quindi sul campo della disponibilità del materiale ad assecondare gli stimoli ricevuti, e in base a quelli, avviare un confronto dialettico di cui il progetto possa essere felice espressione e sintesi inattesa.
1. Il riferimento è all’intervista riportata all’interno di questo volume.
Sistematizzare
I rituali nella vita di Pagliaro occupano una posizione significativa: «appena sveglio la mattina faccio un piano d’azione», dice con convinzione. Vicino alle filosofie orientali, incline alle pratiche ascetiche e all’allenamento sportivo quotidiano, si avverte in ogni sua azione il bisogno di ricondurre l’esistenza ad un insieme di gesti ripetuti, che rassicurano e appagano l’animo, dando certezze. Oggi che le novità e le stranezze assumono –come sottolinea Han soffermandosi sulla scomparsa dei riti – le caratteristiche di una “coercizione permanente”, «il vecchio, ciò che è stato e che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento»4
Nel suo mondo di arredi definiti “ordinari” è dunque possibile rintracciare una volontà di “fare famiglia”, di ricevere conforto dall’esperienza di un rapporto rituale consolidato con procedure e gestualità. E come in una famiglia si può certamente provare un legame più forte per un singolo componente, o ci si può soffermare sulle debolezze di un altro, ma il valore di questo sistema risiede nella discendenza, nel radicamento che ciascun pezzo ha rispetto alla storia delle successioni, che ne assicura il suo chiaro posizionamento nel mondo. Una genealogia di pezzi attraverso cui rintracciare le traiettorie dell’esperienza che hanno guidato e guidano ancora oggi il lavoro del designer. Attraverso questa serie di oggetti Pagliaro disegna un paesaggio, una topografia emozionale fatta di inquietudine e pacatezza dove il bisogno di certezze convive costantemente con la necessità di superarle, di spingersi sempre un po’ più in là della soluzione appena trovata. È un bisogno personale, esistenziale, di fare ordine, di costruirsi appartenenze, di arginare impulsi a vagare nel campo ampio, talvolta aspro, del fare, attraverso l’imposizione di una serie di regole, a cui eventualmente derogare. Affidare ad un unico materiale il compito di risolvere sistemi d’arredo e l’assemblaggio delle singole componenti; riportare gli ingombri volumetrici all’interno di un sistema bidimensionale – il pannello con le sue dimensioni obbligate – dichiarare la tecnica costruttiva senza nasconderne le tracce, è l’insieme dei limiti entro cui il designer si impone di navigare. Tali vincoli non sono obblighi a cui attenersi acriticamente ma, come avviene per la fede, queste prescrizioni rituali – quando non vissute con la cecità assoluta di un dogma – sono funzionali a saggiare le proprie debolezze e a portare l’esistenza ad un livello superiore di complessità.
Derogare-flectere
L’eloquenza della produzione di Pagliaro si manifesta in questa categoria, che rappresenta una soluzione di continuità rispetto alla regola stabilita.
Una serie di oggetti (Gymball, Carriola, Tavolo al quadrato) si allontana dal lavoro sistematico sul multistrato e sulle tecniche costruttive per approfondire mondi differenti e sollecitare altre modalità dell’esperienza.
Mentre illustra la sua tesi di una produzione in serie capace di ottimizzare gli sfridi, di semplificare l’assemblaggio, di ridurre gli ingombri del packaging, di ragionare sulla monomateria; e convince con una famiglia di arredi in grado di declinare la logica in molteplici variazioni funzionali, Pagliaro spiazza con oggetti che nulla hanno a che fare con metodi e modalità consolidate.
Flectere è la terza categoria dell’eloquenza Ciceroniana.
Sei napoletano, vivi e lavori a Casoria; una realtà ben lontana dal patinato contesto milanese, comunemente associato all’industria, quindi alla produzione e al design. Come vivi questa condizione geografica? Credi che la dimensione “periferica” possa essere un limite per un giovane progettista?
No non direi. È vero che probabilmente manca il confronto con altri designer e con quel tipo di contesto culturale, ma per me il rapporto necessario è quello che si determina con le persone. È una questione maieutica: farsi delle domande e cercare le risposte attraverso il dialogo con gli altri, perché il design entra nella vita comune della gente. Per quanto riguarda il lavoro sono abbastanza autonomo, tendo a sviluppare un pensiero isolato, mi interesso poco delle “tendenze”. La dimensione dell’isolamento è quindi vicina al mio modo di concepire il processo creativo. Quando acquisisci una maniera di pensare – che un po’ si impara studiando e un po’ è connaturata – in base a cui inizi a guardare e analizzare le cose con una certa consapevolezza, la condizione geografica è del tutto irrilevante.
Hai una formazione da architetto, lavori come designer e sperimenti nel tuo laboratorio come un artigiano: qual è secondo te la definizione in grado di descriverti meglio?
Io non parlerei di artigianato perché un artigiano si trova a riprodurre più volte la stessa cosa senza l’ausilio di macchine, senza pensare al processo industriale. Il designer invece non può prescindere dal fatto che un oggetto debba essere prodotto in serie, cercando il massimo risultato con il