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LE IDEE SONO ARMI. L’ANARCHITETTO GIANNI PETTENA
Andrea Ariano
Virus radicale
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Gianni Pettena (Bolzano, 1940) – architetto, artista, docente, critico, storico, performer – è uno dei protagonisti dell’avanguardia radicale italiana. Come spesso accade, la vita e l’attività artistica di Pettena si compenetrano a tal punto da divenire impossibile scinderle, qualsiasi giudizio critico non può trattare dell’una senza tenere in conto l’altra.
Sfogliando la monografia Gianni Pettena: 1966-2021, pubblicata nel 2020 per i tipi di Mousse Publishing, ci si rende subito conto della mole impressionante di opere realizzate dall’artista nel corso della sua lunga e fruttuosa carriera. Continuando a sfogliare si ha modo di percepire lo spessore e l’importanza della sua produzione. Mutuando il pensiero di Gramsci, «non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (…) ogni contrapposizione è un non senso razionalmente»1, e questo è verissimo nell’opera di Pettena.
Ciò che emerge con evidenza sono, da una parte, la grande coerenza, dall’altra, la capacità dell’artista di reinventarsi continuamente, di sperimentare strumenti e linguaggi sempre nuovi nel corso di oltre cinquant’anni, in un dialogo incessante con una società che nel frattempo è cambiata così tanto da essere irriconoscibile. Un altro dei meriti di Pettena, che con la sua lunga carriera abbraccia luoghi e tempi lontani, è che, in qualche modo, a differenza degli altri compagni di viaggio, forse è l’unico che negli anni ha mantenuto lo spirito, l’attitudine e le maniere che avevano caratterizzato l’esperienza radicale.
Oggi, gli anni Sessanta sembrano essere una specie di ossessione: così diversi e lontani da apparire quasi esotici, eppure così magnetici e attraenti, anni in cui si aveva l’impressione di vivere davvero. Ciò dipende in parte dalla serie di condizioni, probabilmente irripetibili, che hanno caratterizzato l’epoca in cui, per citare Marcuse, c’era lo spettro di un mondo di ricerca che ritenevo interessante, e che parallelamente lo avrei indagato anche io, così alla fine valutavo non solo i loro lavori, ma anche il mio. Credo che il giudice più severo sia sempre te stesso. Ero un docente molto vicino alla generazione degli studenti e da subito capii che nel rapporto con loro si deve operare con la massima delicatezza. Per me era importante trasmettergli cosa fare per cambiare, o quantomeno provarci, un mondo in cui si riconoscevano a fatica. Credo che la cosa più importante fosse fargli capire che si vive una volta sola e che bisogna fare di tutto perché il mondo in cui ti trovi non ti impedisca di essere te stesso.
Questo principio va difeso fino all’ultimo: ci vuole etica innanzitutto verso sé stessi. È così che di virus radicale ho contaminato parecchie generazioni.
Questa era una sorta di anticipazione di Global Tools, che non è forse una riunione di studenti insoddisfatti che inventano la scuola che avrebbero voluto avere? L’esperienza di Global Tools nasce proprio dal desiderio di un’educazione mancata e che finì con l’essere una scuola di approfondimento, di ricerca… Era una scuola strana, non c’erano docenti e non c’erano stu- denti, noi membri sceglievamo autonomamente i campi di ricerca, i raggruppamenti di lavoro e producevamo lavori sperimentali. Per noi radicali fu un’esperienza molto importante, seppur breve, perché era la prima volta che lavoravamo insieme, prima non sapevamo su cosa stessero lavorando gli altri, se non a posteriori attraverso le pubblicazioni e le mostre.
Uno degli aspetti, a mio avviso, più importanti del suo lavoro e della sua riflessione è proprio questa ricerca continua.
GP La ricerca è sicuramente stata la base di tutto il mio lavoro. In parte è proprio ciò che mi ha fatto tornare dagli Stati Uniti: lì si veniva apprezzati perché si rappresentava la visione europea, più che per quello che si faceva, e poi non volevo diventare uno dei tanti che aspirava a una carriera regolare, che avrebbe sicuramente comportato il negoziare la mia etica con un’etica in cui mi riconoscevo poco. Anche nella professione è così, ed