Fabrizio Cavallaro - L'AMORE AL TEMPO DELLE PALESTRE

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Fabrizio Cavallaro L'amore al tempo delle palestre


FRUTTO ASPRO


Era un tempo in cui le notti brillavano l'estate aveva ancora un gusto di rinascita. Portavamo camicie colme di fiori, vestivamo i nostri sorrisi migliori.


E' la curva del silenzio a intenderci meglio le ore del giorno affollato sbriciolate, rimesse a letto.


Avevi la bellezza del fiore spontaneo singolare e raro, sorridendo perpendicolare al cielo estivo, alla miseria della gioventĂš che urla la sua carne come un diploma.


Il piede del tempo sui boschi incantati dei volti, quelli veduti di rado, incrociati una volta o due come rondoni nel cielo di aprile il cui grido è libero, l'avvolge il cielo.


Dormire è aprire la passione che sboccia e invecchia senza morire mutando scoprendo nuove soglie, nuove minutaglie, piccole, abnormi emozioni che pure nel fallimento dei giorni viziati dall'immobilità , rinnovano un giuramento.


Mangio ciliege alle due di notte e penso se si vivesse quasi esclusivamente di ricordi


Voglio che il fresco notturno e quel silenzio di altri mondi, dal cielo pulito estivo pacificato dal fermo delle vite come pulviscoli attorno all'astro, falene impazzite da luce assassina, entrino dall'ampia finestra semiaperta nella mia camera da letto con quell'unica luce sopra la testa ed il televisore sempre acceso che stanca e vive una vita solo sua, senza interpunzioni; ed io, nella quasi immobilitĂ d'un domicilio singolo e consistente, lascio che il corpo stenda le fibre come panni sui fili di plastica, interno giorno essiccando ogni stimolo o idea di vitalitĂ .


Pensando di chiudere battenti, spegnere la tivĂš, distendere gli occhi, consumati i riti diurni scivolare nel limbo della notte le sue carezze mute, la pietĂ che risparmia dalla velocitĂ che tocca ognuno - mettersi da parte, scansare le danze del mondo senza soluzione per dirla con Kavafis, togliersi dal rumore delle altrui vite perchĂŠ la tua non si muti in un'estranea antipatica, distolga lo sguardo incrudelita.


Come quando, bambino, immergevo con prudenza i piedi accaldati nell'acqua gelida del mare e avrei voluto fuggire via risparmiarmi quel sussulto, tornare prontamente al nido tiepido della riva, ma poi l'arsura mozzava il respiro e, una volta deciso il passo sarei rimasto per sempre immerso in quella frescura, quel mondo trasparente.


L'autunno è un ago puntato al cuore ti promette di saper tornare che l'estate è solo una parentesi la solitudine si scioglierà come si scioglie il ghiacciolo nella mani mentre lo lecchi; l'autunno tornerà, e poi sarà inverno il gelo che tortura sarà anche mediocre ma le trafitture di luglio e agosto crudelissime lasceranno il posto a giorni più lievi e soavi, le ore chete ti avvolgeranno il torso e i pensieri così come il sonno ricucirà nervi spezzati.


Dimmi da che parte girare il mio quarto di luna per spiarti, finanche toccarti.


Vorrei essere l'unghia che mordicchi compulsivamente, nervosamente. La pellicina che mastichi come un boccone prelibato.


Chiudimi nel tuo cuore, l'inverno tornerĂ in un soffio. Staremo bene ancora.


Vorrei essere il dito che lecchi quando sfogli il libro che leggi.


Ho paura che tornerò a pensarti, nonostante la lezione di cattiveria. Scrivo ciò che rimane all'osso, con la paura che sarai ad addentarmi al collo con quel sorriso di gatto bastardo che prima di uccidere il passerotto lo tortura.


L'ipocrisia. Ne hai fatto la cifra del tuo intessere rapporti col genere unico con cui ti metti in gioco: il lenocinio è nelle tue corde molto piÚ della soavità che ti riconobbi quando avevi diciassette anni.


Hai passato la prima parte della tua giovinezza schiavo della letargia. Di ciò, t'è rimasto nelle palpebre un che di pesante, esasperato.


Discutere con te di etica morale è come guardare in faccia un muro e pretendere risposte.


Sei felice. Adesso hai il guardaroba pieno, colorato, giusto. Te ne importa poco del tuo corredo intimo, in nome di un cinismo che hai adottato per comodo non perchĂŠ realmente ci credi.


Quella luce che irradiava dal tuo corpo sempre sudato ora è un ricordo smagrito, un rimorso gratuito.


L'ultima volta che ti vidi indossavi un chiodo spelacchiato. Oggi, sei firmato dalla testa in giĂš. Ti bastava un punto di appoggio, mi dicesti, e l'hai trovato. Fra una scivola marina e un carnaio di discoteca. Tutto pagato col frutto aspro del tuo ventre.


NUVOLE


Il marciapiede era una piccola patria per noi, intirizziti e svogliati, le idee guerresche e volanti, seppure col peso addosso di quegli anni in cui tutto si taglia in due il gelo dei mattini, poca cosa; il preside combatteva contro i luoghi comuni e intoccabili della nostra gioventĂš in rivolta; poi, tra quei banchi sbilenchi ci si osservava di sottecchi, prime passioni mischiate al sonno delle ore chiusi in un'aula disadorna solo mezz'ora in cortile libertĂ sfogo di parole smozzicate, carezze fintamente sbadate, sudori appiccicati alle tute, come adesivi di Linus sugli zaini. E il pomeriggio le telefonate spesso mute, compulsive, bieca timidezza di stringere nel nido del proprio io disastrato la forza ammutolita di quei primi amori.


La sera ci chiude in un guscio un dolore antico, ha le stesse parole chiuse in tasca, lo stesso disequilibrio che diviene stabilitĂ per la sola misura d'una sbigottita sopravvivenza.


A Dario Bellezza PerchĂŠ resti intoccata, questa sera per amore di pura solitudine plagio di osservare le vite degli altri - dissimili eppure copianti identiche modalitĂ , luci e ombre ombre e buio, nei cambi di stagione ogni tanto sfiorando l'amore umano col suo sapore dietrologico di cenere e sangue, eppure deglutito intero o masticato in un gioco malato.


Volevo carezzarti le ciglia, soffiarti sui capelli un'onda di cura, benessere lieve. La voglia di tenerti accanto, il buio oltre la siepe dei tuoi occhi malandrini. Ma sei fuggito in silenzio, in una notte d'inverno. Hai toccato sponde d'Europa, fissato dimore di cartapesta della stessa sostanza del cuore.


Chi parla, nella notte, chi suggerisce le cure che durante il giorno ha grattato ansiosamente con dita deboli d'amante incrudelito?


Le tue promesse debiti per te stesso, oneri alla rincorsa sulle spalle della tua carne luminosa.


Le nuvole sono un alfabeto formalmente calmo. Quando scatenano il cielo rumoreggiando, mi rifugio nel mio nido d'infanzia.


Abbiamo speso parole che si snodavano al sole. Nelle sere gonfie di suoni osservavo i tuoi occhi stralunati e restavo sospeso a un filo di salute. Oggi, l'estate è adulta e ci ripiomba addosso, asciuga il palato, raggela il cuore esacerbato.


L'amore è politico, ha fasi alterne di crescita, stasi, cadute ruggenti. CosÏ è se lo conosci.


E' un soldo di rumori questo agosto spaventoso, convulsioni di urla e incendi all'anima ore sbriciolate, corse folli sere interminabili aria arsa, sgolante. Il piĂš spietato dei mesi.


Nel tuo amore sbilenco mi tenevo stretto alle poche frasi-stampelle, ai sorrisi spalancati come il sole d'estate, mare aperto e libero delle spiagge comunali.


Il televisore acceso nella mia stanza serve a cullare il sonno sulle ali ipnotiche del suo basso ronzio.


Ci siamo sbranati, stasera, era voglia di solitudine rammendabile con la rabbia a denti e lingue arse, parole come frecce le punte al veleno. A volte accade cosÏ, non è un fatto raro.


ADDOMESTICARE IL DOLORE


Ho la lista della spesa. Domani ogni singolo respiro avrĂ inizio e verdetto solo se compreso nel foglietto bianco scritto di mio pugno nell'ora del vaneggiamento.


Chiudersi fuori dal ronzĂŹo prima che giunga troppo elevato il suo ritmo esacerbato ai gangli del pensiero. Anche la materia ha un rigetto, l'imbuto della coscienza si stringe all'apertura, estremitĂ angusta che non cede fraintendimenti.


Dose eccessiva di cortisone Ognuno cerchi la sua coperta, bisunta e sfilacciata che sia. La notte, specialmente, importa. Il freddo si rapprende sui guanciali. La porta chiusa è ingiuria al mondo. Navigare è sottile in questo scuro mare.


Risuona male questo sincopato, anime in rivolta come rane nel putrido stagno delle loro oscene boccacce, quando s'abbandonano a dispotici amori.


Mi si schiude il pneuma-pensiero ora che al silenzio respiro il residuo delle vomitazioni frutto delle angolazioni compresse tra il legittimo e l'altro capo del filo.


Troppo tempo s'è incementato sotto le tende dei desideri, troppa acqua ha rotto i ponti, se voglio ancora un volo mi prenda la mano della temperanza e del divago, la dimenticanza è quella culla di chi avanza passo passo lasciando una candida scia di lumaca.


INSONNIA


La mattina un motivo per levarsi dal calore opprimente delle coperte, lo squillo del postino al cancello che ti lascia le scadenze a vivere, il sole che incalza ma non scalda, un inverno terribile che lascerĂ sconto solo all'estate piĂš crudele, mai piĂš mezze stagioni per punirci della voglia scostumata d'aver ragione.


Le poche cose che sai fare la notte, se non puoi dormire: l'alleanza col sonno ti ha tolto la fiducia nelle ore corte, viaggiare immobili piega pure la volontĂ , l'amore resta quel conto residuale in barba all'insonnia


Di che pasta è fatto tutto l'amore che constatiamo, che crediamo vero anche quando non l'abbiamo in mano ma ci accontentiamo di guardarlo da lontano, scrutarne i contorni, mezza-stagione che consola, consuetudine residuale.


Addomesticare il dolore, un conto da pagare all'esattore giudiziario che arriva senza farsi annunciare.


Confondo il circondario, mescolo il ronzio delle banalitĂ televisive con la musica d'ambiente, cosĂŹ che n'esca un misto che foderi i pensieri, serri le caviglie.


Oggi mi annoio un po' di piÚ, ma la noia mi fa gioco, è una compagna interessata, (l'unica che possa avere) il tradimento mi solletica nel subirlo come la maieutica d'un'esistenza che nel bene e nel male, non ha niente di meglio da fare.


Guardare in fondo al sonno corregge il passo del declino, ogni sera s'apre un mondo cambio faccia e calzino, lascio il televisore acceso ad ascoltare se stesso, politica del sangue indifferente.


La mia insonnia ha un nome e un cognome, anzi un soprannome che cambia ogni sera, a seconda del pensiero dominante che si sostituisce al sonno pretestuoso e farlocco, prende la sua parte d'esistenza usurpata nelle ore diurne.


Ormai esco poco di casa. Il mondo, da fuori, guarda me che studio la mia vita mutare dal di dentro, imbarcando un grumo di fraintesi.


Per questo le palestre sono piene di specchi Si danno il cambio, fingono un astio pregno di narcisismo; poi, studiando le pose con piglio battagliero e un po' gigione, sembrano decollare.


GIORNI FERIALI


L'oro scuro delle palpebre socchiuse perchĂŠ il mattino rallenta, si schiude con discrezione e pazienza, differito bocciolo.


Fuori il frastuono di chi lavora per spaccare il cemento e trovarvi l'oro, mi arriva attenuato dalla fortunosa distanza. E' mattina tardi, nella mia camera serrate le tapparelle mi preservano dall'alfabeto invadente di fuori. Il silenzio è un gioco per metà benigno per metà pernicioso, a cui tengo la promessa. Ho quel che mi basta. Ogni tanto faccio la sporta, alzo il coperchio, lo richiudo poco dopo.


Anche la luce sembra piĂš chiara riposante, cheta nei giorni feriali; il rombo delle auto risparmia un po' le strade specie se pioviggina l'estate ricorda il dolce autunno distensivo il passo si fa lento, gli sguardi meno saettanti, finanche il cuore batte a ritmi piĂš ordinari.


Le transenne durevoli per mesi, spaccature che seguitano con discrezione a sanguinare, strade e marciapiedi feriti restano immobili come cani sfregiati dal gemito muto.


Questa è l'ora del giorno che piÚ amo, l'ora blu del tramonto, con quel lume aranciato in cucina e lei che, seduta al suo tavolo, monda le verdure, cosÏ come faceva da bambina.


Oggi piove ed è giugno, ieri dal cielo colava un calore che bagnava i vestiti, rallentava i passi tagliando in due i pensieri, come il fulmine dimezza l'aria.


S.


Quella mattina, in piazza Duomo facevano le prove del concerto, io e te sedevamo al tavolino a gustare una granita, all'inizio di un'estate che si preannuncia piĂš dura del previsto, a causa del tuo inaspettato voltafaccia.


Qu


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