Oltre il muro - commercio equo in Palestina

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“Siamo due popoli che hanno pagato un prezzo altissimo. Ognuno di essi ha mille ragioni per accusare l’altro. Ho partecipato negli anni Ottanta alla prima Intifada. Ho trascorso quattro anni in carcere. In seguito sono stato ferito da un colono israeliano e, mentre ero in Arabia Saudita per curarmi, ho appreso la notizia della morte di mio fratello, assassinato da un soldato israeliano. Credevo di non poter più vivere con questo dolore. La parola pace era allora lontanissima dai miei pensieri. Finché un giorno è arrivata nella mia casa un’ebrea israeliana privata dei suoi cari dal conflitto e ho potuto constatare che c’erano tanto dolore e umanità anche dall’altra parte. La scelta del dialogo è inevitabile: nasce dalla convinzione che un’identità sana non può essere fondata sulla negazione dell’identità altrui, compresa quella dello Stato d’Israele. Il dialogo, poi, è un modo per curare ferite, dolori personali, è un modo per liberarsi del peso della propria storia raccontandola. Il dialogo è vita, il monologo uccide. Troppo spesso gli israeliani e i palestinesi hanno fatto lunghi e accorati monologhi”. Le parole di Mustafa Qossoqsi, giovane psicologo dell’Istituto di psicoterapia Almadina di Nazareth, riassumono con una semplicità quasi provocante ciò che costituisce, nello stesso tempo, il dramma e la salvezza della convivenza di due popoli e tre religioni in un’unica terra: monologo e dialogo, diffidenza e fiducia, separazione e convivenza. Ci piace affidare alle stesse parole il senso della collaborazione avviata da LiberoMondo con due organizzazioni che fanno della convivenza e dell’incontro uno dei pilastri della loro attività in Palestina. ”Oltre il muro, l’alternativa possibile”, è il racconto, per immagini, riflessioni e frammenti di vita quotidiana, di questa esperienza.



1. Muri per dividere

Bilancio di un quinquennio… Il muro (“The fence”, come viene comunemente chiamato in Israele), è una lunga barriera che circonda, e a volte penetra, i territori della Cisgiordania per un percorso di oltre 700 km (se si considera anche il progetto della costruzione di una seconda barriera nella Valle del Giordano). La costruzione del muro è stata deliberata dal Consiglio dei Ministri israeliano nel maggio del 2001, su proposta del leader laburista Ehud Barak. Il muro vuole essere una risposta alla seconda Intifada palestinese, esplosa nell’autunno del 2000 dopo una lunga serie di tensioni tra israeliani e palestinesi e culminata con gli attacchi terroristici dei gruppi estremisti palestinesi e l’occupazione di molti villaggi da parte dell’esercito israeliano. La costruzione ha avuto inizio a Jenin, nel giugno del 2002 e avrebbe dovuto realizzarsi, in teoria, seguendo il tracciato della Linea Verde del 1967. Nella realtà dei fatti, in alcuni casi il muro oltrepassa tale linea, penetrando in profondità nel territorio palestinese fino a 6 km. Il percorso, in questo modo, ha creato delle vere e proprie “enclaves”, tagliate fuori dalla loro terra dal muro e abitate da 95.000 palestinesi (oltre il 4% della popolazione della Cisgiordania). Inoltre, circa 200.000 palestinesi della parte occupata di Gerusalemme Est saranno esclusi dal resto della Cisgiordania. Per la costruzione del muro è stato espropriato il 10% circa della Cisgiordania, e ciò è stato fatto adducendo ragioni di natura militare e di sicurezza. Infine, il tracciato è stato variato in alcune zone, durante la costruzione del muro stesso, con lo scopo di incorporare circa 343.000 coloni residenti nella West Bank, per un totale di 10 insediamenti israeliani inclusi; quest’ultima operazione ha comportato l’espropriazione di altre terre appartenenti a circa 30 villaggi palestinesi. Complessivamente, lo sforamento della Linea Verde e la costruzione del muro nei territori della Cisgiordania sta provocando l’intrappolamento di circa 270.000 palestinesi, residenti in oltre 120 centri abitati. Di questi, circa 70.000 non godono del diritto di residenza in Israele, e questo comporta l’impossibilità di accedere ai più elementari servizi (come scuola e servizi sociali) e l’impossibilità di muoversi. In questa striscia di terra, inoltre, sono stati espropriati 31 pozzi idrici (alcuni molto grandi e ricchissimi d’acqua), mentre oltre 100.000 ulivi sono stati abbattuti. Oltre al muro, inoltre, vanno considerate le “by pass roads”, strade di accesso riservate ai militari israeliani per motivi di sicurezza. La costruzione della barriera, quindi, ha frantumato in molte zone la 3


Cisgiordania, rendendo praticamente impossibile la continuità territoriale per il futuro Stato Palestinese.

Cos’è il muro La barriera che divide Israele e Cisgiordania e che ha provocato l’espropriazione di molti terreni non è una costruzione uniforme. In alcune zone, addirittura, un muro vero e proprio non esiste, essendo sostituito da un reticolato di filo metallico elettrificato. Il muro, alto mediamente 8 metri (il doppio di quello che c’era a Berlino), è fatto di cemento ed è interrotto, lungo il percorso, da torri di guardia e da “zone cuscinetto”, larghe dai 30 ai 100 metri, costituite da barriere elettriche, trincee, telecamere, sensori e presidiate costantemente da militari. In altri spazi sono presenti diversi livelli di filo spinato, sentieri per il pattugliamento, zone sabbiose per rintracciare eventuali impronte, fossati e telecamere di sorveglianza. Le “zone cuscinetto” hanno rappresentato un buon motivo per l’esproprio di case e terreni e per l’allontanamento di numerose famiglie residenti nelle zone adiacenti. Lungo la linea di separazione sono stati costruiti numerosi cancelli, vietati al transito dei contadini palestinesi, che rinforzano il già meticoloso sistema israeliano di elargizione dei permessi per i passaggi. Nella striscia di Gaza (1,3 milioni di abitanti concentrati in 356 km2 di territorio), sono state distrutte numerose case ed espropriati terreni per costruire un muro di ferro lungo 3 km e alto 8 metri, munito di cancelli elettronici per il passaggio di carri armati e bulldozer); tutto ciò è avvenuto con l’opposizione dell’ONU, senza l’avallo di un ac-

La costruzione del muro tra Betlemme e Gerico. 4


cordo internazionale e con la condanna della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (luglio 2004). Il progetto, l’approvazione e la costruzione del muro godono dell’appoggio di tutto l’arco parlamentare israeliano, dal Likud, il partito di destra del premier Ariel Sharon, ai Laburisti di Barak e Peretz, fino ad alcuni esponenti del Meretz, considerato un partito di estrema sinistra.

La situazione Il percorso del muro ha provocato i seguenti effetti: - esproprio di terreni in Cisgiordania; - allontanamento di famiglie; - creazione di enclaves palestinesi, strette tra il territorio israeliano e la West Bank; - demolizione di case, negozi, scuole e altri edifici troppo vicini al muro; - abbattimento di decine di migliaia di ulivi; - privazione di pozzi idrici, di fatto passati in territorio israeliano; - forte limitazione della mobilità tra Cisgiordania e Israele; - creazione di tre grandi ghetti: ghetto nord (nella parte nord-occidentale, nelle zone comprese tra i villaggi di Jenin, Qalqilyah, Ariel e Qedumim), Gerusalemme (dove il muro, che passa bruscamente attraverso villaggi e quartieri, ha provocato la perdita del 90% delle terre di questo distretto) e ghetto sud (zone di Betlemme ed Hebron). Il tracciato del muro e l’impatto sulle comunità palestinesi in Cisgiordania. 5


L’espropriazione della terra comporta la creazione di grandi problemi anche per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico dei villaggi palestinesi posti lungo il tracciato del muro o vicini a esso. I 31 pozzi espropriati privano le comunità di un apporto di circa 4 milioni di metri cubi d’acqua. Inoltre, durante i lavori di costruzione sono stati distrutti 35.000 metri di condotte dell’acqua, utilizzate in precedenza dai palestinesi per uso civile e l’irrigazione dei campi. Solo nel villaggio di Jayyus (distretto di Qalqilyah), oltre 2.800 ettari sono stati espropriati, e con essi 7 pozzi (significa il 72% della terra intorno a questo centro abitato). Limitando le considerazioni alla sola zona nord della Cisgiordania (intorno alle città di Qalqilyah, Tulkarem e Jenin), è stato calcolato che circa 20.000 persone (3175 famiglie) si sono trovate nel lato orientale del muro, completamente separate dai loro terreni agricoli, rimasti nella parte occidentale. In questi territori, l’espropriazione della terra, la distruzione fisica e le restrizioni imposte al movimento hanno provocato la perdita di circa 6.500 posti di lavoro; la produzione di olio d’oliva ha subito una perdita di oltre 2.200 tonnellate (poco meno del 9% della produzione annuale in Palestina). A tutto ciò va aggiunta la perdita di produzione a carico dei comparti orticolo, frutticolo e foraggero (si stima una perdita totale annuale di 100.000 tonnellate di materiale vegetale). L’edificazione del muro ha provocato la demolizione di centinaia di edifici, molti dei quali commerciali, con ulteriore danno per quanto riguarda le attività economiche e l’occupazione. Considerando la situazione a livello generale, la costruzione del muro si colloca in un quadro sociale già duramente provato da anni di lotta della Seconda Intifada e continue occupazioni e repressioni dell’esercito israeliano in seguito ai numerosi e sanguinari attentati terroristici. In Cisgiordania, il tasso di disoccupazione è di circa il 45%, per arrivare al 70% nella striscia di Gaza. Circa 120.000 palestinesi che, prima del 2000, lavoravano regolarmente in territorio israeliano, sono stati tagliati fuori dal muro e sono stati rimpiazzati da immigrati asiatici e africani. Due milioni di persone, infine, vivono sotto la soglia di povertà: significa che il 63% della popolazione deve arrangiarsi con meno di due dollari al giorno.

La difficile situazione di Gerusalemme est. 6


Intifada: un problema non solo politico Intifada è un parola araba che significa “rivolta”, “sollevazione”, “scrollarsi di dosso”. Il termine è entrato nell’uso comune a causa di due lunghe campagne volte a porre fine all’occupazione militare israeliana in Palestina. L’intifada è uno degli aspetti più significativi degli anni recenti del conflitto Israelo-Palestinese. La prima Intifada palestinese inizia nel 1987 e si conclude nel 1993, in seguito alla firma degli accordi di Oslo e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). L’Intifada di Al-Aqsa (nota anche come seconda Intifada palestinese) indica invece il violento conflitto Israelo-Palestinese che ebbe inizio il 28 settembre 2000, quando Ariel Sharon e il suo folto entourage di uomini armati, entrarono nel complesso della Moschea Al-Aqsa. Come tutti i conflitti armati, è tuttavia difficile attribuire l’inizio a un episodio specifico, per quanto eclatante e provocatorio possa essere; l’origine, in questo caso, va ricercata nel mancato riconoscimento reciproco (ufficiale ed effettivo) delle rispettive entità statali e territoriali. Ad oggi, infatti, non esiste uno stato palestinese ufficiale e l’esistenza di Israele come stato e territorio è ancora osteggiata da parte di molte formazioni (politiche e militari) palestinesi. Il risultato è che entrambe le parti non si fidano delle reciproche intenzioni, ritenendo che la firma di un accordo non sarebbe rispettata in alcun modo. Una conclusione, tuttavia, è difficilmente contestabile, vale a dire che la seconda Intifada si è rivelata di gran lunga più violenta e tragica della prima, con azioni eclatanti e sanguinose da parte dei movimenti palestinesi che affidano la loro lotta politica ad azioni terroristiche e la politica di occupazione da parte delle autorità israeliane. Una indubbia sconfitta per le formazioni moderate israeliane e palestinesi, che hanno visto prevalere, per la soluzione dei problemi dell’area, le tesi estremiste dei movimenti ultraortodossi ebrei e dei fondamentalisti islamici. L’attuale Intifada si differenzia dalla prima per due aspetti fondamentali: il lancio di pietre è stato sostituito, abbastanza diffusamente, tra le fila palestinesi, dall’utilizzo di armi da fuoco e azioni terroristiche; in secondo luogo, annovera la partecipazione anche degli arabi di Israele, rimasti invece sostanzialmente fuori durante la prima rivolta. A una Intifada intesa come resistenza all’azione del governo e dell’esercito israeliano e legittima lotta per il riconoscimento delle terre e dei diritti dei palestinesi, se ne è aggiunta una, fin da subito, unicamente tesa ad affermare con la violenza un profonda intolleranza nei confronti degli israeliani e di esponenti di altre religioni, ricalcando così, in maniera opposta, gli atteggiamenti più oltranzisti e intolleranti dei coloni ebrei degli insediamenti. In 5 anni di conflitto, la triste contabilità delle vittime è, purtroppo, molto lunga: 1073 vittime fra la popolazione israeliana (772 dilaniati da attacchi kamikaze, fra cui 115 minorenni, e 301 militari uccisi durante scontri a fuoco) e 4373 palestinesi uccisi, fra popolazione civile, gruppi armati e terroristi suicidi (fonte: The Palestinian Human Rights Monitoring Groups). Responsabili delle uccisioni sono in questo caso, oltre ai militari, anche i coloni degli insediamenti.

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Tra le vittime palestinesi, sono incluse anche quelle della cosiddetta “Intrafada”, ossia della repressione che i gruppi armati palestinesi attuano al loro interno, nei confronti di persone ritenute non sufficientemente allineate o sospettate di collaborazione con persone od organizzazioni israeliane, di cittadini, esponenti politici che hanno denunciato la forte corruzione all’interno dell’ANP /Autorità Nazionale Palestinese), oppure di esponenti di altre religioni. Arresti, pestaggi ed uccisioni, sempre nell’ambito dell’Intrafada, sono stati condotti anche contro omosessuali , come denunciato da molte associazioni per i diritti umani e dalla comunità gay. Delle quasi 300 persone morte a causa dell’Intrafada, inoltre, 114 sono stati arbitrariamente giustiziati in seguito ad accuse di collaborazionismo. All’interno dell’Intrafada, inoltre, sono da annoverare gli episodi di violenza contro le donne; la maggior parte delle donne palestinesi, infatti, non lavora e dipende economicamente dal marito. Molte non hanno il coraggio di denunciare i soprusi subiti, perché hanno paura delle possibili rappresaglie della loro stessa famiglia, in virtù di un “codice d’onore” la cui osservanza le espone a violenze e umiliazioni. La donna che subisce una violenza sessuale, infatti, è ancor più colpevole dello stupratore. Secondo simili codici, ad esempio, è stato possibile per un killer, ancora anonimo, uccidere Layla Kbeila, una sessantanovenne di Rafidia colpevole di aver allevato un figlio così “impudente” da rifiutare il matrimonio con la figlia di un potente locale. La situazione, in questi casi, è aggravata dal fatto che i delitti d’onore, secondo la legge palestinese, non sono perseguibili, essendo l’omicidio, in più di un caso, considerato come legittima difesa. Stentano ancora, purtroppo, i segnali di miglioramento o di ribellione da parte della società civile palestinese al riguardo: da un sondaggio commissionato da due centri di ricerca palestinesi (Society for the Advancement of the Palestinian Working Woman e il Palestinian Center for Public Opinion Polls), risulta che oltre il 50% dei Palestinesi ritiene giusto che il marito picchi la moglie nel caso si senta offeso nella sua virilità, e che il governo non debba intervenire in caso di abusi e violenze interne alla famiglia, mentre più del 70% pensa che le donne non debbano lavorare, bensì badare alla famiglia Un altro motivo di preoccupazione per molti palestinesi è il comportamento violento nei confronti dei dissidenti che auspicano un’Intifada diversa e liberata dalle frange più radicali ed estremiste, o dei giornalisti palestinesi che denunciano le storture e le degenerazioni della lotta, la corruzione di molte istituzioni o i problemi di ordine sociale e civile che spesso si manifestano nei territori controllati dell’ANP. Le violenze a carico di semplici cittadini (contadini, operai, donne), politici o giornalisti sono state documentate e numerose, senza che si sia intervenuti decisamente per bloccare simili episodi. La paura, in molti casi, di essere accusati di collaborazionismo e di andare incontro a processi sommari è ancora molto forte. 8


2. Testimonianze per unire

La “lotta” per esportare l’olio d’oliva Circa metà del raccolto palestinese di olive non può essere venduto, a causa dell’effetto combinato dell’occupazione israeliana e della scarsezza di investimenti a lungo termine. La situazione è così seria che la raccolta non si effettua nelle zone dove le restrizioni ai movimenti e i blocchi abbondano. Inoltre, parte dell’olio ottenuto si deteriora a causa di problemi legati al trasporto, all’immagazzinamento e alla vendita, soprattutto sul mercato interno. Si tratta di uno dei maggiori problemi nei territori palestinesi, dove circa due terzi della popolazione ha un reddito prevalentemente agricolo. A causa di ciò, alcuni gruppi di olivicoltori stanno tentando nuove soluzioni, attraverso la ricerca di nuovi mercati: si stima infatti che delle 25.000 tonnellate di olio prodotte annualmente, circa 10.000 restino invendute (cioè il 40% circa della produzione). L’immagazzinamento è uno dei problemi più seri, perché, se protratto a lungo, porta al progressivo inacidimento del prodotto, fino a renderlo invendibile. Una delle cause principali delle difficoltà che affliggono gli agricoltori palestinesi, spiega Hadas Lahav di Sindyanna, è stata la progressiva chiusura dei mercati internazionali, soprattutto arabi, in seguito alla Guerra del Golfo del 1990-91. A questo aspetto, inoltre, va aggiunta la richiesta di livelli qualitativi più elevati e di tempi di consegna rigorosi (e brevi) da parte degli importatori. La produzione è inoltre ostacolata dalla polizia israeliana, che procede di frequente alla confisca di molti terreni coltivabili e alla restrizione nell’utilizzo dell’acqua necessaria per l’irrigazione. Questo difficile quadro economico è stato ulteriormente aggravato dalla costruzione del muro di separazione, che ha privato gli agricoltori palestinesi di ulteriori 55 milioni di metri cubi d’acqua annuali, secondo le stime effettuate da Judah Jamal, Direttore Generale del PARC (Palestinian Agricultural Relief Committees), il più grande raggruppamento di agricoltori palestinesi. Judah proviene da una famiglia di agricoltori di Beit Surik, zona posta intorno a Gerusalemme (famosa per le sue pesche e olive) ma divisa da ben tre fasce di sicurezza costruite dall’esercito israeliano: il Muro di recente costruzione, la Linea Verde del 1967 e il muro intorno alla città di Gerusalemme. Tutta questa serie di barriere rende praticamente impossibile la coltivazione delle terre, soprattutto quelle maggiormente produttive. Jamal elenca inoltre le restrizioni che complicano la normale attività agricola in alcuni territori: coprifuoco, li9


mitazione dei movimenti, continui controlli su tutti i beni spediti oltre i territori della striscia di Gaza e della West Bank (Cisgiordania). I fattori sopra elencati, conclude Hadas, forniscono le ragioni per cui l’olio palestinese, sebbene di ottima qualità, sia quasi sempre più costoso di quelli prodotti in altri paesi mediorientali, come Giordania e Siria, per non parlare del confronto con i produttori europei, sostenuti dai sussidi comunitari. Se si considerano, infine, le piccole dimensioni delle aziende agricole palestinesi, la capacità di competere sui mercati internazionali (compreso quello israeliano) è piuttosto bassa. La strategia che i gruppi di agricoltori palestinesi stanno portando avanti consiste pertanto nel rivolgersi a mercati che, pur richiedendo una buona qualità, non sono così esigenti in termini di bassi costi e consegne in tempi veloci. Uno di questi canali è costituito dalla vendita a gruppi di solidarietà, come quelli del commercio equo, che acquistano i prodotti palestinesi anche come forma di sostegno politico. La determinazione, da parte dei gruppi di commercio equo, nel sostenere i prodotti palestinesi, favorisce anche la risoluzione di problematiche strettamente legate alle considerazioni prima effettuate (consegne in tempi lunghi, prezzo, controllo della qualità, ecc.). Parlando, più in generale, di prodotti agroalimentari e derivati, è da registrare la positiva esperienza di alcuni gruppi di produttori (tra cui PARC, Sindyanna, UAWC e YWCA), che da qualche anno hanno avviato relazioni con organizzazioni di commercio equo e solidale europee e statunitensi. In Italia, in particolare, ricordiamo l’esperienza di CTM, (cous cous, datteri e mandorle di PARC), Chico Mendes (saponi all’olio di oliva di Sindyanna), e LiberoMondo (olio di oliva, olive e maggiorana di Sindyanna e cous cous di YWCA). Queste iniziative, se restringiamo il campo di osservazione ai dati dell’olio, permettono di commercializzare circa 1000 tonnellate di olio di oliva (il 6-7% circa del fatturato totale): dal punto di vista della quantità la cifra non è elevata, ma se consideriamo la qualità il risultato è sicuramente importante. Oltre il 90% dell’olio esportato attraverso il mercato solidale, infatti, è biologico, e comunque tutta la produzione è caratterizzata da una qualità media

Checkpoint a Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah. 10


elevata. Un altro esempio concreto ed evidente di come alla responsabilità sociale si possa affiancare un alto livello di qualità. Nell’immediato futuro, è atteso un incremento della quantità esportata attraverso il fair trade, grazie agli ottimi andamenti delle vendite nell’ultimo triennio e alla richiesta crescente di olio palestinese. Nel lungo periodo, ovviamente, la produzione di olio di oliva, così come di tutti gli altri prodotti agricoli trasformati, dipenderà dalla risoluzione dei nodi politici e sociali attualmente presenti in Palestina. Solo in questo modo sarà possibile affrontare i grandi problemi che affliggono l’economia palestinese: scarsità di investimenti, incertezza del quadro politico ed economico, barriere alla produzione e commercializzazione.

L’olio di Qaffin “Ogni cosa in Israele ha un significato politico, anche l’olio di oliva”- sostiene Hadas Lahav, una delle animatrici del progetto di Sindyanna – “Quando mettiamo quest’olio in tavola non dimentichiamo il duro lavoro che c’è dietro. Per un agricoltore palestinese ogni goccia di olio significa anche umiliazione, sopruso, fatica”. Riportiamo qui di seguito la situazione dei produttori di Qaffin (un villaggio dell’estrema zona nord-occidentale della Cisgiordania, con cui Sindyanna è in contatto), così come la stessa Hadas l’ha vissuta. Nell’agosto del 2003, quando visitammo Qaffin, si poteva ancora oltrepassare il gigantesco solco che segnava il corso del futuro muro. Ora esiste una sola porta, ad ovest del villaggio, attraverso la quale possono unicamente transitare i proprietari di terreni agricoli che siano muniti di lasciapassare fornito dal DCO (District Commande Office). L’abbandono delle colture degli ultimi due anni è evidente nei terreni ad ovest del muro, che si sono riempiti di rovi e spine. Quest’anno si è registrato un buon raccolto, ma la gente di Qaffin può approfittarne solo in piccola parte. Dei 1500 abitanti che hanno richiesto il permesso per entrare nelle loro legit-

Ulivi dei produttori di Sindyanna. 11


time terre, infatti, la metà si sono visti rifiutare la domanda. I respinti si sono dovuti rivolgere ai fortunati possessori del permesso, affinché provvedessero al raccolto in loro vece, riuscendo in questo modo a recuperare parte del raccolto. Quasi metà delle olive, infatti, precisa Taisar Harasheh, capo del Qaffin’s Local Council, si perdono in anticipo, a causa dell’incuria dovuta alla impossibilità di attendere alle normali pratiche agronomiche; un’altra parte viene rubata oppure distrutta a causa del pascolo incontrollato di mandrie e greggi. Per la raccolta delle olive, il DCO concede un permesso di cinque giorni, quando, invece, occorrerebbero settimane di lavoro. Durante tale operazione, due soli trattori possono attraversare il muro, per trasportare i frutti frettolosamente raccolti. Simili limitazioni sono nocive, perché allungano il tempo di trasporto dei frutti; il tempo, infatti, è un fattore cruciale nella lavorazione delle olive. Dopo la raccolta, è estremamente importante eseguire la pressatura nel minor tempo possibile: quanto maggiore sarà l’attesa, tanto minore sarà la qualità dell’olio che si ottiene, a causa soprattutto, dell’aumento del livello di acidità. Con due soli mezzi a disposizione, le olive dovranno trascorrere più tempo a terra. Queste considerazioni, purtroppo, non contano molto per l’esercito di occupazione. Continua Harasheh nel suo racconto: “Ricevemmo la promessa da parte dei militari che i permessi sarebbero stati rilasciati per almeno metà anno, dato che gli appezzamenti richiedono cure non solo durante la raccolta. In questo modo sarebbe stato possibile seguire buona parte delle fasi della coltivazione. Pochi giorni dopo, un funzionario del DCO, Rabeh Maklada, annunciò che i permessi sarebbero stati annullati nel giro di due settimane, in quanto, secondo loro, la raccolta era già terminata e le persone avrebbero sfruttato questi permessi per lavorare in Israele”. Sempre secondo Harasheh, il tasso di disoccupazione in Qaffin è salito fino all’85% dopo la costruzione del muro. Prima, il 90% della forza lavoro era impiegata in Israele; ogni giorno, infatti, non meno di 3.000 lavoratori oltrepassavano l’altro lato della linea verde, per andare nei campi, nei cantieri edili e nelle fabbriche. Attualmente, non

Imbottigliamento dell’olio nel magazzino di Sindyanna. 12


più di 50 persone possono transitare, ma non attraverso la porta vicina a Qaffin, che è riservata unicamente agli agricoltori, bensì attraverso il checkpoint di Barta’a, molti chilometri più a nordest del loro villaggio. Un altro grande problema, aggiunge Hadas, è quello dell’acqua, necessaria non solo per le famiglie del villaggio, ma anche per la coltivazione dei campi. L’olio si ottiene da una varietà tipicamente mediorientale, la “Surri”, che riesce a compiere il suo ciclo vegetativo sfruttando l’acqua piovana. Se si potesse irrigare, tuttavia, il raccolto triplicherebbe e la qualità dei frutti, soprattutto in certi anni siccitosi, sarebbe sicuramente migliore. La zona nord della Cisgiordania è molto ricca di acqua, e sono attivi almeno due o tre pozzi per ogni villaggio. Molti di questi centri abitati, ora, sono finiti oltre il muro, in territorio israeliano, e in altri l’esercito ha distrutto la rete idrica, così da deviare il corso delle acque in direzione dei territori israeliani. Nella zona di Nablus, ad esempio, la gente è costretta a percorrere tre chilometri per avere un gallone d’acqua. Comprare l’olio di Qaffin, così come quello di tanti altri villaggi, è un’autentica sfida: i contadini dovranno lottare per ottenere il permesso del raccolto, mentre Sindyanna dovrà risolvere un’infinità di problemi, grandi e piccoli, per poterlo acquistare. La vendita dell’olio palestinese attraverso i canali del fair trade non è solo un fatto commerciale, è anche un messaggio di pace e lotta politica.

Keep Hope Alive “Mantenere Viva la Speranza” è lo slogan che contraddistingue la “Olive Tree Campaign”, la campagna lanciata nel 2002 da YWCA of Palestine per sostenere i contadini palestinesi che hanno visto seriamente compromessa la loro attività in seguito alle confische dei terreni e alla distruzione degli uliveti. Uno degli obiettivi della campagna è il reimpianto di circa 50.000 piantine di ulivo in diverse zone dei territori occupati, grazie al sostegno di numerose associazioni ubicate in diversi paesi del mondo. Attraverso il reimpianto degli ulivi, i contadini palestinesi sono incoraggiati a non abbandonare la loro attività, continuando la conduzione dei loro appezzamenti con rinnovato spirito e con mezzi migliori (nuove piantagioni, migliori conoscenze tecniche e agronomiche e nuove opportunità commerciali per la vendita dei loro prodotti). Nei mesi di febbraio e marzo del 2004, si sono svolUna produttrice di cous cous di YWCA of Palestine. 13


te due giornate (“Olive Tree Planting Days”) che hanno visto la partecipazione di numerosi contadini. Strettamente connessa con questa grande iniziativa è la “Al-Ard A-Taibeh Campaign” (campagna per una buona terra), finalizzata alla valorizzazione del patrimonio agricolo palestinese e alla conservazione delle terre e dell’ambiente. Anche in questo caso, i beneficiari sono i piccoli conduttori agricoli, sostenuti attraverso specifiche azioni di marketing volte a migliorare la conoscenza e la vendita dei prodotti delle terre palestinesi. Le campagne si inseriscono in un’attività a più largo respiro che YWCA ha intrapreso, da alcuni anni, per mantenere viva la speranza, nei palestinesi, di vivere in uno stato palestinese finalmente libero e riconosciuto da Israele e da tutto il mondo.

Za’atar Express “Za’atar” (Mayorana syriaca), l’antico issopo biblico, è una pianta erbacea diffusa e apprezzata in alcune zone del medioriente, del nordafrica e dell’Europa balcanica. In Israele e Palestina, con il nome di za’atar si indica anche una spezia che deriva dalla mistura di maggiorana, timo, sumac, semi di sesamo tostati e sale, a volte anche in combinazione con olio di oliva. Utilizzata comunemente nella cucina mediorientale, la za’atar viene raccolta in tutto il territorio palestinese. LiberoMondo ha avviato, dal 2004, l’importazione di questa erba per la preparazione, in miscela con altre essenze, di una tisana molto apprezzata. Il racconto seguente testimonia ciò che i produttori e l’organizzazione Sindyanna devono affrontare per commercializzare questo semplice prodotto.

Coltivazione di za’atar (maggiorana) nella zona di Jenin. 14


Dalle colline che sovrastano il villaggio di Qaffin (nella parte nord-occidentale della West Bank) possiamo notare come la gran parte dell’area sia cambiata negli ultimissimi anni. Il muro di separazione, fiancheggiato da una brutta strada, ha cambiato la topografia del luogo, per non parlare della sua demografia. Sono stati strappati, qui, circa 1350 acri (poco meno di 550 ettari) dedicati alla coltivazione degli olivi, pari a circa il 60% della locale superficie agraria utile. Le ruspe hanno tirato giù centinaia di ulivi secolari, da sempre fonte di sostentamento per molti piccoli coltivatori. La gente del villaggio non può oltrepassare il muro dall’unica porta esistente, se si eccettuano i pochi agricoltori che hanno il permesso per andare a coltivare, solo in determinati giorni, i loro appezzamenti; per varcare il muro, infatti, è necessario salire molti chilometri più a nordest e raggiungere il Barta’a Checkpoint. I Checkpoints Abu al-Abed, che guida la “Fruit Trees Association” nell’area di Jenin, è riuscito ad incontrarci al Barta’a Checkpoint. Ci siamo conosciuti nell’ottobre del 2004, in occasione dell’incontro mondiale dei piccoli produttori di “Terra Madre”, organizzato dallo Slow Food a Torino. La pioggia battente non è certamente favorevole per individuare i ckeckpoints della West Bank. Inoltre, è sabato, e i controlli sono notevolmente rallentati e i soldati più rilassati rispetto agli altri giorni. Ci siamo sbagliati nel supporre che il Barta’a Checkpoint fosse vicino all’omonimo villaggio. Siamo passati attraverso il villaggio senza essere ostacolati, continuando su una strada in direzione sudest. Ad un certo punto abbiamo pensato di esserci persi: nessun checkpoint, niente soldati, solo una strada nel mezzo del nulla. Improvvisamente, a una curva, appare la fascia di separazione e, in fronte a essa, il checkpoint. Non il Barta’a Checkpoint, bensì un posto di blocco improvvisato dalla polizia. Due poliziotti annoiati e tre auto in attesa del controllo. L’ufficiale esamina i nostri documenti e ci fa cenno di passare con la mano. Gli chiediamo dove sia il Bartha’a Checkpoint e ci dice di proseguire per circa due chilometri, lungo la brutta strada che corre a fianco del muro. Barta’a Checkpoint assomiglia a una fortezza, circondata da steccati, porte e torrette di guardia. Decine di soldati pronti a scattare, pattuglie su entrambi i lati della porta, nel tentativo di regolare l’incessante flusso di traffico di veicoli e pedoni. Un militare controlla i nostri documenti e sembra piuttosto felice di incontrare un’israeliana. “Shalom”, dice, con un sorriso smagliante, “Benvenuta!”. Con un gesto amichevole, ci sconsiglia dal tornare indietro per mezzo della stessa via da cui proveniamo. Quella strada, dice, è solo per i Palestinesi; la polizia (i due che abbiamo prima incontrato), si apposta lì per fare multe, a chiunque tenti una scorciatoia che porti al villaggio di Barta’a. La porta principale del checkpoint è riservata ai veicoli, molti dei quali appartenenti a israeliani che vanno e vengono dal centro abitato. La strada è larga quanto due corsie di un’autostrada, sembra di essere su un altro pianeta. Dietro c’è un’altra porta, uno stretto buco, in realtà, per i pedoni palestinesi, la maggior parte donne e bambini in attesa di essere controllati. Un sorridente Abu al-Abed ci accoglie dall’altra parte del muro. Ha lasciato la sua 15


auto un po’ più in là, perché non ha il permesso di passare. Ha già parlato con i soldati, e ha già capito, purtroppo, che per nessuna ragione al mondo gli permetterebbero di consegnare a noi la merce che ha portato: 60 borse di “za’atar” (il biblico issopo), raccolto e confezionato dalle donne della cooperativa di Jenin. “Non vi possiamo aiutare” dice un affabile soldato che ci consiglia, però, di andare al Jalameh Checkpoint: “È un cargo terminal super moderno… Perché sono stati investiti milioni per costruirlo? Esattamente per fare ciò che voi state chiedendo”. L’intricato caso della maggiorana… Non avendo altre possibilità, non ci resta che prendere la strada principale e tornare in Israele. Dopo mezz’ora di guida attraverso Wadi Ara, raggiungiamo il Jalameh Checkpoint, che è chiuso di sabato. I soldati, un po’ annoiati e sonnacchiosi, sono spiacenti, ma non hanno il numero di telefono dell’ufficiale incaricato. Un funzionario del Ministero dell’Agricoltura volenteroso ci informa che il checkpoint è aperto solo dalla domenica al giovedì e che ogni visita deve essere concordata in anticipo. Ad Abu alAbed non resta che tornare a Jenin con le 60 borse di za’atar… Trascorrono due settimane, unitamente a dozzine di telefonate fatte per contattare impiegati e “persone esperte in materia”, in ogni luogo possibile. Il servizio informazioni telefonico ci fornisce un numero che porta a una impiegata piuttosto irascibile della prigione di Kishon, anche conosciuta con il nome di Jalameh. Non riesce a capire che cosa diavolo vogliamo dalla sua vita… Un caso di omonimia! Proviamo, a questo punto, a fare un tentativo con i commercianti che trasportano merci da Israele alla West Bank: ci forniscono il numero di un funzionario, di nome Bassam, in servizio proprio al Jalameh Checkpoint. Una giornata intera di chiamate telefoniche e messaggi ci conduce, infine, a una surreale conversazione con la persona responsabile della principale arteria di commercio tra West Bank e Israele: “Non è necessario che facciate nulla” – mi dice - “Lui (Abu al-Abed) è l’unico che debba ottenere un permesso”. “Ma proprio a lui hanno detto che noi (Sindyanna) dobbiamo richiedere un permesso. “No, è un bugiardo, non gli credete!”. Ricapitolando, per poter esportare della maggiorana, Abu al-Abed (pur senza essere un bugiardo, perché a lui era stato detto effettivamente così) deve richiedere un permesso al

Mercato di Jenin . 16


Ministero Palestinese dell’Agricoltura. Per poterlo ricevere, tuttavia, deve prima provare che la maggiorana non sia stata raccolta allo stato selvatico (è una pianta protetta in Israele, sebbene sia una tradizione molto sentita, in Palestina, andare a raccogliere za’atar nelle zone collinari, dove, peraltro, è diffusissima). Per dimostrare questo, deve presentare una dichiarazione degli stessi agricoltori che l’hanno coltivata. Presentata la dichiarazione e ottenuto il permesso, dovrà recarsi all’Ufficio Relazioni del DCO (District Commander’s Office), per ottenere il numero del libretto di circolazione del veicolo che dovrà incontrare (ossia il mio), unitamente all’identità e al numero di patente dei guidatori (cioè io). Abu-al Abed fa diligentemente tutto questo e, nel giro di 24 ore, riesce a ottenere il permesso. Il Cargo Terminal al Checkpoint Jalameh Ci accordiamo per incontrarci al Jalameh Checkpoint di lunedì, alle 11.30. Visti i precedenti, porto con me un romanzo con un buon numero di pagine e un bel sacchetto di semi di girasoli da sgranocchiare. Con mio sbalordimento, ogni cosa procede come un meccanismo a orologeria! I soldati controllano i miei documenti e in pochi minuti sono dentro con la mia auto. Il terminale del checkpoint è a dir poco surreale: non meno di 25 passaggi, muniti di rampe e porte a comando idraulico, e nessuno in vista. Successivamente, noto un veicolo isolato al termine del Passaggio n. 3, nel varco palestinese: mi fermo davanti a esso, restando tuttavia sul versante israeliano. Quattro addetti del terminal gettano le borse di za’atar da questo veicolo nel mio. Un gruppetto di soldati attendono alla sicurezza dell’operazione, che si compie in un batter d’occhio. A questo punto sorge un altro problema: l’auto di Abu al-Abed ha il permesso, ma non lui, per cui non può entrare e incontrarmi. La situazione si sblocca solo se sarò io a chiedere direttamente ai soldati di lasciarlo entrare per ricevere il pagamento della za’atar. In fondo al terminale c’è una sala munita di barriere in fibra di vetro. Abu al-Abed ed io ci veniamo incontro, procedendo tutti e due verso quella sala. Una donna soldato alquanto annoiata ci sorveglia mentre entriamo nella sala in fibra di vetro. Missione compiuta! Abu al-Abed è visibilmente soddisfatto: “Grazie ad Allah, oggi ogni cosa si è svolta per il meglio e con ordine, senza alcun tipo di problema!” Solo una cosa lo preoccupa: come potranno i produttori palestinesi raggiungere e conoscere i loro clienti israeliani, ora che l’occupazione ha scavato questo fossato tra loro?

Sono solo saponette… Le saponette all’olio di oliva che Sindyanna propone alle botteghe del commercio equo europee (e non solo!) provengono da piccoli produttori situati nella zona di Nablus, nella parte settentrionale della Cisgiordania. Il sapone viene prodotto in piccoli laboratori artigianali e poi trasportato al magazzino di Sindyanna di Majd al-Krum, in Galilea. Molto semplice, no? Ecco cosa deve fare M.T. , artigiano palestinese di Nablus, per poter produrre e vendere le sue saponette. M.T. rappresenta, nella sua famiglia, la terza generazione di produttori di saponi. Da quando l’esercito israeliano ha occupato la città di Nablus (città simbolo della resisten17


za palestinese, laboratorio della seconda Intifada e zona di reclutamento di alcuni terroristi “kamikaze”), imponendo il coprifuoco, per lui è diventato molto difficile continuare la sua attività. Non appena il coprifuoco cessa, M.T. corre al suo laboratorio, posto in un sobborgo della città. Nel 2004, durante uno dei periodi più difficili e drammatici dell’occupazione, i locali sono stati “visitati” dai militari, che hanno sfondato la porta di ferro, rovesciato scatole e barili, versato materiale sul pavimento, sequestrato l’hard disk del computer, danneggiato il macchinario necessario alla produzione e orinato dappertutto; numerose latte di olio di oliva, inoltre, sono state schiacciate dai carri armati. Il danno complessivo ammonta a circa 10.000 dollari, ma nessuno lo ricompenserà mai. Fin dal 1967, la piccola azienda che ha ereditato M.T. produce saponi, principalmente per il mercato israeliano, ma da qualche anno è estremamente difficile continuare a vendere agli israeliani: i compratori non vengono più a Nablus ed è estremamente difficile oltrepassare i confini della Cisgiordania per consegnare il prodotto. Per garantire la consegna al magazzino di Sindyanna ha escogitato un metodo “underground”, che illustriamo brevemente. Quando il coprifuoco cessa, e comunque c’è una pausa nei combattimenti, l’olio, che proviene da piccoli coltivatori delle colline circostanti, viene venduto di contrabbando a M.T. Il sapone viene prodotto, tagliato e sistemato nei cartoni. Successivamente, sfruttando un periodo di relativa tranquillità dell’area, si provvede all’invio. La fase del trasporto è molto delicata, e può richiedere molto tempo. Durante una spedizione, a causa di un attentato condotto da un terrorista kamikaze, Nablus venne sottoposta sotto stretto coprifuoco. Il trasportatore, per portare il sapone al vicino villaggio di Deir ASharaf, impiegò quattro ore anziché i dieci minuti normalmente necessari a compiere quel tragitto. Per evitare i posti di blocco, infatti, l’autista tentò una difficile e dissestata strada attraverso le colline circostanti. A causa dei salti dovute alle buche sul percorso, circa 2.000 confezioni (delle 24.000 totali) si ruppero. Il camion in attesa al villaggio di Deir Al Sharaf, proveniente da Gerusalemme Est, dovette attendere fino al giorno successivo per la partenza, a causa del ritardo.

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3. I prodotti

Olio di Oliva Dalla pianta... La pianta dell’ulivo (Olea europea) richiede, per vegetare e fruttificare, terreni profondi, acqua e sole. In particolare, il clima dev’essere mite, possibilmente con poche incursioni sotto lo zero termico, e asciutto; il terreno ideale è quello di medio impasto, con buona presenza della frazione sabbiosa; se tende all’argilloso, dev’essere dotato di buone condizioni per lo sgrondo dell’acqua; l’irrigazione, praticata soprattutto negli oliveti di recente costituzione, permette di superare la siccità estiva, evitando i principali effetti negativi a essa connessi: caduta dei frutti, rallentamento della maturazione e lunghi intervalli fra le annate pienamente produttive. Le piante irrigate in maniera regolare e razionale possono arrivare a raddoppiare il volume del frutto. Un’altra pratica agronomica importante per l’olivo è la potatura, che si effettua per pulire la pianta dai rami secchi o malati, sfoltire la chioma, soprattutto all’interno, e mantenere il sistema di allevamento adottato, armonizzando la capacità produttiva della pianta con l’ambiente circostante. La raccolta, eseguita normalmente tra ottobre e dicembre, può essere effettuata con diversi sistemi: “brucatura” (il più antico, vale a dire la raccolta a mano), “bacchiatura” (ossia scuotimento dei rami mediante lunghe pertiche) e raccolta meccanica mediante macchine che scuotono il tronco, provocando la caduta delle olive. La raccolta è, forse, la fase che più incide sulla qualità dell’olio di oliva; è importante, infatti, che le olive non cadano sul terreno, bensì siano raccolte in teli e avviate immediatamente alla spremitura: solo in questo modo, infatti, si potranno ottenere degli oli a bassa o bassissima acidità. Un altro fattore decisivo è il periodo della raccolta, che non deve corrispondere alla piena maturazione del frutto, bensì va anticipato all’inizio di questa, quando l’oliva presenta il massimo di fruttato e il minimo di acidità. ... al frutto... Le olive raccolte in Palestina appartengono prevalentemente alla varietà “Surri”, particolarmente pregiata per il suo aroma e il gusto spiccato. Si tratta di frutti (drupe) ovoidali, allungati, dal colore verde chiaro e dal nocciolo abbastanza grande. La maturazione avviene soprattutto in ottobre e novembre, mentre la raccolta, spesso effettuata con metodi tradizionali e in condizioni ambientali estremamente difficili, è finalizzata alla produzione di olio, che avviene mediante spremitura a freddo. Alcune varietà di olive “Surri” sono invece particolarmente indicate per il consumo diretto, in tavola. 19


Le olive dell’olio di Sindyanna provengono da piccoli coltivatori palestinesi presenti nella regione israeliana della Galilea e nella zona nord occidentale della Cisgiordania. Le olive raccolte vengono conferite ad alcuni frantoi della zona, per la spremitura. Per evitare intermediazioni, Sindyanna paga il prodotto lavorato direttamente ai produttori, e non al frantoio; quest’ultimo, infatti, si relaziona con gli olivicoltori. ... all’olio! L’operazione di estrazione dell’olio dalle olive si suddivide normalmente in quattro distinti passaggi: frangitura, gramolatura, spremitura e separazione acqua/olio. Durante la frangitura, la polpa e i noccioli delle olive vengono ridotti in pasta, mentre nella gramolatura quest’ultima subisce un continuo rimescolamento, così da favorire l’unione delle goccioline d’olio in gocce sempre più grandi, facilmente separabili dalla fase solida. La spremitura rappresenta la fase vera e propria dell’estrazione e porta alla separazione delle tre componenti della pasta, vale a dire sansa, acqua di vegetazione e olio. Il frantoio utilizzato da Sindyanna esegue la spremitura tramite pressione meccanica: la pasta, sistemata su dischi di fibra vegetale denominati fiscoli, viene pressata per circa un’ora, così da ottenere un mosto oleoso, composto da olio vero e proprio e acqua di vegetazione. La frazione solida che dopo la spremitura aderisce ai fiscoli è la sansa. Nel corso dell’ultima fase, grazie alla differenza di peso specifico, l’acqua si separa dall’olio. Dopo la separazione, l’olio viene lasciato decantare, così da permettere alle tracce di impurità eventualmente rimaste di depositarsi al fondo dei recipienti. Gli oli di oliva sono classificati commercialmente in base al processo di estrazione e al contenuto di acido oleico. La dizione “vergine” si riferisce al metodo di estrazione, che avviene per semplice molitura, mentre gli oli “raffinati” derivano da oli vergini che abbiano subito un processo di raffinazione.

I prodotti di Sindyanna: olive “Surri”, olio extra vergine di oliva, saponette all’olio di oliva. 20


L’olio extra vergine di oliva, il prodotto qualitativamente migliore, non deve presentare un’acidità superiore all’1% (dato espresso in grammi di acido oleico per 100 grammi di olio), mentre quello definito semplicemente “vergine” può averla fino al 2%. In base a percentuali differenti di acido oleico e alla presenza di olio raffinato, si ottengono prodotti di qualità via via inferiore, distinti in olio vergine di oliva, olio di oliva e olio di sansa di oliva. Esistono inoltre alcuni tipi di oli che non sono ammessi al consumo diretto, bensì si abbinano, in miscele, a quelli prima ricordati. Questa classificazione, quindi, evidenzia due aspetti fondamentali: - gli oli qualitativamente migliori sono quelli ottenuti solo con spremitura meccanica; - gli oli raffinati hanno subito una lavorazione chimica che ha compromesso la parte aromatica di quegli atti al consumo. L’olio palestinese di Sindyanna Si tratta di un olio extra vergine di oliva (le analisi di laboratorio hanno rivelato un tenore in acido oleico dello 0,76%). Le olive della varietà “Surri” conferiscono un aroma particolare all’olio di Sindyanna, rendendolo particolarmente indicato per condire insalate crude. L’olio di Sindyanna distribuito da LiberoMondo è arricchito dalla gamma degli aromatici: sei differenti preziose aromatizzazioni ideali in cucina per arricchire numerosi piatti. L’olio aromatico viene realizzato aggiungendo al nostro olio extra vergine d’oliva una serie di prodotti attentamente selezionati dalla Cooperativa “La Pietra Scartata” di san Clemente, nota a numerose Botteghe del Mondo per gli ottimi prodotti a marchio “La Madre Terra”: peperoncino, basilico, aglio, limone e salvia, infatti, vengono posti a macerare a temperatura ambiente in olio, a seconda del tipo che si desidera ottenere. L’olio in tavola Il valore calorico dell’olio è piuttosto elevato: 900 calorie ogni 100 grammi di prodotto. I grassi sono i più rappresentati (98-99%), mentre sono assenti proteine, carboidrati e colesterolo. Da segnalare la presenza delle vitamine E (19 mg/100g di olio) ed A (3mg). I grassi dell’olio di oliva sono costituiti soprattutto da trigliceridi. Gli acidi grassi si suddividono in saturi (15% circa del totale) e insaturi (85% circa). Gli acidi grassi insaturi dell’acido oleico sono rappresentati prevalentemente da tre frazioni: acido oleico (il più abbondante), linoleico e linolenico. L’acido linoleico è contenuto in proporzioni simili al latte materno, ed è per questo motivo che l’olio extravergine di oliva è indicato nell’alimentazione dei più piccoli. Nell’olio, inoltre, sono presenti acidi grassi polinsaturi essenziali, così denominati perchè l’organismo umano non può sintetizzarli e deve quindi assumerli attraverso la dieta. L’olio di oliva possiede numerose proprietà benefiche che è bene ricordare: riduce la percentuale di colesterolo Ldl; abbassa i rischi di occlusione delle arterie; riduce la pressione arteriosa; aumenta l’apporto di vitamine A - D – E; previene l’arteriosclerosi e l’infarto del miocardio.

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Cous Cous Mille e mille granelli, come la sabbia del deserto... La storia del cous cous si perde tra le dune e le montagne del Nord Africa, popolate dagli Imazighen, gli “uomini liberi”, i berberi che da millenni abitano le vallate del Maghreb. Con alcuni cereali coltivati (frumento, orzo, miglio e sorgo) già tremila anni fa, infatti, si preparavano delle miscele a base di acqua o latte denominate sekso, kskso, kuskus, kuski, secondo gli idiomi berberi. Gli arabi adottarono questo alimento base, introducendo alcune innovazioni, basate soprattutto sulla cottura a vapore, che portarono al cous cous odierno. Viaggiatori, mercanti e conquistatori diffusero il cous cous in molte città del Nordafrica, del Medio Oriente e del sud dell’Europa; il “kuskusu” (o sekso, kskso o kuski) divenne quindi un alimento mediterraneo, costituendo un vero e proprio ponte gastronomico tra differenti terre e culture. Il cous cous di YWCA La semola base dei cous cous viene preparata partendo da differenti tipi di farine: grano, mais (cous cous “Baddaz”) e orzo (cous cous “Belbola”). Nel laboratorio alimentare di YWCA, la produzione segue una procedura antica e capace di garantire un’ottima qualità. La farina di frumento si pone in un recipiente (quello tradizionale, chiamato “mafaradda”, è di terracotta) in cui si spruzza dell’acqua salata. Con le dita e il palmo della mano leggermente sollevato, si raccoglie e si sfrega con moto rotatorio veloce la semola, così da ottenere dei granelli che dovranno essere passati al setaccio, in modo da uniformare la dimensione; in lingua araba questo particolare movimento è denominato “ftel” e significa appunto “intrecciare, arrotolare”. Questa fase è la più importante di tutto il processo, perchè richiede pazienza e abilità, ed è da essa che dipenderà l’uniforme dimensione dei granellini di semola. La massa dei granelli così ottenuta si stende su una tovaglia, dove viene la-

La produzione del cous cous nel laboratorio YWCA di Gerico. 22


sciata asciugare per circa venti minuti; in seguito, essa viene passata al vaglio di setacci caratterizzati da dimensioni sempre più piccole, in modo da ottenere cous cous di differenti dimensioni. I granelli più grandi hanno, generalmente, la dimensione di un granello di pepe e vengono impiegati, unitamente a quelli di taglia media, per cucinare piatti a base di carne o pesce. I grani più piccoli, invece, sono solitamente impiegati per preparare dolci. Una volta pronto, il cous cous si lascia riposare per circa tre ore. La cottura a vapore successiva, in un tegame simile a uno scolapasta denominato cuscussiera, può durare mezz’ora (se il consumo è immediato) o un’ora (se sarà protratto nel tempo). Il cous cous in tavola Il cous cous è da sempre un esempio di tradizione e convivialità, e accomuna le cucine di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La maggior parte delle ricette tradizionali provengono dal Maghreb, l’Occidente del mondo arabo rispetto al Mashrek, l’Oriente. A tavola, tuttavia, ogni tradizione ha il proprio modo di consumarlo. I più esperti lo mangiano con le mani, prendendo un pezzo di carne o di verdure per formare una pallina con la semola; la tradizione ammette anche un cucchiaio, per servirsi. La preparazione e il consumo del cous cous sono frequentemente legate alla pratica religiosa, e un piatto di cous cous viene sempre offerto ai poveri, in occasione della “Sadaqa”, l’elemosina. Il cous cous è anche portatore di “Baraka”, la grazia divina, e per questo motivo, prima della preparazione, si dovrebbe pronunciare un’invocazione divina. Il cous cous, inoltre, è il piatto tradizionale del mezzogiorno del ve-

Il cous cous (bianco e integrale) di YWCA of Palestine. 23


nerdì e in occasioni particolari, come il ritorno dei pellegrini dalla Mecca. Per le comunità ebraiche originarie del Maghreb, il cous cous è il piatto per eccellenza del venerdì sera, il primo pasto dello Shabbat, giorno di riposo settimanale. La preparazione classica prevede semola con carne (di montone, pollo, agnello o manzo) e verdure, tuttavia esistono infinite “variazioni sul tema”, a partire dal pesce (famoso e prelibato il cous cous di pesce della provincia di Trapani). In Marocco, il condimento non è molto piccante e si preferisce un miscuglio di spezie dolci, come la cannella, oppure miele e uvetta (retaggio tipico dell’Andalusia araba); in Tunisia si privilegia decisamente la variante con molto pomodoro e la salsa piccante harissa; se siete dei convinti sostenitori del world food, ossia della contaminazione dei sapori e della sperimentazione, avrete sicuramente “cous cous per i vostri denti”. In Francia lo propongono con anatroccolo selvatico e olive nizzarde, negli Stati Uniti con pomodori secchi e (pseudo) Parmigiano, mentre, in Australia, troverete cous cous e canguro! Tutte le virtù del cous cous 100g di cous cous cotto (puro) contengono circa 100 calorie, insieme a idrocarburi complessi, vitamine B e minerali. La stessa quantità di cous cous preparato con farina integrale contiene anche 3 Kg di fibra e quantità significative di fosforo, potassio e zinco. Il cous cous sta diventando sempre più popolare come alimento versatile e a basso contenuto di grassi, al punto che si trova abbinato, precotto, in combinazioni alimentari insolite. Sono in fase di sperimentazione tipi di cous cous a base di avena miscelata con olio di soia, olio di oliva e olio di pesce, oppure con riso, avena e mais. Ci si discosta un po’ dalle ricette tradizionali ma ne beneficia notevolmente la salute, riducendosi sensibilmente il colesterolo, il tasso glicemico e il rischio cardiaco.

Za’atar L’issopo citato dalla Bibbia è la Za’atar, una pianta erbacea strettamente imparentata con la maggiorana, dai fusti esili e raccolti in ciuffi; fornisce foglie che, opportunamente seccate, costituiscono uno degli aromi più diffusi nella cucina mediorientale in genere, essendo uno degli ingredienti base dello za’atar, miscela di spezie utilizzata per accompagnare e insaporire molti piatti. Spesso coltivata accanto all’ulivo e al mandorlo, rappresenta, insieme a questi, un elemento inconfondibile della campagna palestinese. Una spezia in cucina Majorana syriaca (classificata anche come Oryganum majorana syriaca) è una specie diffusa soprattutto nelle regioni mediorientali che si affacciano sul mediterraneo; particolarmente rustica, è in grado di crescere in terreni poco profondi e poveri e di sopportare forti escursioni climatiche (resiste fino a –15°C.). Cresce in cespugli bassi e fitti (fino a 60 cm di altezza), presenta foglie grandi ovali verde-grigio, particolarmente aromatiche, e fiori bianchi tra giugno e agosto. 24


Le foglioline vengono raccolte staccandole, soprattutto in primavera, da cespugli coltivati oppure allo stato spontaneo. Opportunamente essiccate, possono essere utilizzate come singolo elemento aromatizzante o, più frequentemente, in miscele formate da sesamo tostato, timo essiccato, sumac in polvere e sale. Nello za’atar, la maggiorana deve essere perfettamente essiccata e presentarsi in proporzioni ben definite rispetto agli altri ingredienti. Per ogni parte di maggiorana, infatti, occorrono tre parti di sesamo tostato, due di timo e mezza di sumac. L’impiego dello za’atar è piuttosto versatile, ma è sul pollo e alcuni formaggi, tipo feta, che i risultati saranno eccellenti, soprattutto se accompagnati da pita (il pane libanese basso e soffice, molto indicato per raccogliere il cibo) e un filo d’olio. La maggiorana di Sindyanna, importata da LiberoMondo, ha dimostrato di essere ottima nella preparazione della tisana “Dopo pasto”, in miscela con finocchio, menta piperita e salvia. La maggiorana “za’atar”, infatti, si rivela efficace per rimediare ad una digestione lenta e difficile e per riportare equilibrio all’organismo dopo una giornata intensa e stancante.

Piante di za’atar, il biblico issopo, condimento base della cucina palestinese. 25


Le saponette Il sapone all’olio d’oliva di Sindyanna è prodotto in un laboratorio della città di Nablus, mediante l’utilizzo di ingredienti molto semplici: olio d’oliva, acqua e idrossido di sodio. Questa formula rende la pelle morbida, garantendo allo stesso tempo un’efficace pulizia e protezione. Grazie alle sue proprietà, il sapone di Sindyanna è indicato anche per pelli sensibili e delicate (come, ad esempio, quelle dei bambini). Il sapone all’olio d’oliva viene prodotto da artigiani della città di Nablus (Territori Palestinesi), secondo metodi tramandati da generazioni. Nei laboratori, il sapone viene suddiviso nel tradizionale formato quadrato da 120g, in attesa della spedizione al magazzino Sindyanna di Majd al-Krum, dove, dopo un viaggio avventuroso, viene lasciato asciugare e, infine, confezionato ed etichettato.

Confezionamento delle saponette nel magazzino di Majd al-Krum. 26


4. I Produttori

Sindyanna of Galilee Sindyanna of Galilee è un’organizzazione no-profit, sorta nel 1996 nel villaggio di Majd al-Krum (territori occidentali della Galilea) dall’iniziativa congiunta di un gruppo di donne arabe ed ebree e con l’obiettivo di sostenere alcune produzioni agricole (con particolare riguardo all’olivicoltura) in una regione fortemente provata da conflitti, ingiustizie e soprusi quotidiani. Il problema principale a cui si cerca di dare risposta è il recupero e la salvaguardia delle terre conquistate e confiscate dal governo israeliano, mantenendo così un’attività economica importante per molte famiglie, con particolare riferimento al lavoro delle donne. Un altro obiettivo estremamente importante è la creazione di momenti di lavoro comune fra arabi ed ebrei.

Hadas e Zippora (Sindyanna) in visita alla Cooperativa LiberoMondo.

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Sindyanna è nata grazie all’appoggio del WAC (Workers Advice Center, Ma’an in arabo), un sindacato molto attivo in Israele, con sedi operative in Galilea, Jaffa e Gerusalemme Est. Il WAC si propone soprattutto di fornire supporto e assistenza ai lavoratori meno organizzati e difesi (lavoratori irregolari, con contratti a termine, disoccupati, immigrati…). Il WAC, inoltre, fornisce consulenze per quando riguarda la ricerca del lavoro, gli aspetti legislativi e i diritti dei lavoratori; vengono inoltre organizzate attività di scolarizzazione e ricreazione per bambini e ragazzi (campi scuola, campi estivi, ecc.). Il WAC, in questi anni, è stato attivamente impegnato in campagne a difesa dei diritti e del lavoro del popolo palestinese e a sostegno dell’integrazione della popolazione araba nella società israeliana. A causa di questa attività, il WAC ha avuto più di un problema con l’attuale governo israeliano. Sindyanna, attualmente, è gestita da due donne palestinesi, Maryam e Samya e da una donna ebrea, Hadas. La sede dell’associazione è a Jaffa (vicino ai locali del WAC), mentre il magazzino per il ricevimento dei prodotti e la spedizione si trova a Majd al-Krum. Il nome “Sindyanna” significa “quercia” in arabo e rappresenta, per la sua forza e longevità, un albero simbolo in Galilea. La parola “Sindyanna” evoca inoltre la relazione strettissima che esiste tra gli abitanti di Galilea e la loro terra, come ricorda Samya Na’amneh, una donna palestinese impegnata attivamente nel progetto: “I miei nonni avevano trenta alberi di olivo in cima a una collina. Avremmo voluto aiutarli a portare lì l’acqua, per mantenere in vita quelle piante, ma ora quella terra non appartiene più a loro, perché è stata confiscata dal governo; mi piace comunque ricordare l’importanza degli ulivi per la mia famiglia, perché permette a tutti noi di mantenere vivo questo legame tra la terra e la gente”. La popolazione dei territori occidentali della Galilea comprende circa 240.000 arabi e 50.000 ebrei. La principale attività agricola è legata all’olivicoltura, condotta soprattutto da piccoli coltivatori arabi. Buona parte della popolazione palestinese, tuttavia, cerca lavoro nelle cittadine più grandi della zona, tradizionalmente popolate da ebrei. La raccolta delle olive costituisce comunque una integrazione importante del reddito di molte famiglie, anche se la politica di confische ed espropriazioni portate avanti dal governo israeliano in quest’ultimo decennio ha notevolmente ridotto questa fonte di reddito. Dal 1980, una notevole parte delle terre coltivate della zona (circa 25.000 ettari) è stata posta sotto il controllo dell’amministrazione regionale del Misgav Council, tradizionalmente gestito da esponenti della popolazione ebraica. Questo ente ha la facoltà di confiscare terreni per usi pubblici, ma questi interventi raramente vanno a beneficio della comunità araba. Sindyanna intende dare un contributo allo sviluppo della coltivazione dell’olivo e alla commercializzazione dei prodotti a esso collegati (olio, saponette ed erbe aromatiche), nella speranza che l’esempio possa essere seguito da altre iniziative analoghe. Vengono inoltre organizzati dei “Days of work”, giornate di lavoro in cui

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si impiantano nuovi ulivi in terre incolte, così da contrastare il più possibile l’azione di confisca da parte del governo. Ogni anno, i piccoli coltivatori della zona possono comprare oltre 6.000 piantine di ulivo a metà prezzo. Il principale lavoro dell’organizzazione, tuttavia, risiede nella produzione e commercializzazione dell’olio di oliva, le due fasi in cui la gestione si rivela più problematica, considerata soprattutto la situazione generale, la difficoltà nel reperire nuovi mercati e la precarietà dei trasporti e della comunicazione. L’ambito di riferimento è quello del Fair Trade (l’organizzazione è socia IFAT) grazie al quale sono state avviate relazioni commerciali con numerose realtà noprofit europee, statunitensi e giapponesi. Sindyanna svolge, inoltre, un importante lavoro di consulenza riguardo alla produzione biologica e al miglioramento delle tecniche di coltivazione, attraverso il potenziamento di alcune pratiche agronomiche, fra cui l’irrigazione. L’olio viene acquistato da famiglie di piccoli olivicoltori arabi della Galilea e della zona nord-occidentale della Cisgiordania interessata dal passaggio del muro. Gli olivicoltori conferiscono il loro raccolto a un frantoio locale, che provvede alla spremitura e all’imbottigliamento. Sindyanna ritira l’olio pagandolo agli olivicoltori, i quali, a loro volta, si relazionano con il frantoio. In questo modo, la fase della trasformazione è seguita direttamente dagli olivicoltori, il frantoio esegue una semplice lavorazione in conto terzi e Sindyanna evita di pagare un intermediario. La maggiorana proviene da un gruppo di produttrici organizzate nella Women’s Cooperative for Cultivation and Production, appartenente al più ampio Collective Cooperative of Fruit Grower’s, operante nella regione di Jenin. Le socie produttrici della cooperativa (20, distribuite nei villaggi di Zbuba, Inza e Kufar Dan) sono specializzate nella coltivazione di piante aromatiche: maggiorana siriaca, maramia (una varietà di salvia) e camomilla. Molte fra esse producono anche cous cous, sapone di olio di oliva, labaneh (un delicato formaggio di latte di capra), jibnah (un altro formaggio) e vari tipi di marmellate. La coltivazione e i laboratori di trasformazione avvengono in ambito familiare, e per molte di esse rappresentano una fonte di reddito essenziale, date le difficili condizioni delle rispettive famiglie di appartenenza. Il sapone all’olio di oliva proviene da un laboratorio di Jenin, e viene rifinito e confezionato nel magazzino di Majd al-Krum.

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YWCA of Palestine YWCA è la sigla di Young Women’s Christian Association, organizzazione mondiale di ispirazione cristiana a sostegno delle donne, attiva in circa centodieci paesi. Le sedi nazionali sono composte a loro volta da vari gruppi locali, piuttosto indipendenti, ognuno operante con la struttura e i criteri di una ONG e con azioni rivolte alla promozione e allo sviluppo di programmi e servizi a sostegno delle donne e delle loro famiglie. Le finalità di YWCA sono rivolte alla promozione umana, sociale e professionale delle associate e alla loro piena integrazione nel contesto sociale palestinese, nel quadro di un impegno generale per la giustizia, i diritti umani e la pace. Tra i principali interventi sono da annoverare la formazione di formatori, l’accoglienza per giovani donne in cerca di casa, l’informazione sanitaria, l’avvio all’impresa e la gestione di progetti di sviluppo e promozione dei diritti delle donne. YWCA of Palestine ha una lunga storia di impegno a favore delle donne (fin dal 1918), costituendo un riferimento importante per la vita quotidiana delle proprie

Nazar (sezione YWCA of Palestine di Gerico) con una rappresentante del gruppo di produttrici di maggiorana del villaggio di Amza.

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associate, in un contesto sociale e politico ancora oggi molto difficile. La visione che persegue è quella di una Palestina riappacificata, basata su valori di democrazia, giustizia sociale, diversità culturale e sviluppo sostenibile. L’azione concreta è rivolta a migliorare le condizioni di vita e, più in generale, lo status delle donne mediante la partecipazione ad attività scolastiche, culturali e professionali. I punti fondanti dell’attività di YWCA of Palestine sono il sostegno all’autodeterminazione femminile e il rifiuto di qualsiasi forma di discriminazione, l’attuazione di processi democratici e partecipativi all’interno delle varie comunità, la promozione del volontariato e lo scambio di esperienze tra i vari gruppi, così da creare una rete comune di conoscenze. Attualmente, YWCA of Palestine è gestita da un consiglio generale e da tre consigli locali situati a Gerusalemme, Ramallah e Gerico. A questi, si affiancano i due centri gestiti nei campi profughi di Aqabet Jaber (vicino Gerico) e Jalazone (Ramallah). Nei cinque centri le attività, piuttosto differenziate, sono comprese in alcuni settori principali: formazione professionale permanente (“Vocational Training Center”), brevi corsi e workshops, attività a favore dei ragazzi, consulenza per l’avvio alla micro-impresa. La sede di Gerusalemme, la più antica, comprende un centro di formazione piuttosto articolato, spaziando dal training per formatori a corsi professionali per

Il campo profughi di Aqabet Jaber, dove vivono alcune produttrici di cous cous di YWCA.

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giovani donne, dalla gestione di un Centro per la Salute all’organizzazione di campi estivi e attività sportive per ragazzi. Tra i corsi di formazione, alcuni sono mirati allo sviluppo della micro-imprenditoria locale, mentre è attivo un laboratorio di produzioni alimentari. Il centro di Ramallah è sorto per appoggiare le attività svolte a Gerusalemme, soprattutto dopo le restrizioni al movimento decise dal governo israeliano come risposta alla seconda Intifada. Le attività dei corsi professionali sono partite nel 2001, coinvolgendo una ventina di studenti, per arrivare a oltre quaranta nel 2004. A Gerico, oltre ai tradizionali corsi di formazione, è attivo un progetto che, fornendo impiego stabile a sei donne, ha portato alla specializzazione nella produzione di svariate tipologie alimentari, tra cui confetture, erbe essiccate, formaggi, verdure refrigerate, miele, pasticceria tradizionale palestinese, succhi di frutta e cous cous. Nei campi profughi di Jalazone e Aqabet Jaber è attivo il “Multifunctional Community Based Center” finalizzato all’assistenza di donne e bambini. In ognuno di questi centri sono attivi un asilo nido, un programma di animazione per i ragazzi (tra cui i campi estivi) e uno per la creazione di micro-imprenditoria. Complessivamente, i progetti attuali possono essere così suddivisi: - corsi di formazione professionale nei centri di Gerusalemme e Ramallah, finalizzati alla gestione di attività di segreteria e ufficio, prevenzione sanitaria e gestione domestica. Per quanto riguarda l’area di Ramallah, i corsi hanno un’importanza particolare, in quanto rivolti ai pendolari che non possono più raggiungere Gerusalemme, in seguito alle restrizioni sulla mobilità imposta dal governo israeliano; - due asili nido situati nella zona di Jala e dei campi di Aqabet; - corsi di lingue, computer e parrucchiera presso i centri di Gerico, Ramallah e Gerusalemme; - attività informali educative e di ricreazione per donne e bambini nelle zone di Jala e Gerico (campi estivi, danza e attività sportive); - corsi di ricamo e artigianato presso Ramallah e Jala; - laboratori alimentari a Gerico, con vendita diretta dei prodotti; - campagne e iniziative di diverso tipo, fra cui “The Olive Tree Campaign”, “Keep Hope Alive e “Al Ard A-Taibeh Campaign”.

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