PROGETTO DIALETTO

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PROGETTO DIALETTO

A CURA DELLA 3 A DELL’ ISTITUTO COMPRENSIVO DI SCUOLA MATERNA, ELEMENTARE E MEDIA STATALE

“C. AMORE” MODICA Frigintini -RG-

A. S. 2001/2002 1


SOMMARIO PAG. 3 … Dedica della Scuola media di Frigintini al poeta modicano CARLO AMORE

“ 4 … Ritrattu ri l’auturi “ 5 … Progetto «DIALETTO»: “ 5… I lezione: a) la necessità di comunicare b) la storia complessa e avventurosa della lingua italiana c) i dialetti “ 9 … II lezione: a) la nascita della nostra lingua b) cosa succede nella storia, cosa succede nella lingua c) la Scuola Poetica Siciliana, alla Corte di Federico II di Svevia: 1– Un po’ di Storia 2– Nasce la Letteratura italiana in volgare “ 12 … III lezione: a) realtà e vitalità del dialetto b) il dialetto modicano c) Modica: dal mito alla storia “ 17… IV lezione: a) le Chiese b) le feste: tradizioni perdute e che sopravvivono c) «putiei, suttasulara,funnara e viscuttara» “ 30 … V lezione: a) valori legati al dialetto e ad un’epoca: « I cosi re muotti, cunsulu, riepitu, scogghiri, spitrari, a cruci supra o fasciuni, a cruci supra o pani» ecc. ecc. b) la posizione e la funzione della donna nella società siciliana c) proverbi, canti( d’amore, di gelosia, di sdegno), nenie, indovinelli, mottetti. “ 36 … VI lezione: a) il dialetto raffigurativo b) note di grammatica (a cura del Prof. P. Spadaro) c) conclusione “ 42 … Bibliografia

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Il Consiglio di Istituto Di questa scuola a CARLO AMORE (1768-1841) POETA E MEDICO MODICANO Volle intitolare “Nudd’uomu è buonu di st’immensi genti Si nun ha avutu qualchi educazioni. Lu saviu,lu dutturi,lu saccenti Nun si po fari senza istituzioni. Li vari figghi di la sucità, Sunnu lu pernu di la civiltà. (Da:”L’EDUCAZIONE”) (Cantu quartu) A. S. 1984/’85

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RITRATTU DI L’AUTURI Lu corpu granni ‘n’è,né picciriddu; La frunti giusta ,lu nasu tunnettu; Nigru lu ghigghiu,l,’uocciu,lu capiddu.; Larga la vucca ,culuri brunettu; Ciattu lu mentu,e ‘ncentru c’è un fussiddu; Scarsu di varva,di barbitti nettu; Un’anca zoppa,un vrazzu curtuliddu; Bassa la panza,e laricu di pettu. Di cori francu; nun adulaturi; Sinceru,onestu,affabili ri trattu; Contra l’ingiusti gran declamaturi: Di lu dinaru non curanti affattu, Di gloria amicu,ed avidu d’onuri… Chistu è lu miu veridicu ritrattu. CARLO AMORE

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Progetto “Dialetto” III A a. s. 2001/2002 I lezione: a) La necessità di comunicare b) la storia complessa e avventurosa della lingua italiana c) i dialetti a) La necessità di comunicare. Fin dai primordi l’uomo, come ogni essere vivente, a suo modo, ha la necessità di comunicare. La comunicazione avviene quindi prima con la gestualità e poi, piano piano “costruendo” suoni sempre meno inarticolati che vogliono indicare, per esempio, un oggetto, o una tale persona, o un modo di vivere o di rapportarsi col mondo esterno e coi propri simili. Nasce così la lingua. b) La storia complessa e avventurosa della lingua italiana La lingua italiana di oggi, per mezzo della quale comunichiamo con i nostri simili, ha alle spalle una storia complessa e avventurosa. Essa, nel corso della sua esistenza ha subito trasformazioni e adattamenti, prima di assumere la forma attuale, che comunque costituisce sempre una tappa nella sua evoluzione. La lingua italiana quindi racconta la sua storia attraverso le parole ed i documenti scritti. Una lingua è una realtà in continua evoluzione, che cambia nel tempo e nello spazio, per cui noi dobbiamo necessariamente riflettere sulle trasformazioni del nostro patrimonio linguistico, rendendoci conto che all’interno della nostra lingua c’è un “ mosaico “ di lingue in cui convivono l’una accanto all’altra varietà regionali e dialetti molto diversi tra loro. c) I Dialetti Ma, cosa sono i dialetti? I dialetti sono vere e proprie lingue usate in un’area ben determinata e circoscritta ed hanno origini antichissime, che risalgono ad un periodo della storia ancora precedente la fondazione di Roma, quando l’Italia era popolata soltanto da tribù locali. Ognuna di esse usava un proprio modo di esprimersi, diverso per molti aspetti da quello usato dalle altre tribù: Questi “idiomi”, su cui poi influì anche il latino, sono gli antenati dei nostri attuali dialetti. Come l’italiano quindi, i dialetti sono il frutto della diversa evoluzione del latino, presso ogni cultura. Non sono perciò lingue rozze e primitive, o da disprezzare, ma possiedono tutti, come l’italiano, un loro lessico (= parole di una lingua) ed una loro costruzione grammaticale. Essi non sono però usati spesso per scrivere, ma per comunicare oralmente. Possiamo dividere i dialetti in due grandi gruppi, che presentano profonde differenze:  dialetti italiani settentrionali che comprendono i dialetti: gallo-italici, veneti e friulani;  dialetti italiani centro – meridionali, che comprendono i dialetti: toscani, quelli mediani dell’Italia centrale, quelli meridionali intermedi e quelli meridionali estremi, a cui appartengono quelli siciliani.  caratteristiche a parte hanno, infine, il sardo ed il ladino con le loro varietà.

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I dialetti si conservarono a lungo nel tempo, favoriti dalla mancata unità politica e dalla particolare conformazione del territorio italiano. La conquista dell’unità d’Italia (raggiunta nel 1861 e conclusasi 1918 con l’annessione di Trento e Trieste) ed i profondi cambiamenti che si verificarono in vari settori del paese contribuirono al lento declino dei dialetti sostituiti dalla diffusione dapprima dei dialetti regionali, quindi dall’italiano regionale con le sue molteplici varietà. Sta di fatto che i variegati dialetti non solo esistono e permangono, ma sono ricchi di vitalità. Per molti anni si è cercato di livellare e unificare linguisticamente l’Italia , di darle una lingua comune, cercando di allontanare, staccare dalla vita quotidiana il dialetto locale, relegandolo a ceti sociali bassi. Quindi, lentamente, si è arrivato a una sorta d’abbandono dell’idioma regionale come strumento di comunicazione, e l’italiano è stato sentito come elemento di unificazione e di livellamento , oltre che di affermazione sociale. L’abbandono quindi e la forzata italianizzazione dei dialetti è stata dettata dalla convinzione che essi non fossero validi strumenti di comunicazione. Fortunatamente però la linguistica moderna ha recuperato l’importanza e l’efficacia del dialetto, inteso come varietà linguistica efficace e necessario e come tratto identitario di ogni popolo e di ogni cultura. I linguisti inoltre affermano che bisogna rivalutare i dialetti anche perché essi, come lingua parlata, sono nati prima della lingua scritta e sono quindi più diffusi.Quindi il dialetto non è, come molti superficialmente credono, una sottolingua ,una derivazione o, peggio, una corruzione della lingua nazionale, ma è una lingua autonoma e imparentata con quella ufficiale da una comune origine. Il dialetto quindi è strumento di comunicazione colorita e validissima e, principalmente, degno di stima come la lingua nazionale, che però offre la possibilità di comunicare con un numero molto maggiore di persone ed è quindi prevalente sul dialetto. Pensiamo, ad esempio, certo , in altro campo, all’ Euro, moneta europea, che ha soppiantato, in tutta Europa, le varie monete nazionali. Ma, quali i motivi per cui il volgare toscano, a partire dal XIV sec., cioè dal trecento, anzi, in particolare il dialetto fiorentino, ebbe la supremazia su tutti gli altri volgari locali, conquistando una posizione di privilegio in tutta la penisola? Le principali ragioni sono tre: I. In volgare toscano fiorentino compose il più grande poeta e scrittore di ogni tempo, Dante Alighieri, autore della Divina Commedia, detto appunto “padre della lingua italiana”. In volgare toscano composero altresì Francesco Petrarca, che compose il Canzoniere, e Giovanni Boccaccio, che scrisse, in prosa, le cento novelle che compongono il Decameron. II. Il volgare toscano era quello che aveva conservato più di tutti gli altri la matrice latina e poteva così proporsi legittimamente anche come lingua letteraria, giuridica, scientifica. III. La città di Firenze raggiunse in quegli anni grande importanza politica, sociale e culturale.

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II. lezione: a) La nascita della nostra lingua. b) Cosa succede nella storia, cosa succede nella lingua. c) La Scuola Poetica Siciliana, alla corte di Federico II di Svevia. a) La nascita della nostra lingua. Una lingua non nasce da un giorno all’altro, non è quindi possibile stabilire il momento preciso della nascita della lingua italiana anche perché in Italia si parlavano volgari diversi. Certo, per studiare i primi volgari italiani dobbiamo riferirci alla lingua scritta, perché della lingua orale non abbiamo alcuna testimonianza che possa aiutarci. Possiamo collocare la data di nascita del primo volgare italiano intorno al 700-800 d.C. . Risalgono infatti a quel periodo i più antichi documenti scritti fino ad ora trovati. Il più antico di questi documenti, databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX sec., è noto come “Indovinello Veronese”: Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba. Si tratta di un indovinello, la cui traduzione letterale è:<<Spingeva avanti a sé i buoi, arava bianchi prati, teneva un bianco aratro, seminava un seme nero>>. La spiegazione di questo indovinello è semplice: -i buoi spinti avanti sono le dita di chi scrive -i bianchi prati arati sono i fogli di pergamena, cioè le pagine -il bianco aratro è la penna d’oca usata dagli amanuensi per scrivere -il nero seme è l’inchiostro. L’importanza di questo testo sta nella duplice intenzione di usare una lingua comprensibile a tutti, cioè il volgare e di mantenere una forma espressiva grammaticalmente corretta, secondo il modello latino. E’ questo il più antico testo scritto in volgare italiano giunto fino a noi. Si deve arrivare all’anno 960 d.C. per avere il primo documento ufficiale interamente scritto in volgare che è un testo notarile: il “Placito di Capua”. Questi primissimi documenti in volgare italiano appaiono in una lingua ancora incerta che è ancora molto aderente al modello latino. Con il trascorrere degli anni e dei secoli il volgare si fa lingua autentica e viene usata per scopi diversi :per pregare, per parlare d’amore, per raccontare, per usi pratici. Abbiamo infatti documenti che risalgono agli anni che vanno dal 1.000 al 1.300 che trattano di argomenti svariatissimi e che mostrano una continua evoluzione del volgare verso forme espressive sempre più complete ed eleganti.

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b) Cosa succede nella storia, cosa succede nella lingua. Cosa succede nella storia.

Cosa succede nella lingua

- Il 25 Dicembre dell’anno 800 Carlo Magno è incoronato imperatore da papa Leone III. Nasce il Sacro Romano Impero. - 831: gli Arabi procedono all’occupazione della Sicilia,strappandola ai Bizantini. -Dal IX al XIII sec. Si organizza e si sviluppa il feudalesimo, la tipica organizzazione sociale del Medioevo. - Nei sec. XI e XII , nelle più importanti città dell’Italia centro- settentrionale , prende vita l’organizzazione politicosociale del Comune. - Nel 1181 nasce ad Assisi (Umbria) S. Francesco , il “giullare di Dio”, che scrive in volgare umbro il “Cantico delle creature” e che morrà nel 1226. - Alla fine del sec. XII a Federico II, in quanto figlio di Costanza d’Altavilla, spetta il regno di Sicilia.

- All’800 d.C. risale la data del più antico documento scritto in volgare , il cosiddetto “Indovinello veronese”. - Contatti culturali tra Italia, Bisanzio e gli Arabi, così la nostra lingua si arricchisce di nuovi vocaboli. - Del 960 d.C. è il primo documento ufficiale scritto totalmente in volgare: è un documento notarile, il "Placito di Capua". - Giungono in Italia molti “cantori” e poeti girovaghi, provenienti soprattutto dalla vicina Francia (trovatori, giullari, menestrelli, trovieri),che influenzano il gusto degli scrittori italiani. - Si diffonde la produzione scritta in volgare sotto forma di cantico e laude (preghiera) e di sacra rappresentazione. - Dal 1220 al 1250 , alla corte di Federico II di Svevia si forma in Sicilia la “ Scuola Poetica Siciliana”.

c)La Scuola Poetica Siciliana , alla corte di Federico II di Svevia 1) Un po’ di storia Federico II di Svevia , nato a Jesi nel 1194, in quanto figlio di Costanza di Altavilla, eredita il trono del regno di Sicilia (sec. XII). Figlio dell’imperatore Enrico VI di Svevia(a sua volta figlio di Federico I Barbarossa), Federico II fu affidato alla tutela del nobile romano Lotario Segni, divenuto a soli 37 anni papa, col nome di Innocenzo III, fautore della teocrazia, che sperava di fare del nobile rampollo un suo docile strumento.Lo incorona quindi re di Sicilia a soli tre anni e nel 1212 re di Germania, dopo la solenne promessa da parte di Federico II che mai avrebbe unito le due corone di Sicilia e di Germania. Ma nel 1220 il nipote di Federico I Barbarossa , divenuto imperatore del Sacro romano Impero Germanico, desiderò soprattutto di essere re di Sicilia , terra materna che amava moltissimo e che aprì alle culture più diverse: Arabi ,Normanni, Greci, Cristiani cattolici e Cristiani ortodossi lo circondavano. Alla sua corte intellettuali provenienti da tutte le parti del mondo studiarono e poetarono e FedericoII stesso fu letterato e poeta. Fondò a Napoli un’Univesità per lo studio del Diritto e, nelle <<Costituzioni Melfitane>>, riaffermò l’origine divina del potere imperiale. Costretto, nel 1228 dal papa Gregorio IX, che per questo l’aveva scomunicato, a partire per la V Crociata, Federico II, giunto in Terra santa, mostrò una eccezionale abilità nel concludere col Sultano d’Egitto un accordo per dare ai Cristiani libero passaggio nei territori musulmani e concedere ai Crociati per dieci anni i Luoghi Santi. 10


Sconfitto nella battaglia di Fossalta (Parma), nel 1250 Federico II morì. Nel 1258 divenne re di Sicilia Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, che continuò la politica paterna osteggiando i Guelfi (fautori del papa) e spalleggiando i Ghibellini (fautori dell’imperatore). Ma il papa Clemente IV chiese aiuto ai francesi offrendo la corona di Sicilia a Carlo D’Angiò,signore di Provenza e fratello del re di Francia. Carlo d’Angiò accettò e fu incoronato a Roma re di Sicilia. Nella battaglia di Benevento (1266) fu ucciso Manfredi e nel 1268 a Tagliacozzo (Abruzzo) fu sconfitto anche Corradino di Svevia, nipote di Federico II, che era sceso dalla Germania per riprendere il regno di Sicilia. Corradino,ultimo rampollo della dinastia sveva,fu decapitato su una piazza di Napoli: finiva così la casa sveva. 2. Nasce la Letteratura italiana in volgare Federico II di Svevia, italiano per educazione e per abitudini, era molto intelligente e colto : parlava correntemente sei lingue, scrisse un trattato sulla caccia col falcone, fondò Università e aprì biblioteche, raccolse manoscritti arabi e greci (molti dei quali fece tradurre in Latino), protesse generosamente artisti e studiosi di ogni cultura. Alla sua corte fiorì la prima lirica italiana e la SCUOLA POETICA SICILIANA, ispirata alla elegante poesia delle corti provenzali, diffusasi in Italia dopo la crociata contro gli Albigesi (1208). Di quelle corti e di quel mondo, che si reggeva sulle regole della cavalleria e in particolare dell’amor cortese, la poesia siciliana aveva appreso gli atteggiamenti. Ai rimatori siciliani, tra cui è compreso lo stesso Federico, poeta colto e raffinato, spetta il merito di aver dato origine in Italia ad una nuova tradizione letteraria, poiché essi per primi usarono nel nostro paese la lingua volgare e per primi crearono le forme poetiche più adatte al volgare, adottando, per esempio l’endecasillabo (verso di undici sillabe) e introducendo la struttura del sonetto. Fra i più famosi poeti della “Scuola poetica siciliana” vanno ricordati: lo stesso Federico II, Iacopo da Lentini (pugliese), Pier delle Vigne (campano), Ruggiero Pugliese, Guido Delle Colonne, Stefano Protonotaro (messinese) , Manfredi (figlio di Federico II) , Ciullo o Cielo d’Alcamo, ecc. Nella corte raffinata e colta di Federico II dunque , in Sicilia, nacque la Letteratura italiana in volgare con la “Scuola poetica siciliana”, che sarà ricordata quasi un secolo dopo dal maggiore poeta italiano , Dante Alighieri, in una sua opera scritta in latino, il “De vulgari eloquentia” (I, XI, 2-3). Dante asserì che “videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere” ( il volgare siciliano si acquistò fama prima e innanzi agli altri ) e che “eo quod perplures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse…...et quia regale solium erat in Sicilia, factum est, quicquid nostri predecessores volgariter protulerunt, sicilianum vocaretur: quod quidem retinemus et nos , nec posteri permutare valebunt”. (“per il fatto che molti poeti indigeni poetarono solennemente …...e poiché la corte reale aveva sede in Sicilia, è avvenuto che tutto ciò che si è prodotto di poetico, prima, fu detto siciliano: denominazione che anche noi riteniamo giusta e manteniamo , e che nemmeno i posteri potranno mutare”). Così si esprime il De Sanctis (Storia della Letteratura italiana vol. I pp. 21-22) : “Nata feudale e cortigiana, questa cultura siciliana si diffondeva ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, ma una tenerezza raddolcita dall’immaginazione e non so che molle e voluttuoso tra tanto riso di natura. Nella lingua penetra questa dolcezza e le da una fisionomia abbandonata e musicale, 11


di dolce riposo: qualità spiccata del dialetto meridionale: la tenerezza del sud, uno stile sano e semplice, un volgare assai fine, per la proprietà dei vocaboli e per la grazia non scevra d ‘ eleganza. La perfezione di lingua e di stile mostra un’anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto, nella “ Scuola poetica siciliana” il volgare.”

III lezione: a) Realtà e vitalità del dialetto. b) Il dialetto modicano. c) MODICA dal mito alla storia. a) Realtà e vitalità del dialetto Un linguaggio non va esaminato o considerato solo sotto forma di parole , ma a livello di realtà, e realtà in evoluzione. La cultura infatti non si coglie solo nei libri, ma si attinge dall’esperienza della vita quotidiana Individuale e sociale. La cultura , in effetti è libertà, liberazione, perché conoscendo ci si libera, in quanto ci si accresce. Il dialetto è una realtà, specie e proprio da noi, infatti si riforma e si ricombina , accettando anch’esso nuovi modi di dire , si adatta alle circostanze ed è certamente diverso da una zona all’ altra. Per esempio: a Pozzallo, dati gli attrezzi che usano i marinai, certo avranno un altro “microlinguaggio” rapportato al modicano, usato appunto a Modica, paese più interno, agricolo e con differenti esigenze. Quindi è la realtà che forma e plasma il dialetto, che, per ciò stesso è una conseguenza naturale, ambientale, sociale. E’ assai importante perciò far conoscere e valorizzare il dialetto che serve a perpetuare con la sua vivezza ed immediatezza una tradizione ricca e validissima. Rispolverare i dialetti è, sotto certi aspetti, rivoluzionario, perché è come se si volesse fare una protesta verso la lingua dominante, ufficiale, che ha cercato di appiattire e soppiantare tutte le culture locali, ed è anche una presa di coscienza nostra: è importante perciò la conoscenza del dialetto perché prima di conoscere gli altri , bisogna conoscere se stessi, la nostra realtà, il nostro vissuto. La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali, caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla. b) Il dialetto modicano Il vero dialetto nostro, il modicano, ha in sé molti nomi di origine greca(es. ciaramira) , latina (es. magnu) , araba(es . tannura) normanna (es. ammuttari) , francese (es. racina) , spagnola ( es. criata) , inglese (es. spensiri) , portoghese (es. asciari) ,ma non è stagnante e fermo, anzi si evolve assimilando, facendo propri i neologismi della lingua italiana e certi vocaboli stranieri d’uso, diciamo, internazionale. Tutto ciò, naturalmente, rifondendoli nella nostra fonetica. Per contro il nostro dialetto ha dato e dà alla lingua italiana sempre nuovi vocaboli e nuove espressioni. Questo è dovuto principalmente agli spostamenti, magari per ragioni di lavoro, della nostra popolazione verso il nord Italia, oltre che in Europa e nel mondo, ed anche ai nostri scrittori e poeti, al cinema, alla TV ed ai mass media, in genere. 12


Sono vocaboli ed espressioni, talvolta intraducibili, che indicano una intera cultura, il carattere nostro, le nostre reazioni, il nostro vissuto, la nostra società. Il nostro dialetto si trasforma, ma resiste e resisterà perché meglio della lingua sa tradurreed esprime lo “status animi” dell’individuo e dei gruppi umani. Il nostro dialetto è la lingua confidenziale, intima, spontanea, capace di coniare vocaboli più confacenti alla nostra fonetica, ma soprattutto alla nostra indole, e di trasformare, facendoli aderire alla nostra realtà umana e sociale, i vocaboli che altri ci portano. Il MODICANO è un dialetto vivo e regolarmente usato, non solo dai ceti più umili, ma anche da persone ricche di cultura e con meritate , brillanti lauree, professionisti, scrittori, poeti, ecc., quindi il nostro dialetto, essendo semenzaio e lievito, non morirà mai; accompagnerà la lingua nazionale e, domani, magari la lingua comune convenzionale di tutti i popoli, apportandovi sempre linfa nuova. Non scordiamo comunque, che il dialetto modicano è parlato in quasi tutta la Sicilia sud-orientale, ma, a questo punto per capirne il perché dobbiamo soffermarci un attimo sulla ricca e gloriosa storia della nostra bella città di Modica. c) Modica dal mito alla storia. Parlare delle origini di Modica non è impresa facile, in quanto esistono, sulla sua fondazione, molte tesi, e tutte degne di nota. Tra le più importanti ricordiamo: 1) Mito omerico: intorno al 5000 a. C. I popoli dei Lotofagi, dei Feaci, i Ciclopi, i Lestrigoni, di omerica memoria abitarono proprio le zone del modicano. 2) Mito di Ercole fenicio: questo mito è il simbolo delle prime colonizzazioni fenice nel Mediterraneo. Il “Baal Melkart” (=“ Re della città”), appunto Ercole fenicio che venne dalla Spagna, abolì i sacrifici umani, istituì riti religiosi, scavò acque termali, riunì politicamente la Sicilia sotto il dominio degli Eolidi e fondò Modica. 3) Mito di Ercole egizio: secondo questa teoria,il semidio Ercole, che proveniva dall’Egitto, ed era figlio di Osiride e di Cerere, per dare onore ad una donna mitica e assai bella, Motia, che gli aveva indicato le tracce dei buoi di una razza particolare, nelle nostre valli, quando egli tornò dalla Spagna, avendo vinto Jerone, fondò, appunto in onore di Motia, questa nostra città. Inoltre i Moticesi, coniarono, sempre in onore della bella Motia, delle monete, con l‘iscrizione“μοτίεον”. 4) Mito greco: questa teoria indica i Greci come fondatori di Modica, in particolare, fu un certo Мότυχιν, capitano dei Gèloi, che fondò una città, a cui diede il proprio nome, durante la XL Olimpiade. Tutto questo, è logico, è leggenda, ma è certo però che il territorio di Modica fu abitato dall’uomo preistorico, e precisamente dall’uomo dell’epoca neolitica. Questo ce lo testimoniano le numerose grotte naturali, sia del quartiere Vignazza che di Cava d’Ispica. Inoltre, a circa 15 km. da Modica, i neolitici Siculi foggiarono la selce, estratta dalla miniera di monte Tabuto, crollata circa 35 secoli fa, miniera di selce che è la più antica non solo della Sicilia, ma di tutta l’Italia. Con certezza si può comunque affermare che Modica fu fondata dai Siculi nel 1250 a. C., su un preesistente insediamento rupestre sorto, come abbiamo visto, in epoca preistorica, nelle caverne di cui è intarsiata la parete rocciosa che dal pianoro della Pianta scende precipite verso la cava della Fontana Grande. Per molti secoli la sua posizione geografica ne fece il centro degli scambi commerciali tra le popolazioni costiere e quelle dell’interno, ma la sua floridezza sociale ed economica cessò alla 13


venuta dei Greci che fondarono potenti città di mare, tenendo sottomessi i Siculi dei monti. Nel 212 a.C., terminata la II guerra punica, Modica fu alleata di Cartagine per cui, caduta sotto il dominio di Roma, conobbe un ulteriore periodo di oscurantismo di cui le vessazioni di Verre, funzionario romano, nel 73 a.C., furono l’esempio più significativo. Cicerone appunto la ricorda nelle sue “Verrine”. Modica, che si trova nella Sicilia sud-orientale, ha un territorio che si estende dalle

pendici del Monte Lauro a Punta Regilione sul mare di Pozzallo, e tra i fiumi Irminio e Tellaro. La città, dal fondo di tre valloni: Pozzo dei Pruni, Janni Mauro e S. Liberale, che danno corso al torrente Moticano o di Scicli, s’inerpica su per i pendii di quattro colli: Pizzo d’Aquila, Idria, Monserrato, Giganta, mostrando una infinità di panorami bellissimi e raggiungendo la quota di circa 600 m. nella contrada Mauto, da dove si scorgono l’Etna da una parte e Malta dall’altra. Modica, dapprima città decumana e poi stipendiaria, subì continue spoliazioni sia all’epoca della dominazione greca che romana, né la sua posizione mogliorò sotto la dominazione bizantina. In quest’ultimo periodo però, la città cominciò a cingersi di mura fortificate entro cui la popolazione poteva difendersi dalle continue incursioni dei Saraceni, imbaldanziti dalla crescente debolezza dell’Impero d’ Oriente. Le rocche di Modica, innalzate alla sommità della rupe della Pianta, per due lati a strapiombo sulle cave sottostanti, caddero in mano agli Arabi,dopo valorosa, strenua difesa, nell’845d.C. e vi rimasero fino al 1091 allorchè furono riconquistate alla cristianità dalle truppe normanne del Gran Conte Ruggero d’Altavilla. Gli Arabi fecero rifiorire Modica ed anche i Normanni, che, nel 1130 le diedero il serto di Contea.Assegnata nel 1176 a Gualtiero de Mohac, ammiraglio della flotta 14


siciliana, dopo i Vespri, nel 1282, Modica fu concessa in feudo a Federico Mosca, animatore della rivolta contro gli Angioini.Dai Mosca la Contea passò quindi alla potente famiglia dei Chiaramonte, che eressero il loro Castello su d’uno sperone roccioso, ai cui piedi si uniscono i torrenti Pozzo dei Pruni e Janni Mauro. I Chiaramonte tennero la Contea di Modica fino al 1392, anno in cui ne fu investito Bernardo Cabrera, già visconte di Bras e comandante supremo dell’esercito spagnolo che aveva portato i Martinez sul trono di Sicilia. Dal 1480 il vasto feudo fu degli Henriquez-Cabrera, fino alla scomparsa del sistema feudale, nel 1812. Fino a tale data Modica ebbe il massimo splendore politico: la sua Contea fu la più vasta e potente della Sicilia, così da poter essere chiamata<<Regnum in regno>>. Tale regno ebbe fine nel 1702, incorporato dal demanio spagnolo dopo la condanna a morte di Giovanni Tommaso Henriquez.Tuttavia fu nel 1816 che la Contea cessò di esistere anche nominalmente per decreto dei Borboni che però elevarono Modica a capoluogo di distretto nell’ambito della Intendenza di Siracusa prima, di Noto poi (nel 1837), della cui diocesi ancora fa parte.Dopo aver partecipato ai moti antiborbonici del 1821 e del 1848, Modica fu tra le prime città dell’isola ad issare il tricolore, il 17 Maggio del 1860, avendo contribuitocol valore ed il sangue di molti nostri concittadini, all’impresa garibaldina dei Mille. Quarta città della Sicilia per importanza e per numero di abitanti, Modica fu confermata capoluogo di circondario nel Regno d’Italia,fino al 1926, quando, soppresso il Circondario, le venne preferita, per motivi politici, Ragusa come sede di provincia. Modica è sede di uno dei più importanti Fori e lo è stata già dal 1348; è stata ed è centro di studi e di cultura e vanta letterati, filosofi, poeti, economisti giuristi, scienziati, artisti insigni. Ricordiamo: Tommaso Campailla (1668-1740) filosofo, poeta e scienziato; Antonino Galfo (1740-1805), letterato; Carlo Amore (1768-1841) valente medico e arguto poeta dialettale, a cui è dedicata la nostra scuola; Gaspare Cannata (1718-1771) medico e filosofo; Placido Caraffa (1617-1674) illustre storico; Lazzaro Cadorna(1553-1585)valente letterato; Giuseppe Castagna (1790-1862) letterato e giureconsulto; Fabio Colombo(vissuto intorno al 1660) scrittore e poeta latino; Girolama Grimaldi (1681circa) illustre poetessa; Girolamo Ragusa(morto nel1720) storico, teologo, filosofo e poeta; Michele Rizzone Tedeschi (1840 circa) più volte sindaco di Modica e deputato al Parlamento; Tommaso Rizzone Modica (1907 circa) insigne patriota; Pietro Scivoletto Leggio (1831-1874) valente medico; Pietro Scrofani (1798 circa) presidente della Corte dei Conti, ministro della giustizia e senatore del Regno;Saverio Scrofani (1756-1835) economista, botanico, storico, letterato, archeologo e poeta;Giorgio Maria Ciaceri (metà 800), gesuita, botanico, scienziato, storico; Filippo Renda, storico; Pietro Floridia (1860-1932) insigne musicista; Carlo Papa (1825-1880)letterato, poeta e presidente onorario della Repubblica di S.Marino; Salvatore Quasimodo (1901-1968) premio NOBEL per la poesia nel 1959 ecc. ecc.-

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La città di Modica si divideva e si divide in:Modica alta, una volta la parte nobile e che vanta il diritto di primogenitura rispetto alla parte bassa, e Modica bassa, appunto, posta al fondovalle. MODICA ALTA, nata sull’altopiano della Pianta, sede del Castello, messa a dura prova dal terremoto del 1613, fu cittadella medioevale ricca e munita fino al distruttivo terremoto del 1693 che rase al suolo sia la parte alta che la parte bassa della città. Ma Modica risorse ricca di facciate barocche, di straordinari palazzi, di scenografiche piazze, di Chiese e superba del suo splendido S.Giorgio. MODICA BASSA, fino alla Modica alta: Il “Pizzo Belvedere”

seconda metà del secolo scorso fu la”città delle acque”, ornata di ponti sui torrenti e sul fiume, bordati da stradine e viuzze, monasteri, casupole ammonticchiate a mò di presepe.Modica fu chiamata per questo , infatti, “Venezia del Sud” e, per secoli mantenne il suo aspetto di kasbah, di rocca tra i monti e di città lagunare piena di palazzi, chiese, monasteri e splendida di suggestivi paesaggi. Modica subì diverse calamità: nel 1576 una grave peste, nel 1709 un’epidemia, i terremoti del 1613 e del 1693, le grandi alluvioni del 1833 e del 1902, la cosiddetta “febbre spagnola” del 1917-18. Infine la grande alluvione del 1833, cui fece seguito quella ancora più nefasta del 1902,indusse le autorità a cercare un rimedio allo straripamento dei fiumi e si decise la copertura dello Janni Mauro, del Moticano, del Pozzo dei Pruni. Su

Modica: “La Venezia del sud” 16


di essi sorsero centralissime vie. Stoppani e Lancetti, agli inizi del secolo, videro Modica come una <<melagrana che si schiude alle prime piogge ottobrine>> ed i suoi colli sono gli spicchi dello stesso <<ranatu>>: Idria, col santuario della Madonna che salvò Modica datante epidemie e terremoti; la Pianta, sperone su cui sorge il Castello e che digrada sulla vasta e suggestiva scalinata ad ostensorio della bellissima Chiesa del patrono S.Giorgio; il Pizzo, col suo languido lampione forma il Belvedere; di fronte il Monserrato, irto di boschi ed a lato la Giganta(a Ghiacanta) che chiude il gran cuore nascosto di Modica.

Modica: “La Venezia del sud”

”IV lezione: a) Le Chiese b) Le feste: tradizioni perdute e che sopravvivono c) “Putiei, suttasulara, funnara e viscuttara a)

Le Chiese

In molte pubblicazioni Modica viene ricordata come la “città dalle cento Chiese”. Tale definizione non è esagerata, ma, semmai limitativa, infatti un accurato studio eseguito nel 1955 da Franco Libero Belgiorno, ne ha identificate ben centosessanta di cui, naturalmente, molte non sono ormai che un nome su una pagina ingiallita o una facciata spenta. A mò d’esempio ne citiamo solo alcune tra le maggiori: 1) San Giorgio La città possiede veri gioielli architettonici e tra tutti spicca la splendida Chiesa del primo patrono della città: il Duomo di S.Giorgio, dalla bellissima facciata, monumentale ed elegante insieme, impreziosita dalla superba scalinata ad ostensorio fra gli orti del Piombo (la si può ammirare in una visione totale dal Dente, cioè dalla collina di fronte). L’edificazione di S. Giorgio risale all’epoca normanna quindi al 1091 ad opera del Conte Ruggero che la volle costruire sulle rovine di una chiesetta dedicata alla Santa Croce, distrutta dagli Arabi ai tempi della presa delle rocche di Modica nell’845. Distrutta dal terremoto del 1613, su progetto di Frate Marcello, fu ricostruita nel 1643, per essere, cinquant’anni dopo, nel terribile e distruttivo sisma dell’11 Gen17


naio del 1693 nuovamente rasa al suolo. Ma risorse nella stessa epoca, ricostruita più bella che mai per essere, nella facciata, ultimata nel 1834 da Gaspare Cannata. Nel suo interno, a cinque navate, si conservano:il prezioso polittico del 1513 dell’Alibrandi, soprannominato il <<Raffaello Siciliano>>; la tribuna di Resalibra da Messina; la tela dell’Assunta di Filippo Paladino del 1610; il martirio di S. Ippolito, dipinto del Cicalesius (1670); le Anime del Purgatorio attribuite ad Olivio Sozzi; il martirio di S. Deodata, santa modicana, come S. Fazio, di autore ignoto; la statua della Madonna della neve di Giuliano Mancino e Bartolomeo Berettaro, palermitani(1511);S. Michele Arcangelo del modicano Raimondo Zaccaria(1896). Interessante e originale è la MERIDIANA SOLARE od Orologio Solare, disegnata sul pavimento marmoreo della Chiesa dal matematico Armando Perini nel 1895. Quasi al centro della chiesa giganteggia un grandioso organo costruito nel 1855 da Casimiro Il Duomo di S. Giorgio Alleri. Sulle pareti, ai lati dell’altare centrale, preziosissimo, in argento intarsiato, opera seicentesca che domina la navata centrale, si notano due candidi bassorilievi, eseguiti dal Giuliana. Ricchissimi, nelle cornici, i delicati lavori d’intarsio; stupenda l’arca d’argento che custodisce una reliquia di S. Giorgio e il singolare simulacro di S. Giorgio a cavallo di scuola napoletana. Il duomo di S. Giorgio è uno dei monumenti religiosi più importanti e maestosi del barocco siciliano, che ne fa una delle chiese più belle del mondo. Senza tema d’errare si può affermare che non vi è nulla di più teatrale e imponente in tutta l’isola. Per quanto riguarda il Patrono di Modica, che oggi erroneamente viene identificato con S. Pietro, bisogna osservare e leggere la vera storia sul fatto, perché il primo ed unico Patrono di Modica fu S. Giorgio. Ma, seguiamo le vicende: nel 1594 il parroco di S. Pietro, con un atto del notaio Antonio Scarso riconosceva solennemente la qualifica di Matrice alla chiesa di S. Giorgio edificata, come si è detto nel 1091, provocando però una vera e propria rivoluzione. Nel 1689 il Papa Innocenzo I dichiarò S. Giorgio “Chiesa Madre” ma le lotte non si acchetarono fino al 1884, quando i Capitolari di S. Giorgio, <<con nobile generosità>> e <<pro bono pacis>> cioè <<per amor di pace>> chiese al Pontefice che anche S. Pietro fosse considerato compatrono di Modica. Infatti si può ancora leggere una lapide sulla scalinata che 18


digrada fino al corso Garibaldi <<Limite delle due Matrici dal 1884>>, per dire che S. Pietro era diventata, dal 1884, chiesa madre della parte bassa della città. Chi dunque adesso, come si legge in alcuni opuscoli turistici, ha consacrato quale patrono di Modica S. Pietro?… 2) S. Pietro Il duomo della città bassa fu edificato circa nel 1350 sul posto di una omonima precedente chiesa. Distrutto dai terremoti del 1613 e del 1693, fu ricostruito in pietre squadrate. Il prospetto è di stile settecentesco con decorazioni barocche, ricalcante i motivi neo-classici delle costruzioni religiose dell’epoca. In essa si conservano: il quadro raffigurante le Anime del Purgatorio di autore ignoto; S. Liborio e S. Leonardo di Porto MauriLa chiesa di S. Pietro Apostolo zio; la Madonna delle Grazie di Raimondo Zaccaria(1860); pregevole il gruppo statuario di S. Pietro e il paralitico di Paolo Civiletti(1893); il Crocifisso di S. Ammatuna; la Madonna, S. Michele Arcangelo e S. Francesco di Paola del 1767, di Stefano Ragazzi. Bello il soffitto riccamente affrescato. Dodici statue di Apostoli adornano la riposante gradinata. I Modicani Agostino e Michele Polizzi fabbricarono per S. Pietro un organo. 3) S. Giovanni Evangelista Sorge nella città alta, sulla piazza omonima, sullo stesso sito dove S. Gregorio Magno fondò, intorno al 600 d.C. un Monastero con una chiesetta dedicata a S. Pietro, affidata poi ai Benedettini. In seguito quella costruzione divenne S. Giovanni Evangelista. Distrutta dai terremoti del 1454, del 1613 e del 1693 è stata ricostruita. La facciata, in stile barocco, è opera del modicano Salvatore Rizza. Un’ampia e bella gradinata riporta 26 pilastri per statue di cui ne restano tre: la migliore è quella di S. Michele. Il campanile, alto 449 metri sul livello del mare, è il punto più alto della città. La chiesa conserva: il fonte battesimale con una scultura rappresentante S. Giovanni che battezza Gesù, opera di Giuliana; un dipinto originale rappresentante il transito di S. Giuseppe(la cui copia si trova a S. Pietro); la cappella di S.Giovanni con, nella nicchia, la statua del Santo ornata di ori. Sul piano dell’altare una Cena del Giuliana, che è un intarsio molto bello su noce. Sul transetto gli affreschi dei quattro Evangelisti La chiesa di S. Giovanni Evangelista e, a sinistra entrando, una copia della Madonna delle Milizie. Pregevole un gruppo statuario di Antonio da Monachello del XVI sec., raffigurante l’Addolorata. Sia il duomo di S. Giorgio, che la chiesa di S. Giovanni , che quella di S. Pietro, sono poste al sommo di monumentali e suggestive scalinate, che le rendono più slanciate e imponenti, e il meraviglioso campanile a vetta di S. Giorgio pare toccare il cielo con la croce. 19


4) S. Teresa d’Avila Sulla piazza omonima, nella zona storica ed archeologica.Sorse nel 1600, dopo la morte della Santa(1582). Vi si trovava prima un tempietto dedicato a S. Maria La Stella. Nel 1649 il Governatore della Contea, don Francesco Bolles fondò a sue spese il Convento di S. Teresa a lato della chiesa, per le Carmelitane scalze o teresiane, oggi adibito a scuola. Subì gravi danni nel terremoto del 1693, poi fu ricostruita come è oggi:tipica costruzione del ’ 700 con decorazioni barocche. La cuspide è stata soprelevata nel 1953, ma tali lavori hanno leso di molto la facciata originaria.Nell’interno si ammirano: un dipinto del 1600 di S. Teresa d’Avila, di scuola siciliana; ottimo il Crocifisso; la Madonna del Carmelo, pittura del ’700; S. Giovanni della Croce del Ragazzi (1776). Entrando nelle due nicchie a lato del portone si trovano: a sinistra la statua di S. Rocco, a destra quella di S. Filomena. Sulle pareti dei pannelli decorativi illustrano la vita di S. Teresa d’Avila. Sul soffitto un ottimo affresco del pittore modicano Giorgio Assenza. 5) Santuario della Madonna delle Grazie Il 4 Maggio 1615 i modicani trovarono ai piedi di Monserrato la sacra immagine della Madonna col Bambino dipinta su una tavoletta d’ardesia e segnalata da un misterioso roveto in fiamme. Il popolo commosso volle edificare un Santuario proprio dove era stato trovato il dipinto. L’architetto siracusano Mirabella iniziò i lavori che però dovettero interrompersi perché il Mirabella nel 1624 morì di peste. Nel 1627 la Madonna delle Grazie fu dichiarata Patrona della città per i tantissimi miracoli compiuti. Sul portale si trova un bassorilievo che rappresenta lo stemma della Contea. All’interno l’altare maggiore custodisce la sacra immagine della Madonna SS.. Sul muro interno del Santuario fu murata una lapide nel 1709, per ricordare il miracoloso intervento della Madre di Dio durante la peste. Attaccato infatti al muro, in continuità del Santuario si trova il<<lazzaretto>>, divenuto oggi Museo Etnografico. 6) Il Carmine Nella città bassa. Fu costruita, insieme all’attiguo Convento, oggi Caserma dei Carabinieri, nel 1250. In stile gotico-siculo e distrutto in parte dal terremoto, di esso rimane il rosone ed il portale; il resto è rifacimento del 1749. Nella chiesa sono custoditi: una Cena del Gagini del 1528. L’altare è in legno scolpito con stucchi a rilievo. 7) S. Maria di Betlemme Edificata nel 1400 da Ruggero il normanno, nel 1474 vide uccidere sul suo piazzale 360 Ebrei. La Chiesa è a tre navate. Il portale è in stile arabo-normanno. Dopo i terremoti rimase solo il grandioso portale di destra, monumento nazionale. Nel suo interno conserva la Cappella Palatina, così chiamata per le nobili sepolture che contiene. Nell’altare centrale una tela raffigurante l’Assunta del Ragazzi, nel terzo altare, l’Immacolata (1738) del Mauro, nel quinto altare S. Caterina (1630) dello Sciavarelli ed infine l’artistico Presepe del 1882 del Vaccaro e dell’Azzolina, entrambi di Caltagirone . I tipi somatici ed i costumi tradizionali sono di Modica. 8) S. Maria del Gesù Nella parte alta della città. La splendida chiesa e il monumentale Convento furono edificati nel 1500 dalla Contessa di Modica Anna Cabrera Henriquez. Esempio di architettura arabo-normanna, la chiesa è tra le più interessanti opere cinquecente20


sche dell’isola. Ha tre navate. Il portale ed il chiostro, furono opera di “mastro Ramunno”. Il disegno ed il traforo sono rabescati. Tantissime altre splendide chiese possiede Modica, veri tesori d’arte, e tantissimi monumenti come il Castello, il palazzo Tomasi-Rosso, il Palazzo Polara, tutti a Modica Alta, il Portale Leva a Modica bassa, unica testimonianza dell’omonimo antico palazzo, di stile arabo-normanno, tutto un ricamo di pietra, ecc. ecc. ma non si può, in questa sede, enumerarli tutti. b) Le feste: tradizioni perdute e tradizioni che sopravvivono. Modica, come molte altre città della Sicilia, vanta tradizioni e feste legate a santi o a periodi particolari dell’anno, radici di una fede grande e semplice nello stesso tempo o ad avvenimenti popolari particolari. Ma, andiamo con ordine, e percorriamo da Gennaio a Dicembre, le tappe di queste feste, la maggior parte perdute. Il Carnevale. (generalmente ricorrente a Febbraio) Ormai il Carnevale è morto da un pezzo, eppure le feste carnascialesche hanno sempre rappresentato le condizioni politiche e civili dei tempi. Oggi si riduce tutto al lancio di coriandoli, allo sparo di rumorose e pericolose bombette, a schiume imbrattanti, alle mascherine dei piccoli, che sono uno sfoggio di eleganza, ed ai tradizionali veglioni eleganti per i grandi; nelle T.V. locali poi, si premiano le migliori mascherine. Nell’’800 si cantavano per carnevale, danzando e accompagnandosi con i tamburini ed i “marranzana” questi versi: <<E ccu sauti e cazzicatummili sdivacamu li saschi e li bbummuli: tummi,tummi,ritummi e catummi prestu ’mmucca li brogni e li trummi: anchi all’aria, li manu a cianchetti cuntraddanzi ri chiddi priffetti>> Versi bacchici che sintetizzano lo spirito del popolo della Contea, che, per carnevale, impazzava d’allegria. I giorni più famosi del carnevale erano gli ultimi tre, cioè: a sdirruminica, u sdirriluni, u sdirrimatti e la sera del martedì, a sdirrisira. <<Sdirri>> è la corruzione del francese <<dernier>>(=ultimo). In questi tre giorni,mascherati o no, si gozzovigliava, si ballava e si assisteva a farse e giochi. Giochi dell’antico Carnevale della Contea erano quello del<<Castello e mastro di campo>> che altro non era che la trasposizione teatrale delle vicende alquanto comiche del Conte di Modica, Bernardo Cabrera, innamorato cotto della regina Bianca di Navarra residente nel castello di Solanto a Palermo. All’arrivo del focoso innamorato, la regina con le damigelle si nascondeva impaurita ed il Conte, non avendola trovata, si accontentava di buttarsi appassionatamente sul letto della sua amata, provandone un grande piacere, annusando almeno il profumo di lei tra le lenzuola. Il popolo si mascherava e nei giochi del carnevale la faceva in barba ai potenti prendendone in giro i vizi e le virtù in sollazzevoli pantomime. Un altro gioco divertente ma pazzesco era quello detto “A papalina”, dove i delegati delle varie maestranze si combattevano a suon di bevute di vino a litri, mangiate enormi di pasta asciutta, di arrampicata sui “ligna ansivati”(=pali oleati, unti) e che dovevano poi dirimere degli indovinelli e dimostrare speditezza di pronuncia nel ri21


petere qualche scioglilingua divertente e certo facilmente suscettibile a spiritosi equivoci, per la velocità, tipo:” “Antunicciuni cugghiennu cuttuni cciù antunicciuni stapia ’cciù cuttuni cugghia” ecc. Così si passava il carnevale ed infine a tarda sera se ne bruciava il pupazzo fatto di paglia che lo rappresentava in un grande falò, tra tarantelle, motti e sollazzi.Infatti il Carnevale dura poco <<Ogghi e dumani comu a Carnaluvari>>; è il <<Semel in anno licet insanire>> di latina memoria.L’imdomani saranno le sacre Ceneri ed inizierà la Quaresima. La festa di S. Giuseppe (19 Marzo) S. Giuseppi San Giuseppi vicciarieddu, ca ciurutu hai lu vastuni, pigghia e metti lu varduni a lu tuou sciccarieddu e ti mietti a caminari pp’arrivari a sta cuntrata… Iu ti fazzu na fucata ccu frascuzzi e ccu ciaccari Già cominciava con la novena o il triduo che si concludevano il 19, giorno della festa del Santo. Nei quartieri sotto la chiesa e, nel giorno della festa, dopo la S. Messa si facevano dei falò, “u lignu ansivatu” (pali unti e scivolosi su cui ci si doveva arrampicare), “i pignatiedda” (pentolini di terracotta contenenti o cibo o monete che venivano donati ai poveri). Infine si invitavano i poveri, specie i vecchietti ricoverati al “Boccone del povero” e le dame di carità li servivano lautamente: erano nobili signore, che imbandivano le tavolate con ogni ben di Dio. La Quaresima: durante la Quaresima, si svolgeva, con attori presi dal popolo, tutta la Passione di Cristo, la Via Crucis, fino alla crocifissione. Quindi si svolgevano “i sapucchira” (= visita al S. Sepolcro di Gesù) nelle varie chiese, recitando orazioni e ripercorrendo nelle preghiere la via del Calvario di nostro Signore. Le chiese erano e sono, in un altare, adorne di frumento appena germogliato, di candelotti e lumini. Si dovevano visitare tante chiese o uscire ed entrare nella stessa chiesa per 3 volte o 5 volte o 7 volte (3 = la SS. Trinità; 5 = le cinque piaghe di nostro Signore; 7 = i sette dolori dell’Addolorata): chi, per esempio, iniziava da S. Giorgio, poteva andare o su o giù. Ma generalmente si andava a: S. Giorgio, S. Giuseppe, S. Teresa, S. Teodoro, S. Antonio, S. Giovanni, S. Nicola. La Pasqua ( Aprile) Modica vanta tradizioni che celebrano la Settimana Santa in modo pittoresco, antiche vestigia di una salda fede semplice e popolare, che hanno ormai il solo compito di attirare i turisti. La manifestazione più significativa della Pasqua modicana viene considerata la <<Maronna vasa vasa>>. La festa inizia al mattino nella Chiesa di S. Maria di Betlemme dove i simulacri del Cristo risorto e della Madonna, montata su un particolare manichino snodabile, vengono portati in processione per vie diver22


se. La Vergine Addolorata, in gramaglie cerca Gesù, mentre il figlio va alla ricerca della Madre. Si va in processione nelle varie chiese, finchè, a mezzogiorno in punto, in Piazza Municipio, gremitissima di folla di fedeli e turisti, la Madonna, scorto il figlio, butta via il velo nero e va incontro a Gesù. Aprendo il mantello escono volando delle candide colombe, simbolo della pace, e quindi la Madonna abbraccia, benedice e bacia il figlio tra gli <<evviva>> della folla che viene anch’essa benedetta. La stessa scena del bacio e della benedizione viene ripetuta davanti alla chiesa di S. Pietro ed a quella di S. Maria. La devozione per questa festa era ed è tanta, ed una volta i contadini ne traevano auspici per l’annata agricola dal modo in cui si svolgeva la <<vasata>>. La festa di S. Giorgio cavalieri, “spatulidda riali” (23 Aprile ) Con quella della “ Maronna vasa vasa”, forse la festa più tipica di Modica,un tempo famosa in tutta la Contea poi la provincia, era quella di S. GIORGIO, patrono della città. Essa aveva un fascino particolare e per molti lo mantiene, anche se è ridotta a ben poca cosa ormai, purtroppo! La venerazione al Santo, esistito storicamente e martirizzato a Lydda, in Palestina, nel 303 d. C., sotto Diocleziano, risale al IV sec. d.C.. Nella città di Modica, il culto ed i festeggiamenti per il santo Patrono S. Giorgio, risalgono al 1090, quando il Conte Ruggero d’ Altavilla, combattè e vinse i Saraceni, fece costruire la chiesa dedicata al Santo che prodigiosamente aveva combattuto al suo fianco. L’essenza della festa è la perenne lotta del bene contro il male, lo scontro impetuoso e quotidiano tra Dio e le forze malefiche. “S. Giorgiu cavaleri” ha la spada della fede,cavalca il bianco destriero simbolo del mezzo che ci porta al Signore Gesù, e quindi alla salvezza. Il dragone è il male che serpeggia sempre nel mondo per perdere le anime. Durante l’invasione araba il popolo invocava la Vergine Maria e S. Giorgio e loro accorrevano su bianchi destrieri a difendere ed a proteggere il popolo fedele. A S. Giovanni c’è un dipinto della Madonna delle milizie, che, è festeggiata tanto a Scicli. La statua di S. Giorgio Nelle loro spade fulgenti è il simbolo della cristianità. La festa si solennizzava quando su un palco i Canterini della Contea iniziavano la tradizionale novena al Santo protettore della città. Nella novena è narrata la storia del Santo:

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<<Ri S. Giorgi ghiuvinieddu Fuorru santi li pinsieri Comu n’ancilu era beddu Purtintusu cavaleri. Lu pricamu cu gran tonu e S. Giorgi è lu patronu. Nun’avia quattordici anni Nu gran vutu fici a Diu Nun pinzannu peni e affanni Pi lu munnu g ià s’inniu Lu pricamu….ecc.

Lu dravuni avvicinau A S. Giorgi e a Margarita S. Giorgi s’avvintau Su lu drau cu la spada. Lu …..ecc. La sua manu onnipotenti Ca trimari fa lu munnu Ammazzau lu gran sirpenti E alu ‘nfiernu lu prufunnu. Lu …….ecc.

Iennu pi nu ranni ciumi Margarita c’incuntrau La sua storia e li suoi peni A S. Giorgi ci cuntau. Lu pricamu….ecc.

Ammazzau lu dravuni Cu la sua putenti spada Margarita antunicciuni Ca si vitti libirata Lu...ecc.

Ci riciu ca nilu ciumi C’era nu muostru appiattatu Ogni ghiuornu lu dravuni Na dunzella s’ha manciatu. Lu……..ecc.

S. Giorgi e Margarita S’innieru na citati Ri tutti fistigghiati La ranni nuvitati. Lu …..ecc.

E S. Giorgi rispunniu <<Suoru mia nun ti scantari, Ca su firi tieni a Diu Lu dravuni vaiu a mazzari.>> Lu…….ecc.

Lu patri i Margarita Era re ri la citati: <<Iu pi spusa vi la rugnu Suddu vui vi la pigghiati>> Lu...ecc.

S.Giorgi rispunniu <<Chistu nun lu puozzu fari Picchì ‘mmotu fici a Diu Ri la mia virginitati>>. Lu…...ecc.

Lu martiriu ri S. Giorgi Ranni esempiu pe cristiani Si rammenta anchi ogghi E cunverti li pagani. Lu……..ecc.

Lu re ch’era paganu Sta gran firi nun crirriu Spinciennu la sua manu A lu carciri u mannau Lu …...ecc.

Battizzau tanti ’nfirili Pi la firi re cristiani Ed è nu granni anuri Pi niautri muricani. Lu……...ecc.

S. Giorgi era misu Sutta n’albiru attaccatu E lu re cu lu so visu Lu vulia martirizzatu. Lu….ecc.

Chista è l’urtima iurnata O gran santu miu divinu ‘na razia sia accurdata Chista sula nui vulimu. Lu……..ecc.

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Margarita antunicciuni A lu patri scungiurau Cu la morti ro drauni Iddu a tutti ni librau. Lu…….ecc.

E la festa è ghià arrivata Ri San Giorgi cavaleri Priparati i vostri cuori Cu affettu e cu amori. Lu…...ecc.

Era uso antico che i “massari” portassero fin dentro la chiesa, prima che uscisse il Santo, le mucche parate con ghirlande di fiori, pecore lanose e caprette anch’esse adorne, e che queste bestiole s’inginocchiassero davanti al simulacro del Santo, gesto propiziatorio della buona annata sui campi e nelle stalle. Inoltre, per grazia ricevuta, oltre a portare al Santo le cosiddette “’ntorce” (= torce, candele molto grosse e lunghe) tutte infiocchettate e adorne di nastri, da accendere al Santo miracoloso) si usava portare in chiesa un grosso vitello che si faceva inginocchiare davanti a S. Giorgio, poi lo si pesava e si dava il corrispondente in frumento, in olio o in denaro alla Chiesa. Questo si rifà chiaramente ai riti sacrificali antichissimi. Non scordiamo che la festa di S. Giorgio coincide con la Primavera.Sul colle fantastico e leggendario dell’Idria intanto si accendevano fuochi. Attorno al Duomo bancarelle con <<piretta>>, torroni d’ogni tipo, zucchero filato, e tante altre cose buone. Su altre bancarelle oggetti di rame, pentolame, oggetti in vimini, uccellini in minuscole gabiette, pesciolini rossi, pappagallini. Spari di mortaretti e gli immancabili palloncini a grappoli rendevano e rendono variopinto lo scenario. Dal grandioso Duomo escono per la processione prima il Capitolo dei sacerdoti e chierichetti e poi tra la folla l’entusiasmante, antica statua del Santo nostro protettore portata a spalla da forti uomini che ogni tanto si fermano perché i fedeli possano espletare i loro voti donando al Santo fiori o soldi che vengono attaccati ad un lungo nastro colorato legato al destriero. Il Santo sale e passa per tutta Modica e i “picciotti”, cioè i portatori sudati e provati dalla fatica, non ammettono mai di essere stanchi, perché è un grande onore portare S. Giorgio e massima ignominia sottrarsi alla fatica! In ogni strada i balconi sono adorni delle più belle coperte e copriletto: i “cutri”, spesso di seta , a pittura, o ricamati e fanno mostra di se, ai balconi delle sbarre con le lampadine accese. I musicanti suonano l’inno reale a S. Giorgio e vicino al Carcere si fermano e accettano uova sode, fettine di salsiccia secca e dolci “affucaparrina” per ristorarsi. Quando il Santo ha girato tutta la città, è ormai sera e ritorna da Modica bassa nel suo Duomo , tra profumi di fiori e d’incenso. Ad un certo punto sguardi torvi seguono la folla festante e qualcuno si lascia scappare <<Bì, u santu cavaddaru>>.Allora, sentendo questo un devoto urla: <<E’ beddu u tignusu ri S. Pietru>>. L’altro ,accalorandosi riprende: <<S.Giorgi ca sciabbila si scuotila i prucci>> Allora cominciano a volare parole grosse e la statua del santo barcolla e sobbalza. Si tratta dell’antica incresciosa lotta tra <<Sangiurgiari>> e <<Sanpitrari>>, che per fortuna ormai non esiste. Molti visitano la <<Mostra dell’artigianato del filato e del ricamo modicano allestita nei palazzi adiacenti la chiesa. Finalmente S. Giorgio, tra bombe, musica, fuochi d’artificio e <<Viva S. Giorgi>>, <<Viva lu nuostru Patrunu>>, <<Viva a spatulidda riali>> rientra nel suo tempio magnifico. Le campane suonano festanti, ma S. Giorgio non si ferma ancora, infatti, anche se in chiesa ormai, fa tre giri per le navate e finalmente riposa sul suo altare. S. Giorgio patrono e difensore di Modica ha concluso la sua giornata di festa tra i suoi fedeli, che, stanchi, ma felici, tra canti, suoni e fuochi d’artificio, ritornano dopo mezzanotte a casa. Ci fu un lungo periodo che a S. Giorgio fu vietato di scendere tra le vie di Modica 25


bassa, certo per evitare risse. Di recente però il Santo fa di nuovo il giro antico e visita tutta la città. SS.Madonna delle Grazie ( la cui festa ricorre la III domenica di Maggio ) E’ un’altra festa assai sentita dai Modicani e che si svolge con bancarelle, musica e fuochi d’artificio proprio nel Santuario dedicato alla Patrona di Modica Maria SS..Processione, bancarelle, musica, palloncini, fuochi d’artificio fanno da corona alla bella festa. Infine, davanti ai palchi delle bande musicali che strapazzano Verdi e Rossini, a simenta, i calacausi, a calia ,a pastigghia, a marruna i favi caliati, rappresentano, in ogni festa, per i modicani, il sapore di molte tradizioni che sono andate, purtroppo, perdute. S. Pietru (29 giugno) Anticamente caratterizzata purtroppo da un profondo antagonismo tra <<Sanpitrari>> e <<Sangiurgiari>> è preceduta da preparativi. Una volta precedeva il Santo , nella processione, la sfilata dei Santoni e decine di bancarelle formavano, lungo le strade, una pittoresca fiera-mercato.Il Corso è illuminato a giorno, per il passaggio del compatrono di Modica. A mezzanotte si scatenano i giochi d’artificio che, al solito, terminano con una solenne <<bummiata>>. La novena del S. Natale (Dicembre) Ci fu un tempo, nella nostra bella città, in cui a Natale si faceva il presepe nella stanza più bella della casa e, vicino alla grotta del “Bamminieddu”, si ponevano i pastorelli di terracotta e smalto, frutta fresca e dolci. In quei giorni passavano per le strade tre personaggi di Modica: Luigino ” u ciecu”, che suonava il tamburino, Pietru, maestro di friscaliettu e un altro poveraccio, chiamato “Mau mau” che accompagnava i suonatori e passava col cappello ( u tascu) per raccogliere le magre offerte della gente. In quel tempo il Natale era sentitissimo, entrava, per il cuore, fino nell’anima; dappertutto si cercava in campagna “a sparacogna” spinosa per fare la grotta e col cotone attaccato alle spine si faceva la neve. Con gli specchietti da borsetta delle mamme si facevano i laghi, e, messi in fila formavano i fiumi. E sopra si mettevano le ochine ed i ponticelli che i papà ritagliavano dal cartone doppio e, insieme ai figlioletti, coloravano, mentre nella cucina grande in cui immancabile troneggiava il forno, le mamme, le zie, le nonne, le cugine grandi, facevano i “cosi aruci ri Natali” (cobaita, cedrata, aranciata, torroni cioccolato, nucatoli, ‘mpanatigli, ‘mpagnuccata, cuccìa, sorbetti e geli, gelati e creme, i quali hanno la loro origine remota nel mondo spagnolo ed arabo) che ponevano “ne canniscia”, poi anche “scacciteddi e pastizzedda”, oltre, la vigilia,il tacchino, ed altro. Era una festa veramente di famiglia: “Pasqua con chi vuoi, ma Natali con i tuoi”, recita un antico proverbio ed è proprio così! In quei giorni d’attesa della nascita del Bambinello Gesù, scendevano fino in Sicilia, per tutte le città, dall’Abruzzo i suonatori di zampogna, i cosiddetti “sampugnari”, vestiti proprio con le pelli come i pastorelli di terracotta che noi bimbi mettevamo nel presepe. Senza voler sembrare sentimentali e mielosi, vi posso assicurare che è stato proprio un peccato sostituire il nostro fantastico presepe di “ sparacogna” con alberi di Natale, veri o finti, copiando una usanza del Nord Europa, che, pur bella e da rispettare, non ci appartiene!…… Ma….le tradizioni muoiono, si perdono senza che nessuno possa farci nulla….!!! Ma...chissà...se si rispettassero di più le radici di ognuno!….. 26


c) Putiei, suttasulara, funnara, viscuttara Molti sono stati gli scrittori modicani che alle taverne (la “”taberna” di latina memoria), i suttasulara, hanno dedicato l’inchiostro delle loro penne.Raffaele Poidomani, grande narratore,autore, tra l’altro, di due splendidi libri: “Carrube e cavalieri” e “ Tempo di scirocco”,sulle taverne e sulla cucina modicana ci ha lasciato delle bellissime pagine che, oltre ad enumerare le specialità che comparivano sulle mense nobili,borghesi e contadine, descrivono la gioia con cui i modicani si sono sempre avvicinati alla tavola. Questo geniale nobile scapigliato modicano che sposò una pianista di eccezionale talento, fine interprete chopiniana, la compianta Federica Dolcetti, amò particolarmente queste ultime pittoresche trattorie, appunto i “ suttasulara” o “putiei”. In questi locali semplici e genuini si poteva mangiare “ a favuzza ri Muorica co pizzuddu”(=fave dellle colline modicane molto cottoie,col bollito), o la “sausizza” fritta o arrustuta ‘nta bracia” o “a ialatina”(=gelatina) accompagnati da nettari di Pachino, Vittoria, Comiso, Marza. La salsiccia modicana si cuoce nel sugo (strattu), si frigge nel vino rosso, con le olive nere e “patatieddi”( = patatine), alla brace, alla griglia, o si gusta secca. Di quanto la salsiccia sia famosa nelle mense modicane ce lo certificano i versi del poeta modicano Carlo Amore, medico e letterato modicano, a cui è dedicata la nostra scuola, chiamato dal popolo “u zuoppu Amuri”: Elogiu ra sausizza <<Vanti cu po’ bantari lu stufatu, iu vantu a sausizza eternamenti, ca d’idda sulu sugnu ’nnammuratu. Né mi faticu tantu a rusicari, e mi l’agghiuttu allura facilmenti. Sugnu sicuru ca nun po’ affucari, pirchì nun avi né scarti né spini, ed è ’na cosa spiccia ri manciari. E’ nutritiva e m’piccica a li rini, fatta d’impastu di carni azzidditta ultra ri lu finuocciu e sbiezzi fini. Tutta è sustanza, bedda biniritta! E si po’ fari comu la vuliti: cotta, arrustuta, a stufatu e suffritta.>> C. Amore Nelle “putie” si riunivano, oltre ai filosofi, gli artisti, i letterati, gli intellettuali modicani dell’epoca, insieme alla gente del popolino, fra cui spiccavano caratteristiche figure di clochard come Luiginu l’uorvu, Cignalenta, Neli Scaccia, Pietru u frischittaru, u mutu, Pilli, Ninu Popò (quest’ultimo però era di più davanti alla Chiesa di S. Teresa a tendere la mano!). Per capire gli odori e i sapori di Modica bisognerebbe andare in una delle leggendarie “putiei” di Muscatedda, Candiano, di don Carmelo cuoppilarussa detto familiarmente “u zi Menu”, che purtroppo, hanno dovuto cedere il posto, per un naturale fenomeno di estinzione, ad altre che si chiamano: “ Da Nicastro” o da “Don Saro” (ottime e ancora all’antica) a Modica alta da “ Ringo”, a “S. Giabbicu”,da “don Mommo” a Beneventano. In queste taverne si può ancora riac27


quistare, nella frenetica fretta del nostro tempo, una dimensione umana che fa credere il mondo degno di essere amato. In questi locali si possono trovare ancora le fave che sono state per lungo tempo la carne dei poveri ed hanno sempre rappresentato per i modicani veraci un piatto della nostalgia. Oltre alle fave, si possono trovare “ i ciciri”, altro piatto antichissimo e gustoso, “ a fasola” con le cotiche di maiale, sposati al sedano della “Ciumara” dove la terra, una volta, profumava di basilico e di rosmarino. Ma, il piatto più tradizionale sono sempre state le fave: per i poveri che le mangiavano per necessità e per i ricchi che le assaggiavano per sfizio. Favi a minestra, a maccu, a sali minutu e con i lolli sono legati all’infanzia di ogni modicano e sa rebbero impensabili senza quei broccoli viola, i ciurietti che sono anche il riempitivo dei pastizza co’ laddicieddu ri maiali, o semplici con aglio, olio e pepe nero, o “a ita”, la bieta selvatica. Ma non solo i legumi sono eccezionali in questa terra che fu la nobile Contea, anche le verdure sono degne di figurare in un libro d’oro. I broccoletti, già citati, “i finocchi” , “u fasulinu”(=fagiolini), i “tinniruma” deliziose, dolciosissime foglie di zucchina lunga, i teneri “cacciuofili” (=carciofi) senza spine, le lattughe, la “ scarola”, la “cicoria ri campagna” la borraggine, “a spinacia” delicatissima; “ i cipudduzzi a mmazzu” e la dolcissima e grossa cipolla di Giarratana, che si può gustare cruda o con le fave a “sali minutu” o col pane di casa; l” aglio; “ i puorri”, cosiddetti <<pisci ra Ciumara>>, lo scalogno, gli asparagi selvatici, “ i sparici” con cui si fanno aromatiche frittate, le melanzane, entrate a Modica fin dai tempi delle moschee, infatti l’etimo viene dalla parola araba “badingiau”, di lontanissima provenienza asiatica. “I milinciani” diventano specialità a caponata, con la mollica, le acciughe e i capperetti , al forno, a polpette, per condire gli spaghetti al pomodoro, arrostite, bollite con l’ aceto e conservate nelle bocce “a stimpirata”, insieme alla salsa di pomodoro nelle “scacce” (=focacce); i peperoni che a Modica si chiamano “i biezzi” (derivano la parola da “ spezie”) che si fanno arrostiti, ripieni, fritti con cipolletta e pomodoro per accompagnare il tonno fresco (=a vintrisca ); i peperoncini rossi, “i biezzi addenti” che in ghirlande, come l’aglio, ornano le antiche grandi cucine; “i cucuzzieddi” (=le zucchine); a cucuzza (=la zucca), “i citrola”, “i pummaroru”. Che dire di questo sicilianissimo ortaggio che gli anziani chiamano ancora <<pumu r’amuri>>? Questa delizia arrivata in Europa dal Messico, originariamente venne usata come pianta ornamentale e poi è diventata il principale elemento delle salse. A Modica con i pomodori si fa lo “strattu”, i “ciappi ri pummaroru”. Ci sono tanti tipi e varietà di pomodoro, tra i quali, una volta “i prunella” erano attorcigliati in canne e venivano appesi verdi nelle cucine antiche, per avere “u pummarurieddu friscu” anche in inverno, erano detti “i pummaroru ra scocca”. “U strattu rappresenta il concentrato importante per gli stufati con carne di maiale, per la pastasciutta su cui abbondante nevica il pecorino o il caciocavallo, grattugiati 28


stagionati, per i “ cavatieddi” o per le lasagne o per i ravioli di ricotta deliziosi. E il pane? Sulla “maidda s’impasta il pane con il “cruscenti”, poi il pastone si trasporta sulla “briula” (=gramola), una tavola sagomata che somigliava alla silouette di una donna formosa. All’estremità di essa si sedeva “a funnara” che “scaniava”, mentre “u briuni” (asta lunga della gramola) cadenzato saliva e scendeva. Poi la donna con abili mani, in un rituale che era gioiosa armonia, tagliava un pezzo dalla massa, lo benediceva con una croce fatta col lato della mano e dava forma ai pani, mandandoli poi a riposare sotto pesanti coperte (mettiri u pani o liettu). Nel forno a frasche e legna, appena il tono del pane era giusto(si batteva con la mano lievemente , portandolo vicino all’orecchio) si infornava, e si infornavano anche “scacci” e “pastizza”. Si facevano anche dolci, ma questi non erano da farsi “na funnara” ma “na viscuttara”, dove si facevano: “viscotta ri saimi, ri miennila, ri uovu (affucaparrini), tarallucci, fringozza (savoiardi), e tante altre leccornie. Quando si faceva il pane, se rimaneva la pasta si facevano i cuddureddi, o i rutina ri caciu (rotelle con formaggio). D’inverno la brace che cadeva “na tannura” veniva raccolta e distribuita per le conche (bracieri) e per gli “scaffamani” (scaldini). La sera , quando si era fatto il pane, spesso si tagliava la “nciminata” (pagnotta) e si condiva con olio, origano, sale, “ciappe” di pomodoro a pezzetti, “anciuovi” (acciughe a pezzetti), scagliette di formaggio, o olive verdi o nere. “U pani cunsatu”veniva distribuito ai presenti come in un rito. E, per finire la dura giornata di lavoro, il S. Rosario e, a letto. Intorno alla casa dove c’era il forno la strada era a “bagghiu” (slargo), il cui acciottolato era fatto di “cuticci” e “valateddi” (basole). Lì arrivavano con muli e “sciccaredda” (asinelli) carichi di fascine contadini che tiravano fuori dai “viettili” (bisacce) con attenzione le ricotte custodite nelle “cavagne” (fiscelle) le cui aperture erano chiuse da foglie di “purrazzu” (foglie verdi di porraccio) e le “tume”che se ne stavano nelle “vascedde” (fiscelle). In inverno, ed a Natale si donava ai contadini “na scaccitedda” e un quarto di vino, se invece era primavera e tempo di Pasqua si offrivano “affucaparrini” o “tarallucci” o qualche “pastieri”, ma mai si scordava di offrire “ru aulivi niviri sutt’uogghiu o virdi a stimpirata”. A Pasqua era il Duomo del patrono S.Giorgio che trionfava col suo rosa barocco in un tripudio di “linineddi” (rondinine). Sembrava che quel duomo scaturisse dalla città di fronte a Cartellone. Quando si <<scioglievano >>le campane si faceva fare ai ragazzini il salto dal letto, dicendo: <<Crisci santu e ranni>> e si donavano i “palummieddi”(colombelle) con le uova sode o “nzuccarati”, anche a forma di sportine (borsette), “iadduzza” (galletti), “scuzzari”(tartarughe), “ucidduzza” (uccellini). C’erano anche i “cucciddata” (ciambelle) e i “ ‘mpanati”, retaggio spagnolo, con agnelletto, o con patacche, o con baccalà e patate. A quelle delizie si accompagnavano miriadi di biscotti che, in candide tovaglie andavano a finire in cestoni o nei cassetti delle<< buffette>> (tavolini), che venivano sempre aperti perché le mamme, le zie, le nonne, offrivano “i cosi aruci” e li regalavano ai bimbi. Nella grande cucina 29


dappertutto si poteva nascondere la “liccumia” (leccornia), una inaspettata “truvatura” di “cosi aruci” (cose dolci) che faceva la festa dei “picciriddi” (piccoli). Altre leccornie della cucina modicana erano: i “vavaluci” (le lumache), le triglie a stimpirata, tonno con pomodoro e cipolle, baccalà fritto, bollito, in umido,fritto misto di pesce, spada alla griglia, seppie, calamari. Martedì “ra Maronna ri l’Itria” Tradizione quasi del tutto scomparsa che si riallaccia alla cacciata degli Arabi dalla Sicilia. Avendo vinto gli Arabi, i modicani si riunirono sul colle d’Idria per vederli scappare: la Madonna aveva guidato la popolazione contro di loro e la popolazione, per la gioia, rimase su a bere ed a banchettare. In seguito, questo storico avvenimento si perpetuò nella tradizione andando il Martedì dopo Pasquetta presso il Santuario della Madonna, detta appunto d’Idria, a mangiare le “scocce re ‘mpanati” cioè i rimasugli, gli avanzi di Pasqua e del Lunedì di Pasqua . Oggi si va ancora ad onorare la Madonnina per la sua festa, ma più che altro si ascolta la S. Messa e si comprano i “piretta”, zucchero filato, ” a simenta e i calacausi”, sulle bancarelle. Interessante è notare un motivo ricorrente e non solo anticamente: la Madonna che protegge e aiuta i suoi figli, cioè la divinità della figura femminile, la madre di Gesù e madre nostra, la donna-madre che ci guida e vince contro il male.

V lezione: a) Valori legati al dialetto e ad un’epoca: “i cosi re muotti”, “cunsulu”, “riepitu”, “scogghiri”, “spitrari”, “a cruci supra o pani”,ecc. ecc. b) La posizione e la funzione della donna nella società siciliana. c) Proverbi, canti ( d’amore- di gelosia– di sdegno) ,nenie, indovinelli, mottetti. a) Valori legati al dialetto e ad un’epoca: “i cosi re muotti”,……. Riallacciandoci alle tradizioni proprie della cultura modicana, nel mese di Novembre, secondo un’antichissima usanza, si portava un pane sulla tomba di un defunto e i bimbi trovavano “i cosi re muotti”. E’ un ricordo vivo, vero, struggente, di un’epoca in cui persino i cimiteri erano più piccoli e le città sembravano abbracciarli e proteggerli dall’inutile rumore del mondo. Emerge quindi la problematica inerente la realtà della <<morte>>, che è vissuta come un evento ineluttabile, tragico e doloroso, ma anche come momento sereno e conclusivo della vita. Infatti i nostri cari defunti, i “penates” latini, non ci abbandonano mai, ci proteggono con le loro preghiere e ripensare a loro significa ricavarne forza e sicurezza per affrontare le durezze della vita. Nella nostra cultura il “morto” non è mai veramente “morto”, ma continua a vivere sia nelle case (foto, lumini, “patruni ri luocu”, ecc. ecc.), sia nella società. Pensiamo che fino a una o due generazioni fa da noi c’era la “Festa dei morti”, durante la quale i bimbi ricevevano doni dall’ “armuzzi re mutticieddi”. Da noi non c’era la befana o babbo Natale, ma i nostri morti che portavano i doni ai piccoli. Praticamente i bimbi erano educati ad amare gli antenati, a non temerli, perché loro sono le nostre radici, da loro si trae l’esempio e l’orgoglio della serietà, del senso di giustizia, della bontà, dell’onestà, del fatto che il nostro nonno, e il bisnonno e il trisavolo ecc. ecc. , per esempio, erano “onesti e travagghiaturi”. La vita di chi ci ha preceduto continua in noi ed anche la nostra fine non sarà morte assoluta ed in ogni senso, ma seguiteremo a vivere nei nostri figli e nipoti. C’è in questa visione una ciclicità della vita, un modo circola30


re di rapportarsi con la realtà che ci richiama i cicli delle stagioni. D’altronde siamo in un paese agricolo e poi, tutto ciò che è circolare, è sacro, armonico, concluso. In fondo questo concetto si rifà ad un modo di intendere la realtà morte-vita che troviamo in altre culture represse come quella dei Pellerossa, gli Indiani d’ America. Alla sacralità di questo evento ineluttabile che è la morte, è legata un’altra usanza ormai scomparsa anch’essa: “ u cunsulu”, che consisteva nel portare cibi e bevande alla famiglia del morto, che non può accendere il fuoco. Tale usanza è riscontrabile nelle genti di tutto il bacino del Mediterraneo: greci, etruschi, romani, ecc. ed è anche insita nella tradizione cristiana della S. Comunione. Altra usanza del tutto scomparsa era “u riepitu”, cioè il canto , anzi la cantilena lamentosa e ripetitiva che constava di una parte contenutistica in cui si raccontavano le qualità del defunto, lo si invocava ,lo si chiamava in modo straziante e con i più dolci appellativi:<< Figghiu, figghiu miu, iarofilu ciaurusu, picchì mi lassasti…..>>. Questa antica usanza si riallaccia al canto delle “ prefiche” greche, donne addirittura prezzolate che seguivano il defunto e si disperavano invocandolo e strappandosi vesti e capelli. Il nostro mondo era a misura d’uomo che con l’umiltà dei figli di Dio agiva mettendo in ogni gesto sacralità e speranza, come, ad esempio, il segno della croce sul pane, sulla fasciatura dei neonati, o i canti durante “u scogghiri”, la spigolatura che allora era il sostegno del nostro bracciante, il quale si recava, con tutta la famiglia, a spigolare verso l’interno dell’isola, fino alle porte di Palermo, fin dove si estendeva la Contea di Modica. Altra usanza perduta è quella re “mastri re mura” che “spitravinu” il terreno e costruivano i bellissimi “mura a siccu“, utili per dividere le proprietà, i “bancales” arabi. Si chiamavano “a siccu”, perché erano tenuti insieme senza né calce né cemento di sorta, ma solo con un lavoro di paziente incasellatura dei tasselli tra loro. I “mura a siccu hanno ispirato uno dei più noti nostri poeti dialettali modicani, Carmelo Assenza, di indiscussa sensibilità poetica. “MURA A SICCU “

Mura a siccu ca parrati Sulu a cu bi sa capiri E la terra arraccamati Ccu disigna a nun finiri? Ah putissi ‘gn’juornu aviri, Vurricatu ‘nta n’agnuni, Ppi cummuogghiu ‘n muru a siccu Cumminatu a mannaruni… Nna lu mienzu ci spuntassi Rogni tantu l’irvicedda, E all’ussidda ‘n cci mancassi Mai re petri a friscuredda!…

Mura a siccu, ’ntaviddati Ccu pitruddi arricugghiuti Nne vignala e puoi ‘ncugnati, Nne pirtusa, nna li casci, Mura nichi, mura vasci Ppi’ siddacchi, ppi’ cusciati, Mura fatti a ‘na traversa Ca scinniti, c’accianati, Ritti ritti, a cudduredda Ppi li costi e bbi pirditi… Unni iti! Unni iti Comu tanti scursunedda,

(Carmelo Assenza: premio Vann’antò 1981)

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b ) La posizione e la funzione della donna nella società siciliana Oggi non è più così, ma nella società siciliana c’era una scarsa interazione tra il mondo maschile e il mondo femminile, riscontrabile anche in canti assai belli del carrettiere che canta sul carro e si lamenta che la donna di cui è innamorato è come tenuta in prigione, non esce mai. Nel suo canto si vede l’animo nostro, infatti come gli spagnoli, i greci, gli arabi possediamo un forte afflato lirico, armonia, calore,il profumo della nostra terra si nota in noi come in tutti i popoli del bacino del Mediterraneo ed anche i forti sentimenti sono virulenti e talvolta distruttivi. La gente siciliana verace sa amare veramente, ma anche veramente odiare. Citiamo, a proposito, dei dolcissimi canti carrettieri: Si schittulidda e si tinuta forti Chi si ‘gnalera ca nu niesci mai, Chi su murati li finestri e porti, Chi su cuntati li passi ca fai? Nun mi ni curu se baiu a la morti Basta ca ti lievu r’unni stai.

“Massara” modicana nel costume della Contea

CANZUNI CARRITTERA I Passu, cantannu, ri la ta vanedda Cu lu cavaddu miu ‘ncincianiddatu, E cu lu cori ‘mpintu ‘nta lu ciatu Cantu pinsannu a tia, Cuncetta bedda.

Rit.

IV Agghiu ‘na casa parata ri ciuri Sutta nu munti,ammienzu a la campagna, E quannu Cuncetta mi sarà cumpagna, Chiddu è lu niru ri lu nuostru amuri.

Rit. Alliestiti baiuzzu a caminari, ca prestu mi vuogghiu arricampari II Quannu mi truovu ‘mmienzu a lu stratuni Mi viru sulu e m’affaccia lu ciantu, ‘mmeci vicinu a tia sempri cantu, Accumpagnatu ri li to vasuna. Rit.

Alliestiti……..

Rit. Alliestiti…… V Cuncetta è lu me suonnu e la mia spranza Ar’idda ‘mmiru l’ura ri viriri. Curri cavaddu miu ‘nciancianiddatu, Ca muoru se nun c’è Cuncetta a latu! Rit. Alliestiti bajuzzu a caminari, ca prestu mi vuogghiu arricampari.

Alliestiti………

III La ranni luci ri l’ucciuzzi tuoi Mi teni misu ‘ne ‘mmari ri gghioi E spieru tantu, prestu caminannu, R’accarizzari li capiddi tuoi.

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“ U carrettu” per la nostra cultura agricola era un elemento tipico ed indispensabile. Era a due ruote alte, con fiancate e spalliera ricche di vivacissime e coloratissime decorazioni dipinte con scene tipiche dei paladini di Francia, o della Cavalleria rusticana, o della vita di S. Giorgio cavaliere e ricco di intagli che sembravano preziosi ricami a motivi floreali. Sotto i dipinti la scritta: <<W. S. Giorgio>>. Le scene dipinte erano di immensa suggestione, e non per niente fanno del “carrettino siciliano” uno dei caratteristici souvenir della Sicilia. Anche il corteggiamento è ben raramente esplicito, infatti si ammanta di ironia ed arriva ad assumere, talvolta, caratteri dispregiativi, la cosiddetta “Canzuni ri sdiegnu”: << Laira, brutta e facci ri ruviettu, Cu lu culuri ri la milinciana, E li rintazzi ri ‘ncavaddu viecciu… Cu ti talia sta tintu ‘na simana. Na vota mi cuccai ne lu to liettu E appi ru anni ri mala quartana.> > Ma l’estrosità, l’espansività, l’ “amuri”, forte sentimento, è appannaggio del canto del nostro contadino che racchiude in esso una schietta filosofia della realtà che esprime l’indole della nostra gente genuina e semplice come lo spirito campagnolo che pervade liriche aggraziate e appassionate, usando una lingua-dialetto che permette al contadino innamorato di arrivare all’assurdo, ma all’assurdo sublime: <<Nun vuogghiu ca cu l’acqua t’ha lavari Ri l’acqua stissa mi n’agghilusiu. Quannu stu biancu visu t’ha lavari Sagna na vina ri lu piettu miu!>> Si nota benissimo la disposizione psicologica istintiva della nostra gente verso la lirica che riesce ad esprimere con scioltezza sentimenti personali in un linguaggio sonoro e pittoresco: << Ucciuzzi ri na vera calamita la ta biddizza ha statu ammuntuata, Fusti ’nfasciata ne ’mmelu ri sita, Supra lu munti Libbanu vattiata. Ri quanti beddi vieninu a la zita Tu sula ha statu sempri la taliata, Ca quannu arriri tu runi la vita E duni morti quannu si ’ncagnata>> O anche:

<< Bedda ca ti putissinu culari Bedda nall’uocci e bedda ni lu cori Bedda na vucca, bedda no parrari Bedda la facci tua, beddi li muori; Bedda, quannu ti minti a caminari Ciaura a strata ri rosi e ri violi>>

Delicatissima, e insieme appassionata quest’ultima: <<Umili e bianca comu lu cuttuni, Ca ri li beddi lu stinnardu tieni, Tutti li stiddi stanu addunicciuni Ca prejnu ppi tia, uocci majari! 33


Oh, Diu, facissi n’annu ri riunu Cantassi ogni tri uri ‘mmisireri Ppi biririti ammenu ammucciuni, Ppi basari unni minti li ta pieri!>> Se noi riflettiamo, alcune tradizioni, in fondo, scompaiono perché non sono più funzionali: oggi l’auto, la trebbiatrice, il camion, hanno sostituito il lento carro agricolo tirato da muli, asinelli o cavalli, i tempi si sono accorciati ed oggi, in ricordo di quei bei tempi antichi, si possono vedere ancora in giro delle “api” di fruttivendoli o camioncini di gelatai che hanno all’interno le cassette con canzoni dell’ultimo festival di S. Remo, ultimo retaggio del famosissimo e bellissimo “carretto siciliano”, tipico della nostra cultura. << Πάντα ρει~ >> ( = tutto scorre, tutto passa), direbbero i greci!….. Ma riprendiamo il discorso della donna che, una volta ricevuto il consenso,va sposa, portando la “rota” cioè la dote e, se può, “i rinari ra casa”cioè i soldi per poter comprare la casa. La sposa era timida e compunta, pur felice, commossa e frastornata, mentre il padre che l’accompagnava e il marito che la proteggeva all’uscita della apparivano impettiti e soddisfatti. Analizzando, se pur brevemente, queste tradizioni, si riscopre il rapporto tra donna e società in Sicilia, dove la donna funge da “trait-d’union”tra il mondo maschile e la società, tra prodotto economico e sua utilizzazione. Infatti compito della donna è quello di gestire il mondo maschile ed il prodotto del suo lavoro. Essa è responsabile dell’aspetto del marito, ma principalmente della sua onorabilità e virilità; è la custode del focolare e dei figli che deve educare. Nell’uomo siciliano, il senso così vivo e spiccato di possesso verso la sua donna (moglie, figlia, madre, sorella) ha anche radici storiche ben precise. Di fatto la virilità e l’onorabilità dell’uomo non poteva esprimersi nel suo rapporto col lavoro o con la società. Egli infatti vendeva le proprie braccia al padrone, non aveva diritti sindacali e subiva quotidianamente umiliazioni d’ogni genere. Solo nell’ambito familiare l’uomo ritrovava la sua onorabilità, la sua virilità, la sua dignità. Quindi la millenaria condizione di subordinazione, di fatto è sempre rapportabile al contesto storico e si mitiga, liberalizzandosi, in quella profonda cooperazione pragmatica che è satura di affetti, di stima e di consolazione reciproca. c) Proverbi, canti, nenie, indovinelli, mottetti. I proverbi sintetizzano la sapienza popolare e ne esprimono la ricchezza. Sono frequenti nell’uso quotidiano del parlare. Ne citiamo alcuni: “Ama cu t’ama e dunici lu cori, C’amari cu nun t’ama è tiempu persu” “E’ beru ca l’amicu si n’affrigghi Mischinu cu l’ha ‘ncuoddu li travagghi” “ Scrusciu ri catta e cumpaita nenti” “ Cu pati pp’amuri nun senti riluri” “Acqua, cunsigghiu e sali,a cu ‘ntinaddumanna ‘nci ni rari”

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“ Cu zappa zappa a so vigna, cu a zappa bbona bbona a vignigna” “ Parrari picca e bestiri ri pannu, mai a lu munnu ha fattu dannu!” “ Pigghia munnizza ro ta munnizzaru e se nun puoi ...accattila!” “ Cu bedda vo’ pariri, ruluri ha sintiri”. Le canzoni, come prima si è detto, dovevano fare da bordone durante la strada percorsa sui carretti, di notte soprattutto, quando c’era meno caldo e quando, sotto la grande volta stellata, la commozione si faceva infinita. Allora le canzoni diventavano più tenere e malinconiche e, non di rado raggiungevano accenti di sincero dolore: << Assira mi sunnai ch’era cu nuddu E nuddu si sunnau ch’era cu mia. Mi vaiu pi vutari e ‘ntruovu a nuddu E nuddu si vutau a truvari a mia. Lu vuoi sapiri picchì nun’hagghiu a nuddu? Ca picchì nuddu voli beni a mia!>> E che dire delle dolcissime ninne-nanne su cui è riversato tanto amore materno e che la donna accompagnava con la “nacata”della “naca”(= la cuna) che talvolta, per mancanza di spazio era sollevata a mo’ di nido sopra il letto matrimoniale e, con un sistema di funi era facile far dondolare ( “a naca a bientu”). << Avò la figghia è bedda La mamma la vò fari munachedda E la vò mintri na batia ciù bedda Avò …..vò Avò com’agghia fari Ca notti e ghiuornu tu mi fai pinari Ca pari comu l’unna ri lu mari Avò….vò Fai l’avò e falla arrieri Si figghia ri S. Giorgi cavaleri Si bedda e tunna Ra testa fina e pieri Avò….vò S. Antuninu, mannatici nu suonnu Luoncu e cinu Ri prima sira finu a lu matinu. Avò….vò ecc. ecc. Questo è solo un esempio degli svariatissimi “Canti della culla”, il cui uso,ahimè, è ormai scomparso! Quei dolci, suadenti inviti al sonno, versi scanditi sul cricchiare dei ganci di ferro, agli occhielli a muro, delle alte cune a vento, o dal ritmico movimento avanti e indietro che la mamma, tenendo stretto al cuore il bimbo all’unisono col battito del suo cuore di mamma. Simpaticissimi, cambiando tema, gli allegri mottetti o burlette tipo: <<Ahi, ahi, ahi, chi muggheri ca m’accattai M’accattai ca vugghia e u itali E nun la vitti cusiri mai…>> Gli indovinelli poi sono intrisi di quell’ “italicum acetum” di plautina memoria nel bir35


bante gioco del doppio significato:<< Iu l’agghiu e tu mirè, ma u tuou comu o miu nunn’è>>(il nome).

VI lezione a) Il dialetto raffigurativo b) Premessa alle note di grammatica Note di Grammatica (a cura del Prof. Spadaro) c) Conclusione: “ Sutta a maccia ra carrua”; “A ma matri”; “Muorica” (C. Assenza) e “ A Maronna ra Razzia”( C. Assenza). a)

Il dialetto raffigurativo

I modi del nostro parlare, pieni di spirito e di brio sono meglio rappresentati, talvolta, in un dialetto fatto di gesti, oltre, o al posto delle parole, per essere più esplicito e comprensibile tra la gente. Il siciliano raffigurativo è plasmante, perciò, sulla figura operante e moltissimo, come nella parlata e nelle costruzioni grammaticali risente, di modi di fare e di costrutti arabi, oltre che latini, greci, romani, spagnoli, francesi, normanni. Ad esempio: 1 la “scacciatina” dell’occhio come segno convenzionale (comune all’arabo); 2 il segno col pollice verso retro per indicare che c’è qualcuno che ci segue; 3 indice e pollice a mano semichiusa sulla guancia per significare qualcosa o qualcuno di saporito, gustoso, bello; 4 afferrare e attorcigliare la punta dei baffi quale segno di minaccia ( anche in arabo); 5 il gesto della mano che si chiede per dire <<a cui a cunti?>>; 6 il medio e l’indice a v, per indicare che c’è “a cummari” cioè la polizia; 7 la mano con indice e pollice aperti e scossi per dire: <<nun c’è nenti ppa iatta>>; 8 le dita semiaperte e rivolte in basso rigirandole, come per dire: <<t’ancipuddiai>> (= ti presi in giro) (arabo); 9 mandare un bacetto più o meno appassionato sulle dita per dire <<quantu si bedda>> (dal greco); 10 fingere di tirare una corda dall’alto in basso a pugno chiuso per <<campaniari>> cioè: o nel significato proprio di “suonare le campane” ovvero in quello di “prendere in giro” (arabo). Ecc. ecc…… b)Premessa alle note di Grammatica Gli idiomi siciliani risultano diversi da provincia a provincia, secondo la stratificazione etnica e soprattutto secondo l’influsso dei vari dominatori, e le regole di grammatica non sono un’invenzione, ma vengono rilevate da motivi ricorrenti nel dialetto, così come nella lingua. Perché teniamo sempre presente che il dialetto non è una corruzione della lingua, come si è ritenuto comunemente per comodo conformismo e per spiccata ignoranza, ma uno strumento comunicativo in cui confluiscono tradizioni e culture, che posseggono, certo prioritariamente, gli stessi titoli di nobiltà di quelli presenti nella lingua. L’idioma siciliano ha grammatica e classici propri, e noi prendiamo ad analizzare, nelle linee essenziali e certo sommariamente il dialetto modicano. Note di grammatica (a cura del Prof. Spadaro): L’ALFABETO A differenza dell’italiano, l’alfabeto della lingua modicana è formato da 25 lettere, necessarie a comporre i nostri vocaboli. Attualmente le lettere sono: a, b, c, ç(moscia) ;d; dd (cacuminale); e, f; g; ggh (morbida); h; i; j(consonantica); l; m; n; o; p; q; r; s; t; u; v; z. 36


L’Articoli determinativi In origine gli articoli erano tre: lu; la; li,che per metafonèsi sono diventati ‘u; ‘a; ‘i. Davanti alle parole che iniziano per vocale però, a volte, si è mantenuta la forma originaria l’(es. l’uomminu=l’uomo). Contrariamente all’italiano si apostrofa anche il plurale (es.l’uocci=gli occhi ). Eccone un quadro (lu’) ‘u, l’=il lo es. ‘u ciumi, l’uorivu (la) ‘a, l’= la es.’a ciazza, l’aliva (li) ‘i, l= i, gli, le es. ‘i ciumi,’i fogghi, l’uorivi. Davanti a parole che cominciano per vocale a volte si elide l’articolo, a volte si elide la vocale della parola che segue.Es. amici m’aiutinu comu puonu= gli amici mi aiutano come possono; Aieri pigghiaru ‘i ‘ssassini= ieri hanno preso gli assassini. Articoli indeterminativi Hanno tutti l’ellissi o della vocale iniziale o di entrambe le vocali e si apostrofano sempre. Eccone un quadro: ‘nu, ‘n, ‘m, gn’(un, uno) Es.’nu bancu=un banco, n’uocciu=un occhio,(voi= bue) m’moi= un bue, (saccu=sacco) ‘nzaccu= un sacco,’n’jaddu=un gallo,’ncani= un cane, ‘mpiu= un tacchino,’nn’ui=un due. ‘na, n’= una, un’ .Es. ‘na jaddina= una gallina, n’anca =una gamba Pronomi personali Allo stesso modo si comportano i pronomi personali:lu, la, li, che diventano:’u, ‘a, ‘i, ma mantengono la l quando sono usati come suffissi uniti ad un verbo all’imperativo (pigghilu), e all’infinito e nei composti possono raddoppiare la l; es. pigghiatillu, fallu, fattillu riri. Il raddoppiamento della consonante avviene anche nei pronomi personali: mi lu, ti lu, si lu, ni lu, bi lu, vi lu, pigghiatammillu, pigghiarasillu, rannilli, accattatabilla, vinnitabillu. La particella pronominale “ni” esprime sia la particella pronominale “ne”, sia il pronome personale: ci ni pigghiai ‘nquartu=ne presi un quarto.Saru ni rissi ri nesciri= Rosario ci disse di uscire. Mi, ti, ni, come suffissi dell’imperativo raddoppiano come in italiano. Es. ramminni=dammene, fanni=facci, fatti virri= fatti vedere. Ci esprime i pronomi italiani gli, le e loro non preceduto da preposizione. Es. ci rissinu ri ciamallu subbitu= gli o le dissero di chiamarlo subito. Pronomi personali e particelle pronominali usati come suffissi del verbo all’infinito ne assimilano la r. Es. s’jnn’iu pi ciamallu= andò a chiamarlo. Le nostre particelle pronominali si fondono con gli articoli ’n, ’a, ’i, aventi funzioni di pronome come segue: Mi + ’u = mo, mu (mi lu = me lo); mi +a= ma( mi la = me la); mi +i= me(mi li =me le);ti+u=to, tu(ti lu = te lo); ti+a=to, tu ( ti lu = te lo); ti+a ta (ti la = te la );ti + ’i =te (ti li = te li, te le); si + u = so, su ( si lu = se lo) ; si + ’a =sa ( si la = se la ); si + ’i = se (si li= se la, se le);ni + ’a = na (ni la = ce la ) ; ni + ’i = ne (ni li = ce li, ce le); bi + ’u= bo, bu ( bi lu= ve lo); Bi + ’a= ba ( bi la = ve la ); bi+ ’i = be (bi li = ve li, ve le); ci + ’u =ciù ( ci lu = glielo); 37


Ci + a = cià ( ci la = gliela ); ci + ’i = ce (ci li = glieli, gliele). Es Se manciaru= se li mangiarono. Gli accenti circomflessi sono necessari soprattutto nei casi in cui possono dare luogo ad equivoci. Es ta resi ta matri= te la diede tua madre. Dall’esempio si evince che ta e aggettivo possessivo, mentre ta, con l’accento circonflesso, è una particella pronominale composta. Preposizioni semplici: Mancano da e su, mentre ne abbiamo una diversa, la ’nti o ni. A, ar = a . Es a niautri = a noi; a riddi = a loro; ri, ’i, rir, ’ir= di, da. Es ri niautri= di noi, ri riddi = di loro; pi, pir= per . Es pi niautri= per noi; pir unu = per uno; cun, cum, cu, cur= con. Es cun nui= con noi, cu biautri = con voi; cur unu ri riddi = con uno di loro; cu jarbu= con garbo; an, agn, am (+b, p, m) = in. Es an campagna = in campagna; agn’jalera= in galera; ‘nti, o ni, ’ntir o nir= da, presso , dentro . Es ni ma zia= presso mia zia; ’ntra= fra,tra. ‘ntra niautri= tra di noi. Preposizioni articolate: O, all’= al, allo. Es. u purtaru o paisi= lo hanno portato al paese; u resinu all’autru frati =lo hanno dato all’altro fratello.A, all’ = alla Es. a zia= alla zia; all’autra suoru= all’altra; e, all’, = ai, agli, alle Es. e ranni e e nichi= ai grandi e ai piccoli; ciamau all’uommini= ha chiamato gli uomini;ro= del, dello, dal,dallo. Es. ro mari = dal mare; ra zia = della , dalla zia;re =dei, degli delle Es.re ziei= dalle o dagli zii; po, pill’= per il, per lo Es. po ziu= per lo zio, pill’autru= per l’altro; pa, pill’ = per la Es. pa zia = per la zia; pe, pill’=per i, per gli, per le Es. pe ziei = per gli o le zii o zie;co= con il, con lo Es co cavaddu = col cavallo;ca = con la Es. ca manu= con la mano; che= con gli, con i, con le Es. che manu= con le mani; che cavaddi= con i cavalli; an = in non si compone mai con gli articoli al suo posto si usa ’ni o ’nti nella forma composta.no, ’nto= nel, nello, presso il, presso lo; ni l’ oppure ’nti l’= nel, nello, nella, presso, Es. no (’nto) vignali= nel, presso il campo; na,’nta=nella , presso la; nall’, ’ntall=nella, sulla, presso l’.Es. accianau ’nta maccia = E’ salito sull’albero, nall’autra casa= nell’altra casa; ne o ’nte ,ni l’ o ’nti l’ = nei, negli, nelle, presso il, sul. ecc.Es. acciana ne o ’nte macci = sono saliti sugli alberi. N.B. Davanti agli articoli indeterminativi non si usa an ma ’nta, in funzione di avverbio. Es. ’nta na casa= in una casa, ’nta n’uortu= in un orto ,’nta gn’jardinu= in un giardino. Verbi: Mancano nel nostro modicano il modo condizionale ed alcuni tempi dell’indicativo e del congiuntivo. I modi finiti sono: l’indicativo, il congiuntivo e gli imperativi: categorico ed esortativo. I tempi dell’indicativo sono: il presente, l’imperfetto ed il passato remoto,nonché il trapassato prossimo. I tempi del congiuntivo sono: l’imperfetto ed il trapassato. Tutti i tempi composti, anche il verbo essere, vogliono l’ausiliare avere Es. avia sciutuprestu= era uscito presto; aviemu statu ’ncampagna = eravamo stati in campagna; agghiu statu ciamatu = sono stato chiamato. Al passivo l’ausiliare essere viene usato per dare maggiore risalto all’azione del ver38


bo. Es. avia statu riciamatu cu forza = fui rimproverato aspramente. Si può anche dire: Vinni riciamatu cu forza. La coniugazione del verbo «Essiri»o « Siri» = essere

Modo indicativo Presente Iu sugnu(napoletano: songo) Tu si Iddu è o eni Nui siemu Viautri siti Iddi sunu o su Passato remoto Iu fui Tu fusti Iddu fu o funi Nui fuommu Viautri fustru o fusciu Iddi fuoru

Modo congiuntivo

Imperfetto

Imperfetto Ca iu fussi Ca tu fussitu Ca iddu fussi Ca nui fussimu Ca viautri fussivu Ca iddi fussiru

Iu era Tu eritu Iddu era Nui erumu Viautri eruvu Iddi erunu

Trapassato Ca iu avissi Ca tu avissitu statu Ca iddu avissi statu Ca nui avissimu statu Ca viautri avissivu statu Ca iddi avissiru statu

Modo imperativo Trapassato imperfetto Iu avia statu Tu avievitu statu Iddu avia statu Nui avieumu statu Viautri avieuvu statu Iddi avievinu statu

Categorico Agghia a ‘ssiri iu (aju a ‘ssiri iu) Ha’ ‘ssiri tu (Hai a essiri tu) Ha’ ‘ssiri iddu (avi a èssiri iddu) Ama a ‘ssiri nui Ata a ‘ssiri viautri Ana a ‘ssiri iddi

Futuro manca

Esortativo (manca)

Modi infiniti Presente:èssiri,siri Part. Pres. ( manca) Ger. Sempl. siennu

Passato: aviri statu Part. Pass: statu Ger. Comp.: aviennu statu

Conclusione Il « Progetto Dialetto» è stato realizzato sulla spinta di un rinnovato interesse nei confronti di un patrimonio immateriale fatto di parole, suoni, tradizioni orali e scritte che contraddistinguono l’identità e l’appartenenza al luogo delle proprie radici e che, per effetto della globalizzazione multimediale rischia, col trascorrere del tempo, di essere accantonato, o, peggio, dimenticato. Il gruppo classe della III A a t. p. frequentante in questo anno scolastico 2001-2002, si accinge a concludere il presente lavoro senza avere la pretesa di essere stato esaustivo dell’argomento, che meriterebbe ben più ampi spazi, ma col desiderio di avere suscitato nel lettore i sentimenti con cui si è accinto a svolgerlo: amore per la propria terra, perché è solo rivitalizzando il nostro linguaggio come patrimonio intrinseco alla nostra cultura che riscopriremo le nostre radici di cui dobbiamo essere più che mai orgogliosi e fieri. Il leggere, rispolverando tradizioni, letteratura, arte popolare e non, del nostro laborioso e nobile popolo modicano ci fa affermare con assoluta certezza, e se ce ne fosse ancora bisogno, ci fa ribadire che il dialetto modicano, come ogni altro idioma 39


locale, va difeso e coltivato perché è patrimonio del nostro particolarissimo ambiente fatto di antichissima storia, patrimonio che merita una giusta collocazione nel contesto della linguistica siciliana, italiana e, perché no, europea. Quest’anno è stato bandito un concorso sul «carrubo», a cui noi abbiamo partecipato con un lavoro di gruppo, e con una poesia dialettale su questo bellissimo, ombroso albero, avvalendoci della collaborazione, non solo della nostra insegnante di Lettere, ma di quella di un’altra insegnante a noi altrettanto cara, la Professoressa di inglese Graziella Stracquadanio. Dato che è composta nel nostro dialetto, dato che il presente è un lavoro sul dialetto, ve la vogliamo sottoporre: SUTTA A MACCIA RA CARRUA

Ravanti ra ma casa apprima c’era ‘na maccia ri carrua ranni ranni, Ma nannu si priava e mi ricia C’avievinu ciantatu i ratananni Ne jorna ri gran suli e ri calura Sutta dda maccia iddu sulia stari Lu friscu si pigghiava, e la so vita Tuttu lu iuornu si mittia a pinsari. Na naca mi cunsau, e che ma frati Sira e matina all’ummira iucava Puoi quannu iu stancu mi sintia O cantu ri ma nannu m’assittava.

E iddu mi ricia:<< Talia, figghiu, Comu sta maccia a lu suli arriri Avi li rami sempri virdi e ranni R’unni ti vuoti e buoti tu li viri.>> Puoi si zittia...e iu lu taliava… E iddu comu dda maccia mi paria, N’uomminu ranni, fotti e ca m’amava Ocantu a r’iddu sicuru mi sintia… ...propriu comu sutta dda maccia ri carrua. (Il gruppo classe III A a t. p. )

Per il progetto «Continuità» inoltre, la Scuola materna ha proposto una delicatissima poesia sulla MAMMA, per il giorno della sua festa. Vi proponiamo anche questa: Se lu ma senzu ancora Nun s’ha persu, Lu viri, mamma È pirchì piensu a tia A tia ca si la miegghiu puisia E ri la puisia lu miegghiu viersu. Ogghi ricurri la ta festa E iu ca nun mi scuordu la iurnata T’uoffru tuttu l’amuri Ri sta terra E tu, mammuzza Rammi ‘na vasata.

Mamma, Mammuza mia Se nun avissi a tia Intra stu munnu Mi sintissi persu. Ti vuogghiu beni Chiù ri l’universu Chiù ri la vista E chiù ri l’arma mia.

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Per finire due poesie assai belle del nostro Carmelo Assenza, che noi dedichiamo al nostro carissimo Preside, Prof. CARLO AMOROSO, sempre sensibile e disponibile ai nostri desideri ed alle nostre esigenze, ai nostri Professori che ci hanno aiutato, alla nostra bella scuola, al nostro paese bellissimo e ricco di storia e, prima di tutto alla MADONNA delle GRAZIE che deve sempre proteggere Modica da ogni calamità, insieme a S. GIORGIO ed a S. PIETRO. MUORICA

A MARONNA RA RAZZIA

Muorica,è ‘n paisi fabbricatu Supra stu cuozzu, supra ddu stimpatu; Nta rutti e nta sintera accunigghiatu, E ppi la cava cca e dda pusatu… Ma ri sti cozza ammuscia, e si ni loria, A que ca veni la so barcunata… Legghi lu furistieri nta facciata Ri lu Castieddu tutta la so storia… Paisi ranni, Paisi ca vantau Uomini ‘llustri comu ‘nCampaidda… Paisi ca’n gnuornu a la faidda Ri ‘nCarlu Papa tuttu s’addumau…

O Marunnuzza, o Matri ‘nniputenti Matri ‘ntra li matri la cciù Santa Talia stu munnu!…. Comu si sbacanta!… Ri juornu ‘n gnuornu nun arresta nenti… Ar ogni spunta ‘i suli c’è na cruci…. Ar ogni fatta ‘i cruci na fuddia Ca va ghittannu l’uomu a la stranìa E surdu puoi l u ‘rrenni a la to’ ‘uci Talia chi su riddutti li to’ figgi! ‘ na mannira ca smania e s’assicuta e nuddu c’è, o Matri, ca l’aiuta, se tu ntà li to manu nun li pigghi…

C. ASSENZA (da: «Muorica è ‘n paisi»)

C. ASSENZA (da” Muorica è ‘n paisi”)

Per la realizzazione di questo lavoro di cui sottoponiamo alla vostra attenzione il presente volumetto ed un cartellone già affisso all’ingresso della nostra classe, gli alunni si sono avvalsi della guida dei seguenti insegnanti: 1) Professoressa Concetta Terranova: la nostra insegnante di lettere, che ha curato il tutto; 2) Professor Pietro Spadaro: severo e preparato esperto di grammatica dialettale modicana; 3) Professor Matteo Rizza: che si è occupato dell’impostazione grafica, dell’impaginazione e degli aspetti informatici per la realizzazione del lavoro.

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Bibliografia Abbiamo consultato tantissimi testi, tra cui citiamo i più importanti: « Storia della Sicilia» - Società editrice Storia della Sicilia e di Napoli « Grammatica» di G. Ragusa - Editrice Pro-loco - Modica « Conoscere, amare, rispettare Modica» di G. Cavallo - Grafica Gennaro - Modica « Storia della Letteratura italiana» del De Sanctis vol. I pp.20 e sgg. «Scicli: storia e tradizioni» di B. Cataudella - Editrice il comune di Scicli. « Elementi di storia, usi e costumi della Contea di Modica» di G. Favaccio – Tip. Moderna - Modica « Poesie siciliane» 1888 -Tip. T. Avolio – Modica « Muorica è ‘n paisi» di C. Assenza - Edit. Setim «400 indovinelli siciliani» raccolti , scelti e commentati da C. Assenza -Edit. Thomson « Canti religiosi della Contea di Modica» di C. Assenza - Edit. Setim « Mura a siccu» di C. Assenza Edit. La Tartaruga– Ispica « La festa ri S. Giorgiu» di A. Aprile « La Sicilia e la provincia di Ragusa» di F. Barone - Edit. CEID « Modica un anno» 1977 - Rotaract club Modica « Modica e le sue chiese» di F. L. Belgiorno – Modica 1955 «La Contea di Modica» - L. Sciacia - Milano 1983 «Carrube e Cavalieri» - R. Poidomani - Roma 1954 «Tempo di scirocco» R. Poidomani - Modica 1971 «Poesie siciliane» C. Amore - Modica 1888

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