Libri calzelunghe n.1 Il bianco e il nero

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LIBRICALZELUNGHE.IT

Marzo 2016 | Numero 01

Letteratura per ragazzi‌ per filo e per segni

36 Pages

Il bianco e il nero


Libri Calzelunghe: un progetto per fare rete Dire chi siamo è dire da dove partiamo, da dove parte questo nostro progetto. Allora, diciamo che parte da lontano. Parte dal desiderio di conoscerci, o meglio, di ri-conoscerci. Parte dalla Letteratura per l’infanzia, parte da persone che in varia misura si occupano della letteratura per bambini e per ragazzi e che lavorano anche all’interno del mondo web. Parte, soprattutto, dal desiderio di poterci confrontare rispetto alla letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza, di dire la nostra. Siamo blogger, siamo librai, siamo editor, siamo, finalmente, un gruppo. Siamo convinti che la Letteratura per l’infanzia abbia diritto ad avere una voce importante anche in rete. Pensiamo che per essere importante, una voce in rete debba essere plurale e collettiva: un po’ come accade nelle importanti riviste che escono in cartaceo, anche per parlare di Letteratura per l’infanzia, e che riescono ad amalgamare i contributi e i punti di vista di esperti, pedagoghi, professori, giornalisti. Sentiamo la mancanza di uno spazio analogo per la Letteratura per l’infanzia su web: qui troviamo voci di persone singole, con i loro siti e blog. Noi abbiamo provato a creare un progetto collettivo, nato in maniera spontanea, senza un editore, senza sponsorizzazioni.

Pensando a fare ciò che a noi, prima di tutto, piacerebbe leggere. Dire chi siamo è dire dove andiamo, dove vorremmo andare: vorremmo andare oltre. Oltre le cose che già da soli scriviamo, oltre le strutture che già esistono, oltre ciò che da soli possiamo conoscere e discutere. Ma anche: oltre le recensioni, oltre gli articoli d’occasione, oltre i soliti temi. Se avete voglia di affacciarvi cercateci qui; se avete invece voglia di proporvi, scriveteci cosa fate e cosa vorreste fare: ci interessa. Libri Calzelunghe è un gruppo informale di discussione e scrittura; i singoli contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori. La Redazione di Libri Calzelunghe: Matteo Biagi Valeria Bodò Angela Catrani Carla Colussi Barbara Ferraro Carla Ghisalberti Francesca Mariucci Marina Petruzio Federica Pizzi Barbara Servidori Beniamino Sidoti Alessandra Starace Virginia Stefanini Francesca Tamberlani


Sommario 06. Il bianco e il nero: un dialogo tra spazio e limite

Barbara Ferraro

14.

Il bianco e nero nei primissimi libri per bambini Francesca Tamberlani

21 .

L’invenzione della pagina bianca

29.

Il valore dello spazio bianco

35. Leggere lo spazio bianco

Beniamino Sidoti

Alessandra Starace

Angela Catrani

42.

Nero come una silhouette

51 .

Il colore dell’immaginazione Federica Pizzi

61 .

Greta La Matta e il bruno Van Dick

67.

Musica, maestro! Tempi, ritmo e bianco & nero nell’albo illustrato Valeria Bodò

76.

Bianco e nero a teatro. La Parola e il Silenzio

81 .

Al buio

86.

Il bianco e nero nella realtà apparente di Antoine Guilloppé Marina Petruzio

Virginia Stefanini

Carla Ghisalberti

Carla Colussi

Francesca Mariucci

Interviste

92.

Catturare l’intensità della luce

9 7.

Il pittore che fa anche libri

Intervista a Sonia Maria Luce Possentini

Intervista a Fausto Gilberti

10 0. L’attrazione dell’ombra e il confine della luce 106. Costruire libri è un gioco divertentissimo

Intervista a Clementina Mingozzi

Intervista a Silvia Borando


EDITORIALE

Bianco e nero, fuor di metafora Libri CalzeLunghe è una rivista web dedicata ai libri per bambini e ragazzi. Ogni numero di questa rivista esplora un tema, e il tema di questo numero è “Il bianco e il nero”. Bianco e nero come colori che si alternano e dialogano, come tecnica di stampa e di illustrazione, come alternativa complementare al colore nell’albo illustrato, come composizione tipografica della pagina, come sguardo particolare, come una specie di silenzio scritto… ogni nostro articolo esplora un punto di vista differente, con l’intento comune di acuire lo sguardo, di ricostruire la complessità sottostante i libri per ragazzi. È una complessità bella, quella dei libri per ragazzi, libri che sono (almeno, lo sono quelli che ci piacciono) semplici e scatenanti: immediati ma ricchi di suggestioni. Che senso ha guardare i libri per ragazzi? Che senso ha dedicar loro così tanti (in questo numero sono più di dieci) punti di vista? E che senso ha studiare l’immediatezza? Ci sono tanti motivi: uno, a noi particolarmente caro, è la scarsità di luoghi dove portare avanti queste riflessioni – ne sentiamo il bisogno, e per questo agiamo. Un altro motivo, più specifico, è che guardiamo i libri

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per ragazzi sia come forma d’arte, sia come oggetti del mondo: strumenti per immaginare e vivere le storie. Strumenti importanti, quindi. Il nostro sguardo, in questo primo numero, si fissa allora sul libro come occasione, come strumento: ognuno di noi ha lavorato intorno a questo tema e ha parlato di un “come” – come funziona l’alternarsi di bianco e nero? Come funziona lo spazio del silenzio? Come funziona all’occhio una certa tecnica di illustrazione? Come funziona il ritmo di colore e bianco e nero? “Come funziona” non è “come fare”. I nostri articoli sul bianco e sul nero descrivono e discutono, ma non pretendono di spiegare e fornire istruzioni: leggendoli crediamo si possano scoprire diverse cose sul funzionamento della lettura o della creatività, e da lì inventarne altre. Al limite, non fare scoperte né invenzioni, ma avere un rinforzo importante a continuare a fare le stesse cose che già facciamo, magari con una consapevolezza diversa. Parlare di libri per noi significa anche questo: condividere sapere, creare consapevolezza, andare oltre.

Cercare, soprattutto, di non essere generici, o metaforici. Non parlare genericamente del “libro” o della “lettura” ma parlare di libri e di letture: al plurale. Perché il plurale rispetta la complessità, e perché pensiamo che nessun lettore genericamente ami leggere, ma che ami (o rifiuti) leggere alcune cose particolari. Siamo concreti, infine, in questo numero: nessuno di noi ha parlato del bianco e del nero in termini metaforici… nel linguaggio comune il nero può rimandare al buio, alla paura, a un lato oscuro – noi ne parliamo in quanto colore, e in quanto questo colore crea contrasti con gli altri colori e con il bianco della pagina o dello schermo. Non parliamo genericamente di “ombra” ma di silhouette. Parliamo di silenzio e ritmo: immateriali ma non per questo meno concreti. Parliamo di contrasti e di come questi fanno i libri – come li rendono più leggibili, come contribuiscono alla costruzione di un immaginario, come danno spessore a una figura. Così sono il bianco e il nero: concreti, materiali, contrastanti, semplici e scatenanti. Così abbiamo cercato di raccontarveli.

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BARBARA FERRARO

Il bianco e il nero: un dialogo tra spazio e limite Il

bianco è lo spazio e il nero è il tratto che lo contiene. Potrei dire anche che il bianco è lo spazio e il nero è il limes che ne determina il punto di fuga o la profondità. Nei testi a stampa della contemporanea editoria per bambini si danza attorno a questa semplicità; attorno a questo passo a due tra bianco e nero, si articolano albi meravigliosi e completi, carichi di senso e significanti. Con le ovvie eccezioni.

in negativo sulla parete rupestre la propria impronta: un confine nero carbone a delimitare lo spazio di un palmo bianco. Non quello dell’esploratore precedente, non quello del guerriero, proprio il suo, a illustrare una storia diversa da ogni altra, in un’unica immagine. Passo molle, cauto, quello che operava invece in una polka di colore.

Passo concitato e trafelato quello del narratore preistorico che stampa

Photographic credit https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bibba_di_borso_d%27este_01.jpg https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f4/ SantaCruz-CuevaManos-P2210651b.jpg

Schiena curva su codici impreziositi d’oro in cui l’immagine apriva le danze, per un testo che occupava gran parte dello spazio a disposizione sulla pagina, con lettere miniate (quindi in un rosso derivato dal piombo) ornate nei minimi dettagli, in cui l’illustrazione, colorata a mano, era imperiosa, rappresentava

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narrando investita di simboli, facendo da didascalia al testo, essendone corollario. Con l’invenzione della stampa il passo torna a due e l’immagine diventa dialogante: è il momento delle incisioni, il ritmo con le parole si fa teso, vibrante. Lo diceva Leonardo da Vinci: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”, si comincia a comprendere l’importanza di una illustrazione che non sia un bene staccato dal contesto o puro ornamento. Immagine e testo cominciano a parlare tra loro in un discorso fitto e ritmato, consapevole. L’inchiostro è nero seppia, è parola e tratto, è lo stesso, non vira, non sfuma, in due modi del tutto diversi illustra e racconta. Solo che mano a mano che il testo s’arricchisce di dettagli diventa più complesso, mentre l’illustrazione a furia di dettagli esplica: il pensiero leonardiano, così inteso da Bland, che nel suo A History of Book Illustration cita la celebre frase del maestro del XV sec.(Children’s Picturebooks, the art of visual storytelling, Salinsbury, Styles pag. 11), si esplica e ben si compendia con le litografie di Thomas Bewick, con i suoi “tale-pieces”: illustrazioni naturalistiche in cui il bianco e il nero sembrano essere condizione necessaria e sufficiente a dare movimento narrativo all’immagine.

And you who wish to represent by words the form of man and all the aspects of his membrification, relinquish that idea. For the more minutely you describe the more you will confine the mind of the reader, and the more you will keep him from the knowledge of the thing described. And so it is necessary to draw and to describe.

Tra tutte, ne ho scelte due “il cacciatore di volpi” e “il cervo”; sono consapevole che esse non abbiano un legame oggettivo ma mi piace immaginarle speculari. Nascono enciclopediche, come tutte le altre, fanno parte de “La storia naturale dei quadrupedi”, ed esattamente come tutte le altre si scoprono per nulla didascaliche, piuttosto racconti. Un cane da caccia sembra aver fiutato una pista, il suo slancio lascia pensare a un momento di stasi precedente, interrotto da moto istintivo elevato all’ennesima potenza dall’addestramento. Si muove, scatta, su due sfondi: il primo immediatamente dietro di lui, fisso roccioso e imponente, nasconde alla vista un bosco rappresentato alla maniera romantica (siamo alle porte del 1800) in parte rovina, in parte fiorente. Ogni piano è uno stampo a sé stante, che corrisponde a un livello a sé stante, e assieme contribuiscono a dare profondità, con il semplice utilizzo di linee dai versi opposti o speculari. Il nero opera in chiarezza dell’immagine,

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esse sono vive. Come vivo è l’occhio del cervo (anche qui i livelli sono tre, prima a sé stanti, poi all’unisono) che suggerisce il movimento all’orecchio, il quale sembra aver percepito l’arrivo del cane, del cacciatore, e sembra vibrare, trasferendo nelle linee oblique del manto una tensione pronta alla fuga. Il tronco dell’albero, che poteva dirsi morto e che invece si corona di

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nuovi e fitti germogli, attira il nostro sguardo su un altro piano narrativo e il cuore s’appesantisce, perché un altro cervo, meno guardingo, corre proprio verso sinistra e, lo temiamo, oltrepasserà il limite della pagina per andare verso la propria fine. L’immagine non si limita a descrivere il dettaglio, ma suggerisce una narrazione – cioè una scansione temporale che permette il ritmo e la nascita della danza tra bianco e nero, tra testo e immagine. Quando Arthur Rackham illustrava non lesinava nei dettagli: abiti da ballo, e qui il ballo è il valzer, in cui a ben guardare si scoprono i ricami più raffinati, tono su tono di colori tenui in dozzine di varianti e trasparenze; particolari che raccontano e che contribuiscono a rendere l’immagine capace di raccontare, anche se considerata a sé stante, una storia, un’altra storia o proprio quella che illustra. Rackham il colore lo aggiungeva post stampa, a mano. In questo nodo tecnico si innesta lo sguardo autoriale, capace di scioglierlo per tradurlo in una scelta stilistica. Il limite del medium posto da ragioni tecniche o economiche determina la ricerca di soluzioni creative e induce l’autore a plasmare uno stile peculiare, legato al medium o al suo formato. Si parla una lingua che cambia e si trasforma in una variante, un dialetto. E a sentirli, certi dialetti, sono musica.


Per Cenerentola, ma anche per La bella addormentata nel bosco, nell’edizione del 1919, Rackham usa il bianco e nero, fatta eccezione per alcune tavole in tricromia. Il nero di china s’adagia

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sul bianco immortalando movimenti e profondità: gli orli sfrangiati delle povere vesti di Cenerentola, i fili di paglia che pendono dalla sedia consunta; i ritagli si muovono come su di un palcoscenico: un quadro da solo, un’unica silhouette, basta a raccontare la fretta della ragazza mentre abbandona il castello, una scarpetta sì e una no: è tornata alla sua vita di sempre, la magia è terminata. Nel momento della magia fanno capolino degli ocra intensi, dei verdi argentei, dei rossi vittoriani a dare ancora più profondità e risalto agli istanti irripetibili, la magia colora ma è effimera, il bianco e nero suggellano con un inchino e un bacio la realtà dell’eterno amore. È del 1919 l’italianissima Viperetta di Rubino che si distingue per i suoi tratti vittoriani, per l’art nouveau che serpeggia tra i suoi riccioli. Viperetta non è propriamente una bimba ribelle, è piuttosto simbolo di una fanciullezza che rientra nei canoni dell’epoca ma al contempo li rifugge. Il colore campeggia in tutte le tavole del suo formativo viaggio sulla luna, dal quale rientra matura da capricciosa qual era partita, mentre il bianco e nero è di tutte le 48 vignette al tratto che aprono ogni capitolo e che ne anticipano, in pochissimo spazio, la narrazione. Ciascuna ha una sua pregnanza e talvolta, sono dirompenti, cercano di travalicare lo spazio concesso

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loro dalla riquadratura a filetto, ci stanno strette. Quella in cui, per esempio, Viperetta fa la linguaccia suggerisce una tensione al futuro, lo spazio bianco cui la linguaccia si rivolge, da affrontare con irriverenza. Nella copertina delle varie edizioni, invece, il bianco e nero convivono con il colore, con un rosso tipografico che marchia i vestiti di Viperetta e la sua bambola, mentre la luna e i suoi abitanti rimangono nel bianco e nero, come a voler sottolineare il carattere tutto terreno della bambina e dei suoi oggetti. Nel Novecento i bambini entrano nel mercato e ne rappresentano una buo-

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na fetta: si rivolgono a loro i caroselli pubblicitari, si pubblicano i celebri giornalini (che divengono strumento di propaganda), sono insomma al centro dell’interesse di molti, editori compresi (I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia a cura di Hamelin). Nel 1920 si dà alle stampe la versione definitiva de Il Giornalino di Gian Burrasca (precedentemente edito a puntate su Il Giornalino della domenica), che nel bianco e nero delle sue illustrazioni rispetta la sua forma e la narrazione diaristica. Le illustrazioni intra e intertestuali supportano il testo e lo incrociano nel linguaggio in numerose occasioni; i​l gioco del bianco e del nero rinforza il “simulacro” diaristico,


il gioco del libro scritto (e disegnato) da un bambino – la mancanza del colore rimanda con più forza a un diario leggero e semplice da realizzare. Il linguaggio di un libro, di un albo illustrato nella fattispecie, può modificarsi, dicevo, per numerose ragioni. Accade spesso (tra gli anni ‘50 e ‘60) che per mero risparmio si debbano stampare alcune illustrazioni in bianco e nero. Ci sono autori che subiscono l’esigenza commerciale e semplicemente alternano i blocchetti di testo alla pagina illustrata, laddove sia possibile, altri che, invece, attorno al limite costruiscono un’occasione e inventano un altro linguaggio, una soluzione linguistica alternativa e originale. Ne Il giorno in cui la mucca starnutì (ed. or. 1957) James Flora alterna alle pagine in bianco e nero (doppie pagine), quelle a colori (rosa, arancio, verde e nero), innescando una catena di causa (colori) effetto (bianco e nero) che è un vortice di ritmo, trasmette e comunica con la stessa efficacia sia quando può aggiungere sia quando deve necessariamente togliere senza mai smarrire la propria pista stilistica. Verrebbe da dire F​ortunatamente,​ lo stesso accidente capitò a Remy Charlip (ed. or. 1964) che alternando le tavole fortunate a quelle sfortunate permea l’intero albo di un ritmo efficacissimo. La fortuna di Ned, il protagonista, s’ac-

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compagna ai colori delle illustrazioni, alla sfortuna, invece, Charlip riserva il bianco e nero. Un’anticipazione di questa scelta sta proprio nelle pagine iniziali dell’albo che apre con due nuvole nere, che lì per lì non fanno molta impressione, fortunatamente, poi, nelle due pagine seguenti, su un letto d’arancione e giallo, risplende un sole sorridente, epperò il colophon trova spazio in un cielo grigio e pesto

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giacché le nuvole hanno, sfortunatamente, raggiunto e quasi del tutto coperto il sole che, inerme, non può che subirne il buio. Da La biblioteca di Lavoro, sono ormai gli anni ‘70, quindicinale curato dal

tipografico per arrivare a un’utilissima impostazione pratico/didattica. I quaderni di lavoro prevedevano una parte molto attiva da parte del bambino cui spesso era proposto di replicarli in varianti e riletture. Molto più semplice era affrontare l’intero processo senza l’intervento del colore. Lo zoo (nr. 37 del 1975, illustrato da Ivo Sedazzari) è una storia di sole immagini. A sinistra il disegno di un animale in gabbia che, sullo sfondo, malinconico sogna, mentre in primo piano le silhouette degli spettatori umani indicano o rimangono immoti. A destra il pensiero, il ricordo dell’animale in gabbia che è sogno di libertà riportato su carta con un’immagine fotografica ripresa in natura.

Così usato, il racconto figurato diventa una lettura del “reale” rappresentato che abitua il bambino a osservare, riflettere, collegare i fatti

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gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi, sono numerosi gli esempi che potrei trarre per comunicare un utilizzo del bianco e nero che prende le mosse dal condizionante limite

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Il bianco e nero dei quaderni di lavoro, letti soprattutto nelle scuole, parte dal presupposto che il bambino possa ri-fare, possa continuare quel quaderno con il proprio. È in questo contesto che la mancanza di colore è un invito esplicito al lettore a completare o continuare l’opera; è, ridotto all’osso, il pensiero di Freinet, della scuola del fare, che la attraversa in un rinnovamento pedagogico.


Il periodo di convivenza tra bianco e nero e colore è lunghissimo ma di

fatto le soluzioni formali derivate da esigenze di tipo pratico sono state talmente tante e talmente tanto raffinate da riservare al bianco e nero il carattere dell’eleganza, del lineare. Questa convivenza non è ancora finita, è una danza perfetta in cui nulla è superfluo e tutto racconta.

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BIBLIOGRAFIA

Il Giorno in cui la mucca starnutì, James Flora, Orecchio Acerbo, 2011 Viperetta, Antonio Rubino, a cura di Martino Negri, Scalpendi editore Fortunatamente, Remy Charlip – Orecchio acerbo 2010 Biblioteca di Lavoro di Mario Lodi nr. 37, Lo zoo, Ivo Sedazzari – 1975 Il Fuso e la scarpetta, La bella addormenta e Cenerentola, Arthur Rackham, Charles Evans – Donzelli Editore, 2009 Il giornalino di Gian Burrasca, rivisto, corretto e completato da Vamba – Marzocco, Firenze 1953

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FRANCESCA TAMBERLANI

Il bianco e nero nei primissimi libri per bambini I

n questi giorni ho il privilegio di avere a che fare con un bambino tutto nuovo e tutto mio. È nato da poche settimane ma ha già manifestato, chiare e forti, alcune sue preferenze: la vicinanza, il contatto fisico (non potrebbe essere altrimenti, dopo nove mesi trascorsi all’interno di un bozzolo caldo e chiuso), l’esposizione alla luce e, più di ogni altra cosa, le parole. Ama ascoltare ciò che la mamma gli sussurra tenendolo stretto in un abbraccio. Ho il sospetto, ma è più una certezza, che tutti i neonati abbiano gli stessi gusti del mio Andrea. Del resto è risaputo che l’udito dei bebè è perfettamente sviluppato. Le ricerche scientifiche hanno ampiamente dimostrato che il feto, già a partire dalla ventesima settimana di vita, riconosce il suono della voce materna e lo manifesta attraverso un’accelerazione del battito cardiaco e alcuni movimenti nella pancia (flessione degli arti, contrazione del tronco). Una volta nato, il neonato è naturalmente attratto dalla voce della mamma e la preferisce ad altre voci.

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Come facciamo a esserne sicuri? Grazie ad alcuni originali esperimenti che hanno sfruttato ciò che il neonato sa fare meglio: succhiare il seno. Il bambino viene messo a contatto con due capezzoli di gomma artificiali. Succhiando il primo, il piccolo sente la registrazione della voce della mamma tramite un paio di cuffie, succhiando il secondo, la voce che passa è di una donna estranea. Indovinate quale capezzolo è presto il prescelto? I ricercatori sfruttano anche il fatto che i bambini rallentano la suzione quando qualcosa desta la loro attenzione (come la voce materna) e ricominciano a succhiare rapidamente quando si annoiano. Entro il settimo mese di gestazione anche le papille gustative del feto sono formate, e i suoi recettori olfattivi, che gli consentono di odorare, sono funzionanti. La vista dei neonati E per quanto riguarda la vista? È il senso meno sviluppato. Negli ultimi mesi della gravidanza, il feto apre


gli occhi e percepisce la luce identificandola come una tinta rossastra o viola. Quando nasce, il bebè vede in bianco e nero.

possibile attivare la loro attenzione e incoraggiarne la concentrazione mettendoli di fronte a cartoncini o libretti con immagini in bianco e nero, con semplici motivi geometrici, rappresentazioni di oggetti comuni e animali a silhouette. Se il neonato vede le immagini in bianco e nero, possiamo venire incontro a questa sua predisposizione proponendogli libri con fondi piatti, in bianco o in nero, sui quali spiccano sagome a contrasto:

Andrea osserva una giostrina di Munari fatta in casa. La giostrina va posta a 25-30 cm dal suo viso in modo che possa mettere a fuoco gli oggetti senza toccarli.

Nelle prime settimane la sua vista è poco definita. Riesce a distinguere solo ciò che gli viene posto a una distanza ravvicinata, a 20-25 cm dal viso. Il bambino riconosce la differenza tra luce e buio e le prime immagini che fa proprie sono quelle caratterizzate da forti contrasti di luminosità, da contorni netti, regolari, percepiti da particolari cellule della corteccia visiva dette “cellule semplici” (studi di D. H. Hubel e T. N. Wiesel condotti negli anni ‘60). Dal quarto mese di vita, il bambino inizia a percepire i colori in modo preciso e, passati i 6 mesi, dimostra sempre più interesse per ciò che lo circonda, scoprendo maggiori dettagli. Il contrasto bianco-nero è uno stimolo per il cervello dei neonati. È dunque

Andrea osserva una giostrina di Munari fatta in casa. La giostrina va posta a 25-30 cm dal suo viso in modo che possa mettere a fuoco gli oggetti senza toccarli.

Nelle immagini di questa pagina, Andrea legge Black & White, di Tana Hoban (HarperCollins Children’s Book, 2007), un libro consigliato dalla nascita

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fino ai due anni. Un volume realizzato con pagine in cartoncino spesso dal formato leporello che presenta, su entrambe le facciate, silhouette in bianco e nero di oggetti e animali. Nelle immagini seguenti trovate altri esempi di albi cartonati indirizzati alla primissima infanzia, caratterizzati da pagine nere o bianche su cui risaltano figure a contrasto di oggetti, animali, elementi della natura, forme geometriche.

I bambini guardano cerchi e quadrati, C. Picthall, Logos,

Copertine e esempi di interni: Sono grande, Luigi Paladin,

2006.

Copertina e interni di Black on White, Tana Hoban, HarperCollins Publishers, 1993

Desideria Guicciardini, Lapis, 2009 – Non ho sonno, Luigi

Il lavoro di Tana Hoban

Paladin, Desideria Guicciardini, Lapis, 2009

La capacità di decifrare il simbolismo delle illustrazioni, di capire cioè che un disegno è la rappresentazione di un oggetto reale, non è una conquista semplice. Fino ai 18 mesi circa i bambini non sono ancora in grado di comprendere questo processo; per loro è molto più facile riconoscere gli oggetti attraverso fotografie o disegni molto realistici (Luigi Paladin, Rita Valentino Merletti, Nati sotto il segno dei libri, Idest, 2015). Un’evidenza ben nota alla famosa fotografa americana Tana Hoban che, dagli anni ‘60, ha

Copertine e esempi di interni: I miei animali, Xavier Deneux, Tourbillon

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realizzato moltissimi albi fotografici rivolti alla prima e primissima infanzia tesi a sviluppare l’osservazione e l’acutezza della percezione. Tana Hoban riteneva importante im-

Ciccì Coccò

Rimanendo in tema di albi fotografici rivolti ai bambini, purtroppo scarsamente diffusi nel panorama editoriale italiano, è impossibile non citare lo storico libro d’arte Ciccì Coccò di Enzo Arnone e Bruno Munari, uno dei primi e rari libri per bambini dove viene usata la fotografia. Un suggestivo racconto per immagini in bianco e nero, accompagnato da brevi testi e filastrocche in tre lingue (italiano, francese e inglese), in cui i bimbi protagonisti vengono ritratti in atteggiamenti spontanei, estemporanei, rubati alla loro quotidianità spensierata e sfrenata, alle prese con la loro libera esplorazione del mondo. Gli scatti sono stati realizzati da Arnone tra gli anni ’70 e ’80.

mortalare e dare il giusto peso a certi istanti di vita che, se non fotografati, sarebbero scivolati via, inosservati. Aveva a cuore il verbo to notice: notare, stare attenti al particolare. Con i suoi scatti, nati da momenti in apparenza banali, desiderava pungolarci e obbligarci a guardare intorno a noi e a posare lo sguardo su quello che ci sta intorno, senza superficialità.

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Un altro originale libro fotografico rivolto alla prima infanzia, che prevede l’impiego delle sagome nere sul fondo bianco, è Les animaux de la ferme, di François Delebecque (Les Grandes Personnes, 2010). Si tratta di un cartonato di ampio formato con alette sulle quali sono raffigurate le silhouette di una serie di animali illustrati di profilo, per favorirne il riconoscimento. Alzando la finestrella compaiono le corrispettive immagini fotografiche.

In Un bacio, di Emanuela Bussolati e Silvia Morara (Franco Cosimo Panini editore), le immagini fotografiche in bianco e nero riprendono un bambino nel momento della nanna che riesce a rasserenarsi solo grazie alla presenza amorevole della madre.

Un bacio, Emanuela Bussolati, Silvia Morara, Franco Cosimo Panini, 2011

Les animaux de la ferme, di François Delebecque, Les Grandes Personnes, 2010

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Alcuni scettici si chiedono se sia davvero utile proporre libri ai piccolissimi, prima che siano in grado di tenerli saldamente in mano, vedere con chiarezza le figure, riconoscere il significato dei disegni. Il progetto Nati per Leggere ci ricorda che solo a partire dai 6 mesi il bambino matura le basi cognitive per accorgersi che il libro è


un oggetto a sé, con delle peculiarità proprie, diverso dalle altre cose con cui gioca. Da questo momento in avanti sarà anche in grado di afferrarlo da solo, di toccarlo, rigirarlo ed esplorarlo con tutti i sensi. È dunque sbagliato leggere e mostrare ai bambini libri di qualità prima dei 6 mesi? La risposta è NO, al contrario. È consigliabile, se si vuole favorire la familiarizzazione con l’oggetto libro e farlo diventare un elemento conosciuto, un compagno di vita. Forti anche della consapevolezza che i bambini, fino a quattro anni, vivono una tumultuosa fase di apprendimento, irripetibile, quella che le neuroscienze chiamano “età fertile del cervello”. Il compito di noi adulti è allora quello di investire nella prima infanzia, di fornire stimoli adeguati, di nutrire la mente dei nostri bambini da subito, anche andando alla ricerca dei libri che sanno di buono, come li definisce Luigi Paladin (Liber n. 107, Luglio Settembre 2015) riferendosi alle proposte di lettura per la fascia 0-3 anni. Libri cioè che prevedono un adeguato spazio bianco di rispetto del lettore. Il bianco e nero dovrebbe essere più usato negli albi per i piccolissimi. Riprendiamo le parole di Paladin:

Se l’immagine è troppo complessa, il bambino ha difficoltà a cogliere l’insieme, perciò si focalizza su tanti piccoli particolari, a volte senza collegarli tra di loro, perdendo il senso del messaggio.

Paladin sottolinea anche che i baby libri non dovrebbero, come invece sono per la maggior parte, essere infarciti di colori e cose. Al contrario, l’attenzione andrebbe posta sulla forma, sui contorni e sui confini delle immagini, in modo che appaiano evidenti e separati dal fondo, riconoscibili. Una buona illustrazione è quella che, servendosi di pochi ed essenziali tratti, riesce a rappresentare esseri umani, oggetti, animali in maniera decodificabile da tutti i lettori. Gli illustratori che si dedicano alla prima infanzia dovrebbero concentrarsi prevalentemente sulla forma, preoccupandosi di rispettare sempre l’essenza delle cose, altrimenti il cervello non le riconosce, non riesce a identificarle. Quando si semplifica, occorre mantenere quelle linee elementari basiche, quei particolari essenziali che consentono il riconoscimento dell’oggetto. Se non si rispetta questa regola, il disegno perde di senso e risulta disarmonico.

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Sfortunatamente numerosi autori ed editori ignorano questi principi. Erroneamente si crede che un libro rivolto ai lettori più giovani debba prevedere una gran quantità di illustrazioni e di colori, meglio se sgargianti, e purtroppo questa è l’offerta dominante sugli scaffali.

BIBLIOGRAFIA

Black & White, Tana Hoban, HarperCollins Children’s Book, 2007 Sono grande, Luigi Paladin, Desideria Guicciardini, Lapis, 2009 Non ho sonno, Luigi Paladin, Desideria Guicciardini, Lapis, 2009 I miei animali, Xavier Deneux, Tourbillon, 2015 I bambini guardano cerchi e quadrati, C. Picthall, Logos, 2006 Black on White, Tana Hoban, HarperCollins Publishers, 1993 Ciccì Coccò, Bruno Munari, fotografie di Enzo Arnone, Ed. Corraini, 8a ristampa 03/2014 Les animaux de la ferme, di François Delebecque, Les Grandes Personnes, 2010.

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BENIAMINO SIDOTI

L’invenzione della pagina bianca C’

è un libro illustrato che amo molto, Harold e la matita viola, di Crockett Johnson. In basso viene mostrata la copertina dell’edizione originale (1955): il pastello dell’inglese diventa nell’edizione italiana (Einaudi Ragazzi) “matita”, nella buona traduzione di Giulio Lughi. Harold è un bambino, il cui volto e le mani emergono da una tutina priva di ogni dettaglio: nella copertina la tutina è blu, ma negli interni diventa bianca, delineata da un bordo marrone scuro (lo stesso colore del testo). Harold ha sempre con sé la matita viola, una specie di bacchetta magica con cui disegnando dà vita a oggetti,

animali, mondi interi. Harold appare ancora prima che cominci la storia, invadendo lo spazio “paratestuale” costituito da copertina, controcoperta e frontespizio (dove appare un sottotitolo: Passeggiata al chiaro di luna): sta tracciando uno scarabocchio che va oltre lo spazio della pagina bianca, uscendone dai margini e rientrandovi. La linea resta scomposta e priva di significato fino a che non appare il primo paragrafo di testo, cioè finché non comincia la storia: «Una sera, dopo averci pensato sopra un bel po’, Harold decise di fare una passeggiata al chiaro di luna.» Il testo appare sopra la testa di Harold, che guarda oltre, probabilmente alla pagina successiva.

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immagini sia con quello delle parole. La matita di Harold ha il potere di creare un mondo con cui il bambino interagisce, attraversandolo, dialogando con esso e con i personaggi: le immagini non sono mai “in movimento” perché è solo Harold a muoversi, con una convenzione difficile da spiegare a parole ma chiarissima nel disegno. Nel libro c’è sia un disegno (Harold) sia un “disegno disegnato”, tratteggiato in viola, che corrisponde a ciò che Harold “ha disegnato”. Lo spazio bianco su cui si muove Harold è, senza mai essere nominato, il luogo della sua immaginazione: una pagina bianca (letteralmente) su cui il bambino dà vita alle proprie fantasie.

Voltando pagina, infatti, troviamo Harold che, abbandonato lo scarabocchio (l’ultimo tratto è ancora presente a sinistra), acquisisce una precisa intenzione creativa, sta dentro lo spazio e disegna la luna: “senza luna non si può passeggiare al chiaro di luna”. Il testo scritto, attenzione, non dice “Harold disegnò una luna” ma ci introduce in qualche modo nell’elaborazione dei pensieri del bambino: è un punto di vista molto delicato e particolare, tenuto coerentemente per tutto il libro sia con il linguaggio delle

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L’immaginazione di Harold è un vero e proprio ambiente, prima che un racconto: il bambino la vive in modo non del tutto consapevole, tanto che quando disegna un drago lo fa così spaventoso che “la mano cominciò a tremare”… disegnando così una linea non più dritta ma ondulata, che si fa subito mare. L’avventura prosegue fino al lieto fine,


esplorando con delicatezza le possibilità di questo spazio immaginario, fino a concludersi quando Harold torna nel proprio letto, e crolla addormentato chiudendo gli occhi e lasciando cadere la matita. L’espediente promette e permette però altri sviluppi: è infatti lo stesso Crockett Johnson a firmare, nell’arco di sette anni, altri sei volumi dedicati ad Harold e alla sua matita viola. Soluzioni simili si trovano in molti altri libri successivi (C’era una volta un topo chiuso in un libro…di Monique Felix, Orsetto e i cacciatori di Anthony Browne, Mostri di Russell Hoban e Quentin Blake, Confusione mostruosa di Lewis Trondheim, la serie di Camillo di Ole Könnecke, Luna e la camera blu di Magdalena Guirao Jullien e Christine Davenier, Viaggio di Aaron Becker, Caccia alla tigre dai denti a sciabola di Pieter Van Oudheusden e B. Leroy, Giovanna prende il treno di Kathrin Schärer), ciascuna con i suoi espedienti grafici e narrativi: sta diventando un topos, un sottogenere che racconta il potere della fantasia attraverso la visualizzazione delle “avventure a occhi aperti” di un protagonista.

dell’immaginazione) dà il meglio di sé: perché permette la coesistenza di due testi (parole e immagini) che possono discostarsi leggermente, creando quella piccola distanza necessaria a dar vita a uno spazio immaginario, transizionale, fantastico, che pur non essendo vero ha delle conseguenze sul protagonista. Perché questa modalità di lettura abbia senso sfruttiamo una convenzione che oggi ci pare naturale: che lo spazio bianco sia lo spazio dell’immaginazione, a sua volta diventata cliché. Per rappresentare le potenzialità creative della pittura o del disegno, infatti, siamo abituati a vedere l’artista davanti alla tela o alla pagina bianca. Questa rappresentazione di Snoopy ci pare assolutamente naturale, e co-

In realtà questo filone fa qualcosa di più: suggerisce una modalità di lettura dell’albo illustrato (o picturebook), una strategia di coabitazione di immagini e testo. È infatti nell’albo illustrato che questo tipo di racconto (il potere

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gliamo anche nel suo occhio chiuso la “ricerca dell’ispirazione”. Ne abbiamo vista poi un’altra, in cui sempre Snoopy ritrae il suo creatore, Schulz. Ci sono tre livelli di complessità nell’immagine (un triangolo della significazione, per gli addetti ai lavori): c’è il bracchetto disegnato, c’è l’autore fotografato, c’è ciò che Snoopy disegna con tratto infantile. Questo “doppio ritratto” richiama un celebre Triplo autoritratto di Norman Rockwell del 1960, in cui l’illustratore

rando sul bianco: la quasi totalità dei dipinti che prima del Novecento mostrano un pittore al lavoro (autoritratto o meno) mettono in scena un dipinto pressoché ultimato. Non mostrano l’artista mentre “crea”, cioè dà vita a qualcosa dal niente, ma mentre dialoga con la propria opera, in modo che sia il ritratto che lo stile siano entrambi rappresentazioni della sua personalità. La mia impressione è che lo spazio bianco diventi “lo spazio in cui si dà vita a qualcosa” con la nascita del cinema. Il primo cortometraggio in cui si vede un espediente simile è infatti del 1900, e incidentalmente è anche il primo film di animazione americano: si tratta di The Enchanted Drawing di J. Stuart Blackton. Nei due minuti di film (J. Stuart Blackton, The Enchanted Drawing, USA 1900) il regista disegna un sem-

Norman Rockwell, Triple self-portrait, 1960

si guarda in uno specchio mentre si dipinge, circondato da celebri autoritratti d’artista. Ciò che viviamo in questi ritratti come perfettamente naturale è la convenzione che l’artista stia lavo-

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plice schizzo su tela che presto si anima (con la tecnica della stop motion), è


felice di bere dalla bottiglia (anch’essa disegnata, e poi reale) che gli viene offerta, e poi si arrabbia quando gli viene rubato il sigaro. La cornice in cui tutto ciò avviene è quella di uno spettacolo di vaudeville (c’è un palco, c’è un sipario, c’è un fondale): Blackton era un cabarettista (diremmo oggi) che girava per i teatri americani con dei numeri in cui disegnava a gran velocità sulla carta, ma anche un giornalista. Quando il New York Evening World lo mandò a intervistare Thomas Alva Edison, che stava promuovendo il suo Vitascope, una macchina cinematografica alternativa a quella dei Lumière, nacque un’intesa tra i due che avrebbe portato Blackton a dedicarsi alla produzione di film.

Nei due minuti di The Enchanted Drawing ci sono molti indizi di questo momento storico “aurorale”, in cui il cinema ha bisogno di riconoscibilità immediata e di sottolineare la sua contiguità con il resto del mondo dello spettacolo: c’è un riferimento preciso al setting teatrale, ci sono espedienti semplici ma di sicuro effetto (con un certo gusto per la novità molto americano), e gli effetti speciali sono costruiti per sottolineare le potenzialità del nuovo mezzo cinematografico più che per creare una narrativa convincente. Blackton firma nel 1906 Humorous Phases of Funny Faces (J. Stuart Blackton,

Humorous Phases of Funny Faces, USA 1906) con un’animazione “in stop motion” che non vede più la presenza dell’artista-performer: compare solo una mano per tracciare i volti e quindi cancellare la “lavagna” su cui, in bianco, sono tracciati i disegni. Un espediente simile a quello che poi Cavandoli sfrutterà in modo magistrale per dar vita alla sua Linea (Osvaldo Cavandoli, La linea, Italia 1969 © Quipos). Blackton perderà interesse per l’animazione per dedicarsi alle potenzialità

del cinema muto: una generazione di veri artisti è però pronta a scommettere davvero sul disegno animato. Il

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nome principale è quello di uno dei più grandi fumettisti di tutti i tempi, Winsor McCay, che oltre a capolavori come Little Nemo (pubblicato a partire dal 1905), firma tre fondamentali film di animazione, dando per primo continuità (e profondità) all’uso dello sfondo bianco, su cui si muovono i propri personaggi. Anche McCay usava accompagnare le proprie proiezioni in vere e proprie tournée teatrali, cercando di unire la novità del mezzo a temi di attualità: nel 1913 inizia ad animare Gertie The Dinosaur, un cortometraggio con oltre diecimila disegni animati, che debuttò nel 1914 a Chicago, con immenso clamore… si poteva infatti vedere un dinosauro “prendere vita”. Durante la performance il fumettista interagiva con il dinosauro Gertie, dandogli ordini, lanciandogli una mela e infine entrando dentro il film e uscendo di scena a cavallo dell’animale preistorico. Nel corso dello stesso anno, McCay realizza anche un film di quasi quattordici minuti che non chiede più la

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presenza dell’autore in scena (Winsor McCay, Gertie the Dinosaur, USA 1914) In tutti questi film compare l’interazione del disegnatore con il proprio disegno, e viene così tematizzato lo spazio bianco come luogo in cui “prendono vita” (letteralmente, e dichiaratamente, nel caso di Gertie) le immagini. Per il pubblico dell’epoca le immagini in movimento erano una novità relativa, dato che gli antenati del cinema già mostravano dei rudimentali cartoni animati: l’espediente quindi di mostrare le immagini insieme al creatore serviva per sottolineare la differenza del nuovo mezzo e al tempo stesso mostrarne le potenzialità. Di più: sottolineare la presenza umana serviva all’epoca per distanziarsi dai vari kinetoscopi, cineografi, fenachistoscopi e lanterne magiche. Quando appare un nuovo mezzo di comunicazione la novità tecnica porta con sé anche nuovi modi di pensare o di vedere le cose: la nascita dell’animazione si porta dietro anche, così, l’astrazione necessaria a immaginare la pagina bianca come luogo di creazione. Nei film citati, così come in Harold e la matita viola, la pagina è il luogo in cui prendono vita i disegni, e più che una pagina è uno schermo: la vita da un punto di vista visivo è anzitutto, come intuisce McCay, movimento. E se sulla tela o sulla carta il movimento è simbolico


o simulato, sullo schermo questo movimento è realizzato. Torniamo a Harold e più in generale al libro illustrato. Ho detto prima che “lo spazio dell’immaginario” trova nel libro illustrato forse la sua massima efficacia: è infatti uno spazio non solo rappresentato, ma ri-creato dal lettore; quando noi seguiamo Harold, lo vediamo “muoversi”, in un movimento che è però solo effetto della nostra collaborazione col testo. Siamo noi che immaginiamo Harold che si

immagina dar vita a qualcosa… visivamente il racconto guadagna quella profondità che è propria di un altro testo visivo essenziale nella “poetica dello spazio bianco”, Drawing hands di M.C. Escher (1948). Gli albi illustrati sono più potenti dei “libri affiancati da illustrazioni”, perché nella compresenza e nella compenetrazione dei due linguaggi noi ricreiamo quel mondo immaginario dentro di noi. Nel caso specifico di Harold, questa creazione di immaginario è data da un racconto quasi-filmato: leggendo

M.C. Escher, Drawing hands, 1948

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il libro ricreiamo ciò che sta “tra una pagina e l’altra” e riempiamo di significato i vuoti lasciati. È questa nostra azione che rende efficaci i libri: qui in particolare facciamo (automaticamente, inconsciamente) ciò che abbiamo imparato guardando il cinema; con altri libri facciamo magari altre cose, riempiendo diversamente i “vuoti” seminati in ogni buon libro illustrato.

leggere significa guadagnare un altro sguardo sulla realtà; o sullo spazio dell’immaginario, che della realtà fa parte, a qualsiasi età.

Così, incidentalmente, verso la fine di questo percorso dalle gambe lunghe (e dalle calze lunghe), scopriamo cosa si impara dentro un libro come questo, fatto per essere letto e riletto e scoperto ogni giorno. Si impara la storia, “il messaggio”, ma si impara anche a leggere in quel modo: e imparare un modo di

BIBLIOGRAFIA

Harold e la matita viola, Crockett Johnson, Einaudi Ragazz,i 2000 C’era una volta un topo chiuso in un libro, Monique Felix, Emme 2009 Orsetto e i cacciatori, Anthony Browne, Mursia, 1990 Mostri, Russell Hoban e Quentin Blake, Nord-Sud, 2013 Confusione mostruosa, Lewis Trondheim, Edizioni BD, 2001 Camillo ha un segreto, Ole Könnecke, Beisler, 2007 Luna e la camera blu, Magdalena Guirao Jullien e Christine Davenier, Babalibri, 2014 Viaggio, Aaron Becker, Feltrinelli, 2014 Caccia alla tigre dai denti a sciabola, Pieter Van Oudheusden e B. Leroy, Sinnos, 2015 Giovanna prende il treno, Kathrin Schärer, Officina Libraria, 2013

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ALESSANDRA STARACE

Il valore dello spazio bianco Quando il primo scrittore sognò la nuova arte di fissare segni nell’argilla, vide la luce silenziosamente anche un’altra arte complementare, senza la quale la prima sarebbe stata priva di significato. Lo scrittore era un artefice di messaggi, un creatore di segni; ma quei segni e messaggi richiedevano un mago che sapesse decifrarli, riconoscerne il significato, dar loro una voce. La scrittura richiede un lettore. (Una storia della lettura, Albert Manguel, traduzione a cura di Gianni Guadalupi, Feltrinelli, 2009, Milano pag. 157)

Se è indiscutibile la relazione etica che intercorre tra l’autore di un libro e chi lo legge, non sempre si puòaffermare la stessa evidente corrispondenza per quanto riguarda l’editore e i suoi lettori, o la comunità di lettori ai quali si rivolge.

Spesso ai gruppi editoriali più importanti non interessa che il lettore provi godimento a leggere, bensì che questi conduca a termine (il consùmere dei latini) una catena più o meno complessa di azioni alle cui origini presiede solitamente la penna dell’autore. In ultima analisi quasi sempre importa soltanto che il lettore acquisti il libro.

Un’affermazione importante, questa dichiarata, con forza ed entusiasmo, nella premessa alla “Carta dei diritti del lettore”, a cura de l’Arcilettore, un’associazioni di lettori nata “allo scopo di divulgare e condividere il piacere della lettura attraverso numerose iniziative caratterizzate dalla centralità dei lettori e dei libri”. Dati per assodati importanza e ruolo della letteratura in età evolutiva, sarà utile sottolineare quanto leggere sia un’attività complessa. Richiede, infatti, oltre alla padronanza di abilità uditivo-fonologiche e visuo-percettive mediate dall’attenzione visiva spaziale, l’esistenza di fattori sociali, culturali e

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educativi che influenzano l’acquisizione di dette abilità. (Il ruolo dell’attenzione visiva spaziale nell’apprendimento della lettura, Andrea Facoetti, Stampato in Il bambino e le abilità di lettura: il ruolo della visione, 2005, Milano, Franco Angeli) Di conseguenza, quando ci si rivolge ai lettori più giovani, oltre alla qualità, all’attrattiva dei contenuti, a uno stile e una forma consona, dovrebbe essere presente un’attenzione particolare alla leggibilità del testo. Forse tra gli espedienti tipografici, più a buon mercato per un editore, c’è proprio l’uso dello “spazio bianco”, altrimenti detto, “spazio vuoto” o “spazio negativo”. A prima vista, l’uso adeguato di questo spazio, dà l’idea di trovarsi di fronte a un testo attraente, ordinato ed elegante, che trasmette armonia ed equilibrio. A uno sguardo più attento, salta agli occhi quanto questi spazi facilitino la lettura di un testo e aiutino a comprenderlo meglio. Il giovane lettore avrà la sensazione – e di fatto così sarà – di poter padroneggiare meglio la lettura e di poter vivere un’esperienza alla sua portata. Lo spazio ai margini, all’inizio e alla fine di un capitolo, un paragrafo, tra le

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colonne, le righe, le parole, e le lettere, si rivela determinante per: • rendere meno densa una pagina scritta • guidare lo sguardo del lettore • evidenziare il testo • creare disegni geometrici impercettibili esteticamente piacevoli • offrire uno spazio creativo: uno spazio che permette al lettore di riposare lo sguardo e riempirlo con la sua immaginazione. E così lo spazio bianco non solo coadiuva la leggibilità, ma quel processo per il quale la lettura diventa“un’arte capace di consentire l’accesso a mondi magici”. Se la lettura riesce a coinvolgere non solo le “capacità conoscitive della mente ma anche la sua fantasia e le sue emozioni”, non avremo solo insegnato a un bambino a decifrare le parole su un foglio bianco e a comprenderne il significato, ma avremo plasmato un lettore. (Imparare a leggere. Come affascinare i bambini con le parole, Bruno Bettelheim, Karen Zelan, Milano, Feltrinelli). In questi termini, il semplice spazio bianco diventa uno spazio propedeutico al completo dipanarsi della magia della lettura. Visto il potenziale di tale espediente e l’importanza che esso sia usato scientemente, è bene indagarne il suo utilizzo in Italia, allo stato attuale.


Case editrici, quali Uovonero, bianconero, Sinnos, che dell’accessibilità e dell’integrazione hanno fatto il loro punto di forza, ne conoscono la valenza e lo utilizzano insieme ad altri espedienti, per aumentare la comprensione dei testi ed eliminare le barriere tipografiche. In particolare, osservando i loro testi, si possono evidenziare accorgimenti comuni quali: • una spaziatura adeguata tra le lettere • un’ interlinea maggiorata • l’uso di un bianco meno acceso per evitare i riflessi.

Ma leggiamo sull’argomento cosa ne pensa Irene Scarpati, direttore editoriale di bianconeroedizioni:

Per noi che facciamo narrativa ad Alta Leggibilità lo spazio bianco è prezioso perché rappresenta una delle più immediate strategie di abbattimento delle barriere tipografiche, che sono un concreto ostacolo all’accesso al contenuto di un testo. È lo spazio bianco che mettiamo per separare due paragrafi, in modo da offrire una pagina piùleggera e amichevole. In questo caso lo spazio bianco diventa un traguardo più facilmente raggiungibile e incoraggia il lettore ad andare avanti. È lo spazio bianco che si trova alla fine delle nostre righe (non giustificate ma a bandiera). In questo caso lo spazio bianco dà ritmo alla lettura.

Il fantasma di Canterville. Con CD Audio formato MP3, Oscar Wilde, Biancoenero, collana Raccontami, 2012

È lo spazio bianco che è fondamentale nella nostra font: nel disegno della singola lettera che, per essere più chiara, gioca su pieni e vuoti, ma anche nello spazio tra le lettere e le parole. Uno spazio bianco che concorre alla

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restituzione del contenuto attraverso la leggibilità, il ritmo, il recupero della sicurezza del lettore. Quindi chi più di noi può amare gli spazi bianchi?”

Sulla scia di questi esempi, sono molte le case editrici che stanno facendo piccoli passi in questa direzione, basterà confrontare le nuove edizioni di alcuni libri con quelle precedenti, per verificarlo. Si osservino a titolo esemplificativo le riproduzioni delle pagine del libro Lo stralisco di Roberto Piumini, illustrato da Cecco Mariniello, nella edizione del 1993 edizione El, ed Einaudi del 2015:

Percorso che ben si addice non solo a quegli editori che si rivolgono esclusivamente a un pubblico di giovani lettori, ma a tutti quelli che aspirano a conquistare questa fetta di lettori, e non solo per questioni economiche ma per assolvere all’essenza stessa della mediazione editoriale. Scrive il sociologo e filosofo Pierre Bourdieu:

Se sia un cambio di direzione dovuto o una nuova consapevolezza e impegno, o un adeguamento alle esigenze del mercato, non è facile da dirsi.

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La scelta di un luogo di pubblicazione (in senso ampio) -editore, rivista, galleria, giornale – non ècosì importante se non in quanto a ogni autore, a ogni forma di produzione e di prodotto, corrisponde un luogo naturale (già esistente o da creare) nel campo di produzione e in quanto i produttori che non sono al posto giusto – che sono più o meno condannati a fallire: tutte le omologhe che garantiscono un pub-


blico adeguato, critici comprensivi, e così via, a chi ha trovato il suo posto nella struttura, giocano al contrario contro chi si è smarrito fuori del proprio luogo naturale (Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Pierre Bourdieu, di Anna Boschetti, Il Saggiatore, 2005, Milano, pag. 234). C’è da augurarsi che questa auspicabile tendenza possa trovare un terreno fertile anche nei libri divulgativi, brulicanti di testo e di immagini, quasi a dimostrare una sorta di horror vacui, e di sofferenza nei confronti dello spazio vuoto. Senza invece tener conto che dare meno informazioni, o per lo meno fornirle non troppo ammassate nello spazio della pagina, equivale ad ottener maggiore attenzione da parte del lettore, facilitare la sua immersione nel libro e, di conseguenza, aiuta a suscitare un piacere più profondo. A rassicurazione che questa possa essere la strada giusta da intraprendere, riporto le parole di due personalità, leader nel mondo della comunicazione: Nelle sesta legge sulla semplicità, il graphic designer, John Maeda, nel suo libro Le leggi della semplicità, scrive:

CONTESTO (Ciò che sta alla periferia della semplicità non è assolutamente periferico) – C’è qualcosa di intrigante nel modo in cui i nostri occhi e le nostre mani lavorano di concerto. Immaginatevi seduti davanti a un tornio da vasaio, curando ogni dettaglio con grande concentrazione. Tutto ciò che conta sta accadendo davanti a voi, sulle punte delle vostre dita, ed è tutto compreso nel vostro ristretto campo visivo. Il telefono squilla, o il campanello suona, e il controllo viene meno a causa dello sfondo che travolge la ribalta. Per fortuna, notate che la pentola sul fornello sta bollendo o scoprite di avere un taglio sulla mano. (Le leggi della semplicità, John Maeda, a cura di M. Faillo, 2006, Milano, Bruno Mondadori).

O più semplicemente, con il Jan Tsichhold, tipografo, scrittore, designer e insegnante tedesco, tra i piùimportanti progettisti del libro del Novecento, potremo dire:

White space is to be regarded as an activate element, not a passive background.

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Dimostrata la valenza tipografica dello spazio bianco, nella narrativa destinata a un pubblico di giovani lettori, non possiamo tacerne la valenza poetica che ogni autore dovrebbe conoscere e salvaguardare in fase di stampa del testo. Significativa l’insistenza con la quale Elsa Morante si rivolse ai suoi interlocutori editoriali, in fase di pubblicazione dell’Isola di Arturo nel 1956, che verteva proprio sugli spazi bianchi:

questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali – divisi da occhiello serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità d’azione.

È necessario, perciò, mantenere fra i successivi Capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina: li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Lei lo giudica necessario per l’estetica tipografica”. (Lettere di Elsa Morante a Bruno Fonzi del 24 novembre 1956, in Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione poeta, Nistri- Lischi, Pisa 1999, pag. 82. Citata inLe diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Cadioli Alberto, Il Saggiatore, Milano, 2012) Un espediente di valore quindi al servizio di autori, editori e lettori, ma soprattutto della lettura, sempre più a rischio in un’epoca dominata non solo dalla comunicazione visiva ma anche dalla velocizzazione delle storie audiovisive e digitali, di cui le nuove generazioni sono esperti fruitori.

BIBLIOGRAFIA

Una storia della lettura, Albert Manguel, traduzione a cura di Gianni Guadalupi, Feltrinelli, 2009, Milano pag. 157 Il ruolo dell’attenzione visiva spaziale nell’apprendimento della lettura, Andrea Facoetti, Stampato in “Il bambino e le abilità di lettura: il ruolo della visione”, 2005, Milano, Franco Angeli). Imparare a leggere. Come affascinare i bambini con le parole, Bruno Bettelheim, Karen Zelan, Milano, Feltrinelli Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Pierre Bourdieu, di Anna Boschetti, Il Saggiatore, 2005, Milano, pag. 234. Le leggi della semplicità, John Maeda, a cura di M. Faillo, 2006, Milano, Bruno Mondadori. Lettere di Elsa Morante a Bruno Fonzi del 24 novembre 1956, in Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione poeta, Nistri- Lischi, Pisa 1999, pag. 82. Citata in Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Cadioli Alberto, Il Saggiatore, Milano, 2012)

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ANGELA CATRANI

Leggere lo spazio bianco Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto? Ad abbeverarsi a un’acqua scritta che riflette il suo musetto come carta carbone? Perché alza la testa, sente forse qualcosa? Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità, da sotto le mie dita rizza le orecchie. Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta e scosta i rami generati dalla parola “bosco”. Sopra il foglio bianco si preparano al balzo lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo. In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta di cacciatori con l’occhio al mirino, pronti a correr giù per la ripida penna, a circondar la cerva, a puntare. Dimenticano che la vita non è qui. Altre leggi, nero su bianco, vigono qui. Un batter d’occhio durerà quanto dico io,

si lascerà dividere in piccole eternità piene di pallottole fermate in volo. Non una cosa avverrà qui se non voglio. Senza il mio assenso non cadrà foglia, né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo. C’è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante? La gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale. [La gioia di scrivere, di Wislawa Szymborska]

In questa celeberrima poesia, che dà il titolo alla raccolta di poesia della grandissima poetessa polacca (Adelphi, traduzione e cura di Pietro Marchesani, 2009), si celebra la potenza e la felicità che prova uno scrittore mentre crea, mentre dà origine alle sue storie, alle sue poesie. Ma si racconta anche altro. Silenzio – anche questa parola fruscia

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sulla carta e scosta i rami generati dalla parola “bosco”. Il verso “e scosta” è composto da sole due parole, seguite da uno spazio bianco lunghissimo. Il verseggiare poetico ci ha abituato a percepire la poesia contornata da tanto spazio bianco, la mente infatti intuisce subito che una determinata modalità compositiva della pagina scritta è una poesia: secondo la Psicologia della Gestalt noi percepiamo a prima vista e interpretiamo correttamente prima ancora che la mente si sia soffermata a comprendere il significato di quello che stiamo leggendo. Ma queste due sole parole creano una vera attesa, una pausa potente nello scorrere dei versi. Trattandosi però di poesia, il lettore implicitamente considera in qualche modo normale che versi più corti di altri lo portino a sospendere la lettura, ricevendone quasi in dono dei preziosi momenti di riflessione e a volte di commozione. E se invece questo spazio bianco tra lo scritto e nello scritto ce lo donasse la narrativa? Ne ricaveremmo il medesimo significato e senso che nella lettura della parola poetica?

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Ma partirò con ordine, analizzando lo spazio bianco all’interno di un libro di narrativa. Prendo in mano un libro, guardo il titolo, il nome dell’autore, l’immagine di copertina. Attendo a immergermi nella lettura, assaporo istante per istante il momento della felicità, quando i miei occhi, la mia mente e tutto il mio essere precipiteranno nel vortice della storia. Apro il libro. Riga bianca sotto al titolo, uno spazio bianco d’attesa, di suspence, un regalo che l’editore ci fa. (Quando mi arrivano i testi dagli autori, libri di narrativa, filastrocche, testi per albi illustrati, spesso questo spazio bianco non c’è. L’autore ha fretta di far leggere a me editor la sua storia subito, ha fretta di sapere cosa ne penso, sembra chiedere: Ti è piaciuta? Mi pubblicherai? La mia opera sarà letta dal comitato di redazione? Infatti non è solo una questione di impaginazione in Word, perché al contrario, quegli autori che riflettono sulla propria opera a lungo, e magari l’hanno mandata tanto in giro, la prima cosa che fanno è quella di dilatare lo spazio dell’attesa: autori scaltri che sanno che un editor prima di tutto, e sempre, è un lettore vorace e onnivoro, che vive di storie come altri vivono di cibo. Aumentare l’attesa fa venire l’acquolina… Percepisco questa ansia,


la faccio mia, leggo anche io di corsa, cercando un interesse, una novità, una prospettiva di futura vendita mi sorprendo a leggere a video, non voglio fare aspettare troppo l’autore, vivo la sua attesa, la sua emozione. Il libro infine viene pubblicato, ecco che si potrà respirare, ecco la riga bianca, ecco che si potrà entrare nel vivo della narrazione con calma.) La riga bianca sotto al titolo del Capitolo 1 è un viale largo largo, a volte un viale a doppia corsia, a volte, quando il libro merita una attesa più lunga, soprattutto nei libri di narrativa per adulti, ecco che le righe bianche sono tre, quattro, cinque! Un’autostrada dell’attesa. Anche nei libri per bambini, la famosa narrativa dai sette anni, lo spazio bianco separa il titolo dall’inizio della narrazione. In questo caso è più un ruscello da scavalcare velocemente, di corsa, come di corsa sono sempre i bambini. Ma i bambini cosa penseranno di questi spazi bianchi? Nei testi di narrativa per i più piccoli in questi spazi bianchi entrano a volte delle piccole illustrazioni: guai al bianco! L’horror vacui è sempre all’orizzonte. Poi c’è il bianco intorno al testo: nelle edizioni di pregio il bianco fa parte del testo, entra in sintonia con il nero tipografico, lo accoglie, lo avvolge.

Regala spazio, respiro. A volte regala un margine per le annotazioni.

Libro d’ore, Parigi, Jean De Brie (_), 1512. Impresso su pergamena e miniato

Mi sono sempre chiesta che senso avessero, in un pensiero anche di tipo economico, i bordi bianchi: ci sono libri che mantengono alto il respiro con pagine dotate di tanto bianco intorno al testo scritto, altre edizioni, economiche appunto, sono fitte fitte, incalzanti, non regalano tregua. Spesso questo è dovuto al tipo di narrazione: nei gialli, nei polizieschi e negli horror a volte è necessario incalzare il lettore, fargli percepire uno stato d’ansia che possa venire anche da una pagina piena di segni neri che arrivano quasi al bordo. A volte è una mera questione economica: meno pagine, minor costo del libro. Case editrici raffinate come Adelphi, per esempio, oppure come Sellerio, pur nel piccolo formato, ci regalano tanto spazio intorno al testo, con un’accura-

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ta pulizia compositiva della pagina. Altri editori preferiscono puntare sul formato, sulla copertina cartonata con sovracoperta, come nella collana Supercoralli Einaudi, ma scegliendo carta molto leggera e trasparente e una pagina molto affollata e piena, quasi soffocante. Lo spazio bianco è sempre ragionato, misurato, valutato dal grafico e dal direttore editoriale: si guarda al numero di pagine, al costo per pagina, alla dimensione finale del libro. Lo spazio bianco, così come la composizione tipografica, un certo font, la carta, per tralasciare elementi visivi più eclatanti come la copertina, il logo, la costa, le dimensioni del libro, ci raccontano già di scelte editoriali determinate, ci ricordano all’istante l’editore. I lettori più avvezzi riconoscono a colpo d’occhio un editore piuttosto che un altro, anche a libro aperto. Ci si affeziona a un certo uso dello spazio, così come a un certo font e a un certo tipo di carta. Il libro regala piaceri sensoriali ineguagliabili che un ebook, nonostante possa riconoscerne i pregi, non mi donerà mai (e anche l’uso dello spazio bianco è completamente disatteso: vigono ben altre regole negli ebook, ahimè!). Mi piace però pensare che ci siano pensieri anche verso i lettori, non solo verso i conti economici. Ci sono testi

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che abbisognano di molto respiro, di dare il tempo al lettore di incontrare il ragionamento dello scrittore con agio: un libro così è Gli anni di Annie Ernoux, editato da L’orma editore (traduzione di Lorenzo Flabbi, uno degli editori), una piccola e raffinatissima casa editrice milanese, che si impegna a tradurre e a portare in Italia il meglio della letteratura europea – con ottimi risultati, aggiungo. Nel libro Gli anni, che narra i pensieri autobiografici della scrittrice francese, una riflessione profonda e corale della generazione nata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo spazio bianco compenetra i pensieri, vi entra in stretta relazione, non è “solo” uno spazio bianco, diventa il respiro della scrittrice. E tra lei e noi lettori si crea un legame profondo con lei anche grazie a questo uso sapiente del bianco. Ritorniamo, infine alla riga tronca all’interno di un libro di narrativa, tipica del verseggiare.

Una pagina della Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499)


Prendiamo per esempio 80 miglia, pubblicato per Einaudi in questo 2015 (andrò a capo con Antonio):

1499 l’Hypnerotomachia Poliphili - Manuzio

Glossa Accursio

Ci sono autori che usano lo spazio bianco, ne fanno arte e necessità, misura del loro periodare e del loro pensiero. Antonio Ferrara, autore eclettico e prolifico, scrittore e illustratore, conosce molto bene il senso e il valore della riga tronca. Questo procedere spezzettato comunica, a noi lettori onnivori e mai contenti, il medesimo procedere del pensiero dei protagonisti; ci incontriamo nella loro mente, nel loro singhiozzare pensieri ed emozioni.

“Mi piaceva perché era spiritoso, Joe. Parlava, parlava, si divertiva, a parlare. Le cose al saloon te le diceva sempre in quel suo modo strano. Io avevo tredici anni e una granvoglia di scappare di casa, e quando lui si toglieva il cappello, lo appoggiava al bancone e attaccava a raccontare, gli morivo dietro. Quando per bere smetteva di parlare, non vedevo l’ora che ricominciasse. Al pomeriggio mettevo la biada ai cavalli e poi correvo in paese per andarlo a sentire al saloon. Ero l’unico ragazzo, là dentro. Mi piaceva stare in mezzo agli operai della ferrovia, perché il treno era la mia passione. Ero contento che a Nadine stessero costruendo la stazione. Una volta restai ad ascoltarlo tutto il pomeriggio, Joe, e per sentirlo mi imbambolai e dimenticai di strigliare i cavalli e di dargli la biada. Mio padre al ritorno me le suonò di brutto, quella volta, e forse un po’ fu anche per via del fatto che prima di andarmene al saloon avevo messo un fiore di cardo tutto spine sotto la sella di Blacky, per vedere cosa faceva, e quando mio padre gli era saltato in groppa, Blacky era schizzato via come una freccia nel cortile e poi di colpo aveva puntato le zampe anteriori, si era fermato davanti al mucchio

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di letame e aveva scaraventato mio padre a faccia in giù in quella roba puzzolente. Forse per questo le presi. Mi sa di sì. Però ero contento. Anche se le presi, pensai che ne era valsa la pena. Di andare al saloon, voglio dire, non di avere buttato mio padre nel letame.” La concitazione del pensiero di Billy, il protagonista, è velocissima all’inizio, senza pause: un pensiero che si riverbera nella pagina senza respiro. Poi si calma, Billy si fa pensieroso, poi ridanciano al pensiero del padre finito nel mucchio di letame. Le sospensioni, le righe bianche, divengono parte del racconto, hanno e danno significato. Il lettore, lanciato dentro al racconto da una prosa incalzante e paratattica, è immerso nel ricordo di Billy, ricordo che si stempera, che si calma via via. Questo modus operandi è tipico della prosa di Ferrara, che lo usa in maniera programmatica ed è efficacissimo per agganciare i suoi giovani lettori. Per fortuna sua e nostra, gli editori accolgono e sposano la prosa di Antonio Ferrara. E pazienza se si usa un ottavo di carta in più. (Ricevo dalle mani di Ferrara uno scritto inedito, che vedrà presto la luce:

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controllo dove ha interrotto la riga e dirò alla grafica di non toccare nulla, di non alterare queste righe tronche. E non importerà se rimarrà una parola da sola in cima alla pagina, spauracchio di ogni grafico. La riga interrotta aveva un senso per Antonio, avrà un senso anche per il lettore. L’editor, come un’ostetrica, accoglierà il testo dallo scrittore, lo laverà, lo vestirà, ma non lo modificherà, nemmeno se questo vorrà dire lasciare una riga appesa a testa in giù a guardare un vuoto sotto di righe bianche, un viale lungo lungo in cui il lettore si perderà, per poi ritrovarsi nel capitolo successivo.) Chiedo ad Antonio Ferrara se il mio pensiero è corretto. In occasione di una presentazione dei suoi libri, Lodovica Cima, editor per San Paolo e ottima scrittrice, ha raccontato come di fronte al periodare franto di Ferrara ne avesse colto la potenzialità e l’efficacia verso i suoi giovani lettori, invitando il suo grafico a non modificare la strutturazione della pagina. Questa affermazione così onesta e vera della editor mi ha molto colpito, tanto da farmi riflettere notevolmente sugli interventi redazionali e grafici delle case editrici. Antonio, tu sei anche un raffinato e sapiente illustratore, l’uso che tu fai dello spazio bianco nei tuoi libri di narrativa non credo sia solo un


espediente narrativo. Hai voglia di raccontarci di più? “Certo che lo spazio bianco mi serve, nei miei testi. A evocare il silenzio. Il pensiero. A dare il tempo al lettore per elaborare. A rallentare la corsa a volte impetuosa del prima e del dopo. A sottolineare per contrasto il tono prevalentemente tumultuoso del “parlato/scritto” – come lo chiamo io – del protagonista. Lo spazio bianco fa risuonare le parole come l’eco in una stanza vuota, le fa durare. Come nella poesia. Nei libri di poesia c’è un enorme “spreco” di spazio. Con tutto quel bianco l’occhio si aggira nel vuoto e l’orecchio sente ciò che non è scritto.”

*Antonio Ferrara è scrittore, illustratore, poeta. Autore di moltissimi libri per bambini e ragazzi, nel 2012 è stato insignito del Premio Andersen con il libro Ero cattivo, per la narrativa dai 15 anni e nel 2015 ha nuovamente vinto il Premio Andersen con il volume Io sono così per il miglior libro fatto ad arte (il testo è di Fulvia degli Innocenti, Settenove edizioni). Amatissimo dai suoi lettori (giovani e meno giovani) gira tutta Italia presentando i suoi libri e conducendo corsi di formazione per insegnanti. I suoi libri sono tradotti in molte lingue. Tra i suoi titoli più recenti: 80 miglia, Einaudi, Cuori d’ombra, Salani, La corsa giusta, Coccole books, Nemmeno un giorno, Il Castoro, La maestra è un capitano, Coccole books, Il ragazzo è la tempesta, Rizzoli.

BIBLIOGRAFIA

La gioia di scrivere, Wislawa Szymborska, traduzione e cura di Pietro Marchesani, Adelphi, 2009, Milano, pagg. 182-185 Gli anni, Annie Ernoux, traduzione di Lorenzo Flabbi, L’orma editore, Roma, 2015 80 miglia, Antonio Ferrara, Einaudi Ragazzi, San Dorligo Della Valle (Trieste), 2015, pagg. 9-10

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VIRGINIA STEFANINI

Nero come una silhouette P

uò una semplice forma nera priva di dettagli che si staglia su uno sfondo chiaro, bianco o colorato, trasportare immediatamente chi la guarda in un mondo permeato di magia e mistero? Le immagini insilhouette nascondono ai nostri occhi le texture delle superfici, i volumi dei corpi, le espressioni dei volti, ma sono ugualmente immagini riccamente stratificate ed evocative.

buia e spaventosa (in originale A Tale Dark and Grimm) e Il figlio del cimitero. La fortuna di tale stile figurativo è

Fra ombre e ritagli Con la parola silhouette si è soliti indicare una figura ritratta di profilo, il suo contorno in controluce, in netto contrasto con l’ambiente circostante, o un’ombra. Nei libri per ragazzi di oggi si ricorre alla composizione di silhouette, a partire dalla veste grafica, prima ancora che nell’illustrazione vera e propria, quando si vogliono evocare atmosfere d’altri tempi, legate ad un immaginario pastorale e romantico da un lato oppure fiabesco e gotico dall’altro: sono un esempio del primo tipo le copertine dei romanzi Miss Charity, L’evoluzione di Calpurnia, Ho un castello nel cuore, mentre nel secondo caso quella di In una notte

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Esempi di copertine con silhouette

un fenomeno che sboccia in Europa nel diciottesimo secolo e si consolida nel successivo, e non è quindi un caso che questa inconfondibile tipologia di immagini sia divenuta emblema della sua epoca d’origine. Come ben racconta il libro di Pierre Jouvanceau Il cinema di silhouette,


il termine silhouette deriva direttamente dal cognome del ministro delle finanze di Luigi XV, Étienne de Silhouette, che si dilettava nel ritrarre amici e parenti ricalcando il profilo tracciato dalla loro ombra sul muro, per poi riempirlo di nero. Divenuto tristemente famoso per rincari delle tasse alla popolazione francese a metà del Settecento, il finanziere divenne oggetto di varie prese in giro. La più duratura riguardò il suo hobby artistico e la moda che ne scaturì, ossia quella di disegnare contorni di volti e poi ritagliarli, considerata assai più “economica” e di minor valore del ritratto dal vero. Ben presto la connotazione peggiorativa del nome “silhouette” scomparve, via via che nell’Europa continentale divennero sempre più polari le teorie di Johann Kaspar Lavater, studioso svizzero di fisiognomica dedito all’analisi dei profili e i ritagli di artisti come Luise Duttenhofer, amica di Goethe, e Adele Schopenhauer, sorella del celebre filosofo. Dal teatro al cinema Nello stesso periodo le cosiddette figure in silhouette divennero familiari agli occhi del pubblico non solo attraverso le arti figurative, ma anche come protagoniste del teatro d’ombre. Giunta in Europa dalla Cina, questa suggestiva forma di spettacolo ha sottratto alle sagome lo statuto di semplici ritratti leziosi e decorazioni, regalando loro il fascino misterioso di apparizioni in

controluce e la capacità di raccontare storie. Sul finire dell’Ottocento il culmine della popolarità fu raggiunta dagli spettacoli di Henri Rivière allo Chat Noir di Parigi, che utilizzavano sofisticate tecniche di animazione di silhouette ritagliate, effetti prospettici e giochi di luce tali da richiedere la presenza di una dozzina di macchinisti dietro le quinte. Con l’inizio del XX secolo, il trasferimento delle ombre dalla scena al cinema, sia d’animazione che dal vero, fu un passaggio naturale, dal momento che entrambe forme di spettacolo si basavano sullo stesso principio: un’immagine bidimensionale proiettata su di uno schermo. Nacquero così i primissimi film animati con silhouette e, un decennio dopo, le opere visionarie di artisti come Lotte Reiniger, che esordì come animatrice nel 1919 e ben presto cominciò a realizzare cortometraggi ispirati ai classici della tradizione favolistica, come Aschenputtel (Cenerentola) dai fratelli Grimm del 1922. Ad essi fecero seguito numerosi lavori, fra i quali il film unanimemente ritenuto il suo capolavoro, Il principe Achmed, la versione animata del romanzo per bambini di Hugh Lofting Il Dottor Dolittle e una nuova serie di fiabe negli anni Cinquanta. A ispirare Reiniger, fin da giovane dedita all’arte del ritaglio, furono due libri illustrati dal celebre artista art

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Cinderella, testo Charles S. Evans, illustrazioni Arthur Rackham, William Heinemann, 1919, Londra

Fotogramma di Hansel & Gretel, di Lotte Reiniger, Germania, 1955

nouveau Arthur Rackham. Con Cinderella del 1919 e Sleeping Beauty del 1920, Rackham sperimentò una partitura visiva basata su forme essenziali – dove il suo stile pittorico abituale tendeva invece alla ridondanza – e sul contrasto fra bianco e nero, con pochi cenni di colore. Gli scenari sono arricchiti da delicate modanature ornamentali. Grazie all’intreccio fra la popolarità di Rackham e la fortuna del cinema di Reiniger in tutta Europa, dagli anni Venti del Novecento in avanti si è consolidato il rapporto fra l’immagi-

Sleeping beauty, testo Charles S. Evans, illustrazioni Arthur Rackham, William Heinemann, 1920, Londra

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nario letterario infantile, specie quello fiabesco e favolistico, e una tecnica figurativa nato in tutt’altro ambito. Sul grande schermo, l’idillio fra fiaba e silhouette è coronato dal celebre film animato Principi e Principesse di Michel Ocelot del 2000, omaggio al cinema di Lotte Reiniger, reinventato con creatività e ironia. Il geniale lungometraggio, che assembla sei episodi della serie televisiva Ciné Si, prodotta nel 1988 da Canal +, ci mostra un giovane attore, una giovane attrice e un tecnico/regista impegnati nel mettere in scena la rappresentazione di brevi storie di principi e principesse attraverso la tecnica del teatro d’ombre. Rivelandoci che gli spunti iniziali sono tratti da libri, leggende o quadri, mostrandoci il momento della scelta dei costumi più adatti per ogni ruolo da parte degli artisti, Ocelot ci svela le regole del suo spettacolo nello spettacolo e gioca con gli spettatori, rendendoli consapevoli e partecipi di come funzionano la magia delle ombre e quella del teatro, grazie all’ingegno


e all’artigianalità. Con la stessa tecnica Michel Ocelot ha continuato a produrre nuovi episodi delle serie televisive Les Contes de la nuit e Dragons et Princesses, successivamente raccolti nel 2011 in un lungometraggio, tuttora inedito in Italia. Le silhouette nei libri illustrati

Accostandoci al mondo della letteratura per ragazzi contemporanea, l’artista di origine polacca e fama internazionale Jan Pienkowski è senza dubbio il principale erede della tradizione dell’illustrazione in silhouette. Come ha raccontato in una intervista al sito The Guardian, l’artista arrivò a disegnarle quasi per caso: insoddisfatto della resa di un volto, ne annerì completamente i tratti, ottenendo un’immagine evocativa che piacque moltissimo al suo editore. Dovettero averlo influenzato nella sperimentazione di questo stile anche la tradizione centroeuropea di creare decorazioni di carta mediante ritaglio, osservata durante l’infanzia, e il lavoro come scenografo teatrale. Superbi scenari intagliati e tridimensionali compaiono nei suoi bellissimi libri popup, come The First Noel (pubblicato in Italia da Emme edizioni con il titolo Il

primo Natale: un carosello natalizio) e The Nutcracker. A partire dalla fine degli anni Sessanta, Pienkowski lavorò in coppia prima con la scrittrice Joan Aiken poi con David Walser, creando raccolte di fiabe, storie della buonanotte e racconti folkloristici accompagnati da eleganti e minuziose sagome nere, che si stagliano su fondi dai colori marmorizzati. In Italia le sue finissime silhouette si possono ammirare nel volume Le Mille e Una Notte (edito da Fabbri). Anche in Italia, negli ultimi dieci anni, sono stati prodotti alcuni affascinanti albi illustrati che racchiudono in sé i principali motivi della lunga storia

Hansel and Gretel, testo David Walser, illustrazioni Jan Pienkowski, Heinemann – Gallery Five Ltd, 1977

delle immagini in silhouette. Sfogliandoli, possiamo ritrovare alcune delle caratteristiche che rendono questa tipologia di raffigurazione diversa da tutte le altre: il contrasto fra materialità e irrealtà, la teatralità, la fascinazione per il passato, reinterpretati però con

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una sensibilità del tutto personale. Fabian Negrin ha realizzato nel medesimo periodo due albi illustrati mediante silhouette: Favole al telefonino, pubblicato nel 2010 da Orecchio Acerbo, e La bella addormentata nel bosco, trasposizione in immagini dell’omonimo balletto di Tchaikovsky per la collana Tre passi delle edizioni Nuages. La bella addormentata nel bosco porta i segni di una ricerca accurata e rigorosa sui suoi precedenti: dentro ci si ritrovano gli sfondi marmorizzati di Pienkowski (riprodotti nei risguardi) e i colori aciduli delle fiabe di Rackham. La storia di Aurora appare più carnale e feroce del solito, grazie alla possibilità di nascondere “dietro” le silhouette il corpo nudo della protagonista e l’innaturale rigidità di uomini e donne dai colli che paiono spezzati, caduti in un sonno mortale. Il balletto si fa totentanz grazie al potere delle ombre.

di ogni doppia pagina sono chiaramente identificabili e corrispondenti al nostro immaginario. Se sfogliassimo il libro senza leggere il testo riconosceremmo a prima vista il bambino sperduto che bussa alla porta della strega, la bambina smarrita nel bosco al cospetto del lupo, la matrigna allo specchio, la bella che si stiracchia dopo un lungo sonno, la coppia di fratellini mano nella mano, l’orco famelico. Ma proprio nel momento culminante della rappresentazione fiabesca, interviene il testo irriverente dell’autore a spezzare o capovolgere i destini. L’ora blu, edito da Topipittori nel 2009, è invece un racconto ideato e illustrato da Antonio Marinoni, su testi di Massimo Scotti, che ci riporta alle origini delle silhouette, immergendoci in atmosfere

Con Favole al telefonino l’autore si è invece divertito a giocare con gli stereotipi fiabeschi, sia dal punto di vista narrativo che figurativo, creando tredici storie da 160 caratteri l’una, permeate di giochi di parole, paradossi e nonsense. Favole al telefonino, Fabian Negrin, Orecchio acerbo,

Le silhouette degli “attori” protagonisti

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signorina Hortense, autrice delle parole che egli sta leggendo, e in seguito da quella del suo innamorato, il Conte di Saint-Germain. Separati dalla Rivoluzione francese e dal destino, i due amanti si cercano ancora, l’una fantasma inquieto, l’altro ombra immortale, finendo per coinvolgere l’ignaro viaggiatore Tony Tanner nella loro rincorrersi oltre la vita e la morte.

Favole al telefonino, Fabian Negrin, Orecchio acerbo, 2010

settecentesche (la genesi del libro è dettagliatamente raccontata sul blog Le figure dei libri). Il pretesto è il ritrovamento, più di due secoli dopo, del diario di una giovinetta vissuta sul finire del diciottesimo secolo da parte di Tony Tanner, un uomo solo e schivo, che sta partendo per un viaggio di lavoro a bordo di un treno. Mentre dietro i finestrini del suo scompartimento scorrono maestose vedute della Svizzera, identiche a quelle che compaiono sulle incisioni firmate da Beat Fidel Zurlauben, il viaggiatore viene raggiunto prima dall’apparizione della

La storia, dai contorni onirici, è resa ancora più suggestiva dalla presenza di personaggi rappresentati unicamente sotto forma di silhouette. Fra vivi e morti, fra presente e passato, non traspare alcuna differenza: all’interno dell’illustrazione essi sono fatti della stessa, enigmatica e impenetrabile materia nera e ciò rende possibile un incontro straordinario fra realtà e immaginazione. Corallina De Maria, cantante e artista eclettica, fondatrice della compagnia di teatro d’ombre Controluce, si è occupata della realizzazione delle ombre che illustrano due albi a sfondo musicale, accompagnanti da cd, pubblicati da

L’ora blu, testi Massimo Scotti, illustrazioni Antonio Marinoni, Topipittori, 2009

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Genoveffa è la sposa del duca di Brabante, ma di lei è innamorato l’infido Golo. Il marrano fa in modo che il duca si smarrisca durante una battuta di caccia per insidiarne la moglie; ma quando la bella lo rifiuta la fa a sua volta esiliare nel folto del bosco e condannare a morte. Il destino fa però rincontrare i due innamorati e ridistribuisce le giuste colpe a chi spettano.

L’ora blu, testi Massimo Scotti, illustrazioni Antonio Mari-

La melodrammatica storia di Genoveffa discende dalla tradizione del romanzo cavalleresco e, prima di approdare al mondo dell’operetta per mano di Satie all’inizio del Novecento, ha fatto parte per lungo tempo del repertorio marionettistico europeo. La sua trasposizione nel 2014 in un libro popolato di silhouette è il perfetto coronamento di un percorso che intreccia il romanzesco e le arti della scena.

noni, Topipittori, 2009

Gallucci. Sono Samarcanda, sul testo dell’omonima canzone di Roberto Vecchioni, e Genoveffa di Brabante, operetta musicata da Erik Satie, con testo di Lord Cheminot adattato dalla studiosa Ornella Volta, e narrata da Paolo Poli: una delizia per gli occhi e le orecchie di adulti e bambini!

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Attraverso questa lunga galleria di scene, filmati, illustrazioni è possibile percepire l’enorme fascino che le silhouette esercitano sull’osservatore. Sebbene ogni artista abbia adottato un proprio stile e le silhouette possano apparire più o meno esili o tozze, morbide o spigolose, il criterio che sembra accomunare, secolo dopo secolo, sia i profili disegnati o ritagliati che quelli


di raffigurazioni si noterebbero appena – un’acconciatura scompigliata, un naso pronunciato, un buffo copricapo – le silhouette fanno di ogni ombra un personaggio peculiare. Chi guarda, ricostruisce come plausibili corpi che il più delle volte sono rappresentati secondo punti di vista diversi: la necessità di mostrare i volti di profilo e i busti in posizione semifrontale, per accentuare la forma delle braccia e delle gambe, che non possono mai essere chiuse, obbliga il creatore di silhouette a giocare con l’anatomia e la prospettiva.

Genoveffa di Brabante, testo Lord Cheminot, adattamento Ornella Volta, ombre Corallina De Maria, Gallucci,

Le arti sceniche hanno assegnato a questo stile caratteristiche che ritornano anche nei libri illustrati: l’enfasi della gestualità, l’importanza dei costumi nel definire la personalità dei protagonisti, la presenza di una cornice scenografica intorno ai personaggi, la prevalenza di inquadrature a media o lunga distanza, sia nelle illustrazioni che nei film d’animazione.

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animati è l’offrire agli occhi dei loro osservatori una rappresentazione di corpi e oggetti dalle forme stilizzate ma sempre realistiche e riconoscibili, ai quali la superficie scura non toglie realtà ma dona consistenza e precisione. Finendo per imprimere sullo sfondo e sulla retina i dettagli più minuti di ogni figura, che in altri tipi

La visione di una sagoma scura in controluce è un’esperienza percettiva che i nostri sensi sanno essere possibile anche fuori dal libro, dalla sala teatrale, dal cinema. Le silhouette fanno la loro comparsa fra luci e ombre che popolano il nostro campo visivo per mostrarci un mondo fiabesco eppure reale, al quale altrimenti non potremmo credere. Tutt’altro che evanescenti e immateria-

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li, le silhouette sono allo stesso tempo fantomatiche e tangibili. La zona buia in primo piano nasconde alla vista la maggior parte degli attributi del corpo che vuole rappresentare e forse ne è solo una ricostruzione o ricordo incompleto. Eppure l’impressione che la sagoma nera sia l’indice di una presenza reale, presente o appena passata, permane e suggestiona l’osservatore. E per questo di fronte ad essa continuiamo a meravigliarci come davanti ad un’illusione che diventa realtà.

BIBLIOGRAFIA

Il cinema di silhouette, Pierre Jouvanceau, Le mani, 2004, Recco Aschenputtel, regia Lotte Reiniger, animazione, Germania, 1922, 13’′ Hänsel and Gretel, regia Lotte Reiniger, animazione, Gran Bretagna, 1955, 10’′ Cinderella, testo Charles S. Evans, illustrazioni Arthur Rackham, William Heinemann, 1919, Londra Sleeping beauty, testo Charles S. Evans, illustrazioni Arthur Rackham, William Heinemann, 1920, Londra Principi e principesse, regia Michel Ocelot, animazione, Francia, 2000, 65’ Hänsel and Gretel, testo David Walser, illustrazioni Jan Pienkowski, Heinemann – Gallery Five Ltd, 1977, Londra La bella addormentata nel bosco, dal balletto di P. I. Tchaikovsky, testo e illustrazioni di Fabian Negrin, Nuages, 2010, Milano Favole al telefonino, Fabian Negrin, Orecchio Acerbo, 2010, Roma L’ora blu, testi Massimo Scotti, illustrazioni Antonio Marinoni, Topipittori, 2009, Milano Genoveffa di Brabante, musiche Erik Satie, testo di Lord Cheminot, traduzione e adattamento Ornella Volta, ombre Corallina De Maria, Gallucci, 2014, Roma Samarcanda, Roberto Vecchioni, ombre Corallina De Maria, Gallucci, 2007, Roma

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FEDERICA PIZZI

Il colore dell’immaginazione G

ran parte del fascino di un albo illustrato risiede nella sua natura di testo complesso. L’aspetto più evidente di tale complessità è il rapporto di interdipendenza dialettica tra apparato iconico e apparato verbale: parole e immagini in un picture book possono interagire in un’ampia varietà di modi creando, nella loro combinazione, un nuovo codice che porta avanti la narrazione.

Limitandoci al solo campo delle immagini, possiamo notare come, anche nella scelta della tavolozza con cui colorare le figure, l’illustratore possa seguire non soltanto i suoi gusti estetici o le sue modalità stilistiche, ma porsi “nell’ottica del picturebook”: rendere cioè la combinazione cromatica uno degli elementi cui affidare alcune suggestioni e sfumature di senso del racconto.

Al di là di tale aspetto evidente, che da solo offre materiale per vastissimi approfondimenti, la complessità in un albo può essere indagata anche da altri punti di vista poiché l’autore, o gli autori, possono scegliere di affidare la costruzione del senso, o parte di essa, alla giustapposizione di infiniti elementi, sintattici, morfologici, iconici, grafici, materiali….

Nel suo scritto Le storie della buonanotte. Per una pedagogia dell’albo illustrato (all’interno del saggio A occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, firmato da Hamelin ed edito da Donzelli), Giordana Piccinini osserva a proposito de La Maschera di Gregoire Solotareff:

La combinazione dei tanti elementi che l’autore mette in gioco crea uno specifico linguaggio che chi legge deve poter decodificare per arrivare alla storia nella sua ricchezza e profondità. Ovviamente un albo è ben riuscito quando tale linguaggio è accessibile, armonico e decodificabile. Quando cioè dalla complessità emerge una felice sintesi.

Il nero del suo (del lupo) corpo si staglia tra due ampie campiture di giallo e di rosso. Tutto l’albo procede per colori primari, a suggerire la primordialità inconscia di ciò che viene narrato.

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Da tale analisi risulta che il grande autore e illustratore francese Solotareff tramite le tinte con cui compone le immagini di questo albo intende esprimere un contenuto profondo, psicologico. Un effetto particolarmente interessante si ha quando i colori, proprio come testo e immagini, si pongono in una sorta di giustapposizione dialettica, creando dei contrasti evidenti funzionali alla narrazione. Questo può avvenire, ad esempio, quando alcune tavole, o parti di esse, sono realizzate in bianco e nero mentre altre prevedono una varietà cromatica più ampia. Il colore e il bianco e nero si trovano così a dialogare sulla pagina dando vita nella loro interazione – che può essere d’integrazione, collaborazione o contrasto – ad un nuovo codice visuale, più ricco e articolato di quello che si avrebbe con una singola scelta cromatica. Come sempre accade nel campo dell’albo illustrato, al lettore sta il compito di raccogliere la sfida perché, quando gli elementi di complessità aumentano, particolarmente importante diviene il ruolo di chi leggendo interpreta il testo. Il picture book è quindi un medium dai significati stratificati non solo per la ricchezza delle suggestioni delle storie che narra ma anche perché, per cogliere a pieno tali suggestioni, è

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necessario confrontarsi con tutti i suoi elementi, più o meno evidenti, più o meno nascosti o dichiarati. (È una bella complessità “non complicata”, perché contribuisce alla costruzione del lettore che, leggendo o rileggendo, coglie significati ulteriori senza bisogno di analisi profonde: per vederla occorre essere lettori al contempo ingenui, cioè capaci di seguire il testo per come si presenta, e attenti, cioè in grado di tessere gli elementi seminati dall’autore). Ponendomi quindi in primo luogo come lettrice di albi illustrati vorrei analizzarne alcuni dove, secondo la mia interpretazione, al colore e al bianco e nero sono associate differenti “dimensioni” narrative. Libri nei quali, passando da una tavola in toni di grigio ad un’altra cromaticamente ricca, l’autore o l’autrice intendono comunicare ai lettori un passaggio esperienziale, il più delle volte mosso dal territorio del reale a quello della fantasia, dal possibile all’impossibile, dalla zona del tangibile al regno del fantastico. Ho scelto albi che ho avuto modo di apprezzare particolarmente e che ritengo in quest’ottica significativi per la capacità che hanno avuto gli autori di favorire l’emergere di nuovo senso in modo artistico e coerente.


L’opera di Suzy Lee è sicuramente emblematica: è la stessa autrice, nel suo saggio La trilogia del limite (Corraini) a non far nascondimento della funzione del colore e del bianco e nero. In particolare nell’albo L’onda (Corraini), nel quale si assiste al gioco tra una bimba e i flutti marini che si infrangono su bagnasciuga. Nonostante la semplicità del tema, siamo davanti ad un capolavoro del panorama internazionale dell’illustrato, per limpidezza, poesia e vicinanza allo spirito dell’infanzia, ma anche perché, come molti grandi albi, racconta molto più di quanto pare mostrare. Lee infatti, tramite il limite fisico della piega di rilegatura tra due facciate contigue, barriera che la protagonista deve attraversare per raggiungere il mare, intende significare un confine profondo: quello tra il reale e la dimensione dell’immaginazione.

L’onda, Suzy Lee, Corraini, 2015

Solo quando la bimba osa varcare la soglia, giocare con il mare e infine, inseguita da un cavallone, si lascia da esso raggiungere e travolgere, avviene il miracolo: il paesaggio si tinge di un azzurro carico che invade il cielo, colora l’abitino leggero della bambina e altri dettagli. Tramite l’esperienza del gioco la piccola ha contaminato la realtà annullando il confine. L’intensità che ora pare rendere quasi accecante lo sfondo rispecchia la gioia del pieno coinvolgimento, la soddisfazione intima di essersi lasciata trasportare, invadere dalla forza della fantasia.

L’onda, Suzy Lee, Corraini, 2015 L’onda, Suzy Lee, Corraini, 2015

Anche i colori concorrono alla costruzione della metafora: tutto si presenta infatti in bianco e nero tranne il mare, che è azzurro e confinato nella pagina di destra, quella che appartiene alla sfera del gioco e del fantastico.

Il colore è il “testimone visivo” del cambiamento reso possibile dall’immaginazione. Scrive la stessa Lee:

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Il vestito della bambina e il cielo sono diventati completamente azzurri, cosa che suggerisce che ci troviamo in un mondo diverso da quello precedente. Può trattarsi del ritorno alla realtà dall’immaginazione, o del mondo cambiato nel cuore della bambina. È sufficiente che il lettore abbia notato che qualcosa è cambiato.

(Io prediligo la seconda ipotesi ma concordo con l’autrice: non è utile fornire rigide interpretazioni: nell’albo come nella poesia i finali aperti o con lievi margini d’indefinitezza sono forieri di germogliamenti nell’animo dei lettori). Si può osservare che nei lavori di Suzy Lee il colore è sempre un elemento da non trascurare per cogliere a pieno il senso delle opere. Gli aloni gialli che in Ombra (Corraini) contornano e seguono le sagome nere, unendosi e allargandosi a formare grandi macchie che suggeriscono l’idea di gioia e tripudio, sono chiari segnali luminosi che, anche qui come ne L’onda, evocano una dimensione fantastica. Una poetica del colore simile si ritrova anche in un albo più recente, pubblicato in Italia da Orecchio Acerbo: La piscina, aggraziata opera prima dell’illustratrice coreana Ji Hyeon Lee.

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Un bambino, disegnato nei toni del bianco e nero, con cuffia ben calcata, occhialetti e costume, si dirige verso una piscina, la cui superficie celeste è l’unico punto di colore della doppia pagina, come il mare deL’onda. Il colore lieve e la campitura delicata paiono una promessa, subito infranta dall’arrivo di una folla grottesca e sgraziata. Un numero spropositato di individui grassocci, muniti, ad aumentare ancor più l’ingombro della loro mole, di salvagenti gonfi, canotti, palloni. I toni restano quelli del grigio, l’effetto, quando la loro massa copre l’intera superficie della piscina come un inquietante tappo, è fastidioso, pur se il tratto dell’autrice resta elegante e fine. (Scopriremo poi che l’azzurro della piscina è in effetti una promessa: il suo colore indica che quella è la porta, il varco per il territorio della libertà e della fantasia).

La piscina, Ji Hyeon Lee, Orecchio Acerbo, 2015


Il bambino è desolato ma opta ugualmente per un tuffo, in apparenza fuori luogo in uno spazio che è diventato improvvisamente angusto. È qui che si compie il passaggio evidenziato dal ruolo del colore. È lo stesso passaggio che la bambina di Suzy Lee effettua varcando il limite fisico della piega di rilegatura. Il protagonista de La piscina supera un’altra barriera, ben più claustrofobica: quella del pelo dell’acqua invaso dalla folla, simbolo forse di una società congestionata, pervasiva, primo ostacolo all’uso proficuo delle capacità immaginative e creative.

esplorare e nelle pagine successive la tavolozza utilizzata, pur mantenendosi elegante ed armoniosa, si fa ricca e decisa.

La piscina, Ji Hyeon Lee, Orecchio Acerbo, 2015

Al ritorno dall’avventura i colori che permangono nei costumi, nella pelle, nelle gote arrossate, nei capelli di un bel bruno caldo, testimoniano che qualcosa è cambiato nel profondo dell’anima. Ancora, come ne L’onda, l’esperienza fantastica lascia traccia: il colore continua ad essere il messaggero, silenzioso ma eloquente, di un cambiamento interiore.

Il bambino passa oltre il limite, fluido ed elegante come una creatura d’acqua, e sulla tavola appaiono i colori. Si unisce una compagna d’avventura, la misera piscina diventa un mare da

Degno di nota è anche quanto rappresentato dalle illustrazioni di Chiamatemi Sandokan (Salani), seppure in esse Fabian Negrin, maestro in versatilità stilistica, non si limita alla variazione della tavolozza cromatica per rappresentare la contrapposizione tra realtà e fantasia, ma sceglie di usare due stili nettamente diversi. I colori sono quindi funzionali a un “realismo pittorico” (riprendo una bella

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intuizione di Anna Castagnoli) con il quale l’autore rappresenta la dimensione immaginativa, mentre il bianco e nero del tratto a carboncino, con alcuni elementi rossi, disegna le figure che si attengono al piano realistico. La storia è quella di due bambini che, dopo aver letto alcuni libri sulle imprese di Sandokan, si dedicano a riproporre nel gioco le avventure dei racconti. L’immersione nei romanzi e nella ricostruzione ludica è tale che personaggi e scene di Salgari invadono le pagine e, così come brani tratti dalle opere si inframezzano al testo, si mescolano con le ambientazioni reali fino a confondere i due livelli. È una splendida metafora del potere del gioco, della lettura e della fantasia che arrivano a trasformare la realtà e a riempirla tutta.

Il trucco affascinante è che Negrin ha usato uno stile realista pittorico per descrivere il mondo della fantasia (la storia di Sandokan), mentre ha usato uno stile realista disegnato per raccontare il mondo della realtà. Noi sentiamo che avrebbe dovuto essere il contrario (non ci insegnano che la realtà è più reale della fantasia?), e proprio questo contrasto ci regala un surplus di sorpresa e magia. Si può osservare che anche nella scelta di colorare la fantasia e rendere monocromatica la realtà risiede lo stesso intento comunicativo e un simile effetto magico: regalare un’aggiunta di valore a un’esperienza che nel pensiero comune viene considerata meno rilevante.

Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Adriano Salani Editore, 2011

Scrive sempre Anna Castagnoli:

Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Adriano Salani Editore, 2011

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L’avventura immaginifica raccontata da Negrin non si realizza specificatamente con un passaggio, come negli albi analizzati sopra, ma è la forza del gioco che trasforma il reale. Sovente infatti accade che gli occhi del bambino vedano una realtà diversa da quella percepita dagli adulti intorno (come avviene ne La notte di Wolf Erlbruch senza che siano tirati in ballo i colori). Anche in questo caso l’uso del colore contrapposto al bianco-e-nero può essere un espediente valido per la costruzione, la dimostrazione visiva del senso. In Zoo sans animaux (Actes Sud Junior) Suzy Lee non usa tecnicamente il bianco e nero bensì delle tinte fredde grigio-azzurre. Su questi toni sono realizzate le prime scene, che mostrano famiglie in visita ad un singolare zoo, dove le gabbie sono vuote e i consueti ospiti assenti. In tale grigiore di toni solo una bimba nota l’unico elemento di colore: un vivacissimo pavone che si muove tra la gente. Seguendolo, allontanandosi dai genitori, la piccola accede ad una realtà, altra ma parallela, nella quale animali colorati scorrazzano in libertà, nella natura. La bambina può giocare con loro, fare lo scivolo sul collo della giraffa e perfino volare con gli uccelli.

Zoo sans animaux, Suzy Lee, Actes Sud Junior, 2008

Così tavole grigie, dove i genitori accortisi della mancanza della figlioletta iniziano allarmati la ricerca tra vasche, gabbie e voliere vuote, si alternano ad altre cromaticamente ricche che mostrano l’avventura della bambina, ritrovata infine addormentata su una panchina. L’esperienza sembrerebbe solo un sogno infantile ma quando la famiglia, finalmente ricomposta, esce dallo zoo, tutti gli animali, squillanti di colore contro lo sfondo grigio-azzurro, si radunano a salutare la piccola amica. (L’elemento fantastico che fa capolino nel reale, quando tale reale pare riconquistato e confermato, è importante per incontrare a pieno lo spirito d’infanzia. I bambini sanno infatti mescolare i due piani nel quotidiano, passando dall’uno all’altro con naturalezza). Da notare è poi l’abito della piccola che, anche dopo il rientro nella realtà, conserva il rosa squillante di cui si era tinto nel passaggio verso la dimensione

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dell’immaginazione. Ancora una volta, come ne L’Onda, Suzy Lee traccia un limite che si può varcare nei due sensi ma ribadisce che, una volta sperimentata l’immersione profonda nella fantasia, non è possibile fare ritorno senza scoprirsi cambiati, senza ritrovarsi “colorati”.

Zoo sans animaux, Suzy Lee, Actes Sud Junior, 2008

Interessante è anche l’uso del colore di Maja Celija nell’albo Filastrocca acqua e sapone per bambini coi piedi sporchi (testo di Giovanna Zoboli e pubblicato da Topipittori). Una semplice poesia narra le azioni di una serie di personaggi intenti in operazioni varie di pulizia. Le immagini nella facciata sinistra, dove per lo più è confinato il testo, sono in bianco e nero e mostrano scene scarne ed essenziali che si prolungano poi nella pagina destra dove si colorano. Insieme alle tinte prendono vita dettagli immaginifici, paradossali, buffi e insoliti, ampliando in tal modo il significato del testo nella dimensione dell’impossibile e del magico.

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Filastrocca acqua e sapone per bambini con i piedi sporchi, Giovanna Zoboli, Maja Celija, 2004

Può accadere anche che le parti, tra colore e bianco e nero, si invertano e il primo sia scelto per rappresentare i fatti mentre il secondo per una narrazione di stampo non realistico. In Nel bosco (Kalandraka) Anthony Browne racconta una delle più dolo-


rose angosce infantili, l’ansia della perdita di un genitore, e affida alle immagini in tono di grigio l’arduo compito di scendere nell’inconscio del protagonista per portare in superficie un’esperienza interiore, psicologica. È una foresta che pullula di personaggi e simboli fiabeschi a farsi metafora del contatto con paure profonde, spesso difficilmente verbalizzabili. Le prime pagine del libro sono colorate piuttosto vivacemente, ma lo sgomento e la desolazione sono chiaramente manifestate dalle espressioni, dalle azioni dei personaggi e dalla composizione delle scene mostrate.

Scrivevo già nel mio blog Libri e Marmellata:

(Il bambino) si infila quindi nella foresta ed ecco che qui le tavole perdono colore per ammantarsi di tonalità di grigio in grado di rappresentare un’uscita dalla realtà. Solo il protagonista conserva le tinte vivaci di abbigliamento e capigliatura; egli è l’unico elemento reale nell’esperienza psicologica dell’attraversamento del bosco.

Nel bosco, Anthony Browne, Kalandraka, 2014

La parola d’ordine per accedere alla dimensione dell’animo prende forma nella richiesta della mamma al figlio: portare la torta alla nonna che vive in una casa raggiungibile tramite una via lunga che gira tutto intorno e un’altra breve che passa per il bosco. È una proposta dall’eco potente, percepibile perfettamente da ogni piccolo lettore che abbia dimestichezza con la fiaba.

Nel bosco, Anthony Browne, Kalandraka, 2014

Il colore torna poi anticipato da una mantellina rossa (il “cappuccetto”) che il protagonista trova appesa ad un albero e prontamente indossa. Siamo al culmine dell’esperienza interiore: il rosso vivo contrasta con il grigiore profondo del bosco e simboleggia allo stesso tempo il momento di massima inquietudine e l’anticipazione della

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risoluzione, quella che il bambino trova all’arrivo alla casa della nonna. (È interessante notare che all’inizio della storia i colori con cui si dipinge la realtà non la rendono più bella ma più vera. Accentuano quindi le emozioni che essa suscita nel lettore. Nel finale accade la medesima dinamica ma con effetto opposto: la chiusa è felice e le tinte vive acuiscono nel lettore la percezione di gioia e sollievo).

La netta variazione di tavolozza cromatica che mette in campo un dialogo composito tra colore e bianco e nero in un albo può quindi essere un affascinante escamotage visivo-emotivo per amplificare l’intensità del reale o della fantasia. Mi spingerei ad affermare che, nell’ambito delle tecniche che coinvolgono la sola illustrazione, è uno dei più potenti, avendo il contrasto di colore un impatto forte sul lettore, essendo immediatamente chiaro, non richiedendo un’osservazione attenta o dettagliata. Può essere visto, sentito e quindi colto prima ancora che sia necessario capirlo. Soprattutto nell’uso che ne sanno fare i grandi autori, che riescono ad infondere originalità e profondità alle loro opere con un uso sapiente degli strumenti infiniti con i quali si può comporre un albo illustrato.

Nel bosco, Anthony Browne, Kalandraka, 2014

BIBLIOGRAFIA

Ad occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, Hamelin, Donzelli, 2012, Roma La trilogia del limite. Suzy Lee, Corraini, 2013 (ristampa), Mantova L’onda, Suzy Lee, Corraini, 2015 (settima ristampa), Mantova Ombra, Suzy Lee, Corraini, 2010, Mantova La piscina, Ji Hyeon Lee, Orecchio Acerbo, 2015, Roma Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Adriano Salani Editore, 2011, Milano La notte, Wolf Erlbruch, E/o, 2006, Roma Zoo sans animaux, Suzy Lee, Actes Sud Junior, 2008, Arles Filastrocca acqua e sapone per bambini con i piedi sporchi, Giovanna Zoboli, Maja Celija, 2004, Milano Nel bosco, Anthony Browne, Kalandraka, 2014, Firenze

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CARLA GHISALBERTI

Greta La Matta e il bruno Van Dick P

iù di dieci anni fa usciva per Adelphi il libro Greta La Matta. E nulla fu più come prima.

tudine, una storia drammatica di una bambina che da buona che era diventa una ragazza cattiva, molto cattiva (dal risvolto di Adelphi: Greta era una bambina molto, ma molto buona, prima di diventare una ragazza molto, ma molto cattiva. E di scappare in posti grigi, neri, e rossi, pieni di mostri e di diavoli. E di incontrare, forse, il Diavolo in persona. Sarebbe tutto terribile, se una grande, bellissima palla blu non rotolasse, e rotolasse, e rotolasse…). Chi, all’epoca, si occupava di letteratura e di albi illustrati per bambini e ragazzi molto si interrogò su questo magnifico libro, ispirato a una famosissima tela di Bruegel Il Vecchio datata 1561 e intitolata Dulle Griet.

Geert De Cockere, Carll Cneut, Greta la Matta, Adelphi 2005

Greta La Matta, secondo libro italiano di Carll Cneut, aprì uno squarcio di buio in una – tutto sommato – solare e piuttosto colorata tradizione di albi illustrati per bambini. Un lago di nero fin dalla copertina, una storia piena di ombre, di inquie-

Bruegel il Vecchio, Dulle Griet, Museo Mayer van den Bergh Anversa

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Un vero crepaccio si aprì tra chi diceva che era impensabile che ragazzi e ragazze potessero apprezzare un libro del genere e chi, invece, ne difendeva la bellezza e gli intenti nel pubblicarlo. A questo link (http://www.lefiguredeilibri.com/2008/05/20/greta-lamatta-e-un-libro-per-bambini/) stralci del dibattito all’epoca. La cosa che a me parve rivoluzionaria per l’epoca, a parte il testo, fu quella copertina. Una novità assoluta per il panorama italiano (e non a caso spettò ai raffinatissimi editori Adelphi, degli outsider nel panorama dell’epoca, di aver osato tanto). A ben vedere non si trattava di una copertina nera e basta.

pervade anche all’interno. Non come si potrebbe pensare, dato a larghe

Geert De Cockere, Carll Cneut, Greta la Matta, Adelphi 2005

Era piuttosto una porzione rettangolare estratta direttamente da una tela preparatoria di un quadro a olio fiammingo. La copertina di Greta La Matta, infatti, non è nera. È color bruno Van Dick (pigmento naturale che prende il nome dal pittore fiammingo che ne fece largo impiego), marrone scurissimo, dato a larghe e dense pennellate. Quella copertina vibra. Opaca, essa raccoglie ogni segno ulteriore che vi si incide sopra; vuoi anche solo lo sfregare tra un libro e l’altro nel metterlo a scaffale. E quel bruno che avvolge il libro lo

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campiture, a sottolineare il contenuto della storia, ma letteralmente nascosto sotto tutti gli altri colori. Mi spiego: Carll Cneut quando dipinge le sue tavole, in particolare nelle figure umane, ma più in generale in tutte le creature viventi, usa definirne il profilo con il nero, una sorta di silhouette piena, sulla quale poi interviene con i colori chiari. In sostanza dipinge e campisce con il nero l’intera figura poi, strato dopo strato, aggiunge su questo fondo bruno, i colori, dal più scuro al più chiaro. Questa tecnica, antichissima e raffinatissima (la tecnica del fondo scuro,


preparatorio, è la regola in molta pittura fin dal Quattrocento, in ambito fiammingo ma anche in tanta pittura italiana tangente alla cultura nordeuropea. Antonello da Messina ne è un esempio fulgido) ha il pregio di definire una linea di contorno molto sottile, quasi impercettibile, e diseguale, particolare che dona naturale

Geert De Cockere, Carll Cneut, Greta la Matta, Adelphi

volume al corpo. E d’altro canto ha la funzione di ‘accendere’ i colori che vi si stratificano sopra. Qualsiasi ritratto di Antonello, per rimanere in ambito italiano, costruisce la propria luminosità di incarnati e manti su questo sistema che Cneut ha fatto proprio a più di cinquecento anni di distanza. Per questa ragione le sue figure hanno una luminosità unica fatta di vibrazioni di luce e di pagliuzze di nero/bruno che traspaiono tra le pennellate sovrastanti. Stesso procedimento lo notiamo nei tessuti, cui Cneut ha sempre dedicato moltissima attenzione. Basta guardare i grembiuli di molti personaggi, o le tele che formano i manti e cappucci e colletti, che sono per la

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maggior parte bianchi, per accorgersi immediatamente della consistenza materica che essi assumono rispetto al fondo bruno che solo impercettibilmente traspare. La resa pittorica illude l’occhio che crede di avere davanti vecchi lini tessuti con filati impuri per la presenza di fibre ancora grezze. I toni dell’arancio e del rosso, che nel libro sono preponderanti, acquistano un’ombreggiatura che li fa sembrare veri e propri volumi, attraversati da luce naturale. Nei suoi primi libri, in verità, quasi nessuna superficie resta esente da questa tecnica; anche i prismi delle architetture sono dipinti con il

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medesimo sistema del fondo bruno. Gli incarnati di Cneut, sempre un po’ lividi, se paragonati a quelli di altri

Geert De Cockere, Carll Cneut, Greta la Matta, Adelphi 2005

illustratori, hanno un quid che permette di distinguerli immediatamente e riconoscergli la sua paternità. Deformi, nel caso di Greta La Matta, in omaggio al modello bruegheliano, spalancano le loro bocche, quelle sì autentiche voragini di nero. Di nero assoluto. Ma quel nero allude a ben altro.

La sigla di Cneut sta proprio in quel nero che si nasconde sotto, dentro. I maiali di Mostro non mangiarmi! (Adelphi 2006) o gli elefanti di Un milione di Farfalle (Adelphi 2007), come pure lo stesso Mr Morf (Adelphi 2004) o l’orso di Cuore di carta (Adelphi 2004) sono costruiti allo stesso modo. L’uso del nero, o di un bruno di fondo, è per Cneut un felice quanto efficace sistema di dipingere e illustrare. E questa tecnica sembra aver attecchito anche da noi in Italia. Penso alle tavole ad acrilico di Simone Rea, per il libro Favole di Esopo (Topipittori 2012). Sebbene la resa finale delle figure di Rea, in questo libro che ha segnato una svolta nella sua carriera di illustratore, sia più patinata rispetto ai primi libri di Cneut, tuttavia il suo modo di procedere è esattamente lo stesso: fondo bruno su cui, strato dopo strato, i colori si vanno a sovrapporre. L’effetto di maggior patinatura è dato da un lento lavorio che Rea produce

Geert De Cockere, Carll Cneut, Greta la Matta, Adelphi 2005

Edward Van de Veldel, Carll Cneut, Un milione di farfalle, Adelphi 2007

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sulla superficie pittorica, alternando al colore delicatissime smerigliature. Torniamo Oltralpe. La relazione che Cneut ha con questo colore, come ho appena sottolineato, ha radici molto antiche, ma si alimenta anche in una cultura più diffusa di cui questo straordinario artista è parte. Penso che non sia un caso che tutti gli illustratori che del nero hanno esaltato la magnificenza, non interpretandolo mai in modo didascalico, ovvero non usandolo mai in connessione con il nero in natura, ovvero con il buio, o l’ombra o con il nero in ‘psicologia’, ovvero con il mistero, con la paura,

vengano da un’area geografica piuttosto circoscritta, i Paesi Bassi. Penso a Il mio elefante sa fare quasi tutto illustrato da Ilja Walraven (Lemniscaat 1995), o ancora Di chi è questa zampa? (Lemniscaat 2008), illustrato da Martijn van der Linden, o ancora la bella serie di libri di Mies van Hout, Emozioni (Lemniscaat 2010) in testa.

Annie De Vries, Ilja Walraven, Il mio elefante sa fare quasi tutto, Lemniscaat 2008

Si tratta di un nero ‘energetico’, sorta di tappeto elastico cromatico che ha la funzione e il merito di far (ri)saltare ogni altro colore che vi si appoggi.

Annie De Vries, Ilja Walraven, Il mio elefante sa fare quasi tutto, Lemniscaat 2008

Questo, di fatto, elimina ogni ritrosia nei confronti dell’uso del nero diffuso, considerato colore ‘scomodo’ nell’ambito della illustrazione per l’infanzia. Se tra gli illustratori neerlandesi esiste una consapevole disinvoltura nei confronti del nero, non si può negare che in Cneut questo colore assuma un

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Peter Verhelst, Carll Cneut, Il segreto dell’usignolo, Adelphi 2009

valore ancora più emblematico. Nel Segreto dell’usignolo (Adelphi 2009) rivisitazione dell’Usignolo dell’Imperatore, sottolinea l’accento notturno e misterioso della narrazione, mentre nella Voliera d’oro (Topipittori 2015), ultimo suo capolavoro, è un maturo contrappunto in quel meraviglioso mare di giallo.

Anna Castagnoli, Carll Cneut, La voliera d’oro, Topipittori 2015

BIBLIOGRAFIA

Greta la Matta, Geert De Cockere, Carll Cneut, Adelphi, 2005 La voliera d’oro, Anna Castagnoli, Carll Cneut, Topipittori, 2015 Il segreto dell’usignolo, Peter Verhelst, Carll Cneut, , Adelphi, 2009 Emozioni, Mies Van Hout, , Lemniscaat, 2010 Il mio elefante sa fare quasi tutto, Annie De Vries, Ilja Walraven, Lemniscaat, 2008 Un milione di farfalle, Edward Van de Veldel, Carll Cneut, , Adelphi, 2007 Mostro, non mangiarmi!, Carl Norac, Carll Cneut, Adelphi, 2006

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VALERIA BODÒ

Musica, maestro! Tempi, ritmo e bianco & nero nell’albo illustrato N

umerose sono le scelte stilistiche che un illustratore può usare per creare movimento e ritmo in un albo illustrato. La scelta dei colori in un albo non può mai essere casuale: crea focalizzazione, atmosfera, calore o distanza. Ma crea anche un tempo di lettura dell’immagine e un andamento: mentre guardiamo un albo, veniamo contagiati e immersi in un mood dato dalla singola illustrazione e dallo scorrere di una tavola dopo l’altra, fino alla percezione di un’atmosfera del libro, con un suo ritmo e tempi propri. Se l’illustratore decide di giocare con forti contrasti di colore tra una tavola e l’altra, il ritmo dell’albo subisce naturalmente una variazione in linea con quella opposizione. Prendiamo il caso in cui ci troviamo di fronte a un’alternanza di tavole in bianco e nero e tavole a colori: da un lato abbiamo immagini ad alto contrasto o con gradazioni di grigi, chiaroscuri, ombre e luce. Dall’altro siamo in un mondo a colori vivi e netti, sfumature e fusioni, giochi di sovrapposizioni e fantasie in cui ogni tinta ha un suo impatto e una sua

temperatura differente dalle altre. In questo passaggio dal mondo b/n al mondo a colori, ad ogni pagina arriviamo in un’altra atmosfera, i tempi si dilatano e si restringono e la sola percezione di questo cambiamento crea un movimento. Il ritmo totale dell’albo è condizionato da questa alternanza. Racconta Ugo Valentini, che da anni crea laboratori di musica e albi illustrati:

Pensando al ritmo come “un movimento regolare nel tempo” mi viene da dire che nell’albo illustrato il ritmo sia “un movimento regolare nel tempo di lettura”. Più l’autore saprà esprimere questo movimento, che riguarda l’andamento di concetti opposti o semplicemente concatenati, più il lettore leggerà guidato dalle sue emozioni in un tempo “proprio” organizzato “in maniera nascosta” dall’autore.

Cominciamo col cercare di scovare i tempi “nascosti” ne Il Ghiribizzo, opera del lavoro e dell’amicizia tra Bruno Tognolini e Giulia Orecchia. Nella notazione musicale, in cima allo spar-

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tito, abbiamo un’indicazione del tempo e dell’andamento dell’opera musicale. Proviamo a giocare con essa, come se potesse dettare il tempo di approccio dei nostri albi. Il Ghiribizzo, Bruno Tognolini, Giulia Orecchia, Motta Junior Colori: tempo allegro, vivace, vivo. Rallentando. B/N: tempo adagio, lento, lentissimo. Musica consigliata durante la lettura: Shining happy people, R.E.M. Il ballo di San Vito, Vinicio Capossela

tavole esplodono. Improvvisamente il tripudio di colori lascia spazio a pagine monocromatiche, sui toni del nero, grigio topo, nebbia: il mostro del Ghiribizzo non è ben voluto dagli adulti attorno a Mattia, esasperati dalla sua iperattività, e decide di tornarsene al suo paese, seguito da tutti gli altri Ghiribizzi.

Mattia è un bambino vivace, vitale, incontenibile. La sua energia pulsante ha bisogno di manifestarsi fisicamente. Il Ghiribizzo, testo Bruno Tognolini, illustrazioni Giulia Orecchia, Motta Junior, 2014

Il Ghiribizzo, testo Bruno Tognolini, illustrazioni Giulia Orecchia, Motta Junior, 2014

Il Ghiribizzo è la sua anima viva, un mostriciattolo che ha in sé tutti i colori dell’arcobaleno e che dona a Mattia l’innata voglia di saltare, correre, muoversi da tutte le parti. Giulia Orecchia è celebre per il suo uso sapiente del colore, con accostamenti cromatici vivaci e netti che in queste

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Le pagine, come l’animo delle persone, si svuotano di vivacità. La storia ha improvvisamente cambiato andamento. Non serve leggere il testo, e nemmeno interpretare le espressioni dei personaggi: da solo il salto cromatico determina una svolta, non solo del senso, ma anche del ritmo e del tempo di lettura. Giulia Orecchia, ragionando sulla scelta di usare questa alternanza, ci dice che “è stata una scelta che sentivo ovvia: quale altro elemento visivo poteva così immediatamente e inequivocabilmente comunicare la trasformazione del mondo ghiribizzo in mondo grigio?”.


La mamma di Mattia decide di andare a riprendere il Ghiribizzo del figlio, nel paese dei Ghiribizzi. Il piccolo mostro colorato comprende la mamma, ma la sottopone a una prova, un segno di fiducia: le chiede di ballare. E la mamma balla! Cominciamo a risalire verso un tempo più incalzante: ci viene voglia di battere il piede, l’andamento cresce e le pagine si ripopolano di colori vivi. Il mondo grigio si dissolve, il cuore (della narrazione… e il nostro?) comincia a battere più velocemente, l’ossigeno porta giallo, rosso, rosa, verde. Il nero scompare, il tempo è di nuovo Vivo.

Il Ghiribizzo, testo Bruno Tognolini, illustrazioni Giulia Orecchia, Motta Junior, 2014

L’approccio all’albo è plurisensoriale: da una parte sonoro con la voce, scritta il più delle volte a chiare lettere o solo intuita intimamente in un libro senza parole; dall’altra l’immagine, la componente visiva, i nostri occhi che si spostano sul foglio e seguono l’andamento di forme e colori nello spazio. Ma l’alternanza tra b/n e colore rende

l’esperienza sinestetica: sentiamo le immagini nella loro armonia, anche quando non interviene il testo scritto. João Fazenda, illustratore portoghese, ha partorito un albo musicale e melodico non usando una sola parola: ha giocato con l’alternanza b/n e colore per creare un wordless di grande ritmo e poesia. Dança, João Fazenda, Pato Logico Colori: tempo allegro B/N: tempo lento Musica suggerita durante la lettura: Libertango, Astor Piazzolla Un uomo vive nel suo mondo grigio, quadrato e monotono. La bella compagna, un tripudio di colori e forme sinuose, è appassionata di danza e lo porta a ballare con lei. Il vestito rosso della donna incornicia la sua pelle rosea. Mentre si perde nella melodia e nel ritmo della musica, viene rapita da una sorta di estasi. La musica la porta in un altro mondo, in alto, in un’altra dimensione, fino a farla sollevare da terra e volare.

Dança, João Fazenda, Pato Logico, 2015

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Il nostro amico grigio, nel suo completo bianco e nero, la guarda dal basso e non riesce ad abbandonarsi, rimane ancorato a terra. Va a scuola di danza, prova a far scorrere quel flusso dentro di sé, ma la sua natura b/n è troppo rigida per permettergli di essere attraversato da musica e colore. Un giorno, dopo tentativi goffi e mal riusciti di trovare dentro di sé il ritmo e lasciarsi andare, decide di compiere un gesto definitivo: si toglie le scarpe nere squadrate che gli imprigionano l’animo da ballerino, di allentare la cravatta triangolare e nera che lo stringe al collo.

I piedi rosa e rotondi escono fuori dalla prigione e cominciano a battere il ritmo; le guance si colorano, il grigio lo abbandona, i pantaloni diventano blu, le linee si ammorbidiscono. Egli comincia a danzare e, finalmente, i flussi di ritmo e colore lo attraversano, fino a renderlo leggero e incontrare sul soffitto la sua bella. Il blu e il rosso si fondono in una macchia di colore senza contorni.

Dança, João Fazenda, Pato Logico, 2015

Il grigio che avvolge la vita del protagonista scandisce un tempo monocorde, un ritmo piatto, una routine da catena di montaggio. La danza e la musica hanno i toni caldi del giallo, rosso e rosa e un ritmo incalzante. Il passaggio

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dal b/n al colore crea un movimento in crescendo, un netto cambio di atmosfera e tono, un preludio alla grande chiusura finale del libro. La nostra vista ci regala la possibilità di cogliere sfumature di colore, sovrapposizioni, tridimensionalità. Abbiamo biologicamente il dono di vedere molto bene ciò che ci è vicino, di assaporarne nettamente i contorni e le variazioni, distinguendo le differenze cromatiche. Abbiamo costruito un mondo iconico a nostra immagine e somiglianza, soprattutto in campo artistico. Cosa succede ai nostri occhi? Il bianco e il nero rappresentano il contrasto per definizione e garantiscono una percezione chiara e netta. I nostri occhi si posano su questa differenza tra assenza e presenza di colore senza fatica, abituati a distinguere la differenza.

Chiamatemi Sandokan, un omaggio a Emilio Salgari, Fabian Negrin, Salani B/N: Tempi lentissimo, lento, in crescendo Colore: tempi vivace, vivo. Musica consigliata durante la lettura: Per un pugno di dollari, tema, Ennio Morricone Bohemian Rapsody, Queen Sandokan, sigla originale Un pomeriggio noioso e piatto a casa della nonna, davanti alla tv, viene rappresentato da Negrin con illustrazioni bianche e nere bidimensionali: il ritmo è cadenzato, monotono, il tempo lentissimo. La bambina protagonista trova un vecchio libro di Sandokan e si appassiona: il ritmo comincia, anche se di poco, ad aumentare. Arriva il cuginetto, con cui condividere la scoperta. Il rosso comincia a insinuarsi nella

Improvvisamente un capovolgimento: l’intervento di tavole a colori aumenta il nostro livello di attenzione rivolta verso le nuove stimolazioni. Quando al b/n si associano immagini bidimensionali e piatte in contrapposizione alle immagini a pieni colori e volume e ricche di ombre e tridimensionalità, il climax è ancora più potente: il tempo cambia e da lento incalza, cresce, si affretta fino ad esplodere.

Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Salani, 2011

pagina, il libro di Sandokan, unico elemento colorato, si fa strada. Dopo ben 11 pagine di bianchi e neri con piccoli sprazzi di tono mattone che

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sapientemente colorano le guance dei due bambini protagonisti, ecco il cambio di tempo: una doppia pagina di pieno colore notturno, misterioso, carico di emozione. Il genio ironico di Negrin sottolinea il salto mantenendo la stessa posizione dei nuovi personaggi, Sandokan e Yanez, uguale a quella dei due cuginetti che giocano a “fare finta di essere Sandokan”. Ma siamo in un altro mood, in un’altra storia, in un altro libro: il ritmo è ora sostenuto, il tempo definitivamente vivo. Dal noioso pomeriggio a casa della nonna b/n alla concitata avventura per mare, a suon di Rosso scarlatto, Verde foresta, Blu oltremare e Giallo tigre, la lentezza scompare, il flusso della storia è cambiato, e influisce

anche lì dove ricompaiono le immagini in bianco e nero dei bambini. C’è un’avventura da vivere nella sua pienezza, ci sono battaglie, tempeste, arrembaggi a tinte forti e piene. Per esigenze editoriali ed economiche Fortunatamente di Remy Charlip fu stampato a doppia pagina alternata B/N e a colori (ne ha parlato Barbara Ferraro in un precedente articolo).

Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Salani, 2011

Quello che è uscito fuori da questo fortuito escamotage è un esemplare caso di ritmo regolare come una filastrocca, in cui invece l’andamento cambia ogni momento, una sinusoide di picchi verso l’alto e verso il basso. Chiamatemi Sandokan, Fabian Negrin, Salani, 2011

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Fortunatamente, Remy Charlip, Orecchio Acerbo Colore e b/n alternati: tempi vivace e lento, ripetuti. Musica consigliata durante la lettura: Volta la carta, Fabrizio De Andrè Ned ha una maglia rossa e pantaloni gialli, occhi azzurri e un’espressione fiduciosa. È felice perché qualcuno lo ha invitato a una festa a sorpresa. Appena giriamo pagina però la tavola in b/n fa il suo effetto spiazzante. Il libro è ritmatissimo, ha i tempi di una filastrocca, accentuati dalla scelta costretta dell’alternanza. La melodia che si crea in Fortunatamente sembra quella di un susseguirsi di accordi

Fortunatamente, Remy Charlip, Orecchio acerbo, 2010

maggiori e minori. Remy Charlip è stato anche un visionario coreografo, il ritmo e la musica hanno fatto parte della sua identità. E non a caso, la cooperativa Il Treno ha scelto di creare una bellissima traduzione di Lingua dei Segni italiana grazie a Vincenzo Speranza, insegnante sordo. La LIS si presta alla traduzione di albi illustrati perché utilizza fortemente la componente visiva delle illustrazioni come riferimento e sostegno. In questo caso crea una danza di segni a ritmo sostenuto e continuo, in cui l’alternanza tra colore e assenza di colore è ancora più chiara ed evidente di quanto lo sia nella parola scritta o letta. Abbiamo visto come il salto tra imma-

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gini in b/n e a colori permettano un movimento di ritmo e tempo nell’albo illustrato, e uno spostamento da un mood a un altro. Ma finora il bianco e nero sono stati attribuiti a un tempo lento, un’atmosfera cupa in contrapposizione alle illustrazioni in cui l’esplosione di colori vitali cambiava notevolmente tempo di lettura e battito. In alcuni casi però ci troviamo in una situazione diametralmente opposta. In A caccia dell’Orso, di Michael Rosen e Helen Oxenbury, il ritmo è dato dal susseguirsi di un ritornello bianco e nero e una strofa colorata. Nella celebre ritmatissima versione letta per festeggiare i 25 anni del libro, Rosen canta il ritornello in bianco e nero con un tempo allegro e la sua voce si fa più grave durante la strofa. Potremmo pensare che in questo caso gli autori abbiano voluto sottolineare con i colori l’azione, il pathos e il movimento, e con il b/n la ripetizione e la ciclicità che ci riporta al ritornello, alla sicurezza. L’azione pericolosa e temibile è conclusa, i protagonisti hanno attraversato paludi e campi e li hanno superati. Ecco quindi di nuovo il rassicurante ritornello, che permette di fermarsi e prepararsi alla nuova avventura. Per concludere, da poco è uscito un bellissimo corto prodotto dalla Gobelins – Ecole de l’image, tributo alla pionie-

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immagine tratta dalla performance di “We’re going on a bear hunt” di Michael Rosen

ra dell’animazione e della silhouette Lotte Reiniger, che gioca tutta la sua atmosfera e il suo andamento su un unico cambio repentino di colore. Lotte balla in un mondo di luci e ombre, bianco e nero, un tributo alle sue opere meravigliose fatte di contrasti. Improvvisamente il suo compagno di ballo si ferma, fissa la finestra. Lei decide di percorrere il lungo corridoio e di affacciarsi. Il mondo fuori è colorato, si sono persi completamente i b/n della sala da ballo. Ma quei chiaroscuri donavano un’atmosfera di festa, allegra, vitale. Il ritorno al colore è invece il ritorno alla vita vera, all’ombra della guerra, del nazismo, delle preoccupazioni quotidiane e per il futuro. L’andamento cala e sprofonda vorticosamente ripiegandosi verso un tono intimo, lento, amaro. Michael Harvey, tra i più importanti storyteller europei, racconta le sue storie sul ritmo di un tamburo.


gente e melodico, in cui il suo cuore e il cuore dell’albo battono insieme.

immagine tratta dal corto “Lotte” di Gobelins, 2015

Nei suoi workshop, quando parla del ritmo narrativo spiega che nella narrazione “per cambiare il ritmo è necessario modificare le pause – le pause sembrano solo vuoti, ma sono davvero un partner attivo nel dare il ritmo”. Lo spazio tra un colpo e l’altro di tamburo generano il ritmo, non il colpo stesso. L’alternanza di illustrazioni b/n e a colori permettono un flusso tra colpi e pause che rende l’albo pienamente sostenuto e vivo e rapisce il lettore portandolo con sé in un flusso coinvol-

Il Ritmo e il Tempo uniti assieme sono la vita, il carattere della musica, si può dire, il suo sistema nervoso; la loro unione determina l’umore di una composizione. (La grammatica della musica, Otto Karoly, Einaudi)

BIBLIOGRAFIA

Il Ghiribizzo, Bruno Tognolini, Giulia Orecchia, Motta Junior, 2014 Dança, João Fazenda, Pato Logico, 2015 Chiamatemi Sandokan. Un omaggio a Emilio Salgari, Fabian Negrin, Salani, 2011 Fortunatamente, Remy Charlip, Orecchio Acerbo, 2010, Roma A caccia dell’Orso, Michael Rosen Helen Oxenbury, Mondadori, 2013

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CARLA COLUSSI

Bianco e nero a teatro. La Parola e il Silenzio S

e parliamo di cinema o di arti visive ci sembra facile capire. Se parliamo di illustrazioni, anche. Quando si parla di testo scritto, qualcuno rimane perplesso, ma poi passa. Quando si parla di arte della narrazione o di teatro, si rimane dubbiosi. Eppure il bianco e il nero sono alla base del teatro, in particolare nella ricerca dell’essenzialità tipica del teatro dello scorso secolo e di quello contemporaneo. Che cosa è il bianco e il nero nel teatro di narrazione? Per sua definizione questo tipo di teatro è fatto di parole che possiamo paragonare alle parole scritte sulla pagina del libro. Tuttavia il teatro di narrazione è fatto anche molto di silenzi e di pause. Forse sarebbe meglio dire che tutto il teatro del Novecento e quello contemporaneo è fatto anche e principalmente di silenzi e pause, e quando parlo di teatro intendo anche la danza, che nel secolo scorso ha avuto grandi nomi nella ricerca dell’essenzialità del gesto e anche nell’assenza di esso.

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Il silenzio/bianco nel teatro di narrazione ha un valore narrativo altissimo, perché costringe il pubblico a guardare l’attore, a seguirlo nei suoi gesti (o non-gesti), con un’attenzione che non si avrebbe se ci fosse la parola. Il silenzio/bianco è l’attesa. Il pubblico sa… e aspetta. Quando il narratore/attore racconta, la pausa è piena di aspettative e di voci. Serve al narratore per condurre lo sguardo dello spettatore al di là della scena. Fargli vedere ciò che narra. Il silenzio/bianco nelle storie di paura per bambini crea suspense, ma serve anche a creare lo spazio per “quella paura”. È nella narrazione di storie di guerra, penso a Scalpicci tra i Platani di Elisabetta Salvatori (1), dove il silenzio fa parte della narrazione (il silenzio innaturale di Sant’Anna di Stazzema) e del narrare di Elisabetta, che lo usa per recuperare la memoria di uno dei più grandi eccidi della Seconda Guerra Mondiale (2) e permetterci di vedere i volti, le case e la vita di gente comune, poi trucidata.


Elisabetta Salvatori e Marco Paolini a sant’Anna di Stazzema durante la diretta per il 25 aprile 2015.

Il silenzio è anche in Scemo di Guerra di Ascanio Celestini (3), che lo usa magistralmente e solo a tratti, in quel suo narrare veloce e stupito, per creare comicità e sottolineare il paradosso della guerra.

Il pubblico, nella scena tra Pulcinella e il cane (uno degli episodi della tradizione dei guarattellai), sa che il cane arriverà e pregusta la scena; quando il cane entra “non visto” da Pulcinella, tutta la scena è basata proprio su questa assenza/presenza, come in una sorta di parlato e non parlato, di cui peraltro è pieno teatro comico-clownesco. Il silenzio/bianco assume significanza

Ascanio Celestini, spettacolo Scemo di guerra , Biennale di Venezia ottobre 2004 - foto Maila Iacovelli.

Pulcinella, la Morte e il Cane. Burattini di Gaspare Nasuto. Foto di Linda Marengo.

Il silenzio è pieno come non mai nel teatro di Eduardo De Filippo, anche quando lui non è in scena. Pensate alla pienezza di quel “Lucariè, scetete” in Natale in casa Cupiello: Lucarié si alzerà tra un’incredibile quantità di coperte e scialli, tra sospiri e grugniti, sbadigli: “già songh’e nnove, Concé?” Il silenzio è attesa nelle Guarattelle (4).

Pulcinella e il Cane. Burattini di Gaspare Nasuto per il Teatro del Sangro.

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nel teatro del Living Theatre (5), dove il silenzio degli attori è denuncia politica (il flash mob lo hanno inventato Judith Malina e Julian Beck negli anni Sessanta!). Ricordo uno spettacolo del Living Theatre visto almeno 25 anni fa, cioè quando il Living era già mito, essendo la compagnia nata nel 1947: un attore entra in scena, si colloca al centro della stessa, in una posizione che sembrerebbe preannunciare un inizio, sta zitto per 15 minuti. Un silenzio pieno. Attesa, voci, risatine, movimenti sulle poltrone, colpi di tosse, sguardi pieni di domande, imbarazzo, rumori esterni… pienezza del vuoto.

Living Theatre, happening di piazza.

E nella narrazione per i ragazzi, cosa accade? Ci vuole coraggio per usare le pause. Non parlo delle pause nella lettura, dovute alle virgole o ai punti. Parlo delle pause della narrazione. Nello Zio Lupo, fiaba della tradizione romagnola, quando la Rosina va a chiedere la padella, lo Zio Lupo la fa attendere per ben tre volte. L’attesa deve essere anche del bambino/spettatore. E deve essere lunga abbastanza affinché il bambino/spettatore intervenga per dire “ribussa!”. Il silenzio serve al narratore per indurre il bambino ascoltatore a guardarlo e a seguire il suo sguardo che lo conduce nella storia. In Le tre Onde (racconto Basco, edito in Italia da Motta Junior) l’arrivo della prima e poi della seconda e infine della terza onda, ogni volta più grande e minacciosa, deve essere preceduto dal silenzio che è la paura del protagonista, che resta basito nel vedere il muro d’acqua che si avvicina, e che è il tempo che si prende il narratore per alzare lo sguardo e far capire allo spettatore l’immensità dell’onda. È il silenzio che precede ogni disastro naturale Dicevo che ci vuole coraggio perché sempre più il teatro di narrazione per bambini e ragazzi è sommerso dal

Living Theatre, Antigone, 1967, scena finale: il nemico si avvicina. Foto di Carla Cerati.

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caos della parola e dai riempimenti musicali. Si pensa che tutto ciò che viene dato ai bambini debba essere dinamico e veloce, “se no si annoiano”. L’ansia dell’adulto spettatore arriva al narratore che tende ad accorciare i tempi. Un po’ come capita a quelle case editrici che riempiono la pagina bianca di illustrazioni “perché il bambino ama i colori”. Io credo che sia fondamentale recuperare innanzitutto il teatro di narrazione per ragazzi che ha in Italia nomi bellissimi e grandi, come quello di Marco Baliani (6), che con il suo Kohlhaas (spettacolo tratto da Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist) ha creato un inno al teatro di narrazione fatto di pause e di sguardi. E poi, nel teatro ragazzi, occorre recuperare la pausa fatta di silenzio e sguardi, domande e aspettative, poesia. La pausa che rende ancora più potente

la parola/nero. Il silenzio/bianco è lo spazio nel quale il bambino mette la propria immaginazione, perché si immagina cosa potrà accadere, aspetta la battuta, aspetta che il cattivo esca, con trepidazione, con paura e di questo riempie la scena: ma bisogna dargli tempo. Il bambino abituato alla narrazione è come il bambino lettore, conosce le storie e il bianco gli serve per sognare, creare, immaginare. Il silenzio assume secondo me caratteristiche drammaturgiche, nel senso che fa parte del copione, nel teatro comico. Il silenzio è parte del testo. Penso a Dario Fo e a Gigi Proietti, ma sopra a tutti metto i Fratelli Colombaioni (7). Le pause non si sentono, nella trascrizione delle loro Farse, ma si vedono, nei puntini di sospensione, nel frequente andare a capo. La comicità (checché ne pensino i vari autori di Zelig e Colorado) è, soprattutto, silenzio. La forza di un attore/narratore che entra, deve dire qualcosa, ci ripensa, si siede, si alza, fa per parlare, si risiede… ...fino a che il pubblico-bambino urla, tra le risate, “parla!”, vale mille storie narrate. Riflettendo in questi giorni sul bianco e il nero sono arrivata alla conclusione che perlomeno nel teatro, di narrazione e non, la pausa/bianco sia come

Marco Baliani in Kohlhaas. Foto di Enrico Febbo, tratta da www.marcobaliani.it

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lo Zero. Zero è un numero e non vuol dire che “non c’è niente”; zero è assenza di qualcosa, che è diverso da “niente”. Note e riferimenti: (1) Elisabetta Salvatori: attrice autrice e regista versiliese, da anni racconta storie delle sue terre. (2) L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema è uno dei più tremendi capitoli della nostra storia recente: in un piccolo paese della Versilia, arroccato tra le montagne, il 12 agosto del 1944 le SS hanno trucidato 560 persone, tutte donne, bambini (la più piccola 20 mesi) e vecchi. (3) Ascanio Celestini: attore e autore romano, uno dei maggiori esponenti del teatro di narrazione. (4) Le Guarattelle sono un particolare tipo di teatro di Burattini che si rappresenta in un teatrino ambulante detto “baracca”. Non esiste un testo ufficiale su cui si basa lo spettacolo di guarattelle, tutto è stato tramandato oralmente, fino al 1979, anno in cui Bruno Leone (uno dei massimi guarattellai contemporanei), trascrisse gli spettacoli di Nunzio Zampella, ultimo erede di tale tradizione. Protagonista indiscusso delle guarattelle è Pulcinella. Informazioni tratte da: Pulcinella e Punch: due tradizioni a confronto, Daniela Paolucci, Compa-

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gnia degli Sbuffi,1997. (5) Living Theatre: compagnia di teatro sperimentale fondata nel 1947 da Judith Malina e Julian Beck, è stata un’esperienza unica nel suo genere. Teatro politico e di protesta nel quale vita – non a caso il nome – e scena si mischiano. Il Living ha fatto teatro ovunque: in strada, nelle carceri, negli ospedali. Il suo è stato un teatro politico, di protesta contro la guerra e per l’amore libero, forse tra i più forti ed incisivi dei nostri tempi. (6) Marco Baliani: autore, regista attore teatrale e cinematografico, fondatore del gruppo teatrale Ruotalibera che ha diretto fino al 1991. (7) I Colombaioni sono una dinastia di clown molto attiva nel secolo scorso. Hanno collaborato anche con Totò e Fellini. Le loro farse, trascritte e pubblicate anni fa nel volume I fratelli Colombaioni. Farse di tradizione, a cura di Stefano Di Pietro (Editori del Grifo, 1994), sono oggi reperibili solo nelle biblioteche.


FRANCESCA MARIUCCI

Al buio I

l nero assorbe, risucchia, ogni colore.

Di connotazioni positive, il nero, non ne ha molte. Solitamente simboleggia il lato negativo di ogni cosa. In un mondo buio c’è paura di perdersi, di sparire. In assenza di luce si avverte il “nulla”. Questo vale se ci fermiamo a quello che solo l’occhio percepisce. Il nero è anche “il re dei colori” proprio perché li racchiude tutti, anche al buio. Lo sa chi la vista l’ha perduta o non l’ha mai potuta sperimentare.

Sono infinite le vie che si possono percorrere quando si intende giocare con serietà e immaginazione sull’incontro dei linguaggi nello spazio della pagina, rispettando l’intelligenza dei bambini. (Da Ad occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, Hamelin).

Sono molti i linguaggi che si incontrano in una sola pagina di albo illustrato, ricche varietà di spazi, caratteri, colori, forme, figure, buchi, materiali, sagome, rilievi, generi letterari, lingue, segni e

oltre. In molti libri, pensiamo a quelli tattili o con riproduttori di suoni, l’attenzione del lettore va verso una sperimentazione manuale, uditiva, tattile. Sono coinvolti più sensi, oltre a quello visivo. Contengono poi una grande ricchezza anche le pagine in cui non è richiesto l’apporto visivo. Quelle tutte nere. Lì il corpo ascolta se stesso e quello che lo circonda. Tutti i sensi collaborano a formare l’idea, la mente immagina, colma e spazia all’infinito. A maggio 2015, presso i locali del Centro Documentazione Handicap “Accaparlante” di Bologna, è stata ospitata la mostra itinerante intitolata Outstanding Books for Young People with Disabilities, dove si poteva visualizzare la selezione bibliografica internazionale d’eccellenza dedicata ai libri per ragazzi con disabilità, curata dal Centro di Documentazione IBBY sulla Disabilità. Le pubblicazioni di albi per non vedenti sono in crescita, alcuni di questi libri si avvalgono dell’alfabeto Braille, altri di supporti sensoriali, come i libri tattili. La percezione del mondo è raccontata quindi in più modi. Su quale sia il metodo migliore da adottare per i non vedenti esistono differenti scuole, le cui posizioni

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e spiegazioni spettano agli specialisti del settore. Ma come si descrive un colore che, in una pagina tutta nera, il vedente teme sia affogato nel buio? Il presupposto per cogliere ogni sfumatura dei colori al buio è quello di mantenersi in sintonia con il fantastico. Il processo creativo, attraverso lo sviluppo sensoriale, raggiunge ogni colore. Tommaso, il protagonista de Il libro nero di tutti i colori, di Cottin Menena e Faria Rosana, pubblicato da Gallucci, ci racconta che il nero è addirittura il re dei colori, perché è morbido come la seta quando la mamma lo abbraccia. I colori, in questo libro completamente nero, ci sono, gonfi di sostanza, e si sentono. Il nero li ha tutti racchiusi in sé ma li libera anche. Il libro nero di tutti i colori accende l’attenzione del corpo, come in altri libri della mostra curata da Ibby, ogni senso è messo in ascolto ma qui più che in altri, dalle pagine nere, sbuca

Il libro nero di tutti i colori, Cottin Menena e Faria Rosana, Gallucci, 2011

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un colore dietro l’altro. Le immagini a rilievo si accarezzano, rimandano alla scrittura Braille, la mente si posa in un colore alla volta e diventa facile vederlo, toccarlo, annusarlo, e sentirne la nuova pienezza. Diventa rotondo, completo. Tommaso “illustra” il verde che profuma di erba tagliata, il giallo che è morbido come le piume dei pulcini, il marrone che crepita come le foglie secche sotto i piedi, il rosso che è acido come le fragole e dolce come l’anguria, ma fa anche male quando sanguina il ginocchio. I colori si fanno sentire nelle pagine nere e brillano. Tommaso li ama tutti perché “li ascolta, li annusa, li tocca e li assapora” ed è felice quando torna il sole dopo la pioggia, perché con lui escono tutti i colori nell’arcobaleno. I sentimenti hanno molti colori e la felicità li ha tutti. Il nero è colorato, anche se i colori non si sono mai conosciuti.


Quando invece i colori si conoscono, ma il nero comincia a inghiottirli, si teme che possano sparire nel buio, è una paura ancestrale, e il fantastico è il compagno di un cammino accidentato. La voce dei colori, di Jimmy Liao (Edizioni Gruppo Abele), racconta un nuovo ascolto. La protagonista è una ragazzina che la vista la sta perdendo ed è costretta ad affrontare un percorso sconosciuto, pauroso, incognito che coinvolge il cuore del lettore. È un libro dedicato ai poeti perché è la poesia che viene in soccorso in situazioni difficili, dove le parole sembrano insufficienti e inutili. In un libro in cui si dovrebbe temere il nero, è proprio l’arte visiva che accompagna la protagonista lungo il tragitto, e segue un ritmo quasi musicale. Un paradosso, una poesia, un atto creativo che incoraggia la speranza, che cerca di annullare i temuti limiti. In questo percorso, che salta leggiadro tra un fuori metropolitano e un dentro fantastico, si individuano tante citazioni fiabesche o artistiche. Matisse e Chagall sono ripresi in modo creativo, Escher e Magritte sono riprodotti nel labirinto di una metropolitana e nei vagoni che trasportano la protagonista verso la sua nuova condizione.

La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011

L’arte impersona il presupposto già citato, il fantastico, il creativo, l’immaginazione che colmano il vuoto, la sensazione di nulla e il nero. Non a caso Jimmy Liao illustra un cammino coloratissimo, in alcune pagine il colore pare addirittura esplodere. Sopraffà l’idea del nero, non riesce a contenere una così grande vitalità colorata.

La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011

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La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele,

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La perdita dell’orientamento... Ci sono pagine fredde, in cui la protagonista ha paura, piange come il cielo…

La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011

...ma la spinta a proseguire interrompe gli indugi e si avanza, sempre, con colorato ottimismo, anche nel buio.

La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011

C’è una importante promessa: esiste sempre una svolta positiva. La vertigine di cadere...

La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011

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Si potrebbe analizzare ogni pagina e troveremmo molto da dire, tanti sono i richiami, le citazioni e le corde sensibili che tocca, ognuno ha le proprie, determinate dai vari vissuti, ma l’empatia è comunque piena e coinvolgente. È un’opera d’arte caleidoscopica e affascinante, anche se parla di paura, accompagna la protagonista e il lettore con calore e colore, per mano.


Nel biancore apparentemente indistinto di un altro libro, Scia. Poesia di carta, di David Pelham (Franco Cosimo Panini), la vista sfida i contorni delle sculture di raffinata ingegneria cartotecnica. Una nebbia fitta, una luce accecante.

I giochi di ombre e riflessi servono per individuare i molti particolari che non ci stanchiamo di cercare. Anche con le dita, delicate, si possono percorrere i confini di questi paesaggi fantastici che offrono meravigliato stupore, seguendo la scia liscia e argentata di una piccola lumachina. Un pop-up intenso che fa incontrare luce e ombra, incanto e mistero, confine e assoluto. L’invito è forte ed entusiasta: “Esci dal guscio”. Come dice una mia cara amica ipovedente: “Chi sogna non si arrende mai e i limiti sono fatti per essere superati”.

Scia. Poesia di carta, David Pelham, Franco Cosimo Panini, 2008

BIBLIOGRAFIA

Ad occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, Hamelin, Donzelli Editore, 2012 Il libro nero di tutti i colori, Cottin Menena e Faria Rosana, Gallucci, 2011 La voce dei colori, Jimmy Liao, Edizioni Gruppo Abele, 2011 Scia. Poesia di carta, David Pelham, Franco Cosimo Panini, 2008 Un ringraziamento speciale a Silvia Torchio per aver gentilmente fornito le immagini del libro La voce dei colori.

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MARINA PETRUZIO

Il bianco e nero nella realtà apparente di Antoine Guilloppé Bianco e nero in partitura netta nessuna sfumatura concessa. Positivo negativo. Luce ombra. Bianco ottico per nulla penetrabile, luminosità abbagliante e un nero lucido sul quale si scivola. Sto parlando di un silent book in bianco e nero, Loup noir di Antoine Guilloppé (Les Albums Casterman, 2004): un libro senza parole e senza colori, impossibile da raccontare attraverso una semplice sinossi. Raccontarlo significa provare a vederlo. Ricominciamo. Due apparenti non colori che raccontano storie differenti anche solo nella semplice illusione bidimensionale di una partitura spaziale a righe orizzontali o verticali. Sono tronchi d’albero in un bosco ora neri e cupi, sovrastanti, fitti. I loro rami si intrecciano rompendo il bianco della pagina come un vetro esploso che si chiude schiacciato dalla drammaticità di quella ragnatela di nero bosco.

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Loup noir di Antoine Guilloppé – Les Albums Casterman, 2004

L’occhio scivola respinto o catturato dall’uno o dall’altro senza saper distinguere l’ammaliatore del momento. La composizione vibra. Non sembra la stessa. La realtà dopo pochi secondi di indugio non è quella che si vede. La partitura a righe verticali cambia. Quieta l’occhio che in quel magnetismo smarrisce i suoi contorni. Leggiamo il bianco: quei tronchi alti neri non erano altro che la notte e quel bianco la neve, tutto è più morbido luminoso e apparentemente privo di drammaticità. Questo è quello che abbiamo davanti agli occhi.


seca del bianco e nero. Cambiamo prospettiva, tornando a guardare Loup Noir. Giocare significa anche muovere gli elementi all’interno

Loup noir di Antoine Guilloppé – Les Albums Casterman, 2004

Facciamo un passo di lato ed analizziamo ciò che ci sta dietro. Proviamo. È l’Op-Art (Optical Art), l’arte delle realtà apparenti: un movimento artistico che vede il suo apice in America e poi in gruppi di ricerca in Europa negli anni ‘70 del Novecento. È Loup Noir il bianco e nero delle realtà apparenti, messo in scena da Antoine Guilloppé. Corrente artistica che ha approfondito i temi della visione (e quindi dell’apparenza) intrecciando conoscenze anatomo-visive, nozioni tecnico-matematiche intorno alla partitura dello spazio; di psicologia percettiva, riprendendo concetti cari alla psicologia della Gestalt degli anni ’20-’30 del Novecento sugli aspetti legati allo sviluppo del ragionamento rivolto alla soluzione del problema. Loup Noir è un albo illustrato che mette in pratica la pedagogia intrin-

Bora III - Victor Vasarely

Victor Vasarely - Vonal KSZ

di un ordine. Destabilizzando un ordine con una realtà apparente, un’illusione ottica, si vuole indurre l’osservatore, in questo caso il bambino o la bambina, ad abolire la distinzione tra reale, ciò che siamo abituati a dare per assunto come reale, e le sensazioni illusorie

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create dall’ immaginario. A porsi delle domande. Andiamo così verso una critica che porta alla formazione di un’immagine della realtà giusta per sé e non indotta da stereotipi, da funzionamenti automatici di schemi logici di associazioni quali: bosco – lupo nero. Il gioco comincia dalla copertina. Ci troviamo innanzi, a partire dalla scelta cromatica, a un morfema mentale, visivo e psicologico, di lupo-nero: un nero lucido a tutto campo interrotto da due tagli bianchi obliqui, il lupo e i suoi occhi minacciosi. Nel titolo: in bianco, due righe sfalsate Loup – Noir, l’occhio attento già in allerta per quel nero, non coglie solo il segno ma va oltre, mira al disegno composto dal titolo che sembra essere proprio un lupo. Solo una passeggiata nella notte innevata dei risguardi dove la partitura cromatica è orizzontale sopra nero-notte, sotto bianco-neve, rimette tranquillo l’occhio del lettore per quanto ormai avvisato: qui si parla di bambini, lupi, notte, neve, ignoto. Traghettandolo dal suo subbuglio psicologico a una situazione di serena luminosità non appena volta pagina: qui è tutto bianco, soffice, il titolo è ripetuto sempre su due righe sfalsate ma il lupo ora è…nero! Di nuovo l’occhio può trarsi oltre l’inganno della realtà apparente: il lupo nero punta a sinistra come attratto

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dal margine della pagina mentre una silhouette di bambino in lontananza affonda camminando nella neve alta, spostandosi progressivamente e allontanando anche l’occhio del lettore determinato a entrare nella storia, verso destra. Ancora una volta il lavoro sulla percezione visiva è quello di negazione del solo dato sensibile a favore dell’elaborazione di una domanda che porti a cercare altre soluzioni, visive

Loup noir di Antoine Guilloppé - Les Albums Casterman, 2004


e psicologiche, che siano proprie e non condizionate. Entriamo. La trama è oltremodo semplice: è inverno, tardo pomeriggio, buio. Un bambino, forse per rientrare a casa, attraversa un bosco a tratti fitto, un lupo lo segue da lontano. L’autore scandisce un ritmo, una partitura non solo illustrata ma percepita, data dall’alternarsi di pagine in bianco/nero e pagine in nero/bianco che coesistono anche nella doppia pagina, due stati d’animo, due note, e dall’attivazione di stimoli sonori percepiti ma immaginari. Nel continuo tentativo di instillare il dubbio nel lettore che nel frattempo alterna stati psicologici di disagio o paura a stati di tranquilla serenità. Bianco. Nero. Due colori secchi, nessuna pausa tra l’uno e l’altro. Bianco. Nero. Il bambino e il lupo. Due protagonisti. Stesso ritmo chiuso. Così come nei repentini cambi di inquadratura che conferiscono all’albo un aspetto altamente cinematografico, rafforzando il ritmo serrato, allungando o accorciando le pause con cambi di prospettiva che vanno viste dall’alto in basso dove il bosco sembra farsi cerchio attorno al bambino, alti fusti come figure che si accalcano al centro; dal basso verso l’alto: percepiamo l’affanno di passi inutilmente veloci che

affondano sordi nella neve ormai alta. Il campo si stringe in primo piano: la neve è fitta e bianco denso tutt’attorno, i fiocchi si ingrossano. Fiocchi come denti di lupo. Lupo nero. La doppia pagina dove il campo si restringe sul muso del lupo è carica di drammaticità. Cambio di ritmo. Un elemento entra e modifica la narrazione e ciò che il lettore si aspetta: un rumore.

Loup noir di Antoine Guilloppé - Les Albums Casterman, 2004

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Una minuta unità che attiva lo stimolo percettivo. Il bambino si volta, la sciarpa si srotola. La neve è fitta, la notte buia. Il nero domina laddove il bosco sta per finire. Il lupo è nero dalla pagina precedente e il primo piano lo rende vicino. Non vederlo destabilizza e l’immagine nel nostro immaginario è l’unica realtà possibile: il lupo salta, l’aggressione dopo l’interminabile inseguimento è lì sotto i nostri occhi.

Loup noir di Antoine Guilloppé – Les Albums Casterman, 2004

Ancora una volta nel cambio di ritmo l’immagine “muove” in altra possibile realtà. Il bosco è bianco, reale, la partitura è netta, il paesaggio è tranquillo la realtà sembra essere questa e l’immagine costruita per trattenere il lettore. L’illusione ottica della partitura bianco nero è interrotta da un elemento obliquo, alla destra della doppia pagina che ne definisce un nuovo dinamismo. Il lupo salta. Un lupo bianco. Il fragore dell’albero che cade abbattendosi al suolo, i rami che si spezzano in una miriade di forme più piccole, nere, colmando lo spazio bianco, sono la metafora di ciò che si fa sempre più chiaro nel nostro immaginario: la realtà letta sinora con le sue immagini chiare e sonore non è quella che si vede. Lo schema logico che associa bosco – lupo nero è posto in dubbio a favore

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di un altro binomio: lupo – canide che attende solo di essere confermato nelle pagine successive, le ultime. La lettura può così ricominciare partendo dalle realtà apparenti lette nella precedente per un’analisi attenta dei simboli, delle forme, dei tempi e del colore che hanno portato il nostro immaginario a produrre proprio quell’immagine e non un’altra più simile a una realtà vicina a un pensiero libero e capace di intervenire sul percepito a proprio vantaggio. Margherita ha sei anni quando legge con me quest’albo e il suo immaginario è colpito e destabilizzato da un binomio per lei fuori tono: bambino – nero. L’archetipo delle tenebre, il nero, e la psicologia della forma legata al colore stanno agendo in Margherita. Loup Noir ha realizzato il suo scopo,


dar adito a una domanda: Margherita sta cercando di comprendere se un bambino può essere un lupo – nero. Un’altra realtà.

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SONIA MARIA LUCE POSSENTINI

INTERVISTE

catturare l’intensità della luce Sonia MariaLuce Possentini è tra le illustratrici più singolari e riconoscibili del libro illustrato di questi anni: ci è sembrato naturale allargare il nostro dialogo sul Bianco e sul Nero a lei, che con questi colori, e con la luce, lavora in maniera così intensa e precisa. L’intervista che segue è punteggiata da alcune immagini dai suoi libri (scelte insieme all’autrice): potete leggerle una volta come una spiegazione di ciò che andiamo dicendo e una seconda volta come una sorta di sua bibliografia ideale. Siamo felici di inaugurare così una nuova sezione di Libri Calzelunghe, quella delle interviste: un modo per andare oltre le nostre parole e favorire la discussione intorno al tema proposto.

fino a qualche anno fa in Italia), anche se io penso che non esista la categoria bambini/adulti, ma solo albi illustrati per tutti. L’esclamazione più frequente che ho sentito tra il pubblico negli albi illustrati in generale è: “Guarda che colori!”. Ecco, su di me molto spesso invece ho sentito dire: “…Uhm, non usi molti colori...…Ahi!”. Penalizzante? Forse. Per me è fondamentale l’idea di catturare non i colori ma solo le diverse intensità della luce. Queste due intensità si traducono in: piena luce, milioni di sfumature di toni fino al nero, il buio assoluto. Ma poi mi chiedo il nero da cosa è formato? Da tutti i colori! E il bianco? Da tutti i colori! E allora? I colori ci sono.

Il tuo stile è personalissimo e unico. Nelle tue illustrazioni il bianco e il nero sono preponderanti: cosa significano per te? Perché questi colori (insieme al rosso) si ripetono con tanta frequenza nel tuo lavoro? Significano l’essenza del mio lavoro. Memoria di quello che amo e di cui non voglio privarmi. Una scelta estetica ritenuta da molti, almeno nel settore infanzia, più penalizzante (perlomeno

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L’alfabeto dei sentimenti, Janna Carioli, Sonia Maria Luce Possentini, Fatatrac, 2013


Poesie di luce, Sabrina Giarratana, Sonia Maria Luce

Il pinguino senza frac, Silvio D’Arzo, Sonia Maria Luce

Possentini, Motta Junior, 2014

Possentini, Corsiero Editore, 2015

Un capitolo a parte avrebbe per me il Bianco (uso la maiuscola). La somma di tutti i colori, anche se la percezione che si ha di lui è collegata alla loro assenza.…Che stranezza, no?! Melville lo definisce in Moby Dick: “un incolore ateismo di tutti i colori”. Il Bianco è lo zero algebrico, astrazione illuminata, dove nessuna operazione è possibile. Bianca è la pagina in attesa dell’inchiostro, è il silenzio della neve. Bianco è lo spazio di un attimo. Bianco è ciò che raccoglie tutto ed espande tutto, una scelta forte, radicale e senza compromessi. L’ultima sfida? “Dipingere uno spazio bianco dove nulla è disegnato: questo è il più difficile

compito della pittura” Ike no Taiga (calligrafo giapponese). Il Rosso…è il colore della mia famiglia, il mio colore, quello che amo di più, ma va dosato, perché capace di prendere il sopravvento. Un colore che quando arriva, tutto ferma. Ed è l’unico a essere utilizzato come filtro nella fotografia in bianco e nero per aiutare i contrasti.

Il pinguino senza frac, Silvio D’Arzo, Sonia Maria Luce

Le tue illustrazioni si caratterizzano per un sapiente uso della luce. La luminosità delle tue tavole è forse uno degli elementi più caratterizzanti del tuo stile. Spesso sembra che tu utilizzi il bianco come “contenitore” luminoso. Se pensiamo, per esempio, alle tavole di “Poesie di luce”, vediamo che il bianco avvolge i volumi e ne stempera i contorni, un po’ come se fosse una foto sovraesposta. Cosa comunichi attraverso la luce e come arrivi a una resa cromatica del genere? E, ancora, se ci sono, quali sono i tuoi punti di riferimento nella pittura classica nel momento in cui

Possentini, Corsiero Editore, 2015

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ti confronti con la resa della luce in un’illustrazione? Gilles Deleuze, quando parlava di un’idea, la definiva Luce sigillata. Caravaggio, il Genio della luce, è sicuramente tra gli artisti quello che maggiormente cattura la mia anima, il suo legare il divino all’uomo, al mondo dei poveri, della gente comune. Per me la luce è uno degli elementi che sta alla base della realtà. Forse proprio come Pasolini la percepiva, la desiderava. Quotidiana, drammatica e di contrapposizione alla luce universale. Questo cerco di comunicare. Un contrasto estetico e spirituale che vede

storico-pittorico. Desidero che le carte che utilizzo siano prive di grammature evidenti, per questo uso le satinate, per rendere tutto luminoso e ‘perduto’, come scrivere su carta che brucia. Desidero che i miei colori siano polveri sottili e impalpabili, che trascino con spugne da trucco, sfumini, dita. Con la gomma o con i chiari pratico lumeggiature, come un artista rinascimentale. Desidero che i contrasti siano forti e radicali. Che il nero sia assoluto, come il bianco.…Il resto, per arrivarci, una polvere sottile che si deposita a velature. Pacatamente. Cancellata dove serve, lasciata deposta dove serve. Come le nebbie della mia pianura. Luce che crea il bianco ma anche l’ombra, così che da questo contrasto fuoriescano le cose per mezzo di ombreggiature e tinte più o meno forti: le

Canti dell’attesa, Sabrina Giarratana, Sonia Maria Luce Possentini, Il Leone Verde, 2015 La bella nel bosco addormentato, Sonia Maria Luce Possentini, Corsiero editore, 2015

la mia scelta nella ricerca della realtà e nell’eccesso di evidenza. Come io arrivi alla resa cromatica, non so, studi, curiosità, scelte… rimane il fatto che le tecniche pittoriche studiate dal Cennino Cennini per diventare un restauratore (perché questo era il mio sogno), mi hanno influenzato, così pure tutte le ricerche in ambito

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frontiere del grigio, che hanno sempre qualcosa d’impreciso. Come già abbiamo detto, a noi pare che la relazione con la fotografia nelle tue opere sia piuttosto evidente. Un altro elemento che abbiamo notato è il tuo desiderio di ‘sfocatura’ delle immagini che, tuttavia, non perdono


in resa figurativa. Qual è il senso, quale la poetica che è dietro alla scelta di rendere incerti i contorni, di farli vibrare allo sguardo? Provengo da una città come Reggio Emilia che ha una manifestazione internazionale di grande valore, Fotografia Europea; terra di Luigi Ghirri. Il Maestro Luigi Ghirri. Come non rimanere contagiati nel DNA dalla sua sapienza nel pensare per immagini? Come non prendere in mano una macchina fotografica e non aver voglia di sperimentare il valore delle inquadrature? Dentro il mirino catturare un mondo che appartiene al qui e adesso, poter fermare l’attimo, prendere questa sua infinita eredità visiva e cercare di poterla rappresentare attraverso la mia sensibilità, nelle immagini destinate ai bambini?

Nel bianco, Vivian Lamarque, Sonia Maria Luce Possentini, La Margherita Edizioni, 2010

A tutti? Più forte di me, è dentro la genetica del Genius Loci, dove vivo. Per me però, innamorata della sperimentazione, è sul Dagherrotipo che la curiosità (ma non la mia competenza fotografica) si fissa. Il Dagherrotipo è uno strumento sensibile alla luce (come la macchina fotografica), ma è soprattutto magia, ambiguità, tridimensionalità e non riproducibilità. Questo, in sintesi, era ed è il Dagherrotipo. Una possibile scatola magica. La sfocatura è la polvere della memoria che si deposita nei nostri ricordi, dove più che la definizione dell’immagine, interessa la magia del ricordo. Questo cerco di fare. La possibilità che ogni persona possa, attraverso una mia immagine, riconoscersi. Perché non rappresento il surrealismo, il fantastico o visionario di un’idea, o di un’azione, ma piuttosto una realtà quotidiana velata di memoria. Quello che cerco di fare è esprimere attraverso un’inquadratura, delle infinite possibilità di lettura che, soprattutto, appartengono al quotidiano di tutti, tramandate molto spesso

Mostri Selvaggi, Omaggio di Sonia Maria Luce Possentini a Maurice Sendak

L’aviatrice, illustrazione libera di Sonia Maria Luce Possentini

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nel ricordo, nella parte più intima del cuore, per non farlo andare via. Ci regali tre parole per raccontare la tua idea di illustrazione? E tre per descriverti come illustratrice?

Giardino d’inverno, illustrazione libera di Sonia Maria Luce Possentini

attraverso l’oralità e non da racconti scritti. Nonostante questo diffuso senso di indefinitezza, l’aspetto figurativo e la resa dei volumi nelle tue illustrazioni non viene mai meno. Da cosa nasce la tua esigenza di essere così fedele al modello tanto da volerne cogliere l’azione, lo sguardo, la postura come se lo vedessi attraverso un obiettivo fotografico (e volutamente fuori fuoco)? Esigenza, necessità interiore del reale, di dare alle cose, ai personaggi, la possibilità di essere, dentro quelle sequenze di questo o quel libro, protagonisti essi stessi delle storie. La bambina incontrata alla fermata del tram, il vecchio che ho visto al negozio vicino a casa. Il piccione incrociato alla stazione o il bambino che ho visto in riva al mare. Raccontare il mondo, non fermarmi alla superficie, ma cercare i più sottili fili dell’anima. Un bisogno, il mio, di rendermi conto della realtà in modo spietatamente concreto e poi, condurlo

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Noi sogniamo di viaggi per l’universo, ma l’universo non è forse in noi? Novalis. Di me difficile, ci provo: rigore, stupore e ricerca della poesia. Grazie dei vostri occhi, un forte abbraccio. Sonia MariaLuce


FAUSTO GILBERTI

il pittore che fa anche libri Fausto Gilberti è il nostro secondo interlocutore sul tema del bianco e del nero. I suoi libri, di cui è anche autore, parlano con pochi tratti – e il suo segno è una traccia, un filo (come quello del nostro sito, che cerca fili e segni). Tra questi pochi tratti, spicca la leggerezza e l’umorismo, che scavano dentro, e in profondità.

INTERVISTE

di moda, sempre attuale, sempre in forma, sempre a tempo. Sempre adatto a raccontare per immagini storie di ogni tipo: storie misteriose, storie di paura, storie divertenti, storie serie e storie matte. Per te è un mezzo di espressione naturale o una scoperta? Era il 1988 quando disegnai in bianco e nero, con il rapido Rotring, su un foglio di venti centimetri per quaranta, cinquecentosessantadue omini (tutti diversi) alti due centimetri e mezzo ordinati su dieci file. E siccome tra tutti spiccava una suora vestita tutta di nero, intitolai quel disegno…”La suora”. In “Bianca” giochi con i contrasti: “Il bianco è un colore che contiene tutti i colori”. È per questo che non ti sbilanci con altre sfumature?

Marcel Duchamp secondo Fausto Gilberti (prossimamente in libreria)

A bruciapelo: il bianco e nero è un sempreverde? Sì, il bianco e nero è assolutamente un sempreverde. Ed è anche sempre

Gli eschimesi hanno tantissimi modi per chiamare il bianco che vedono nella loro terra. Forse, non serve davvero altro per dare forma alle cose, se non il contrasto con il suo opposto, il nero. Il nero (e il bianco) hanno una forza espressiva particolare? Il nero è forte e deciso. Non ammette

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l’illustrazione può raccontare mondi complessi?

Fausto Gilberti, Bianca, Corraini edizioni 2013

Ho voluto raccontare artisti che furono rivoluzionari e nello stesso tempo bizzarri. Artisti che hanno realizzato opere strane e particolari. Opere che possono divertire i piccoli e incuriosire i grandi. A patto di guardarle senza pregiudizi.

Fausto Gilberti, Bianca, Corraini edizioni 2013

ripensamenti, devi avere le idee chiare prima di buttar giù un segno su una superficie bianca.

Fausto Gilberti, Jackson Pollock, Corraini edizioni 2015

C’è qualcosa che non riusciresti a comunicare solo col nero e col bianco? Per ora ho disegnato quasi tutto con il solo nero. Fausto Gilberti, Yves Klein, Corraini edizioni 2015

Recentemente ho iniziato a lavorare su un libro che racconta la storia di un circo particolare. Ho fatto una decina di disegni a colori, ma poi, guardandoli, ho capito una cosa: che il mio circo sarà in bianco e nero. Una parte del tuo lavoro creativo racconta l’arte contemporanea usando uno stile minimalista e sintetico, ma decisamente ironico. In che modo

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Cosa semini dentro le tue illustrazioni per chi le guarderà una seconda o una terza volta? Alla seconda, terza, trentasettesima visione, spero possa sbocciare nello spettatore un diverso punto di vista sui miei disegni che, a causa dell’estrema sintesi, non vengono sempre letti correttamente di primo acchito


dal pubblico, abituato al virtuosismo grafico, ai dettagli, al realismo e ai colori.

di Emma e Martino, nella speranza che possano prenderli e scoprirli anche da soli. E infine, sotto le coperte… Edward Gorey!

Ci regali tre parole per raccontare la tua idea di illustrazione? E tre per descriverti come illustratore? Impossibile. So veramente poco di illustrazione. È un mondo tutto nuovo per me. Arrivo ai libri illustrati dal mondo dell’arte contemporanea e nel momento in cui ho deciso di raccontare e disegnare storie non ho cambiato stile. Ho portato sulle pagine gli stessi omini e le stesse figure che dipingo sui muri o sulle tele appese alle pareti delle gallerie d’arte. Quindi sono un illustratore? Boh! Lo ero già? Boh! Non sono un illustratore? Boh! Lo diventerò? Chi lo sa! Mi piace definirmi un pittore che fa anche libri. Hai due figli, Emma e Martino, che “L’Orco che mangiava i bambini” si mangia “crudo e senza sale” e “inzuppata nel vino zuccherato”. Oltre ai tuoi, quali libri per ragazzi leggete?

Fausto Gilberti, L’orco che mangiava i bambini, Corraini edizioni 2012

A cosa guardi quando leggi un libro? Guardo alla punteggiatura:…non vedete quanti errori ho fatto in questa intervista?

Le immagini dei libri sono tratte dal sito della casa editrice Corraini.

Leggiamo insieme Dahl, Calvino, Rodari, Scarry, Ungerer, Kunnas, Piumini e altri “classici”. Ci piacciono molto i Mumin di Tove Jansson. Abbiamo letto Pippi Calzelunghe. A volte sfogliamo dei libri illustrati più “sperimentali”, che ho comprato per me, ma che ho messo in uno scaffale basso, in camera

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CLEMENTINA MINGOZZI

l’attrazione dell’ombra e il confine della luce Clementina Mingozzi è un’artista e illustratrice il cui lavoro ruota da vicino intorno al Bianco e al Nero e in particolare alla papirografia, tecnica a cui l’artista dedica da tempo opere e riflessioni. Con lei abbiamo ragionato di illustrazioni, di tecnica, in un modo che lascia trasparire come la ricerca si faccia soprattutto con le mani, non solo con la testa e le parole, ma con il corpo che scopre. La ringraziamo di questa intervista, la nostra terza e penultima per il tema di questo mese. Nella biografia che si può leggere sul tuo sito scrivi: “Clementina Mingozzi nacque a tempo debito e con le forbici in mano. Dopo aver tagliato velocemente il cordone ombelicale, tagliò la corda e prese a ritagliare tutto ciò che trovava”. Dopo aver tanto ritagliato ci potresti svelare quali sono i soggetti e le figure che popolano maggiormente il tuo immaginario di ombre e carta? I primi ritagli rispecchiavano il lessico famigliare di un mondo naif: esploratori, clown, folletti, draghi, anatre, boschi, fino all’esaurimento, poi un rigurgito, qualche anno di accademia, e infine è passato. Iniziavano quasi a darmi fastidio, non erano più me.

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INTERVISTE

L’unica forma che è rimasta con il passare degli anni è, a volte, la foglia di quercia. Il soggetto preponderante è la natura, in questo le nuvole sono un piacere narrativo per molti stati d’animo.

Quali sono i limiti o i vantaggi di raffigurare i soggetti esclusivamente attraverso profili? La sintesi attuata dalla silhouette elimina la maggioranza delle linee che danno volume alle forme: questo è il primo limite importante per la leggibilità dell’illustrazione. Si impara, perciò, a fare attenzione a ciò che insegnava Walt Disney per l’animazione: “…ogni posa deve essere leggibile in poche frazioni di secondo…per vedere se l’azione è ugualmente comprensibile”. Per una papirografa la preferenza per la carta nera su fondo bianco è


quasi scontata, è il nostro cervello a suggerirlo, ne rimane inciso, per semplicità di lettura. Diventa un limite se si volesse utilizzare, per un qualsiasi motivo, il colore. Come diceva Matisse, passare dal nero al colore è tutt’altro che facile. Mi spiego: l’immagine realizzata rimane in mano, staccandosi dal fondo; la sagoma ha la priorità su tutto – diversamente dal collage -, qualsiasi colore o segno aggiunto ruba l’attenzione, con l’effetto di avere in scena due protagonisti che se la contendono. È un equilibrio delicato. È stata una lotta dura, ma mi ha fatto sentire più forte quando con il tempo ho saputo come risolverlo: il colore doveva essere definito dalla luce e non viceversa. Perciò ho iniziato ad usare carte semitrasparenti e tinte da me, percorribili dalla luce, evitando quelle con una maggiore personalità. C’è anche un elemento che può sembrare un vantaggio e che a volte, al contrario si rivela un grosso limite: l’aspetto decorativo, tipico della silhouette. Avrei potuto abbandonarmi ad accattivanti colori pastello e all’iconografia tradizionale, ma volevo poter raccontare, non far da sottofondo di svago. Fino a pochi anni fa tutti questi elementi uniti riducevano le possibilità di pubblicazione; oltre tutto, il nero pieno trapassava se stampato su carta di bassa qualità. Si perdevano le om-

bre, le trasparenze e lo svolazzare del ritaglio. Era troppo costoso riprodurre i lavori così ottenuti, ci si accontentava di una semplice silhouette piatta. Oggi, se voglio evidenziare la papirografia, ho la possibilità di fornire io stessa il file fotografico con le luci e ombre giuste: fanno parte dell’espressione del lavoro, sono il tocco finale.

In quella che definisci “arte nera”, tecnica assai antica, che tu stessa hai applicato non solo all’illustrazione ma anche al teatro, il forte contrasto prodotto dai ritagli scuri sul fondo chiaro della pagina, o dalle ombre in controluce su uno schermo, che effetto genera, secondo te, in chi li guarda? Dopo il primo istintivo sgomento del buio o del foglio nero, si sta al gioco. Lo spazio che gli occhi non possono penetrare attrae la nostra curiosità, benché si sia ormai smaliziati verso ogni tipo di immagine e nessuna fantasmagoria bidimensionale ci possa più spaventare come un tempo. Il buio, come il foglio nero, ci aiuta a essere concentrati. Inoltre, provate a

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porre vicine due silhouette dello stesso soggetto, una bianca su fondo nero e, viceversa, una nera su fondo bianco: vi accorgerete subito che la prima vi sembrerà vuota, la seconda potrete immaginarla con facilità prendere vita. È questo il semplice fascino che ci ammalia, un’alterità sempre presente al di là di noi. Questo è l’aspetto curioso. La sagoma nera tra le mani è naturale farla svolazzare, creare ombre e sfruttare le grandi potenzialità narrative che le sono proprie muovendo il ritaglio.

espressive nascono se, invece di limitarci allo spazio nero del foglio, possiamo dialogare con uno spazio fisico buio, con la nostra ombra o un’ombra che abbiamo la libertà di muovere: si aprono varchi!

Illustrazione di Clementina Mingozzi in Nero lupo rosso Cappuccetto, Biblioteca Sala Borsa ragazzi, 2004

E cos’è per te il “Nero”? Il Nero possiede una forza espressiva unica, spiegabile, forse, solo pensando ai nostri primordi. Per me è l’invito muto alla libertà d’immaginazione, in tutte le sfumature infinite della nostra sensibilità. Come avviene con la luce assorbita dalla superficie del nero, anche noi senza volere ne siamo risucchiati. È spazio libero, basta non opporvisi. Figuriamoci quali altre possibilità

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In occasione della mostra “Nero Lupo Rosso Cappuccetto”, svoltasi nel 2004 a Bologna, ti è stato chiesto di illustrare la versione di Perrault della celebre fiaba. Molti illustratori hanno utilizzato le silhouette per tradurre in immagini la natura essenziale dei personaggi fiabeschi: tu che ne pensi del binomio fiaba/silhouette? Questa forma narrativa gode di una particolare libertà che ben si abbina alla potenzialità immaginativa delle silhouette. Ma credo che tutto dipenda da come si realizza la silhouette: a volte l’espressione in nero può essere molto impegnativa, pretende di essere ascol-


tata, è netta, come se andasse dritta al nutrimento, più che soffermarsi sul sapore. Altre volte è eccessivamente edulcorante. Dipende anche da cosa ci si aspetta da una fiaba. Cappuccetto Rosso fa parte di un genere particolare, è ancora attuale. La fiaba con principi e principesse mi pare un mondo molto più lontano. Penso non sia un caso se Ocelot, in Principi e principesse, abbia usato il rito della vestizione come antecedente ad ogni narrazione nella sua realizzazione animata, oltre ad una costante sottile ironia. Occorre riflettere se interpretare la fiaba con una silhouette di stile tradizionale sia funzionale alla vita del racconto. Potrebbe corrispondere a rinchiudere la fiaba in una capsula del tempo, privandola della possibilità di evolversi. Nella tua recentissima mostra “Eco d’ombra”, presso la galleria Nelumbo di Bologna, hai invece lavorato, sempre con ritagli neri, ma con suggestioni materiche e astratte… che rapporto c’è tra ombra ed essenza? È una domanda difficile, perché è più percepibile a “pelle” che non razionalmente. Se si potessero far evaporare i sentimenti e i pensieri realizzati in Eco d’ombra, probabilmente la goccia d’essenza raccolta sarebbe la misteriosa

attrazione del nero e dell’ombra…ma se avessi dato attenzione al nero poiché la luce attorno è troppo intensa?! In fondo, le forbicine nella realizzazione della sagoma svolgono proprio questo lavoro: creano il confine con la luce. In Eco d’ombra i miei lavori volevano vivere dello spazio vicino. Ho cercato di essere più essenziale e “limpida” possibile, per far parlare il foglio nero e l’ombra, far emergere la mia essenza attraverso loro. Ho evidenziato il dialogo che le luci creavano con le ombre dei fogli lavorati, con superficie e forma delle sagome, confini netti e strappati, affinché l’emozione che ho provato in tanti anni trapelasse nei lavori e il ritaglio si rendesse vivo. Ho avuto la libertà di poter giocare con

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uno spazio molto più duttile di una pagina di libro, in cui anche il pubblico sarebbe entrato fisicamente. A volte mentre procedevo con il lavoro avevo l’idea di abbracciare a vuoto l’aria: non un testo a cui appigliarmi, nulla, solo un sentire astratto. Non è scontato metterlo a fuoco. Non è scontato far emergere un’essenza attraverso la materia! Penso che l’apparente durezza del nero buio di una sagoma sfumi in morbidezza quando, con il taglio, la luce descrive lo spazio attorno ad essa: probabilmente è lì che si coglie l’essenza di cui parli. E spero che questa sia rimasta pulsante nei miei lavori.

sintesi grafica raffinata e puntuale, anche in presenza di suggestioni astratte e sfruttando il rapporto di testo e figure con l’intera pagina, bianca o nera. Come ti sei relazionata con il testo e l’oggetto libro? Quello che faccio sempre di fronte ad un testo, dove è evidente la presenza di un autore, è cercare la sensibilità che lo conduce. La sfida è trovare l’accordo che dia armonia all’incontro e si traduca nel mio modo di percepire l’altro. I testi di Chiara esprimono un senso d’osservazione affettuoso verso la natura, con un uso della parola che appare spontaneo, immediato ed essenziale; caratteristiche, queste, che rendono al meglio anche nella papirografia. Potevo esserlo anch’io, con i miei strumenti, nulla di meglio! I Topi hanno con passione fatto la loro parte, curando la resa in stampa anche delle carte più trasparenti. Ci regali tre parole per raccontare la tua idea di illustrazione?

Poesie per aria, Chiara Carminati, illustrazioni di Clementina Mingozzi, Topipittori, 2008

In “Poesie per aria”, la raccolta di poesie di Chiara Carminati e pubblicata da Topipittori, sei riuscita a tradurre le parole evocative dell’autrice in una

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È scoprire un mondo, è per questo che mi emoziona. Devo andare incontro alla sensibilità dell’autore dei testi, cercando nell’immagine un’interprete visiva che renda possibile l’incontro, questa è la meraviglia. Non tanto trattare l’oggetto del narrare, quanto il soggetto narrante che mi si rivela. È come salire su un terzo pianeta intonso – la pubblicazione -, in cui l’impegno


Poesie per aria, Chiara Carminati, illustrazioni di Clementina Mingozzi, Topipittori, 2008

è costruire armonie. E tre per descriverti come illustratrice? Sono un’esploratrice. Mi piace pensarmi come un caleidoscopio: ogni frammento di vetro colorato è un frammento di immagine da me filtrato, da unire nel puzzle delle mie esperienze, scoprendo con stupore combinazioni inaspettate.

rografia: la possibilità di rispondere con la totalità di me stessa, senza equivoco, regalandomi però, allo stesso tempo, uno spazio di libertà in cui muovermi, insondabile e intoccabile.

Forse è questo che mi concede la papi-

BIBLIOGRAFIA

Nero lupo rosso Cappuccetto, Chiara Carrer, Nicoletta Ceccoli, Clementina Mingozzi, Octavia Monaco, Biblioteca Sala Borsa ragazzi, 2004, Bologna Poesie per aria, Chiara Carminati, illustrazioni di Clementina Mingozzi, Topipittori, 2008, Milano

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il bianco e il nero

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S I LV I A B O R A N D O

costruire libri è un gioco divertentissimo Per la nostra ultima intervista collegata al tema del Bianco e del Nero ci siamo rivolti a Silvia Borando che, oltre a essere grafica, illustratrice e autrice di libri per bambini, è anche editrice di Minibombo, realtà editoriale giovane e pimpante, apprezzata in egual misura dal pubblico e dagli operatori del settore. Nelle sue pubblicazioni, Silvia ricerca la semplicità, l’essenzialità, il gioco e l’interazione con il lettore. Il fondo bianco è per lei un punto di partenza imprescindibile.

INTERVISTE

libretti: si prendeva il foglio, lo si piegava, lo si spillava e si partiva a inventare con un pennarello nero o una matita. Se poi vogliamo invece metterla sul filosofico, l’intero progetto minibombo è improntato a un principio di semplicità, chiarezza e leggibilità, in cui rientrano appieno le mie scelte di grafica e illustrazione, tra cui, appunto, il fondo bianco, i colori pieni, pochi elementi sulla pagina e molta essenzialità.

Le tue pubblicazioni si caratterizzano per un ampio utilizzo dei fondi bianchi: da cosa dipende questa scelta? Quali possibilità ti offre lo spazio bianco in un libro per bambini? Il libro gatto, Silvia Borando, Minibombo, 2014

Il fondo bianco è, a mio avviso, l’essenza del libro, il punto di partenza per qualsiasi idea o suggestione. Ogni storia comincia molto concretamente dal foglio, dall’imbarazzo (o dal piacere a seconda dei casi!) dello spazio da riempire, dai primi segni ben evidenti sulla carta. Senz’altro alla base delle mie scelte c’è un motivo puramente autobiografico, perché questo è il mio modo di procedere fin da quando ero piccola e in famiglia si giocava a progettare

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Uno dei primi titoli di Minibombo è stato “Il libro bianco”, un wordless book (disponibile anche la versione app) che ha ricevuto numerosi apprezzamenti e che ha come protagonista un omino alle prese con uno spazio bianco da riempire, nel quale affiora a poco a poco il colore e la vita. Com’è nata l’idea di partenza del libro? E che ruolo gioca, in questo albo, il bianco?


Il libro bianco è nato essenzialmente dalla suggestione di questo piccolo imbianchino che dipinge, dando vita a un universo inatteso di cui nemmeno lui ha piena padronanza. Il libro è stato la nostra prima uscita in assoluto e internamente è sempre stato considerato una sorta di “manifesto” della casa editrice, perché passibile di innumerevoli interpretazioni metaforiche, tra cui, ad esempio, quella del processo di lettura, da cui scaturiscono infinite possibilità e molteplici punti di vista. Il famoso “spazio bianco” in questo titolo più che mai gioca un ruolo fondamentale, perché spinge il lettore a una partecipazione attiva senza la quale non è possibile proseguire nel racconto.

modo di essere?

Il libro bianco, Silvia Borando, Elisabetta Pica e Lorenzo

Il libro bianco, Silvia Borando, Elisabetta Pica e Lorenzo

Clerici, Minibombo, 2013

Clerici, Minibombo, 2013

Un altro elemento ricorrente nelle tue illustrazioni è la figura stilizzata, semplice, disegnata con pochi essenziali tratti usando il nero. Quanto lavoro c’è dietro questa apparente semplicità? O è semplicemente, scusa il gioco di parole, il riflesso del tuo

e rimango, ahimè, una grafica dalla testa ai piedi!

Come accennavo anche prima, innanzitutto prevale sicuramente una componente intima nel mio approccio all’illustrazione, che ha a che vedere con la mia esperienza fin dalla più tenera età in fatto di racconti: costruire un libro era un gioco, gli strumenti che avevo a disposizione erano foglio (bianco!) e matita o pennarello (in quel caso, nero!). È la mia attitudine personale, dunque, che mi spinge a optare per la semplicità, complici anche gli studi di grafica che mi hanno ulteriormente portata ad approfondire quella vocazione all’essenzialità. La mia è un’identità segreta: in questo momento, a causa delle circostanze, vesto i panni dell’illustratrice… ma sono

“Gatto Nero Gatta Bianca”, vincitore del Premio Nazionale Nati per Leggere 2015, è interamente basato sui contrasti del bianco e del nero. In

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breve, è la romantica storia di due gatti, uno bianco e uno nero, differenti in tutto e che conducono vite diametralmente opposte, fino a che, un giorno, si incontrano e si piacciono. Quanto ti sei divertita a giocare con il rapporto mai scontato tra bianco e nero, tra pieno e vuoto, nel segno dell’opposizione ma soprattutto della complementarietà?

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Gatto nero Gatta bianca, Silvia Borando, Minibombo, 2014

La vicenda di Gatto Nero, Gatta Bianca curiosamente comincia dalla fine, anche in questo caso da un ricordo della mia infanzia: a volte, nelle numerosissime cucciolate di gattini dai classici colori bianchi, neri o grigi, ne spuntava a tradimento uno arancione che sembrava venuto fuori dal nulla… così, partendo da questo spunto autobiografico, ho costruito a ritroso una storia giocata sulle opposizioni, cromatiche e non solo, utilizzando la pagina per rappresentare due mondi che a un certo punto finiscono con l’incontrarsi.

Nei tuoi libri non manca mai il gioco, l’esercizio della fantasia, il coinvolgimento diretto del bambino. Pensiamo agli albi della serie “Libro-cane”, “Libro-gatto”, “Libro-criceto”, a “Forme in gioco” e a tutti gli altri: illustrare e scrivere per i bambini cosa significa per te? Ci regali tre

Quella del bianco e nero è una scelta che mi ha innanzitutto aiutato nella fase ideativa e che ha condizionato tutto lo sviluppo del libro. In quanto struttura rigida e schematica che impone limiti e scelte ben precise ha costituito un forte stimolo, proprio perché mi ha permesso di incanalare idee e suggestioni seguendo un percorso più coerente e lineare e,…ovviamente, è stato divertentissimo!

Il libro criceto, Silvia Borando, Minibombo, 2014

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parole per descrivere la tua idea di editoria per l’infanzia? Spero di non dare una risposta troppo superficiale o irriverente se dichiaro che prima di tutto, per me, illustrare e scrivere libri per bambini è un grandissimo divertimento, quindi il tema del gioco è azzeccatissimo. Ho


la fortuna di fare un lavoro privilegiato che è anche la mia più grande passione; devo fare un enorme sforzo per simulare la noia e la fatica di chi al lunedì mattina ricomincia la settimana lavorativa. … Per chiudere, mi sembra giusto citare le tre parole che costituiscono il “mantra” di minibombo e che ripetiamo sempre quando cerchiamo di definire l’identità del progetto editoriale: semplicità, gioco e partecipazione. Semplicità che non deve coincidere con la semplificazione o banalizzazione ma piuttosto con l’estrema chiarezza e linearità dei contenuti; gioco, a indicare appunto che la componente ludica nella lettura – specie in quella rivolta ai più piccoli – non deve mai mancare; partecipazione, per evidenziare che quel divertimento è reso più intenso da una lettura attiva, costruita passo passo – ancor meglio se condivisa tra grandi e piccoli in uno scambio di idee e suggestioni!

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Marzo 2016 - Numero 01 Libri Calzelunghe è un gruppo informale di discussione e scrittura; i singoli contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori. La Redazione di Libri Calzelunghe è formata da: Matteo Biagi Valeria Bodò Angela Catrani Carla Colussi Barbara Ferraro Carla Ghisalberti Francesca Mariucci Marina Petruzio Federica Pizzi Barbara Servidori Beniamino Sidoti Alessandra Starace Virginia Stefanini Francesca Tamberlani

Gli articoli sono stati pubblicati online tra dicembre 2015 e gennaio 2016; questa versione in pdf è stata chiusa nel marzo 2016. www.libricalzelunghe.it libricalzelunghe@gmail.com Seguici su: facebook.com/libricalzelunghe twitter.com/libricalzelung1 Illustrazione di copertina: Loup noir di Antoine Guilloppé Les Albums Casterman, 2004 Tutte le immagini sono di proprietà dei rispettivi autori e sono pubblicate da libricalzelunghe.it a solo scopo divulgativo. È pertanto vietato modificare, copiare, riprodurre, distribuire le immagini, secondo le limitazioni previste dalla normativa vigente sul Diritto d’Autore.

Finito di stampare: Marzo 2016 Stampato presso: Tipografia Petruzio Viale Italia 3 - 23037 Tisano (SO) Progetto grafico, logo e impaginazione: Antonio Volino Redazione web: Barbara Ferraro, Virginia Stefanini, Francesca Tamberlani .

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale. Tutti i contributi qui citati (testi, immagini e link) sono legati ai rispettivi©


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