MOSCHINI DA TUSCANIA scultore contadino

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Paesaggi babelici collana diretta da gabriele Mina



Moschini da Tuscania scultore contadino a cura di gabriele Mina

linaria


Prima edizione dicembre 2013 Š 2013 linaria, Roma, Vicolo dell’atleta, 6 associazione costruttori di babele i diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microďŹ lm e le copie fotostatiche) sono riservati. isbn 978-88-907017-3-3 Foto della copertina di guido Votano esecutivo per stampa di Voltapagina, Torino stampato in italia da ograro srl, Roma www.costruttoridibabele.net www.linariarete.org


indice

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altri etruschi. intorno allo scultore Moschini Pietro di Tuscania

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Fili tesi. dialogo con Mario ciccioli

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storia di una casa-museo

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Riferimenti



altri etruschi. intorno allo scultore Moschini Pietro di Tuscania

Pietro Moschini (1923-2011) non ha fatto in tempo a godere dei riconoscimenti in qualità di artista outsider. Possiamo però immaginare cosa avrebbe fatto degli articoli, delle fotografie che indugiano sulle centinaia di teste scolpite e sul suo incantevole bestiario in legno e pietra, di queste stesse pagine, concepite mentre si allestiva la sua casa-museo a Tuscania. avrebbe probabilmente appeso tutto alle pareti di casa, fra maschere di sughero, ritagli di giornale, vecchi attrezzi, inglobandolo nel suo inesauribile racconto intorno allo «scultore Moschini Pietro». Tutto, in fondo, tornava utile per esprimersi, come testimonia la quantità delle opere che ha lasciato, realizzate in più di mezzo secolo di lavoro utilizzando con maestria materiali diversi (molti tipi di legno, nenfro, gesso, gasbeton…). non gli mancava poi l’attenzione nel rappresentare scenicamente la sua figura e la sua arte. un cappello elegante in testa, in mano uno strumento di lavoro, lo ammiriamo 7


in posa accanto al suo popolo scolpito, di fronte all’obiettivo fotografico o alla telecamera, in filmati che lui stesso faceva realizzare per «vedersi in televisione». grazie al suo orgoglio d’autodidatta possediamo una rara documentazione e un vivace ritratto di un uomo fiero della sua unicità, mentre con uno dei suoi bastoni lavorati indica – a mo’ di bacchetta – le sue creazioni, enumerando materiali («questo è noce… questo è ceraso… questo peperino…») e il soggetto («quadro d’oche… quadro di starne…»). da vera guida, insomma, ancor prima che la sua casa diventasse un museo, Pietro presentava le sue opere e se stesso, uomo dei campi e scultore. alcuni cenni biografici: Moschini (o «Moschino», così come spesso era chiamato) frequenta la prima elementare, poi fa il buttero, il carrettiere, il contadino, il fattore per un possidente locale. Tutta la sua esistenza si svolge a Tuscania, tranne qualche breve parentesi (la leva militare); le date essenziali sono quelle legate al matrimonio (nel 1945, con Maria, la donna che gli starà a fianco per più di sessant’anni), alla compravendita delle terre e delle case, al terremoto del 1971. e ancora, per caratterizzare un poco il personaggio: la faccia larga, corpulento, l’accento dell’alto lazio, incrollabile nelle sue credenze, autoritario, parlatore instancabile… Raccontando della sua arte, Moschini ritornava sempre su temi caratteristici, come la fedeltà al modello. Qui per lui risiedeva la vera abilità dello scultore: saper riproporre, nel legno e negli altri materiali, i segni distintivi di ciascun personaggio. il suo catalogo è un repertorio di copricapo, acconciature e barbe, cinture, decorazioni circolari e simme8


triche, bocche, posture. i soggetti da riprodurre con abilità, «fatti bene» (criterio artigianale primo), davvero non gli mancavano: sovrani e guerrieri, apostoli e cardinali, attori del cinema, donne e madri con bambino, totem con decine di volti sovrapposti, animali da cortile ed esotici che mangiano, si scontrano, si accoppiano… altrettanto tipico il culto dell’ispirazione, per il quale la creazione è un dono innato, che non ammette apprendistato e rende unico colui che la detiene. «la scultura è dentro», ripeteva, «scultori si nasce, non si diventa», le opere «mi scappano fuori da loro», «me le invento da me, fo quello che ho pensato», «l’ho disegnate col cervello». lo stesso Moschini, insomma, insisteva su quella «veracità» che è un luogo comune della retorica dell’art brut. il mito della naturalezza ha una lunga storia: seguiamo ora un filo che ci riporta ad altri sguardi, in cerca di sussulti arcaici fra Toscana e lazio. nel 1927 – Moschini era ancora piccolo – david herbert lawrence, l’autore di Lady Chatterley, si dedicava a un personale tour fra campagne e necropoli etrusche, Volterra, Tarquinia, cerveteri. così annotava in Etruscan Places, il suo resoconto del viaggio, pubblicato cinque anni più tardi: nelle forme e nei ritmi, nei pieni e nei vuoti di questo mondo sotterraneo c’è semplicità unita a una particolarissima naturalezza, una spontaneità a pieni polmoni che immediatamente rinfranca lo spirito. i greci volevano fare bella figura e il gotico cerca invece di far colpo sull’intelletto: non così gli etruschi. Tutte le cose che fecero nei loro secoli di libertà furono naturali e spontanee come un re9


spiro. […] vivide figure dipinte in rilievo, modellate a mano libera: gaie creature danzanti, file di oche, facce tonde come il sole, mascheroni con boccacce e la lingua di fuori. […] Tutto è piccolo e gaio, vivace e spontaneo come può esserlo solo la gioventù. se gli affreschi non fossero così malandati saremmo completamente soddisfatti, perché abbiamo trovato la vera vitalità e la naturalezza degli etruschi…

Molte pagine dedicate ai naives delle necropoli potrebbero essere sovrapposte alle parole di e su Moschini. l’etruscofilia britannica era iniziata fin dal xix secolo grazie anche al fortunato The Cities and Cemeteries of Etruria del console georges dennis, cui fecero seguito gli itinerari in italia centrale di viaggiatori e letterati, come aldous huxley, amico di lawrence. non pochi intellettuali europei, esteti dell’ingenuità e della spontaneità, inseguirono fra butteri maremmani e umili pastori l’eredità del misterioso spirito etrusco, contrapposta al classicismo e alla grandiosità romana. Persone e cose in queste pagine si fondono in un tutt’uno con un paesaggio fuori dal tempo dove ogni antro (grotta, tomba, riparo) promette una rivelazione. ecco dunque che i caratteri antropologici e gli stereotipi della civiltà pastorale incontrano il mito delle rovine e degli etruschi: gli occhi del visitatore e dello scopritore (ieri degli «spontanei» etruschi, oggi degli «spontanei» autodidatti) sono ben disposti a cogliere un’epifania che restituisca qualcosa dell’innocenza arcaica. se le tracce dell’antica grandezza romana ispirano meditazioni urbane di sapore decadente, le campagne intorno alle necropoli etrusche dell’italia centrale rimandano alla circolarità del 10


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tempo, alla permanenza dei gesti, alla genuina vicinanza con la terra e gli animali. echi dionisiaci addomesticati, folklore, architetture singolari: sono gl’ingredienti ricercati da herbert list, fotografo tedesco suggestionato dal neorealismo e dai miti mediterranei. del 1952 è un suo affascinante scatto nel Parco dei Mostri a bomarzo, che riassume l’immaginario qui indagato: la famosa bocca spalancata dell’orco non ospita un cavaliere o un intellettuale, ma un pastore, attorniato dal suo gregge. un orizzonte popolare di sapore francescano che seppe ben cogliere Pier Paolo Pasolini in Uccellacci e uccellini (1966), dove una coppia di picari e frati, Totò e ninetto davoli, cammina per campi e ruderi sotto il cielo di Tuscania solcato da falchi e passeri. il richiamo etrusco ci offre un’ulteriore suggestione: la messa in scena. una figura esemplare fu Vincenzo campanari, possidente di Tuscania, letterato e abile archeologo, fra i primi a intuire la potenzialità del mercato di reperti in europa. sbarcato con i figli in inghilterra, organizza nel 1837 una grande mostra nel rinomato quartiere londinese di Pall Mall, con i materiali rinvenuti in molteplici campagne di scavo. la mostra dei campanari a londra è una tappa importante nella storia dell’allestimento museale: un privato, con la sua formidabile collezione, aveva saputo coniugare per il pubblico documentazione scientifica e gusto per lo spettacolo, proponendo ai visitatori un’emozionante discesa nella penombra alla scoperta delle antiche tombe. l’esposizione riscosse un vasto successo, contribuendo alla singolare moda degli etruschi: il british Museum, rispondendo all’appello di 12


svariati intellettuali, acquistò tutti i pezzi in mostra. a Tuscania, nel giardino di casa campanari, rimase un piccolo museo privato (oggi non più presente) con sarcofagi che incantavano gli ospiti. non parrà azzardato accostare alle spettacolari mostre dei campanari le piccole esposizioni private di un contadino analfabeta. il nostro non era interessato alla vendita, quando i campanari erano intraprendenti mercanti: non di meno è comune la propensione per l’allestimento, l’esibizione degli oggetti in forma di ricco corredo capace di solleticare e appagare la vista. Quel corredo lo osserviamo anche in una testimonianza insperata offerta da La Cornacchia disse Crai di antonello Proto e Paolo isaja, documentario del 1979 sul post-terremoto (il sisma del ’71 è un evento poco ricordato nella storia nazionale, ma ovviamente è un passaggio determinante della storia anche urbanistica di Tuscania). nelle immagini di quanti vivevano nelle baracche ecco comparire Pietro Moschini, con tanto di sculture allineate di fronte alla sua povera dimora. la tendenza all’esibizione e alla saturazione degli spazi non ha niente di ossessivo: andrà piuttosto ricondotta al gusto per la pienezza e la fecondità, all’orgoglio di far fruttare qualsiasi cosa (il legno come la vigna, la terra, il bestiame), all’ingegno e alla consuetudine di non gettare via nulla, riutilizzando gli oggetti, in nome di quell’arte della sopravvivenza tramandata per innumerevoli generazioni. i luoghi in cui Moschini ha vissuto e lavorato sono veri e propri allestimenti: il terreno più incolto e anonimo in breve tempo diventava sotto le sue mani un giardino florido, un trionfo vegetale. 13


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