Raccolta articoli 2021

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IL MESTIERE PIÙ BELLO DEL MONDO: GOVERNARE INCIPIT “Il piacere di governare deve senza dubbio essere squisito, se dobbiamo giudicare dal grande numero di persone che sono ansiose di praticarlo”. (Voltaire) “Governare è l'arte di creare problemi la cui soluzione mantiene la popolazione nell'inquietudine”. (Ezra Pound) “Il miglior governo è quello che attiva il meglio dell'intelligenza della nazione”. (Ezra Pound) “Per il bene degli Stati sarebbe necessario che i filosofi fossero re o che i re fossero filosofi.” (Platone) “Forse, se esistesse una città di uomini buoni, si farebbe a gara per non governare come adesso per governare, e allora sarebbe evidente che il vero uomo di governo non è fatto per mirare al proprio utile, ma a quello del cittadino”.(Platone) “Dove si incrociano le tue capacità e le necessità del mondo risiede la tua chiamata”. (Aristotele) “Quelli che hanno in animo di occupare le più alte cariche di governo devono possedere tre doti: innanzitutto, attaccamento alla costituzione stabilita, in secondo luogo una grandissima capacità nelle azioni di governo, in terzo luogo virtù e giustizia”. (Aristotele) “Quando il mare è calmo, ognuno può far da timoniere”. (Publilio Siro) “Poche mani, non sorvegliate da controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa”. (Antonio Gramsci) “Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano. Chi vuol governare deve imparare a dire no”. (Benito Mussolini) “Quando il potere è in mano di uno solo, quest'uno sa di essere uno e di dover contentare i molti; ma quando i molti governano pensano soltanto a contentar sé stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà”. (Luigi Pirandello) “Quando il popolo teme il governo c'è tirannia. Quando il governo teme il popolo c'è democrazia”. (Thomas Jefferson) “Viviamo in un'epoca pericolosa. L'essere umano ha imparato a dominare la natura molto prima di aver imparato a dominare sé stesso”. (Albert Schweitzer) “Con cattive leggi e buoni funzionari si può pur sempre governare. Ma con cattivi funzionari le buone leggi non servono a niente”. (Otto von Bismark) “Tre cose sono impossibili: insegnare, guarire, governare”. (Anna Freud) “Lasciate che la gente creda di governare e sarà governata”. (William Penn) “Il governo non è fatto per la comodità e il piacere di coloro che sono governati”. (Conte di Mirabeau) “Qualsiasi governo è, in certa misura, un male”. (Albert Einstein) “Non è facile avere un bel giardino: è difficile come governare un regno. Ci si deve risolvere ad amare anche le imperfezioni, altrimenti ci si illude”. (Hermann Hesse) “In Italia contro l'arbitrio che viene dall'alto non si è trovato altro rimedio che la disobbedienza che viene dal basso”. (Giuseppe Prezzolini) “Ogni nazione ha il governo che si merita”. (Joseph Marie De Maistre) “Occorre un determinato grado di autonomia per guidare in modo serio un esecutivo”. (Giuseppe Conte) “Forse è arrivato il momento di riconsiderare i dogma dell’illuminismo, a cominciare da quello che considera la democrazia il miglior sistema di governo possibile”. (Lino Lavorgna)


DALLA MONARCHIA ALL’OCLOCRAZIA Erodoto prima, Platone e Aristotele subito dopo, avevano ben intuito l’evoluzione ciclica dei regimi politici verso continue forme di deterioramento, il ritorno alla forma iniziale dopo aver raggiunto l’ultimo stadio e l’inizio di un nuovo identico ciclo. Polibio, nel libro sesto delle Storie, perfeziona tale assunto elaborando la teoria dell’anaciclosi. Con evidente riferimento a quanto già sancito da Aristotele nel libro terzo della Politica, infatti, l’eminente storico sostiene che, le buone forme di governo, in cui trionfano giustizia e ragione, si alternano a forme di governo corrotte, dominate dalla violenza, dalle passioni e dagli interessi individuali. La monarchia, retta da un solo individuo, nella fase corrotta, si tramuta in tirannide; la parte migliore dei cittadini si ribellerà alla tirannide dando vita a un'aristocrazia, inevitabilmente destinata a degenerare nell’oligarchia; per correggere i guasti dell’oligarchia si darà vita alla democrazia, a sua volta destinata a degenerare nell’oclocrazia, che porta il governo alla mercé dei desideri insulsi delle masse, sempre incapaci di guardare al di là del proprio misero orticello. Per Polibio le pubbliche elezioni dovrebbero consentire di delegare il potere agli uomini più giusti e assennati. Non è democrazia, infatti, “quella nella quale il popolo sia arbitro di fare qualunque cosa desideri, ma quella presso la quale vigano per tradizione la venerazione degli dei, la cura per i genitori, il rispetto degli anziani, l’obbedienza alle leggi e infine quella nella quale prevalga l’opinione della maggioranza”. Il concetto di oclocrazia non ha ricevuto un’adeguata attenzione nei trattati di politologia e nelle analisi sociologiche. Plutarco ne parla nel primo capitolo del De unius in republica dominatione; Lucio Cassio Dione, uno storico "minore" del II secolo, lo cita nel libro 44 della sua corposa Historiae Romanae, (ben ottanta libri che vanno dalla leggenda di Enea fino al 229 d.C). In epoca moderna il solo Rousseau, nel Contratto sociale (Libro III, cap. X), lo definisce un elemento degenerativo della democrazia a seguito della dissoluzione dello Stato. Per gli intellettuali e politologi contemporanei, in massima parte asserviti a dei padroni, il concetto è pressoché sconosciuto, quando non volutamente misconosciuto. Fatti salvi pochi paladini della verità, infatti, è impossibile mettere alla berlina chi, senza porsi alcun limite etico, difenda con unghie e denti la poltrona e chi, quella poltrona bramando, combatte con non minore vigore e pari spudoratezza. MASSE E POTERE Ne abbiamo parlato più volte e non è il caso di ripeterci. Caso mai, di volta in volta, è sempre opportuno aggiungere qualche nuovo tassello. Solo pochi mesi fa, nel numero 87 di “CONFINI” (luglio-agosto), abbiamo posto in evidenza come gran parte del Pianeta fosse governato da classi politiche di infima qualità, senza fare cenno alla parte restante, nella quale la situazione è peggiore. Perché accade tutto ciò? Perché negli USA ben settanta milioni di persone sono state capaci di votare per un tizio come Trump e oltre ottanta milioni hanno votato per un suo antagonista, senz’altro migliore, ma di certo non degno di passare alla storia come il presidente USA più votato? Una bella risposta è offerta dal filosofo canadese Alain Deneault (manco a dirlo: è nato nel Quebec e quindi ha un’anima "completamente" francese), autore del saggio "La mediocrazia. Come e perché i mediocri hanno preso il potere" (Editore Neri Pozza, 2017). Un saggio che non dovrebbe mancare in nessuna libreria perché, con


un linguaggio chiaro e privo di fronzoli retorici, l’autore spiega il centrismo dei mediocri. Una precisazione. La traduzione di Roberto Boi non è male, ma se davvero si vuole godere lo stile di Deneault si consiglia senz’altro l’edizione originale: “La médiocratie”, Lux Éditeur, Montreal, 2015.

“Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere”. Questo è l’incipit del saggio, che lascia presagire una gustosa – e allo stesso tempo amara – disamina sulla scellerata condotta di miliardi di esseri umani. Per Deneault il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti, i mediocri, a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti: i primi sono "pericolosi" perché ingestibili; i secondi per ovvi motivi legati alla loro inefficienza. Va tenuto presente, per quest’ultimo aspetto, che l’autore parla da franco-canadese e la sua analisi, ancorché intrisa di valenza universale, è pur sempre commisurata all’esperienza personale, legata al territorio: le dinamiche della società italiana, per esempio, che spingono il fenomeno da lui analizzato fino all’esasperazione e tendono a promuovere anche gli incompetenti, meglio gestibili dai burattinai, gli sono ignote o non sufficientemente note. La competenza del mediocre, quindi, non deve mai essere tale da mettere in discussione le perversioni del sistema. Lo spirito critico non deve mai consentirgli di andare a fondo delle problematiche, anzi, molto meglio chi non si ponga proprio dei problemi di coscienza e agisca serenamente nel "supremo" interesse delle lobby da cui dipende, il che vuol dire cinicamente. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve "giocare il gioco", ossia accettare i comportamenti informali, i compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, sottostare a regole malsane, chiudere un occhio e spesso entrambi. Si deve falsificare un rapporto? Lo si faccia. Si deve scrivere tanto senza dire nulla? Il mediocre è maestro in questo. L’importante è essere leale nei confronti di chi paga, siano essi i venditori di armi che negli USA non consentono di cancellare il secondo emendamento o i criminali delle multinazionali che impongono i loro parametri per vendere cibo spazzatura e inquinare impunemente l’ambiente. La gente muore? Al mediocre non interessa. Fa parte del gioco. Un gioco che lui è bene felice di giocare perché lo rende partecipe del dominio del mondo! "Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale", è questo l’obiettivo perseguito dal mediocre. È possibile una inversione di tendenza? Che ciò sia fondamentale per preservare la specie umana è fuor di dubbio: “La mediocrità rende mediocri”, spiega Denault. È contagiosa e funge da barriera invalicabile per la meritocrazia, per l’intelligenza, per la genialità. Allo stesso tempo non nasconde quanto sia difficile un processo inverso e a tal proposito cita un brano del "Discorso sulla stupidità"di Robert Musil: “Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe”. Per evitare il futuro disastroso che ci aspetta, pertanto, Deneault suggerisce di iniziare con piccoli passi quotidiani, resistendo alle tentazioni e imparando a dire "no" quando sia necessario. Occorre imparare a non accettare compromessi lesivi del bene collettivo; rifiutarsi di ottenere vantaggi professionali senza merito,


danneggiando gli altri; di vendersi; di prostituirsi; di accettare doni offerti per captatio benevolentia; di rendersi complice di chi, in politica, nelle istituzioni, nelle aziende, giochi sporco per meri interessi personali. DEDICHE Non saranno sfuggite, ai miei quattro lettori, le profonde assonanze con la realtà attuale, insite in molti passi dell’articolo, e il riferimento ai tanti omuncoli che, indegnamente, suonano la grancassa in modo sconsiderato e ossessivo, contribuendo ad aumentare il rumore. Secondo una consolidata propensione, almeno in questo magazine, a meno che non sia strettamente necessario, evito i riferimenti espliciti e tendo a privilegiare una formula minimalista, conferendo a certi soggetti il peso che meritano in un contesto di alto respiro, prossimo allo zero, e non quello rilevantissimo giustamente tributato dalla cronaca. Proprio per la massiccia abbondanza dei suonatori di grancassa, però, è giusto gratificare chi riesca a distinguersi per coraggio e stile di vita, rischiando molto. La prima dedica è per Francesco Zambon, coordinatore dell’Oms nella sede di Venezia, autore di un rapporto che ha messo in luce le discrasie della Sanità in tema di pandemia. Il documento rivela che il piano anti-Covid ricalca il piano pandemico anti-influenzale del 2006, copiato anno dopo anno, con formula “copia e incolla”, senza mai essere aggiornato. Il ricercatore definisce la risposta del Paese all’epidemia “caotica e creativa”, non sottacendo la gravità delle azioni commesse, che tra l’altro si configurano come reato. Il numero due dell’Oms ed ex direttore generale della prevenzione al ministero della Salute, Ranieri Guerra, con un comportamento che è poco definire osceno e criminale, ha fatto sparire tutte le copie del rapporto nel giro di 24 ore, dopo aver minacciato invano Zambon affinché provvedesse a falsificarlo. Una copia, però, è all’attenzione della Procura di Bergamo, che indaga per epidemia colposa e falso. È opinione diffusa che la denuncia dei ricercatori, addirittura antecedente alla stesura del rapporto, se fosse stata presa seriamente in considerazione, avrebbe consentito di salvare la vita ad almeno diecimila persone solo in Italia e diverse centinaia di migliaia negli altri Paesi! La stessa Oms impone che i piani pandemici siano aggiornati ogni tre anni perché cambiano continuamente le conoscenze, le tecnologie, le strategie sanitarie. Se è grave, pertanto, la ben conclamata leggerezza del nostro sistema sanitario, non può trovare giustificazione alcuna il comportamento del vertice dell’Oms, che oramai ha perso credibilità. È bene precisare, infatti, che il direttore generale, invece di cacciare il suo vice a calci nel sedere, lo ha sostenuto nella criminale azione, impedendo anche che Zambon si recasse in Procura a rendere testimonianza, adducendo come scusante il ruolo diplomatico esercitato. Una spudoratezza che offende e indigna, tanto più perché aggravata dall’esplicita minaccia di licenziamento. La seconda dedica è per un uomo che, da oltre cinquanta anni, e quindi in un’epoca segnata dalla profonda crisi dei valori a tutti nota, vive all’insegna di quei precetti paventati da Deanult per favorire l’inversione di tendenza, esaltati da uno stile configurabile a quello di un leggendario cavaliere della tavola rotonda. Da giovane, in un sistema marcio fino al midollo, è riuscito a vincere quattro importanti concorsi pubblici, solo per esclusivo merito e con lo svantaggio di essere noto per la militanza, attiva e qualificata, nel vecchio MSI. Non esitò a dimettersi "al buio", dal ministero dell’Interno, nonostante l’importante ruolo ricoperto e le


brillanti prospettive di carriera, quando si sentì dire dal capo del personale che non sarebbe mai stato trasferito dalla città della Toscana dove prestava servizio perché “uno come lui doveva ringraziare il cielo solo per essere riuscito a vincerlo, il concorso”, con esplicito riferimento al ruolo politico ricoperto e alla mancanza di "santi protettori". Dopo le dimissioni, rispondendo a una semplice inserzione su un quotidiano, fu assunto da una importante banca di Napoli, dalla quale si dimise dopo un anno, essendosi reso conto che il lavoro non era compatibile con i suoi principi etici. Ritornato a lavorare in una primaria struttura ministeriale, poi trasformatasi in importante S.p.a., dove prestava servizio prima di essere assunto al ministero dell’Interno, fu chiamato a svolgere un ruolo dirigenziale in una sede periferica provinciale, vessata da gravi interferenze politico-sindacali, affinché "mettesse ordine in quel verminaio". Dopo tre anni di vani tentativi per indurlo "a miti consigli", ricevette un esplicito ricatto: o diventava più morbido o sarebbe partito un esposto in quanto il ruolo ricoperto era ben tre livelli superiore a quello effettivo. Non esitò ad abbandonare l’incarico pur di non "vendersi", rinunciando, quindi, alla legittimazione prevista per chi svolgeva mansioni superiori per un determinato lasso di tempo, che gli avrebbe garantito prestigio e tanti soldi in più. Analogo spirito è stato sempre profuso in qualsiasi contesto professionale e politico, senza mai cedere di un millimetro alle pur significative e allettanti sollecitazioni. Il prezzo pagato in termini sociali è stato altissimo, ma molto più alta è la gioia di poter vantare la schiena dritta e l’assoluta libertà di pensiero e azione. Il suo nome? Non ha importanza. Basta sapere che esiste e che, da qualche parte, vi sono senz’altro tanti uomini come lui. Sconfiggere la mediocrità che regna sovrana non è impresa semplice, ma vale la pena di tentare.


DONNE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI PREMESSA Una società che pone l’ipocrisia relazionale tra le principali fondamenta della sua essenza ha bisogno di molte sovrastrutture concettuali per non implodere. Una di esse è il cosiddetto “politically correct” che, apparentemente, dovrebbe designare un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, anche di coloro che facciano venire la voglia di prendere un nodoso bastone ogni volta che vomitano scemenze. I capisaldi di una società civile, che contemplano l’abiura dei pregiudizi razziali, etnici, religiosi, politici, di orientamento sessuale e altro ancora, non necessitano di doppioni che, proprio perché intrisi di ipocrisia, perdono consistenza qualitativa e risultano semplicemente patetici. In questo articolo si parla delle donne del nostro tempo, con estrema franchezza e quindi senza alcun ricorso alle strumentali regole del politically correct, il che non vuol dire mancare loro di rispetto bensì manifestare in modo più sano un sincero amore, analogo a quello che un bravo padre riversa sui propri figli. Il titolo, che rimanda a quello di un celebre film, è volutamente fuorviante. Nel film, infatti, si parla di donne stressate per colpa di bislacchi comportamenti maschili; nell’articolo, le donne, ovviamente non tutte (doverosa precisazione a scanso di equivoci), sono sì "sull’orlo", ma di un burrone nel quale annaspano uomini affranti da distonie comportamentali al limite dell’umana sopportabilità. Tutto questo, sia detto sempre a scanso di equivoci, al netto dell’ingiustificabile comportamento, da condannare senza appello, di uomini in palese ritardo evolutivo, incapaci di porre freno ai propri impulsi primordiali, che manifestano unicamente l’inadeguatezza alla convivenza in un consorzio civile. ANAMNESI DI UNA MAMMA CRETINA Quotidiano napoletano "Il Mattino", edizione web, 7 dicembre 2020. Un cronista intervista persone nel corso di una manifestazione contro la chiusura delle scuole. “Sono una madre, oltre che una cittadina, arrabbiata, anche perché mio figlio, in prima elementare, è riuscito a rientrare a scuola, ma mi sento appesa a un filo di decisioni arbitrarie e immotivate. Questo conflitto interistituzionale che si è creato sulla scuola, domani si potrà creare su altri aspetti della vita civile. È molto pericoloso. Dobbiamo muoverci per la scuola, per l’istruzione, ma, in generale, per la democrazia. Mio figlio ha fatto rientro, fortunatamente. È tra i pochi fortunati. Ovviamente è diventato un altro bambino e lo dico senza retorica: è evidente che la vita gli è completamente cambiata. Però è ritornato in una scuola vuota, in cui ci sono solo le due prime. Sono ritornati quasi tutti i suoi compagni di classe e quindi non è vero che i genitori poi non mandano i figli a scuola (ridacchia, N.d.R.). Però devono tornare anche gli altri! (Tono austero, imperativo, non esortativo, N.d.R.). Sono i cittadini di domani. Io non voglio vivere in una società, domani, in cui ci sono ragazzi alienati che hanno vissuto i migliori anni della loro vita nell’alienazione. Non siamo negazionisti. Il covid durerà a lungo o comunque le conseguenze del covid dureranno. Allora non si può tutelare soltanto il diritto alla paura”. Non tragga in inganno qualche sfasatura sintattica. La signora molto probabilmente ha una bella laurea e riesce ad argomentare dando un filo logico al discorso.


Lascia trasparire il senso civico (non parla per sé, ma per gli altri, visto che il figlio è ritornato a scuola); il senso materno (non basta il solo rientro delle prime: per l’equilibrio psicologico occorre che tutti tornino a scuola); la fermezza delle proprie idee e l’autoreferenzialità (il governo non si rende conto che la chiusura delle scuole, anche di pochi mesi, formerà una generazione di alienati). Su questo punto, onestamente, è lecito chiedersi se l’asserzione sia ascrivibile a un reale convincimento o ad altro. Con abilità degna di un politico navigato, infine, riesce a ben esprimere quella che, quando non sia espressione di una manifesta volontà mistificatoria, in psicologia è considerata una devianza psicotica: il bambino addirittura è tornato a nascere con il rientro a scuola, cosa che evidentemente esiste solo nella sua mente; il covid durerà a lungo: espressione senza senso in un contesto sociale che abbia come perno il relativismo di einsteiniana memoria; non si può tutelare soltanto il diritto alla paura: espressione a effetto che serve a trasmettere un’immagine distorta della realtà, spacciando per vero ciò che vero non è, o per devianza psicotica o per cosciente mistificazione. In ogni caso abbiamo una mamma saccente, che parla come se fosse in grado di comprendere tutte le dinamiche da valutare prima di assumere qualsivoglia decisione, forte delle proprie convinzioni elevate al rango di dogma, che non esiterebbe a mandare i ragazzi a scuola, se potesse, senza prendere in considerazione i rischi connessi all’assembramento, soprattutto quello che si verifica sui fatiscenti mezzi pubblici. Atteggiamento antico e diffuso del resto, che la particolare contingenza pandemica contribuisce solo a mettere maggiormente in luce. “È un peccato che le persone che sanno come far funzionare il paese siano troppo occupate a guidare taxi o a tagliare capelli”. La battuta, pronunciata da George Burns, attore comico molto popolare negli USA, fu ripresa negli anni settanta da un simpatico e arguto parlamentare toscano, Franco Franchi, che la adattò alla realtà italiana aggiungendo anche il ruolo di allenatore della nazionale di calcio: in quegli anni, infatti, le rubriche epistolari dei quotidiani sportivi pullulavano di formazioni inviate dai lettori, ciascuna delle quali ritenuta la migliore per vincere i mondiali e composta con almeno sei giocatori della propria squadra del cuore. Cosa dire di una mamma del genere? Che non è degna del delicato ruolo e che avrebbe bisogno di un serio percorso formativo, subito dopo una sana terapia per la destrutturazione dell’ego. Non è un caso isolato, come ben si evince dalla cronaca quotidiana, e del resto abbiamo un ministro dell’Istruzione, donna, che ragiona più o meno allo stesso modo. I RITI INSULSI DELLE GIORNATE CONTRO Ogni anno, il 25 novembre, si celebra la “giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. È una buona idea l’istituzione delle giornate contro i mali del mondo ma, nel contempo, cerchiamo di comprendere che non è con le celebrazioni che si risolvono i problemi. Relativamente alla violenza contro le donne, i dati, spaventosi, sono facilmente reperibili in centinaia di siti web: nel mondo si verificano mediamente 140 femminicidi al giorno, uno ogni dieci minuti. Secondo i dati diffusi dall'Eures, in Italia, nei primi dieci mesi del 2020 si contano 81 femminicidi, che salgono a 91 sommando anche le morti legate alla criminalità


comune o a contesti di vicinato. Mancano i dati di novembre e dicembre che, salvo errore, dovrebbero far passare il numero complessivo da due a tre cifre. Lo scorso anno si è chiuso con 73 femminicidi; 74 nel 2018; 68 nel 2017; 143 nei due anni precedenti. Migliaia i casi di violenza domestica, molti dei quali non denunciati. Qualche anno fa, in occasione della ricorrenza, effettuai un sondaggio, intervistando cento persone, per lo più giovani, in un centro commerciale. Chiesi se erano informati in merito e, a coloro che risposero affermativamente, se erano in grado di spiegare perché la ricorrenza si celebrasse proprio il 25 novembre. Il risultato fu catastrofico. Nessuno citò correttamente l’intestazione della ricorrenza, per lo più definita "giornata mondiale contro la violenza sulle donne", a riprova dell’infelice scelta operata dalle teste pensanti dell’ONU, che qualsiasi esperto di comunicazione, anche della più scalcinata agenzia pubblicitaria, avrebbe sconsigliato. Quasi il 90% era sì a conoscenza della ricorrenza, ma nessuno fu in grado di spiegare il perché della data. La colpa non è del tutto loro: nel nostro Paese si parla poco o punto del feroce dittatore caraibico colpevole di crimini efferati e dell’uccisione delle sorelle Mirabal, il 25 novembre 1960; in TV non si trasmette mai il celebre film "Il tempo delle farfalle", impossibile da reperire anche in DVD e, nemmeno in occasione della ricorrenza, si parla dell’omonimo romanzo di Julia Alvarez, da cui il film è tratto e che disegna il vero volto della tirannide maschile intrisa di violenza contro le donne. Una omertà che sa tanto di ingiustificata tolleranza, essendo stato quel nefasto personaggio uno dei pupilli-pupazzi prediletti di mamma America, alla pari di un suo omologo più famoso, il cubano Batista. Ciò premesso, nei giorni a cavallo della ricorrenza, si assiste a un vero e proprio bombardamento mediatico sulla violenza maschile, scandagliata in tutte le sue dinamiche, anche in modo eccelso e difficilmente confutabile. Passata la buriana, però, si tornano a contare le vittime, in attesa di ripetere il rito nell’anno successivo. Scarsa attenzione, infatti, viene dedicata a un aspetto del problema che, se opportunamente sviluppato, potrebbe contribuire sensibilmente al contenimento del triste fenomeno: l’approccio psicologico delle donne nei confronti dell’universo maschile, sia in senso lato (fiducia concessa con eccessiva facilità) sia in caso di crisi (sindrome della crocerossina; riluttanza nel denunciare subito gli atti di violenza; propensione ad accettare "l’ultimo incontro" dopo la rottura di un rapporto, che spesso si conclude in modo tragico). I fatti accaduti, come sempre, contribuiscono a meglio chiarire le idee. Partiamo da un esempio molto eloquente, verificatosi qualche anno fa a Napoli. Una sedicenne riceve una telefonata da un’amica, alle 17 del pomeriggio, con invito a recarsi in un negozio del centro per degli acquisti. La ragazza, di buona famiglia, ben educata, brillante studentessa, sa che deve comunicare ogni cosa ai genitori e pertanto telefona al papà per dirgli che sta per uscire e sarebbe rincasata per cena. Il padre, bancario, le dice che sarà a casa alle 18. La famiglia abita in una zona residenziale, in un parco con sbarre all’ingresso, sorvegliato da un guardiano che non sfigurerebbe in un reparto speciale dell’esercito. Una sedicenne, vivaddio, impiegherà un po’ di minuti per prepararsi a una passeggiata pomeridiana e quindi l’ora che separa l’uscita dal rientro del papà si accorcia sicuramente di molto. Nondimeno rispetta le chiare istruzioni ricevute per "difendere i propri beni"


e, con gesto istintivo e abituale, attiva l’antifurto e chiude la porta a doppia mandata, nonostante il rischio reale di effrazione in quel parco sia prossimo allo zero. La giovinetta, ben educata a tutelare i beni patrimoniali, non ha ricevuto pari formazione nel tutelare sé stessa, alla pari della sua amica. Passeggiando per via Toledo, pertanto, le ragazze accettano senza indugio l’invito di due bellimbusti in moto a farsi un giro con loro: all’epoca non esisteva la ZTL. Il resto non serve scriverlo. Non molto tempo dopo, in una discoteca abruzzese, una ragazza di Roma accettò l’invito di un soldato per una passeggiata: fu stuprata con oggetti contundenti e abbandonata nella neve. Aveva presupposto di fare amicizia e scambiare quattro chiacchiere, senza andare oltre. Purtroppo le cose non stanno in questo modo e pertanto si rende necessario cambiare registro, accettando il fatto che i processi mentali dei due sessi, eccezion fatta per i paesi del Nord Europa, sono molto diversi. Soprattutto in certi contesti è davvero sciocco e pericoloso confidare in un atteggiamento maschile confacente a sani presupposti di etica e maturità. La violenza degli uomini nei confronti delle donne non è qualcosa che si potrà sconfiggere in tempi brevi perché attiene a tare fisiologiche che sfuggono a ogni possibilità di cura. È un virus per il quale non è stato ancora scoperto l’antidoto e occorrerà molto tempo prima che sia debellato. Le cause che, in un dato momento, mandano in tilt il cervello di molti uomini, facendo perdere ogni possibilità di auto-controllo, sono molteplici e sinteticamente si possono rapportare sia al retaggio ancestrale sia ai condizionamenti ambientali. Tali fattori agiscono quasi sempre in combinata, elevando alla massima potenza la capacità distruttiva. Un radicale e velocissimo cambiamento dei costumi, che ha visto la donna negli ultimi quaranta anni conquistare diritti e libertà negati per millenni, ha esasperato ancor più il problema, in quanto l’evoluzione del maschio non ha marciato con analogo passo. Il gap è destinato ad aumentare sensibilmente perché è ancora lontano il picco massimo, oltre il quale non sarà possibile salire. È opportuno, pertanto, strutturare adeguati piani formativi per inculcare nelle donne sani principi di autotutela. Occorre imparare a non lasciarsi ingabbiare da quel meraviglioso sentimento chiamato "Amore" che, purtroppo, a volte si trasforma in una volontaria prigione. Parimenti occorre imparare a non rapportarsi con l’universo maschile utilizzando gli stessi parametri che caratterizzano il proprio agire: le ragazze che vanno da sole in discoteca, o in compagnia di un’amica, pensando "solo" di fare amicizia, per quanto amaro sia, devono capire che, nel 99% dei casi, incontreranno uomini interessati "solo" a possibili avventure con risvolti sessuali, magari con la mente annebbiata da droghe e alcool. In caso di rifiuto possono esplodere e compiere dei misfatti. La follia omicida degli uomini violenti non si può fermare e le pene inflitte, peraltro spesso davvero blande, non fanno certo tornare a casa le vittime. Insegnare alle donne a difendersi in modo più oculato, invece, è possibile. LA FAMIGLIA TORNI A ESSERE IL FULCRO DELLA SOCIETÀ Qui siamo davvero al paradosso dei paradossi. Oggi la maggioranza delle persone si vergogna di esprimere giudizi di valore sulla sacralità della famiglia per timore di non apparire "politically correct". Il tutto è dovuto alla massiccia opera condizionante perpetrata da quello strambo caleidoscopio umano composto da soggetti impropriamente definiti "radical chic", dal momento che di radicale hanno solo la


propria saccenteria e di chic proprio nulla, e molto più opportunamente, invece, definibili semplicemente dei "cretini di sinistra". Il cretino di sinistra è un virus sociale molto pericoloso perché, generalmente, si presenta bene: è affabile, ha letto qualche libro, parla con discreta proprietà di linguaggio e, nelle punte più avanzate, i libri addirittura li scrive. Con questi presupposti riesce ad avere largo credito, soprattutto in un Paese in cui tanta gente è da sempre ben predisposta nei confronti di chi manifesti l’intento di rompere gli schemi e si sente culturalmente evoluta perché ha letto un po’ di libri scritti da Federico Moccia, Roberto Saviano e Fabio Volo. La famiglia è uno dei bersagli preferiti, con attacchi mirati, perfezionati anno dopo anno e sempre vincenti sulle labili difese di improbabili oppositori che, al confronto, fanno la figura, e la fine, dei soldati polacchi che si lanciarono contro i carri armati tedeschi con la spada sguainata, sul dorso dei loro cavalli al galoppo. Tanto più che, molti di loro, soprattutto se impegnati in politica, sono adusi a predicare bene e razzolare male. Sia detto senza tanti giri di parole, infatti, fin quando la difesa della famiglia, in Italia, è affidata all’armata brancaleone guidata dal trio Meloni, Salvini, Berlusconi, col supporto di quella pittoresca macchietta che risponde al nome di Mario Adinolfi (unico italiano che abbia partecipato a una finale mondiale del campionato di… poker, classificandosi addirittura al sesto posto su 397 concorrenti!) non c’è partita. I cretini di sinistra saranno anche cretini, ma le battaglie, bisogna riconoscerlo, le combattono bene, mischiando opportunamente verità e menzogne, per poi partorire una miscela funzionale ai loro disegni. Della famiglia, per esempio, pongono in rilievo, partendo da lontano, le vessazioni riscontrate (e riscontrabili) nel loro ambito, i matrimoni combinati e qualsivoglia altra discrasia la ricerca storica e sociologica metta al loro servizio. Va da sé che non vengono proprio presi in considerazione gli esempi positivi. La famiglia è il male perché intrisa di falsi valori; è impossibile amare la stessa persona per sempre e pertanto vi è bisogno di "libertà" espressiva (tradotto in soldoni: scopare con chiunque, quando se ne abbia voglia, senza porsi tanti scrupoli e, soprattutto, senza che nessuno abbia da recriminare). Molti lettori sicuramente conoscono il simpatico giornalista Enrico Lucci, che ha acquistato buona fama quando collaborava col programma televisivo "Le Iene". Una volta, in uno dei tanti servizi sui costumi degli italiani, intervistò una giovanissima sposa nel giorno del matrimonio, durante il ricevimento. Con la solita vocina di sfottitore impenitente, le chiese, più o meno testualmente: “Ma dimmi, bella sposina, questo maritino qui, al tuo fianco, sarà l’unico l’uomo con il quale farai all’amore per il resto della tua vita?” La giovane, presa alla sprovvista, mostrò solo qualche frazione di secondo di smarrimento. Non vi sarebbe stato nulla di male se avesse risposto, semplicemente: “Ma certo!”. Perdinci! Il giorno del matrimonio! Solo un paio di ore prima, in chiesa, aveva giurato di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Ma due ore, nella società contemporanea, sono un’eternità e fanno cambiare molte cose. Si stava registrando un servizio televisivo che sarebbe stato visto da alcuni milioni di spettatori, in tempi che sancivano la crescente affermazione di nuovi stili di vita, lontani mille miglia da quelli stancamente riproposti per mera ritualità, senza alcuna effettiva considerazione. Che magra figura avrebbe fatto se


avesse detto: “Ma certo!”. E infatti, assumendo la tipica espressione di chi si accinga a rivelare una verità scomoda, ma pur sempre una verità, lasciando tutti i convenuti in palpabile imbarazzo, rispose testualmente: “No! Non penso proprio… decisamente no”. Esempio isolato? No di certo. Che cosa fare, quindi? In questo Paese vi sono ancora tanti "marinai" che, con le carte in regola e senza rischio di essere sbugiardati da "Report", sono in grado di riportare la nave sulla corretta rotta. Solo che tanti di loro sono stanchi e non hanno più voglia di domare mari tempestosi. Beh, l’invito è quello di deporre le pantofole e risalire a bordo. Questa società ha bisogno di loro più di quanto il viandante del deserto abbia bisogno di acqua. Non possono lasciare le giovani generazioni né in balia dei cretini di sinistra né balia di altri cretini, non meno pericolosi, perché, come più volte scritto, una giusta causa, difesa da persone sbagliate, diventa una causa sbagliata. Abbiamo visto, prima, quanto possa essere dannosa, per i propri figli e per la società, una mamma cretina e sappiamo che di donne così, oggi, ve ne sono tante. Sappiamo anche che dietro ogni cretino si cela sempre un intelligente cattivo, con scopi subdoli. Vanno fermati entrambi, prima che sia troppo tardi.



MISTIFICAZIONI: È STORIA ANTICA INCIPIT “Mistificazione. La professione dei politici, la scienza dei medici, la sapienza dei recensori, la religione dei predicatori di successo: in una parola, il mondo”. (Ambrose Bierce) PROLOGO “È necessario che tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le opere degli antichi, siano essi retori, grammatici e ancor più sofisti, poiché questi ultimi, più degli altri, intendono essere maestri non di sola eloquenza ma anche di morale, e sostengono che a loro spetta l'insegnamento della filosofia civile. [...] Io li lodo perché aspirano a elevati insegnamenti, ma li loderei di più se non si contraddicessero e non si condannassero da soli, pensando una cosa e insegnandone un'altra. Ma come? Per Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia, gli dei sono guida e norma dell'educazione: forse che costoro non si reputavano devoti, chi a Hermes, chi alle Muse? Trovo assurdo che coloro che spiegano i loro scritti disprezzino gli dei che quelli onoravano. Ma, anche se a me pare assurdo, non dico con questo che essi debbano dissimulare le loro opinioni di fronte ai giovani. Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono ma, se invece vogliono insegnare, insegnino prima con l'esempio [...] Se i maestri cristiani considerano saggi coloro di cui sono interpreti e di cui si dicono, per così dire, profeti, cerchino prima di rivolgere la loro pietà verso gli dei. Se invece credono che questi autori si siano sbagliati circa le entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca. Voi affermate che bisogna rifiutare le offerte dei sacrifici? Bene, anch'io voglio che le vostre orecchie e la vostra parola, come dite voi, si purifichino astenendosi da tutto ciò a cui io ho sempre desiderato partecipare insieme con coloro che pensano e fanno quello che io amo”. (Imperatore Flavio Claudio Giuliano, detto l’apostata. Postilla esplicativa dell’editto con il quale stabiliva l'incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l'insegnamento nelle scuole pubbliche). “La Verità e la Menzogna un giorno s’incontrarono. La Menzogna disse alla Verità: «Oggi è una giornata meravigliosa». La Verità guardò verso il cielo e sospirò, convenendo sulla bellezza della giornata, che indusse entrambe a concedersi una bella passeggiata. Giunte nei pressi di un pozzo, la Menzogna disse alla Verità: «Facciamo un bagno insieme, l'acqua è molto bella». La Verità, che era sempre un po’ sospettosa, guardò nel pozzo per verificare, ma anche questa volta si trovò d’accordo con la Menzogna: l’acqua era davvero limpida e invitante. Entrambe, pertanto, si spogliarono e si tuffarono nel pozzo. Improvvisamente, però, la Menzogna uscì dall'acqua e fuggì, indossando i vestiti della Verità, la quale, indignata più che mai, uscì d’impeto dal pozzo per riprendersi i vestiti, senza riuscirvi, però, essendo la Menzogna scomparsa alla vista.


Tutto il Mondo, vedendola nuda, distolse lo sguardo e la trattò con rabbia e disprezzo. La povera Verità, doppiamente ferita, tornò al pozzo e scomparve per sempre, vergognandosi molto per ciò che le era accaduto. Da quel giorno la Menzogna gira vestita come la Verità, ben felice di assecondare i desideri del Mondo, che non ha alcuna voglia di incontrare la Verità nuda”. (Descrizione del quadro “La Verità che esce dal pozzo”, di Jean-Léon Gerôme, realizzato nel 1896 e conservato nel Musée Anne-de-Beaujeu di Moulins, stupenda cittadina quasi a metà strada tra Lione e Parigi). IN PRINCIPIO ERA IL VERBO. FORSE. Dio intimò ad Adamo di non toccare i frutti dell’albero della conoscenza, ma Satana, il padre della menzogna, indusse Eva a disobbedire facendole credere che sarebbe diventata come Dio. La storia dell’umanità, di fatto, sarebbe scaturita da questa carognata di Satana, che può essere cancellata solo ritenendo falsa l’intera storiella che costituisce il fulcro del famoso incipit “In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum” e tutto ciò che ne consegue. Forse è azzardato sostenere che tutti mentiamo, anche se per i dotti il dilemma non si pone, ritenendo che la menzogna accompagni il genere umano sin dalla sua genesi. Quando essa si trasforma in mistificazione, poi, siamo in presenza di una precisa volontà di sovvertire la verità dei fatti per scopi subdoli e tale presupposto va distinto dal “dire il falso”, che può essere anche conseguenza di un errore o di una decisione non necessariamente orientata al male: si può mentire dicendo inavvertitamente il vero, ritenendolo falso; si può dire il falso senza mentire, ritenendolo vero per errore; si può mentire per non ferire la sensibilità di qualcuno o per evitargli inutili sofferenze. La storia dell’uomo è piena di mistificazioni e alcune di esse sono così solide da resistere, almeno nell’immaginario collettivo, anche alle prove schiaccianti che consentono di smascherarle. Costantino, per esempio, viene sempre associato alla figura del grande imperatore, addirittura protetto da Dio! La croce che disse di aver visto in cielo prima della battaglia contro Massenzio gli conferì quell’aura mistica, soprannaturale, che per certi versi sopravvive ancora oggi, dopo diciassette secoli, nonostante per mantenersi al potere fece uccidere il suocero, la moglie Fausta, il figlio Crispo, il marito della sorella Costanza, il cognato, giocando abilmente sia sul fronte pagano sia su quello cristiano, mettendosi tutti nel sacco. Eppure dovrebbe apparire quanto meno strano un Dio che decidesse di interferire nelle faccende terrene, favorendo l’uno anziché l’altro per mero “conflitto di interesse”. Le mistificazioni, di fatto, hanno avuto un forte impatto sulla realtà, condizionando quasi sempre negativamente gli eventi storici. La rivoluzione francese pullula di menzogne e falsificazioni, tese a privilegiare la visione illuminista e ad oscurare la verità sul Terrore scatenato da Robespierre. Ancora oggi è impossibile quantificare con precisione il numero delle sue vittime, molte delle quali, tra l’altro, non avevano alcun ruolo nella contro-rivoluzione. Se anche fosse vero il numero più basso, 16.594, stabilito dallo storico Aurelio Musi nel saggio Le vie della modernità, sarebbero comunque tante. Chi scrive, tuttavia, protende per una cifra che raggiunge le settantamila esecuzioni! L’evento storico più importante del diciottesimo secolo, purtroppo, risente della corposa


manipolazione orchestrata da tanti storici d’ispirazione marxista, che offrono una visione artatamente distorta della realtà. Dal marasma menzognero si salva un recente saggio di Beniamino di Martino, La Rivoluzione del 1789. La cerniera della modernità politica e sociale, Editore goWare, 2020, che smonta tutti i luoghi comuni presenti in migliaia di opere. Tra le tante mistificazioni che favorirono l’avvento del nazismo è famoso il colossale falso storico rappresentato da I Protocolli dei Savi di Sion, che condizionò non poco il pensiero di Hitler, poi espresso nel Mein Kampf. NEI LIBRI LA VERITÀ. MA NON IN TUTTI. Sono davvero tanti i testi validi che, lasciando trasparire una visione onesta e veritiera della storia, di fatto contribuiscono a smascherare le troppe mistificazioni che l’inquinano. Bisogna fare molta attenzione nella scelta, tuttavia, perché sono molto più numerosi quelli concepiti ad arte per confondere le acque. Un recente saggio di Paolo Mieli, senza avere la pretesa di essere esaustivo, costituisce un buon punto di partenza per stimolare l’appetito e addentrarsi in più significativi approfondimenti: Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della storia, Rizzoli Editore, 2019. Ferma restando l’importanza di un articolato excursus in tutte le epoche storiche, chi volesse concentrarsi sul nostro tempo per comprenderne la reale essenza deve necessariamente partire almeno dal Risorgimento: in mancanza di una chiara assimilazione delle vere dinamiche che hanno caratterizzato gli eventi, dai moti rivoluzionari post Congresso di Vienna alla fine della Second Guerra Mondiale, non sarà mai possibile comprendere divisioni, gap culturali ed economici che perdurano ancora oggi. La conoscenza approfondita dei fatti storici, pertanto, deve essere supportata dalla correzione delle tante mistificazioni orchestrate ad arte per fornire una rappresentazione dei fatti rispondente agli interessi di chi, avendo molto da nascondere, sia riuscito comunque a entrare in orchestra, magari come suonatore di strumento primario. L’errore più grossolano che si commette, in chiave di studio, è la scelta di saggi che rispondano a logiche “ideologiche”: in pratica si legge ciò che fa piacere leggere e che appaghi la propria visione del mondo, sempre tesa a ricercare conferme dei propri convincimenti e mai a ricercare la verità, soprattutto se amara. Premesso che l’obiettività analitica è quasi impossibile da ottenere, bisognerebbe almeno distinguere i saggi scritti in buona fede da quelli concepiti esclusivamente con finalità mistificatorie, tenendo presente che se si vogliono comprendere i fatti di casa propria è bene anche sapere come vengano visti dagli estranei, il che non vuol dire accettare tout court le loro asserzioni. Lasciando a ciascuno, pertanto, l’arduo compito di scegliere i saggi per la formazione di base, di seguito se ne indicano alcuni che servono esclusivamente a smascherare gli imbrogli, in modo da cancellare quei concetti assimilati, anche in modo subliminale, sin dalle scuole elementari. Siccome a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre, è lecito ritenere che in tanti possano chiedersi fino a che punto la lista risponda a criteri di onestà intellettuale e non scaturisca, invece, da una visione comunque partigiana e quindi intrisa degli stessi presupposti negativi ad altri imputati. Sospetto più che legittimo, al quale è possibile replicare solo con un riferimento generico alla storia personale, che dovrebbe fungere da


garanzia, e a una semplice spiegazione metodologica, che dovrebbe fugare i residui dubbi: la selezione è stata effettuata privilegiando esclusivamente alcuni testi che consentono di smascherare le falsità storiografiche, prescindendo dall’ambito ideologico nel quale si muove l’autore. Tra i saggi che riguardano l’unità d’Italia, per esempio, non è incluso quello, eccellente, di Giacinto de Sivo: essendo filo borbonico potrebbe essere accusato di partigianeria, proprio come gli storici di segno opposto, nonostante non manchino le critiche e le rampogne nei confronti degli “amici”. Chiunque mi conosca sa bene che ho combattuto il comunismo, quando davvero faceva paura, nelle piazze di mezza Europa; nondimeno uno dei saggi più importanti citati nell’elenco, relativamente al periodo buio post 25 luglio 1943, è stato scritto proprio da un comunista. Risorgimento, Unità d’Italia e mancato sviluppo del Mezzogiorno. Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Arturio Berisio Editore. (Di difficile reperimento la bellissima edizione del 1966, comunque disponibile in alcuni web store. Di facile reperimento, invece, e a prezzo modico, la versione edita da Trabant nel 2009). Cesare Bertoletti, Il Risorgimento visto dall’altra sponda, Arturo Berisio Editore, 1967. Silvio Vitale, Il principe di Canosa e l’epistola contro Pietro Colletta, Arturo Berisio Editore, 1969. Raffaele De Cesare, La fine di un regno, Newton Compton Editori, 1975. Giacomo Mele, Colonia mezzogiorno, Edizioni Europa, 1978. Gabriele Fergola, Il Mezzogiorno problema nazionale, 1976. Prima Guerra Mondiale Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla prima guerra mondiale, Dissensi Editore, 2018. Lino Lavorgna, Il Piave mormorava, saggio pubblicato a puntate su CONFINI, nel 2018, dal numero 60 al numero 69, disponibile anche, con versione estesa, nella raccolta Articoli 2018: www.issuu.com/linolavorgna Dal crollo del fascismo alla fine della guerra I saggi validi sono davvero tanti e qui, pertanto, si segnalano solo quelli che risultano fondamentali per arare il terreno ed entrare con adeguata preparazione nell’Italia repubblicana, da leggere nell’ordine in cui sono indicati: Roberto Ciuni, L’Italia di Badoglio, Rizzoli Editore, 1993; Paolo Monelli, Roma 1943, Arnoldo Mondadori Editore, 1979; Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita, Mursia Editore, varie edizioni (la più recente è del 2015). Il primo saggio consente di assimilare, con pennellate rapide ma ben strutturate e veritiere, il convulso periodo che va dall’8 settembre 1943 al 5 giugno 1944 (liberazione di Roma); il secondo consente di approfondire in modo più esaustivo l’ignobile comportamento dei vertici militari e politici dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma; il terzo volume è ancora più interessante per la ricca messe di documenti e una bibliografia che non tralascia proprio nulla, tra l’altro corredata di importanti note esplicative. L’unica accortezza che bisogna avere – da qui la necessità di leggerlo per ultimo – è di non dare peso ad alcuni voli eccessivamente pindarici sui fatti non supportati da valida documentazione e alla difesa del generale Carboni, che l’autore intende salvare dal marasma di marciume che ben


traspare in ogni pagina, sicuramente in virtù dei vincoli di amicizia. Carboni è responsabile quanto gli altri per le tragiche vicende della mancata difesa di Roma e, come ben traspare nel saggio di Monelli, il 9 settembre, mentre a Roma molti soldati italiani si immolavano cercando di contrastare i tedeschi, nel più completo sbandamento e senza ordini precisi o addirittura con ordini contrastanti, trovò il tempo di trattenersi “a lungo”, in quel di Arsoli, nell’alloggio della bellissima attrice Mariella Lotti, che ivi stava girando il film La freccia nel fianco. Cosa sia accaduto in quelle sei ore non è possibile saperlo, ma non è difficile immaginarlo, a prescindere dalle successive dichiarazioni dell’attrice, per lo più tese a smontare il sospetto di un inopportuno bunga bunga, suggellate dalla famosa frase pronunciata al termine della visita, e quindi “dopo” le sei ore trascorse insieme: «Non si vergogna, generale, di essere qui a casa mia invece che fra i suoi soldati?» Ho glissato su Seconda Guerra Mondiale e fascismo perché sarebbe stato oltremodo difficile rispettare un presupposto di obiettività, considerata la mole impressionante di saggi disponibili, con tesi contrapposte e fatti irrisolti. MISTIFICAZIONE E FILOSOFIA Al di là dei fatti che traspaiono dalla storiografia, sincera o menzognera che fosse, è interessante approfondire la materia dal punto di vista filosofico, perché anche in questo campo non mancano le sorprese. I filosofi, si sa, più di tutti riescono a vedere le cose da una prospettiva capace di metterne in luce aspetti non facilmente percepibili e ciò determina, a volte, dei veri e propri sconvolgimenti concettuali. Nietzsche, per esempio, nel saggio Verità e menzogna in Senso Extramorale, sostiene che «le verità siano illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, e non più come monete. L’uomo si serve di concetti che sono “residui di metafore” e ha dimenticato di avere inventato lui stesso ciò che chiama verità». Se la verità è una pia illusione, quindi, la menzogna diviene regola e pertanto “nessuno dice bugie”. Una visione che contrasta nettamente con quella offerta da Kant, per il quale la menzogna esiste ed è un vero flagello. L’argomento è ampiamente sviluppato nell’opera La metafisica dei costumi, in un capitolo dedicato alla dottrina della virtù. Per Kant, sostanzialmente, «il mentitore impedisce agli uomini di trarre alcun beneficio dal colloquio con l’altro, mina i fondamenti della comunicazione umana infrangendo l’equazione di pensiero e linguaggio ed è causa del fatto che alle dichiarazioni non si dia più credito in generale, per la qual cosa tutti i diritti basati su contratti sono destituiti di fondamento e perdono la loro forza: e questo è un torto commesso a tutta l’umanità». Paul Feyerabend sosteneva che «i filosofi sono grandi artisti nel trovare meravigliose ragioni per azioni crudeli» e l’asserzione calza a pennello per Kant, che acuisce il suo radicalismo in difesa della verità assoluta allorquando arriva a sostenere che la menzogna sarebbe un delitto anche nel caso in cui un assassino ci chiedesse se il nostro amico, da lui inseguito, si sia rifugiato in casa nostra. Tesi contrastata aspramente da Benjamin Constant, per il quale la verità è sì un dovere, ma solo nei confronti di coloro che ne hanno diritto senza che essa possa nuocere ad altri. La querelle tra i due singolari personaggi, che duellarono a distanza appellandosi con marcato reciproco disprezzo “il filosofo tedesco” e “il filosofo francese”, è molto


interessante ed è stata ampiamente trattata da Andrea Tagliapietra nel saggio La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, curato da Roberto Esposito ed edito da Bruno Mondadori Editore nel 1996. La copia in mio possesso risale al 1998 e costava diciottomila lire. Ho verificato la disponibilità attuale all’atto della stesura di questo articolo, purtroppo con esito negativo, come spesso accade per tante opere di pregevole fattura che non vengono ristampate perché ritenute commercialmente non interessanti. Qualche copia è disponibile (attualmente) su Amazon, al costo di cinquanta euro. Presumo di poter dire senza grosso rischio di essere smentito, tuttavia, che un saggio edito da Passigli nel 2008, curato da Sabrina Mori Carmignani, ne ricalchi la struttura, almeno stando a quel che ho visto nella presentazione: s’intitola Kant-Constant il diritto di mentire e anch’esso riporta sia il citato capitolo di Kant sia il breve trattato dell’allora trentenne brillante parigino, Delle reazioni politiche, con il quale confuta la tesi kantiana sulla necessità di dire sempre la verità, che anche nei secoli precedenti non è che abbia avuto molti sostenitori. Machiavelli, per esempio, nel Principe funge da vero apologo della menzogna, raccomandandola come strumento lecito e addirittura necessario per ben governare, in special modo quando possa servire a combattere la “fortuna avversa” che intralcia l’azione del principe. Subito dopo Machiavelli si sviluppò una letteratura favorevole alla menzogna, che vide tra i principali protagonisti Giuseppe Battista, Celio Calcagnini, Celio Malespini e Pio Rossi, autori di quattro trattatelli molto “istruttivi”: un esame della reticenza; un'illustrazione apologetica dell'arte del falsario; una lezione sulla buona convenienza del mentire; una classificazione di termini, concetti e comportamenti mendaci. L’editore Sellerio, nel 1990, ha pubblicato i quattro trattatelli in un volume intitolato Elogio della menzogna, manco a dirlo, anch’esso oggi irreperibile, eccezion fatta per qualche copia disponibile presso la libreria “Tomi di Carta”, a Rozzano, secondo quanto ho verificato in rete e che quindi potrebbe essere vero oggi e non domani. Allo stesso periodo, e senz’altro caratterizzati da maggiore successo, risalgono anche il Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione e il Galateo di Giovanni della Casa, che raccomandano di modulare con massima cura le menzogne, «acciocché sia guadagnata la benevolenza ma non persa la fiducia: perché i bugiardi a lungo andare non sono creduti, né ascoltati, come s’eglino non favillassero, ma soffiassero». Sorvolando su una miriade di filosofi e scrittori minori, i cui lavori possono risultare interessanti esclusivamente in ambito accademico, passiamo direttamente a Schopenhauer che, nel Fondamento della Morale, si spinge a considerare la menzogna una «legittima difesa contro una curiosità non autorizzata». Una sessantina di anni dopo gli farà da eco Oscar Wilde che, nel più rilevante dei suoi dialoghi filosofici, La decadenza della menzogna, (Alleluia! Questo testo è facilmente reperibile, addirittura anche con titolo leggermente diverso: La decadenza del mentire), esprime una strenua difesa del diritto di mentire tramite l’illusione poetica, condensando l’aspirazione umana alla bellezza nella massima: «Primo dovere dell'uomo è quello di risultare il più artificiale possibile, il secondo nessuno l'ha ancora scoperto». Per l’istrionico ed eclettico saggista produrre arte vuol dire trasfigurare la realtà e deviarne i fini naturali, così aspri e veri da renderli insopportabili. Per rendersi sapienti occorre dedicarsi alla suprema arte della menzogna al fine di riprodurre un mondo artificiale che veda proprio nel mentire il più sublime


esercizio del sapiente. Attraverso il confronto con le opere d'arte e con gli esiti della critica a lui contemporanea, Wilde mette alla prova le proprie teorie per giungere ad allontanare sempre più l'arte e la vita dalle catene della verità. MISTIFICATORI DI OGGI I concetti espressi dai grandi pensatori, comunque, sempre ancorati a una cruda interpretazione della realtà, differiscono sostanzialmente dalla volontà mistificatoria affermatasi in modo crescente a partire dal periodo post rivoluzione francese, fino a raggiungere i livelli attuali, ampiamente trattati nella ricca collezione di CONFINI. Nel numero 40 (gennaio 2016), per esempio, è ben spiegata la grande mistificazione orchestrata da Blair e Bush per attaccare l’Iraq nel 2003: le armi di distruzione di massa che nessuno ha poi trovato e della cui assenza il governo statunitense era a conoscenza grazie all’ottimo lavoro svolto dall’agente della CIA Valerie Plame. Come ben noto quella sciagurata guerra determinò la nascita dell’ISIS. Chi volesse individuare nelle dichiarazioni dei politici di oggi i sintomi di un’apologetica della mistificazione che viene da molto lontano, può senz’altro trovare nei saggi segnalati ottimi riferimenti, senza mai dimenticare, tuttavia, ciò che diceva Charles Dickens: «Tutti gli imbroglioni della terra messi insieme sono nulla in confronto a coloro che ingannano sé stessi». Non è il caso di aggiungere altro: sono figlio di genitori straordinari che prima mi hanno donato la vita e poi mi hanno insegnato a viverla in modo degno. Tra i tanti loro precetti ve n’è uno, molto significativo, che m’impone di fermarmi: «Non perdere mai tempo nel criticare i piccoli uomini che dovessero conquistare importanti posizioni di potere, poi inevitabilmente difese con l’artificio della menzogna e della mistificazione. Rampognarli vuol dire solo conferire loro immeritato onore». Mi hanno anche insegnato il valore dell’umiltà, del rigore esistenziale, di un sano equilibrio nella valutazione di tutte le cose e che il rispetto del prossimo non può prescindere da quello verso sé stesso. In ossequio a questi precetti, quindi, non mi è proprio possibile concludere un articolo nel quale compaiono nomi imponenti parlando di omuncoli e zoccole che si credono giganti e dame di corte.


DIVAGAZIONI CALCISTICHE DI UNA VECCHIA SCHIAPPA Il calcio, si sa, è lo sport più amato e seguito nel nostro Paese. Il 99% delle persone che guardano le partite sono tifosi e per loro non esiste alcun problema: provano godimento indipendentemente dalla qualità del gioco. Il rito della partita viene consumato con profonda partecipazione emotiva, seguito dalle lunghe elucubrazioni critiche, positive o negative, sulle scelte degli allenatori o sulla forma di determinati giocatori, magari sviscerati nei tanti programmi televisivi e radiofonici nei quali la materia calcistica viene scandagliata con attenzione certosina e strumenti tecnologici che non hanno nulla da invidiare a quelli utilizzati dalla NASA per preparare i viaggi spaziali. I problemi, invece, riguardano il restante 1%, che se ne frega di chi vinca o perda e vorrebbe solo godersi una bella partita, con tanti gol e bel gioco. Cosa che diventa sempre più difficile perché il calcio moderno tende soprattutto a impedire il gioco altrui e non a vincere giocando meglio. Questa propensione, purtroppo, va a discapito della "bellezza" e infastidisce molto i veri sportivi. I tifosi, come già detto pensano solo al risultato e per loro le partite sono brutte solo se la squadra del cuore perda. Sono molti i fattori che rendono sgradevole una partita, a cominciare dalle sistematiche proteste per le decisioni dell’arbitro, anche quando assegna una rimessa laterale. Giocatori che sgambettano platealmente un avversario, lo trattengono per la maglia, gli tirano una gomitata che farà la gioia del dentista, al fischio dell’arbitro allargano le braccia con espressione sorpresa e negano l’evidenza, magari accusando l’altro: “Non sono io che gli ho messo lo sgambetto, è stata la sua gamba che mi è capitata tra i piedi. E pazienza se gliel’ho spezzata”. Parimenti insopportabili, poi, gli urli degli allenatori, che stanno in piedi quasi sulla linea di gioco, con ghigno feroce, agitandosi per novanta minuti, anche se stanno vincendo cinque a zero! (Ogni riferimento a Conte e Allegri è puramente … voluto). Una volta gli allenatori restavano seduti sulla panchina, silenziosi, intervenendo sporadicamente solo per impartire qualche disposizione tattica; oggi vorrebbero suggerire dove indirizzare la palla a ogni tocco e questo appalesa solo distonie psicotiche che andrebbero valutate da un bravo psicologo. Anche a livello di gioco si registrano azioni che lasciano sgomenti. Possibile che dei professionisti non si rendano conto di cose che ai miei tempi si apprendevano dai docenti di educazione fisica durante le partitelle tra studenti? Quei tiri di collo piede a poca distanza dalla porta, inevitabilmente destinati a raggiungere le stelle perché la parabola si perfeziona solo dopo molti metri, fanno venire i crampi allo stomaco! Lo stesso dicasi per i calci di rigore! Come si fa a sbagliare un calcio di rigore? Se vi è una cosa "impossibile" è proprio sbagliare un calcio di rigore! Quando andavo a scuola gli studenti che si dilettavano col pallone si dividevano tra i bravissimi, i bravi, i mediocri e gli scarsi. Chi scrive apparteneva alla categoria degli scarsi: poca visione di gioco, palleggio inconsistente, scarsa velocità e tante altre deficienze qui omesse per amor di sintesi. Nondimeno, quando mi veniva concesso di tirare un calcio di rigore, non lo sbagliavo mai. Mira precisa all’angolo destro e saetta di punta con pallone colpito al centro. Il portiere non aveva bisogno di intuire


il tiro; sapeva benissimo che avrei tirato proprio lì, ma non poteva fare nulla per una semplice legge fisica: il tempo impiegato dal pallone per percorrere undici metri è sempre inferiore a quello necessario al portiere per raggiungere il palo della porta, a 3 metri e 66 centimetri dal punto di partenza. Ovviamente ciò solo nel caso di un preciso e potente tiro. Ogni altra opzione, infatti, serve solo a favorire l’intervento del portiere e magari a fargli parare il rigore. Pur sapendo che quanto mi accingo a scrivere serve solo come puro divetissement giornalistico, pertanto, indico alcune soluzioni per rendere il gioco del calcio veramente gradevole. Le due linee laterali Una delle principali cause di interruzione del gioco scaturisce dal massiccio utilizzo delle fasce laterali, sommato alla necessità di contrastare in ogni caso l’avversario, con ogni mezzo. Ne consegue una continua interruzione del gioco per effettuare le rimesse dalle linee laterali. Si potrebbe ovviare collocando sulle due linee un cordolo di gomma alto una quindicina di centimetri, duro abbastanza da consentire al pallone di rimbalzarvi nella stragrande maggioranza dei casi, ma non tanto da rappresentare un pericolo per i giocatori che dovessero cadervi sopra. La sensibile riduzione delle rimesse laterali renderebbe le azioni più lunghe a tutto vantaggio del bel gioco e magari consentirebbe anche di aumentare il numero dei gol. Falli Il sistematico ricorso al fallo di ostruzione, al gioco cattivo, a trattenere per la maglia l’attaccante lanciato verso la porta, costituisce un sicuro elemento di disturbo, a prescindere dalla pericolosità di alcuni interventi che, purtroppo, a volte determinano gravi infortuni. Questa propensione andrebbe stroncata drasticamente innanzitutto con una maggiore severità di giudizio da parte degli arbitri e di sicuro lo sarebbe con un semplice provvedimento: ogni quattro falli commessi, indipendentemente dalla loro natura, la quarta punizione concessa agli avversari si trasformi in un calcio di rigore. Con questa bella spada di Damocle sul groppone si avrebbe una riduzione dei falli e anche gli infortuni calerebbero sensibilmente, la qual cosa non è di poco conto. Sostituzioni Andrebbero rimodulate in modo da non risultare fastidiose. Far entrare dei giocatori a due minuti dalla fine della partita è un vero abominio, che diventa attentato al sistema nervoso quando ad agire siano entrambe le squadre, con tre o quattro interruzioni di gioco nel giro di pochi minuti. Si consenta di sostituire anche otto, nove o addirittura dieci giocatori, in modo da garantire un efficace turn-over, considerato sia il grande numero di partite da disputare per i tanti tornei, alcuni dei quali inutili, sia l’assurdo regolamento di una "Serie A" con venti squadre anziché sedici, come un tempo, rispettando però le seguenti limitazioni: non più di due interruzioni durante le fasi di gioco per sostituire uno o più giocatori; divieto di effettuare sostituzioni negli ultimi dieci minuti; sostituzione sempre possibile in caso di infortunio grave. In pratica sarebbe possibile sfruttare l’intervallo per effettuare tutte le sostituzioni ritenute opportune, in modo da non avere più di quattro


interruzioni (due per squadra) durante le fasi di gioco, eccezion fatta in caso di infortunio. Proteste Siano vietate in assoluto. Qualsiasi cosa accada e qualsiasi decisione assuma l’arbitro, nessuno deve fiatare, anche se si dovesse avere la certezza (che comunque è sempre una "presunzione") di un errore. Quei capannelli animosi, che mai determinano un cambio di decisione, sono solo fastidiosi e denotano un’assoluta mancanza di professionalità. Con tutti i collaboratori di cui dispone l’arbitro per valutare ogni singola azione proprio non vi è bisogno di "pressioni" interessate. È vero che il motto o tempora o mores è sempre valido, nondimeno è lecito ricordare i campioni di una volta che, insieme con la bravura, facevano emergere un esemplare stile comportamentale. In caso di protesta, quindi, scatti subito l’ammonizione. Passerà la voglia. Fuori gioco Bella regola, certo. Però vedere un gol annullato per fuori gioco nell’aerea piccola, magari per mezzo millimetro, fa venire il mal di pancia. Nell’area piccola niente fuori gioco. Tutte le partite sarebbero bellissime, con queste regole. E quanti gol in più!









CLANDESTINI: PROPOSTE INDECENTI PER RISOLVERE IL PROBLEMA La pandemia ha relegato in secondo piano l’attenzione sui flussi migratori, già preda di una sorta di oblio mediatico insorto dopo l’addio di Salvini al Viminale, essendo italica consolidata abitudine conferire un livello di gravità ai vari problemi a seconda delle persone intente a risolverlo: se queste ultime, ancorché inefficienti, sono gradite alle classi dominanti, palesi e occulte, il problema magicamente sparisce nonostante la crescita esponenziale dovuta proprio all’inconsistenza dei risolutori. Di fatto, limitandoci al solo 2020, i dati che emergono lasciano chiaramente intendere il disfacimento dello Stato al cospetto dell’annoso fenomeno: 19.194 i clandestini sbarcati fino al 30 agosto e circa trentamila in totale nel corso dell’anno. Per lo più i clandestini provengono da Tunisia, Algeria, Marocco, Bangladesh, Costa d’Avorio, Pakistan, Sudan: non fuggono da guerre o carestie, pertanto, e pur nella considerazione del legittimo desiderio di costruirsi un futuro migliore, non avrebbero diritto, a norma di legge, a nessun trattamento diverso dal respingimento o dall’espulsione immediata. I flussi hanno fatto inevitabilmente registrare un’ampia presenza di soggetti positivi al Covid-19, anche se i dati certi mancano e si tende a eludere il problema o addirittura a gestirlo in modo mistificatorio al fine di mitigarne la portata. Delle possibili azioni di contrasto, logiche ed efficaci, se ne discute da sempre e non mancano le proposte sensate che, se attuate, potrebbero contenere sensibilmente il problema o risolverlo in toto. Parimenti non sono pochi coloro che hanno indagato sulle ONG mettendone in luce gravi distonie operative configurabili come veri e propri reati: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e collusione con i trafficanti di esseri umani che operano dalla Libia. Denunce e inchieste, però, sono rimaste lettera morta e persiste quell’atteggiamento di falso buonismo deleterio soprattutto per i diretti interessati, i cui sogni s’infrangono su una triste realtà che li trasforma in emarginati, schiavi, mano d’opera per la criminalità e in manna dal cielo per i cinici gestori dei centri di accoglienza. È perfettamente inutile, quindi, continuare a battere su questo tasto perché è come parlare al vento. Si può fare ricorso, pertanto, anche se a titolo provocatorio, al cosiddetto “pensiero laterale”, che consente di individuare la risoluzione di un problema partendo da una prospettiva che escluda il tradizionale metodo logico, istintivamente da ciascuno utilizzato, che magari ne offre molteplici, senza però che nessuna di essa abbia effettiva possibilità attuativa per i più svariati motivi. I Paesi europei, come noto, hanno lasciato praticamente da sola l’Italia nel fronteggiare i flussi provenienti via mare, comportandosi in modo vergognoso. Se si riuscisse, pertanto, a trovare il modo di metterli con le spalle al muro, si otterrebbe un risultato che potrebbe sorprendere per efficacia e tempistica. L’isola di Lampedusa, primario e martoriato approdo dei barconi che trasportano i migranti irregolari, ha una superficie di 20,2 Km2 (il doppio di Capri, poco meno della metà di Ischia) e circa seimila abitanti.


L’idea “indecente” è la seguente: suddividere l’isola in due entità territoriali separate da una linea di confine che, partendo da Capo Ponente e terminando a Cala Creta (poco meno di otto chilometri in linea d’aria), consenta di definire una superficie identica tra la zona nord e quella sud. Le due entità territoriali, quindi, dovrebbero essere vendute a Francia e Germania. I residenti potrebbero scegliere tra tre opzioni: restare nell’isola, acquisendo la nuova cittadinanza; accettare un trasferimento in un comune del territorio nazionale con forte sussidio dello Stato e mantenimento dell’eventuale impiego pubblico; restare nell’isola mantenendo la cittadinanza italiana, come qualsiasi lavoratore che risieda in un Paese dell’Unione. Dopo tutto si tratta di poche migliaia di persone ed è lecito ritenere che in maggioranza deciderebbero di restare nell’isola. Lo Stato che acquisti la zona nord potrà realizzare un secondo porto e magari anche un secondo aeroporto, fatta salva la possibilità di trovare un accordo per suddividersi quello già attivo. La presenza “attiva” dei due Paesi nel Mediterraneo, con dislocazione di un contingente delle rispettive Forze Armate, sicuramente creerebbe le premesse per un blocco delle partenze e un sostanziale cambio di rotta della politica comunitaria in tema di gestione dell’immigrazione illegale! Francia e Germania potrebbero rifiutare la proposta, ovviamente, e in questo caso, volendo essere ancora più “provocatori”, il pensiero laterale suggerisce una soluzione addirittura più efficace: vendere l’isola agli Stati Uniti d’America, che di certo non si farebbero pregare due volte per mettere piede nel Mediterraneo senza essere “ospiti” dei Paesi alleati e per giunta senza alcuna necessità di deturpare il territorio costruendo un secondo porto e un secondo aeroporto! Vi è qualcuno, ammesso che ciò fosse possibile, capace di dubitare che nel giro di un paio di mesi di barconi alla deriva e di ONG in cerca di “porti sicuri” non si sentirebbe più parlare?


SANREMO 2021: O TEMPORA O MORES Ogni epoca ha le sue canzoni e i confronti sono inutili, si dice, perché “l’evoluzione della specie” porta a radicali mutazioni in ogni campo, modificando la percezione di tutto ciò che venga creato dagli esseri umani. Ma è poi vero, questo assioma? Sostanzialmente sì, se si sostituisce evoluzione della specie con fluire del tempo. La prima definizione, infatti, implica un processo, graduale e continuo, in virtù del quale una data realtà passa da uno stato all’altro, l’ultimo del quale è generalmente inteso come superamento e perfezionamento del precedente. Il concetto, di fatto, indurrebbe a ritenere che il genere umano migliori generazione dopo generazione, evolvendosi in una crescente spirale tesa a un continuo perfezionamento. Che bufala! In realtà il progresso tecnologico e scientifico, raffigurabile con una retta che tende verso l’alto, non marcia alla stessa velocità di quello umano, la cui progressione disegna una sinusoide che evidenzia gli alti e i bassi registrati nel corso dei secoli. Se così non fosse, in campo filosofico, artistico, letterario, avremmo geni ben più grandi di quelli del passato e non avrebbe senso studiare la filosofia antica, leggere i classici della letteratura e restare estasiati ammirando i quadri dei grandi pittori rinascimentali e non solo. È lecito sostenere, invece, che mai come nella società attuale si registra una grave “regressione culturale”, che porta il genere umano a degradarsi in pascoli intrisi di cattivo gusto, banalità, superficialità, effimero, scialbo. Si registra, insomma, il trionfo di sub-culture che impediscono alle menti, soprattutto a quelle più fragili, di migliorarsi. Più che di evoluzione della specie, quindi, si può parlare dell’esatto opposto. Da ciò ne consegue che il confronto epocale, di stampo sociologico, non solo sia lecito ma risulta quanto mai opportuno per comprendere le dinamiche sociali alla base di determinati fenomeni. Le diverse percezioni in ambito musicale tra giovanissimi e meno giovani, per esempio, non si possono configurare come mera “questione generazionale”, espressione un po’ subdola che di fatto non significa nulla e giustifica tanto. La realtà è molto più complessa, nella sua drammatica semplicità: esiste il bello e il brutto, il talento e l’incapacità, il sublime e l’infimo e da qui non si scappa. Poi, va da sé, il genere umano ha bisogno di guardare avanti senza restare prigioniero di filosofi che hanno detto tutto quello che vi era da dire oltre duemila anni fa e di scienziati, artisti, letterati che ci hanno lasciato in eredità il loro genio, sublimato da inarrivabile talento, e le loro opere, intrise di ineguagliabile bellezza. E per andare avanti, per trovare un alibi alla propria esistenza, in una società che tecnologicamente si evolve alla velocità della luce, generando ansia in miliardi di persone che non riescono a stare al passo, si può solo attuare quel processo che, per certi versi, rimanda alla trasvalutazione dei valori di nicciana memoria. È tutto un vuoto pazzesco, ma che importa? È importante ciò che si percepisce non ciò che “è”. Ecco quindi che il brutto diventa bello; l’incapacità si ammanta di talento grazie al “sostegno” di altri incapaci che diventano “critici” e, con una saccenteria più ridicola che patetica, parlano insulsamente di cose che non solo non sanno fare ma delle quali non conoscono nemmeno le fasi realizzative, spesso davvero complesse e faticose; l’infimo diventa sublime e assurge a moda grazie alle correnti avanguardistiche e trans-avanguardistiche che producono


spazzatura, la spacciano per oro, la immettono sul mercato e trovano anche tanti babbei pronti a pagare il salato prezzo che serve per sentirsi à la page, protagonisti del sistema e parte integrante del giocattolo esistenziale. Per cantare una canzone, magari con la pretesa di conferirle un certo successo, occorrono tre cose: una buona voce, un bel testo e una composizione musicale adeguata. Non serve altro. In mancanza, ossia con una voce quequera, associata a una dizione più fastidiosa dello stridio provocato da un chiodo su una lastra di ferro e a note che ballano a casaccio sul pentagramma, si deve necessariamente indossare una maschera, magari un costume pittoresco con maxi copricapo di piume rosa un po’ faraonico, associato a un trucco osceno e disgustoso che, sostituendo il tutto, s’imponga in modo subliminale sulle menti fragili, rendendo la schifosa insalata una pietanza prelibata. Di facile presa anche la rabbia per un mondo alla deriva urlata con un profluvio di parolacce che giovanissimi ancora più arrabbiati recepiscono come alto messaggio culturale sul quale costruire il loro quotidiano vivere, fatto di emulazioni spacciate per azioni, tutte dirette verso il vuoto assoluto. È così in ogni campo ed è inutile tentare di invertire la rotta: non si ferma un’alluvione e bisogna attendere che le acque si ritirino da sole. In altro articolo si è parlato di un lavoro di formazione che deve necessariamente partire in tenera età, ma con questi chiari di luna, prima che si creino i giusti presupposti per un radicale cambio di rotta, coloro che non fossero capaci di tutelarsi adeguatamente, scindendo bene il grano dal loglio e nutrendosi solo del primo, dovranno ancora nuotare a lungo con l’acqua melmosa alla gola.


PIRATI DELLA STRADA: IDEE PER FERMARLI Sono tanti e sono pericolosi. Non vi è uscita in auto, anche di pochi chilometri, che si concluda senza averne incrociato almeno uno, la qual cosa si deve considerare una vera fortuna: di solito il numero è molto più alto. Pirati della strada che violano i limiti di velocità, azzardano sorpassi impossibili in presenza di linea continua o doppia linea e, manco a dirlo, parlano spassionatamente al telefono, guardano video, inviano messaggi. Sono loro i principali responsabili dei tanti incidenti che si registrano sulle strade: 90.821 nei primi nove mesi del 2020, con ben 1788 morti, nonostante la sensibile riduzione del traffico veicolare causata dalla pandemia. Nel 2019 gli incidenti sono stati 172.183, con 3.173 morti e 241.384 feriti. Cifre impressionanti che impongono drastici provvedimenti legislativi più incisivi e severi di quelli attuali che, evidentemente, non spaventano nessuno. Solo l’inasprimento delle pene, infatti, con condanne che prevedano “realmente” la galera per chi si macchi di violazioni molto gravi, soprattutto se fonti di incidenti, può fungere da deterrente. Un valido supporto al necessario inasprimento delle pene, inoltre, potrebbe giungere da un’idea mutuata dal famoso decreto Salva Italia, che sancì la possibilità di denunciare gli evasori fiscali chiamando in anonimato la Guardia di finanza. È evidente che le forze dell’ordine non possono monitorare con continuità tutto il nodo stradale nazionale. Da uno studio di qualche anno fa, effettuato dall’ACI, è emerso che in Italia ogni giorno si muovono circa due milioni di pendolari, con serpentoni di auto che, messe una dietro l’altro, coprirebbero la distanza che separa Milano da Pechino. Il coinvolgimento dei cittadini, pertanto, al fine di contrastare i pirati della strada, risulterebbe oltremodo prezioso. Come fare? È molto semplice. Serve una legge che, prevedendo un compenso, incentivi l’utilizzo della telecamera da cruscotto, meglio nota come “dash cam”, in grado di riprendere tutto ciò che accade all’esterno della vettura nella direzione in cui il dispositivo sia rivolto. L’applicazione più utile, ovviamente, è quella sul cruscotto o sul parabrezza anteriore, al fine di inquadrare il senso di marcia. In commercio sono disponibili vari modelli, con prezzi crescenti a seconda delle caratteristiche. Contrariamente a quanto si possa pensare, però, i costi sono davvero irrisori! Le più sofisticate si aggirano sui trecento euro; se ne trovano di ottime intorno ai cento euro e addirittura è possibile soddisfare ogni esigenza di ripresa spendendo quaranta-cinquanta euro, tra l’altro senza doversi preoccupare di imparare complesse funzioni, tipiche dei modelli più costosi! Immaginiamo di marciare su una strada a scorrimento veloce, con sole due corsie, per lunghi tratti divise da una doppia linea che dovrebbe indurre tutti a starsene tranquilli in colonna, rispettando il limite di velocità. Manco a dirlo! A chi non è capitato, in simili circostanze, di vedersi sorpassare da dieci quindici auto, magari rischiando di restare coinvolto in un incidente? In casi come questi basterebbe portare il video al più vicino commissariato di polizia e i pirati individuati grazie al numero di targa sarebbero facilmente sanzionabili. Il 20% di ogni multa potrebbe


rappresentare il compenso dell’automobilista "civile". Attualmente le blande sanzioni per il divieto di sorpasso prevedono vari importi, a seconda della tipologia di violazione, che vanno da un minimo di ottanta euro a un massimo di 646 euro per gli automobilisti e 318-1272 euro per i conducenti di veicoli con peso, carico compreso, superiore a 3,5 tonnellate. In buona sostanza, un automobilista che in un singolo giorno producesse le prove di una decina di sorpassi vietati, con importo medio complessivo di duemila euro, se la legge fosse davvero varata, intascherebbe ben quattrocento euro! Solo per i sorpassi! Se poi si aggiungesse anche l’utilizzo improprio del telefonino, la caccia ai pirati della strada potrebbe diventare una vera e propria professione!



FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI CHI NASCE BRUTO MUORE DA CAROGNA. A VOLTE. I celebri versi danteschi scelti come tema del mese servono su un piatto d’argento il riferimento al più famoso “Bruto” della storia, degno rappresentante di tutti gli emuli susseguitesi nel corso dei secoli, che sempre carogne restano, anche quando riescano a ultimare il percorso terreno senza pagare il fio per una vita infame. Di Marco Antonio capaci di inseguire individui spregevoli come Bruto e Cassio fino a Filippi, infatti, la storia ne offre davvero pochi, essendo molto più numerosi i meschini sempre pronti a comode alleanze e sporchi giochi con coloro che dovrebbero perseguire. Prima di rendere omaggio al Sommo Poeta, pertanto, sette secoli dopo il suo viaggio reale in quei luoghi visitati con stupefacente visione immaginifica, è opportuno sgombrare un terreno intriso di bellezza dalla presenza fastidiosa di un personaggetto che appesta l’aria e disturba la vista. Si chiama Arno Widman, ha 76 anni e lo scorso 25 marzo ha pubblicato uno stupido e dissacratorio articolo sul quotidiano tedesco Frankfurter Rundshau, riproponendo l’antica e noiosa querelle sul confronto tra Dante e Shakespeare, che secondo lui vede trionfare l’inglese essendo «più moderno anni luce rispetto agli sforzi di Dante di aver un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti alla poltrona da giudice della sua Morale. Tutta questa immensa opera serve solo per permettere al Poeta di anticipare il Giorno del Giudizio, mettere lui in pratica l’Opera di Dio e di spingere i buoni nel vasetto e i cattivi nel pozzo». In pratica scende un po’ più in basso degli avventori di tutti i Bar dello Sport d’Europa che, tra una birra e una gazzosa, si scannano per stabilire chi sia più grande tra Messi e Ronaldo. L’articolo, manco a dirlo, presenta una sequela impressionante di baggianate che non val la pena ribadire, anche perché hanno avuto ampio riscontro mediatico e sono facilmente reperibili in rete. Per bonificare il terreno e chiudere il discorso basta trascrivere quanto asserito, con palese indignazione e non senza un pizzico di imbarazzo, da un “tedesco” serio e per bene, lo storico dell’arte Eike Schmidt, il quale, senza tanti giri di parole mette al rogo il connazionale togliendo gli estintori dalle mani di tutti, anche da quelle di qualche babbeo nostrano - non mancano mai - aduso ad arrampicarsi sugli specchi per difendere l’indifendibile: «Arno Widmann? È un personaggio di forte vis polemica, che ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto. Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania, non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero. Sostiene che l'importanza di Dante sulla lingua italiana non sia stata così grande, perché i bambini a scuola avrebbero difficoltà a comprendere i suoi testi. Ma non è affatto così. A parte qualche parola e qualche concetto teologico, la lingua di Dante è perfettamente intellegibile ancora oggi, diversamente da quanto accaduto con l’inglese o il tedesco del Trecento, che sono praticamente incomprensibili per gli inglesi e tedeschi odierni». Serve aggiungere altro? No, salvo presentare bene, e ovviamente ringraziare, il raffinato storico, che si toglie lo sfizio di laurearsi giovanissimo in Arte moderna e medievale, vincere subito una borsa di studio Erasmus e trasferirsi agli inizi degli anni Novanta prima a Bologna e poi a Firenze, dove ha lavorato fino al 2001 presso il Kunsthistorisches Institut, prestigiosa e antica


istituzione culturale che studia la storia, l'arte e l'architettura italiana in un contesto europeo, mediterraneo e globale. Per non farsi mancare nulla, nello stesso anno si trasferisce negli USA a curare la National Gallery of Art di Washington e poi il J. Paul Getty Museum di Los Angeles. Girovagando per il mondo, acquisendo dottorati e importanti incarichi, arriva al 2015, anno in cui viene premiato con la nomina a direttore delle Gallerie degli Uffizi, ruolo fino a quel momento sempre ricoperto da un italiano. È ancora lì e speriamo vi resti a lungo: gli Stati Uniti d’Europa si costruiscono anche in questo modo. IL PREZIOSO SAGGIO DI TRE STUDIOSI CASERTANI È facile presagire che gli eventi dedicati a Dante avranno un’intensità crescente fino a raggiungere picchi altissimi nel mese di settembre, superiori anche al Dantedì che, dallo scorso anno, si celebra il 25 marzo, per ricordare il giorno del 1300 in cui avvenne lo smarrimento nella selva oscura. A Caiazzo, in provincia di Caserta, hanno bruciato le tappe e già all’inizio di gennaio è stato stampato un opuscolo a cura del Centro di promozione culturale “F. de Simone”, scritto a tre mani dai valenti e titolati studiosi Renata Montanari, Aldo Cervo e Augusto Russo: “La sofferta coscienza morale e politica di Dante nel contesto della cultura medievale”. Chi dovesse ritenere che su Dante non vi sia più nulla da dire farebbe bene a richiedere il volumetto – distribuito gratuitamente - pregno di interessanti spunti analitici, tra l’altro redatti con uno stile ancorato a una purezza espressiva d’altri tempi, purtroppo oggigiorno costretta a cedere crescente spazio a forme ballerine di grammatica, sintassi e ortografia, che inquinano la lingua più di quanto non facciano con l’ambiente le cattive abitudini degli esseri umani. GLI SPIRITI COMBATTENTI DALL’INFERNO AL PARADISO La Montanari sceglie Ulisse, Manfredi e Cacciaguida per realizzare un interessante parallelismo tra i personaggi e la personalità del Poeta, partendo dalle sostanziali differenze tra la cultura greca e quella cristiana. Ulisse è senz’altro un eroe per i greci, dal momento che il proprio talento è messo al servizio della collettività. Per la cultura cristiana, però, ogni azione è intrisa di spregevole arroganza e addirittura di sfida a Dio: si spinge oltre le colonne d’Ercole, ossia dove finiva il mondo e iniziava il Purgatorio, luogo in cui non poteva accedere in quanto pagano; usa l’inganno per entrare a Troia, invece di combattere lealmente. È lui che pronuncia la frase scelta come titolo dell’articolo, che suggerisce intenti più che nobili e ampiamente condivisibili, da Dante però visti traditi per aver vagato alla ricerca di cose vane e quindi allontanandosi da quel cammino, intriso di virtù e conoscenza, considerato la vera ragione dell’esistenza umana. I due, di fatto, si assomigliano molto: entrambi hanno sete di scoprire il mondo, di conoscenza, di andare oltre le barriere del possibile. L’unica differenza è nell’approccio dei rispettivi viaggi col “divino”: per Dante quello da lui effettuato è nella grazia di Dio, quello di Ulisse ne tradisce la volontà. Più che meritata, quindi, la condanna all’inferno. Tutto torna, nell’analisi della Montanari, anche se per chi scrive restano irrisolti dei dubbi che risalgono addirittura agli anni scolastici, sicuramente favoriti dalle gradevoli e fantastiche suggestioni suscitate dall’eroe omerico nella mente di un ragazzino già intento a sognare viaggi avventurosi per conoscere il mondo. Perché


Dante mette in bocca a Ulisse dei versi così belli, volendone dimostrare l’empietà? Perché fa dire a Virgilio, quando si rivolge a Ulisse e Diomede: «s’io meritai di voi mentre ch’io vissi […]quando nel mondo li alti versi scrissi?» Di quali alti versi parla? Nell’Eneide non è riservato uno spazio importate ai due personaggi, citati solo di sfuggita e non certo in modo positivo: a Diomede si rivolsero Latini e Rutuli, desiderosi di cacciare Enea dai loro territori, ma l’eroe greco si rifiutò di aiutarli, nonostante la vecchia rivalità con l’eroe troiano; Ulisse, definito ben tre volte “crudele” nel secondo libro, viene giudicato dalla parte troiana e quindi romana, e il giudizio espresso non è certo positivo. Non volendo dare credito alla fantasiosa interpretazione di alcuni dantisti, secondo i quali Virgilio si sarebbe spacciato per Omero e avesse addirittura parlato in greco sia per risultare più credibile sia per vincere l’eventuale ritrosia al dialogo (cosa che in effetti riferisce a Dante, essendo diffuso all’epoca il convincimento che i Greci avessero un carattere scontroso) ritengo più verosimile che, magari in modo subliminale, Dante avesse voluto esprimere “anche” sentimenti di sincero apprezzamento nei confronti di un personaggio che, evidentemente, sentiva a sé affine. I dubbi, purtroppo, sono destinati a perdurare, almeno fino a quando non sarà possibile inventare una di quelle straordinarie macchine che consentano di viaggiare nel tempo e che spopolano solo nei film di fantascienza, ammesso e non concesso che Dante risponda con sincerità ai quesiti postigli. Di particolare interesse è il capitolo dedicato a Manfredi, nel quale, concessa una pennellata rapida all’ingerenza della Chiesa nel potere temporale e al perché Foscolo definì Dante ghibellin fuggiasco, l’autrice si sofferma sul grande rispetto di cui beneficia il biondo, gentile e bel nipote di Costanza d’Altavilla, con molteplici e ben definiti riferimenti agli eventi storici. Manfredi, come noto, era inviso alla Chiesa, che gli preferiva gli Angioini, corruttibili e fedeli: le persone servizievoli sono sempre le preferite dei potenti, tanto meglio se con fedina penale che ne testimoni la natura malvagia. Nonostante i molteplici tentativi di trovare accordi con il papato, sfruttando anche le notevoli doti di raffinato diplomatico, sicuro retaggio paterno, fu scomunicato per ben tre volte. A sette mesi dalla morte le spoglie furono disseppellite e disperse nei pressi del fiume Garigliano, in segno di disprezzo per la sua persona. Anche se molti storici si affannano da sempre a dimostrare che il misfatto fosse imputabile all’iniziativa personale del vescovo di Cosenza, quelli meno abbagliati dalle logiche di asservimento sono concordi nel ritenere che l’ordine fosse stato impartito proprio da papa Clemente IV. Dante si sente molto simile a Manfredi e gli dedica parole toccanti. È appena il caso di ricordare, del resto, la grande considerazione tributata a tutta la Casa Sveva e il bel pistolotto nel De vulgari eloquentia: «In verità gli eroi davvero insigni, Federico imperatore e il nobile suo figlio Manfredi, spandendo intorno la nobiltà e la rettitudine del loro animo, finché la fortuna lo concesse, seguirono virtù umane, sdegnando le bassezze dei bruti, perciò chi aveva nobile cuore ed era stato dotato delle grazie e virtù divine cercò di accostarsi alla maestà di siffatti principi». Il format della pubblicazione, concepito precipuamente per un pubblico di iniziati e quindi volutamente sintetico nelle parti la cui conoscenza si dia per scontata, lascia solo trasparire un importante spunto riflessivo sulle varie dominazioni straniere, senza distinguere dettagliatamente, per azioni e lascito genetico, quelle positive (Normanni; Svevi; Longobardi), da quelle negative (Bizantini; Angioini;


Aragonesi, sia pure con qualche eccezione; Spagnoli, sorvolando su Francesi e Arabi, la cui influenza presenta aspetti più complessi, non scindibili in modo netto). Relativamente al Cacciaguida è arcinoto il cedimento sentimentale di Dante, che gli conferisce immeritata fama in virtù del legame familiare; nondimeno la Montanari offre gradevoli e interessanti spunti analitici, che testimoniano la profonda conoscenza dell’opera dantesca e dei più reconditi meandri concettuali che ne muovono le fila. L’ESEMPLARITÀ Con il coraggio di chi non teme i confronti, Augusto Russo sviluppa la tematica dell’esemplarità in Dante, che trova ampia e qualificata trattazione nelle opere di una tra le più nobili figure del panorama culturale italiano, Salvatore Battaglia, a pieno titolo citato nella bibliografia, insieme con l’altro mostro sacro di cui essere fieri e orgogliosi, Francesco De Sanctis. Argomento quanto mai delicato e complesso, che l’autore affronta alternando le competenze storiche a quelle letterarie, lasciando trasparire una visione per certi versi anti-crociana, del resto ben evidente anche nell’opera del Battaglia. La spiritualità dell’individuo descritta da Dante viene associata a quella concepita da Agostino come unico elemento di comunanza tra i due geni, sostanzialmente diversi per altri aspetti fondamentali dell’essere. La figura di Dante, protagonista e testimone di un viaggio che scandaglia l’essere umano nelle sue multiformi relazioni con il bene e il male, viene rappresentata con raffinata ed esemplare maestria, senza cedere troppo all’esplicazione semplicistica perché l’autore si toglie lo sfizio di scrivere da “erudito per eruditi”, in modo da assidersi, legittimamente e con pari dignità, al fianco dei grandi letterati. Davvero superba la trattazione del confronto tra l’Ulisse omerico e l’Enea virgiliano, che avrebbe meritato qualche pagina in più, magari per sciogliere se non proprio i succitati dubbi almeno alcuni nodi sullo sradicamento dell’eroe omerico dalle connotazioni originali, cosa che invece non avviene per Enea, il cui destino – dice Russo -«nasce dalla distruzione, dalla fuga e dall’esilio definitivo», sorvolando sull’elemento più caratterizzante della sua salvezza: il provvidenziale intervento di Poseidone, amante della madre Afrodite, che lo salvò da sicura morte nello scontro contro l’imbattibile Achille, avvolgendolo in una spessa nebbia e ponendolo alle spalle dei soldati più esposti, ben consapevole che egli doveva vivere per perpetuare la propria stirpe, destinata a pesantemente incidere sulla storia dell’uomo grazie alla fondazione di Roma. CRITICARE DANTE È POSSIBILE Se con Montanari e Russo possiamo allargare gli orizzonti speculativi sulla materia dantesca, restando comunque nell’alveo di concetti che riflettono un consolidato filone, Aldo Cervo ci fa traballare, e non poco, con una dissacrante analisi che farà storcere la bocca a molti autorevoli dantisti. Criticare alcuni aspetti dell’opera dantesca, infatti, non è un reato se ciò viene fatto con animo sereno, volto ad analizzare il contesto narrato senza pregiudizi come quelli riscontrabili nel buffonesco articolo di Widman. Non sono certo mancati i critici autorevoli capaci di fare le pulci al Poeta, del resto, a cominciare da Croce, che proprio non sopportava i dantolatri e voleva «togliere Dante dalle mani dei dantisti, cioè liberarlo dalla guardia che gelosamente gli facevano coloro che si fregiavano di questo nome e


coltivavano un genere di ricerche e dispute chiamate per antonomasia questioni dantesche», come scrisse nel 1948, nel numero 10 dei Quaderni della Critica, con riferimento al testo sulla poesia di Dante, pubblicato ventotto anni prima. La pur severa analisi crociana, tuttavia, si trasforma in carezze rispetto all’impeto con il quale il coriaceo studioso caiatino tira fendenti degni di un cavaliere di Camelot, tra l’altro difficilmente confutabili, almeno da chi non possa vantare analoga o superiore frequentazione dei fascinosi e non certo facili sentieri culturali quotidianamente percorsi da oltre sessanta anni. Che “c’azzecca” Virgilio come simbolo della ragione? Cervo apre subito le ostilità e non le manda a dire: «Virgilio non è un filosofo. È un poeta. E la poesia non è, tra i generei letterari, il più idoneo a batter i sentieri del razionalismo, nemmeno quando veicola chiavi di lettura della vita». Siamo solo all’aperitivo e il pranzo si presenta davvero succulento. Si parla di Paolo e Francesca. Per amor di sintesi sorvoliamo sulla storia, ben nota, e soffermiamoci sulle dolorose bacchettate inferte dall’insigne studioso per l’eccesso di benevolenza riservato ai due amanti, colpevoli di una condotta ritenuta immorale e ingiustificabile. Va detto, per meglio inquadrare il personaggio, che il professore Cervo è noto senz’altro per i grandi meriti culturali, che lo hanno visto, tra l’altro, fondatore di un premio letterario e presidente dell’Associazione storica del caiatino, ma più ancora per un rigore esistenziale senza eguali, ancorato ai più nobili presupposti dei precetti cristiani, coltivati nei fatti e non a chiacchiere. Uomo di grande pregio, quindi, e rare virtù, che non fa sconti alle pur legittime considerazioni di chi si approcci ai fatti della vita con uno spirito più comprensivo e magari più realistico. È ben chiaro, infatti, che la retorica della fedeltà assoluta, almeno in amore, afferisca esclusivamente al campo religioso e letterario, dal momento che nessuna donna, foss’anche moglie di un re, può resistere al fascino di un cavaliere, qui inteso in senso metaforico, per specificare che esiste un limite invalicabile anche dalla più virtuosa tra le donne, che varia in funzione della sua effettiva capacità di resistenza alle attenzioni del Lancillotto di turno: più o meno forte nel caso in cui egli dovesse appartenere allo stesso rango sociale, con crescente perdita di potenza in caso di marcato divario. Questi presupposti, tuttavia, per lo studioso caiatino rappresentano merce avariata, da disperdere nelle fogne. Da qui la vicinanza a Gianciotto, il brutto marito cornificato da Francesca, perché, nonostante si fosse fatto giustizia da solo ammazzando fratello e consorte, «non è accettabile che, mortificato da madre natura, dovesse poi esserlo anche da un’infedele compagna e, ancor peggio, da un fratello fregnone». Si noti bene quell’ancor peggio che la dice lunga su come Cervo percepisca i legami del sangue rispetto a quelli sentimentali, universalmente riconosciuti più pregnanti: Amor che move il sole e l’altre stelle; Omnia vincit amor e così via. In quanto a Ugolino – continua Cervo – era ben giustificato il risentimento nei confronti dei pisani, visto che lo avevano lasciato morire di fame insieme con figli e nipoti, ma non fino al punto da desiderare di vederli tutti annegati nell’Arno, bambini compresi. (Inferno, canto XXXIII, 78-81). Qui è il concetto del perdono che si fa strada. L’elemento più intrigante dello scritto di Cervo, tuttavia, lo si trova nella citazione del I Canto del Purgatorio, relativamente alla vicenda che vide protagonisti Catone


Uticense, probo e saggio, ma non propriamente un tipo alla Brad Pitt, e la moglie Marzia. Per il severissimo studioso non vi sono dubbi: Marzia si era “invaghita” del celebre penalista Ortensio Ortalo e, lasciato il marito, gli si concesse. Alla morte di Ortalo, Marzia chiese al marito di ritornare da lui, ottenendo un deciso rifiuto. Dante mette in bocca a Virgilio le parole che dovrebbero indurre Catone a riprendersi la moglie, definita casta, cosa che fa infuriare Cervo, per il quale si è solo in presenza di un «mezzuccio da lavandaia, escogitato in precedenza, e lasciato formular da Virgilio, a piegare un proprio desiderio la volontà altrui. Una captatio benevolentiae meschina, da mestieranti delle mistificazioni». Che botta! Dante, quindi, riteneva legittimo e opportuno il ritorno a casa della casta Marzia e proietta il suo pensiero nelle parole di Virgilio. Per Cervo, quindi, è doppiamente colpevole: per l’inopportuna difesa di Marzia, ritenuta una zoccola, e per il mezzuccio da lavandaia utilizzato con l’esortazione formulata da Virgilio (in vista ancor ti priega che per tua la theni) che in realtà riflette solo il suo desiderio. Con un fendente degno di quello inferto da Alessandro sul famoso nodo di Gordio, pertanto, chiude una vicenda che, nella realtà, non presenta lati oscuri. Non vi fu alcun tradimento, infatti, e Marzia (non a caso definita casta) fu offerta da Catone al fraterno amico Ortensio Ortalo affinché gli desse un figlio, essendo egli sposato con una donna sterile. La pratica, che oggi suscita sgomento, era pienamente legittima all’epoca e regolata dalla Conventio in manum, ossia il passaggio della moglie nella potestà maritale. Marzia ritornò dal marito dopo la morte di Ortalo, tra l’altro con una ingente eredità. La vita coniugale riprese serenamente e non poteva essere diversamente dal momento che era stato Catone l’artefice del suo momentaneo allontanamento. Marzia è definita da tutti gli storici una donna decorosa, rispettabile e leale. Del resto Dante la colloca nel limbo degli spiriti magni e nel Convivio le dedica un ampio e toccante brano, interpretando il suo rientro nel focolare domestico come il ritorno dell’anima a Dio, dopo la morte. È pur vero, tuttavia, che i versi danteschi hanno suscitato non poche perplessità e controversie proprio per la loro ambiguità rispetto al naturale svolgimento dei fatti e molti commentatori concordano proprio con quanto asserito da Cervo: Marzia si sarebbe innamorata di Ortalo, avrebbe lasciato il marito, sarebbe stata ripudiata per il tradimento, avrebbe poi implorato il marito di riprenderla dopo la morte di Ortalo e sarebbe stata quindi perdonata. Una versione che proprio non sta in piedi, alla luce della succitata realtà storica, e che non regge nemmeno sotto il profilo di un’analisi deduttiva, non essendo possibile ritenere Catone, per quel che si sa di lui, uomo capace di perdonare un adulterio: non a caso divorziò dalla prima moglie, Atilia, proprio perché fu da lei cornificato. La vicenda è ben riportata da Plutarco nel capitolo delle “Vite parallele” dedicato a Catone, nel quale ben traspare il carattere dell’Uticense e il forte disgusto nei confronti delle donne di facili costumi, sicuramente maturato anche in ambito familiare dal momento che le due sorelle, in tema di zoccolaggine, non erano seconde a nessuno: Servilia, come noto, spietata matrona e madre di Bruto, iniziò a fare bunga bunga con Cesare sin da ragazzina. Una divertente scenetta che si verificò durante la seduta in Senato nella quale si discuteva di un presunto coinvolgimento di Cesare nella congiura di Catilina ben evidenzia il carattere ombroso di Catone. Vedendo qualcuno, proveniente dall’esterno, che consegnò furtivamente un biglietto a Cesare, ritenne che si


trattasse di informazioni inerenti alla congiura e iniziò a inveire contro il generale, invitandolo con voce ferma a consegnargli la tavoletta per leggerne il contenuto al cospetto di tutti i senatori. Si può immaginare la sorpresa quando scoprì che si trattava di una licenziosa lettera d’amore che la sorella aveva inviato al suo amante. Rosso in volto per la vergogna, gli riconsegnò la lettera dicendogli testualmente: «Tieni, pazzoide». L’altra sorella, anche lei di nome Servilia, - riferisce sempre Plutarco - fu ancora più svergognata: «Sposata a Lucullo, che era uno dei personaggi più stimati di Roma, fu cacciata di casa per la sua impudicizia dopo aver dato al marito un figlio». A questo punto mi sia consentita una nota di colore dai vaghi sentori vichiani, perché ogni tempo ha il suo Plutarco e la storia non manca mai di sorprenderci per i continui corsi e ricorsi, anche a distanza di millenni. Nel 63 a.C. si rise a crepapelle al Senato per il biglietto di Servilia a Cesare, scioccamente reso di pubblico dominio dal fratello, ignaro del contenuto. Quasi ventuno secoli dopo, a un chilometro di distanza, in quel famoso Palazzo di Montecitorio che ha visto alternarsi tanti figuranti e pochi grandi attori, si verificò una scena non molto dissimile, anch’essa resa di pubblico dominio perché i protagonisti non si resero conto di essere ripresi da un attento fotografo munito di potente teleobiettivo. Siamo nel maggio 2008 e si discute della fiducia al Governo. Per meglio gustare la vicenda riporto pari pari quanto scritto da Carmelo Lopapa su “La Repubblica” del 14 maggio 2008: «Al liceo Montecitorio le studentesse si annoiano un po' e il professore per un momento si distrae pure lui. La mattinata scorre pigra e senza colpi di scena, è solo il discorso per la fiducia a dare una certa solennità alla seduta. Berlusconi scorge sui banchi Nunzia (De Girolamo), classe '75, già soprannominata dai colleghi la «Carfagna del Sannio», e Gabri (Giammanco), palermitana, classe '77, approdata dal Tg4. La bruna e la bionda, new entry non sconosciute al Cavaliere. Che invece non scorge i fotografi che zoomano dall'alto proprio nel momento in cui il premier prende un foglio intestato "Camera dei deputati" e scrive. «Gabri, Nunzia, state molto bene insieme! Grazie per restare qui, ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione, Vi autorizzo (ben sottolineato, ndr.) ad andarvene!» E sul retro: «Molti baci a tutte e due!!! Il "Vostro" presidente». Il commesso compie pochi passi col foglio ripiegato. Gabriella lo prende, legge a Nunzia, decidono di rispondere. Nascondendo la carta (intestata) agli zoom dei fotografi, non abbastanza però. «Caro e (forse, la parola è in parte coperta, ndr) dolce presidente, gli inviti galanti li accettiamo solo da lei. E poi per noi è un piacere e un onore essere qui...». Altro viaggio del commesso e il Cavaliere sorride alle due, compiaciuto, il bigliettino tra le dita». O tempora o mores, è il caso di aggiungere. Il volumetto sarà ufficialmente presentato in un convegno che si spera possa tenersi nel mese di settembre. L’evento costituirà una buona occasione per sbrogliare, nei limiti del possibile, la matassa Marzia-Catone e approfondire le ragioni di quel marcato risentimento nei confronti di Dante, che traspare sin dai primi righi del contributo, nei quali, con ben percepibile compiacimento, è trascritto il famoso sonetto di Cecco Angiolieri che lo definisce attaccabrighe, approfittatore, criticone, accusandolo anche di turpiloquio e di presunzione, cui fa seguito la citazione di Petrarca, che manifestò disprezzo per l’uso del volgare in luogo del latino.


Chi di spada ferisce di spada perisce, vien da concludere, dal momento che Cervo, alla pari di ciò che fa Dante con Virgilio, utilizza i due illustri personaggi per trasmettere forti concetti prettamente personali.



PER ASPERA AD ASTRA. FORSE. INCIPIT NR.1 «Papà, ma è mai possibile che milioni di persone siano così stupide da non rendersi conto di portare al potere inetti e delinquenti?». «No, figliolo. Non sono stupidi e tu sei ancora troppo ingenuo. A loro sta bene così». (Conversazione tra un padre quarantenne e un figlio quindicenne nei primi anni Settanta del secolo scorso) INCIPIT NR.2 «Babbo, babbo ci dai 20 euro? Ci shoppy delle skin con le v-buk?» «Eh? Non ho capito una parola…» «Ci dai venti euro per shoppare delle nuove skin?». Il papà fa la faccia di chi non sa di cosa si parli. Interviene la sorellina, che scandisce bene le parole, compitandole lentamente. «Shoppare…le..skin…su Fortnite…con le V-buck». «Siamo gli unici bot del team che hanno solo una skin!». (Il fratellino, con aria implorante, come quella dei bimbi di un tempo quando chiedevano il trenino elettrico, Barbie o Cicciobello). «Ma che lingua parli? Non ho capito una parola?». (Il papà, visibilmente turbato, pensando a qualche sfasatura mentale dei pargoli, che invece incalzano con calma, scandendo bene le parole, per farsi meglio comprendere). «Devi shoppare delle skin con le V-buck sennò ci bannano dal team perché siamo gli unici bot con la skin di default». (Report. Puntata del 3 maggio 2021. Servizio sui videogame che fungono da pericolosa droga per i giovanissimi, inquinano il loro linguaggio e favoriscono la ludopatia). UTOPIA: L’ISOLA CHE NON C’È «Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo Paese. L’uomo di Stato ha voluto guidare, mentre il politico si è accontentato di lasciarsi portare dalla corrente». Così scriveva il predicatore e teologo statunitense James Freeman Clark, nel 1876, in un articolo intitolato “Wanted, a Statesman (Statista cercasi)”. (In Italia, erroneamente, si attribuisce ad Alcide De Gasperi la prima parte della frase). Ai massimi livelli del potere, però, arrivano quasi sempre dei politici che non dimenticano la loro natura. Di tanto in tanto capita che emerga qualche vero statista, qualcuno realmente intenzionato a ragionare in prospettiva, trasformandosi quindi in una spina nel fianco per chi non sappia guardare oltre il proprio orticello e se ne freghi dei “posteri”. Gli ortolani, pertanto, anche se in feroce lotta tra loro, trovano comodo allearsi pur di mettere fuori gioco l’intruso. Qualche volta sono costretti anche a uccidere, cosa che fanno senza scrupoli da millenni e senza alcun riguardo per il ruolo delle vittime: scienziati, artisti, governanti, letterati, se non si rendono complici di un “sistema” perverso, sono solo degli ostacoli da eliminare, come accaduto a Socrate, Ipazia, Cicerone, Seneca, Giordano Bruno, Boezio,


Thomas More, Andrea Chenier, Brasillach e a tanti altri personaggi illustri che, in un arco temporale di ben venticinque secoli, hanno pagato con la vita l’opposizione al potere dominante, sommandosi a un numero spropositato di persone – centinaia di milioni - a vario modo vittime tanto degli “ismo” che il genere umano è stato capace di partorire per farsi del male quanto dei regimi apparentemente democratici ma intrisi di sottile tirannia, talvolta palesemente spudorata. Ogni epoca ha avuto i suoi geni, nati postumi e capaci di dettare le linee guida per realizzare un mondo migliore, la “città del sole”, una società ancorata a quei nobili valori che consentono di vivere in armonia e in pace, rispettando un semplicissimo precetto: “ama il prossimo tuo come te stesso”, che non trova albergo solo nella dottrina cristiana ma rappresenta il pensiero condiviso di chiunque abbia chiaro nella mente cosa serva realmente all’umanità per non autodistruggersi. Iniziò Platone, con la “Repubblica”, a concepire uno stato perfetto, destinato a fungere da modello per l’eternità, senza peraltro credere più di tanto nella possibilità oggettiva che ciò accadesse, se è vero come è vero che diede maggiore risalto a un’opera successiva, “Le leggi”, con la quale disegnò una società meno perfetta ma più attinente ai limiti della natura umana. Dopo di lui Thomas More e Tommaso Campanella hanno scritto non meno significative opere, intrise di quella perfetta armonia che si può definire in un solo modo: utopia. Decine di altri pensatori, poi, talvolta impegnati anche in politica, si sono affannati a redigere progetti socio-politici tesi a privilegiare il bene comune: ne abbiamo già parlato più volte in questo magazine, soprattutto negli articoli dedicati ai progetti federativi europei, e quindi è perfettamente inutile ribadire concetti triti e ritriti. Seimila anni di storia, di fatto, hanno sancito una terribile verità: il genere umano non è proprio capace di vivere in reciproca armonia e mai lo sarà. È solo possibile, pertanto, continuare a tratteggiare sulla carta “una società ideale”, anche se ciò servirà solo a conquistarsi un posticino privilegiato nei libri di storia e filosofia. CHI SIAMO. DA DOVE VENIAMO. Assodato – e non certo da ora – che si renderebbe necessario un nuovo ordine mondiale in grado di sovvertire, prima ancora delle regole nefaste, la mentalità degli esseri umani, soffermiamoci sui fatti di casa nostra per cercare di sbrogliare una matassa confusa non poco, incrostata di nefandezze antiche e continuamente implementata da quelle moderne, fonte di quel tanfo che tutti percepiamo e condanniamo, senza però essere in grado di ammettere la quota di responsabilità personale per la sua crescente consistenza. Prima di chiederci dove vogliamo andare e come, pertanto, è bene chiarirci le idee su due concetti fondamentali: da dove veniamo e chi siamo, cosa tra l’altro non facile perché le distorsioni mentali tipiche del genere umano tendono a esaltare tanto le radici quanto sé stessi, infondendo in ciascuno la sensazione di essere il depositario di verità assolute e delle ricette giuste per curare i mali del mondo. “La vita è adesso”, ci ammoniva Claudio Baglioni circa quaranta anni fa, e pertanto, non fosse altro per rendere più duttile l’articolo, soffermiamoci sul presente, anche perché le radici remote dei nostri malanni sono state più volte trattate in passato e sicuramente lo saranno anche in futuro.


Sia pure solo per grandi linee, essendo impossibile procedere altrimenti, sono due gli aspetti fondamentali da sviscerare: il confronto generazionale tra gli adulti nati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e i loro figli, nipoti e pronipoti; il quadro socio-politico. BOOMER, MILLENIALS, GENERAZIONE Z, GENERAZIONE ALPHA Se nel corso dei secoli i cambiamenti sociali avvenivano in modo così lento da consentire a genitori e figli di “respirare la stessa aria”, gli sconvolgimenti epocali post 1968 hanno subito un’accelerazione così marcata da creare fossati generazionali invalicabili, con conseguenze disastrose sul piano relazionale. Per giovani e giovanissimi (“millenial”, se nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta; “generazione Z” se nati dalla metà degli anni Novanta fino al 2010; “generazione Alpha”, se nati a partire dal 2010, ossia dei mocciosetti che già si fanno sentire, mettendo in crisi i loro genitori “millenials”) gli adulti sono i “boomer”, ossia coloro che sono nati dal 1946 al 1964, periodo in cui si registrò un sensibile incremento demografico (baby boom), che proseguì parallelamente al boom economico post bellico. Il termine è utilizzato con finalità dispregiative, per deridere ed esprimere un disprezzo assoluto nei confronti di elementi ritenuti fastidiosi e sorpassati: modo di pensare; visione del mondo; propensione all’impegno severo e ai sacrifici per costruire il futuro; rispetto per la famiglia tradizionale; rifiuto di condotte di vita aberranti e autodistruttive, che però per i giovanissimi costituiscono una droga della quale non riescono a fare a meno. Il mondo adolescenziale e giovanile ha assimilato metodiche comportamentali che, oltre a sovvertire sensibilmente le vecchie scale dei valori, favoriscono azioni insulse a difesa del malsano stile di vita. La cronaca riporta sistematicamente quelle più estreme, quali, per esempio, l’omicidio dei genitori che si rifiutano di dare soldi per l’acquisto di droga. Solo pochi giorni fa a Catania la polizia ha arrestato un quarantenne mentre si accingeva a sfondare la porta di casa e con urla disumane minacciava di uccidere i genitori, già duramente vessati da molti anni, se non gli avessero consegnato i soldi per la droga. Sempre in questi giorni, una ragazza giovanissima, rispondendo alle domande di una cronista televisiva, ha dichiarato candidamente di essere contraria alle restrizioni per il contenimento del virus perché «tanto a morire sono solo gli anziani», non lei o suo padre, che ha cinquanta anni, aggiungendo, poi, una frase ancora più scioccante: «Arrivati a questo punto, dico la verità… io tengo molto ai miei nonni, ma se devono morire, morissero». Nel servizio giornalistico altri giovani si sono espressi in modo non dissimile, manifestando una disumanità e un vuoto culturale che atterriscono. Cosa imparano a scuola questi ragazzi? Che educazione ricevono dai genitori? Il fallimento del processo formativo è evidente, ma come intervenire? L’argomento è già stato trattato nel numero di marzo scorso, dedicato alla “Pubblica Distruzione” e qui si può solo aggiungere che o si trova il coraggio di bloccare “drasticamente” il processo disgregativo o immetteremo nella società masse crescenti di individui che, anche in età adulta, resteranno prigionieri delle pericolose distorsioni dell’essere, mancando in loro ogni presupposto che possa favorire lo sviluppo della maturità. Non è un compito facile, ovviamente, perché da un lato occorre scardinare un intero mondo intorno al quale ruotano interessi miliardari, dall’altro occorre recuperare


processi formativi da tempo accantonati e ristrutturarli in modo che risultino in linea con le esigenze temporali. Contestualmente occorre “formare” adeguatamente i “formatori”, destrutturando il fardello di sciocchezze assimilate nel percorso scolastico, universitario e post universitario. Un gran casino, insomma. I LIMITI DELLA SOCIETÀ DEIDEOLOGIZZATA. Sulla realtà politica del Paese occorre essere chiari, avendo il coraggio di non nascondersi dietro il dito e sciorinare anche le verità scomode, di difficile accettazione soprattutto per chi, magari in perfetta buona fede, nutra sentimenti di appartenenza. In primis va detto, senza tanti giri di parole, che sin dal 1860 non si è mai registrata una classe politica che rispondesse “unicamente” agli interessi del Paese. Corruzione e interessi personali non sono mai mancati nei governi della destra e della sinistra storica, per poi perpetuarsi durante il fascismo e nel dopoguerra, fino ai giorni nostri. Se si volesse realizzare un grafico che, partendo dal 1860, esprimesse la qualità della classe politica su una scala da uno a dieci, il sei potrebbe essere il voto più alto e lo si riscontrerebbe forse in non più di due circostanze a livello governativo e due-tre volte a livello parlamentare, escludendo però il periodo post-bellico. Con l’avvento di Berlusconi si è avviato un processo di omogeneizzazione che, in pochi anni, ha favorito l’ascesa di una classe politica pregna di tutti i difetti di quelle precedenti e scevra dei pochi meriti, per lo più ascrivibili al livello culturale. I risultati sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: nessuna delle componenti politiche che si contendono il potere risponde appieno alle esigenze di una società complessa e in forte evoluzione. Il centro-sinistra non è in grado di fronteggiare la grande crisi epocale dettata dall’immigrazione clandestina; non è in grado di fronteggiare il vuoto esistenziale dei giovani, che tra l’altro trova origine proprio nei falsi miti esaltati dalla sinistra sessantottina; sull’onda di un malsano buonismo frammisto a malsana tolleranza favorisce il consumo di droghe e alcool, con le tragiche conseguenze a tutti note; non è in grado di tutelare le classi sociali che più soffrono, gli schiavi delle multinazionali sfruttati oltre ogni limite di decenza umana, essendosi appiattita su posizioni liberal-capitaliste e trovando comodo porsi al servizio dei poteri forti, adusi a creare ricchezza in modo sporco; non è in grado di avviare un serio processo di trasformazione sociale, essendo attento solo ad assecondare le voglie malsane di un elettorato che, per certi versi è definito “radical-chic”, ma che di radicale ha solo la presuntuosa prosopopea dei parvenu e di chic proprio nulla. Secondo modalità comportamentali tipiche dei parvenu, poi, gli esponenti del centro-sinistra sono pronti a perdere la faccia pur di tutelare la poltrona, come sta emergendo in questo periodo che li vede tollerare l’intollerabile in quella scalcinata compagine governativa che fa ridere il mondo dal momento che si definisce “governo dei migliori”, pur inglobando ministri ai quali non sarebbe lecito affidare nemmeno la gestione di un condominio. Di converso bisogna riconoscere che nella coalizione, soprattutto nella componente più a sinistra, albergano delle persone “parzialmente ragionevoli”, almeno su alcune importanti tematiche, risultate preziose nella gestione della pandemia che, qualora fosse stata affidata ai “Bolsonaro” nostrani, pronti prima a negarne la pericolosità e poi a favorire anzitempo il deleterio “liberi tutti”, avrebbe creato disastri non dissimili da quelli che si registrano in Brasile e India.


Ancora più caotico il quadro d’insieme del centro-destra, i cui esponenti utilizzano impropriamente il termine “destra”, non incarnando in alcun modo l’essenza di una vera destra moderna, sociale, europea ed europeista, che si faccia carico di premiare la meritocrazia in modo da impedire la fuga dei cervelli; sviluppare una sana coscienza solidaristica per tutelare i meno abbienti; perseguire gli evasori e la criminalità organizzata; riformare la giustizia avendo a cuore le vittime e non i carnefici, come si sta tentando di fare attualmente; favorire la cultura e la ricerca scientifica, cosa che sarebbe risultata preziosa in questo periodo, che ci vede come accattoni costretti ad accettare l’elemosina, non gratuita, dei vaccini prodotti altrove. Un giorno sì e l’altro pure, poi, si professano “liberali”, senza rendersi conto di pronunciare il più grossolano degli ossimori, manifestando una pochezza culturale che fa il paio con quella di tanti elettori, i cui commenti nei social media fanno accapponare la pelle. È sì vero che la componente leghista, nel primo governo Conte, ha gestito in modo ottimale i flussi migratori (e si dovrebbe solo vergognare chi sostenga subdolamente il contrario, mentendo sapendo di mentire) ma è troppo poco per conferire alla coalizione il privilegio di governare il Paese e a Berlusconi il piacere di portare al governo le sue amichette e i suoi lacchè. Il Movimento 5Stelle per anni ha raccolto il consenso di tutti coloro che avevano ben chiari i limiti e le manchevolezze delle due principali coalizioni, salvo poi implodere quando le tentazioni del potere hanno preso il sopravvento sulla primitiva propensione alla purezza. Non vanno disconosciuti, tuttavia, i meriti per aver portato alla luce i tanti giochi sporchi praticati sulla pelle dei cittadini. Ora è impegnato in una difficile ristrutturazione interna, che dovrebbe conferirgli un’anima e un preciso campo operativo che, a quanto pare, guarda a sinistra, sia pure nel modo più caotico e contraddittorio che la realtà politica italiana abbia mai registrato. Ciò è un vero peccato: un Movimento 5Stelle che fosse in grado di proporsi al Paese secondo i dettami di un tempo, evitando le velenose contaminazioni sinistrorse, soprattutto ora che si è liberato di tanta zavorra e si è affidato a un uomo per bene come Conte, potrebbe rilanciarsi grazie all’attenzione che sicuramente riceverebbe dai tantissimi italiani che schifano gli altri partiti e si rifugiano nell’astensionismo, a cominciare dagli elettori “realmente e degnamente” di destra, che già nel 2013 e 2018 contribuirono sensibilmente ai successi elettorali. Un quadro pesante e nefasto, come si vede, che non lascia presagire nulla di buono e registra la grande assenza di una vera destra. Un’assenza che scaturisce da una realtà sconcertante: manca il tessuto sociale in grado di favorirne l’affermazione. NON SMETTERE DI SOGNARE. NON SMETTERE DI COMBATTERE La realtà, dunque, e quella che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno ed è preceduta da tremila anni di storia che sono più che illuminanti per chi la conosca bene. Ma che senso ha abbandonarsi alla disperazione o alla rinuncia, accettando passivamente il fatto che non sia possibile un futuro migliore? Nessuno, perché una generosa illusione è sempre da preferire a una negazione preconcetta: aiuta a sopportare il peso di un’esistenza condizionata dallo squallore dilagante chi dello squallore non sia responsabile. Bisogna continuare a lottare, quindi, come se davvero le cose potessero cambiare da un giorno all’altro, senza mai smettere di denunciare i mali del sistema, sbugiardare i mistificatori e mettere in riga i somari


che si diano arie da cavalli, ricordando la loro vera natura. Devono aver pensato la stessa cosa anche i due visionari che, agli inizi del secolo scorso, in un’Europa sonnecchiante e ancora non presaga delle nuvole che si addensavano all’orizzonte, osarono pensare in modo rivoluzionario al futuro: Filippo Tommaso Marinetti e Vladimir Vladimirovič Majakovskij. Non potevano essere più diversi per carattere, formazione culturale, stile di vita, pensiero politico. Il primo, esuberante, vulcanico, fautore della guerra come unica igiene del mondo, intriso di quel pizzico di follia che sconfina nella genialità, trovò naturale confluire con il suo Partito Politico Futurista nei Fasci di combattimento, impegnandosi nella stesura del Manifesto degli intellettuali fascisti dopo aver superato un po’ di dissenso e delusioni, assolutamente in linea con un carattere che lo portava a collocarsi al di sopra di ogni entità, anche al di sopra del fascismo e del suo capo, in modo da poter sempre tessere elogi o critiche da una posizione privilegiata. Il secondo, seppure appartenente a una famiglia nobile, aderì giovanissimo ai movimenti rivoluzionari anti zaristi, provò la durezza del carcere per ben tre volte e fu tra i protagonisti della rivoluzione d’ottobre, della quale divenne il poeta per antonomasia, ergendosi come un gigante tra una marea di altri intellettuali e artisti. Un gigante che quando si rese conto di non essere compreso dai suoi stessi compagni di partito, e forse anche schifato dal comportamento di un’attrice ventiduenne di cui si era innamorato, che aveva “osato” rifiutarsi di abbandonare il marito per seguirlo, perché – meschina – non avrebbe sopportato di condividerlo con Lilja Jur'evna Brik, amante ufficiale e musa ispiratrice, pensò bene di spararsi un colpo di pistola alla tempia. Due persone geniali, avanti e non di poco rispetto al loro tempo e lontani mille miglia dalle miserie umane, che ovviamente è riduttivo, fuorviante e sbagliato definire “fascista” e “comunista”, aduse a sognare l’impossibile avendo in comune il desiderio di mutare la Storia con l’arte; di incidere nella vita politica con la cultura; di creare un uomo nuovo, più dinamico, meno titubante al cospetto del nuovo che prende forma e pronto ad esaltare, con il sorriso sulle labbra, il coraggio e la temerarietà. Due geni che rappresentano la prova vivente di quanto sia valida la visione protagoriana dell’uomo misura di tutte le cose che, se nell’antica Grecia esprimeva semplicemente l’assenza di una verità oggettiva, apparendo essa differente a ciascun individuo in base al livello di percezione, per estensione sancisce anche l’assenza di un qualsivoglia sistema (politico, economico, sociale) di per sé definibile in assoluto valido o fallace, dipendendo tutto dalla qualità degli uomini che lo incarnano. A Marinetti andò meglio perché trovò spazio nel fascismo, riuscendo anche a portare in Parlamento il Partito Politico Futurista, grazie all’elezione di un deputato alle elezioni del 1919. Il Partito comunista-futurista di Majakovskij (Kom-Fut), invece, fu subito visto con diffidenza dal nuovo potere e bloccato sul nascere, nonostante il crescente consenso a livello di opinione pubblica, o per meglio dire, proprio a causa di esso. Nel 1921, infatti, Lenin, preoccupato per il successo popolare del poeta, diramò un ordine ben preciso alla Gosizdat, la casa editrice di Stato, che poi era l’unica operante essendo state annientate le private: «Mettiamoci d’accordo perché questi futuristi non possano pubblicare più di due volte l’anno e in non più di 1500 copie».


Non poteva finire diversamente perché il cinico pragmatismo del potere non sopporta e teme la genialità fine a sé stessa, che condiziona le menti elevandole invece di renderle schiave. Marinetti coltivò l’illusione futurista senza mai cedere un solo millimetro alla realtà, che pure doveva ben dipanarsi alla vista, considerata la grande intelligenza: convinto assertore dell’utilità della guerra e soprattutto convinto che in futuro le guerre sarebbero state combattute dai vecchi, non pago delle imprese ardimentose effettuate durante la guerra del 1911 in Libia e durante la Grande Guerra, a sessanta anni suonati non esitò ad arruolarsi volontario per andare a combattere in Etiopia e addirittura, sei anni dopo, a seguire in Russia quella scalcinata armata agli ordini del generale Messe, che lasciò nelle innevate steppe più di 84mila italiani. Sopravvissuto miracolosamente al freddo, al gelo e alla terribile controffensiva dell’Armata Rossa, aderì alla Repubblica Sociale Italiana vagheggiando, in un momento in cui era chiaro a tutti la fine di un’epoca, il sogno di un ritorno agli ideali fascisti del 1919. Oggi, manco a dirlo, si può guardare al manifesto del Futurismo solo da un punto di vista storico e culturale, ben contestualizzandolo nel periodo in cui è stato varato, al fine di comprenderne l’essenza e la portata a livello sociale. Nondimeno, proprio per non cedere a quell’avvilente nichilismo da ultima spiaggia e tenere ancora accesa la fiammella della speranza, un nuovo manifesto “per il futuro” si rende indispensabile. Un manifesto che faccia piazza pulita di tutto lo sporco che avvelena la società e getti le basi per quella città del sole che tutti bramiamo a parole, senza però mai impegnarci più di tanto per costruirla realmente. Gli uomini capaci di redigerlo ci sono. Aspettano solo che qualcuno li chiami e dica loro di costruire il futuro. Nell’attesa, consoliamoci ascoltando una vecchia canzone, il cui breve testo racchiude l’essenza del pensiero di tanti grandi filosofi e i sogni irrealizzati di tanti esseri umani: «Immagina che non ci sia il paradiso, è facile se ci provi, né l'inferno sotto di noi, sopra di noi solo il cielo. Immagina tutta la gente che vive giorno per giorno Immagina che non ci siano nazioni, non è difficile. Nulla per cui uccidere o morire ed anche nessuna religione. Immagina tutta la gente che vive in pace. Potresti dire che sono un sognatore, ma non sono l'unico. Spero che un giorno ti unirai a noi e il mondo vivrà come se fosse uno solo. Immagina che non ci siano proprietà, mi chiedo se ci riuscirai. Nessun bisogno di avidità o brama, una fratellanza dell'uomo. Immagina tutte quante le persone che condividono il mondo intero. Potresti dire che sono un sognatore, ma non sono l'unico. Spero che un giorno ti unirai a noi e il mondo vivrà come se fosse uno solo». Per aspera ad astra. Forse.


LA SINDROME DELLE PENNE LISCE Non perdete tempo a cercarla su Google: non la troverete. Clinicamente non esiste perché è stata inventata dall’autore di questo articolo e utilizzata come metafora per spiegare la progressiva degenerazione del buon gusto e l’affermazione del peggio rispetto al meglio. Chi scrive, come la maggioranza degli italiani, ama la pasta, tributando insignificanti differenze nel gradimento dei formati, eccezion fatta per le penne rigate, che non trovano posto nella dispensa e vengono tollerate per buona creanza solo nelle rare circostanze in cui, essendo ospite di qualcuno, dovessero figurare nel menu. Nel caso in cui, però, invece che con i funghi porcini, panna e prosciutto, salsiccia panna e zafferano o altre delizie simili, le penne fossero immerse in un lago di salsa di pomodoro, cosa non rara soprattutto nel Sud, la buona creanza va a farsi friggere e m’invento una dieta prescritta da poco che mi obbliga a ridurre drasticamente i carboidrati e i condimenti: le penne che ballano nel sugo sono davvero troppo per me e dovrei saper recitare meglio di Leonardo di Caprio per riuscire a mangiarle senza far percepire il blocco dello stomaco alla sola vista. Se quando si è ospiti di qualcuno, eccezion fatta per i cibi realmente vietati dal medico, non è mai buona norma mettere in discussione le pietanze amorevolmente preparate per trascorre insieme delle ore liete, il precetto acquisisce una pregnanza molto più consistente nel caso delle penne, perché esprimere dissenso su quelle rigate equivale a far insorgere il sospetto di essere un alieno o di avere problemi mentali. Oltre il 99% degli italiani, infatti, non ha dubbi in merito: le penne rigate sono migliori delle penne lisce! Sono più saporite! Mantengono meglio il sugo e la cottura! Tutte cavolate sesquipedali, ovviamente, come ben spiegato dai grandi chef, che non le cucinerebbero nemmeno sotto tortura, e anche dai rinomati pastai di Gragnano, costretti però a subirla, la tortura, dovendo loro malgrado e con sommo rammarico produrle in quantità industriali per non lasciare alla concorrenza consistenti fette di mercato. Sono ancora fresche nella memoria, del resto, le immagini trasmesse dalla TV allo scoppio della pandemia: gli scaffali dei supermercati vuoti, eccezion fatta per quelli che contenevano penne lisce. È così forte la sindrome che, anche in un momento di follia collettiva per l’inutile corsa all’accaparramento dei prodotti alimentari, si riusciva a trovare la “lucidità” per scartarle. È davvero singolare questa distonia, in un Paese che si contende con la Francia il primato mondiale per la qualità della cucina. Verrebbe da dire che in Italia si cucina bene e si mangia male, perché il problema riguarda anche altri aspetti dell’alimentazione (gli antipasti, per esempio, che sono un vero abominio essendo “contro” i pasti e non, come tanti credono, cibo da mangiare prima, confondendo “anti” con “ante”), ma questo ci porterebbe fuori tema. Resta il fatto che tante persone si privano del meglio a vantaggio del peggio, ritenendo di essere nel giusto. Nella fattispecie non vi è paragone tra la bontà delle penne lisce rispetto a quelle rigate e non dovrebbero rendersi necessari i pareri dei grandi chef per verificare che la rigatura non garantisce uniformità di cottura, cattura il condimento in quantità impropria e fa perdere sapore e consistenza alla pasta. Paradossalmente, invece, anche al cospetto delle chiare informazioni fornite


dai grandi chef – in merito ricordo un recente bellissimo servizio del programma televisivo “Report” - non si scalfisce la preferenza per le penne rigate. Qualche giorno fa sono andato a comprarmi un paio di scarpe da passeggio, essendosi abbrutite quelle acquistate due anni fa. Cinque negozi visitati, migliaia di modelli in esposizione e avessi trovato un solo paio di scarpe senza lacci, come quelle vecchie. I commessi, ovviamente, mi guardavano come se fossi un marziano: «Ma perché vuole le scarpe da passeggio senza lacci? Le comprano TUTTI con i lacci e le aziende ovviamente si adeguano». Che vuoi replicare a uno che si esprime in questo modo? Nulla. Si può solo tacere e andare via. Nel sesto negozio, fortunatamente, ne ho trovato un paio identiche a quelle vecchie – a quanto pare vi è una sola azienda che produce un “unico” modello di scarpe con gli strappi adesivi - e mi sono precipitato ad acquistarle, chiedendo se ne avesse un altro paio: «Purtroppo no - è stata la risposta – è una rimanenza, perciò viene venduta a metà prezzo». E così ho fatto anche la figura di chi abbia scelto un modello solo perché super scontato. Ora, per carità, non si vuole impedire a nessuno di acquistare le scarpe con i lacci, ma questa propensione “modaiola” è avvilente a prescindere dal fatto che penalizza coloro che preferiscono quelle senza, ben consapevoli di quanto siano più comode sotto tutti i punti di vista. Un telefonino dovrebbe servire precipuamente per telefonare e, grazie al progresso tecnologico, in “talune circostanze”, assolvere anche altre funzioni. Di fatto per milioni di persone il telefonino è diventato un sostituto del PC, della fotocamera e della videocamera! Lo si usa anche per guardare film e ascoltare musica, cose che, se fossero contemplate come reati, potrebbero prevedere una pena non inferiore ai trenta anni di carcere! Il mercato delle videocamere e delle fotocamere amatoriali ha subito addirittura una forte e crescente contrazione, generando non pochi problemi a chi trovi ripugnante il solo pensiero di utilizzare il telefonino con modalità foto e video: scarsa reperibilità dei prodotti (soprattutto nel settore delle videocamere) e necessità di spingersi verso quelli professionali, che però costano molto. Fosse solo questo! Vi è un’azienda produttrice che sforna in continuazione modelli nuovi, contrassegnati da alcune lettere dell’alfabeto. Una lettera indica la serie TOP, una seconda lettera quella media e un’altra ancora quella più economica. Sorvolando sul fatto che il costo dei telefonini è spropositato e non riflette le corrette leggi economiche relativamente al giusto prezzo (cosa che tra l’altro vale per molti altri prodotti ed è resa possibile soprattutto grazie alla stupidità degli acquirenti e a una classe politica che si rende complice delle multinazionali, invece di morigerarle), che un telefonino di 150 euro fa sostanzialmente le stesse cose di uno che ne costi 1200, va detto che i telefonini di quell’azienda, grazie a particolari accorgimenti, dopo un paio di anni iniziano a perdere consistenza qualitativa: la navigazione on line diventa progressivamente più lenta e la batteria, non più sostituibile come accadeva un tempo, si scarica velocemente. Tutto ciò induce a buttarlo in discarica e ad acquistarne uno nuovo. Il dato, oramai, è noto a tutti e quindi basterebbe cambiare marca per risolvere il problema. Semplice, no? Serve dire che quell’azienda, invece, è leader del mercato? Non serve.


Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi, perché nessun campo ne è immune. Quanti bravi cantanti vi sono sulla scena mondiale? Tanti. Ma i preferiti, soprattutto dai giovani e giovanissimi, sono degli strimpellatori senz’arte né parte, che producono rumore accompagnato da parole messe a casaccio, spesso oscene o addirittura irriverenti. Per non parlare dei disk-jockey, nati per mettere dei dischi sul piatto nei locali frequentati dai giovani e da questi ultimi trasformati in artisti che “suonano”. Oggi guadagnano più di tanti veri artisti, che davvero conoscono la musica e la interpretano ad altissimi livelli. Lo stesso dicasi per il cinema e non regge il discorso sulla preparazione culturale necessaria per apprezzare quelli più impegnati e raffinati. È senz’altro vero e si può comprendere, quindi, il loro minore successo di pubblico. Ciò che atterrisce, però, è il successo dei film spazzatura, intrisi di violenza e di scene disgustose che, evidentemente, risultano gradite alla maggioranza degli spettatori. A cosa si deve, per esempio, la massiccia produzione di fiction, se non a un’articolata analisi psico-sociologica che consente di confezionare un prodotto ad hoc per singole categorie di persone con analoghe caratteristiche ? E cosa traspare dal successo di alcune fiction se non il gradimento per tutto ciò che si possa definire “aberrante?” Sul comportamento delle masse sono state scritte opere preziose che, per lo più, ne mettono in luce i limiti comportamentali e la propensione a farsi soggiogare. È arrivato il momento di effettuare nuove analisi sociologiche che, partendo da quanto di buono sia stato scritto in passato, allarghino i confini sulle distonie del nostro tempo. Il “peggio” si afferma con troppa facilità, condizionando la vita di centinaia di milioni di persone. Coloro capaci di resistere all’assalto virale sono una sparuta minoranza, evidentemente in possesso di qualche speciale antidoto. Forse sarebbe il caso di effettuare seri studi su di loro per individuarlo, in modo da renderlo disponibile per tutti.



SCIENZA E SPIRITO INCIPIT «Il gregge è gregge e ha bisogno dell’ovile». (Henry Louis Mencken). «Professore, è questa la Valle di Giosafat?» «Certo, Pasqualino!» «Porca miseria! Ma è piccolissima! Come faremo a riunirci tutti qui il giorno del Giudizio Universale?». (1968: conversazione tra uno studente di terza media e un parroco, sul Monte degli Ulivi, durante una vacanza-studio a Gerusalemme). «Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza». (Galileo Galilei). «Ci sono nei fatti due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza». (Ippocrate da Coo). «L’ignoranza afferma o nega rotondamente; la scienza dubita». (Voltaire). «La scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca. (Albert Einstein). «Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà lui a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino». (Carl Gustav Jung). «A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire». (Traduzione concettuale del principio metodologico noto come “rasoio di Occam”: «Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora». Figlio mio, ti ho insegnato a non mentire e ciò è senz’altro un bene. Ora, però, devo insegnarti a comprendere subito quando sia il caso di rivelare una verità, che può essere più deleteria di una bugia se giunge con troppo anticipo rispetto ai tempi». (Il padre di Pasqualino, quando gli fu riferita la conversazione intercorsa con il parroco docente, in quel di Gerusalemme). LA DIFFICILE CONVIVENZA Nel divertente film “Harry a pezzi”, Woody Allen, parlando di scienza con un amico, sostiene che tra il papa e l’aria condizionata sceglie l’aria condizionata. Battuta banale, ma solo apparentemente: un papa può anche sostenere delle tesi difficilmente digeribili, senza però che esse impattino in modo determinante sulla vita degli esseri umani; l’aria condizionata contribuisce sensibilmente al surriscaldamento del pianeta, a ingigantire il buco dell’ozono, all’incremento delle malattie respiratorie, alla diffusione delle polveri sottili e dei microrganismi patogeni: se ne potrebbe fare tranquillamente a meno, come accaduto per migliaia di anni, e solo la propensione a una malsana concezione del benessere personale ne può giustificare la massiccia diffusione. Vi è un altro film, però, che rappresenta in modo più compiuto il difficile rapporto tra scienza e fede: “Contact”, diretto nel 1997 da Robert Zemeckis e magistralmente interpretato da Jodie Foster e Mattew McConaughey. In esso figurano tutti i personaggi che incarnano i limiti della natura umana e si confrontano quotidianamente, spesso con risultati devastanti, in quel meraviglioso gioco che si chiama vita: la scienziata pura, intrisa di quel pizzico di sana follia che rende speciali le persone più dotate intellettualmente, elevandole non di poco al cospetto dei propri simili, capace di rinunciare a una fulgida carriera e a una cattedra ad Harvard pur di inseguire il sogno di entrare in contatto con gli extraterrestri; il teologo buono, ma integralista, per il quale tutto si nuove intorno a Dio, che non esita a impedire il viaggio interplanetario della scienziata pura, con la quale ha un difficile rapporto


sentimentale, perché essendo atea non può rappresentare l’umanità, dal momento che il 95% della popolazione mondiale crede in qualche entità sovrannaturale; i politici e gli uomini di Stato cinici, sempre pronti a negare l’evidenza e a celare la verità per i loro sporchi giochi di potere; lo scienziato impuro, per il quale conta solo la propria ambizione e non esita a vestire i panni del fervente cristiano per fare le scarpe alla collega e partire al suo posto, comportandosi né più né meno di come si comportò Enrico III di Navarra quando pronunciò la famosa frase «Parigi val bene una messa» per essere incoronato re di Francia, o ancor più indecorosamente come si comportano i mafiosi e i camorristi quando fanno laute offerte alle parrocchie delle proprie zone di influenza, per ingraziarsi i Don Abbondio locali; l’integralista terrorista, che non esita a compiere un attentato pur di non far partire la navicella verso mondi sconosciuti, uccidendo equipaggio e tecnici (muore lo scienziato cattivo e così si lascia spazio anche a quella sorta di dicotomia tra caso e necessità, celebrata nei tempi moderni nel famoso saggio di Jacques Monod e nota nei tempi antichi come nemesi: grazie a un evento senz’altro drammatico e da condannare senza indugio, si creano i presupposti per un atto di giustizia, ossia la partenza per il viaggio intergalattico della scienziata buona, che le spettava di diritto essendo stata la combattiva e determinata artefice del contatto con gli extraterrestri, al quale nessuno voleva credere, facendola soffrire non poco, soprattutto quando le furono negati i fondi per la ricerca). Il film lascia irrisolto il dilemma su chi abbia ragione, mischiando le carte fino al punto di far trionfare l’assioma che scienza e fede debbano necessariamente marciare a braccetto. Quando questo, poi, sia un implicito riconoscimento a quel 95% di esseri umani che crede in qualche Dio è un sospetto lecito, destinato però anch’esso a restare irrisolto. Un altro bellissimo film del 2009, “Agorà”, ci porta alle radici antiche della difficile convivenza. Siamo nel IV secolo d.C. e ad Alessandria d’Egitto la filosofa, matematica e astronoma Ipazia confuta con decisione l’artificioso modello geocentrico promosso da Tolomeo, essendo più attratta dagli studi di Aristarco, che ponevano il Sole al centro del sistema solare. Considerata dedita alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica e accusata di ingannare molte persone con stratagemmi satanici, fece una drammatica fine, come ci tramanda Socrate scolastico nella Storia Ecclesiastica (VII, 15): «Un gruppo di cristiani dall'animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Questo procurò non poco biasimo a Cirillo (spregiudicato vescovo della Chiesa copta e navigato politico, proclamato santo e “dottore della chiesa” per aver escogitato lo stravagante dogma in virtù del quale Maria è anche “madre di Dio”, in quanto madre di Gesù, cioè del «figlio» N.d.R.) e alla chiesa di Alessandria. Infatti stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che meditano le parole di Cristo». A partire dal Medioevo furono decine di migliaia le persone che perirono sotto il giogo dell’Inquisizione, dedita alla persecuzione degli eretici e alla caccia alle streghe, accusate di aver stipulato un patto col demonio per ottenere particolari poteri.


Nel XVII secolo Galilei pagò a caro prezzo la rivisitazione della teoria eliocentrica varata da Copernico in opposizione al geocentrismo tanto caro alla Chiesa cattolica, il cui fondamentalismo, almeno fino al XIX secolo, fu secondo solo a quello islamico, che purtroppo perdura anche ai giorni nostri con le terribili azioni non solo dei terroristi, ma anche dei cosiddetti «islamici moderati», che non si fanno scrupolo di trattare come schiave le loro donne, obbligandole a matrimoni forzati e lapidandole o uccidendole con qualsiasi altro mezzo se refrattarie a subire violenze orribili e infamanti. Nonostante l’evoluzione scientifica, che con Darwin e Einstein riceve un impulso tale da rendere davvero complicato accettare il creazionismo e di converso altre formule religiose che rispetto al cristianesimo non possono vantare pari forza condizionante, gran parte dell’umanità vuole credere a un’entità superiore e buona parte di essa, per quella entità, è disposta sia a sacrificare la propria vita sia a minacciare quella altrui. Il perché ciò accada ci porta nel campo della speculazione del comportamento umano, alla quale da secoli si sono dedicati fior di filosofi, letterati, scienziati, senza per altro riuscire a fornire una chiave di lettura anche solo parzialmente condivisa: le decine di migliaia di libri che affrontano il problema, infatti, possono essere paragonate ai rami di un albero che, partendo dal medesimo tronco, si spargono in mille diverse direzioni, per poi incrociarsi di tanto in tanto e dividersi ancora, e così via. Feuerbach senza ombra di dubbio è il filosofo che, più di ogni altro, è andato vicino a una chiara individuazione delle distonie esistenziali che hanno indotto l’uomo ad alienare la propria essenza a favore di un’entità intangibile dal punto di vista fisico. Nelle due principali opere che dedica all’argomento, «L’essenza del cristianesimo» e «L’essenza della religione», sviluppa tematiche solo in apparenza contraddittorie, essendo esse un unicum che prende in esame prima il cristianesimo e poi le altre religioni. L’uomo inventa Dio perché si sente debole e limitato e in lui, di fatto, personifica sé stesso. L’uomo crede in una divinità eterna ed onnipotente perché lui non è né eterno né onnipotente, mentre vorrebbe essere entrambe le cose. In un processo assurdo, poi, l’uomo tenta di controllare la natura, senza rendersi conto che tale desiderio è irrealizzabile perché dalla natura dipende totalmente. L’essenza della religione, quindi, altro non sarebbe che il bisogno del genere umano di assecondare i propri desideri altrimenti irrealizzabili, quali il dominio della natura e la perfezione divina. La natura umana delle religioni è dimostrata proprio da esse, nella misura in cui ciascuna accusa le altre di essere state inventate dall’uomo, escludendo sé stessa: se lo facesse, infatti, snaturerebbe automaticamente la propria essenza sovrannaturale, ma non facendolo si pone sullo stesso livello delle altre, che formulano la medesima accusa. È sì vero, tuttavia – conclude Feuerbach – che il cristiano è più vicino alla verità di quanto non sia possibile a qualsiasi altro credente, essendo per lui Gesù il Logos, Dio incarnato, Dio Figlio, vero Dio e vero uomo. L’errore che commette, quindi, è credere in un Dio che “trascende” l’uomo, mentre in realtà in ogni uomo vi è un’essenza infinita, che può essere assimilata a Dio. Il pensiero di Feuerbach verrà poi banalizzato da Marx con la semplice accettazione della religione come pura alienazione e servirà da base per costruire le sue


teorie: è normale che il credente si sottometta a un Dio creato a propria immagine e somiglianza, ma non può esistere alcuna essenza divina nell’elemento umano; l’uomo inventa Dio solo perché oppresso e la religione è «l’oppio del popolo» che consente di sopportare lo sfruttamento. La zattera costruita da Feuerbach per offrire ai credenti un ricovero, sol che decidessero di salirvi a bordo, oltre ai colpi micidiali inferti da Marx, viene definitivamente affondata da Nietzsche e Schopenhauer, per i quali Dio è un’illusione creata per rendere più rassicurante la vita degli esseri umani, per sua natura caotica e crudele. Non può esistere un Dio così crudele da creare tanta sofferenza. «Se un Dio ha creato questo mondo, io non vorrei essere Dio; l'estrema miseria del mondo mi strazierebbe il cuore», scrive Schopenhauer nell’opera Il mio Oriente. Gli fa da eco Nietzsche, per il quale il caos e la crudeltà della vita sono prove più che sufficienti per negare l’esistenza di Dio. «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso», sentenzia il grande pensatore nelle opere La gaia scienza e Così parlò Zarathustra, volendo significare non già l’uccisione di Dio ma la scoperta da parte dell’uomo che Dio non è mai esistito e quindi va uccisa la sua idea per liberarsi del pesante fardello, anche se solo per sobbarcarsene altri, perché senza Dio l’uomo si sente smarrito e senza punti di riferimento. Da qui l’arrivo del superuomo, che accetta la vita terrena con tutte le sue contraddizioni, le angosce, i dolori. Agli altri, incapaci di reggere la morte di Dio (ovvero, “la scoperta che Dio non è mai esistito”) non resta che sostituirlo con altri idoli: lo Stato, la scienza, il socialismo e, perché no, anche con un asino, come avviene nelle pagine finali del Così parlò Zarathustra e come del resto accade nella realtà, se si guarda al proliferare di sette intorno alle quali si raccolgono milioni di disperati e alla pura adorazione di autentici signor nessuno, capaci però di sedurre masse imbambolate facendo credere loro la luna. IL MURO CON TROPPE CREPE Alla luce di quanto sopra esposto, sia pure per sommi capi, si può concludere che il rapporto tra scienza e fede è destinato a durare con le stesse metodiche che lo hanno contraddistinto sin dalla sua origine, non essendo ancora pronta la maggioranza del genere umano a effettuare scelte radicali e ad accettare verità scomode. Ben altro discorso, invece, caratterizza il rapporto tra scienza e potere, che condiziona l’esistenza con portata analoga o addirittura superiore rispetto a quanto non facciano le religioni. Che il progresso scientifico abbia migliorato la qualità della vita nessuno si sogna di metterlo in discussione e proprio questo dato, universalmente accettato senza nemmeno discuterlo più di tanto, rende difficile comprendere a miliardi di persone che, nello stesso tempo, l’ha peggiorata non solo a chi non sia ancora riuscito a beneficiarne (una bella fetta di umanità) ma anche a quella sparuta minoranza di miliardari, milionari e ricchi benestanti che possono permettersi tutto o quasi tutto sul fronte dei beni materiali. (Un recente report dell’ONG “OXFAM” rivela che 2.153 miliardari detengono una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, ossia circa il 60% della popolazione mondiale; l’1% della popolazione mondiale detiene il doppio della ricchezza posseduta dal 90%; in Italia: l’1% più ricco detiene più del 70% della ricchezza totale degli italiani). Perché? Se il 95% del genere umano crede in un’entità sovrannaturale, si deve accettare l’idea che la componente spirituale, magari in modo subliminale, abbia una marcata priorità rispetto a


qualsivoglia altra formula esistenziale. Marx, non a caso, come già accennato innanzi, sosteneva che la religione fosse una droga diffusa dagli oppressori affinché gli oppressi si accontentassero di aspettare la felicità nell’aldilà, rinunciassero a combattere per difendere i propri diritti (porgere l’altra guancia) e attendessero la morte per elevarsi da ultimi a primi. Da qui la sua idea rivoluzionaria sull’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, fonte di ogni diseguaglianza. Non è proprio così, come sappiamo, e la storia ha giustamente condannato il velleitarismo social-comunista, che sopravvive solo in alcune aree del Pianeta con le conseguenze che non necessitano certo di essere ribadite in questo contesto. Le contraddizioni dell’essere e la complessità della vita, quindi, riguardano tutti, come dimostrano gli apparenti inspiegabili suicidi di persone ricchissime e ancor più il massiccio ricorso alla psicoterapia, appannaggio esclusivo dei ricchi che, pur potendo comprare tutto ciò che possa risultare utile a soddisfare il “desiderio di possesso”, talvolta soffrono perché non riescono ad acquistare tante altre cose, intangibili sul piano materiale: sincero rispetto altrui, carisma, stima sincera per riconoscimenti effettivi e non per disgustoso leccaculismo, capacità di realizzare imprese che altri portano a compimento pur non disponendo degli stessi mezzi. Gli psicofarmaci aiutano a superare le frustrazioni e quando non bastano più, ci pensa la pistola, una buona dose di barbiturici o un bel salto nel vuoto. Una crepa ancora maggiore nel muro della scienza è rappresentata dall’uso scorretto delle varie scoperte, che ne inficia di molto la portata. Già nel 1935, Albert Einstein, nel saggio Scienza e società, elencava tre minacce per l’umanità scaturite da un cattivo utilizzo delle risorse scientifiche: la disoccupazione a causa della progressiva meccanicizzazione nei processi produttivi; la creazione di armi sofisticate e distruttive utilizzando scoperte utili soprattutto per migliorare la qualità della vita; la riduzione della libertà grazie alla manipolazione delle informazioni da parte di chi ha tutti gli interessi a disorientare l’opinione pubblica. Le sue previsioni, purtroppo, non solo si sono rivelate esatte ma, decennio dopo decennio, hanno assunto una consistenza ancora più pregnante rispetto all’originaria elaborazione, in virtù del crescente gap tra progresso tecnologico (che marcia a velocità sostenutissima) e progresso umano (che invece marcia molto lentamente o addirittura registra pericolose regressioni). La disoccupazione, per esempio, è sempre meno conseguenza del processo di meccanicizzazione e sempre più ancorata all’affermazione di una sub-cultura che spinge milioni di persone a indirizzarsi verso fasce occupazionali ristrette e sature, invece di considerare l’offerta nel suo complesso, che vede consistenti settori in forte affanno per carenza di risorse. Il secondo punto ha reso ancora più stupida e devastante, se possibile, la cosa che in assoluto è la più stupida e devastante partorita dal genere umano: la guerra. Le armi scaturite dalle scoperte sulla fissione nucleare sono in grado di distruggere l’intera umanità in pochi attimi; le armi biologiche, nate nei laboratori scientifici dove si dovrebbe operare esclusivamente per migliorare la qualità della vita, non sono da meno; tutta l’industria bellica, comunque, si avvantaggia delle scoperte che, se correttamente utilizzate, risulterebbero estremamente positive.


Allo strapotere delle multinazionali e al loro cinismo nel perseguire interessi miliardari, infischiandosene delle conseguenze, questo magazine ha dedicato molto spazio nei numeri pregressi. Qui basterà ricordare, anche in considerazione del particolare momento, lo squallido comportamento delle case farmaceutiche, che immettono sul mercato medicinali inutili, e purtroppo a volte dannosi, conferendo loro proprietà illusorie, impresse nelle fragili menti dei consumatori con pubblicità ingannevole. Nessuno interviene perché il potere politico, a livello planetario, è ad esse asservito e non è in grado, quindi, di partorire quella rogatoria internazionale dei farmaci, bramata da tutte le persone di buon senso, che consentirebbe di togliere dalle mani delle multinazionali i processi produttivi, in modo da avere farmaci mirati per le singole patologie, identici in tutto il mondo, da diffondere con costi contenuti. Alle tre distonie individuate da Einstein, comunque, ne va aggiunta una quarta: la stupidità del genere umano. Sarà anche vero che minoranze occulte e potenti condizionano negativamente la vita di miliardi di persone, ma la moltitudine del genere umano dà loro consistente aiuto grazie a comportamenti semplicemente assurdi. Anche i bambini delle elementari, per esempio, sanno che la plastica sta distruggendo gli eco-sistemi; nondimeno si continua perentoriamente a disperdere plastica dappertutto, con un menefreghismo che andrebbe represso a norma di legge, ma non quelle attuali, del tutto inefficaci. Quanto inquinamento in meno si avrebbe se solo si sostituisse con il vetro la plastica utilizzata per le bibite e l’acqua minerale? Non solo. Che senso ha vendere il dentifricio in tubetti di pochi grammi, che in una famiglia di 3-4 persone durano non più di un paio di giorni? Quanto sarebbero da preferire delle confezioni di almeno 500 grammi o addirittura un chilo, utilizzabili con dispenser ricaricabili? Quanti milioni di tonnellate di plastica in meno si otterrebbero con questi semplici accorgimenti, che tra l’altro servirebbero anche a ridurre i costi del prodotto? Perché ciò non accade? Perché non conviene ai produttori, certo; ma ciò è possibile soprattutto perché nessuno conduce una seria battagli in merito. Da anni si parla con termini allarmanti dei gas di scarico prodotti dalle automobili alimentate dal diesel, che però continuano a essere prodotte, munite di accorgimenti tecnologici in grado di alterare i dati delle emissioni e farli risultare compatibili con i parametri indicati dalle autorità, già di per sé insufficienti a tutelare la salute pubblica. Quando parte una seria battaglia contro le auto a diesel? La capacità autodistruttiva del genere umano, sia detto senza tanti giri di parole, è molto più nociva di quella posta in essere dai burattinai che governano il mondo. SCIENZA E SPIRITO NEL FUTURO «La fede si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l'ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche. La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità». Così si esprimeva papa Benedetto XVI nella lettera apostolica del 2011, con la quale indiceva l’anno della fede.


La fallacia di tale asserzione è così evidente da non necessitare di particolare confutazione, essendo la verità un concetto relativo sulla cui natura nemmeno Gesù seppe rispondere (o non volle rispondere) quando Pilato gli chiese, appunto: «Che cosa è verità». Lo scopo ultimo della scienza è comprendere i fenomeni naturali sviluppando modelli che ne consentano una rappresentazione razionale, senza alcuna pretesa di dare una risposta a qualsiasi domanda dell’uomo, né una soluzione a qualsiasi problema. La scienza, quindi, non può né dimostrare né produrre verità assolute: può solo indicare, di volta in volta, gli errori commessi in precedenza e denunciare le falsità proposte per fini oscuri, ben distinguendo lo spirito critico dallo scientismo dogmatico, caro tanto ai mistificatori quanto agli assolutisti in buona fede, che esistono e sono tanti nonostante Einstein abbia chiaramente illustrato come tutto sia relativo, a seconda del punto di osservazione delle cose. Bisogna dare atto alla Chiesa cattolica, tuttavia, di essere l’unica a comprendere l’importanza di definire in modo “razionale” il confronto tra scienza e fede e ciò, come meglio vedremo in seguito, risulta di fondamentale importanza per il futuro dell’umanità. Non importa se alcune tesi appaiono palesemente insostenibili ad alcuni: sono molti milioni coloro che hanno bisogno di un qualche Dio e per loro è facile accettarle. Ritorniamo ancora a papa Benedetto XVI, che il 6 aprile 2006, parlando con i giovani, dopo una lunga dissertazione sulla matematica che, «inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi», così conclude il suo intervento: «Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto - la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale - la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci». Sono le parole di un papa e non potrebbero essere diverse, soprattutto se rivolte ai giovani, e costituiscono solo una goccia nel ricchissimo oceano della dottrina sviluppatasi in duemila anni di storia. Il cristianesimo ha nel mondo circa 2.300milioni di seguaci, seguito dall’Islam, con 1.800milioni di seguaci. Il buddhismo ne ha 1.500milioni; l’induismo 1.100milioni. Circa un miliardo di cinesi segue la religione popolare cinese, non meglio definita, che consiste nel culto degli shen, dèi o spiriti che possono anche essere divinità cosmiche della natura o del luogo, progenitori deificati dei linguaggi gentilizi, eroi immortali, dèi dei villaggi o delle città. Sempre in Cina il taoismo raccoglie circa 170milioni di fedeli, mentre in Giappone è diffuso lo shintoismo, con poco più di 100milioni di fedeli. Altre religioni indiane (sikhismo, giainismo), coreane (ceondoismo), abramitiche (ebraismo, fede Bahá'í), giapponesi (tenriismo); vietnamite (hoahoismo), raccolgono complessivamente altri 80-90 milioni di individui. Sorvoliamo sulle religioni locali presenti in Africa e in alcune zone dell’Asia, sulle sette e sulle varie distorsioni delle principali religioni, per non finire al manicomio. Si può immaginare un mondo senza religioni? Nessuno ha la bacchetta magica per prevedere il futuro, ma è lecito ritenere che per molto tempo ancora il genere


umano non farà a meno dei suoi dèi, nel caos concettuale che traspare da quanto sopra esposto e con i tanti rischi connessi alla follia dei fondamentalisti, che invocano il loro dio anche quando bevono un bicchiere d’acqua. Se si dà per scontato questo principio, pertanto, si deve anche sostenere che tra tutte le religioni terrestri quella più «vicina» all’uomo è proprio il cattolicesimo, nonostante il paradosso che si registra da oltre mezzo secolo, ben individuato in un buon saggio del sociologo Sabino Acquaviva, scritto nel 1979 ed edito da Rusconi: “Il seme religioso della rivolta”. Il saggio affronta in modo egregio – quarantadue anni fa! - tematiche attualissime: crisi dei valori in una società senza volto, crisi della religione, decadenza della credibilità sociale della Chiesa, perdita di contatto fra Chiesa e società in virtù della radicale mutazione dei costumi, contestazione sempre più marcata dei princìpi sanciti dalla Chiesa, rifiuto dei sacramenti, crisi della famiglia, crisi del matrimonio. Paradossalmente, però, nonostante la radicale trasformazione della società intercorsa nell’ultimo mezzo secolo, la Chiesa cattolica resiste, solo in parte adeguandosi, senza perdere mai di vista il limite oltre il quale non è né lecito né opportuno spingersi. “Chiesa cattolica”, che va estrapolata dal cristianesimo al fine di sancire le sostanziali differenze e la “superiore valenza dottrinaria” rispetto alle consorelle ortodosse e alle varie fazioni del protestantesimo. Discorso aspro e duro, certo, e sicuramente offensivo per milioni di persone. Quando le opzioni, però, prevedono solo di offendere senza volerlo e non offendere mistificando, la scelta è obbligata. Se è vero come è vero, infatti, che il gregge è gregge e ha bisogno di un ovile, cerchiamo quanto meno di costruirne uno che, con i suoi precetti, offra delle prospettive accettabili. Una generosa illusione è sempre da preferire a qualsivoglia negazione preconcetta e, soprattutto, alle illusioni nefaste, talune seminatrici di odio, morte e distruzione e altre asservite alle losche forze occulte, che da sempre costituiscono la minaccia più pericolosa per le sorti dell’umanità.


LA DIFESA È SEMPRE LEGITTIMA Programma televisivo “Dritto e rovescio” trasmesso da Rete4 il dieci giugno 2021, condotto dal giornalista Paolo Del Debbio. Tra gli argomenti trattati spicca quello sulla legittima difesa, reso attuale per l’ennesima volta in virtù di quanto avvenuto nel corso della notte a Piossasco, in provincia di Torino, dove due malviventi hanno ucciso l’architetto quarantanovenne Roberto Mottura. Penetrati nell’abitazione, i ladri incappucciati sono stati sorpresi in cucina dalla moglie dell’architetto che, scioccata, ha obbedito all’intimazione di ritornarsene in camera da letto, al piano superiore, dove ha riferito al marito la presenza degli estranei. L’architetto istintivamente si è precipitato in cucina ed è stato freddato a bruciapelo nonostante fosse disarmato. Nello studio televisivo discutevano della vicenda la bella e dolce parlamentare leghista Silvia Sardone, il vicedirettore de “La Verità”, Francesco Borgonovo, due loschi figuri della sinistra più becera (ammesso e non concesso che ne esista una diversa), dei quali decenza impone non siano citati i nomi e, mi duole dirlo, Alessandro Cecchi Paone, mio direttore quando fungevo da inviato del settimanale “Sì”, che ai due loschi figuri ha tenuto bordone. La Sardone si è espressa in modo chiaro, semplice e lineare: «Quando un ladro entra in casa tua non lo fa per rimboccarti le coperte e quindi chi si difende proprio non dovrebbe andare a processo, in alcun modo. Quello che mi dà fastidio è che la sinistra sembra avere sempre questo atteggiamento di quasi difesa del delinquente, [asserendo frasi del tipo] “noi non vogliamo il Far West, vediamo fino a che punto si è difeso, se c’era un eccesso, se si è difeso un po’ più di quanto avrebbe dovuto”. Mai, e dico mai, una parola nei confronti delle tante persone che muoiono, che rimangono ferite, che subiscono violenze in casa propria. Io questa roba non riesco proprio a digerirla. Non ho sentito parole da parte della sinistra per quanto accaduto a Torino (si riferiva ai fatti di Piossasco, che fa parte della città metropolitana di Torino, N.d.R.), le sento, invece, ogni volta che qualcuno si difende e magari spara al ladro. In tale circostanza ogni volta la sinistra [si esprime con frasi come] “Eh no, perché si è difeso, ma era di spalle, era davanti, era di fianco”. Fino a che punto era legittimo il comportamento messo in atto da chi si è semplicemente difeso, perché questa persona (l’architetto Mottura, N.d.R.) è rimasta uccisa per difendere la moglie, in casa propria! Questo comportamento va considerato per quello che è (ha dimenticato di dire, essendo visibilmente agitata e indignata per quanto asserito prima da Paone, che l’architetto è sceso “disarmato” e nonostante ciò gli hanno sparato, N.d.R.). Possiamo dire che chi entra in casa mia sbaglia e quindi io mi posso difendere sempre e senza limiti?» La riproduzione testuale di un discorso, pronunciato in diretta televisiva, in presenza di ben tre ospiti ostili che si producono in smorfie di dissenso durante l’intervento, con il tipico atteggiamento di chi vuole far trasparire che chi stia parlando sia un cretino, necessita di una cesellatura per evitare fraintendimenti. La Sardone si è sforzata di esprimere concetti forti con parole non eccessivamente forti e questa è impresa non facile, che riesce bene solo a chi abbia una eccellente proprietà di linguaggio, scaturita da una profonda cultura umanistica e, nel caso di specie, anche giuridica. Per correttezza informativa va comunque detto che la


Sardone è un avvocato con master in Business administration. Nondimeno, per evitare di apparire aggressiva, ha penalizzato l’esposizione, utilizzando, per esempio, un verbo non certo appropriato, “sbagliare”, per caratterizzare l’azione di un ladro, invece di sostenere con veemenza che chi entra in casa per compiere un crimine non può essere trattato con i guanti bianchi e quindi ogni cittadino, per tutelare la propria famiglia, quanto prima gli spara tanto meglio fa, perché non può prevedere le azioni e reazioni. Dopo di lei hanno parlato i due loschi figuri, ribadendo come un mantra il solito stupidario sinistrorso, che obbliga gli ascoltatori di buonsenso o a cambiare canale o ad assumere una bustina di Buscopan per evitare i crampi intestinali. Il giovinastro di “Potere al popolo”, con voce quequera e dizione approssimativa, tipica degli studentelli modello “quattro meno meno”, sforzandosi di sciorinare un’aria da cattedratico che lo ha reso ancora più ridicolo, ha esordito asserendo di ritenere «che la questione sia talmente seria, troppo seria, per fare questa demagogia spicciola», per poi continuare, lamentoso, con i cittadini che non vanno armati perché tocca allo Stato difenderli. Nell’attesa che lo Stato si attrezzi per impedire ai delinquenti di entrare nelle case, pertanto, i cittadini si facciano derubare, picchiare e ammazzare impunemente, lascino che drogati e criminali di ogni specie violentino mogli e figlie e soprattutto facciano attenzione a non arrecare loro alcun danno fisico per evitare di essere processati e magari condannati a lauti risarcimenti, come purtroppo è successo a Mirco Franzoni, che ha dovuto risarcire i familiari del ladro sorpreso nella casa del fratello con 125mila euro. Sorte ancora peggiore è toccata a Ermes Mattielli, che sparò a dei malviventi mentre rubavano in un suo locale, provocando loro “lievi ferite”. Nonostante ciò, dopo un lungo calvario giudiziario, è stato condannato a cinque anni e quattro mesi di carcere per duplice tentato omicidio e a versare 135mila euro a titolo di risarcimento. Era un semplice robivecchi e la disperazione per la terribile condanna lo ha portato alla morte per crepacuore. I suoi beni e la casa sono finiti allo Stato per essere destinati ai malviventi che, curate le lievi ferite, hanno potuto riprendere serenamente la loro attività delinquenziale. La lista in tal senso è davvero lunga e l’ingiustizia di Stato ha colpito anche il benzinaio di Bari Enrico Balducci, che si è visto richiedere un milione di euro di risarcimento dai familiari del rapinatore ed ha avuto subito un sequestro di 170mila euro da parte del giudice; Franco Birolo, tabaccaio padovano, è stato condannato a risarcire un bandito moldavo con 325mila euro. Analoghe vicende hanno riguardato Mirco Basconi, Mauro Pelella, Marco Dogvan, Antonio Monella e chissà quanti altri ancora. Dopo l’esponente di “Potere al popolo” è toccato a un cupo napoletano della banda renziana, il quale ha ribadito gli stessi concetti, aggiungendo che, contrariamente a quanto auspicato dalla Sardone, chiunque si permetta di difendersi dall’aggressione di un malvivente va sempre processato perché solo il processo può stabilire la verità. Abbiamo visto come. COSA PREVEDE LA NUOVA LEGGE SULLA LEGITTIMA DIFESA Con le modifiche apportate nel 2019, la legge sulla legittima difesa “dovrebbe” consentire di difendersi più adeguatamente in caso di illecita introduzione nella proprietà privata, sempre, però, che la difesa sia proporzionata all’offesa.


Di fatto è possibile reagire con la forza solo se la difesa costituisca l’unica scelta per preservare un diritto proprio o altrui e se sussista il pericolo attuale (cioè, ancora in corso) di subire un ingiusto danno. Va precisato che se un tizio, per esempio un gioielliere al quale siano stati sottratti articoli di ingente valore economico, spara al ladro mentre lascia la gioielleria per recuperare la refurtiva, sarà processato e condannato per tentato omicidio o omicidio, oltre a risarcire con ingenti somme il delinquente, come abbiamo visto innanzi. La legge prevede due modi di interpretare la proporzionalità tra difesa e aggressione. Il primo lega la nozione ai mezzi utilizzati per difendere e offendere e ciò vuol dire che la difesa è legittima se Tizio, aggredito, reagisce con la “stessa arma” di Caio, aggressore. Interpretazione insulsa: Caio, di fatto, se intento a svaligiare la casa di Tizio con la pistola in pugno, potrebbe essere ucciso solo se Tizio possedesse una pistola. Se gli spara con un fucile o lo colpisce con qualsiasi altra arma, passa lui dalla parte del torto. Il secondo modo collega la proporzionalità ai beni giuridici in gioco. Se Caio svaligia la casa di Tizio, quest’ultimo non può ferirlo o ucciderlo, anche se brandissero la stessa arma, perché il bene giuridico aggredito da Caio, ossia il patrimonio di Tizio, è meno importante, nella scala dei valori costituzionali, della vita di un rifiuto umano. Pazienza se la refurtiva riguardi beni che abbiano ingente valore economico e ancora più ingente valore affettivo: prego signor ladro, faccia con comodo e se vuole si serva pure da bere. Per quanto concerne l’aggressione all’interno dell’abitazione o in ogni altro luogo dove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale, la legge si differenzia rispetto all’intrusione protesa al furto perché il giudice non dovrà verificare se il proprietario di casa, nel tutelarsi, abbia utilizzato mezzi proporzionati all’offesa, né che vi fosse necessaria proporzione tra i beni giuridici in gioco. L’arma utilizzata per difendersi deve però essere legittimamente detenuta e la minaccia per la propria incolumità deve essere reale. La legge, infine, ha inteso correggere la disciplina dell’eccesso colposo di legittima difesa, che prevedeva l’imputazione se, per esempio, sparando in aria per allontanare un ladro, a causa della concitazione del momento, lo si colpiva accidentalmente. Questa eventualità oggi è regolata dal “grave turbamento”, che esclude ogni sorta di imputazione. Che si può dire di questa legge? Al netto dell’ultima parte, risulta evidente che si sia tentato di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, cosa che, ovviamente, non è mai risolutiva. Non si è tenuto conto di ciò che realmente accada quando si subisca un’aggressione, per strada, nel posto di lavoro, nella propria abitazione, di giorno, di notte. Non si è tenuto conto di cosa si provi quando si avverta una minaccia per sé stesso, che può anche indurre a una reazione “ragionata”, se si possegga la giuste dose di freddezza, e quando invece si vedano minacciati i propri affetti: moglie, figli, genitori. Non si è tenuto conto delle innumerevoli circostanze che possano impedire di valutare, in meno di un secondo, quale debba essere la reazione più adeguata a non incorrere nei rigori della legge. La Sardone si sarà anche espressa con un linguaggio semplicistico, ma a volte la spiegazione più semplice è quella più valida. La difesa è sempre legittima, perché


nessuno ha il diritto di minacciare l’incolumità altrui. La difesa è sempre un dovere, quando serve a salvaguardare la vita di una persona cara, in particolare i figli. Nessuno deve essere processato se si difende in casa propria, nel posto di lavoro o in qualsiasi altro luogo, perché è impossibile stabilire in pochi attimi la proporzione tra offesa e difesa. Qualcuno si può trovare anche al cospetto di un malvivente che impugni una pistola giocattolo così ben fatta da renderla irriconoscibile: l’effetto è lo stesso e pertanto, se legittimamente possessore di un’arma, valutando l’opportunità di una reazione al momento opportuno, deve avere la possibilità di difendersi senza doverne patire le conseguenze. A differenza di quanto sostenga il babbeo napoletano della banda renziana, un processo da imputato, per una vittima innocente, è un evento devastante che sconvolge la vita, senza considerare che una persona per bene, costretta a difendersi e magari a ferire gravemente o a uccidere qualcuno, già per questo avrà la vita cambiata, e non certo in meglio. Si cambi la legge pertanto, e si correggano le troppe antinomie che in essa si riscontrano, perché solo il giorno in cui sapremo tutelare le persone per bene più di quanto non si tutelino i delinquenti potremo definirci un Paese civile. Con buona pace dei sinistrorsi e delle loro masturbazioni mentali: vadano pure a quel paese e ci restino il più a lungo possibile.



STRADA MAESTRA, NON TERZA VIA INCIPIT Due strade divergevano in un bosco, io presi la meno percorsa e quello ha fatto tutta la differenza. (Robert Frost). La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi) Non puoi viaggiare su una strada senza essere tu stesso la strada. (Buddha) La via non può essere lasciata un solo istante. Se potessimo lasciarla, non sarebbe la via. (Confucio) Non chiedo ricchezze, né speranze, né amore, né un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi. (Robert Louis Stevenson) Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. (Italo Calvino) Due cose contribuiscono ad avanzare: andare più rapidamente degli altri o andare per la buona strada. (Cartesio) «Signore, penso di essermi perso, per favore mi può indicare la strada maestra?» «È proprio alle tue spalle, guarda: in quel palazzo giallo, col portone aperto». «La strada è in un palazzo? Ma sul portone vi è scritto Biblioteca Comunale». «Esatto. Per un ragazzo della tua età è lì l’inizio della strada maestra. Entraci, perdici molto tempo e vedrai che dopo troverai con grande facilità quella esterna». (Memoria di un dialogo letto chissà dove e quando… o forse retaggio di un sogno). SQUALLORE DA UN LATO; ORRORE DALL’ALTRO Le parole più appropriate per iniziare un articolo sulla terza via sarebbero le seguenti: “Parliamo di aria fritta”, ma glissiamo per non mancare di rispetto a chi, in virtù di quell’aria fritta, ha patito immani sofferenze o addirittura ha perso la vita. Anche il titolo del paragrafo sarebbe stato più appropriato con altre parole: “Squallore a destra; orrore a sinistra”, nel rispetto di una consolidata abitudine, diffusa a livello planetario, tesa a definire in modo superficiale, approssimativo e quindi erroneo le due componenti politiche, soprattutto per quanto concerne la destra. È ben evidente, però, che in tal caso si sarebbe fatto un grosso torto a chi della vera destra fosse un degno rappresentante. Ritorneremo più avanti su questo argomento, ma ora soffermiamoci sugli infausti sentieri spacciati per strada maestra, o terza via che dir si voglia. Tutto ebbe inizio alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando la sinistra europea, disorientata e smarrita per il crollo del muro di Berlino, cercò di leccarsi le ferite e inventarsi qualcosa per recuperare identità e ruolo. Di schiaffi, del resto, ne stava prendendo parecchi già da molti anni, grazie al lungo dominio di una perfida donnaccia inglese che incarnava tutto il male che si potesse trasfondere in un sistema politico, alimentando quella naturale reazione allo squallore, che di certo non costituiva una novità. Basti pensare, per esempio, ai fermenti rivoluzionari in Francia e Russia, alimentati da corti decadenti e avulse dai reali problemi che angustiavano i sudditi; ai corrotti regimi sudamericani e caraibici, responsabili delle conseguenti dittature “cosiddette di destra e di sinistra”, ancora più corrotte e pericolose; alla destra e alla sinistra storica, che divorarono l’Italia post-unitaria, creando le premesse per l’avvento del fascismo. La reazione allo squallore germogliò proprio in Inghilterra, dando vita all’orrore del New Labor e al dominio di un giovane spregiudicato, Tony Blair, che avrebbe quasi eguagliato, per durata, la permanenza al numero 10 di Downing Street della perfida donnaccia che l’aveva preceduto: dieci anni contro undici. (Perdonate se non ne trascrivo il nome, come una corretta regola giornalistica imporrebbe. Questo, però, non è un giornale come gli altri e alcune eccezioni sono possibili. Ho avuto l’onore e il piacere di essere legato sentimentalmente a una combattente dell’Irish Republican Army, appartenente alla Brigata Belfast, quella del mitico Bobby Sands, fatto morire in carcere proprio dalla cinica e feroce donnaccia, insieme con altri nove prigionieri politici. Da decenni ho giurato a me stesso e ai tanti eroi irlandesi che ho avuto modo di conoscere durante i terribili anni dei troubles,


qualche volta condividendone i rischi, che non avrei mai pronunciato o scritto il suo nome, nemmeno per dileggiarla. N.d.R.)» Il supporto intellettuale alla terza via blairiana fu offerto da uno strambo e pittoresco accademico londinese, Anthony Giddens, che, con laurea in sociologia conseguita presso la London School of Economics, grazie agli arcani e incomprensibili misteri del mondo universitario, conquistò prima una cattedra di psicologia sociale all’università di Leicester e poi la direzione della prestigiosa università presso cui aveva studiato. Seguire il percorso riflessivo di questo personaggio è molto importante perché è proprio in esso che si trovano le risposte più esaustive sull’effettiva consistenza della terza via; molto più esaustive delle pur tante e qualificate risposte degli autorevoli studiosi che ne hanno dimostrato la fallacia, presentandola per quella che è: una baggianata. La sua “bibbia” è il testo del 1994 Beyond Left and Right – the futur of Radical Politics, pubblicato in Italia dalla casa editrice Il Mulino con il titolo Oltre la destra e la sinistra. Secondo Giddens, al declino della prospettiva socialista, al progressivo svanire dei profili tradizionali della destra e della sinistra e alla crisi mondiale della società, quest’ultima molto genericamente e abbastanza superficialmente attribuita al superamento dell’ordine naturale e sociale, si può rispondere solo con una politica che vada oltre le obsolete contrapposizioni (per intenderci: destra-sinistra) e che, attingendo dal conservatorismo i basilari principi della protezione, conservazione e solidarietà, li metta al servizio di obiettivi appartenenti al patrimonio tradizionale della sinistra: la liberazione, l’emancipazione, l’uguaglianza. La terza via, di fatto, che tanti a sinistra considerano un “thatcherismo dal volto umano” che tradisce l’ideale solidaristico nei confronti dei poveri e dei bisognosi, per Giddens incarna una moderna socialdemocrazia capace di andare oltre le due dottrine dominanti: l’obsoleta socialdemocrazia che trovava le sue radici nella gestione keynesiana della domanda, nell’interventismo del governo, nello stato assistenziale e nell’egualitarismo; il neoliberismo, che considera il mercato sempre più intelligente dei governi e riduce al minimo indispensabile l’intervento dello Stato nella sfera privata. Dopo aver “sistemato” (secondo lui) destra e sinistra, nel 1998 Giddens modella la terza via con un nuovo saggio, pubblicato l’anno successivo in Italia da Il Saggiatore: La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia. L’intento è quello di meglio inquadrare, rispetto a quanto non fosse stato fatto col precedente volume, l’alternativa al neoliberismo, fonte primaria delle diseguaglianze; al socialismo e alla socialdemocrazia, in crisi a causa della globalizzazione; all’Unione Europea, sempre più propensa a chiedere ai Paesi membri di rinunciare a consistenti fette di sovranità statale. La terza via dovrebbe favorire la costruzione di una società che premi l'innovazione e il dinamismo, senza escludere gli strati sociali più deboli. Uguaglianza, sostegno agli svantaggiati, libertà come autonomia, diritti associati alla responsabilità, autorità garantita da una vera democrazia e pluralismo cosmopolita ne costituiscono gli elementi più rappresentativi. Il passaggio obbligato è la rinuncia agli ideali, considerati vuoti se non connessi a possibilità reali. L’intero saggio, comunque, al netto dei buoni propositi, è un confuso minestrone di errate interpretazioni della realtà e di concetti bislacchi tesi a orientare le forze politiche, soprattutto quelle di destra e sinistra, verso il centro, ritenuto un solido modello statale in grado di aiutare realmente i cittadini ad affrontare senza timori le nuove sfide dell'età globale, dai mutamenti nel mercato del lavoro alla crescita dei rischi ambientali, dalla mondializzazione della finanza all'aumento dell'immigrazione. Ancorché fantasiose e fallaci, comunque, le teorie di Giddens conquistarono anche Clinton, che nel luglio 2003, a Londra, intervenendo alla “Progressive Governance Conference”, dopo una bella sviolinata all’amico Blair, si espresse con toni apologetici a favore della terza via, intesa soprattutto come utile strumento contro “l’aggressività della nuova destra, che per lui, ovviamente, negli Usa era incarnata dai repubblicani e in Europa da quei movimenti un po’ da tutti definiti improvvidamente e impropriamente di destra, come quelli francesi e italiani, al potere con Chirac e Berlusconi, o addirittura quelli dell’austriaco Haider e dell’ungherese Urban. Terza via, quindi, come pensiero dominante nel ventunesimo secolo per ridimensionare la sinistra riluttante al cambiamento e fronteggiare la formidabile sfida lanciata dalla (pseudo)destra. Nel prosieguo del discorso elogiò Regno Unito, Svezia, Olanda e Nuova Zelanda per la convinta adesione alla terza via e si profuse in una profonda analisi


in chiave prospettica, traendo spunto dalla sua esperienza personale: «In Usa, negli otto anni in cui ho avuto il privilegio di servire il mio Paese, abbiamo dimostrato che si possono ottenere la pace e il progresso sociale senza aumentare le disuguaglianze sociali e rendere inviso il governo. […] Sono convinto che il nostro movimento rispecchi fedelmente valori tradizionali quali la garanzia di opportunità progressive per tutti, una cittadinanza responsabile, una comunità aperta, lo sforzo di sostenere chi non sia in grado di farcela da solo, (il grassetto è mio per evidenziare l’assurdità del concetto alla luce di quanto realmente emerga dalla società statunitense, indipendentemente da chi stia al potere , N.d.R.) e di fornire a chi ne sia in grado gli strumenti per migliorare. Credo sia questo il compito di un governo moderno. Il primo ministro Blair ha affermato: “L’immobilismo non paga, la politica aborrisce il vuoto”. Credo, in altre parole, che la terza via sia allo stesso tempo perpetua e pragmatica. Che la riforma sia contemporaneamente un obiettivo e una visione. Il dato di fatto che caratterizza il ventunesimo secolo è, nel bene e nel male, l’interdipendenza tra le nazioni. […] Il mio Paese concede ingenti sgravi fiscali ai più abbienti, mentre metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno e un miliardo di individui con un solo dollaro al giorno. Posso affermarlo con maggior convinzione oggi perché, da quando ho lasciato la Casa Bianca, per la prima volta nella mia vita pago un importo simile di tasse. Non ho mai pensato che il presidente Bush avrebbe curato così bene i miei interessi. Ma io non ho bisogno di sgravi fiscali e non dovrei averne diritto. Questo mondo interdipendente, nonostante tutti i vantaggi che comporta, non è accettabile perché caratterizzato da un’intrinseca instabilità. Nel migliore dei casi è insicuro e incerto, nel peggiore misero e letale. È intrinsecamente instabile perché due gruppi di individui ne sono tagliati fuori: innanzitutto coloro che non ne godono i vantaggi e, in secondo luogo, coloro che non ne accettano la responsabilità perché non condividono la nostra visione e i nostri valori. Essi aderiscono alla politica dell’identità sminuendo gli altri in base a differenze di religione, razza, etnia, filosofia tribale o politica. L’unica verità che possono accettare è la loro verità. In questa fase della storia il mondo ha più che mai bisogno di una terza via. Il grande interrogativo che dobbiamo porci è come mai, dal momento che la nostra analisi è palesemente corretta e abbiamo dato dimostrazione che la terza via, ovunque abbia avuto adeguate possibilità di operare, funziona decisamente meglio di qualsiasi alternativa, subiamo gli attacchi della sinistra nei nostri paesi e perdiamo terreno a favore di una destra in fase di rinascita in numerosi paesi a partire dal 2000. Relativamente alle critiche provenienti da sinistra vorrei precisare alcuni aspetti. Ho l’impressione che questi attacchi si impernino su due questioni. Innanzitutto i nostri critici in America, i miei critici all’interno del Partito democratico, i critici di Blair, possono affermare con una certa dose di ragione, che non abbiamo risolto tutti i problemi del mondo interdipendente. […] Veniamo dunque alla sfida della destra. Come abbiamo potuto perdere le elezioni avendo alle spalle risultati così positivi? Non abbiamo certo intenzione di accusare la gente di non sapere quello che fa. Scegliendoci, gli elettori ci assumono al proprio servizio e chi si impegna in una qualsiasi impresa non va molto lontano se si mette a dare del cretino ai propri clienti. (In realtà le elezioni le vinsero e furono solo gli imbrogli perpetrati dal fratello di Bush, governatore della Florida, a impedire a Gore di assurgere alla Casa Bianca, N.d.R.) Gli elettori sono nostri clienti, come mai non acquistano ciò che vendiamo in tanti paesi? Che cosa è successo? Innanzitutto bisogna riconoscere un merito alla destra. Nei Paesi in cui è vittoriosa i rappresentanti della nuova destra hanno affinato le proprie strategie politiche. Noi abbiamo assunto parte del loro atteggiamento intransigente e responsabile; loro, nella retorica, alcune nostre preoccupazioni. Conservatorismo compassionevole, lo slogan del presidente Bush del 2000, rappresentava l’unico principio su cui avrebbe potuto vincere le elezioni. Un’idea geniale, perché era un modo di rivolgersi agli elettori moderati — che nel mio Paese nutrono sempre qualche scetticismo nei confronti del governo — e promettere loro gli stessi risultati dell’amministrazione Clinton ottenibili però con minori interventi governativi e maggiori sgravi fiscali». Segue una lunga disamina sulle colpe della destra (o cosiddetta tale), sull’inadeguatezza al governo e sui successi conseguiti «solo quando la gente è lucida perché ha paura», per poi concludere che la storia è a favore della terza via e che bisogna mantenerla in vita come unica alternativa al degrado del mondo, senza però demonizzare coloro che ad essa si oppongono, ai quali –


bontà sua – va riconosciuta la buona fede. (Il discorso integrale è stato pubblicato in Italia da "la Repubblica" il 25 settembre 2003). Anche in Italia la terza via ha avuto e ha i suoi epigoni, tanto nel cosiddetto centro-destra quanto nel cosiddetto centro-sinistra, ma essendo di così scarsa consistenza etica, morale, culturale e politica (al netto dei successi conseguiti, comunque rilevanti grazie soprattutto ai demeriti altrui e alla dabbenaggine di molti elettori), non meritano una trattazione più consistente di questi pochi righi, in ossequio ai principi "De minimis non curat praetor" e "maiora premunt". Consapevole, comunque, che qualcuno possa ritenere interessante approfondire l’argomento anche per le implicazioni che riguardano il nostro Paese, segnalo l’ottimo saggio di Florence Faucher e Patrick Le Galès, edito da Franco Angeli: L’esperienza del New Labor – Un’analisi critica della politica e delle politiche, la cui prefazione, redatta da Roberto Biorcio e Tommaso Vitale, è tutta incentrata su terza via e politica italiana. Per correttezza e a scanso di maledizioni aggiungo che, dopo le prime pagine, fui costretto a munirmi di una discreta scorta di Biochetasi in quanto i nomi citati e i fatti narrati provocavano consistenti disturbi intestinali. DESTRA E SINISTRA Prima di continuare con i palleggi concettuali di Giddens è opportuno soffermarsi, ancora una volta, sui termini “destra e sinistra”, costituendo essi continuo oggetto di insoluta discussione interpretativa nonché fulcro del dibattito sulla terza via. Per quanto possa sembrare pazzesco bisogna accettare l’idea che degli errori, anche grossolani, nel momento in cui diventano patrimonio comune, perdono la loro essenza erronea e acquisiscono dignità, se non proprio di verità, quanto meno di credibilità. Accade in tutti i campi: arte, scienza, cultura, grammatica. Un esempio su tutti è la famosa frase “Tutto è relativo, come disse Einstein”, magari ascoltata annuendo, senza sapere che Einstein quella frase non l’ha mai detta e mai avrebbe potuto dirla, dal momento che rappresenta un grossolano ossimoro: se “tutto è relativo”, il concetto stesso rappresenta qualcosa di assoluto e quindi si smentisce da solo. Ovviamente il concetto di relatività esprime tutt’altro. Per il termine “destra, e in forma minore anche per “sinistra”, è invalso l’uso di un utilizzo improprio, senza mai porsi il problema se siano corrette e legittime tanto le attribuzioni conferite a determinati soggetti quanto (e soprattutto) la legittimazione delle auto-attribuzioni. Ecco, così, che il complesso panorama destrorso viene popolato da soggetti che stanno a una vera destra come un vinello annacquato da un oste disonesto, venduto a meno di un euro, sta a una riserva speciale da mille euro. Più volte è stato scritto in questo magazine che è semplicemente pazzesco associare la destra ad altri spazi politici (centro-destra); a sistemi politici ed economici che addirittura di essa rappresentano l’opposto (liberismo, liberalismo); a movimenti che predicano l’odio razziale e sono l’espressione di sub culture; a partiti conservatori che rappresentano le componenti più putride della società, soprattutto in campo economico e dei diritti civili, come nel caso dei repubblicani statunitensi. Ricordando quindi i tanti articoli che affrontano il problema terminologico da un punto di vista prettamente politico, chiudiamo il discorso con un riferimento meta-politico e per certi versi filosofico, che dovrebbe avere – almeno si spera – maggiore pregnanza esplicativa. Sorvolando sui vari schieramenti politici del presente e del passato che, a torto o a ragione, si definiscono o vengono definiti di destra e di sinistra, soffermiamoci esclusivamente sull’aspetto trascendentale dei termini, individuando i campi dell’essere che meglio rappresentano, storicamente, culturalmente, antropologicamente. La destra costituisce l’emblema stessa della vita e si manifesta come segno dell’ordine, dell’intelligenza, del coraggio, della fedeltà. Il tempo scorre a destra: per misurarlo le lancette dell’orologio girano a destra; le piante rampicanti si attorcigliano al sostegno con spirali a destra; le conchiglie univalve dei gasteropodi mostrano la spirale a destra; i motori ruotano verso destra; in inglese, per definire un “galantuomo”, si dice “right hand man”; il figlio dell’uomo è seduto alla destra del padre; tenere la destra è garanzia di disciplina nel traffico automobilistico; cedere la destra è segno di cortesia; di un inetto si dice che è un “maldestro”; un artista crea quando gli viene il “destro”; destreggiarsi: superare con intelligenza le difficoltà; destriero: cavallo da battaglia coraggioso, agile, generoso; «alicui fidem dextramque porrigere – porgere la destra in segno di fedeltà (Cicerone); ogni contratto


d’onore si sancisce stringendo la mano destra; si giura alzando la mano destra (in passato ponendola su un testo sacro). Sia pure con il sorriso sulle labbra, poi, e prendendo le necessarie distanze, è anche giusto citare un passo dell’Ecclesiaste (10:2) secondo il quale «il saggio ha il cuore alla sua destra, ma lo stolto l’ha alla sua sinistra» (nei libri sapienziali della Bibbia il cuore ha la stessa valenza che per noi contemporanei ha la mente). “Sinistra”, di converso, da sempre incarna tutto ciò che di nefasto possa riguardare un essere umano sia in termini di fatti (brutto sinistro, presagio sinistro, minaccia sinistra) sia come esplicito riferimento alla sua natura (si dice “persona sinistra” per caratterizzarla come pericolosa, minacciosa, inutile, dannosa, lugubre, terrificante). Essere di destra o di sinistra, quindi, non significa semplicemente “occupare uno spazio politico” ma essere espressione positiva o negativa di un retaggio che ha a che fare con la natura umana. Le differenziazioni, pertanto, per essere veritiere, andrebbero effettuate tenendo presenti precipuamente questi elementi, che in ogni individuo traspaiono sempre in modo eloquente. Un uomo “autenticamente” di destra non ha mai bisogno di alzare la voce e la sua autorevolezza, che quasi sempre si trasforma in carisma, gli viene riconosciuta in modo naturale; non ha complessi di inferiorità e soprattutto non ha complessi di superiorità, riuscendo sempre a dimostrarla nel modo più semplice possibile, delicatamente, anche stando zitto; ha la vista lunga e la capacità di capire gli scricchiolii della storia e quelli del proprio tempo; è raffinato, colto, intelligente; è capace di capire gli umori altrui, i motivi reconditi dei vari comportamenti e non si adira quando non si sente capito; non si vanta dei propri successi e non scade mai nella noiosa e fastidiosa autoreferenzialità; ragiona sui tempi lunghi e non corre dietro alle mode; se impegnato in politica agisce in ossequio a ciò che ritiene giusto per il bene comune, cercando di far accettare anche le cose più difficili senza mai preoccuparsi del proprio orticello elettorale; non si piega ai compromessi; denuncia chiunque tenti di corromperlo o manifesti disponibilità a farsi corrompere; è un paladino “reale” della lealtà, dell’onestà, della meritocrazia; rifugge da qualsivoglia deriva ideologica, a cominciare dal razzismo, perché riconosce una sola razza: quella umana; ha una grande apertura mentale e sa ben coniugare la migliore tradizione con il mondo in perenne evoluzione, senza mai lasciarsi travolgere e surclassare dagli eventi, che domina con il piglio e la fierezza di chi sappia andare per mare domando le onde; il suo approccio con la scienza non è mai fuorviante e scioccamente ideologico, ma accorto e saggio; può anche credere in qualche dio, senza mai sognarsi di mettere in discussione le scoperte scientifiche per mero opportunismo fideistico. Serve dire quanto lontano da queste caratteristiche siano i tanti esponenti politici che, a ogni latitudine, si definiscono di destra? Non serve. Lo stesso vale anche per i tanti elettori che si definiscono di destra e credono di votare per partiti di destra. Con siffatti presupposti, pertanto, la terza via nasce già sbilenca: è concepita per combattere un nemico che non c’è e, non a caso, come ben spiegato nel saggio innanzi citato, viene presa per buona da molti soggetti, tanto a destra quanto a sinistra, che di fatto sono diretta espressione di quelle componenti negative che vorrebbero combattere perché imputate ad altri. (La solita storiella del vedere la pagliuzza nell’occhio altrui e non accorgersi della trave nel proprio). SI SGRETOLA IL CASTELLO DI SABBIA Dopo tanta fatica e dopo aver convinto mezzo mondo che la terza via sia l’unica percorribile per garantire un futuro accettabile, accade ciò che sempre si verifica quando si costruisce un edificio imponente con materiali scadenti, per giunta su terreni franosi: in men che non si dica crolla tutto. Se il progettista è consapevole dei rischi, è un criminale e basta; se invece è vittima egli stesso di raggiri e non si è reso conto né della fragilità logistica né delle truffe perpetrate dagli esecutori, è un babbeo che non sa svolgere il suo lavoro, ma deve essergli riconosciuta qualche attenuante e la buona fede. Giddens non è un criminale e la sua queste era ancorata a un convinto presupposto di efficacia. La buona fede, del resto, traspare chiaramente da ciò che disse nel 2014, quando ammise pubblicamente, sia pure cercando di giustificare in qualche modo le sue teorie, che la terza via era morta, travolta da tecnologia e globalizzazione. In una intervista pubblicata da la Repubblica (nel 2015, però, ossia un anno dopo la presa di coscienza) spiegò chiaramente le ragioni del fallimento. Val la pena di


riproporre integralmente l’intervista, che chiude ogni discorso, al di là e a prescindere da epigoni che testardamente si ostinano ancora a percorrere i sentieri da lui tracciati, nonostante gli sbarramenti apposti. Per loro, ovviamente, non si può proprio parlare di buona fede. Pazienza se nell’intervista è citato con toni entusiastici un politico nostrano di infima qualità, la qual cosa fa comprendere come il bislacco accademico inglese continui a prendere lucciole per lanterne, a meno che nel frattempo non si sia ricreduto anche su di lui, visto che sono trascorsi sette anni. Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi? «Significa avere determinati valori. Promuovere l'eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all'interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi». Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos'è cambiato rispetto al passato? «È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l'obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l'abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo (Ecco perpetuato l’errore di confondere la destra col liberalismo, N.d.R.). Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile» (Altro sciocco ossimoro: il capitalismo per sua natura non può essere responsabile. Anche di questo abbiamo parlato in precedenti numeri di "Confini", N.d.R.) La Terza via, di nuovo? «No, perché quando formulai il modello della terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L'accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la terza via, l'idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato». Ce ne dia un esempio. «Un recente studio dell'università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l'invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell'umanità». Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra? «Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto». Cos'altro potrebbe fare, Renzi? «L'azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l'Europa». (Per fortuna ora si può ridere di questa asserzione, senza alcun bisogno di far ricorso al Biochetasi, N.d.R.) Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato? «Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L'altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all'industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».


Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra. (Si riferisce al saggio “Il capitale nel XXI secolo”, scritto dall’economista francese Thomas Piketty nel 2013. La replica alla domanda è corretta, ma non esaustiva: il saggio contiene molti errori concettuali e dati contrastanti che si smentiscono vicendevolmente. N.d.R.) «Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l'ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi». Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti. «Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo». (Intervista a cura di Enrico Franceschini, “la Repubblica”, 3 aprile 2015). Peccato non abbia concluso l’intervista invitando tutti a portare al macero i suoi saggi inneggianti alla fine della destra e della sinistra e alla bontà della terza via. Avrebbe fatto un figurone. LA STRADA MAESTRA Da almeno seimila anni l’uomo s’interroga sul senso della vita e su cosa serva per vivere bene su questo Pianeta, anche in prospettiva futura. È lecito ritenere, inoltre, che anche nei due millenni precedenti, i cacciatori nomadi dei monti Zagros, dopo aver imparato a coltivare il frumento, ad allevare ovini, a costruire semplici case di fango e paglia, collocandole una vicino all’altra per vivere insieme in un costrutto abitativo che chiameremo “villaggio”, qualche domanda più o meno analoga se la dovettero porre. Aristotele parlava di “essere ragionevole (logikòs)” che, a differenza degli altri esseri, s’interroga e pone sempre nuove domande, in una incessante ricerca di un “come e di un perché”. Seimila anni di domande, o addirittura ottomila, evidentemente, sono ancora pochi per trovare delle risposte valide, considerato che la stragrande maggioranza dell’umanità vive in una condizione esistenziale definibile con una sola parola: “ignoranza”, intesa nella sua accezione più ampia e non circoscritta, quindi, nell’ambito dell’analfabetismo o mancanza di cultura. Pur volendo sorvolare su aspetti che riguardano miliardi di persone, relativamente alle varie credenze che hanno condizionato e continuano a condizionare la storia umana, l’ignoranza che pervade le classi “evolute”, che credono di sapere e in virtù di questo credo addirittura insegnano, dettano la via, esercitano un potere, fa più male della povertà, della tirannide subita e imposta, della cattiveria, perché di questi elementi essa è la causa e non la conseguenza. Non ci voleva un mago, pertanto, per smascherare l’illusoria e presuntuosa weltanschauung del visionario londinese, subito fatta propria da mediocri e insulsi uomini di potere, quali quel presidente USA che trovava esaltante trombarsi nella stanza ovale una insignificante e bruttina stagista, inducendola a fargli il servizietto orale sotto la scrivania mentre parlava con altri capi di Stato o di Governo; dal babbeo di turno in Downing Street, che non esitò a dare credito ai servizi segreti italiani (italiani!!!) quando gli rifilarono la bufala delle armi di distruzione di massa possedute da Saddam, subito riferita a Bush, che non perse occasione per scatenare la seconda guerra del Golfo, da cui nacque l’ISIS (Cfr. Confini, nr. 40, gennaio 2016, pag. 4); da un po’ di babbei italiani, tra i quali due loschi figuri che, nonostante la loro propensione a una distorta gestione del potere, sono stati comunque capaci l’uno di governare una regione per venti anni (dissanguandola) e l’altro addirittura di sedersi sullo scanno più alto di Palazzo Chigi, scegliersi un presidente della Repubblica di comodo e far cadere un paio di governi, al netto di altre nefandezze qui omesse per amor di sintesi; da tanti altri “passanti” che, un po’ dappertutto, grazie a un mondo in rovina, sono riusciti a guadagnarsi il proprio quarto d’ora di celebrità, speso precipuamente per far danni al prossimo. Non ci voleva un mago sol che qualcuno tra quelli che hanno la fortuna di farsi ascoltare, invece di cincischiare su deboli teorie e dati statistici farlocchi, si fosse preso la briga di capire che la barzelletta chiamata terza via aveva


grosse similitudini con quel processo epocale che aveva la presunzione di cambiare il mondo già nel XVIII secolo, pervaso da fondamenta molto più solide e nonostante ciò naufragato sull’impossibilità materiale di imporre il razionalismo come sistema di vita. Se hanno fallito nell’impresa uomini del calibro di Voltaire, Rousseau, Montesquieu, Fontenelle, che avevano elaborato le loro teorie traendo spunti da altri giganti come Locke, Newton, Hume, a loro volta ispirati da Bacone, come diavolo si poteva presumere che vi sarebbe riuscito l’oscuro accademicuccio londinese, accompagnato da un po’ di pischellini al di qua e al di là dell’Atlantico? Barzellette che non fanno ridere, come si vede. Aria fritta e nulla più. Nell’incipit si parla di un ragazzo che cerca la strada maestra e qualcuno gli indica una biblioteca. Serve aggiungere altro? Se sì ne parliamo un’altra volta. Ora spazio esaurito.


SERVIZIO MILITARE OBBLIGATORIO: UN AIUTO PER I GIOVANI I dati sono allarmanti sotto tutti i punti di vista. Il vuoto esistenziale e culturale che caratterizza, e non da poco tempo, le fasce adolescenziali e giovanili, costituisce un problema sociale che non può essere né sottaciuto né preso sottogamba. Il consumo di sigarette, droga e alcool ha oramai raggiunto tra i giovanissimi livelli da capogiro, secondo quanto emerge dai periodici rapporti dell’OMS, della Federazione servizi dipendenze (FederSerD), della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) e del Coordinamento nazionale dei coordinamenti regionali che operano nel campo dei trattamenti delle dipendenze (InterCear). Se l’abuso di sostanze nocive mina il corpo, la mancanza di stimoli culturali validi, la crescente lontananza dai valori più nobili e sacri che dovrebbero costituire il patrimonio comune di una società che intenda definirsi civile, la crisi della scuola e della famiglia fanno il resto, lasciando crescere un esercito di zombi che, divenuti adulti, non potranno che manifestare la loro assoluta inadeguatezza alla vita. Le conseguenze di siffatta disastrosa condizione sociale sono facilmente immaginabili, anche in considerazione degli eloquenti segnali che non possono sfuggire a nessuno perché quotidianamente alla ribalta della cronaca: minorenni ai quali è concessa una irregolare e pericolosa condotta di vita notturna, stupri di gruppo dopo serate passate a ubriacarsi e a drogarsi, genitori malmenati e uccisi per procurarsi i soldi necessari all’acquisto di droga e tante altre nefandezze che fanno accapponare la pelle, soprattutto quando mettono in risalto l’assoluto disprezzo della vita umana, ben emerso in modo ancora più consistente durante questi terribili mesi segnati dalla pandemia. Un formidabile contributo a peggiorare la situazione è offerto, purtroppo, anche da quegli adulti che, in ossequio a una distorta e confusa visione del mondo e a un errato concetto della libertà individuale, quando non a concrete logiche perverse coscientemente perseguite, eccedono in permessivismo e addirittura si dichiarano favorevoli alla liberalizzazione delle droghe. Come intervenire opportunamente per sottrarre i giovani ai condizionamenti nefasti di una società allo sfascio, contaminata anche in quegli elementi che per loro costituiscono un’attrazione primaria, come la musica, per esempio, è la battaglia epocale combattuta da coloro che della società costituiscono la parte “sana”, anche se con scarsi risultati perché i buoni propositi, inevitabilmente, si scontrano con un potere politico refrattario a interventi drastici, essendo precipuamente intento a coltivare i rispettivi orticelli di potere. Nondimeno bisogna insistere nel denunciare il problema e proporre soluzioni valide, lottando affinché prima o poi si creino le giuste condizioni per la loro pratica attuazione. Se così non dovesse essere ci dovremmo preparare a un futuro ancora più buio del presente. Un valido aiuto ai giovani di entrambi i sessi può essere offerto senz’altro dal ripristino del servizio militare obbligatorio, soppresso dal 2005. Dodici mesi da trascorrere nelle caserme, insieme con i militari professionisti, condividendone, se non proprio tutte le mansioni, le regole. I vantaggi sarebbero molteplici e avrebbero l’effetto di una cura disintossicante. Dodici mesi senza alcuna possibilità di consumare droga e alcool, grazie anche ai controlli sistematici da effettuare a campione e soprattutto al rientro delle licenze; uso limitato dello smartphone, oramai divenuto una vera droga, con divieto di utilizzo durante l’attività didattica, esercitazioni, ore notturne, secondo quanto già previsto dalle vigenti norme, che per l’occasione sarebbe il caso di rendere ancora più restrittive. L’educazione all’ordine, alla disciplina, al rigore, al rispetto del prossimo, al gioco di squadra, al rispetto delle gerarchie, a dover contare solo su sé stessi in determinate circostanze e ad affidarsi con fiducia ad altri in determinati contesti, non possono che giovare ai giovani. Sarebbe un periodo di notevole crescita individuale e collettiva, che consentirebbe di recidere significativamente il cordone ombelicale con famiglie iperprotettive e non sempre (per non dire quasi mai) in grado di fornire un’adeguata educazione alla vita. Un periodo durante il quale l’intelligenza di ciascuno sarebbe continuamente stimolata, orientandola verso sentieri dell’essere realmente degni di essere percorsi. Di fondamentale importanza risulterebbe il distacco dal mondo “virtuale”, pieno di insidie, e una


maggiore esortazione a coltivare i rapporti diretti, per confrontarsi e magari anche scontrarsi, ma civilmente e a viso aperto, per mettere alla prova sé stessi in un contesto reale e non artefatto grazie alle possibilità offerte da una tastiera del PC. La presenza dei giovani nelle caserme, inoltre, consentirebbe di distogliere delle risorse professionistiche da alcune incombenze di secondaria importanza, a tutto vantaggio di una migliore efficacia operativa di quelle primarie, magari anche nelle missioni all’estero, che offrirebbero quindi a tanti giovani esperienze formative e conoscitive ancora più pregnanti. Bisogna restare con i piedi per terra, tuttavia, e sarebbe sciocco concludere che un anno di servizio militare potrebbe rappresentare la panacea per un fenomeno negativo di così vasta portata, soprattutto se dovesse configurarsi come una mera parentesi da sopportare con noia e fastidio. Da qui la necessità di ben arare il terreno, sia in fase propedeutica sia al termine del servizio. Nelle scuole, almeno una volta per ogni ciclo scolastico, a partire dalla quinta elementare, andrebbe organizzata una giornata speciale, tipo “La scuola incontra le Forze Armate” o qualcosa del genere, consentendo agli alunni di visitare una caserma, di ascoltare una lezione da parte di un ufficiale e di interagire ponendo domande sui vari aspetti della vita militare. In nove anni, dalla scuola elementare al diploma, si avrebbe la possibilità di partecipare a eventi che, se sapientemente organizzati, qualche effetto positivo dovrebbero senz’altro produrre. Al termine del servizio di leva obbligatorio, poi, i giovani dovrebbero essere tutti esortarti a iscriversi alle associazioni d’arma, prendendo parte attiva all’attività associativa, che dovrebbe essere rimodulata rendendola più funzionale alle esigenze di una società in continua evoluzione. In buona sostanza si tratta di proiettare nella vita civile tutti quegli elementi positivi che costituiscono l’ossatura di un sistema militare, avendo cura di effettuare l’operazione con l’intelligenza necessaria a smontare sul nascere le sicure alzate di scudi da parte dei cretini in servizio permanente effettivo, allergici per partito preso alla divisa. Se davvero un progetto del genere dovesse concretizzarsi, sarebbe bellissimo scoprire che proprio dei giovani, dopo il servizio di leva obbligatorio, manifestando chiaramente un cambio di rotta nel proprio stile di vita, s’impegnassero attivamente per correggere le distonie maturate in decenni di sfascio sociale e favorissero quel “rinascimento etico, morale e culturale” che oggi sembra solo una chimera.


LETTURE SOTTO L’OMBRELLONE Due racconti, che si leggono tutto d’un fiato, per ingannare il tempo sotto l’ombrellone, o dove meglio si ritenga opportuno, considerato il periodo particolare. Scritti da Lino Lavorgna, sono basati su storie vere, per ovvi motivi romanzate, spostate nel tempo e nello spazio e con nomi fittizi relativamente ai protagonisti. Affrontano entrambi tematiche attualissime. Il primo parla di mobbing, un triste fenomeno in forte espansione nel mondo del lavoro, non ancora disciplinato da una legge che ne sancisca i confini e preveda pene adeguate per i colpevoli. Il secondo cesella l’articolo pubblicato in questo numero sul servizio militare obbligatorio: parla di un giovane d’altri tempi, che di certo non era distratto da movida, droga, alcool e mode insulse. (Angelo Romano) LA ZOCCOLA CON I TACCHI A SPILLO E IL CAVALIERE ERRANTE Vi è una palpabile differenza tra i giovani avvocati, rampanti figli del post modernismo, e gli avvocati nati negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, i quali, per formazione, stile e abitudini, sono molto più vicini ai loro colleghi del passato che non a quelli del presente. L’avvocato Aldo N., nato nel 1941, aveva cinquantotto anni quando si trovò a difendere Renato Federico, alla fine del secondo millennio, da un’accusa molto grave: sequestro di persona, violenza privata e tentato omicidio. Già i capi d’imputazione, istintivamente, inducono a ritenere di trovarsi al cospetto di un delinquente incallito. Le conclusioni affrettate, del resto, condizionano tragicamente la storia dell’umanità sin dal giorno in cui una folla in delirio salvò Barabba e mandò in croce Gesù Cristo. L’avvocato, però, sapendo bene di che pasta fosse fatto il suo cliente, in quanto amico di famiglia da lungo tempo, approfittò della profonda cultura umanistica per cesellare l’arringa con un azzeccatissimo riferimento a Gaio Fabrizio Luscino, console romano, la cui straordinaria rettitudine fu apprezzata da amici e nemici. I Sanniti tentarono più volte di corromperlo, senza successo, nel 282 a.C., ma gli episodi che lo consacrarono come uomo fuori dal comune accaddero due anni dopo, durante la guerra contro Pirro, re dell’Epiro, che gli offrì la quarta parte del regno pur di indurlo a cessare le ostilità, ottenendo un freddo e deciso rifiuto. Il medico personale di Pirro, a sua volta, gli promise che avrebbe avvelenato a morte il re in cambio di una cospicua ricompensa. Fabrizio lo fece arrestare e ordinò ai soldati che lo riaccompagnarono nell’accampamento nemico di riferire il tradimento, affinché fosse chiaro che i romani solevano vincere con la forza e non con l’inganno. Re Pirro, profondamente colpito da cotanta nobiltà d’animo, come ci tramanda Eutropio nella “Storia di Roma”, pronunciò la celebre frase: «Ille est Fabricius, qui difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest», sublimata poi da Dante che, nel De Monarchia, cita il console come “alto esempio di resistenza all’avidità”. La vicenda, intrigante e per certi versi morbosa, aveva incuriosito l’opinione pubblica e l’aula del tribunale era affollata più che mai. L’avvocato Aldo N., dopo aver smontato le accuse, concluse l’arringa modulando la voce alla stregua di un bravo attore teatrale alle prese con un testo epico, cimentandosi proprio con la frase di Fabrizio, per l’occasione adattata al suo cliente: «Questi è Renato, che può distogliersi dall’onestà più difficilmente che il sole dal suo corso». Il pubblico ministero, pur accogliendo parzialmente sia le prove addotte a discolpa dell’imputato sia le attenuanti generiche, aveva chiesto la condanna a due anni di reclusione, motivandola con la necessità di punire comunque un uomo che, per certi versi, almeno nella fase iniziale della vicenda, «si era fatta giustizia da solo», la qual cosa non è ammissibile in uno Stato di diritto. La difesa, però, ebbe la meglio: assoluzione per l’accusa di sequestro di persona e tentato omicidio; solo sei mesi ai sensi dell’articolo 582 del codice penale, relativo alle lesioni personali, in questo caso molto lievi e più afferenti alla sfera psicologica che fisica, sì da consentire la pena sospesa e la non menzione nel casellario giudiziario. Non sarebbe potuto andare diversamente, del resto, dopo l’attenta disamina da parte del giudice dei fatti accaduti, valutati nella loro cruda essenza. Le prostitute godono da sempre di ottima letteratura e le sostanziali differenze di classe sono state magistralmente sintetizzate in un celebre aforisma di Oscar Wilde: «Una donna povera che non sia onesta è una prostituta, ma una ricca è una signora alla moda».


In questa storia si parla proprio di una ricca prostituta d’alto bordo, Angie G., che simboleggia quel variegato e ben numeroso esercito di donne aduse ad aprire le gambe con infinito e spudorato cinismo, godendo non tanto per le spinte scomposte di untuosi e ansanti porcelloni ma per le ricche prebende scaturite da quei trenta secondi di disponibilità, subito cancellati dal corpo e dalla mente con una bella doccia rinfrescante. Angie era nata in una modesta e numerosa famiglia, in un piccolo paesino del Sud Italia dove il sogno ricorrente è quello di scappare via da un presente senza futuro e dalla fastidiosa frequentazione di chi vive sistematicamente guardando a un passato idealizzato oltremisura. Vogliosa di volare alto e ben consapevole delle precarie condizioni economiche familiari, imparò sin da giovinetta ad approfittare dei doni di madre natura, forse col pieno sostegno di chi l’aveva messa al mondo. «Figlia mia – deve averle detto la mamma – puoi fare tutto quello che vuoi, ma devi arrangiarti. Soldi per mantenerti agli studi non ce ne stanno». E Angie si arrangiò: si scopò il prete del paese, che la raccomandò al preside del liceo; si scopò il farmacista, che con ipocrita affabilità paterna parlò di lei alla consorte professoressa, per indurla a essere magnanima con la figlia di brave persone che sudano tanto per assicurarle un futuro migliore; si scopò gli anziani e panciuti professori di matematica e chimica, materie per lei ostiche e si dedicò con particolare dedizione al primo cittadino, piccolo imprenditore faccendiere, dai modi spicci nella gestione degli affari pubblici e privati, brutto come la peste e tristemente famoso per gli improvvisi rutti simili a veri colpi di cannone, che ripagò ampiamente i piaceri di letto con comoda “sistemazione” lavorativa di ben due fratelli e una miriade di altri piccoli favori che alleviarono, e non di poco, le pene di famiglia. All’università, poi, fece una vera e propria strage: assistenti (allora si chiamavano così i ricercatori), colleghi bravi, professori ordinari e finanche il custode, che aveva il potere di stabilire le precedenze in occasione degli esami. La sua fama travalicò ben presto i confini della facoltà e dal secondo anno il vecchio nomignolo di “Miss Tacchi a Spillo” – la si vedeva sempre con minigonne vertiginose e scarpe con tacco dodici – fu affiancato da un non meno caratterizzante “Miss Gola Profonda”, che meritò in virtù della particolare abilità nel praticare fellatio considerate più efficaci di un trip a base di oppiacei. Oramai era diventata una vera professionista del sesso e aveva ben compreso quanto potesse renderle, economicamente, una oculata gestione del proprio corpo. Diede vita a una vera e propria impresa, quindi, avendo cura di praticare tariffe esose e di concedersi solo a persone di alto rango e sicuro potere. Non disdegnava di collezionare “fidanzati”, che però non duravano più di nove-dieci mesi e fungevano precipuamente da accompagnatori in occasione delle serate con gli amici, uscite mondane, vacanze, nonché da stalloni per sano e appagante sesso extra-professionale. Si sarebbe potuta fermare a questo e continuare serenamente l’attività di prostituta d’alto bordo, per poi ritirarsi con una cospicua fortuna, ma volle strafare e si fece assumere da un’importante multinazionale, con sedi nei cinque continenti, raggiungendo ben presto posizioni apicali grazie alla disponibilità nel soddisfare le morbose voglie dei capi, che abbagliava fino a stordirli con i continui ammiccamenti, le seducenti mise quotidianamente indossate e adulazioni tanto false quanto efficaci. Intratteneva intensi rapporti con i politici importanti, dei quali si serviva per sé stessa e per agevolare gli interessi dell’azienda. Si concesse anche a un deputato che aveva ricoperto ruoli governativi, bulimico e con un pancione che assomigliava a una mongolfiera, maliziosamente soprannominato da amici e colleghi “Mister smorza candela”, in virtù dell’unica posizione erotica che la mole gli consentiva di assumere per appagare le bramosie sessuali. Il poveretto, sollazzato dalle tante questuanti che affollavano l’ufficio territoriale, disposte a tutto, e quindi anche ai complicati e non certo gradevoli amplessi, pur di vedere soddisfatte le richieste di raccomandazione, che spesso riguardavano anche i compiacenti mariti o altri congiunti, non avendo mai posseduto una donna di siffatta bellezza, impazzì letteralmente e purtroppo ci restò secco: il fisico non era proprio in grado di reggere le stressanti prestazioni sollecitate dalla perfida Messalina per ridurlo a uno stato di totale asservimento e l’abuso della famosa pillola blu, da pochi mesi immessa sul mercato, gli spezzò letteralmente il cuore, più di quanto non fosse accaduto metaforicamente grazie alle di lei abilità seduttive. Avendo ottenuto molto dai politici, quando da costoro le fu chiesto un “piccolo favore”, non esitò ad accontentarli, senza nemmeno perdere tempo con verifiche e approfondimenti della vicenda segnalata. Renato Federico era un responsabile periferico della multinazionale nella quale lei dirigeva il settore risorse umane. Trentaduenne, di bell’aspetto, portamento carismatico, brillante eloquio, laurea in Scienze politiche conseguita a ventuno anni e seconda laurea in Filosofia, studioso di psicologia e convinto seguace della dottrina junghiana, quattro lingue correttamente parlate, da due anni dirigeva con impegno e dedizione


la filiale di Napoli, con circa cinquanta dipendenti. Gli eccellenti risultati erano ben noti e chiunque lo conoscesse era pronto a scommettere che presto sarebbe stato chiamato a dirigere o un importante dipartimento centrale o qualche prestigiosa sede estera. Un eccessivo rigore esistenziale, però, e la propensione a manifestare sempre il proprio pensiero, anche quando ciò significava porre in evidenza i limiti altrui, lo avevano reso inviso a molti colleghi, che ne invidiavano il talento, e anche ad alcuni superiori, che si sentivano frustrati non potendo nascondere, soprattutto a sé stessi, che il subalterno li surclassava per intelligenza, preparazione, organizzazione del lavoro, cultura e lungimiranza. Una vera spina nel fianco, quel Renato Federico, che non perdeva mai la calma, sorrideva sempre, lavorava con disinvoltura e senza affanno, mentre gli altri correvano a perdifiato, in perenne ansia, restando ben distanziati per produttività e qualità delle prestazioni. Si occupava anche di problematiche sociali e collaborava con un raffinato periodico, che accoglieva le firme di intellettuali e docenti universitari, accomunati da un unico presupposto: la libertà di pensiero associata a un rigido codice d’onore, che li caratterizzava come dei novelli cavalieri della tavola rotonda. Nessuno era schiavo di qualcuno e ciò consentiva di approfondire complessi argomenti storici e di attualità senza mistificazioni: una cosa che dava molto fastidio al potere malato, aduso a essere coccolato dai pennivendoli e compiacenti pseudointellettuali, sempre pronti a stravolgere la verità dei fatti. Quando le fu chiesto di rendere la vita impossibile a quel rompiscatole, pertanto, Angie G. non si fece pregare due volte, anche in considerazione delle tante pressioni interne, alcune delle quali pervenute tramite lettere anonime pregne di false infamanti accuse, scaturite unicamente dall’invidia e dalla cattiveria. Il trasferimento in Italia Centrale, presso una sede che svolgeva attività di supporto – di fatto un magazzino – con personale impiegatizio di terza fascia, giunse come un fulmine a ciel sereno: per quel ruolo bastava e avanzava un ragioniere. Si trattava di mobbing allo stato puro, quindi, che Federico cercò di combattere con forza e determinazione, ma invano: o accettava il trasferimento, tra l’altro non motivato, o sarebbe rimasto nella struttura come “vice” del nuovo capo, ma di fatto senza alcun potere decisionale e con forti limitazioni operative. In pratica si trattava di scegliere tra la mortificante condizione di essere remunerato senza fare nulla, cosa da non prendere nemmeno in considerazione, o andare via. Il mondo gli cadde addosso e per alcuni giorni vagò a vuoto, sommerso da pensieri cupi che sembravano aprirgli strade solo verso il baratro. Accettare avrebbe significato rinunciare ai sogni di gloria: non si raggiungono i vertici senza percorsi lineari, con tappe conquistate nei tempi giusti; dimettersi avrebbe significato cominciare altrove, senza però avere la certezza di vedersi riconosciuto subito un livello analogo a quello ricoperto nell’azienda che abbandonava. Sarebbero dovuti trascorrere ancora una quindicina di anni, infatti, affinché le aziende iniziassero ad accantonare gradualmente le vecchie regole legate all’anzianità di servizio, collocando in posizioni importanti i neo assunti, con buona pace dei soggetti interni di minore qualità che avevano dato l’anima, mirando proprio a quelle posizioni. La famiglia, quando è sana, è il rifugio ideale nei momenti difficili e tutti, in famiglia, lo sostennero con grande amore, invitandolo a non cedere, a considerare l’episodio una parentesi che lo avrebbe rafforzato, perché lui era troppo in gamba per perdere qualsiasi guerra. La moglie Sara, professoressa in un liceo classico, grazie anche alla solidità familiare, sapeva che non vi era bisogno di modificare le normali abitudini e continuò a comportarsi come se nulla fosse accaduto: ogni alterazione sarebbe stata percepita e avrebbe sortito un effetto devastante sull’equilibrio di un uomo senz’altro forte, ma molto sensibile. La vicenda, nella sua tragicità, andava gestita con calma, evitando i toni drammatici e disperati. Papà Leonardo, vecchio ufficiale dei bersaglieri, tempratosi nelle assolate dune della Libia, si limitò a sorridergli e ad abbracciarlo, mentre gli consegnava una busta, dicendogli, semplicemente: «Figlio mio, questa è per te». Nella busta vi era un foglio sul quale era stata scritta, a penna, quella che apparentemente sembrava una lunga poesia. La grafia, chiara e ben delineata, era della mamma Elisa, maestra elementare. Non vi era alcun titolo, ma gli bastò leggere i primi versi per comprendere che si trattava di “If”, la famosa lettera che Rudyard Kipling dedicò al figlio John, in occasione del tredicesimo compleanno, per esortarlo a resistere in ogni circostanza difficile e a non perdersi mai d’animo. Un brivido gli percorse la schiena, pensando che la lettera, ancorché stupenda, non portò fortuna al giovane, ma cacciò d’impeto i cattivi pensieri, per non restarne condizionato. Sapeva che, se voleva vincere la partita, doveva essere forte e giocare d’astuzia. Con la responsabile internazionale del personale non aveva mai avuto rapporti diretti ed era lecito ritenere che l’unica occasione in cui si erano incontrati, un affollatissimo convegno aziendale nel quale lui


era in platea insieme con cinquecento altri dipendenti e lei tra i relatori, non poteva essere motivo di preoccupazione per l’identificazione fisica. Nondimeno si fece crescere la barba, rasandola accuratamente con un tratto non molto spesso che, dai lati del volto, confluiva sul mento legandosi ai baffi. Il nuovo look lo invecchiava di qualche anno, senza però intaccare quel conturbante fascino, foriero del grande successo con le donne. Quando apprese che l’infame e spietata dirigente avrebbe preso parte a un convegno settoriale in un grande albergo di Fiuggi, chiese tre giorni di ferie e prenotò una camera nello stesso albergo, dove giunse nel tardo pomeriggio. Dopo cena si approcciò al pianoforte, collocato nel grande salone prospiciente il bar, e iniziò a suonare dolci melodie che ben presto catturarono l’attenzione degli astanti. In un baleno il pianoforte fu circondato da tanti ospiti, ivi compresi quasi tutti i convegnisti, tra i quali vi era proprio la bellissima “Miss Gola Profonda”. Come sempre accade in simili circostanze, partì una raffica di richieste e tutti ebbero modo di apprezzare anche il talento canoro. Prima di ogni nuovo brano, Renato fissava il volto di una donna, accennando un lieve sorriso, quasi a significare che lo stesse dedicando a lei. A un certo punto, con aria ancora più accattivante, indirizzò lo sguardo proprio verso Angie G. e intonò “Sous le ciel de Paris”, celebre brano degli anni cinquanta cantato dai grandi chansonnier francesi e non solo. La dolcissima canzone non era stata scelta a caso: sapeva bene che avrebbe toccato lo spirito della donna, assegnata proprio alla sede di Parigi dopo l’assunzione, dove rimase per circa due anni. Angie G., in effetti, restò colpita da quella che le era sembrata una gradevole coincidenza. Quando si fece ora di ritirarsi nelle rispettive camere non poté fare a meno di complimentarsi con Renato, riferendogli l’emozione provata nell’ascoltare un brano che le ricordava gli esordi professionali. Egli non aspettava altro e fece finta di essere sorpreso per la rivelazione. Si presentò, dichiarando di chiamarsi Fabrizio del Dongo, e invitò la donna a bere un drink al bar. Conversando amorevolmente le riferì di lavorare per un nuovo mensile che si occupava di turismo e che era a Fiuggi per stipulare delle convenzioni con le principali strutture alberghiere e le Terme. Angie G. era visibilmente attratta dal giovane che, a sua volta, iniziò un elegante e raffinato corteggiamento, non scevro di quello spumeggiante senso di leggerezza che manda in visibilio le donne, soprattutto quando lascia trasparire una personalità di alto spessore. A un certo punto le lancette dell’orologio indicarono che forse era il caso di chiudere quel simpatico siparietto, o quanto meno di chiuderlo sulle pur comode poltrone dell’area bar. Si diressero verso l’ascensore, pertanto, e quando furono all’interno lui le chiese a che piano dovesse fermarsi. «Al terzo», fu la risposta, cui Renato replicò con studiato incupimento del volto e un criptico «Oh mio Dio-o-o!», come se volesse far trasparire una sensazione di sgradevole sorpresa. «Che cosa c’è?» chiese la donna, arricciando la fronte. «Solo tre piani! Come faccio a creare i presupposti per invitarla a bere un ultimo drink nella mia camera, con un tragitto così breve?». «Provaci lo stesso», fu la dolce replica, pronunciata con voce melliflua e un repentino ed eloquente passaggio dal “lei” al “tu”, mentre il più accattivante sorriso le illuminava il volto. Renato Federico la trasse a sé e la baciò impetuosamente, pigiando il pulsante del settimo piano, dove si trovava la sua camera, nella quale entrarono mentre continuavano a baciarsi, già in preda a quelle pulsioni istintive che gli spiriti liberi sprigionano senza riserve, sin dai primi approcci. A letto fecero faville e i gridolini di lei durante gli orgasmi, a tratti simili a veri e propri ululati, sicuramente sconvolsero il sonno di chi riposava nelle camere limitrofe, mentre un intrigante e prolungato gioco di lingua e bocca praticato in zona inguinale, mandando letteralmente in estasi Renato, sancì in modo incontrovertibile che il titolo di “Miss Gola Profonda” era davvero meritato. All’alba i due si accomiatarono, non prima di aver concordato un nuovo appuntamento. Dopo colazione, per non dare nell’occhio, Renato salì in auto e si allontanò dall’albergo come avrebbe fatto se realmente avesse avuto degli appuntamenti di lavoro. Si concesse un giro nei dintorni di Fiuggi, in realtà, con sosta ad Anagni per un tuffo nella storia in quella stupenda cattedrale che più di qualsiasi altra ha visto alternarsi tra le sue mura papi, re, imperatori, e nel limitrofo museo, che lascia sempre il visitatore a bocca aperta, anche dopo la centesima visita. Degustata una deliziosa carbonara in uno dei più noti e suggestivi ristoranti del centro storico, fece ritorno a Fiuggi scegliendo il percorso più lungo, in modo da costeggiare il lago di Canterno. Consumata la cena al ristorante dell’albergo, si approcciò di nuovo al pianoforte, subito circondato da tanti ospiti, che intrattenne alternando brani stupendi in italiano, inglese e francese. Si avvicinò anche una coppia di giovani irlandesi e ciò lo indusse a cantare le più belle canzoni della tradizione celtica. Appurato, poi, che erano cattolici e vivevano a Derry, città simbolo dell’indipendentismo irlandese,


li commosse fino alle lacrime intonando le rebel songs. Non potevano sapere, i due, che da sempre il suo cuore batteva forte per la causa del Nord Irlanda; che aveva molti amici tra i combattenti dell’Irish Repubblican Army; che era stato sentimentalmente legato a una militante della “Brigata Belfast”, quella del mitico eroe Bobby Sands, con la quale era miracolosamente scampato, in una piovosa notte d’autunno, prima alla ferocia degli orangisti e poi a quella di una pattuglia della Royal Ulster Constabulary. Nessuno poteva immaginare questi dettagli, ovviamente, ma le canzoni lasciavano chiaramente percepire che si stavano rievocando i terribili anni dei troubles, segnati da duri scontri e tanti lutti, che ebbero fine solo alcuni mesi prima grazie al Good Friday Agreement tra il governo del Regno Unito e quello della Repubblica d’Irlanda. Miss Gola Profonda era estasiata e già pregustava una nuova notte di sesso sfrenato. Poco dopo la mezzanotte, infatti, i due si rintanarono in camera, concedendosi un ritemprante bagno nella Jacuzzi, i cui spruzzi stimolarono subito i sensi per un sano aperitivo di voluttuose effusioni. Al termine, sempre teneramente abbracciati, si tuffarono sul letto completamente nudi e lei, profondendosi in continui ed estasiati gemiti, si girò e rigirò ripetutamente, per poi collocarsi al centro, con due cuscini sotto la pancia e le gambe divaricate, in modo da consentire all’affascinante amante di penetrarla secondo i dettami magistralmente descritti da Pietro Aretino in uno dei suoi celebri sonetti lussuriosi. Angie G. fu letteralmente travolta dall’abilità amatoria del partner, che alternava possenti spinte a improvvise pause, foriere di fremiti e accorati incitamenti a continuare, profferiti con voce smozzicata. Per quanto adusa a tutte le pratiche sessuali sin da ragazzina e a concedersi a chicchessia, senza ritegno, non poté fare a meno di considerare che non aveva mai ricevuto penetrazioni anali così profonde da toglierle il respiro e provato orgasmi così intensi e prolungati da indurla ad abbandonarsi completamente nel vortice di eros, in cerca di rinnovato piacere. I continui «Oh mio Dio, che bello, più giù, più su, sfondami tutta», profferiti con la tipica espressività vocale di chi abbia completamente rinunciato al frustrante controllo dei freni inibitori, fecero ben comprendere a Renato che oramai era in suo completo potere e vogliosa solo di annullarsi tra le sue braccia. Con calma e gesti studiati, pertanto, prese dei sottili asciugamani rettangolari e li utilizzò come lacci per legarle i polsi alla spalliera. Lei lo lasciò fare, gemendo in continuazione, presaga di qualche intrigante gioco erotico ed esaltandosi ancor più quando toccò ai piedi. «Mhhh…» esclamò ripetutamente, eccitata, muovendosi voluttuosamente. Renato si limitò a sorriderle, inviandole un tenero bacio. Dopo averla ben legata, però, prese un grande borsone forato ai lati, collocato sul piano superiore dell’armadio, dal quale estrasse una teca di vetro, parzialmente bucherellata con piccolissimi fori, all’interno della quale vi era un tronchetto di legno. Il borsone, in effetti, era quello adibito al trasporto di animali e quando poggiò la teca sulle gambe si vide subito un rettile che strisciava sul tronchetto. La donna sbiancò in volto! «Che cazzo è quello? Che hai in mente?». L’espressione della donna mutò repentinamente, rendendo espliciti i mille truci pensieri che iniziavano a farle battere forte il cuore, per la paura: “Sono forse caduta nella trappola di uno psicopatico?”. Renato percepì lo stato d’animo e le parlò con estrema calma. «Tranquilla. Non ho intenzione di farti nulla di male, ma dipende da te. Vedi questo serpentello? È un velenosissimo mamba nero. Il suo morso uccide in pochi secondi, ma tu puoi impedire che apra la teca. Devi solo rispondere alle mie domande». La donna era atterrita e il cuore le batteva sempre più forte. Stava perdendo il controllo e Renato le ingiunse di calmarsi e di respirare profondamente. Le ribadì con voce ancora più pacata che non le avrebbe fatto del male. Doveva solo rispondere alle domande e poi avrebbe potuto tranquillamente ritirarsi in camera. Seguì qualche attimo di silenzio tombale, interrotto solo dal respiro affannoso di Angie, che cercava di elaborare i pensieri partoriti dalla mente in subbuglio. «D’accordo – disse alfine – risponderò alle tue domande, ma ti prego, toglimi quella teca dalle gambe». «No, è meglio che resti lì: devi renderti conto che se non dici la verità il mamba sarà su di te in un baleno. Se invece sarai sincera, ti salverai la vita». Un fremito attraversò il corpo di Angie, che annuì nervosamente, senza avere la forza di profferir parola. Renato, a quel punto, forse mosso da un anelito di umana pietas, tolse la teca e la depose sul pavimento. Oramai aveva la certezza che era terrorizzata e lo avrebbe assecondato senza tergiversare.


«Vede, dottoressa, io non sono Fabrizio del Dongo. Il mio nome è Renato Federico. Le dice qualcosa?». «Oh mio Dio! Tu… lei…». In un clima surreale furono ristabiliti istintivamente i ruoli originari. Non più due amanti favoriti dal caso, in eccitante conciliabolo sessuale, ma un capo e un subalterno in un contesto anomalo e drammatico allo stesso tempo. «Già, io», replicò Renato, sorridendo. «Perché mi ha fatto questo? Per vendicarsi del trasferimento? Non è stata certo colpa mia! Che cosa vuole sapere?». «Tutto: chi l’ha pagata, quanto le hanno dato e cosa le hanno detto per indurla a farmi del male». «Miss Gola Profonda”, trasformatasi in un baleno in “Miss Paura Profonda”, dopo un attimo di esitazione, al solo pensiero che in pochi secondi si sarebbe potuta trovare di nuovo la teca sulle gambe, realizzò che non era il caso di tergiversare e iniziò a sciorinare un rosario senza tralasciare nessun dettaglio. Fece i nomi dei funzionari interni che avevano sollecitato azioni contro di lui, ivi compreso quello di un dirigente che gli aveva giurato una dura guerra dopo una riunione programmatica nel corso della quale si vide smontare pezzo dopo pezzo un piano operativo: Renato, senza alcun riguardo per lui e con estrema chiarezza espositiva ne aveva posto in evidenza tutte le lacune, spiegando i danni che l’azienda avrebbe subito qualora fosse stato approvato. Riferì i nomi dei politici che le avevano chiesto di rendergli la vita impossibile, dai quali aveva ricevuto venti milioni, facendogli ben comprendere che vi era stato un vero e proprio complotto a suo danno, orchestrato da più gruppi di soggetti, addirittura senza che gli uni sapessero degli altri. In pratica si era fatto un bel po’ di nemici all’interno dell’azienda, ai quali si sommavano quelli esterni, potenti, molti dei quali protettori dei nemici interni. Gli spiegò che tutti erano irretiti per il fatto che non fosse legato a nessun carrozzone, né aziendale né politico, e che la brillante carriera fosse ascrivibile solo ai suoi meriti. La libertà e lo stile di vita, invidiatissimi, generavano inevitabile cattiveria, soprattutto in coloro che, ogni giorno, guardandosi allo specchio, potevano solo prendere coscienza della propria miserabile essenza. «Questo è tutto», asserì alla fine della lunga confessione, fissando il soffitto e senza avere il coraggio di guardare negli occhi Renato, il quale, con gesti misurati e lenti, la liberò. «Ora puoi andare», le disse, indicandole la porta e reiterando un “tu” che, però, dal tono della voce e dal particolare contesto, faceva trasparire tutto fuorché confidenza. Dopo qualche attimo di smarrimento la donna sembrò riprendersi all’improvviso e gli vomitò addosso tutta la rabbia che covava in corpo, ritornando anche lei al “tu”. «Non finisce mica qui! Ti distruggerò! Non hai idea contro chi ti sia messo! Hanno sentito tutti che ti chiamavo Fabrizio! Dirò tutto! Tutto! Ti denuncerò! Dirò che mi hai violentata! E crederanno a me! A meee! Sei finito! Ti sbatterò fuori dall’azienda e ti succhierò il sangue!». Renato si limitò a scuotere la testa e a indicarle la porta con la mano. Lei s’infilò nervosamente il vestito sul corpo nudo, prese gli oggetti personali, le scarpe, la biancheria intima e, sempre con gesti stizziti, filò via tirandosi fortemente la porta alle spalle. Non poteva sapere che due telecamere, artatamente celate, avevano ripreso tutto sin dalla sera precedente, amplessi compresi. Rimasto solo, Renato prese la teca, la aprì, infilò la mano ed estrasse il rettile, che strinse delicatamente tra due dita mentre si avvicinava al mobile di fronte al letto, dove aveva occultato una delle due telecamere, soffermandosi alcuni secondi in modo che si vedesse bene la forma del serpentello. Altro che mamba! Si trattava di un’innocua biscia, nemmeno tanto lunga! Per l’avvocato Aldo N., pertanto, fu un gioco da ragazzi smontare le accuse mosse dall’arrabbiatissima dirigente e contrattaccare presentando un esposto in Procura contro di lei e i tanti complici responsabili, a vario titolo, del mobbing. L’azienda fu chiamata in causa in via preliminare, essendo giuridicamente responsabile della condotta dei propri dipendenti. Ovviamente la deleteria azione penale fu subito bloccata con l’adozione di provvedimenti ritenuti del tutto soddisfacenti dalla controparte: licenziamento delle risorse coinvolte nel mobbing, per violazione del codice etico; costituzione di parte civile nel processo che li vedeva imputati insieme con i complici politici; bonus risarcitorio pari a settanta milioni di vecchie lire per i danni morali e materiali subiti; promozione a dirigente superiore, proprio nel ruolo ricoperto da chi aveva tentato di annientarlo! Non poteva andare meglio. Miss Gola Profonda non perse nemmeno tempo a contestare il licenziamento e, conclusasi la fase processuale con un patteggiamento e la condanna a sei mesi di carcere, scontati presso il proprio domicilio,


si trasferì in una città del Nord Italia, dove divenne ben presto una tra le zoccole con i tacchi a spillo più ricercate dalle persone col portafoglio gonfio, guadagnando molti più soldi di quanti non ne avesse guadagnati al servizio della multinazionale, tra l’altro svolgendo un lavoro in perfetta sintonia con la sua natura. Quando, poi, i primi cedimenti fisici non la resero più appetibile, passò alla gestione diretta di un’agenzia di “accompagnatrici”, alle quali assicurava una formazione di altissima qualità. Renato, con i soldi ricevuti a titolo di risarcimento, fondò un’associazione per la tutela dei lavoratori mobbizzati e redasse una proposta di legge per l’istituzione del reato di mobbing, che inviò a molti parlamentari. Avviò anche un ciclo di conferenze, tenute su tutto il territorio nazionale, per spiegare ai lavoratori come difendersi in caso di mobbing. Anno dopo anno intensificò progressivamente l’attività associativa, senza, però, avere il piacere di vedere promulgata in legge la sua proposta, che prevedeva pene molto severe per i responsabili di mobbing e lauti risarcimenti per le vittime. I politici, come noto, ci pensano due volte prima di alienarsi la simpatia dei potentati economici. In una società malata il potere è spesso appannaggio di uomini senza qualità, che provano particolare gusto nel vessare le persone per bene, non allineate, facendo loro del male con ogni mezzo possibile e a volte, purtroppo, uccidendole. Se si ha la forza, però, di combattere a viso aperto per difendere i propri sani principi, anche un potere malato può essere sconfitto. Si corrono rischi? Certo! Ma l’alternativa quale sarebbe? O subire o vendersi e onestamente non è un’alternativa spendibile, perché nell’uno e nell’altro caso si vivrebbe invano. Qualcuno che la sapeva lunga, disse, una volta, che se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui. Mai arrendersi, pertanto, e mai avere amletici dubbi nella scelta tra “essere e non essere”, perché di sicuro è più nobile all’animo umano levarsi in armi in un mare di triboli e, combattendo, disperderli, che subire e soffrire i colpi di fionda e i dardi d’atroce fortuna…soprattutto se retaggio della miseria umana. Fine

**** IL PATRIOTA Il tratto di costa che si protende, in direzione nord, da Giulianova alla foce del Tronto, costituisce un importante polo turistico balneare, apprezzato per la qualità dei servizi offerti e quel genuino calore umano che rende gli abruzzesi simpatici sin dalle prime frequentazioni. Tortoreto è il centro più rinomato della fascia costiera, con scarsa fantasia denominata "Val Vibrata", conferendo immeritata gloria geografica a un torrentello lungo poco più di trentacinque chilometri e angusta foce tra i comuni di Martinsicuro e Alba Adriatica. Dall’antico nucleo cittadino, in collina, si godono panorami suggestivi e radiose albe, soprattutto in pieno autunno, quando il sole che sorge proietta sulle onde del mare i suoi mille colori. Nelle giornate terse è anche possibile vedere, in lontananza, la sagoma di "Vis", isola che una volta si chiamava "Lissa" e ci porta alla memoria la batosta che gli austriaci infersero alla nostra flotta nella famosa battaglia del 1866, nonostante disponessero di cinque corazzate in meno e la metà delle pirofregate. È proprio in quell’ameno borgo che, da quindici secoli, si succedono gli eredi dei Walthari, una delle tante famiglie giunte in Italia al seguito di quel grande re che fu Alboino, decisosi ad abbandonare le fredde pianure della Pannonia per offrire terre più fertili e clima più temperato al suo fiero popolo. Il cognome, italianizzato in Gualteroni, ha una forte pregnanza evocativa in quanto simboleggia la potenza nell’esercito. Di fatto, generazione dopo generazione, sono stati molti i Gualteroni distintisi nella vita militare. Il nonno del protagonista di questa storia sventolò il tricolore sull’altopiano della Bainsizza e a Vittorio Veneto; il figlio Rodolfo, nel 1943, con il grado di tenente, conquistò imperitura gloria e una bella medaglia d’oro nella battaglia di Médenine, in Tunisia, combattuta in pietose condizioni d’inferiorità numerica e di armamenti. Al termine della guerra, rientrato a Tortoreto, decise di costruire una nuova casa, più grande, nel terreno di proprietà, ubicato al centro di quella zona boschiva trasformatasi, in pochi decenni, nell’odierna "Tortoreto Marina". Nel 1948, Rodolfo, dopo aver portato all’altare il suo grande amore, Elena Ciprietti, avviò un’intensa e proficua attività di export alimentare verso gli Stati Uniti. Due anni dopo il matrimonio fu allietato dalla nascita di una vispa bimbetta, Elena, cui fece seguito un bel maschione, nel


marzo del 1954, che arrecò grande gioia soprattutto a nonno Renato, del quale, secondo una consolidata tradizione, ereditò il nome. Arzillo cinquantanovenne con fisico asciutto e grande vitalità, nonno Renato dedicò molto tempo ai nipoti, conferendo un forte aiuto al figlio e alla nuora, oltremodo impegnati nell’azienda a conduzione familiare. Renato crebbe tra due "soldati", prodighi di racconti legati alle reciproche esperienze belliche, che ascoltava estasiato, ponendo mille domande. Terminata la scuola media, avendo deciso di frequentare il liceo classico, trovò agevole trasferirsi a San Benedetto del Tronto presso l’abitazione della zia Margherita, docente di lettere nella locale scuola media e moglie di un docente di filosofia che insegnava proprio nel Liceo "G. Leopardi", da lui frequentato. I cinque anni delle scuole superiori volarono via senza particolari sussulti e Renato conseguì brillantemente il diploma, nel 1972, ottenendo il massimo dei voti. Il vento del Sessantotto non lo aveva scalfito, grazie al rigore comportamentale imposto dagli zii e dai genitori. Un rigore che si accompagnava a un sano processo formativo teso a sviluppare un senso critico che gli consentì di maturare in fretta e di integrare quanto appreso a scuola con la lettura di testi pregevoli, immuni dal veleno ideologico che trasudava da quelli di moda, afferenti all’infausta scuola di Francoforte. A diciotto anni Renato era un giovane brillante e di bell’aspetto, abile nel gioco degli scacchi e valente mezzofondista, in particolare sulla distanza dei 1500 metri. Già da alcuni anni, a L’Aquila, era stato istituito il Libero Istituto Universitario di Medicina e Renato, che aveva sempre sognato di dedicarsi alla professione medica, si sobbarcò a un secondo trasferimento, condividendo un appartamento con due colleghi. Pur potendo assolvere agli obblighi di leva dopo la laurea, decise di non chiedere il temporaneo esonero quando giunse al quinto anno, in modo da evitare la discontinuità professionale, ritenendo che comunque sarebbe riuscito a sostenere due o tre esami anche durante il servizio militare. Era forte e determinato e soprattutto consapevole del proprio potenziale. Nell’autunno de 1976, pertanto, puntuale arrivò la fatidica "cartolina", con l’invito a presentarsi presso il Centro addestramento reclute di Diano Marina, in Liguria, dove trascorse il primo mese di servizio. In pochi giorni familiarizzò con molti commilitoni, stringendo solidi legami amicali con quelli più affini per carattere e interessi. Trenta giorni, però passarono in fretta e quando giunse il momento dell’assegnazione al Corpo di destinazione scoprì l’amarezza del distacco. Si sentiva un leone, ma le lacrime che accompagnarono gli abbracci coi commilitoni devenuti cari amici gli rivelarono anche una fragilità che ignorava. Piangeva lui e piangevano gli amici, mentre si scambiavano gli indirizzi domiciliari: quelli erano ancora i tempi delle lettere e delle cartoline. Il quartiere di Niguarda, nella periferia settentrionale di Milano, non è certo tra i più belli della metropoli. Proprio in quella zona, però, sorgeva la caserma "Goffredo Mameli", sede del 18° Battaglione bersaglieri "Poggio Scanno", fiore all’occhiello dell’Esercito Italiano in quanto erede di quel glorioso III Reggimento insignito del più alto numero di medaglie al valore, conquistate onorando sempre degnamente il motto "Maiora viribus audere", nonché una delle sedi di destinazione delle reclute provenienti da Diano Marina. Renato fu assegnato alla IV Compagnia, comandata da un giovane capitano che, oltre quaranta anni dopo, oramai in pensione col grado di generale, avrebbe avuto un ruolo importante per cacciare dalla caserma i rifiuti umani che l’avevano occupata e trasformata in un bieco centro di perdizione. La Compagnia aveva il compito di addestrarsi all’uso del vecchio mortaio da 120 mm, ma Renato fu subito assegnato anche alle dirette dipendenze del Comandante, per il quale traduceva dal francese e dall’inglese articoli militari pubblicati su varie riviste. Incarico particolarmente gradito sia per lo status privilegiato che da esso scaturiva sia per l’arricchimento culturale dovuto alla lettura di testi che, oltre alle strategie militari, trattavano argomenti di storia e geo-politica, mettendo in luce come inglesi, francesi e statunitensi vedessero le vicende legate alle due guerre mondiali, alla guerra fredda, ai rapporti con la Russia, che allora costituiva il fulcro dell’URSS e faceva più paura di quella attuale. Qualche problema, invece, si registrava sul fronte dell’addestramento tattico, a causa delle scarse risorse economiche dal Governo destinate alle Forze Armate, che obbligavano a scelte forzate per contenere i costi e rispettare il budget assegnato. All’esercitazione pratica per l’utilizzo del mortaio, per esempio, fu destinato un solo giorno di addestramento nel poligono di Cuzzago Nibbio e ciascun mortaista ebbe a disposizione solo un proiettile per calibrare il tiro. I mortai attualmente in dotazione nei vari eserciti, dal punto di vista progettuale, sono identici a quelli di cento anni fa e si differenziano solo per l’utilizzo di bombe con sistemi di guida laser e GPS, che consentono la massima precisione nel centrare il bersaglio. All’epoca, invece, il puntamento veniva effettuato con complessi calcoli trigonometrici e a ogni batteria venivano assegnate quattro risorse (attualmente ne bastano due): il comandante di squadra, solitamente un graduato, che aveva il compito di


controllare l’arma prima del tiro e comunicare i dati da impostare; il capo arma puntatore, che impostava i dati di tiro; il porgitore, o servente all’alzo, che porgeva le munizioni al caricatore, detto anche servente allo sbando, che doveva intervenire sulla bussola dell’affusto e poi, finalmente, infilare il proiettile nella bocca di fuoco. Il mortaio in dotazione era difettoso e pertanto, nonostante il corretto puntamento, il proiettile cadde almeno duecento metri sulla destra del bersaglio, senza che ciò costituisse, però, alcun problema: il tiro risultava perfetto, a giudizio del capitano, in virtù dello sbandamento previsto. L’attività in caserma procedeva con il metodico programma quotidiano, che sfociava nelle gradite scappatelle del fine settimana, sfruttate per un breve rientro domiciliare o per l’inevitabile avventuretta sentimentale con qualche fanciulla disponibile, magari conosciuta durante le frequenti passeggiate al Parco Lambro nelle ore di libera uscita. Di nuove esercitazioni pratiche non se ne parlava proprio. Come un fulmine a ciel sereno, invece, arrivò una notizia che fece trasalire tutti: trasferta a Capo Teulada per partecipare alle esercitazioni congiunte dei Paesi aderenti alla NATO. La notizia, ovviamente già nota ai superiori, fu comunicata ai soldati solo sette giorni prima della partenza. Renato, forte del ruolo privilegiato in funzione del rapporto diretto col Comandante, trovò il coraggio di chiedere un ritorno al poligono per effettuare i tiri necessari a stabilire una corretta taratura del mortaio, al fine di correggere lo sbandamento, ottenendo, però, un deciso rifiuto: le deficitarie risorse economiche non consentivano esercitazioni fuori programma. Il poligono di Capo Teulada, raggiunto dopo un estenuante viaggio in treno, elicottero e camion militare, si estende su una superficie di ben 7.200 ettari e funge da struttura per le esercitazioni sin dal 1951. L’unico centro abitato della zona è il piccolo comune di Sant’Anna Arresi, ubicato in una landa desolata distante una ventina di chilometri, con meno di tremila abitanti e un paio di bar, inevitabili ritrovi per tutti i soldati in libera uscita. Le esercitazioni del battaglione erano programmate per il giorno successivo a quelle dei soldati statunitensi, che si fecero ammirare per efficienza e l’impressionante volume di fuoco rovesciato sui vari bersagli, sia con i carri armati sia con le armi in dotazione alla fanteria. Verso le dieci del mattino furono i fanti a iniziare le esercitazioni, che consistevano nella simulazione di un attacco a una postazione nemica. Erano muniti del vecchio fucile Beretta BM 59, che consentiva di sparare a colpo singolo o a raffica. Il caricatore poteva contenere venti colpi, ma a ogni soldato ne furono dati solo otto, con l’ordine perentorio di sparare a colpo singolo, distanziando gli spari di qualche secondo per dare alla manovra un minimo di credibilità, senza peraltro riuscirvi: il volume di fuoco era davvero poca cosa rispetto a quello messo in campo dai soldati statunitensi, il giorno precedente. Nel pomeriggio era prevista l’esercitazione con il mortaio e a Renato proprio non andava di esporsi a una brutta figura, ancorché ampiamente prevista e quindi senza conseguenze. Il bersaglio da colpire era al centro di un isolotto distante poco più di tre chilometri dalla postazione e trecento metri dalla battigia, a ridosso della quale era stato collocato un immenso palco che ospitava autorità civili, militari, religiose, giornalisti e ospiti vari. L’ordine era chiaro: calcolare la traiettoria senza preoccuparsi dello sbandamento e pazienza per il sicuro mancato centro. Renato, però, intriso di fuoco giovanile e orgoglio patriottico, decise che era preferibile rischiare una severa punizione piuttosto che far ridere i soldati di mezzo mondo. Se poi fosse riuscito a centrare il bersaglio, pensava, magari sarebbero stati clementi. L’idea gli frullava nella mente già da alcuni giorni. Certo, sarebbe stato tutto più semplice se si fossero effettuate delle esercitazioni preventive, ma si poteva tentare lo stesso il colpaccio: dopo tutto si trattava di recuperare un paio di centinaia di metri sulla destra dell’isolotto con una piccola correzione manuale dell’angolo di incidenza. Magari il proiettile non sarebbe caduto proprio al centro del cerchio dipinto sul terreno, che fungeva da bersaglio, ma comunque non sarebbe finito in mare! Idea non certo bislacca, che avrebbe funzionato alla perfezione sol che si fossero fatti quei maledetti tiri di prova a Nibbio! La correzione empirica della parabola, invece, leggermente superiore a quanto sarebbe stata sufficiente, consentì senz’altro di recuperare lo sbandamento a destra ma, purtroppo, conquistò anche oltre duecento metri sulla sinistra! Il proiettile, quindi, cadde non lontano dalla battigia, sollevando un’enorme massa d’acqua che generò il panico tra le autorità ammassate sul vicino palco. Errore umano o atto terroristico? Nessuno perse tempo a chiedersi cosa stesse accadendo e iniziò il più classico dei fuggi fuggi. Un generale turco, che assisteva alle operazioni con moglie e figli, era il più inferocito e urlava frasi che non lasciavano presagire nulla di buono. In men che non si dica la batteria fu circondata da soldati con le armi in pugno, mentre un ufficiale, puntando ripetutamente la pistola in direzione di tutti i soldati, ordinava con


quanto fiato avesse in corpo di sdraiarsi per terra, con le mani dietro la schiena. Renato, senza scomporsi, invitava alla calma dicendo più volte che l’unico responsabile era lui, ma nessuno sembrava ascoltare le sue parole e pertanto furono tutti messi in guardiola. Il provvidenziale arrivo del Comandante consentì di risolvere subito il problema dei commilitoni ingiustamente arrestati, mentre Renato restò in cella per tutta la durata delle esercitazioni, che si conclusero dopo tre giorni. In Italia non esiste la "Corte marziale" e la competenza per i reati commessi dai militari è riservata ad appositi tribunali, ubicati a Verona, Roma, Napoli, ciascuno con giurisdizione negli ambiti territoriali di pertinenza. Renato fu processato a Verona e la difesa fu affidata al capitano che comandava la Compagnia, il quale, dopo aver consolato il suo sottoposto, amareggiato solo per aver esposto i superiori che stimava e dai quali era stimato a un forte imbarazzo, si produsse in una efficace arringa nella quale fece risaltare il problema delle mancate esercitazioni per carenza di fondi, a fronte dei tanti "sperperi" che si registravano in ogni ambito della Pubblica Amministrazione, sottolineando la vergogna provata alla vista delle altrui esercitazioni. «Doveva pagare, quell’uomo, quel soldato - disse il capitano enfatizzando il più possibile il tono della voce – per l’amore dimostrato a quella Patria che altri, invece, saccheggiano senza ritegno?» Tutti furono conquistati dalla sua arringa, ma non era facile pronunciare una sentenza assolutoria: erano pervenute troppe pressioni, soprattutto dagli USA, dalla Turchia e dalla Gran Bretagna, per una severa condanna affinché fosse rimarcato in modo inequivocabile che un soldato deve obbedire senza discutere. I servizi segreti dei tre Paesi, tra l’altro, a cominciare da quello inglese, non impiegarono molto tempo per scoprire sia la militanza politica nella destra sociale, che a quel tempo comportava una pesante accusa di nostalgismo fascista, indipendentemente dai reali propositi dei singoli esponenti, sia l’afflato solidaristico di Renato nei confronti della causa indipendentista nordirlandese e degli stretti legami con molti esponenti dell’Irish Republican Army. Nei loro rapporti informativi utilizzarono chiaramente il termine "terrorista", che fece sì ridere i destinatari italiani, senza però che gli stessi si preoccupassero più di tanto di far comprendere l’esatta portata del pur grave episodio. Avrebbero potuto senz’altro non tenere conto delle pressioni e decidere in perfetta autonomia, dando il giusto peso alla vicenda, ma preferirono far prevalere la ragion di Stato, che tante volte impone di ingoiare amaro e di perpetrare "azioni di comodo", indipendentemente dalle loro conseguenze, soprattutto quando si tratta di confrontarsi con alleati di quel calibro. Renato, quindi, fu condannato a due anni e sei mesi di carcere e trasferito nella prigione militare di Pizzighettone. A nulla valse la mobilitazione dei commilitoni per chiedere la revisione del processo, all’epoca non prevista dall’ordinamento militare: il vulnus costituzionale fu sanato solo nel 1981, proprio grazie alla spinta iniziale offerta dalla vicenda di Capo Teulada. Fu anche valutata la possibilità di chiedere la grazia al Presidente della Repubblica, ipotesi che fu scartata subito sia per espressa volontà di Renato sia per le valide argomentazioni addotte dagli avvocati amici: si era nel pieno dello scandalo Lockeed, che travolse il Governo italiano e l’allora presidente Giovanni Leone, che non si sarebbe mai messo contro i suoi amici statunitensi. Vi era da considerare, inoltre, che a norma dell’articolo 402 del codice penale militare di pace, l’eventuale grazia concessa dal Capo dello Stato non prevedeva, come di prassi, la controfirma del ministro della Giustizia bensì quella del ministro della Difesa, cosa che non giocava a favore di Renato: il dicastero della Difesa, infatti, era retto dal repubblicano Giovanni Spadolini, che di sicuro non sarebbe stato benevolo nei confronti di un esponente di destra, nonostante i chiari propositi più volte espressi, ancorati all’affermazione di una destra moderna, sociale ed europea, capace di guardare al futuro e scevra di qualsivoglia rigurgito nostalgico. Molte più chances, invece, si potevano ipotizzare in caso di controfirma da parte del ministro della Giustizia, all’epoca Francesco Paolo Bonifacio, il quale, pur appartenendo alla DC, aveva cultura giuridica tale da consentirgli una più congrua valutazione del caso, sempre che avesse lasciato prevalere l’onestà d’intenti e non altri aspetti eticamente discutibili. Dopo sei mesi di prigionia il giovane fu trasferito a Sora e quindi più vicino a Tortoreto, cosa che alleviò la sofferenza dei familiari, che non furono più costretti alla lunga trasferta per le periodiche visite. A Sora si recarono spesso anche gli ex commilitoni, i colleghi di facoltà, i docenti e Flavia, la fidanzata conosciuta sui banchi universitari. L’unica cosa positiva, in quella che comunque rappresentò un’esperienza dolorosa, fu la concessione di permessi studio che gli consentirono di recarsi periodicamente in facoltà per sostenere gli esami e anche per frequentare dei seminari particolari connessi alla tesi, che discusse in carcere, nel mese di marzo 1979. Il 26 maggio 1980 le porte del carcere si aprirono e finalmente il giovane patriota


rivide la luce della libertà. Una luce abbagliante: all’esterno vi erano ad attenderlo i familiari, tanti amici e la fidanzata, accompagnata da uno stuolo di colleghi. Il giovane sembrava stordito nel vedere tutta quella gente e Flavia, senza mai smettere di sorridergli, dovette insistere più del dovuto per indurlo a voltarsi e guardare lungo il muro, alla destra del portone, dove erano ben allineati i commilitoni in divisa, senza stellette essendo oramai degli ex, ma con il cappello piumato impeccabilmente indossato. La sorpresa fu tale che dovette faticare non poco per non scoppiare a piangere convulsamente, anche se non riuscì a evitare che calde lacrime gli solcassero il viso. Superati gli attimi di smarrimento, si eresse sul busto e con gesto deciso si pose sull’attenti di fronte ai compagni d’armi. Il capitano della Compagnia, che nel frattempo era stato promosso maggiore, aspettò che il vociare dei presenti si sedasse e con voce tonante esclamò: «Compagnia, A-ttenti! Compagnia Presentat-Arm!». I soldati erano disarmati, ovviamente, e l’ordine fu eseguito portando la mano sul cuore. Poi fu dato il comando di "riposo" e tutti corsero ad abbracciare Renato, che a quel punto non riuscì a trattenere la commozione. Dopo un breve periodo di vacanza, Renato, che anche stando in carcere si era iscritto al corso di specializzazione in neurochirurgia, riprese a studiare di gran carriera e affinò il suo talento con frequenti trasferte presso il prestigioso ospedale Pierre Wertheimer di Lione, dove si trasferì definitivamente quando Cupido scoccò una freccia in direzione di una collega del limitrofo ospedale cardiologico. Il suo indiscusso talento lo portò ben presto a essere considerato uno dei più grandi neurochirurghi al mondo, rappresentando sempre il relatore principe nei vari convegni internazionali. Invitato spesso anche a tenere seminari accademici presso prestigiose università, una volta si sentì chiedere da uno studente se avesse memoria di qualche intervento ritenuto particolarmente importante per la sua complessità. Si concesse una lunga pausa di riflessione, sospirò profondamente e replicò socchiudendo leggermente gli occhi, con voce calda: «Sono stati davvero tanti e ho salvato molte vite umane, nel corso degli anni, ma l’intervento che porto nel cuore è quello che feci su un vecchio e malconcio mortaio da 120 mm, nella primavera del 1977». Fine


I^ RASSEGNA MULTIMEDIALE CITTÀ DI CASERTA

La propensione degli italiani a cimentarsi in varie attività artistiche è nota; quanto poi questo collimi con una produzione di alto livello nei vari settori, a cominciare da quello letterario, è tutto da dimostrare. In questo campo la confusione regna sovrana, grazie anche a modalità editoriali che tendono a sfruttare tale propensione, senza fungere da filtro come richiederebbe una sana e corretta deontologia professionale. Capita, in tal modo, che il mercato sia invaso da opere di infima qualità solo perché gli autori sono in grado di sostenere i costi di stampa e di promozione. Chi non fosse in grado di autoprodursi, invece, anche se scrive un capolavoro, è destinato a restare nell’ombra: gli editori non se la sentono di investire sui talenti emergenti e amano giocare sul velluto, privilegiando, insieme con i lavori di chi paga, quelli dei personaggi famosi, che si vendono senza problemi indipendentemente dal loro valore intrinseco. Problemi più o meno analoghi riguardano tutti i settori artistici. Queste valide argomentazioni hanno indotto i responsabili di due associazioni culturali casertane estremamente «rigorose», Europa Nazione ed Excalibur Multimedia, a organizzare una rassegna multimediale che, scevra di qualsivoglia contaminazione utilitaristica, si prefigge di portare alla ribalta esclusivamente i soggetti dotati di vero talento nelle varie discipline. La prima edizione, prevista per il prossimo mese di ottobre, con scadenza per la presentazione delle opere fissata al 18 settembre 2021, prevede solo poche sezioni (poesia, silloge, racconto breve, narrativa, fotografia), anche se l’intento è quello di incrementarle sensibilmente già a partire dal prossimo anno. Per ogni sezione saranno premiati solo i primi tre classificati, in modo da conferire alla selezione il massimo dell’autorevolezza, che perde consistenza quando si allarghino a dismisura i premi con le più svariate motivazioni. Al fine di consentire agli autori di non penalizzare i loro lavori, obbligandoli a forzate e dolorose sintesi, per la sezione «narrativa breve», in deroga a consolidate prassi, è possibile inviare opere contenute entro un limite massimo di ben dieci pagine. Il bando del concorso, con relativa scheda personale può essere agevolmente scaricato dal portale dei concorsi letterari, collegandosi al seguente link: www.concorsiletterari.net/bandi/rassegna-multimediale-citta-di-caserta, nonché dai seguenti siti di riferimento: www.europanazione.eu; www.excaliburmultimedia.wordpress.com, pagina Facebook Rassegna


Multimediale Città di Caserta. Per informazioni e per richiedere il regolamento via posta elettronica è possibile scrivere a excaliburmultimedia@europanazione.eu



L’OPPIO DEI POPOLI PROLOGO L’allegoria platonica nota come “Mito della caverna”, da sempre, serve ai saggi per spiegare la complessità delle vicende umane ai tanti che, in virtù dei propri limiti, percepiscono la realtà in modo distonico, scambiando il grano per loglio e viceversa. Oggigiorno, però, le mistificazioni politiche e mediatiche consentono di elevare al rango di “saggi” una pletora di soggetti che, metaforicamente, ricordano i prigionieri incatenati nella famosa caverna, dando vita, quando pontificano da quella scomoda posizione, a una torre di Babele confusionaria più nefasta dei drammatici fatti distortamente narrati. Hanno un gran da fare, pertanto, i “veri saggi”, con vista lunga e solide basi culturali, per arginare quel vizioso circolo narrativo che distorce continuamente le vicende umane fino a stravolgerle del tutto. La loro, tuttavia, è una battaglia persa in partenza perché non si ferma un fiume in piena e nessuno si preoccupa di impedire con adeguati correttivi le inondazioni future: «La storia è maestra, ma non ha allievi», sosteneva Gramsci. Il problema fu affrontato già due secoli orsono da William Hazlitt, saggista inglese poco noto in Italia ancorché autore di pregevolissime opere, tra le quali spicca “L’ignoranza delle persone colte” (Fazi editore, 2015) pregna di quell’amaro sarcasmo tanto più efficace quanto più rivelatore di amare verità: «Le cose nelle quali eccelli veramente – sostiene Hazlitt - non contano perché [gli altri] non le possono giudicare. Il principale svantaggio di sapere di più e di vedere più lontano degli altri in genere è di non essere compresi. Una persona intellettualmente dotata tende a esprimersi per paradossi, il che lo colloca subito fuori dalla portata del lettore comune. […] La forza intellettuale non è come la forza fisica. Non puoi contare sulla comprensione degli altri se non entrano in simpatia con te. […] Certe persone non le batti mai. Qualunque cosa fai, loro la fanno meglio». Al “lettore comune” oggi si può aggiungere tranquillamente il “telespettatore”, che formula le sue teorie in funzione della percezione empatica suscitata dai vari ciarlatani che si alternano nei talk show. IL DIFFICILE APPROCCIO La lunga premessa, quindi, serve ad arare il terreno per far percepire quanto sia difficile dissertare sull’oppio dei popoli, con evidente riferimento alla realtà contingente, senza correre il rischio di alimentare la già consistente torre di Babele. Di certo l’impresa risultò molto facile a Marx, forte delle sue “verità assolute”, che gli consentirono di associare la religione all’oppio, utilizzato come lenitivo dalle persone sofferenti per andare avanti, sia pure illusoriamente. Altrettanto facile è stata per i tanti pensatori che, dopo di lui, con analogo determinato rifiuto di qualsivoglia elemento sovrannaturale, ne ricalcarono le orme: Novalis, Heine, Kingsley, Lenin, a loro volta emulati da epigoni storicamente più vicini al nostro tempo, i cui nomi non val la pena citare, sia per la debole consistenza effettiva sia perché si correrebbe il rischio di trasformare questo articolo in un elenco telefonico. La geopolitica attuale, di fatto, riproponendo in modo drammatico l’eterno scontro tra Occidente e Oriente, pone i “pensatori” (e anche gli scienziati) di fronte al terribile dilemma se riconsiderare o meno l’approccio semantico con le religioni,


che dello scontro costituiscono l’elemento fondamentale, accantonando definitivamente quelle formule cerchiobottiste che consentono di salvare capra e cavoli in ossequio al famoso detto di H. L. Mencken: «Il gregge è gregge e ha bisogno di un ovile». Mai come oggi sarebbe necessario dire al gregge che non esistono ovili sicuri nei quali trovare conforto e sedare le proprie paure. Tutto ciò che abbiamo incamerato a livello di formazione personale va messo in discussione e bisogna ripartire da zero in ogni campo, eccezion fatta per la scienza, che si evolve con processi diversi da quelli del pensiero e può essere oggetto di speculazione dottrinaria, anche in contrapposizione, solo dai veri “scienziati” e non dai tanti patetici figuri, politici e giornalisti compresi, che giocano a fare gli scienziati nei salotti televisivi e sui social. “Sarebbe necessario”, ma già il condizionale indica titubanza, dubbi, perplessità. Il già citato Mencken, che in quanto a certezze assolute non era secondo a nessuno, nel celebre saggio “Il trattato sugli dei”, asserisce testualmente: «La religione fu inventata dall’uomo, così come dall’uomo furono inventate l’agricoltura e la ruota, e in essa non v’è assolutamente nulla che giustifichi la credenza che i suoi inventori avessero l’ausilio di potenze più alte, terrene o d’altra natura. In alcuni suoi aspetti, essa è estremamente geniale, in altri di commovente bellezza, ma in altri ancora è così assurda da rasentare l’imbecillità». Cesellando poi il rapporto tra le varie religioni, crea un parallelismo disfattistico tra quelle indiane e il cristianesimo: «La vera patria delle apocalissi e delle escatologie è l'India. Si sono inventati più paradisi e inferni qui, che in tutto il resto del mondo, e la loro influenza è visibile in tutte le teologie moderne; la verità è che la teologia cristiana – come ogni altra teologia – non è soltanto contraria allo spirito scientifico, lo è anche ad ogni altro tentativo di pensiero razionale. [...] L'unico vero modo per conciliare scienza e religione è di istituire qualcosa che non sia scienza e qualcosa che non sia religione». Se il suo pensiero, poi, si può riassumere nella riflessione sulla teologia, ritenuta «il tentativo di spiegare l'inconoscibile nei termini di ciò che non vale la pena conoscere», il riconoscimento tributato al cristianesimo, «sola fra le religioni del mondo ad aver ereditato un contenuto estetico che la rende un’opera d’arte così potente da consentirle di sopravvivere alla sua stessa decadenza», si possono ben comprendere, come accennato all’inizio del paragrafo, i terribili quesiti che deve porsi qualsiasi intellettuale serio: è pronta l’umanità ad accettare l’idea che da polveri stellari ebbero origine, più o meno quattro miliardi di anni fa, i primordi vitali del genere umano? Tutta l’umanità, in egual misura e allo stesso tempo? In Occidente e Oriente? Se la risposta è “no” – e ovviamente non potrebbe che essere “no” – è giusto forzare la mano al di là delle mere riflessioni soggettive contenute in tanti saggi, bilanciate però da altre riflessioni di segno opposto? O bisogna rassegnarsi all’idea che una generosa illusione, per la moltitudine delle persone, sia da preferire a una negazione comunque preconcetta? Ciascuno può rispondere come meglio ritenga opportuno, a quest’ultimo quesito, in funzione della propria sensibilità, del livello culturale, dell’approccio con la vita e con il prossimo. Il “sì” e il “no”, mai come in questo caso, hanno pari dignità e possono mettere sulla bilancia, in egual misura, ragioni più che valide, inevitabilmente destinate ad annullarsi reciprocamente. Le vicende umane, ovviamente,


seguono un corso che prescinde dalla volontà dei singoli e quindi la cosa più sensata che si possa fare è tentare di rendere più comprensibile “ciò che accade”. LO SHOCK AFGANO Siamo tutti scioccati per le tragiche notizie che giungono quotidianamente dall’Afghanistan, sempre accompagnate da immagini raccapriccianti. Gli eventi sono precipitati così velocemente da risultare per certi versi incomprensibili, anche alla luce delle notizie riportate dai media nei giorni immediatamente successivi alla partenza dei soldati statunitensi. Si è detto di tutto e di più, con “preoccupate” previsioni sulle possibili conseguenze del ritiro, cresciute d’intensità a mano a mano che i talebani conquistavano senza troppa fatica intere città. Giunti a una sessantina di chilometri da Kabul, il grido di allarme si è levato ancora più impetuoso in tutto il mondo: «Occorre intervenire subito; la capitale cadrà nel giro di tre-quattro mesi al massimo». «No – sentenziavano altri – se non si agisce in fretta per fermarli (nessuno diceva come fermarli, tuttavia), cadrà nel giro di due mesi!» Eccezion fatta per pochissimi analisti, quindi (tra i quali chi scrive, che aveva ampiamente previsto il repentino disfacimento dell’esercito afgano, vuoi per paura vuoi perché in massima parte solidale con i “confratelli” che avrebbe dovuto fermare), i capi del mondo, a cominciare da Biden, i soloni di Bruxelles, i direttori e gli opinionisti delle grandi testate con stipendi da favola, sono rimasti a bocca aperta quando i sessanta chilometri sono stati coperti in quattro giorni e i talebani si sono presi pure lo sfizio di non entrare subito a Kabul, per consentire ai soldati americani e a molti occidentali di svignarsela a gambe levate. Quello che è accaduto dopo, e sta ancora accadendo, è cronaca quotidiana. È perfettamente inutile, quindi, ribadire come il Paese sia precipitato indietro di venti anni, quanto siano estranei alla civiltà gli attuali detentori del potere, le atrocità commesse, la triste condizione delle donne, la sofferenza dei bambini, le complesse conflittualità interetniche tra le varie tribù e quelle più radicate che oppongono Sciiti e Sunniti, le ingerenze interessate delle potenze che con i talebani solidarizzano, i rischi connessi dall’alto numero di profughi: queste cose, tutto sommato, risaltano nei media, talvolta con servizi e commenti sui quali non vi è nulla da obiettare. Anche le responsabilità dell’Occidente, e degli USA in particolare, vengono diffusamente trattate con dovizia di particolari, collegandole a quelle che hanno determinato la nascita dell’ISIS (su CONFINI ne abbiamo parlato nel numero 40, gennaio 2016, pag. 4) e addirittura alla disastrosa campagna vietnamita degli anni Settanta, conclusasi con analoga ignominiosa fuga in elicottero dei diplomatici. Gli approfondimenti seri, quindi, per chi ne abbia voglia, non sono difficili da reperire e solo per facilitare il compito segnalo l’ultimo numero di “Limes”, intitolato “Lezioni afghane”, che mi sono sciroppato in rete prima dell’uscita in edicola (18 settembre): offre davvero una visione esaustiva della complessa vicenda, senza tralasciare il ruolo dell’Italia. Essendo il “come”, quindi, ampiamente trattato, ciò che risulta più utile, per completare il discorso, è una visione d’insieme che consenta di comprendere “il perché” di certe cose. Per farlo, come sempre, occorre partire da lontano. ORIENTE E OCCIDENTE


«Oriente e Occidente: nella storia del mondo, questo incontro non soltanto è d’importanza primaria ma rivendica anche un suo posto peculiare. Esso indica la direzione principale della storia, l’asse che si orienta su corso del sole. Illuminato fin dai primi albori, è un modello che continua a svilupparsi fino ai giorni nostri. I popoli si presentano sull’antico palcoscenico e nell’antico intreccio con una tensione sempre nuova». Si potrebbe tranquillamente iniziare in questo modo, “oggi”, un trattato che affronti le tematiche legate al confronto-scontro tra Oriente e Occidente. Il paragrafo citato, invece, risale al 1953 e figura all’inizio dello stupendo saggio di Ernst Jünger, “Il nodo di Gordio”, che offre spunti di notevole interesse, proprio alla luce di ciò che sarebbe accaduto dopo, a riprova della grandezza e della lungimiranza di un uomo che sapeva guardare oltre gli steccati delle miserie umane e cogliere la vera essenza della storia. Dell’Oriente avverte “tutto il peso”, restando colpito dai re persiani e dai loro satrapi, dagli scià e i khan, dai condottieri di immense schiere e colonne “sulle quali ondeggiano stendardi stranieri”. Gli sconvolgimenti iniziati con l’invasione russa dell’Afghanistan (causa della nascita di Al Qaida) e proseguiti con quella americana; la crisi irachena mal gestita dai Bush padre e figlio (causa della nascita dell’ISIS); la guerra civile in Siria; l’esplosione del terrorismo fondamentalista; i terribili attentati negli USA e in Europa; i disordinati e drammatici flussi migratori; i ricatti di Erdogan; le ingerenze russe e cinesi, per lo più di natura economica; le sofferenze dei curdi e degli armeni; le prepotenze dei tiranni amici dei terroristi sistematicamente ignorate dai Governi occidentali, adusi a celare la mancanza di coraggio nel prendere il toro per le corna dietro la comoda “ragione di stato”, cinicamente espressa con buona pace delle vittime dei tiranni; tutte queste cose e molte altre ancora che afferiscono alla geopolitica contemporanea, sono estranee a Jünger, che può solo fare affidamento, per le sue riflessioni, sulla sua contemporaneità e sul passato. Nondimeno le nozioni di cui dispone bastano e avanzano per fargli dire ciò che noi avremmo scoperto a nostre spese: «Di fronte a queste immagini (luoghi e persone del mondo orientale, N.d.R.) impallidisce la minaccia di una sconfitta ad opera di genti a noi affini, di eguali in una guerra di popoli e perfino in una guerra civile. Con i neri dagli occhi obliqui, con i piccoli gialli sorridenti, con i cavalieri dalle ispide chiome, con i giganti dagli ampi zigomi, è un nuovo sole quello che spunta. Come statue di divinità straniere, essi si stagliano sulle colline, davanti alle loro tende, nel palazzo conquistato. Verso di loro sale il fumo dei grandi incendi simili a fuochi sacrificali; il sangue delle stragi, le urla delle donne violentate annunciano l’inizio del loro potere. I loro condottieri non somigliano ad Alessandro, il modello dei principi e dei comandanti occidentali; come per Gensis Khan, la gloria e la potenza per essi consistono nel non avere mai pietà». Eccolo citato, quindi, il nome di colui che ci “apre la mente”, rivelandoci la vera essenza di un mondo che ancora oggi stentiamo a comprendere, solo da lui sconfitto proprio perché lo aveva ben compreso, a differenza di Calo XII a Poltawa, Napoleone a Mosca, Ernst Paulus a Stalingrado, ai quali si sarebbero aggiunti coloro che ci avrebbero provato dopo, con analoghi disastrosi risultati. Alessandro capì che prima di sconfiggere un grande re doveva sconfiggere “i grandi spazi” nei quali si avventurava e imporsi nel rispetto di regole ben precise, che trascendevano tanto


la pur eccellente formazione militare quanto il nobile retaggio dinastico, arricchito dagli insegnamenti aristotelici. Capì queste cose e vinse. Secondo l’antica profezia, chi fosse stato in grado di sciogliere l’intricato nodo di Gordio avrebbe avuto il dominio del mondo. Nessun essere umano poteva riuscirvi, cimentandosi nell’impresa a mani nude, nemmeno Alessandro, che dopo un paio di inutili tentativi sguainò la spada e troncò il nodo con un fendente. «La spada così maneggiata – ci ammonisce Jünger – è spirituale: è lo strumento di una decisione libera e risolutiva ma anche di un potere sovrano. Il nodo racchiude la costrizione del destino, l’oscuro intreccio di segreti, l’impotenza dell’uomo di fronte all’oracolo. […] Nessun sovrano asiatico avrebbe potuto concepire l’idea di Alessandro, nessuno di essi avrebbe potuto prendere tale decisione. […] Come tutte le grandi immagini, il nodo di Gordio è sempre presente e attuale. In quanto simbolo del potere ctonio e dei suoi vincoli, si ripresenta ad ogni incontro tra l’Europa e l’Asia e ogni volta deve essere nuovamente tagliato. E ciò significa un incontro carico di fatalità». Già, un incontro carico di fatalità, nel mondo moderno bloccato dall’ipocrisia figlia dell’Illuminismo, che impone all’uomo di giustificare con alibi menzogneri le azioni bieche, perché comunque la si giri, quando si attacca un popolo per sottometterlo, per piegarlo alla propria volontà, sempre di azione bieca si tratta. L’ipocrisia, tuttavia, può funzionare nell’Occidente per vincere le elezioni e facilitare i rapporti con i vari tiranni che risultano comodi, preziosi e rassicuranti amici; quando ci si spinge troppo a Est non funziona più, a meno che non si recida ancora una volta con un colpo di spada il nodo di Gordio, trasformando le farlocche e fallimentari “missioni di pace per esportare la democrazia” in vere azioni di guerra per sottomettere i popoli e dominarli con formule di neo-colonialismo. Cosa possibile, ovviamente, perché nemmeno i bambini dell’asilo credono alla bufala dell’invincibilità degli afgani, siano essi espressione dell’esercito regolare che sconfisse i russi con l’aiuto dei talebani e dei mujāhidīn (sostenuti dagli USA e loro alleati) in virtù della conformazione geografica del territorio, ritenuto impossibile da espugnare, o espressione dei talebani che in venti giorni hanno conquistato il Paese, mettendo fuori gioco l’esercito regolare armato e istruito dalle potenze occidentali nonché i gruppi ribelli a loro ostili. Se lo si volesse davvero, l’Afghanistan potrebbe essere “conquistato” in un mese da una coalizione occidentale composta da non più di due-tre armate ben strutturate con divisioni e reparti speciali appositamente addestrati per la guerriglia nel pur difficile territorio. Eliminata ogni possibilità di rifornimento ai talebani, dopo averli costretti a ritirarsi nelle loro zone preferite, quanto tempo potrebbero resistere prima di arrendersi o scegliere di immolarsi e volare in cielo con l’aura di martiri, dove secondo il Corano sono attesi da ben settantadue vergini pronte a rendere gioiosa e gradevole la loro seconda ed eterna vita in paradiso. Certe cose, tuttavia, sono complicate anche per i più cinici e bugiardi governanti occidentali e sarebbero possibili solo con un novello Alessandro Magno che, allo stesso tempo, fosse in grado di “tirare il fendente” e bloccare sul nascere, dappertutto, ogni possibile reazione oppositiva, dando vita a un nuovo ordine mondiale che legittimasse la sottomissione di quei popoli che tagliano teste come se fossero punte di asparagi e trattano con più rispetto i serpenti velenosi che le donne, per tacere di tutto il resto. In mancanza, le cose sono quel che sono, ossia


quelle che vediamo e subiamo. Cerchiamo, quindi, quanto meno di non mistificarle, cosa che diventa più facile se cambiamo la prospettiva di osservazione. I TALEBANI DI CASA NOSTRA Il primo dato che emerge da un’accorta lettura della fallimentare politica occidentale in Oriente è una sorta di inversione dei ruoli, in parte favorita proprio dai responsabili, che non hanno esitato a fomentare l’opinione pubblica, inducendola a compiere azioni isteriche e violente, per di più rivolte contro chi dello sfacelo era meno responsabile. Sono ancora nitide nella mente le immagini dell’attacco al Campidoglio perpetrato dai fans di Trump, tragica conseguenza di venti anni di incomprensioni e delusioni di una buona fetta di quel popolo americano incapace di guardare al di là del proprio orticello. Le masse incolte e irragionevoli hanno sempre bisogno di un capro espiatorio quando la rabbia raggiunge livelli tali da non poter essere più controllata e a un abile mestatore basta poco per manovrarle a proprio vantaggio. Gli americani che avevano creduto alla bufala delle armi di distruzione di massa; al ruolo messianico degli USA come modello di civiltà e di democrazia da esportare e da imporre a tutti i Paesi del mondo, alleati e nemici che fossero; che ritenevano di avere nobilmente sacrificato tante vite umane per rendere “civili e simili a loro” Paesi come Iraq e Afghanistan, rendendosi conto dell’abbaglio, dell’inganno, sono divenuti a loro volta abbastanza simili ai terribili nemici che si pretendeva di redimere, a riprova che certe formule di “fondamentalismo irrazionale” sono presenti anche nel DNA del “civilissimo” Occidente e basta poco per farle emergere. Dobbiamo imparare a leggere bene questo aspetto del nostro essere, per evitare l’errore di sentirci giudici in grado di emettere sentenze “giuste”, di condanna per taluni, assolutorie per altri. Dobbiamo imparare a guardare bene dentro noi stessi, accantonando la presunzione di poter dire la nostra su ogni cosa e di avere sempre ragione. Dobbiamo sforzarci, soprattutto, di rendere sempre meno “veritiera” la già citata frase di Gramsci sulla storia maestra senza allievi: è la conoscenza di “ciò che siamo stati e da dove veniamo” che ci consentirà di comprendere ciò che siamo e dove possiamo andare. Per rendere davvero maestra la storia, però, occorre destrutturarla, ossia depurarla dalle troppe mistificazioni, impresa non certo facile perché quasi tutta la storia è da esse contaminata. Ne abbiamo già parlato in passato, con riferimento alle distorte rappresentazioni delle crociate, del Risorgimento, dei nativi americani (fatti passare per crudeli assassini in tanti libri e film prima che si rendesse evidente il loro feroce sterminio da parte dei coloni partiti alla conquista del West), delle guerre mondiali. A conclusione di questo articolo aggiungiamo un altro tassello, cercando di far meglio emergere i talebani di casa nostra e anche quel pizzico di talebanismo più diffuso di quanto si pensi in larghi strati della popolazione. Iniziamo col guardare i monumenti che popolano le nostre piazze e a meglio approfondire cosa essi realmente esprimano, al di là delle rappresentazioni imposte dalla storiografia ufficiale: Garibaldi “eroe dei due mondi”, Vittorio Emanuele II “re galantuomo”, Cialdini, La Marmora, Bava Beccaris, La Farina e tanti altri protagonisti della nostra storia, presenti anche nelle piazze e nelle strade di città dove hanno compiuto efferati e inutili massacri di inermi cittadini. Guardiamoli da un’altra prospettiva, cercando di andare oltre le apparenze.


Vittorio Emanuele I è noto come re “tenacissimo”, ma in realtà era solo uno zuccone, come ci ricorda Lorenzo del Boca nel prezioso saggio “Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere” (Piemme editore, 2017): «poca intelligenza, niente cultura e scarsa personalità», caratteristiche non certo ideali per un monarca, che ovviamente non potevano certo suggerirgli le azioni più consone da adottare in momenti delicati. Esauritosi il ciclone napoleonico, durante il quale si era comodamente rifugiato in Sardegna, che a Napoleone non interessava in virtù del radicale sottosviluppo, ritornò in pompa magna a Torino, “parrucche incipriate comprese”, sì da indurre Massimo d’Azeglio a scrivere testualmente nel diario: «In quel cocchio, con quella faccia da babbeo ma altrettanto da galantuomo, girò fino al tocco dopo la mezzanotte, passo passo per le vie della città, fra gli “evviva” della folla, distribuendo sorrisi a dritta e a manca». È superfluo ribadirlo, ma ribadiamolo lo stesso: la folla plaudente era la stessa che cantava la Marsigliese all’arrivo dei francesi. Riconquistato il potere, invece di trarre vantaggio dall’epopea napoleonica, che qualcosa di buono aveva lasciato, spostò subito le lancette dell’orologio indietro di diciotto anni (agendo alla stregua dei talebani, che le hanno spostate indietro di venti anni), abrogando le nuove leggi e ripristinando le vecchie, con provvedimenti che a leggerli oggi sembrano barzellette d’avanspettacolo: chiuse il valico di Moncenisio perché era stato inaugurato da Napoleone; voleva anche far saltare per la stessa ragione un ponte sul Po, pericolo scongiurato solo perché da un lato sorgeva la villa della regina, che avrebbe potuto subire danni. Coloro che avevano ricevuto onorificenze durante il passato regime se le videro revocate e accusati di collaborazionismo con il nemico (cosa analoga sta accadendo a tanti afgani, oggi, trucidati dai talebani per aver “lavorato” negli ultimi venti anni alle dipendenze degli occidentali). I valdesi e gli ebrei, che con Napoleone avevano goduto di un briciolo di libertà, furono nuovamente ghettizzati e costretti a disfarsi in fretta dei beni immobili, svendendoli, per non vederseli espropriati, cosa che non riuscì a tutti. (I talebani, sunniti, considerano loro nemici i connazionali sciiti, combattendoli e ghettizzandoli, alla pari di tante altre minoranze etniche, ritenute a loro non affini; paradosso del paradosso, i terroristi dell’ISIS, che ai cugini talebani contendono il primato mondiale di ferocia e integralismo, considerano questi ultimi degli “impuri” all’interno della comune corrente sunnita, in quanto di etnia Pashtun e politicamente compromessi con gli USA, dai quali furono aiutati nella guerra contro i russi). Nella “Norma” di Bellini si parlava di “libertà”, parola sconcia e pericolosa, che fu sostituita con “lealtà”. (I talebani sono solo leggermente più drastici, perché loro sognano un mondo nel quale la musica scompaia del tutto: «La musica è proibita nell’islam, ma speriamo di poter persuadere le persone a non fare queste cose, invece di fare pressioni». Così si era espresso il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, a fine agosto, durante l’intervista con l’inviato del New York Times. Nel frattempo, tanto per far capire la consistenza della “pressione”, in caso di fallimento della “persuasione”, i suoi amici avevano provveduto a sparare un colpo in testa al cantante Fawad Andarabi e qualche colpo in più al comico Nazar Mohammad, dopo averlo duramente malmenato). Quanti esempi comparativi di questo tipo potremmo elencare, partendo dalla caduta di Romolo Augustolo ai giorni nostri?


Oggi abbiamo i “no vax”, che incarnano il talibanismo pseudo-scientifico e rappresentano un pericolo pubblico per il rifiuto di vaccinarsi, arrivando addirittura a minacciare di morte gli scienziati che si affannano a ribadire, un giorno sì e l’altro pure, che al momento il vaccino rappresenta l’unica arma efficace contro la pandemia. E anche il mondo “no vax”, accomunato dalla comune fede contraria ai vaccini, è costellato di sette ciascuna delle quali depositaria di proprie verità assolute. Tentare di catalogarle esaustivamente è impresa più ardua del districarsi tra quelle del mondo islamico e pertanto ci limitiamo a parlare solo di Francesca, una bella signora romana, che simbolicamente le rappresenta tutte. Ex grillina, è rimasta fulminata sulla strada di Damasco (pardon, del campidoglio capitolino) da quel tipo pittoresco che capeggia l’armata brancaleone del centro-destra in gara nelle prossime elezioni amministrative, aduso a conquistare i possibili elettori parlando molto bene di un certo Cesare e di un certo Augusto, che tanto hanno fatto per Roma, inducendo migliaia di cittadini a chiedersi reciprocamente che mestiere facciano questi due illustri personaggi e dove reperire gli indirizzi dei loro profili Facebook e Instagram. E fin qui niente di male, ovviamente, perché c’è di peggio sul fronte del trasformismo politico. La bella signora Francesca, però, non solo è una convinta no-vax, ma sostiene che «la pandemia è stata pianificata per decenni, tutto è stato orchestrato con frodi di massa, corruzione globale, censura senza precedenti ed estrema corruzione nei media e nei governi». Ogni teoria, ovviamente, per essere credibile ha bisogno di validi sostegni scientifici e, nel caso in cui denunci azioni nefaste, anche di colpevoli ben individuabili. Ecco, quindi, il carico da dieci. Il piano dei poteri forti sarebbe quello di sterminare la popolazione mondiale perché siamo troppi sul Pianeta; Conte è al servizio del capitalismo finanziario e degli occulti piani del nuovo ordine mondiale; il ministro della Salute Speranza è un ebreo askenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall’élite finanziaria ebraica. La decimazione della popolazione mondiale consentirebbe un più funzionale controllo dei sopravvissuti, grazie al vaccino dotato di microchip e alle funzioni del 5G. Per dovere di cronaca devo precisare che Michetti ha preso le distanze dalla sua candidata, togliendole il simbolo e di fatto ritenendola “incandidabile e ineleggibile”, anche se oramai non è possibile escluderla dalla lista. Gesto senz’altro apprezzabile, ma assimilabile alla classica rondine che non fa primavera: come lei, e in tutti i campi, ce ne sono davvero troppi. CONCLUSIONI Che cosa fare, quindi, in un mondo che non può fare a meno né dell’oppio dei popoli né dei tiranni che di esso si servono? Né più né meno quello che abbiamo sempre fatto: recitare la nostra parte, quale che essa sia. La commedia umana andrà avanti così ancora a lungo, perché per ora non c’è speranza di vedere spuntare all’orizzonte un cavallo bianco cavalcato da un novello Alessandro Magno. Il nodo di Gordio, quindi, resterà intrecciato e in tanti continueranno a farsi male tentando di scioglierlo nel modo sbagliato, mentre noi occidentali ne pagheremo le conseguenze, ma senza arrabbiarci più di tanto. Del resto le vere cose importanti sono le vacanze e la movida. Tutto il resto è noia.


DROGHE: A VOLTE RITORNANO

“A VOLTE RITORNANO” è un celebre film horror tratto da una raccolta di racconti di Stephen King. Parla di delinquenti morti che, a distanza di anni, ritornano nelle vesti di zombi seminando il terrore tra inermi cittadini. A VOLTE RITORNANO, pertanto, è un titolo azzeccato per parlare delle insulse proposte di chi vorrebbe legalizzare le droghe, che di tanto in tanto affiorano nella cronaca quotidiana, terrorizzando la componente sana della società. Questa volta è Beppe Grillo che ha smosso le acque, lanciando l’ennesima proposta referendaria per depenalizzare la cannabis e aprire la strada alla legalizzazione. Sono trascorsi solo pochi anni, ma sembra davvero lontana la stagione felice che, grazie alle gesta di un manipolo di cavalieri della tavola rotonda, ha fatto emergere il tanto marcio prodotto da intere generazioni di fetentoni al potere. Peccato che i novelli cavalieri, compreso il loro Re Artù, non hanno impiegato molto tempo a comprendere, una volta assisi su comode poltrone, che era molto più conveniente togliersi di dosso la pesante armatura e trasformarsi in scudieri proprio di quei fetentoni che avevano fieramente combattuto. Che cosa replicare, quindi, al guitto nazionale e ai tanti sostenitori di erbe puzzolenti e polverine bianche? A loro nulla, perché a certi soggetti non vale la pena conferire dignità interlocutoria, soprattutto su materie così delicate, e la risposta più opportuna è un silenzioso disprezzo. Agli altri, invece, soprattutto ai giovani, ricordiamo con forza che l’unica droga valida di cui devono nutrirsi si chiama “cultura”. Non si facciano abbagliare, quindi, dai falsi miti di una società allo sbando e dalle chiacchiere dei mistificatori interessati. Non esistono droghe leggere, come hanno ben dimostrato tanti illustri scienziati e fior di studiosi, tra i quali figura il più grande psicoterapeuta italiano, 𝐂𝐥𝐚𝐮𝐝𝐢𝐨 𝐑𝐢𝐬𝐞́, autore di saggi che sono vera medicina per lo spirito, tra i quali spicca quello dedicato proprio alla cannabis, la cui lettura dovrebbe essere imposta nelle scuole: Claudio Risé, Cannabis – Come perdere la testa e a volte la vita, Edizioni San Paolo, 2007. Siccome non è lecito sperare che la scuola possa assolvere a un siffatto nobile proposito (è più facile trovare docenti sostenitori della liberalizzazione, tra l’altro) ciascun lettore di questo articolo farebbe cosa buona e giusta se ne acquistasse almeno due copie: una per sé e una seconda da donare a qualche giovane. Sofocle sosteneva che l’opera umana più bella è di essere utile al prossimo. Se il prossimo è composto da giovani che sbandano soprattutto per gli errori commessi da noi adulti, incapaci di lasciare in eredità un mondo decente, aiutarli a uscire dal tunnel, prima ancora che un’opera bella, si configura come un preciso dovere, equivalente a un grosso debito da onorare a ogni costo.



L’OCCIDENTE NON È L’INFERNO INCIPIT «Restate fermi, restate fermi…Figli di Gondor, di Rohan, fratelli miei! Vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore. Ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ma non è questo il giorno! Ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno! Quest’oggi combattiamo… Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella Terra vi invito a resistere! Uomini dell’OVEST!» (Discorso di Aragorn prima della battaglia all’esterno del nero cancello) PROLOGO Basta sfogliare i numeri arretrati di CONFINI per reperire decine di articoli, forse centinaia, nei quali le dinamiche del mondo occidentale sono state scandagliate con perizia da manuale, mettendone in luce soprattutto le tante distonie. Opera altamente meritoria, ovviamente, perché fare i conti con la propria storia, abiurando ogni forma di mistificazione autocelebrativa, è segno di maturità e profonda onestà intellettuale. Non si è mai mancato, inoltre, nel cesellare gli errori, le nefandezze, gli imbrogli, la pochezza e l’ipocrisia dei governanti, i grossolani limiti delle masse aduse a prendere lucciole per lanterne, il continuo decadimento della classe politica, la pericolosa ascesa di poteri forti con propensioni criminali, la degenerazione di sistemi economici già malati all’origine verso derive ancora più devastanti, di proporre delle soluzioni ai tanti problemi, per lo più espresse secondo una weltanschauung retaggio della sensibilità culturale dei vari autori, talvolta non scevre di carature utopiche, ma non per questo meno valide di altre apparentemente più realistiche. Numerosi anche gli articoli dedicati al confronto tra Occidente e Oriente e alle problematiche del cosiddetto “Terzo Mondo”, anch’essi sviluppati in un’ottica molto seria e accurata. Il forte gap di civiltà che affligge il mondo islamico è stato sempre bilanciato con le responsabilità degli occidentali, colpevoli di voler esportare la democrazia con le armi, con i risultati che ben conosciamo. Lo stesso dicasi per il continente africano, per il quale non si è mai mancato di portare alla luce le tante e gravi problematiche interne, bilanciandole con una dominazione coloniale fonte di innumerevoli guasti. Le problematiche che affliggono i singoli Paesi sono state accuratamente scandagliate, dando per ovvi motivi molto spazio all’Italia, la cui storia, dalla fondazione di Roma ai giorni nostri, subisce continue rivisitazioni, soprattutto per smantellare le tante mistificazioni evincibili in una storiografia che, in massima parte, risponde ad esigenze politiche e non culturali. Tutto lecito. Tutto ben fatto. La voglia di far emergere precipuamente il male che affligge il mondo, però, ha fatto sì che dell’Occidente trasparisse una visione sostanzialmente deprimente, caduca, fallimentare, tra l’altro non adeguatamente bilanciata con analisi di pari peso riservate al resto del Pianeta, le cui componenti non sono certo giardini incantati e in alcune zone, addirittura, non sono dissimili da ciò che molto eloquentemente traspare nella stupenda trilogia tolkeniana, cui si fa riferimento nell’incipit. Un po’ di sano equilibrio, pertanto, ogni tanto non guasta.


I CONFINI DELL’OCCIDENTE Quando parliamo di Occidente, di cosa parliamo? Il nostro pianeta ha un emisfero settentrionale e uno meridionale, non un polo orientale e uno occidentale. Sul piano geografico l’Europa è ad oriente del continente americano, a sua volta ad oriente di Russia e Cina. La distinzione tra Occidente ed Oriente, pertanto, è meramente convenzionale e serve solo a stabilire dei confini geografici che, come giustamente osserva Carl Schmitt, per quanto concerne la contrapposizione, sono avulsi dal «tracciato storico, morale, culturale ed economico dell’odierno Oriente e dell’odierno Occidente»1. Ciò che vale per definire sotto un profilo storico e culturale le differenziazioni tra Oriente e Occidente vale anche, con pari intensità, a definire le differenziazioni tra le aree interne dei due mondi. Relativamente all’Occidente propriamente detto abbiamo un primo confronto tra Europa e America; i confronti interni tra i Paesi dei due continenti; i confronti tra le aree geografiche dei singoli Paesi, fino ai localismi più esasperati, che portano a sensibili differenziazioni anche nelle aree più ristrette. Di questi processi analitici, siano essi quelli macroscopici (il “male americano” rapportato all’Europa, senza perdere di vista quello che ha condizionato il resto del mondo), siano essi quelli progressivamente sempre più microscopici (dalle conflittualità regionali e municipali fino al Palio di Siena, tanto per essere chiari), per le ragioni sopra esposte (pregressa ampia trattazione) è inutile ribadirne le peculiarità. L’OCCIDENTE NON È L’INFERNO. L’espressione è forte, ma serve a “scuotere” da quel torpore che induce spesso Francis Fukuyama (al netto delle catastrofiche elucubrazioni concettuali foriere, soprattutto per i superstiziosi, di complessi riti apotropaici) a ritenere la civiltà occidentale alle prese con un inarrestabile processo di declino. Il Novecento, secondo lui, ci avrebbe resi tutti pessimisti, cosa che, tutto sommato, in parte è vera, anche se non è mai proficuo lasciarsi sopraffare dal pessimismo e dall’ottimismo, predisposizioni psicologiche che, se non adeguatamente supportate da un valido substrato culturale, come meglio vedremo in seguito, possono far perdere di vista la reale essenza delle varie fenomenologie sociali. Non a caso Bernanos, senz’altro forzando un po’ la mano com’era suo solito, sosteneva che «gli ottimisti sono degli imbecilli felici; i pessimisti sono degli imbecilli tristi». Il “tramonto dell’Occidente” è stato descritto in tutte le salse possibili e immaginabili sin da quando la Grande Guerra sconvolse l’umanità. La nefasta prognosi storica di Spengler, seguita da centinaia di studi che ne amplificano la portata in funzione di ciò che la storia mette nel piatto decennio dopo decennio, culmina, almeno per il momento, con la visione catastrofica di Alain Finkielkraut, per il quale l’Occidente oramai è definitivamente perduto e la nostra civiltà è destinata all’estinzione. Le radici ebraiche lo inducono a conferire la colpa principale dell’estinzione alla crescente irruenza islamica; i solidi studi filosofici presso la prestigiosa École normale supérieure di Parigi, fucina di talenti adusi a collezionare premi Nobel e continui riconoscimenti internazionali, lo portano ad individuare anche altri aspetti complementari, tra i quali, ovviamente, non possono mancare i flussi migratori, il rimpiazzo demografico, il progressivo decadimento culturale, tutti temi cari anche


ai paladini di un “Occidente” che è esistito solo nei loro sogni e forse nemmeno in quelli. Sia detto per inciso, a scanso di equivoci, che la stragrande maggioranza di quei testi risulta di fondamentale importanza per comprendere le dinamiche di “un mondo” comunque in dissoluzione e quindi nessuno si sogni di metterli in discussione. Andrebbero solo bilanciati con saggi di pari peso in grado di dimostrare che, nel “mondo in dissoluzione”, la “speranza” alberga in Occidente, o almeno in una parte di essa, valorizzando in modo più efficace e “coraggioso” quelle differenze con Paesi il cui livello di (in)civiltà fa rabbrividire. Il concetto di “speranza” ci riporta automaticamente nel campo dell’ottimismo e del pessimismo, perché di essi costituisce una variabile dipendente, sia quando la si perda sia quando la si coltivi. In Italia, purtroppo, è pochissimo conosciuto uno studioso inglese, Oliver Bennett, autore di pregevoli saggi sull’argomento, dei quali solo uno, almeno fino ad oggi, risulta disponibile in italiano: Pessimismo culturale, edito dall’editore il Mulino nel 2003. Ad esso ha fatto seguito un importante articolo del 2011 sulle “culture dell’ottimismo”, pubblicato nella rivista Cultural Sociology e disponibile solo in inglese. Lo studioso ha esaminato la crescita del pessimismo negli ultimi anni del ventesimo secolo, caratterizzandolo come fenomeno culturale con radici antiche, che si perpetua senza perdere la connotazione lamentosa, oggi prerogativa esclusiva degli intellettuali europei e americani. Ovviamente, siccome è più facile azzeccare un sei al superenalotto che imbattersi in analisi equilibrate, anche Bennett cade nella trappola dello “sbilanciamento”, producendosi, insieme con osservazioni sicuramente “illuminanti”, in quegli eccessi apologetici del mondo occidentale che tendono a cancellare senza riguardo la visione decadente di chi lo veda sull’orlo del baratro. L’articolo del 2011, invece, pone in evidenza l’importanza dell’ottimismo come strumento che “aiuta” a fronteggiare la complessità della vita, soprattutto nelle tortuose e complesse dinamiche occidentali. Dopo aver affrontato la tematica della speranza in rapporto all’ottimismo, in un secondo articolo sempre del 2011, ha utilizzato il materiale delle sue ricerche per scrivere il saggio “The institutional promotion of Hope”, dall’autore di questo articolo tradotto in italiano nel 2015, senza peraltro riuscire a reperire uno straccio di editore disposto a pubblicarlo. La lettura di questo saggio, invece, che spazia dalla psicologia sociale alla propagazione istituzionale dell’ottimismo, è molto utile per contrastare proprio quel malsano e deprimente pessimismo intellettuale, che fiacca gli individui rendendoli inattivi e incapaci di reagire alle avversità, troppo spesso accettate come fenomeno ineludibile della vita. Gli individui che “coltivano” la speranza non sono solo dei sognatori, ma il seme dal quale germoglierà quel nuovo ordine mondiale sul cui avvento è “necessario” credere, più che in “qualsiasi altra cosa”. “Siamo ancora qui”, quindi, e almeno per il momento possiamo relegare nella fantasia letteraria e nella finzione cinematografica l’ora dei lupi e degli scudi frantumati, che sanciranno il definitivo crollo del mondo occidentale. Siamo ancora qui e ci resteremo a lungo, con i nostri tanti difetti, certo, ma anche con quei pregi che ci consentono di guardare il resto del mondo da una posizione privilegiata, non importa se in continuo sgretolamento. La “speranza”, infatti, c’induce a pensare che lo sgretolamento si fermerà se impareremo a considerare l’Occidente come un frutto con buccia rude e polpa progressivamente più gustosa verso il centro. La


“polpa” dell’Occidente si chiama “Europa”: liberandoci della buccia rude e degli strati amari, tutto sarà più dolce. Che l’Europa, poi, debba trovare la strada maestra dell’unione politica, lo abbiamo ribadito veramente come se fosse un mantra. Continueremo a farlo, tuttavia, perché per questo concetto non esiste la prescrizione ma solo la vittoria in un processo finale che porta un nome magico: “STATI UNITI d’EUROPA”. NOTE 1) Ernst Jünger – car Schmitt, “Il nodo di Gordio”, il Mulino, 1987.


IL BLA BLA BLA DEGLI SCIACALLI INCIPIT 1 Risultati elettorali di “Forza Nuova” dalla fondazione alle ultime elezioni europee. Elezioni politiche (Percentuali e voti alla Camera e Senato). 2001: 0,04 (13.6229); 0,12 (39.545); 2006 (nella lista Alternativa Sociale): 0,67 (255.354); 0,63 (214.526); 2008: 0,30 (108.837); 0,26 (85.630); 2013: 0,26 (90.047); 0,26 (81.578); 2018 (nella lista Italia agli italiani, con Movimento Sociale Fiamma Tricolore): 0,39 (126.543; 0,50 (149.907) Elezioni Europee. 2004: 1,23 (399.073) con la lista Alternativa sociale, che consentì a Fiore di diventare europarlamentare nel 2008 a causa delle dimissioni di Alessandra Mussolini); 2009: 0,47 (146.619); 2014 (lista non ammessa); 2019: 0,15 (40.781). Chi parla di pericolo fascista in Italia o è un cretino o è in mala fede. E ovviamente non mancano i cretini in mala fede. INCIPIT 2 A proposito dei milioni di persone che si stanno sgolando per chiedere lo scioglimento di quei quattro gatti di Foza Nuova: 928 North Randolph Street, Arlington, Virginia, U.S. Questo è l’indirizzo della SEDE LEGALE DEL PARTITO NAZISTA negli USA: nessuno li prende in considerazione per le loro farneticazioni, senza però nemmeno “sognarsi” di impedire loro di pronunciarle. Se alle farneticazioni dovessero seguire atti concreti contrari alla legge, si interverrebbe nel rispetto di ciò che le leggi prevedono per i singoli reati. Tutto qui, senza bla bla bla. PROLOGO A scanso di equivoci ribadisco, sia pure sinteticamente, concetti triti e ritriti in decine di articoli, di volta in volta arricchiti con fatti contingenti che li rendevano più sostanziosi e inconfutabili: il cosiddetto centro-destra, i cui esponenti ed elettori utilizzano impropriamente il termine destra, è un’armata brancaleone che si avvicina molto a quanto di peggio abbia espresso la politica italiana dalla caduta di Romolo Augustolo ai giorni nostri; i profondi cambiamenti nei “costumi”, scaturiti dalla indubbia capacità di un uomo come Berlusconi nel condizionare le masse, hanno fatto perdere di vista i valori essenziali che dovrebbero costituire il patrimonio comune di ogni essere umano a vantaggio di mode destrutturanti, non facilmente sradicabili soprattutto in ambito giovanile. Non esiste nessuno che, potendo degnamente definirsi a pieno titolo di destra, si riconosca nell’attuale centro-destra. Queste persone, tantissime, alimentano quel fronte dell’astensionismo che oramai ha raggiunto il 50% degli aventi diritto al voto e purtroppo si appresta a superarlo a causa del continuo decadimento della classe politica, in qualsivoglia schieramento. Sgombrato il campo, quindi, da ogni possibile strumentalizzazione, cerchiamo di inquadrare nella giusta ottica le vicende alla ribalta della cronaca in questo periodo. INCHIESTA FANPAGE ASSALTO ALLA BASTIGLIA CGIL E ALTRE DISTRAZIONI DI MASSA Sta facendo molto scalpore l’inchiesta di Fanpage sulla galassia neofascista nel nostro Paese, che si prefigge – sono parole del direttore della testata – di dimostrarne non tanto l’esistenza e la consistenza, cosa sempre utile ed opportuna se


fatta con onestà intellettuale e senza fini reconditi, quanto il tentativo di incunearsi proprio nei partiti di centro-destra con intenti che vanno be oltre la diffusa pratica di procurarsi finanziamenti illeciti. Diciamolo a chiare lettere per l’ennesima volta: nell’Italia delle tante incertezze una delle poche cose certe è l’assoluta impossibilità che il nostalgismo nazifascista costituisca un reale pericolo, sia sotto il profilo “quantitativo” sia sotto quello “qualitativo”. I soggetti che compongono la composita galassia nera, siano essi le teste rasate dei gruppuscoli extraparlamentari o i buffi esponenti dei partiti, se posti davanti a un microfono (come spesso avvenuto), fanno emergere dopo un paio di domande l’inconsistenza culturale, etica, morale e tutte le altre distonie esistenziali di cui sono depositari. Le scempiaggini profferite sconclusionatamente sulla pandemia non meritano nemmeno di essere prese in considerazione; per gli atti di razzismo, di antisemitismo, di violazione delle norme costituzionali e per qualsiasi altro crimine commesso, basta perseguirli “seriamente”, processandoli e condannandoli nel rispetto delle leggi vigenti. Cerchiamo di essere seri, quindi. Siamo un Paese di circa sessanta milioni di persone e non è proprio possibile preoccuparsi di due o trecentomila giovinastri che, generalmente, dopo aver giocato a fare i rivoluzionari dai quindici ai 25-30 anni, prendono altre strade, a volte più o meno normali, a volte nella malavita, ma comunque lontane mille miglia da quei furori giovanili, magari rimembrati esclusivamente in goliardiche serate enogastronomiche, tanto per dare un senso illusorio a un’esistenza quasi sempre grama. Per quanto concerne quel pugno di ultrasettantenni che, in virtù di evidenti limiti culturali, si rifugiano in un patetico nostalgismo, i cui prodromi risalgono per lo più a quando il fascismo era già nella fase finale o nei primi anni post bellici, decenza e buon senso impongono di lasciarli serenamente alle loro illusioni. L’inchiesta di Fanpage, pertanto, con tanto di ribalta televisiva nel programma “Piazzapulita” e ampio risalto mediatico addirittura oltre i confini nazionali, perde di consistenza proprio in virtù dell’attenzione riservatale, spropositata e non di poco rispetto alla reale consistenza dei fatti narrati. Nella puntata di “Piazzapulita” del 7 ottobre, per esempio, sia il conduttore Formigli sia gli ospiti hanno effettuato una vera e propria opera di “distrazione di massa” dell’opinione pubblica dai veri problemi, che scaturiscono da chi il potere effettivamente gestisca e non da coloro che lo bramano sognando trame impossibili. Non a caso Sallusti, replicando alla dura ed esasperata gogna tributata a Giorgia Meloni, ha chiesto perché mai Bersani, primo ospite della serata, non fosse stato invitato a ripudiare pubblicamente il comunismo, ovviamente da considerare “male assoluto” quanto meno alla pari del nazismo e del fascismo. Apriti cielo! Per poco Formigli e i suoi ospiti sinistrorsi non lo linciavano! «Ma come si fa a chiedere a uno che viene da un partito che si chiama PCI di ripudiare il comunismo», hanno esclamato in coro, come se l’osservazione fosse una baggianata! Una donna nata nel 1977, invece, che ha iniziato a fare politica addirittura quasi mezzo secolo dopo la fine del fascismo, deve essere triturata come se fosse la reale responsabile delle devianze mentali di un po’ di fuori di testa che, almeno in Italia, non fanno paura a nessuno: è appena il caso di ricordare, infatti, che in Germania la galassia nazifascista è sicuramente preoccupante e il principale partito di riferimento ha ottenuto quasi CINQUE milioni di voti alle


recenti elezioni federali, conquistando ben 83 seggi! Quello della Meloni, invece, è un partito che risulta attrattivo precipuamente per quella media-borghesia italiana, capace di resistere alle sirene sinistrorse ma non sufficientemente preparata per creare una vera destra moderna, sociale, europeista, raffinata e culturalmente solida. Da qui a considerare il partito e chi lo voti un pericolo per la democrazia, tuttavia, ce ne corre! L’unico rimprovero che si può fare a Giorgia Meloni, caso mai, è di appropriazione indebita del termine destra, che proprio non si addice a chiunque trovi plausibile inciuciare con Berlusconi, che di una vera destra rappresenta l’esatta antitesi. SMETTIAMO DI GUARDARE IL DITO MENTRE SI INDICA LA LUNA Non vi sono rischi di rigurgiti fascisti in Italia e, per fortuna, anche coloro che ancora si definiscono comunisti non fanno più paura a nessuno. Sono ben altre, infatti, le persone pericolose. Sempre nella puntata di “Piazzapulita” andata in onda il 7 ottobre, era presente lo spocchioso Carlo Calenda, la cui nervosa saccenteria è emersa più che in altre circostanze grazie all’elegante lezione di “buone maniere” impartitagli da Jasmine Cristallo, portavoce delle “Sardine”, che lo ha fatto letteralmente uscire dai gangheri, soprattutto quando lo ha invitato a scendere dalla “torre eburnea”. È stato davvero utile ascoltare le sue masturbazioni mentali che, sommate alle dichiarazioni rese negli ultimi mesi e alla storia personale di trasformista aduso ad accusare gli altri di trasformismo, ne caratterizzano in modo inequivocabile la struttura mentale. Il personaggio è l’emblema di una stratificazione sociale priva di connotazioni ideali o, per meglio dire, espressione di quel liberalismo assimilabile alle polveri sottili, che fanno danni immani ma risultano invisibili ad occhio nudo e possono essere esaminate solo dagli esperti. Sul fecciume liberale esiste una corposa saggistica e qui mi fa piacere ricordare sia quanto scritto nel numero 81 di CONFINI, uscito nel mese di dicembre 2019, sia la stupenda conferenza tenuta da Alain de Benoist a Pietrasanta nell’ottobre 2019, il cui resoconto è reperibile proprio nel numero di Confini citato. Su come debba configurarsi una “vera destra”, poi, questo magazine offre continui spunti di riflessione, l’ultimo dei quali pubblicato nel numero 97, uscito lo scorso mese di luglio. UN LEZIONE DI DIRITTO AI MISTIFICATORI I mistificatori, che tanto spazio stanno trovando nei media in questo periodo, sono stati ben “cucinati” nel numero 92 di CONFINI, uscito nel mese di febbraio 2021. Con loro, però, non bisogna mai abbassare la guardia perché sono tanti e non perdono occasione per confondere le idee. L’occasione, questa volta, è stata offerta dai facinorosi che hanno assaltato la sede della CGIL, dopo aver insulsamente invaso le strade di Roma per rendere edotto il mondo intero della confusione mentale che alberga nelle loro teste: possono protestare contro il Green Pass e contro il vaccino proprio perché in maggioranza ci siamo vaccinati, consentendo un repentino regresso della pandemia (ben lungi dall’essere stata sconfitta, sia ben chiaro) e l’abolizione delle rigide restrizioni imposte dal lockdown. Ricordiamo quindi, ai tanti mistificatori adusi a parlare a vanvera, che chi entra in proprietà altrui, devastandole, va individuato, processato e condannato nel rispetto delle leggi vigenti e non esistono argomenti che possano giustificare le loro azioni o imputarle ad altri: la responsabilità penale è personale. Per quanto


concerne il fascismo, in Italia ne è vietata la “ricostituzione” e quindi può essere sciolto qualsiasi partito che si prefigga di riproporlo secondo le note modalità del regime mussoliniano. Nessuno nega, ovviamente, le simpatie fasciste dei militanti di Forza Nuova e di altri gruppuscoli della galassia nera, ma per legittimare lo scioglimento non basta accusarli delle loro “simpatie” e delle strampalate visioni del mondo che traspaiono dai loro organi informativi: bisogna “attendere” che si trasformino in una vera minaccia per le Istituzioni, con azioni tese a sostituirsi ad esse, proprio come fece Mussolini prima con la marcia su Roma e poi con lo scioglimento del Parlamento. Che si possa realizzare qualcosa del genere, però, con i numeri effettivi che caratterizzano l’intera galassia nera, i contrasti interni che ne minano l’unità d’intenti e la capacità di difesa assicurata dalle forze dell’ordine e dall’esercito, più che difficile appare semplicemente impossibile. Risulta patetico, oltre che ridicolo, quindi, il solo pensarlo. Chiunque, pertanto, dovesse promuovere o attuare un provvedimento che cozza con i principi basilari della nostra Costituzione, oltre che con il buon senso, a pieno titolo potrebbe essere egli stesso definito fascista. E sarebbe anche il caso di aggiungere: “della peggiore specie”.



EGOLOGIA INCIPIT «Noi siamo epicurei. Ci accontentiamo di poco, purché questo poco ci venga dato il più presto possibile. D’altra parte perché sacrificarsi per i posteri? Che cosa hanno fatto questi posteri per noi? Allora dico, insieme al poeta Orazio: “[Carpe diem] Quam minimum credula postero”». (Luciano De Crescenzo, film “Così parlò Bellavista”, 1984. Nel film la frase di Orazio fu pronunciata senza le due parole iniziali). «All’interno della Cop ci sono solo politici e persone al potere che fingono di prendere sul serio il nostro futuro, fingono di prendere sul serio la presenza delle persone colpite già dalla crisi climatica. Ma il cambiamento non arriverà da lì dentro. Quella non è leadership. Questa è leadership!» «La Cop è un fallimento. Siamo stanchi di promesse vuote, di impegni di lungo periodo e non vincolanti. Siamo stanchi di bla bla bla. Non possono pensare di risolvere il problema utilizzando gli stessi metodi che ci hanno portato fin qui. I leader là dentro sanno esattamente quali valori stanno sacrificando per mandare avanti il loro “business as usual”». (Greta Thunberg, Glasgow, 1° e 5 novembre 2021: discorsi ai manifestanti del “FridaysForFuture”, riuniti al Festival Park e in George Square durante i lavori della Cop26). «Il Pianeta sta morendo e i popoli del mondo non hanno ancora compreso, in massima parte, il baratro nel quale stanno precipitando. Se non dovessimo correre ai ripari in fretta, nel giro di venti-trenta anni potrebbe essere davvero troppo tardi per intervenire. […] È la nostra stessa sopravvivenza a essere in pericolo e pertanto non posso che chiudere il mio intervento con il celebre motto di José Ortega y Gasset: “Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest'ultimo non preservo me stesso”». (Lino Lavorgna, Napoli, Hotel Terminus, 24 novembre 1977. Seminario di studi ecologici sul tema: “Ambiente e urbanistica a dimensione d’uomo”). «Vorrei solo dire a tutti i delegati che mi scuso per come si è svolto questo processo. Sono profondamente dispiaciuto. Capisco anche la profonda delusione…» (Alok Sharma, presidente della Cop26, Glasgow, 13 novembre 2021: discorso conclusivo dei lavori. Scuro in volto, dopo la parola “delusione” continua con tono poco convinto e con la voce rotta dall’emozione «…ma penso che, come avete notato, sia anche fondamentale proteggere questo pacchetto», per poi fermarsi per alcuni secondi, cercando di contenere le lacrime e la commozione, sostenuto dagli applausi dei presenti. «La Cop26 si è conclusa. Ecco un breve riassunto: Bla, bla, bla» (Greta Thunberg, Glasgow, 13 novembre 2021). PROLOGO Sul confronto tra stoici ed epicurei, negli ultimi ventitré secoli, sono stati consumati non fiumi ma “oceani” d’inchiostro e il riferimento è molto opportuno per introdurre adeguatamente un argomento tanto angosciante. È maledettamente complicato, infatti (per non dire impossibile), descrivere in modo accettabile le idee e i concetti che, concepiti in primis per indurre il genere umano a vivere nel rispetto di princìpi eticamente solidi, si sarebbero rivelati utilissimi, con crescente intensità


dopo l’ultima guerra mondiale, per preservarlo da un rapido declino. Partire dal passato, come sempre, aiuta molto a comprendere il presente. Già nella genesi del confronto la partita si mette subito male per gli stoici, intenti a raggiungere livelli di sapienza che consentano di vivere una vita moralmente retta, guidata dalla ragione e fondata su concetti filosofici mutuati dalla logica, dalla fisica e dall’etica. Ai più viene il mal di testa solo nel leggere le finalità. Molto più allettante e di facile approccio il proposito di Epicuro, teso esclusivamente al raggiungimento della felicità attraverso la ricerca del piacere, in un “combinato disposto” che si identifica con il bene supremo e come unico criterio che deve orientare le scelte dell’uomo. Che bellezza! E non finisce qui! Per Epicuro e i suoi gaudenti seguaci il piacere costituisce il fondamento dell’etica e risiede nell’assenza del dolore (aponìa) e nell’assenza del turbamento (atarassìa). Ora, per carità, con questo non si vuol dire che le masse contemporanee agiscano avendo ben chiare nella mente le succitate teorie, adeguandosi a quelle più affini al proprio essere, ma semplicemente che un “certo modo di vivere, di pensare e di agire senza darsi troppi affanni” si è prepotentemente imposto in tutti gli strati sociali, ivi compresi quelli incarnati da soggetti che, per formazione culturale, status e intelligenza, sarebbero in grado di effettuare scelte razionali. Retaggio ancestrale, livello culturale e condizionamento ambientale, invece, determinano quei processi mentali magistralmente descritti da colui che, più di ogni altro, ha compreso la natura umana: «L'epicureo si sceglie la situazione, le persone o anche gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente irritabile, rinunzia al resto, vale a dire al più, perché sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante. Al contrario, lo stoico si esercita a trangugiare pietre e vermi, schegge di vetro e scorpioni e a essere insensibile alla nausea: il suo stomaco deve infine diventare indifferente a tutto quello che vi travasa il caso dell'esistenza [...] Per uomini con i quali il destino ama improvvisare, per quei tali che vivono in tempi di violenza e che dipendono da uomini bruschi e volubili, lo stoicismo può essere assai consigliabile. Ma chi prevede in qualche modo che il destino gli permette di tessere un lungo filo, fa bene a sistemarsi al modo epicureo; tutti gli uomini dediti al lavoro intellettuale hanno finora fatto così! Sarebbe infatti, per essi, la perdita peggiore tra tutte, rimetterci la loro delicata sensibilità e avere in regalo la dura pelle degli stoici con gli aculei del riccio». (F. Nietzsche, Idilli di Messina, La gaia scienza, Scelta di frammenti postumi 18811882, Mondadori, 1965). QUEL CANCRO CHIAMATO EGOISMO Dall’epicureismo (in massima parte subliminale) all’egoismo (in massima parte consapevole) il passo è breve e anche in questo caso ci troviamo al cospetto di una grossa difficoltà esplicativa a causa delle troppe “distonie” scaturite dalle sempre più veloci trasformazioni sociali susseguitesi negli ultimi due secoli: crescente affermazione dell’edonismo; trionfo del capitalismo e delle sue forme degenerative rappresentate in primis dalla finanza, soprattutto quella “sporca”; massiccia e nefasta divinizzazione del liberalismo con annessi ramoscelli irti di aculei velenosi; condizionamenti negativi delle masse facilmente praticabili grazie alla potenza dei moderni sistemi comunicativi e alla fragilità della stragrande maggioranza dei percettori, privi dell’unico antidoto in grado di contrastarli: una profonda cultura che


consenta di non restare abbagliati dai falsi e pericolosi miti continuamente propugnati da abili sirene tentatrici. La società contemporanea favorisce imperiosamente lo sviluppo dell’egoismo, al di là delle “apparenze” che ben traspaiono dai programmi televisivi, dai media e dai politici sempre pronti, a parole, a celebrare il primato della solidarietà e la bellezza dell’altruismo. La spinta verso la competitività esasperata nei posti di lavoro, a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo senza riguardo per i mezzi utilizzati, a concepire la ricchezza materiale il bene supremo e tutte le altre nefandezze tipiche dei modelli liberal-capitalisti, qui omesse per amor di sintesi, costituiscono il principale substrato dell’egoismo. Dagli USA, soprattutto, arriva materiale corrosivo devastante per capacità penetrativa: film e fiction di facile presa, ben diretti e ben interpretati, che favoriscono in modo subliminale il desiderio di bere alcolici, utilizzare armi da fuoco e assumere psicofarmaci come se fossero caramelle. É facile intuire quali lobby ne favoriscano la produzione, con lauti finanziamenti. La fiction “House of Cards”, per esempio, insegna a servirsi della politica e a gestire il potere con cinica protervia unicamente per favorire i propri interessi. Nona manca l’utilizzo improprio di scienze fortemente condizionanti, quali la psicologia e la psicanalisi, manipolate con fini subdoli, lontani da qualsivoglia presupposto curativo. Proprio in tema di “egoismo e altruismo”, alcuni psicanalisti, afferenti a ben determinate scuole di pensiero, tendono a invertire le caratteristiche comunemente accettate: con ragionamenti astrusi, ma ben confezionati, inducono a considerare l’egoista un individuo che “vive per gli altri” perché di loro si interessa continuamente, non importa se per fregarli sul lavoro, derubarli, schernirli, denigrarli, batterli con mezzi illeciti; di converso, una persona che operi per il bene comune, che dia un senso alla propria vita, che trasformi in opportunità i propri limiti, siccome appaga dei sentimenti “interiori”, non importa se fortemente positivi secondo l’accezione comunemente condivisa, per questi strambi soggetti (ma fino a che punto “strambi”, verrebbe da chiedersi) sarebbe un “egoista”. Un secondo e purtroppo crescente substrato è rappresentato dalle “conversioni all’egoismo”: individui culturalmente predisposti ad operare per il bene comune, a un certo punto, stanchi di batoste e inutili battaglie, si rendono conto che le troppe persone aduse a tirarsi la zappa sui piedi, restando sorde ai pressanti e “chiari” appelli, non meritano il loro sacrificio e pertanto cambiano “fronte operativo”, asservendosi a uno dei tanti poteri nefasti che contribuiscono al declino del Pianeta, rendendo però agevole e confortevole la vita di chi li assecondi. («I posteri si arrangiassero pure…» Bellavista docet). Quanto sia pericoloso il trionfo dell’egoismo lo vediamo ogni giorno, anche se con una rassegnazione che rende il problema ancora più grave. Ne abbiamo già parlato in un articolo pubblicato lo scorso mese di maggio (“Per aspera ad astra”), ma repetita juvant soprattutto perché l’argomento riguarda i giovani, divisi da una forte linea di demarcazione tra quelli “modello Greta Thunberg”, per fortuna tanti, e i prigionieri di un vuoto esistenziale spaventoso, purtroppo più numerosi. In un servizio televisivo si ponevano in evidenza proprio i terribili limiti culturali di tanti giovani intrisi di malsano egoismo e tesi solo a soddisfare la voglia di divertirsi, fregandosene della pandemia e dei rischi cui esponevano i familiari. Una ragazza, rispondendo alle domande della cronista, dichiarò candidamente di essere contraria alle restrizioni per il contenimento del virus perché «tanto a morire sono solo gli anziani», non lei o suo padre cinquantenne, cesellando il suo pensiero,


poi, con una frase ancora più scioccante: «Arrivati a questo punto, dico la verità… io tengo molto ai miei nonni, ma se devono morire, morissero». Quando si raggiungono tali livelli di aberrazione è evidente che affiorano radici del male molto profonde, non distrutte a tempo debito e progressivamente sempre più difficili da sradicare. IL BLA BLA BLA DEGLI EGOLOGISTI Pur senza disconoscere la difficoltà oggettiva di pianificare un efficace intervento formativo sui giovani disastrati, sinistrati e privi delle più elementari basi educative per vivere degnamente in una società civile, “dobbiamo” pensare che ciò sia possibile, almeno per alcuni di loro. Non bisogna farsi illusioni, invece, sulla possibilità redentiva dei potenti della Terra: sono irrecuperabili perché così ammalati di autoreferenzialità e delirio di onnipotenza da non riuscire nemmeno a rendersi conto del male che fanno, ritenendo che non esistano alternative al loro pensiero e che siano gli altri a sbagliare. Gli esempi che confermano tale assunto sono davvero tanti e qui ne citiamo uno recente, registrato in occasione dell’evento “Youth4Climate”, tenutosi a Milano dal 28 al 30 settembre: il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, che già in passato ha dimostrato più volte di essere la persona sbagliata al posto sbagliato1, è stato filmato mentre si esprimeva con toni denigratori nei confronti di Greta Thunberg in un conciliabolo con un collaboratore che, ridendo compiaciuto, gli teneva bordone. Non resta che attrezzarsi, quindi, per un nuovo ordine mondiale. Se la parte sana del Pianeta non sarà in grado di cimentarsi in questa impresa, il declino continuerà, irreversibile, fino al vero punto di non ritorno. Sono trascorsi solo pochi giorni dal termine della Cop26, annuale Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che da ventisei anni consente ai potenti della Terra di concedersi dodici/tredici giorni di lussuose vacanze in luoghi stupendi, sonnecchiando e scorreggiando durante i noiosi e inutili interventi dei vari oratori, come accaduto a Biden prima con la pennichella provvidenzialmente interrotta da un solerte collaboratore corso a svegliarlo e poi con un peto “lungo e rumoroso” che, stando a quando riferiscono i bene informati, ha mandato letteralmente in tilt Camilla, moglie del principe Carlo2. I media asserviti ai poteri forti contribuiscono con grande impegno all’inganno globale, riportando con toni enfatici le promesse e i propositi annualmente riproposti nella certezza che, finita la festa, torneranno nell’oblio. “L’apocalisse climatica è vicina. Sarà dura, ma possiamo farcela” tuonava a caratteri cubitali “Il Corriere della Sera” il 2 novembre scorso, conferendo ampio risalto a Draghi, per il quale «è fondamentale ascoltare la voce dei nostri giovani, che hanno elaborato proposte e individuato priorità su questioni cruciali, come le modalità per favorire una ripresa sostenibile e noi dobbiamo rendere orgogliosi i giovani del nostro lavoro». Magari sarebbe stato il caso di fargli notare che “alcuni giovani” hanno elaborato le proposte di cui parla mezzo secolo fa, ribadendole come un mantra anno dopo anno, dopo averle rielaborate in funzione dei continui disastri generati da chi è bravo solo nel bla bla bla (Vedere “Confini”, nr. 89, ottobre 2020, pag. 4; nr. 72, marzo 2019, pag. 5; nr.55, giugno 2017, pag. 9). Ora quei “giovani” sono vecchi, nonni o addirittura bisnonni e guardano con commossa


simpatia a quella ragazzina svedese cui hanno lasciato il testimone dell’impegno ambientalista, sperando che riesca nell’impresa che loro non sono riusciti a compiere, senza illudersi più di tanto, ma anche senza rinunciare a sperare che le cose possano davvero cambiare. Marx non è certo un esempio da prendere in considerazione, ma un suo auspicio, mutuato in un contesto diverso da quello per il quale sia stato concepito, può essere “adottato” anche da chi, legittimamente, lo collochi tra i pensatori che hanno prodotto immani disastri: «Le condizioni disperate della società in cui vivo mi riempiono di speranza». Al momento, tuttavia, possiamo solo registrare l’ennesimo fallimento di un convegno dedicato all’ambiente, per giunta snobbato da Cina (il Paese che più di ogni altro inquina il mondo) e Russia, presenti solo con alcuni delegati, avendo preferito Xi Jinping e Vladimir Putin lanciare, con la loro assenza, un forte segnale di disimpegno. Paesi “Egologicamente avanzati”, quindi, ai quali si aggiunge l’India, che ha vanificato ogni sforzo per dare un senso al convegno imponendo, all’ultimo momento, di sostituire nel testo da approvare la frase che contemplava l’impegno per “l’eliminazione graduale del carbone” con “la riduzione graduale dell’energia a carbone”. Greta Thunberg ha liquidato la Cop 26 con il breve Tweet trascritto nell’incipit e va anche detto che, a onta delle molteplici dichiarazioni sulla necessità di ascoltare «la potente chiamata dei giovani» (parole del presidente Alok Sharma, stretto collaboratore di Boris Johnson, che a sua volta ha fatto addirittura riferimento al bla bla bla da lei pronunciato in più occasioni) è stata tenuta ben lontana dalle stanze del convegno e costretta a parlare ai fan giunti da tutto il mondo nelle piazze di una città segnata dal freddo gelido. Il bla bla bla dei potenti è risultato stomachevole, proprio perché sfacciatamente ripetitivo e solo l’intervento di Obama ha offerto spunti apprezzabili, almeno sotto il profilo “esortativo”. Nei precedenti articoli tematici abbiamo ampiamente tracciato un percorso che parte addirittura dal 1972, anno in cui fu pubblicato il famoso e inascoltato rapporto del MIT. Sarebbe bastato, tuttavia, che almeno dal 1997, dopo ben VENTICINQUE ANNI di continue denunce da parte degli ambientalisti, si fosse dato seguito a quanto previsto dal protocollo di Kioto, che imponeva ai Paesi industrializzati di ridurre le emissioni di gas serra (biossido di carbonio, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo) almeno del 5% rispetto a quelle registrate nel 1990 - anno scelto come riferimento comparativo - nel periodo 2008-2012. Per conferire piena efficacia operativa al trattato, però, si sarebbero dovute verificare due condizioni: ratifica da parte di almeno cinquantacinque nazioni tra le centottanta che lo avevano sottoscritto; le nazioni in regola con la ratifica, nell’insieme, avrebbero dovuto produrre almeno il 55% delle emissioni inquinanti. (Della serie: facciamo finta di voler fare delle cose, ma creiamo i presupposti affinché non si facciano). Il target del 55% di emissioni fu raggiunto solo nel 2004, con l’adesione della Russia. Tutto risolto quindi? Non scherziamo. Nonostante ben 191 Paesi avessero provveduto a ratificare il trattato (ma non gli Stati Uniti, il che la dice lunga sulla volontà di intervenire seriamente sull’ambiente), ben presto iniziarono le marce indietro e le defezioni, favorite dalle spinte difficilmente ostacolabili delle multinazionali, che dell’ambiente se ne fregano altamente e sono pronte ad avvelenare sempre più il Pianeta pur di incrementare i profitti. Già nel 2011 Stati Uniti, Canada, Giappone e Russia dichiararono che non avrebbero sottoscritto alcun nuovo accordo vincolante, sancendo, di fatto, la fine del


protocollo. I Paesi emergenti, guidati da Cina e India, si defilarono con modi spicci, facendo capire che loro avevano solo voglia di “crescere” e la stessa Unione Europea, che nonostante i suoi acciacchi comunque in materia di clima dettava la linea a livello mondiale, incominciò a vacillare. E da allora è andata sempre peggio, tra crescenti bla bla bla e continue prese in giro nelle periodiche e divertenti (per i partecipanti) riunioni annuali. Nel 2015, a Parigi, ben 196 Stati sottoscrivono un nuovo accordo per ridurre l’emissione dei gas serra. Si tende a contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2°C, rafforzare la capacità dei Paesi di affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici e sostenerli nei loro sforzi. “L'accordo di Parigi è un ponte tra le politiche odierne e la neutralità climatica entro la fine del secolo” fu la frase che suggellò l’accordo tra i governanti del mondo, dopo aver ottemperato ai gradevoli impegni mondani e gastronomici in quella che è generalmente considerata la città più bella del mondo. Manco a dirlo, anche gli accordi di Parigi si trasformarono ben presto in una bolla di sapone e nel 2017 l’allora presidente USA, Donald Trump, mandò tutti affettuosamente a quel paese asserendo, testualmente: «Sono stato eletto dai cittadini di Pittsburgh, non da Parigi». Nessuna volontà di contribuire alla riduzione dei consumi, in buona sostanza, perché costerebbe troppo in termini di “sacrifici” per un popolo nel cui dizionario la parola “sacrificio” evidentemente non esiste e il concetto di “equilibrio mondiale per vivere tutti meglio e preservare il Pianeta da un futuro catastrofico” è troppo difficile da comprendere. Nel 2018 i grandi si riuniscono a Katowice in Polonia, per cercare di dare “ossigeno” agli accordi di Parigi. Troppo bella la città, però, con i suoi tanti edifici in stile Art Nouveau da visitare, per impegnarsi seriamente a salvare il mondo. La sintesi dei lavori è espressa in modo inequivocabile dagli osservatori di “Greenpeace” e del “Wwf”: “Mancanza di risposte scioccante. Non puoi incontrarti e dire che non puoi fare di più”; “Mancanza di comprensione dell’attuale crisi”. A dicembre 2019 si replica a Madrid (sempre posti belli, ci mancherebbe!) con risultati che si possono sintetizzare trascrivendo uno dei tanti titoli ripresi dai media: “Il mondo ostaggio dei grandi inquinatori: la Cop25 è fallita”. In effetti, tra un pranzo di gala e l’altro, degustazioni di prelibatezze uniche al mondo quali il prosciutto Pata Negra, visite guidate in quella serie infinita di musei e bellezze architettoniche cittadine, shopping nell’iconica “Gran Via”, la conferenza si chiude senza accordi. Tutto viene rinviato a quella successiva, prendendo consapevolezza della grande distanza che separa governi, società civile e scienziati. Spostata al 2021 a causa della pandemia, come si sia conclusa, lo abbiamo visto. LE SCELTE DIFFICILI MA INELUDIBILI Il continuo bla bla bla , è inutile girarci intorno, scaturisce proprio dall’incapacità di dire cosa effettivamente si renda necessario per salvare il Pianeta. Parlare, infatti, “di riduzione dei gas serra” senza spiegare da cosa nascano e senza denunciare la responsabilità oggettiva degli esseri umani, soprattutto di quelli “egoisti”, menefreghisti e insensibili alle conseguenze del proprio agire, non ha alcun senso. Cerchiamo di capirci bene, pertanto, perché se davvero vogliamo salvare il Pianeta non dobbiamo aspettarci nulla da chi lo governa ma agire in prima persona, con scelte difficili, ma ineludibili. La lista che segue è dolorosa, ma l’alternativa lo


è molto di più. Anima e coraggio, quindi, senza tergiversazioni. Dipende tutto da noi perché nessuno ci imporrà di agire come effettivamente si dovrebbe agire. 1) Carni rosse. Da abolire in toto. Non solo fanno male alla salute (creando quindi anche problemi di natura sanitaria: costi per cure, intasamenti ospedalieri, problemi familiari a causa di malattie evitabili, etc.) ma da sole costituiscono l’elemento più attivo nella produzione di gas serra. Per una singola porzione di carne occorrono 12 kg di gas! Le proporzioni, anche approssimative, sono alla portata di tutti. 2) Olio di palma. Impedirne la produzione evitando di acquistare i prodotti che lo contengano. (“Tutti”, anche quello “famoso” i cui produttori dichiarano di utilizzare olio di palma “sostenibile”… non so se ci siamo intesi). A prescindere dai danni che produce all’organismo (non date retta a chi sostenga il contrario; parlatene con medici “veramente amici” e di cui vi fidate al 100%), la produzione impatta in modo sensibile sull’ambiente. I Paesi maggiormente interessati sono l’Indonesia e la Malesia e, in forma minore, Cameroon, Liberia e Tanzania. Per incrementare le piantagioni di palma sono state distrutte intere foreste torbiere, ricche di biodiversità e di animali in via di estinzione quali l’orango, la tigre e il rinoceronte di Sumatra. I dati ufficiali del Governo indonesiano parlano di 24milioni di ettari di foreste distrutte tra il 1990 e il 2015 e 130mila ettari dal 2015 al 2018, il 40% dei quali in Papua, una delle regioni più ricche di biodiversità. Le foreste vengono bruciate senza scrupoli, provocando immani disastri alle popolazioni locali. I piccoli agricoltori subiscono continue vessazioni e minacce affinché cedano i propri terreni al governo e alle grandi multinazionali, a prezzi stracciati e senza alcuna tutela grazie all’alto livello di corruzione che pervade il sistema. Numerose le vittime provocate dagli incendi indiscriminati (100mila solo nel 2015) che, ovviamente, rilasciano enormi quantità di gas serra. Se nessuno comprasse i prodotti che contengano olio di palma, il problema si risolverebbe alla fonte. 3) Trasporti. Vanno completamente “riconsiderati”. Il 25% delle emissioni causate dall’uomo proviene da essi. In primis vanno evitati in assoluto i viaggi in aereo a breve raggio, che da soli sono responsabili del 5% del riscaldamento globale. In pratica, per recarsi da Milano a Roma, a Napoli, a Palermo, a Parigi, a Berlino, “occorre” preferire il treno, possibilmente quello “veloce”, che ha un impatto irrisorio sull’inquinamento globale. Sempre in tema di trasporti, poi, va ridotto anche l’utilizzo degli aerei sulle tratte lunghe. Un tempo si viaggiava per mare. Oggi si sta attuando un processo di riconversione nell’alimentazione delle grandi navi con “gas naturale liquefatto”, miscela di idrocarburi a bassissimo impatto ambientale e innocua per la salute delle persone. Occorre spingere sempre più affinché si ripristino i viaggi via mare, con navi alimentate a GNL, anche per le trasferte transoceaniche, in modo da ridurre al minimo indispensabile l’utilizzo degli aerei. Cerchiamo di renderci conto, inoltre, che una delle grandi distonie del mondo contemporaneo, anch’essa fonte di immani disastri, è quella sorta di frenesia che induce tutti a correre all’impazzata, spesso a vuoto e in modo così malsano da perdere più tempo rispetto a chi faccia le cose con calma, rischiando anche di incappare in errori a volte davvero gravi e pericolosi per sé stessi e per


gli altri. Impariamo a “rallentare e a prestare maggiore cura a ciò che facciamo”: ne guadagneremo sotto tutti i punti di vista. Va da sé, sempre in tema di trasporti, che è semplicemente pazzesco l’attuale utilizzo delle automobili, causa primaria del tanto tempo sprecato nel traffico, con conseguente incremento dell’inquinamento ambientale. Impariamo a ridurre sensibilmente l’utilizzo delle automobili, soprattutto in città, e liberiamoci di quelle alimentate a gasolio e a benzina, dando impulso alle auto elettriche, promuovendo anche utili iniziative per indurre le case produttrici a non speculare sul prezzo di vendita. 4) Vestiti. Anche l’abbigliamento va riconsiderato alla luce della drammatica realtà che stiamo vivendo. La produzione negli ultimi dieci anni ha determinato il 10% delle emissioni causate dall’uomo. Guardiamo nei nostri armadi: ci renderemo facilmente conto che acquistiamo molti più capi di quelli necessari a soddisfare le effettive esigenze quotidiane. Gentili signore, soprattutto voi, datevi una regolata. 5) Profumi. Un profumo è una miscela odorosa disciolta in alcool o in olio. Gli ingredienti generalmente indicati come “miscela” (limone, bergamotto, geranio, rosa, gelsomino, menta, arancio, muschio, ambra, zibetto, cuoio, caramello, patchouli, etc.) che già per loro natura non costano come l’oro, sono prodotti sinteticamente e quindi hanno un costo effettivo ancora meno consistente. L’alto prezzo di vendita, quindi, scaturisce da fattori che nulla hanno a vedere con la corretta equazione che dovrebbe stabilire gli utili nella catena che va dal produttore al venditore, ma a logiche di natura “psicologica”, che consentono un colossale surplus di utile. Ai prodotti (lo stesso dicasi per i telefonini) viene imposto un prezzo di vendita per le varie fasce sociali e così esistono i profumi da 20, 50, 80, 120, 200 euro e anche 12mila euro per una mistura di sandalo indiano (un litro costa meno di quaranta euro e può servire per centinaia di bottigline), gelsomino arabo (una bella piantina costa 1,50 euro), olio di ylang ylang (per la versione femminile; mezzo litro una trentina di euro) e olio di noce moscata (versione maschile, sui venticinque euro a litro quello più prelibato) prodotto dal designer inglese Clive Christian. Avendolo regalato alla Regina d’Inghilterra, però, si può divertire (e che bel divertimento!) a stabilire il prezzo stratosferico invece di quello “onesto”, che non dovrebbe superare i 15-20 euro (e forse sono anche troppi). “Niente è più necessario del superfluo”, diceva Oscar Wilde, e grazie “al superfluo” spregiudicati imprenditori guadagnano centinaia di migliaia di euro al giorno, consentendosi in tal modo di pagare sei milioni di euro alle star che fungono da testimonial per uno spot di trenta secondi e molti altri milioni per la pubblicità televisiva e cartacea. Follia? Allo stato puro, ma non certo da parte loro! Ognuno, ovviamente, è libero di spendere i propri soldi come meglio ritenga opportuno e anche di farsene fregare tanti acquistando prodotti con maggiorazioni superiori al 90% rispetto al prezzo corretto. Quanto ciò sia “opportuno”, però, in una società così malata e dal forte gap economico, è tutto un altro discorso. Ora, considerato che i profumi (di basso medio e alto costo) contribuiscono sensibilmente all’inquinamento atmosferico, che ne pensate di farne a meno? Le star di Hollywood sono già ricche e non hanno bisogno di tanti soldi facili. Se poi il profumo lo utilizzate per sedurre qualcuno che vi piace, sostituitelo con un libro di poesie, imparatane alcune e declamatele al


momento giusto. Diventerete più “interessanti e seducenti” e contribuirete a salvare il Pianeta. 6) Aria condizionata e riscaldamento. Altro fondamentale punto dolente, del quale abbiamo parlato più volte, che ci vede tutti colpevoli, anche se non nella stessa misura. Una drastica riduzione dei consumi è più necessaria dell’acqua che disseta il viandante nel deserto e soprattutto va denunciato con forte determinazione quanto avviene negli USA, dove lo spreco di energia per un utilizzo improprio e ingiustificato dei condizionatori raggiunge livelli intollerabili. Per quanto concerne il nostro Paese occorre spingere chi ci governa a ripristinare in modo equo la buona idea dell’ecobonus 110%, rimuovendo gli ostacoli e le limitazioni recentemente varati. Avere case ecosostenibili consentirà di ridurre sensibilmente il consumo di gas e di energia elettrica e di aumentare la disponibilità economica delle famiglie. Un bel passo avanti verso quel futuro che oggi appare terribilmente compromesso dal dilagante “egoismo ed egologismo”. Tante altre cose si potrebbero aggiungere, ma sarebbe già grasso che cola se riuscissimo a dare corpo anche a uno solo dei punti succitati. Non dimentichiamoci mai, infatti, che l’egoismo dei potenti è figlio e non padre di quello dei popoli. NOTE 1. In pochi mesi è riuscito a dire: «La transizione ecologica sarà un bagno di sangue, provocherà disoccupati, farà saltare in aria l’Italia; l’auto elettrica non è conveniente; il nucleare va preso in considerazione; gli ecologisti sono radical chic e sono peggio della catastrofe climatica». Ha poi praticato una cosciente disinformazione sul rincaro delle bollette elettriche, imputandolo al costo della CO2 pagato dalle aziende che producono energia e ricaricano sul prezzo del gas, mentre in realtà gli aumenti sono dovuti al taglio delle forniture di gas naturale da parte della Russia tramite il gasdotto Nord Stream 2, avversato dagli USA e dalla Nato. Il suo compito sarebbe stato quello di spiegare bene quanto sia necessario lo sviluppo delle energie rinnovabili per evitare che l’Italia resti vittima dei conflitti geopolitici legati al controllo degli idrocarburi, in modo da contenere e addirittura abbassare il costo della bolletta, non certo quello di sparare sulla struttura da lui diretta! Immaginate l’AD di qualsiasi azienda che inviti pubblicamente a non comprare i suoi prodotti perché difettosi e più costosi rispetto a quelli della concorrenza? Sarebbe cacciato a calci nel sedere in un minuto. 2. A scanso di equivoci è opportuno rimarcare il tono scherzoso con il quale viene riportata la notizia di cronaca, senza alcun intento offensivo nei confronti di Biden. I colpi di sonno nei convegni non sono certo rari, a prescindere dall’importanza degli argomenti trattati, soprattutto tra le persone anziane. Chi scrive non ha difficoltà nel confessare di esserne rimasto vittima in fascia di età che non consentiva nemmeno l’alibi doverosamente riconosciuto a Biden, soprattutto in ambito professionale, durante corsi di formazione tenuti da docenti “improvvisati” che ne sapevano meno degli allievi. In quanto alle scorreggie, tutti sanno che è pericoloso trattenerle e quindi, se proprio non si riesca ad allontanarsi quando se ne percepiscano le avvisaglie, ben vengano anche in presenza di re, regine, principesse e imperatori. La loro incidenza sulla proliferazione dei gas serra, tra l’altro, è davvero insignificante.


LEGGE ELETTORALE: BASTA PORCATE INCIPIT Teorema: “Un sistema elettorale può definirsi perfetto quando consenta una razionale rappresentanza di tutte le forze politiche in competizione, purché raggiungano il quorum minimo necessario all’assegnazione di almeno un seggio”. Teoria: “La natura umana, anche nelle democrazie più solide, non consente la stesura di un sistema elettorale perfetto”. Dogma: “Qualsiasi sistema elettorale può essere valido per garantire una sana governabilità sol che i cittadini fossero in grado di scegliere la migliore compagine, tra quelle in competizione, tributandole un massiccio consenso”. PROLOGO I partiti stanno scaldando i motori per le prossime elezioni politiche, ammesso e non concesso che siano rimasti spenti anche per poco tempo, cercando di conciliare i propri interessi con il fastidioso inghippo di dover prima eleggere il Presidente della Repubblica. Che guaio! Quanti pensieri! Quanti problemi da risolvere per evitare le elezioni anticipate dopo quelle che sanciranno il nuovo inquilino del Quirinale, ovviamente la cosa più giusta e logica da fare e proprio per questo scartata a priori. Rimandando ad altra occasione un po’ di barzellette sulle fantasiose elucubrazioni che riguardano il balletto quirinalizio (con i nomi che la stampa sta portando quotidianamente alla ribalta non si può che utilizzare il termine “barzelletta”), concentriamoci su uno degli sport preferiti dei politici nostrani: inventarsi leggi elettorali uniche al mondo, a pieno titolo da loro stessi definite “porcate”. DI COSA PARLIAMO Con la riforma costituzionale varata nel 2020 il prossimo Parlamento sarà composto da 400 deputati e 200 senatori. Un discreto taglio rispetto ai precedenti 945 parlamentari, che “preoccupa non poco” chi non intenda assolutamente privare il Paese del suo prezioso contributo legislativo tra i banchi di Montecitorio e Palazzo Madama. Ciascun partito, pertanto, è seriamente impegnato nello studio di una legge elettorale che risulti funzionale agli “interessi dei cittadini”, ovvero che consenta ai propri candidati, ovviamente ritenuti i migliori e selezionati con i “rigidi” criteri sempre adottati, di conquistare quanti più seggi possibili. Il lodevole intento, però, determina un grande caos propositivo in quanto non riscontra unanimi consensi in quella che dovrebbe essere una semplice scelta di regole condivise. La legge attuale è una sorta di miscela che contiene un po’ di maggioritario e tanto proporzionale, in modo da tutelare al meglio i capi dei partiti che possono “scegliersi” i parlamentari fedelissimi inserendoli nei listini bloccati. Il risultato è l’ingovernabilità che abbiamo da anni sotto gli occhi. E vabbè. Pazienza. Sono cose che capitano. I capi dei partiti sostengono che fanno del loro meglio per assicurare al Paese le risorse migliori, ma chi non commette errori nella vita? E purtroppo, “talvolta”, per mera distrazione, può capitare che lestofanti, mafiosi, delinquenti incalliti, soggetti che non potrebbero nemmeno svolgere il ruolo di vice amministratori di condominio, siano scambiati per accademici titolati, scienziati, giuristi, pienamente degni di occupare i dorati palazzi del potere, insieme con tante


zoccole con i tacchi a spillo che, grazie ai meriti conquistati nelle stanze degli alberghi anziché in quelle universitarie (sempre stanze sono e non il caso di farla tanto lunga), vengono promosse al rango di degne rappresentanti dell’universo femminile, fungendo da esempio e guida per altre donne più giovani, pronte a rimpiazzarle. LE IPOTESI IN CAMPO PER LA NUOVA LEGGE ELETTORALE È davvero più facile azzeccare un terno al lotto che prevedere la prossima legge elettorale. I partiti cambiano idea un giorno sì e l’altro pure, facendo aggio sulle proprie decisioni i risultati delle elezioni amministrative, i sondaggi, gli assestamenti interni e una miriade di altri fattori vagliati - per carità - nel sacro interesse dei cittadini! L’annosa diatriba tra maggioritario e proporzionale è sempre alla ribalta ed è del tutto inutile, pertanto, riportare le “posizioni” attuali di ciascun protagonista della vita politica, che potrebbero cambiare nel lasso di tempo che separa la stesura di questo articolo dalla sua pubblicazione. Esempio: i pentastellati, favorevoli al proporzionale, oggi parlano di maggioritario sulla scorta dell’alleanza col PD, ma domani potrebbero di nuovo ritornare “lì dove porta il cuore”; i tre capi del cosiddetto centrodestra sono contrari al proporzionale, ma tra le loro truppe sono tanti coloro che lo preferiscono; nel Pd si fronteggiano i sostenitori del proporzionale, guidati da Zingaretti e quelli del maggioritario, che fanno capo a Letta. Chi prevarrà? Davvero difficile dirlo. Molto meglio, quindi, allargare i confini speculativi spiegando alcuni concetti fondamentali che sicuramente saranno ignorati dai partiti, ma almeno serviranno agli elettori per “capire” l’imbroglio che viene orchestrato alle loro spalle e sulle loro teste. ELEGGERE UN PARLAMENTO VALIDO È POSSIBILE. DIPENDE DA NOI. Alle elezioni si presentano i seguenti partiti: “A” (programma anacronistico, velleitario, non in grado di interpretare le esigenze di una società in veloce evoluzione; guidato da un politico la cui inconsistenza è più chiara dell’acqua sorgiva e composto da candidati raccogliticci, senza arte né parte; “B-C-D-E-F” uniti in una coalizione solo per accaparrarsi il potere nonostante diverse vedute su temi importanti, abbondanza di candidati pluripregiudicati e condannati, incolti, inetti e adusi a servire fedelmente i loro capi, qualsiasi cosa facciano o dicano, anche infame; “G” (la crema della società civile; programma eccellente che concilia in modo ottimale la migliore tradizione con le esigenze contingenti e guarda intelligentemente al futuro; candidati degni della massima fiducia, stima e considerazione per la brillante storia personale, alta cultura e comprovate capacità professionali). A prescindere dalla legge elettorale, il partito “G” ottiene il 51% dei consensi. Meglio ancora: il 60%. Problema governabilità risolto grazie al buon senso dei cittadini. Se i cittadini, però, non mostrano buon senso e fanno vincere altri, di chi è la colpa? Il primo tassello da incasellare nella complessa analisi del rapporto tra sistemi elettorali e governabilità, pertanto, trova spunto in una sequela di saggi e antichi proverbi: “Faber est suae quisque fortunae”; “Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”. È altrettanto vero, però, che il partito “G” potrebbe non essere presente nella competizione elettorale e questo, purtroppo, costituirebbe un


problema non risolvibile, obbligando gli elettori a scegliere il male minore o ad astenersi. Ciò premesso, siccome un Parlamento ogni tanto occorre eleggerlo e i cittadini hanno l’arduo compito di provvedere a questa importante funzione, cerchiamo di individuare la migliore soluzione possibile, essendo ben chiaro, toni scherzosi a parte, che i partiti sono intenti solo a studiare complesse alchimie per tutelare sé stessi. FARE I CONTI CON LA REALTÀ A PRESCINDERE DAI PRINCÌPI I “nobili princìpi” sono belli, ma servono a poco se nessuno sia disposto a onorarli. Garantire la rappresentanza di tutti i cittadini, con un sistema proporzionale che assicuri anche ai piccoli partiti di eleggere dei rappresentanti, sulla carta appare una cosa sensata. Ma se la realtà dimostra che i “piccoli partiti” non siano altro che “piccole lobby” prive di qualsivoglia presupposto etico, aduse ad approfittare del proprio ruolo per meri interessi di soggetti degni di dimorare in palazzi dedicati a San Vittore e alla Regina dei cieli, non certo in quelli del potere, è meglio creare i presupposti per metterli fuori gioco senza tante storie. Un altro problema da non sottovalutare è quello rappresentato dalle cosiddette quote rosa o quote di genere, che dir si voglia, che costituiscono una grande baggianata. La formazione di una lista, infatti, dovrebbe essere ancorata precipuamente a un presupposto di qualità: tra le risorse disponibili a candidarsi si scelgono le migliori. L’attuale legge prevede che nei collegi uninominali nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60%. Il rapporto è valido anche per i collegi plurinominali, nei quali si prevede che la quota massima 60-40 sia rispettata a livello regionale. Cosa accadrebbe, quindi, se, per mera casualità, in un determinato collegio, un partito potesse contare su risorse eccellenti dello stesso sesso in numero superiore a quello candidabile? Dovrebbe sacrificarne alcuni in ossequio a un principio che, lungi dal rappresentare una evoluzione della democrazia, ne mina fortemente le fondamenta. Ancora: immaginiamo che un gruppo di donne volesse dar vita al partito “Donne al potere per un mondo migliore”. Per quanto bislacca possa apparire l’iniziativa, sarebbe ineccepibile sul piano giuridico. Quelle donne, però, paradossalmente, sarebbero costrette a inserire nelle liste un congruo numero di maschi e quindi contraddire in termini sostanziali il principio basilare del loro programma politico! In un Paese come il nostro, pertanto, l’alternativa più equilibrata per assicurare almeno un minimo di governabilità è il maggioritario “secco” a turno unico. I partiti e le coalizioni sarebbero costretti a scegliere candidati veramente rappresentativi, a meno che non si sentano in grado (e in talune realtà territoriali purtroppo è ancora possibile) di candidare il classico somaro, avendo la certezza di sconfiggere il cavallo di razza grazie al forte potere condizionante su elettori adusi a tenere sempre la schiena curva. Proprio a voler essere magnanini e “comprensivi” nei confronti di coloro che avrebbero un blocco intestinale con il maggioritario secco, si può prendere in considerazione il maggioritario a doppio turno, con ballottaggio tra i due candidati che ottengano le percentuali più alte, nel caso in cui nessuno raggiunga il 50% + 1


dei voti. A prescindere dalla natura della legge, comunque, come già detto, il risultato è sempre nelle mani degli elettori. LA META: REPUBBLICA PRESIDENZIALE Non si tratta di volere l’uomo forte al comando, come artatamente denunciato da chi dà la caccia ai fantasmi per distogliere l’attenzione da coloro che davvero dovrebbero essere “cacciati”. I cittadini vanno responsabilizzati nelle scelte e peggio per loro se si lasciano incantare dagli affabulatori di turno. Oggi vediamo un’Italia devastata dalla malapolitica e inquinata nei suoi gangli vitali da soggetti che della malapolitica sono figli. Una società in profonda evoluzione non può restare in balia di mestatori, delinquentucci e veri criminali, graziati dalla cecità di troppi elettori. I giochi di palazzo che traspaiono sfacciatamente dai media, giorno dopo giorno, rappresentano il segnale inequivocabile del fossato sempre più ampio che separa l’elettorato passivo da quello attivo. Il massiccio astensionismo, del resto, che oramai è praticato da oltre il 50% degli aventi diritto al voto, è la prova più eloquente che il sistema non funziona. Una vera riforma dello Stato, quindi, va presa seriamente in considerazione ben oltre i litigi connessi alle leggi elettorali. Il Capo dello Stato che funga anche da Capo dell’Esecutivo spezzerebbe, in un colpo solo, tutti i giochi sporchi ai quali ci siamo purtroppo abituati con colpevole rassegnazione. E nessuno venga a dire che con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica si corra il rischio di mandare dei fantocci al Quirinale. I fantocci hanno facile gioco nelle elezioni politiche grazie a sistemi elettorali concepiti ad arte per favorirli e poi, una volta in Parlamento, possono senz’altro contribuire alla “proliferazione” di altri fantocci, in qualsivoglia contesto. È lecito ritenere, tuttavia, che il popolo italiano, messo in condizione di scegliere direttamente tra i vari fantocci e qualcuno che possa degnamente assurgere alla guida del Paese, non commetta sciocchezze. Perché se davvero dovesse privilegiare il peggio anche in un contesto di elezione diretta, allora sarebbe davvero meritevole di estinzione e ogni altro discorso non avrebbe senso.



BUIO OLTRE LA SIEPE INCIPIT «Il prossimo futuro si presenta fosco sotto vari profili e la siepe rappresenta il “perimetro di contenimento” nel quale una democrazia sempre più invasiva ci tiene relegati». (Angelo Romano, direttore di “CONFINI”: catenaccio al titolo scelto come tema del mese). «Quando si spengono le luci, accendi la lanterna che brilla nel tuo cuore: illuminerà il cammino e ti consentirà di non smarrirti nel buio». (Giorgio Almirante. Anni Sessanta e Settanta: incitamento spesso utilizzato nei suoi discorsi). «Henry Louis Mencken sosteneva che il tribunale sia un posto dove Gesù Cristo e Giuda Iscariota sarebbero uguali, con scommesse a favore di Giuda. E aveva ragione, perché personaggi come Atticus Finch si trovano solo nei romanzi». (Riccardo Campa, docente di storia delle dottrine politiche, Napoli, 1974: lezione universitaria. Atticus Finch è il protagonista del romanzo di Harper Lee “Uccidere un tordo”, la cui versione italiana ha come titolo “Il buio oltre la siepe” per conferire maggiore peso all’elemento simbolico rappresentato dall’ignoto e dalla paura, fonti primarie di ogni pregiudizio). VERITÀ E PERCEZIONE DELLA VERITÀ Il catenaccio non si presta a equivoci interpretativi, essendo scaturito da una mente lucida, capace di esporre con sintesi estreme argomenti che, per la loro complessità, richiederebbero lunghe trattazioni. Ventisette parole che disegnano una parabola le cui radici affondano nella notte dei tempi, da noi percepita solo flebilmente nella sua veloce corsa verso un indefinito punto di approdo, dove giungerà chissà quando e chissà come, lasciandoci in balia delle nostre angosce e, diciamolo pure con un singulto di onestà che non guasta mai, della crescente incapacità a dare un senso al “presente”. Tremila anni di storia vengono destrutturati e dissacrati da quelle ventisette parole, che sanciscono il fallimento della democrazia come sistema di governo e, soprattutto, il fallimento del genere umano nel creare ottimali condizioni di vita per preservarsi, se è vero, come è vero, che sin dagli albori della civiltà sono state la tirannia e l’ipocrisia a regnare sovrane, dappertutto e quindi non solo lì dove apparivano (e appaiono) evidenti e ben percepibili, anche se le pagine di storia raccontano tutt’altro. Le lanterne di cui parlava Almirante oggi non sono più sufficienti a illuminare il cammino e valgono solo per pochi eletti. Per sconfiggere l’angoscia e illuminare almeno quel piccolo tratto di futuro che consenta di coltivare la speranza, dobbiamo innanzitutto liberarci di quell’opprimente fardello di ipocrisia che ci portiamo sulle spalle da troppo tempo, il cui peso è diventato insostenibile. Di queste cose ne abbiamo parlato più volte e pertanto ci limitiamo a “pennellate rapide” solo per ribadire che tutta la storia umana va riscritta, avendo cura di prestare la massima attenzione affinché non si correggano le mistificazioni volontarie con mistificazioni prodotte in buona fede, ma non per questo meno gravi. Pochi riferimenti, quindi, ma importanti per inquadrare bene il buio che ci affligge nel presente, rendendo fosco il futuro, perché oggi registriamo solo i nodi venuti al pettine dopo secoli di “mancata pulizia”.


Verità e percezione della verità sono cose ben diverse e non vanno confuse. Parimenti non va confuso ciò che è “vero” (sotto le mie dita vi è una tastiera di colore bianco e chiunque entrasse nello studio potrebbe constatare che è “vero”) con la “verità”, concetto che esprime qualcosa di più ampio. Esiste Dio? Per miliardi di persone esiste, sia pure con nomi diversi, e a nessuno sfugge quanto l’accettazione fideistica di un’entità scientificamente non dimostrabile abbia condizionato e continui a condizionare la storia dell’umanità. Limitatamente alla sfera cristiana, tuttavia, anche i fedeli più devoti dovrebbero stentare a credere che Dio possa ridursi al ruolo di un burattinaio, scendendo al livello di un Andreotti qualsiasi, aiutando Costantino contro Massenzio solo perché il primo, anticipando di qualche secolo Enrico di Navarra, abbracciò la nuova religione per meri fini di potere, dopo aver trucidato mezza famiglia pur di preservarlo. Questa è una “percezione della verità” che si avvicina molto “a un dato di fatto oggettivo”, pur non essendo dimostrabile, e può essere validamente proposta come “verità storica”, alla pari di quelle, per loro natura, inconfutabili. Maggiore attenzione, ma non reticenza, occorre prestare per le percezioni che scaturiscano precipuamente dall’abilità deduttiva dello studioso, dall’intelligenza, dalla capacità di inquadrare una determinata vicenda in un contesto che veda ben sistemati anche gli aspetti reconditi e apparentemente insignificanti. Parliamo, per esempio, del modesto giurista Antonio Salandra, una delle tante marionette che Giolitti presumeva di gestire (talvolta sbagliandosi) a suo piacimento. Divenne capo del Governo proprio su indicazione del suo mentore, costretto alle dimissioni a causa delle controversie connesse alla conquista della Libia, pronto a seguirne le direttive in ogni campo. Una volta assiso sulla poltrona del potere, però, Salandra assaporò non solo l’ebbrezza di poter decidere autonomamente qualsiasi cosa, ma anche quella di essersi liberato, in un attimo, dello scomodo ruolo di cagnolino scodinzolante al cospetto di “Palamidone” (passato alla storia come il ministro della malavita) e vedersi a sua volta circondato da tanti cagnolini scodinzolanti, desiderosi di leccargli mani e piedi. Sidney Sonnino non era certo tra costoro, ma generava comunque una piacevolissima sensazione avere come sottoposto un ministro degli Esteri che lo sovrastava per statura politica e culturale, due volte capo di Governo e lunga esperienza ministeriale! Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, pertanto, dopo i primi mesi di titubanza, dettati anche dalle precise indicazioni di Giolitti, che intendeva mantenere l’Italia neutrale, nutrendo già a titolo personale marcate simpatie per i Paesi della Triplice Intesa, col determinante aiuto di Sonnino non esitò a dire “ciaone” a Giolitti e ai propositi di non belligeranza. Sul fronte militare, però, quando oramai era chiaro che l’Italia sarebbe entrata in guerra, sia pure non subito, vi era da risolvere un complesso problema: il comando supremo del Regio Esercito era nelle mani del generale Alberto Pollio, convinto sostenitore della Triplice Alleanza, amico intimo dei vertici militari austriaci e tedeschi (che non mancavano di esternargli l’apprezzamento per l’alto ingegno e gli eccellenti studi militari), marito di un’aristocratica austriaca e in ottimi rapporti con alti dignitari della corte austro-ungarica. Mettiamoci nei panni di Salandra: deve aver passato notti insonni al solo pensiero di vedere un intero esercito guidato da un comandante che tifava per i nemici, tra l’altro incazzati più che mai a causa del “tradimento”. Sostituirlo? Sarebbe stata la cosa più semplice e logica, ma semplicità e logica non sono facilmente coniugabili con la gestione del potere. Il 1° luglio 1914, comunque, Pollio passa a miglior vita dopo


un leggero malore refertato come “imbarazzo gastrico” e curato con un “purgante”, nonostante la parca e leggera alimentazione a base di brodo e trota bollita. “Morte per cause naturali”, si scriverà sui libri di storia. L’autore di questo articolo, invece, nel saggio “Il Piave mormorava”, pubblicato a puntate nel 2018 (dopo aver consultato numerosi documenti sulla cui natura si glissa per amor di sintesi), ha accusato espressamente Salandra di essere il mandante dell’omicidio di Pollio. Nessun giudice potrebbe dargli ragione, ovviamente, ma solo perché le prove addotte non consentono un giudizio di colpevolezza espresso “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ciò che vale in un tribunale, tuttavia, può essere disatteso in campo storiografico, affinché fatti e persone siano inquadrati in una prospettiva quanto più realistica possibile. La verità ha mille volti e soprattutto ci pone un terribile interrogativo: è sempre opportuno renderla evidente o talvolta ragioni particolari consigliano di tacerla? La domanda affligge il dibattito filosofico sin da quando Ponzio Pilato chiese a Gesù cosa fosse la verità, anche se è prevalente la propensione a non celarla: «La natura ama nascondersi e il compito dei sapienti è portare alla luce l’essere», sostiene Heidegger in “Essere e Tempo”. Etimologicamente, però, il termine veritas, proveniente dall’area balcanica, incarna la “fede” concepita nella sua accezione più ampia. Nell’italiano corrente abbiamo “fede nuziale o vera”. La verità, di fatto, è qualcosa che comunque si accetta per conformità a una realtà oggettiva ed è proprio la conformità che ne esclude la valenza assoluta, dando origine a tutte le implicazioni di carattere filosofico. Un esempio eclatante del dilemma succitato è assurto alla ribalta della cronaca proprio in questo periodo pre-natalizio, in quel di Noto. Il vescovo Antonio Staglianò, membro della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, parlando dal pulpito della stupenda basilica del SS. Salvatore, in presenza di un folto pubblico e tantissimi bambini, ha asserito testualmente: «Babbo Natale non esiste e la Coca Cola, ma non solo, ne usa l’immagine per accreditarsi come portatrice di valori sani. Aggiungo che il rosso del vestito che indossa è stato scelto dalla Coca Cola esclusivamente per fini pubblicitari». Apriti cielo! Il vescovo è stato massacrato dai media e dai social con la stessa ferocia che portò al rogo Giordano Bruno. Ragioniamo con calma. Il vescovo è stato linciato per aver detto “una verità” che contrasta con una menzogna convenzionalmente accettata, sia pure per un lasso di tempo limitato: quello che serve a un bambino per diventare abbastanza adulto da rendersi conto che Babbo Natale non esiste. Ha fatto male il vescovo a dire la verità? L’intento era quello di conferire valenza a San Nicola, da cui è stato tratto il personaggio immaginario, affinché i bambini concepissero in modo meno “consumistico” lo scambio dei doni e riflettessero con maggiore consapevolezza sul senso del Natale e delle belle tradizioni che lo accompagnano. Per i suoi superiori ha sbagliato e sono partite le scuse ufficiali. Scuse per aver detto la verità! Attenzione, però: una verità che nasce da un contesto che, a sua volta, non è definibile come tale, dal momento che anche Dio si accetta per “fede” (veritas) e non certo perché qualcuno fosse in grado di dimostrarne l’esistenza (ossia che fosse “vero”). È proprio questo, quindi, il punctum dolens dell’intera vicenda: il vescovo ha sbagliato non tanto perché abbia detto una verità, ma perché ha assunto una decisione che, per la sua importanza, spettava alle più alte sfere della


Chiesa cattolica. Arriverà un giorno in cui la Chiesa farà i conti anche con “Babbo Natale”, così come ne ha fatti tanti, secolo dopo secolo, ma “quel giorno” sarà deciso dal Papa e non da un semplice vescovo, sia pure di alto profilo culturale. Che cosa ci rivelano queste storie? Che l’umanità non è ancora pronta a recepire certi messaggi e le veloci trasformazioni sociali, il progresso tecnologico che si sviluppa molto più velocemente rispetto alla capacità degli uomini di assimilarlo e marciare all’unisono, come avveniva fino alla metà del secolo scorso, mal si conciliano con quel modo di vivere che condiziona l’esistenza umana a partire dai fermenti rivoluzionari che sconvolsero il mondo nel XVIII secolo, dando vita a un diffuso disagio esistenziale e a un senso di inadeguatezza che, a sua volta, è la causa primaria di azioni e reazioni scomposte. La mente umana è alla perenne ricerca di “alibi” per sfuggire alle realtà devastanti, ma non sempre vi riesce e da qui nascono tanto i “suicidi” quanto gli atti violenti nei confronti degli “altri”, ritenuti colpevoli delle proprie sofferenze. Anche a livello culturale la confusione è massiccia: dopo Nietzsche non si è sviluppato un pensiero filosofico che fosse in grado di interpretare compiutamente la veloce mutevolezza della società e gli sconvolgimenti generati dai limiti della natura umana: guerre, pandemie, disastri naturali, non dipendono dal caso ma dalla irresponsabilità delle persone. Oggi, di fatto, coloro che si definiscono filosofi non sono nulla più che degli storici della filosofia, per giunta non tutti di alto livello e particolarmente attenti all’esposizione mediatica, che sicuramente fa aggio sotto il profilo propagandistico ed economico, mettendone in luce, però, i profondi limiti, come meglio vedremo più avanti. Dulcis in fundo (non tanto dolce, a onor del vero, e ne abbiamo parlato più volte) i flussi generazionali che a partire dalla metà del secolo scorso arrivano in età adulta con basi culturali fragili e confuse, quando non del tutto inconsistenti, completano la minestra, rendendola indigeribile. La minestra, poi, diventa velenosa a causa di coloro che perfezionano corsi di studi anche importanti, non supportati, però, da un adeguato corollario che può essere garantito solo dalla lettura di testi fondamentali, come i classici della letteratura, della politica e della filosofia, oggi considerati inutili e anacronistici, privando in tal modo coloro che fossero chiamati a gestire qualsivoglia potere degli elementi più caratterizzanti per esercitarlo dignitosamente: l’altrui esperienza e la sensibilità. Lo abbiamo detto più volte e continuiamo a ripeterlo come esempi emblematici: Platone ci aiuta a vedere le cose da una giusta prospettiva (mito della Caverna); Tolstoj insegna che attaccare la Russia, anche con un esercito dieci volte più potente, è una follia (Guerra e Pace, la cui lettura nessun generale tedesco consigliò a Hitler). La lista, ovviamente, è lunga, ma fermiamoci qui e procediamo con ordine per quanto riguarda il resto. A) LIBERTÉ, EGALITÉ, FRATERNITÉ. Copiamo letteralmente un passo di un libro che non dovrebbe mancare in nessuna casa e andrebbe suggerito soprattutto agli studenti delle scuole medie, in modo da offrire loro un efficace antidoto contro le sciocchezze sciorinate dai docenti di storia (Lorenzo Del Boca, “Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere”, Piemme editore, 2017): «Lasciamo stare la fratellanza, che viene continuamente predicata senza che sia possibile trovarne un barlume da


qualche parte. Resta un’utopia affidata alla sensibilità dei filosofi (ma negli ultimi tempi, come già detto e come meglio vedremo in seguito, anche questo concetto è di per sé stesso utopico. N.d.R.) Quanto alla libertà e all’eguaglianza, sono termini apparentemente complementari ma che in realtà si escludono a vicenda. O l’uno o l’altro. La storia, concretamente, certificò che, se c’è la libertà, sparisce l’eguaglianza; e se si realizza l’eguaglianza se ne va la libertà. L’America ha insistito e insiste sulla libertà come valore primario, ma è difficile non riconoscere che ciò è avvenuto e avviene a prezzo di sperequazioni sociali vistose e talvolta intollerabili. (Si potrebbe tranquillamente omettere “talvolta”, N.d.R.) Interi strati sociali, costretti ad assecondare i feticci del mercato, restano un problema irrisolto». Lo abbiamo scritto più volte e giova ripeterlo: il fallimento dell’Illuminismo come modello di società è un dato di fatto incontrovertibile che stenta ad essere recepito solo per l’incapacità, da parte del mondo occidentale, di accettare “scomode verità” e per la paura che da esse possano scaturire rimedi peggiori del male. Si naviga a vista, pertanto, in un mare sempre più nebbioso, coltivando l’illusione che prima o poi le nebbie si dissolveranno da sole, senza rendersi conto che, invece, diventano sempre più cupe e dense. B) QUATTRO AMICI AL BAR CHE VOLEVANO CAMBIARE IL MONDO È bella la canzone di Gino Paoli, che disegna l’illusione di una generazione, cui fa seguito la disillusione e l’arrivo di altri quattro giovani che iniziano lo stesso percorso: illusione di poter cambiare il mondo e inevitabile futura disillusione. Meno bello vedere altre bande di “quattro amici al bar” che, per formazione ed esperienza di vita, a prescindere dalla loro visione del mondo, dovrebbero mantenere nervi saldi e mente lucida soprattutto in momenti come questi. Soprattutto se si dichiarano filosofi o comunque si sentano in grado di filosofeggiare. Sono davvero tanti e occupano, trasversalmente, tutto il palcoscenico nel quale si recita quella tragicomica commedia che si chiama “Politica”. Quattro di loro, però, hanno conquistato un maggiore diritto di ribalta perché sono usciti di senno più di tanti loro “limitrofi ideologici” e vari colleghi di sponde opposte: Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Freccero, Ugo Mattei, ossia due “filosofi”, un intellettuale visionario che si sente capace di perforare la nebbia che occulta il futuro e un giurista, docente universitario ed editorialista de Il Manifesto nonché collaboratore de Il Fatto Quotidiano. I quattro, autorevoli esponenti della sinistra filosofica e beneficiari di cospicue schiere di fedeli seguaci, hanno dato vita alla “Commissione dubbio e precauzione” tesa a contrastare il “Green-Pass”, considerato alla stregua delle leggi razziali: «Il green-pass separa e definisce in maniera negativa i no-vax come i non ariani per le leggi del ’38. Scivoliamo in una barbare (sic, N.d.R.) senza precedenti nella storia» (Agamben, che considera la pandemia una invenzione, come ha ben specificato in un farneticante libro del quale non è opportuno trascrivere il titolo, nonché in un delirante intervento al Senato, pregno di riferimenti al nazismo e di ostilità nei confronti dei vaccini). I commenti sull’iniziativa dei “quattro” sono superflui perché qui siamo ben oltre la libertà di pensiero e di parola e le loro asserzioni sono esclusiva prerogativa degli psicologi e degli psichiatri, essendo ben evidente che lo “stress temporale” ha prodotto dei guasti che trascendono quelli già gravi derivati dalla comune matrice ideologica marxista-leninista. Il riferimento,


pertanto, è importante solo perché costituisce un elemento rappresentativo di una realtà che investe non “quattro amici al bar” o poche bande di “quattro amici”, ma milioni di persone che, presumendo di poter decidere autonomamente su complesse materie scientifiche, stanno mettendo a rischio la vita di coloro che si affidano serenamente alla scienza, confidando negli sforzi profusi da chi abbia la competenza per combattere la pandemia. È importante, altresì, perché ulteriormente rivelatore di quel fallimento del “razionalismo illuminista” cui facevamo riferimento innanzi, grazie a un evidente paradosso: milioni di no-vax attendono con cieca fiducia i farmaci anti Covid-19. In Danimarca è già stata autorizzata la prescrizione del “Lagervrio”, prodotto dalla casa farmaceutica statunitense Merck, e presto giungerà il “Paxlovid” (che nome meraviglioso!), prodotto dalla Pfizer. Il paradosso che sancisce il trionfo dell’irrazionalità è già stato intuito dai lettori più accorti e da chiunque abbia anche una minima conoscenza in campo farmacologico: i vaccini hanno preservato l’umanità dall’estinzione perché prevengono le malattie; i farmaci – importantissimi, ci mancherebbe – intervengono quando la malattia si sia già sviluppata, spesso curandola in modo radicale e definitivo, altre volte generando qualche problema collaterale. Il proverbio “prevenire è meglio che curare” per i novax non ha senso e l’istinto irrazionale prevale sulla ragione e sul buon senso. Cosa celi questo bislacco processo mentale è stato argomento più volte trattato in questo magazine e sul quale ritorneremo senz’altro.

C) DISARMONIA TRA CULTURA E POTERE “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese”. La frase, che tanti erroneamente attribuiscono a De Gasperi, è stata coniata dal predicatore e teologo statunitense James Freeman Clarke. Cala a pennello per definire la realtà politica attuale, non solo quella italiana, ma di quasi tutti i Paesi del mondo. Non sono gli uomini migliori, i più preparati, i più culturalmente evoluti (e tra questi ultimi quelli non affetti dalla sindrome dell’onnipotenza) a conquistare le leve del potere ma un esercito di mediocri figuri, capaci, però, sia di creare piena “empatia” con frotte di elettori sia di orientarne tanti altri sulle proprie sponde, facendo leva precipuamente sulla loro natura eticamente di bassa qualità, protesa a privilegiare il “particulare” di guicciardiniana memoria a discapito “dell’universale”, che vide nel suo antagonista Machiavelli uno dei principali interpreti, sconfitto però dalla pratica dimostrazione dei fatti, se è vero come è vero che il suo pensiero ancorato all’antica massima “historia magistra vitae” è stato dissacrato da Antonio Gramsci quando fu costretto a cesellarla – ahinoi – con l’aggiunta «… ma ha pochi allievi». I guasti del mondo, senza tanti giri di parole, dipendono esclusivamente dalla disarmonia tra cultura (intesa nella sua accezione più ampia e non limitatamente alla “conoscenza”) e potere. È perfettamente inutile ribadire la lista dei governanti che fanno venire la pelle d’oca, tanto in Europa quanto nel resto del mondo. E in quanto ai politici, solo chi non vuole vedere e sentire riesce a non comprendere la scarsa consistenza qualitativa dei parlamentari italiani, indipendentemente dalle idee professate, ammesso e non concesso che agiscano in ossequio alle idee e non ai meri interessi personali.


I risultati di questo disfacimento colossale sono costantemente sotto i nostri occhi grazie alla grande esposizione mediatica cui nessuno si sottrae. Lungi dal rappresentare un campanello d’allarme, tuttavia, il caos dilagante genera solo divisioni nette in larghi strati della popolazione che, incapaci di cogliere le tante sfumature che traspaiono dalle singole posizioni e da quelle di apparato, effettuano scelte nette, parteggiando ora per gli uni ora per gli altri, senza rendersi conto di saltare continuamente da una padella nella brace e viceversa. Con questi presupposti, che tra l’altro in un grafico temporale vedono l’asticella del caos solo più in alto rispetto a un passato non certo roseo, di quale futuro vogliamo parlare? Andrà sempre peggio… a meno che…

C’È UN GRANDE PRATO VERDE DOVE NASCONO SPERANZE CHE SI CHIAMANO RAGAZZI (E NON SOLO) Questo paragrafo – lo avete compreso tutti – ha come titolo le prime strofe di una celebre canzone di Gianni Morandi. Ho riflettuto non poco prima di scegliere se utilizzare solo la prima parte (“c’è un grande prato verde dove nascono speranze”) oppure aggiungere anche il resto, coinvolgendo “i ragazzi”. La riflessione verteva sull’impostazione da conferire alla parte finale dell’articolo, che vuole comunque veicolare un presupposto di speranza dando voce a chi, in questo momento, a prescindere dall’età, abbia scelto il silenzio. Il dilemma se coinvolgere in modo pressante “i ragazzi” in questa analisi non è stato facile da sciogliere, ma alla fine la volontà di allargare il cerchio ha avuto il sopravvento: senza il loro aiuto, infatti, non si va da nessuna parte. Andiamo a vederlo, allora, questo prato verde, cercando di comprendere da chi sia popolato e come possa trasformarsi in un vero prato dell’amore. Il discorso è “universale” e vale, quindi, per tutto il mondo. Solo per comodità espressiva, pertanto, limitiamoci a utilizzare, come riferimento, il momento storico che riguarda il nostro Paese, nel quale il caos regna sovrano con un governo composto da schieramenti ostili tra loro e accomunati solo dal comune desiderio di gestire il potere e restare a galla quanto più a lungo possibile; un Parlamento nel quale, sostanzialmente, vigono le stesse regole; un sistema mediatico asservito a vari padroni, eccezion fatta per poche voci isolate; una società civile disorientata e ondeggiante in un mare quasi sempre tempestoso, spinta più dalla forza delle correnti che dalla capacità di orientare la barca verso approdi scelti con oculatezza. In questo bailamme, che vede tanti adulti allo sbando, milioni di giovani si trovano senza punti di riferimento validi e, restando in balia di sé stessi, diventano facile preda di speculatori senza scrupoli, che sono sempre esistiti ma che oggi trovano maggiore spazio operativo grazie alle croniche deficienze di chi avrebbe il compito di contrastarli. I risultati di questo disfacimento sono sotto gli occhi di tutti e spaventano non poco, perché lasciano presagire un “futuro fosco”. Ancora una volta, tuttavia, ragioniamo con calma. In questo Paese vivono poco meno di 60 milioni di persone, secondo dati aggiornati al 31 dicembre 2020, così suddivisi per fasce di età: 10.598.610 (da 0 a19 anni); 12.939.014 (20-39 anni); 18.351.424 (40-59 anni); 10.688.724 (60-74 anni); 7.063.716 (più di 75 anni).


I dati statistici che riguardano la succitata ripartizione sono molteplici e complessi. Qui ne prendiamo in esame solo due: numero di laureati e comportamento degli aventi diritto al voto. Tra i Paesi dell’Unione Europea, l’Italia è al penultimo posto per numero di laureati: 29% nella fascia di età 25-34 anni. Solo la Romania ha una percentuale inferiore: 25%. In cima alla classifica vi è il Lussemburgo (61%), seguito da Irlanda e Cipro (58%), Lituania (56%), Paesi Bassi (52%). Seguono gli altri Paesi con quozienti comunque di tutto rispetto e ben ancorati a quel 45% fissato dai burocrati di Bruxelles come obiettivo comunitario da raggiungere entro il 2030. Questi dati già così espressi fanno venire il mal di pancia; quando poi si dovesse verificare l’effettiva consistenza culturale di molti laureati, il mal di pancia richiederebbe l’immediato intervento di un gastroenterologo. Tutto ciò premesso, il “sistema Italia”, a livello politico, è stabilito da circa 50 milioni di aventi diritto al voto, tra i quali, alle elezioni del 2018, circa il 30% ha deciso di non esprimere alcuna preferenza perché, evidentemente, non si sentiva rappresentato da nessuna componente in campo. Il dissenso nei confronti della classe politica, secondo le ultime avvisaglie, naviga intorno al 50% e forse addirittura lo supera. E non c’è da meravigliarsi: milioni di persone, di destra, di sinistra, moderati, conservatori, progressisti, non riescono a trovare un punto di riferimento degno della loro attenzione, nemmeno turandosi il naso come suggeriva Montanelli, perché la puzza è così forte da rendere inefficace ogni tentativo di sopportazione, dal momento che, in qualsivoglia schieramento, si vedono poche cose condivisibili e tante altre che fanno venire l’orticaria. Non sapendo cosa scegliere, decidono “di non scegliere”. Gli unici capaci di non soffrire in questa triste realtà sono i delinquenti, che trovano ampio e facile supporto da parte dei loro rappresentanti in Parlamento e nei luoghi del potere; i lobbisti espressione del liberalismo più sfrenato, per i quali vale analogo discorso; i “poveri di spirito” che, come pecore al pascolo, seguono il “pastore” scelto come guida, esaltandolo sempre e comunque con anacronistico entusiasmo, perché loro hanno bisogno come il pane di qualcuno in cui credere e per questo, non essendo la stupidità né perseguibile né condannabile moralmente, finiranno beati in Paradiso, dopo aver vissuto una vita vana, rendendo infernale più quella altrui che la propria. Coloro che, invece, il problema se lo pongono, numericamente, rappresentano il primo partito! Parliamo, infatti, di 23-24 milioni di persone prive di rappresentanza politica, che costituiscono la crème del Paese per qualità intrinseche, livello culturale, onestà, preparazione, dedizione al bene comune. Vi sono senz’altro persone di sinistra, tra gli astensionisti, che vedono come il fumo negli occhi sia una sinistra ondivaga, litigiosa e asservita ai poteri forti, composta da tanti radical-chic che di radicale hanno solo la loro supponente saccenteria e di chic proprio nulla, sia quella minoritaria, sicuramente più appetibile e simpatica, pregna di brave persone, ma priva di qualsivoglia presupposto che possa consentire seriamente di considerarla in grado di governare anche una media città, figurarsi un grande Paese. Occorre una fantasia maggiore di quella che ha consentito ad Isaac Asimov e Stephen King di scrivere i loro stupendi capolavori, infatti, per immaginare i personaggetti della sinistra radicale alle prese con le faccende di governo, i trattati internazionali, la gestione dei servizi segreti e quant’altro. Avendo comunque la sinistra una consistente rappresentanza parlamentare, è lecito ritenere che, in maggioranza, il fronte degli astensionisti sia composto da persone che, se non è il caso di


definire tout court di destra, dei principi di una vera destra moderna, sociale, europea ed europeista, siano “portatori sani”, agognando una componente politica che fosse in grado di incarnare ed esaltare valori ancorati a una visione sociale che coniughi la solidarietà con la meritocrazia; che affronti i problemi senza conformismo ideologico; che non lasci indietro gli ultimi e non penalizzi i primi; che combatta i delinquenti e gli evasori seriamente e non a chiacchiere; che tuteli la salute pubblica sopprimendo lo squallore rappresentato dalla regionalizzazione della Sanità; che proponga una seria riforma dello Stato (elezione diretta del Capo dello Stato, abolizione delle regioni e delle province, accorpamento dei piccoli comuni in modo da non avere entità territoriali inferiori ai quindicimila abitanti) e una seria riforma della Giustizia (minore ingerenza della politica nella magistratura, riduzione dei gradi di giudizio da tre a due, abolizione della prescrizione, aumento delle pene per tutti i reati, ribaltamento dell’attuale propensione “ideologica” che vede il sistema più a favore dei carnefici che delle vittime). Ancora: seria riforma della scuola e dell’università, soprattutto per impedire che i cervelli migliori fuggano all’estero; seria riforma dei servizi con recupero della gestione centrale per trasporti ferroviari, poste, comunicazioni, essendo l’attuale sistema concorrenziale favorevole solo per i gestori (che spesso fanno “cartello”) e non per i consumatori; sviluppo articolato e continuo di politiche giovanili per orientare i ragazzi a un impegno civile serio, inculcando loro sin dalla più tenera età quei presupposti che servono a costruire positivamente il loro futuro, tenendoli il più lontano possibile dalle deviazioni proposte dalla parte marcia della società (sotto questo profilo è utile parlare sin dalle scuole elementari dei danni provocati dal fumo, dalle droghe, dall’alcool e, contestualmente, agire con fermezza contro chiunque, subdolamente o coscientemente, ne favorisca il consumo ancorandosi a errate concezioni della “libertà personale”); riforma fiscale e pensionistica in modo da evitare sperequazioni e consentire ai meno abbienti di vivere decorosamente (semplicemente vergognoso quanto stabilito dalla manovra recentemente varata). Ecco, queste persone meravigliose, che farebbero salti di gioia se un partito si presentasse alle elezioni con i succitati programmi, è facile trovarle in quel “grande prato verde” dove, però, bivaccano rassegnate, coltivando la speranza che qualcuno crei le premesse per un “mondo degno di loro”. Duplice grande errore! La rassegnazione è sempre negativa; nessuno, al di fuori del prato verde, offrirà loro ciò di cui hanno bisogno per sentirsi appagati: nessun detentore di qualsivoglia potere è così stupido da tirarsi la zappa sui piedi fino al punto da consentire ad altri di togliergli i privilegi, ancorché indegnamente conquistati, e magari sbatterlo in galera. Si rimboccassero le maniche, pertanto, e si dessero una mossa: o sono in grado di trovare nel loro ambito le risorse per combattere quella che non può che essere una dura e difficile battaglia, e fare di tutto per vincerla, o passeranno la vita a mugugnare, attendendo invano un cavaliere della tavola rotonda che giunga chissà da dove per offrire loro un’ancora di salvezza. Dall’esterno non arriverà nessuno, non fosse altro perché i cavalieri di Camelot, quei pochi che ancora esistono, sono già nel “prato verde” ed è lì che vanno individuati. Gli altri, che la battaglia hanno cercato di combatterla all’interno delle Istituzioni, sono stati tutti uccisi o messi fuori gioco. Per diradare le nebbie che rendono fosco il futuro, quindi, non è che vi siano molte scelte. Sic est e altro non c’è da dire.


“L’OMBRA DELLA VITTORIA”: PRESENTATO A CASERTA IL SAGGIO DI PASQUALE TRABUCCO

Nell’ambito delle manifestazioni dedicate al Milite Ignoto, si è tenuto, presso il Circolo Nazionale di Caserta, un convegno per la presentazione del libro scritto dal tenente Pasquale Trabucco: L’ombra della vittoria – Il fante tradito, edito da Albatros. L’evento è stato organizzato dalla locale sezione della “Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia”, in collaborazione con il “Festival della Vita”. Il presidente regionale dell’UNUCI, generale Ippolito Gassirà, ha svolto le funzioni di moderatore e ha ricordato, in un’articolata prolusione, il costante impegno profuso nel promuovere importanti iniziative culturali nonostante la terribile pandemia che, da circa due anni, condiziona la vita di tutti gli esseri umani. Entrando poi nel vivo dell’argomento oggetto dell’incontro, ha illustrato dettagliatamente i punti salienti del saggio, suddivisi in tre sezioni. La prima, dedicata al vissuto del tenente Trabucco, riporta le esperienze giovanili negli Scout, gli studi, l’impegno militare; la seconda, di carattere prettamente storico, affronta le tematiche della Grande Guerra, definita “una guerra di popolo” e narrata mettendo in risalto soprattutto la tragedia di un popolo che, per la prima volta, fu coinvolto nel suo insieme in un evento bellico e vide soprattutto le donne impegnate nel duro lavoro di supporto, sostituendo nelle fabbriche gli uomini chiamati alle armi; la terza parte, invece, sia pure con continui e importanti riferimenti a quel tragico periodo bellico, è dedicata all’impegno profuso per ridonare al 4 novembre la dignità di festa nazionale. Dopo i saluti del padrone di casa, Emilio di Benedetto, della dottoressa Maria Rosaria Pizzo (Festival della Vita) e del colonnello Pasquale Antonucci, in rappresentanza dell’avvocato Carlo Marino, sindaco di Caserta, ha preso la parola l’autore, che ha citato numerosi aneddoti relativi alla lunga marcia a piedi attraverso il Paese, effettuata per sensibilizzare l’opinione pubblica sul nobile proposito teso a porre rimedio all’ignominiosa legge del 1977, che sancì l’abolizione della festività con motivazioni solo strumentalmente giustificate dall’austerity. Con voce ferma e senza tanti giri di parole, Pasquale Trabucco ha ricordato il “tradimento della politica” nei confronti degli italiani che hanno immolato la propria vita per la Patria, in quella che è stata la prima guerra totale del genere umano: «La politica ha tradito. Io so di poterlo dire, non in senso partitico ma per la politica nel suo insieme, perché in quarantacinque anni, dal 1977 a oggi, abbiamo avuto trentacinque governi composti da tutti gli schieramenti, di destra, di centro, di sinistra. Ciò che dobbiamo capire, quindi, è la motivazione, che non può essere di natura economica perché nel 1985 verrà ripristinata l’Epifania e nel 2000 la festività del 2 giugno. La motivazione, quindi, è di natura prettamente politica e si configura come un grosso errore». Proseguendo nel suo accorato discorso, Trabucco ha fatto riferimento alle feste nazionali di altri Paesi, che sin dalla loro istituzione rappresentano un momento di vera unità, citando come esempio tanto il 14 luglio francese, sopravvissuto all’impero, alla monarchia e alla repubblica, quanto la


festività statunitense del 4 luglio, che indusse gli eserciti in lotta durante gli anni della guerra civile a sospendere i combattimenti proprio in quel giorno perché, al di là delle momentanee divisioni tra nordisti e sudisti, quella data li accomunava in modo indissolubile. «Noi stiamo perdendo le nostre radici – sostiene Trabucco – e siamo un popolo che non sa riconoscersi in quella che è la vera festa di tutti gli italiani» Al toccante intervento di Trabucco ha fatto da eco quanto asserito, nella replica, dal generale Gassirà: «Io, per esempio, non sono d’accordo sulla data del “25 aprile”. Perché? Perché a Caserta c’è stata la firma della resa tedesca, ma il 29 aprile! Questa data, quindi, non ha una valenza storica ai fini della conclusione della guerra. Se questa è la realtà che dobbiamo accettare, va anche detto che presso l’Università di Santa Maria Capua Vetere, in collaborazione con quella del Molise, sin dal 2005 è in atto un progetto teso a riscrivere la storia che riguarda la provincia di Caserta». Analoghi concetti sono stati espressi dal generale Massimiliano Quarto, comandante della Brigata “Garibaldi”: «Noi vestivamo l’uniforme il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre. Il 4 novembre è l’unica festa che unisce. Non voglio parlar male delle altre due ma, se facciamo una riflessione, sul 25 aprile ci sono ancora delle divisioni; anche sul 2 giugno ci sono ancora delle divisioni. Tra queste tre feste, l’unica che abbia veramente unito l’Italia, da nord a sud, è il 4 novembre. Questo forse può essere un elemento di riflessione per le nostre priorità politiche, perché noi siamo soldati, continuiamo a esserlo fino alla fine, ma crediamo nel primato della politica in quanto è lì che si esprime la volontà del popolo. Il popolo, però, va motivato, va solleticato, va spinto a ragionare su queste cose. Il coinvolgimento del popolo nasce dal coinvolgimento delle scuole, dei ragazzi, dei giovani. Sono il nostro futuro! Ho detto più volte che se non conosciamo il nostro passato non abbiamo futuro e il futuro è rappresentato da loro. Ripristiniamo la festa, quindi, ma non trasformiamola in un punto rosso sul calendario affinché i ragazzi si sveglino e si concedano una scappatella nei centri commerciali, invece di andare a onorare i caduti o di impegnarsi in qualche lezione di storia. Ecco, mi piacerebbe celebrare il 4 novembre in questo modo, con ragazzi che vadano a scuola per sentire parlare della storia d’Italia, in particolare di quella “Grande Guerra” che ha unito il popolo italiano. Vadano a scuola e imparino cosa rappresenti il Milite Ignoto, perché ancora non lo sanno, nonostante i tanti sforzi compiuti proprio in questi ultimi tempi per celebrare il centenario della traslazione della salma all’Altare della Patria, ivi compresa la “fiction” recentemente trasmessa in TV. Sì alla festa, quindi, ma che sia un momento di partecipazione che coinvolga soprattutto i giovani, piuttosto che una mera occasione per non andare a lavorare, facendo diventare tutti ancora più agnostici». Parole, quelle dei tre relatori, che hanno toccato il cuore e l’anima dell’autore di questo articolo, presente al convegno nelle sue vesti di vicepresidente provinciale dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, presidente della sezione ANB di Caserta e responsabile ufficio stampa sezione UNUCI Caserta, da sempre impegnato in una rivisitazione generale della storia protesa a fare seriamente i conti con il nostro passato. Compito non certo facile perché bisogna smontare il gigantesco castello di


menzogne artatamente costruito dalla storiografia ufficiale, facendo attenzione – soprattutto perché espressione di apparati militari - a non urtare la sensibilità di tante persone che, in perfetta buona fede, portano nel cuore personaggi capaci di imporsi al cospetto della storia come giganti mentre, nella realtà dei fatti, si sono dimostrati di infima qualità umana e professionale. Personaggi che, se trovano riscontri oggettivi in ogni secolo, raggiungono numeri pazzeschi proprio nelle due guerre mondiali, come riportato in tanti articoli e nel saggio “Il Piave mormorava”, pubblicato a puntate nel 2018, nel mensile “CONFINI”. Da convinto sostenitore dell’iniziativa caparbiamente portata avanti da Pasquale Trabucco, pertanto, non posso che concludere questo articolo spingendomi ancora oltre, affinché il 4 novembre si trasformi da “Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate nella “vera festa nazionale” del popolo italiano, acquisendo quindi una valenza più nobile e significativa di quella tributata al 25 aprile, in modo da superare definitivamente le anacronistiche contrapposizioni e consentire di marciare, mano nella mano e con il sorriso sulle labbra, verso un futuro di pace e prosperità, all’insegna del Tricolore.


TV SPAZZATURA: SI SALVAGUARDINO ALMENO I MINORI

I FATTI Sabato 4 dicembre: Rai1, programma di prima serata “Ballando con le stelle”, in onda sin dal 2005 e caratterizzato da un ottimo share. Oltre al formato classico, che vede dei personaggi famosi in gara tra loro supportati da ballerini professionisti, vi è anche una gara tra giovanissimi, a volte poco più che bambini. Nella serata in questione vi è un talentuoso ballerino di danza classica, sui dodici-tredici anni, Leonardo D’Onofrio, contrapposto a una bimba con qualche anno in meno, che si esibisce con un balletto pretenzioso, assolutamente incomparabile per forma, stile e contenuto con l’eccellente esibizione della sicura futura étoile. Il voto, però, premia la bimbetta, figlia di una protagonista storica del programma, Sara di Vaira, presente in sala. Un cosa sconcia e disgustosa, che tra l’altro vede più vittima la vincitrice, letteralmente massacrata sui social. Non sono solito guardare i programmi generalisti trasmessi dalla RAI e Mediaset, ma sono stato invitato a occuparmi della faccenda da vecchi amici ballerini, che hanno condiviso con me stupendi momenti quando organizzavo eventi legati allo showbiz. MESSAGGIO INVIATO A LEONARDO «Caro Leonardo, approfitto della bacheca (Facebook, N.d.R.) di mamma per salutarti affettuosamente e complimentarmi con te per il tuo talento. Sicuramente, con genitori così bravi e attenti, hai ricevuto già ottime lezioni e sai che la vita è un grande imbroglio e la televisione esaspera in modo pazzesco tutte le distonie del genere umano. Ti invito caldamente, pertanto, non solo a non crucciarti, ma ad essere addirittura felice per l'eliminazione. La gara, infatti, non aveva alcun senso sotto qualsivoglia punto di vista ed è molto meglio, quindi, che si sia lasciato spazio alla bimbetta che ha fatto quattro saltelli, con mamma che lavora nel programma, dato sul quale non vale nemmeno la pena fare commenti. Considera quei minuti che ti sono stati offerti, pertanto, esattamente per ciò che valgono: una vetrina per mettere in mostra il tuo talento, già corroborato da uno stile espressivo e da una personalità che sono più che eloquenti e lasciano facilmente presagire un futuro pregno di grandi successi e grandi soddisfazioni. A vincere questa sera, credimi, ci avresti perso in dignità. Quella dignità che invece hanno perso i giurati...per quel che può valere: loro non sono nessuno e già da molto tempo annaspano nei piani bassi di quel pozzo senza fondo nel quale precipita chiunque si presti ai giochi sporchi. Tu sei già “grande” e si vede. Aspetta, quindi, di confrontarti con chi sia realmente degno di misurarsi con te. Dei giurati del programma non ti curare proprio: stanno alla danza come un Tavernello annacquato da un oste disonesto sta a un Amarone Riserva Speciale. In gamba e buona vita». MESSAGGIO INVIATO ALLA MAMMA DELLA VINCITRICE «Gentile Sara, sono vecchio e navigato e nulla più mi stupisce... capisco il cuore di mamma, ma mi chiedo come mai non abbiate pensato, voi tutti del programma, che esporre tua figlia in quel modo avrebbe determinato il suo massacro sui social.


Le avete fatto solo del male e questa è una colpa imperdonabile, che vede senz'altro autori, giurati e conduttori del programma come principali responsabili, ma alla quale nemmeno tu puoi sottrarti perché ti saresti dovuta opporre con fermezza, soprattutto ben conoscendo il livello artistico di Leonardo». MESSAGGIO INVIATO AI DIRIGENTI RAI (RIMASTO SENZA RISCONTRO) PRESIDENTE CDA RAI - DOTT.SSA MARINELLA SOLDI AD RAI - DR. CARLO FUORTES PRESIDENTE COMMISSIONE VIGILANZA RAI – SEN.RE ALBERTO BARACHINI DIRETTORE RAI 1 - DR. STEFANO COLETTA «Gentili dirigenti, i vostri ruoli e la vostra esperienza non necessitano di particolari lungaggini nell’esporre lo squallido episodio verificatosi ieri sera, nel corso del programma “Ballando con le stelle”: la figlia di un’affermata ballerina che lavora da anni nel programma è stata messa in competizione con un talentuoso ballerino di danza classica, conquistando il diritto di partecipare alla finale riservata ai giovanissimi. Un doppio imbroglio così palese di cui è rimasta vittima più la vincitrice, massacrata nel web insieme con mamma, autori, giurati e altri membri del programma, che lo sconfitto, beneficiato da decine di migliaia di complimenti, apprezzamenti e incitamenti. Quanto accaduto è molto grave sotto qualsivoglia punto di vista: siamo tutti abbastanza navigati per comprendere che gli adulti non potranno mai eliminare i giochi sporchi, come la storia insegna, ma penso che ogni sforzo vada compiuto affinché da essi siano preservati i minori e i bambini, almeno fino al momento in cui non cresceranno abbastanza per comprendere le distonie del genere umano. Su quanto accaduto non si può glissare perché altrimenti avremmo superato, e non di poco, il limite oltre il quale si precipita davvero in un baratro senza fondo. Adoperatovi con tutta la vostra autorevolezza, pertanto, affinché sabato prossimo si ponga rimedio in qualche modo a quella che si può definire solo come una grandissima schifezza. Porgere le scuse al ballerino Leonardo D’Onofrio è il minimo che si possa chiedere, inducendo la conduttrice del programma a dichiarare, serenamente e senza giri di parole, che è stato commesso un errore nel mettere a confronto un ballerino di danza classica (per giunta di altissimo livello!) con una bimbetta che ha fatto quattro saltelli di ginnastica, portata alla vittoria solo perché figlia di Sara Di Vaira. Sarebbe il caso, comunque, di trovare una soluzione che consenta anche a Leonardo di partecipare alla finale, sempre che a lui, a questo punto, interessi. Altro non serve aggiungere nella consapevolezza che, una volta postovi il problema, troverete senz’altro il modo migliore per risolverlo. Un cordiale saluto». Ovviamente, com’era ampiamente prevedibile, il tutto è rimasto lettera morta e il sabato successivo nessuno ha fatto più cenno alla squallida vicenda. Ne parliamo su questo magazine, che da sempre sollecita il rigore comportamentale e il rispetto della meritocrazia, affinché un domani, Leonardo, quando guarderà i trofei degnamenti conquistati, potrà rileggerlo sorridendo, pensando a un tempo


lontano nel quale ha dovuto far i conti con tanti infami, trovando però anche tante brave persone che lo hanno sostenuto e incoraggiato ad andare avanti.


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Era tutto prevedibile. Sorpresa e sconcerto traspaiono dai media di tutto il mondo nei servizi dedicati allo scempio verificatosi ieri a Capitol Hill, cuore del governo statunitense, preso d’assalto dai facinorosi tifosi di Trump, che proprio non vogliono rassegnarsi alla sconfitta, nonostante 78.764.266 cittadini abbiano consacrato Biden come il presidente più votato nella storia degli USA. In una democrazia basta un voto di differenza per vincere un’elezione: Biden ne ha presi ben 5.637.779 in più di quelli destinati a Trump e ciò rende ancora più sconvolgente quanto accaduto nelle ultime settimane e il feroce assalto di ieri, che purtroppo ha causato la morte di ben quattro persone. Gli USA sprofondano in un baratro dal quale sarà difficile risalire in tempi brevi e lasciano trasparire, in modo incontrovertibile, ciò che solo gli analisti più accorti vanno predicando da tempo: i grossi limiti di una società malata fino al midollo; il deficit etico che scaturisce dalla placida accettazione di aberranti regole di vita, volte a premiare il più gretto materialismo e lontane mille miglia dalle più elementari norme di giustizia e di attenzione al bene comune. Altro che “più grande democrazia del mondo!” La sorpresa che traspare in molte cronache giornalistiche, pertanto, è del tutto ingiustificata ed evidenzia quanto meno la cecità nel comprendere le fenomenologie della società statunitense, al netto delle complicità che, ovviamente, non mancano mai. Senza alcun intento autoreferenziale, cosa sempre sgradevole, facendo comunque parte di quella scarna schiera di analisti con la vista lunga, trascrivo alcuni passi di un articolo del luglio 2016, "Bye Bye american dream", pubblicato sul Secolo d’Italia e su Confini, facilmente reperibile in rete, nel quale, di fatto, anticipavo tutto ciò che sarebbe poi successo, partendo dalle cause remote. L’articolo risale al mese di luglio, quando tutti pensavano che sarebbe stata la Clinton a vincere le elezioni, convincimento che perdurò fino alla notte del voto. La prima previsione della vittoria di Trump la feci nel mese di marzo e dovetti aspettare ottobre per avere la “compagnia” del famoso regista Michael Moore: due persone su sette miliardi di essere umani, al netto dei fan, che ovviamente non fanno testo perché adusi a trasformare in certezza i desideri.


“Comunque andrà a finire, il prossimo novembre, gli Stati Uniti avranno un pessimo presidente e ciò rappresenterà un problema per il mondo intero. (Azzardo una previsione: vincerà Trump. Purtroppo questa volta non posso nemmeno aggiungere il solito refrain che chiude le mie previsioni: «…spero di avere torto»). Per capire il successo di Trump e il suo appeal sull’opinione pubblica, un appeal trasversale, che coinvolge anche molti democratici (sia pure nei limiti che tale termine assume nella società americana, capace di esprimere individui che coniugano i loro principi democratici con il più esacerbato razzismo), non basta soffermarsi sulle vicende recenti, sulla paura nata dal diffuso terrorismo e dalle angosce post 11 settembre. Bisogna andare molto indietro nel tempo, fino agli albori della colonizzazione europea delle Americhe. Un’ideologia americana esiste solo come rifiuto di quella europea e non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’America stessa è il rifiuto materiale dell’Europa. Tutto ciò che l’Europa non sopportava e tutti coloro che l’Europa non sopportavano, hanno trovato terreno fertile nel “Nuovo mondo”, realizzando quel melting pot che sopravvive tutt’oggi: puritani perseguitati dagli anglicani, cattolici perseguitati dai protestanti, protestanti perseguitati dai cattolici, ebrei vittime dei progrom, insofferenti con pulsioni anarchiche, visionari di ogni ordine e grado. A costoro si aggiunsero gli “affamati”, che il vecchio continente abbandonarono loro malgrado e con sommo rammarico, per necessità vitali legate alla mera sopravvivenza. Dall’incontro-scontro di queste due componenti nacquero gli Stati Uniti d’America e le tante contraddizioni che ancora oggi permeano la società. Molto negativo il condizionamento sociale generato dai rifiuti, che diedero vita alle varie organizzazioni criminali; fondamentale quello degli affamati che, lavorando sodo, crearono il mito dell’american dream. Le colonizzazioni, del resto, sotto questo profilo, si assomigliano tutte. Gli italiani di oggi, in massima parte, sono i discendenti dei tanti dominatori che si sono succeduti nel corso dei secoli e portano nel DNA sia il retaggio ancestrale delle dominazioni positive (Normanni, Svevi, Longobardi) sia quello nefasto delle colonizzazioni negative (Aragonesi, Spagnoli, Angioini), sorvolando su quelle degli arabi e dei francesi, la cui analisi sociologica, dicotomica tra bene e male, richiederebbe troppo spazio, portandoci fuori tema. Il primo dato da prendere in considerazione è il marcato calvinismo insito nella società americana, intriso di quel puritanesimo che, sostanzialmente, genera una società incapace di individuare dove si annidi il vero male. In Europa siamo abituati a concepire le guerre d’indipendenza come la rivalsa dei popoli tiranneggiati. La guerra d’indipendenza americana fu solo l’arrabbiata reazione dei coloni alle restrizioni commerciali imposte dalla madre patria. Il collante fu determinato dal primato del profitto su ogni altro elemento sociale e “il possesso di beni e soldi” come unico termine di paragone per sancire le differenze. Lo stesso concetto di uguaglianza naturale, che è bene ricordarlo precede quello affermatosi in Francia, è antitetico al modello europeo. In America è dalla “libertà” che deriva l’uguaglianza e non viceversa e la differenza, che a prima vista potrebbe apparire effimera, essendo analogo il presupposto originario – tutti gli uomini nascono liberi e uguali – assumerà un rilievo fondamentale nel processo evolutivo della società americana.


Un altro aspetto che può aiutarci a capire fenomenologie sociali sconvolgenti per un europeo, è la naturale propensione al cattivo gusto, in ogni contesto. La mancanza di gusto e senso estetico che ha sempre caratterizzato la madre patria è stata coperta e mascherata dalla vicinanza con gli altri paesi europei; una vicinanza che, ovviamente, persisterà anche con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Con il progressivo distacco dalla madre patria, però, l’America ha potuto affermare il primato mondiale della volgarità in tutti i campi. Mentre in Inghilterra la società aristocratica precipitava verso la borghesia, negli USA si affermava la parodia della società europea, conferendo nobiltà esclusivamente al dio denaro. La parola gentleman non ha varcato i confini della madre patria e non esiste nel costrutto sintattico statunitense, alla pari di lady. Il termine business, che originariamente intendeva caratterizzare un individuo semplicemente “impegnato a fare qualcosa”, è stato mutuato in quello più consono al tipo di mentalità che si andava affermando, divenendo “affare”. Di rilevante importanza, a tale proposito, il saggio di Guglielmo Ferrero, Fra i due mondi, del 1913, nel quale lo storico distingueva le civiltà quantitative da quelle qualitative, spiegando che l’accumulo delle ricchezze porta al progressivo declino della società. Nelle società qualitative (il Ferrero si riferiva precipuamente al mondo greco-romano) si producono capolavori, opere d’arte in grado di elevare lo spirito, muovendosi entro limiti prestabiliti. Nelle società quantitative l’unico scopo è l’accrescimento della ricchezza, senza limiti (e poi anche "senza regole"), generando quelle fratture sociali che, inevitabilmente, sfociano in guerre. Già nel 1913 quindi, Ferrero vedeva nel dinamismo americano uno sviluppo incontrollato e incontrollabile della tecnica produttiva. Una civiltà, quindi, senza valori stabili e senza freni interni, che preparava da sé la propria catastrofe. È stato un valido profeta. Lo storico statunitense Henry Steele Commager, nel 1952, con il saggio "Lo spirito americano", ripropone la tesi di Ferrero: «La peggior disgrazia che potesse capitare a un partito politico era una crisi economica e la più grave obiezione a una legge era la sua nocività per gli affari. Tutto ciò tendeva a dare una forma quantitativa al pensiero, conducendo l’americano a mettere pressappoco al di sopra di tutto una valutazione quantitativa. Quando domandava quanto valeva un uomo, voleva parlare del valore materiale, e si irritava di ogni altro sistema di apprezzamento. Anche la soluzione che proponeva a numerosi problemi era quantitativa, e che si trattasse dell’educazione, della democrazia o della guerra, il trattamento attraverso i numeri era il rimedio sovrano». L’american way of life trasforma una società viva in una società meccanica, avulsa dai reali valori e imperniata sull’apparire, in funzione del conto in banca e del “ben-essere” che si riesce a mettere in mostra. Il concetto di essere è del tutto sconosciuto. […] Una società sostanzialmente mediocre, quindi, vuole essere rappresentata da uomini mediocri, che sente vicini. Uomini colti e raffinati, che pure vi sono, non hanno alcuna possibilità di affermarsi oltre certi limiti. Al Gore, che sarebbe stato il miglior presidente della storia degli USA, è un esempio eclatante di questo postulato. Il capo dello Stato deve essere un uomo come gli altri, un “brav’uomo”; se fosse superiore, un “uomo bravo”, inquieterebbe. In una democrazia normale si spera che siano i migliori a prevalere. In America, invece, si amano i winners. Non importa come siano diventati tali, purché siano e appaiano il più possibile delle persone comuni. Nella campagna elettorale il politico che vuole


vincere le elezioni deve preoccuparsi di assecondare gli umori della massa, recitando la propria commedia con un tasso di ipocrisia che non ha eguali al mondo. Il secondo emendamento, che costituisce un abominio, è argomento tabu per ogni politico che aspiri a vincere le elezioni. Parlarne significa mettersi contro la maggioranza degli elettori e le potenti lobby delle armi: la sconfitta è sicura. La cinematografia, anche quella statunitense, non ha mancato di evidenziare le molteplici e gravi distonie della politica statunitense. Recentemente, però, con la fiction “House of cards”, si è passati a una divulgazione quasi didattica del marciume insito nel sistema. Paradossalmente, invece di aprire gli occhi, gli americani sembrano affascinati dallo scarso o nullo senso etico con il quale vengono rappresentati i cinici politici, pronti a tutto pur di raggiungere il potere. […] Da qui all’affermazione di Trump, il passo è breve. La Clinton, ovviamente, gli è superiore in tutto, anche se per certi versi rappresenta il “lato B” della stessa medaglia. Se vincesse lei avremmo “il male minore”. Ma bisogna smetterla sia con il male maggiore sia con quello minore. È ora che questo mondo inizi ad affidarsi ai migliori. Dappertutto”. Era tutto scritto Tutto ciò premesso, bisogna anche considerare che quanto accaduto ieri ha radici ancora più antiche, che riguardano i processi evolutivi dei regimi politici, trattati da Erodoto, Platone, Aristotele e, in modo ancora più significativo, da Polibio che, nel libro sesto delle Storie, elabora la teoria dell’anaciclosi, con evidente riferimento a quanto già sancito da Aristotele nel libro terzo della Politica. Le buone forme di governo, in cui trionfano giustizia e ragione, si alternano a forme di governo corrotte, dominate dalla violenza, dalle passioni e dagli interessi individuali. La monarchia, retta da un solo individuo, nella fase corrotta, si tramuta in tirannide; la parte migliore dei cittadini si ribellerà alla tirannide dando vita a un'aristocrazia, inevitabilmente destinata a degenerare nell’oligarchia; per correggere i guasti dell’oligarchia si darà vita alla democrazia, a sua volta destinata a degenerare nell’oclocrazia, che porta il governo alla mercé dei desideri insulsi delle masse, sempre incapaci di guardare al di là del proprio misero orticello. Per Polibio le pubbliche elezioni dovrebbero consentire di delegare il potere agli uomini più giusti e assennati. Non è democrazia, infatti, «quella nella quale il popolo sia arbitro di fare qualunque cosa desideri, ma quella presso la quale vigano per tradizione la venerazione degli dei, la cura per i genitori, il rispetto degli anziani, l’obbedienza alle leggi e infine quella nella quale prevalga l’opinione della maggioranza». Il concetto di oclocrazia non ha ricevuto un’adeguata attenzione nei trattati di politologia e nelle analisi sociologiche. Plutarco ne parla nel primo capitolo del De unius in republica dominatione; nel II secolo è citato da uno storico minore, Lucio Cassio Dione, nel libro 44 della sua corposa Historiae Romanae, (ben ottanta libri che vanno dalla leggenda di Enea fino al 229 d.C). In epoca moderna il solo Rousseau ne parla nel Contratto sociale (Libro III, cap. X), quale elemento degenerativo della democrazia a seguito della dissoluzione dello Stato. Per gli intellettuali e politologi contemporanei, in massima parte asserviti a dei padroni, il concetto è pressoché sconosciuto, quando non volutamente misconosciuto. Fatti salvi pochi paladini della verità, infatti, è impossibile mettere alla berlina chi, senza porsi alcun


limite etico, difenda con unghie e denti la poltrona e chi, quella poltrona bramando, combatte con non minore vigore e pari spudoratezza. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma solo normalissimi corsi e ricorsi che sanciscono, sostanzialmente, che l’uomo non è in grado di apprendere dai propri errori e, soprattutto, che la storia, contrariamente a un diffuso assioma, non è maestra di vita.


Incipit Le poste dell’Azerbaigian hanno emesso dei francobolli dedicati alla recente vittoriosa guerra contro l’Armenia, pubblicizzandoli con un’oscena composizione grafica che lascia sottendere la “disinfestazione” dell’Artsakh (vedi foto). Gli armeni, costretti o ad abbandonare il “loro” amato territorio o subire le vessazioni degli occupanti, che hanno subito dimostrato una disumana ferocia distruggendo chiese e massacrando inermi cittadini, sono stati assimilati a un virus da debellare. Spesso accade che il male prenda le sembianze del bene e la menzogna indossi i panni della verità, come nel celebre quadro di Jean-Léon Gerôme. Per gli armeni “spesso” va sostituito con “sempre”.

Un tema e due svolgimenti Immaginiamo di trovarci in un liceo qualsiasi e di assegnare un tema con la seguente traccia, dopo aver a lungo dibattuto con gli alunni sulle vicende storiche caucasiche: “Le autorità azere, dopo la guerra del 2020, conclusasi con la conquista dell’Artsakh grazie al determinante aiuto turco e all’ancora più determinante indiretto aiuto assicurato dall’inerzia dell’Occidente, hanno emesso dei francobolli commemorativi nei quali il territorio armeno risulta disinfestato. Gli armeni, di fatto, vengono assimilati a un virus. Ciascun allievo descriva come percepisce siffatta iniziativa e la mancata reazione indignata dell’Occidente, che non ha prodotto alcun richiamo per un gesto oltremodo offensivo della dignità umana, rivolto nei confronti di un popolo già duramente segnato dalla storia”. In una classe di trenta alunni, ventinove svolgimenti rifletteranno più o meno i concetti di seguito trascritti. “Non vi è niente di nuovo sotto il sole, relativamente all’ignobile pubblicazione realizzata in Azerbaigian, perché da sempre gli esseri umani predicano il bene e


agiscono male, fatte salve le debite eccezioni che non mancano mai e consentono di coltivare la speranza. Non è la prima volta che gli armeni ricevono gravi offese e non è questa la più grave: fa senz’altro più male, infatti, vedere che sono ancora tanti gli stati che non riconoscono il genocidio praticato dai turchi nel 1915, per timore di Erdogan. Bisogna distinguere bene la popolazione azera dai governanti, senza cadere nell’errore di metterli sullo stesso piatto della bilancia, proiettando in quelle zone dinamiche valutative tipiche dell’Occidente. Gli azeri, musulmani, vengono educati sin da bambini a odiare i cristiani. Un odio che raggiunge vette apicali nei confronti degli armeni, colpevoli, secondo quando viene loro “insegnato”, di essersi impossessati di una fetta della propria patria. Una popolazione con alto tasso di analfabetismo non può sapere che la regione contesa, nota agli archeologi come sede della cultura Kura-Araxes, dal nome dei due fiumi attorno ai quali si è sviluppata, nel 95 a.C. fu conquistata da Tigrane II d'Armenia, che gli antichi albanesi e gli armeni si alternarono al dominio del territorio fino all'inizio del IV secolo d.C. e che il cristianesimo vi fu introdotto per la prima volta già nel I secolo ad opera di Sant'Eliseo. Non può sapere queste cose e nemmeno che tra il VII e l'VIII secolo la regione fu invasa e saccheggiata dagli arabi, nel XIII secolo da tartari e mongoli, nel secolo successivo da varie tribù turche e che con il trattato di Gulistan del 1813 passò all'impero russo. In modo confuso e pasticciato sa solo che la regione – ricordiamolo, abitata prevalentemente da armeni cristiani - divenne repubblica nel 1992 a seguito del disfacimento dell’URSS. I governanti, dal loro canto, plasmano la storia secondo consolidate abitudini, per soddisfare la volontà di dominio e gli interessi economici, ossia gli elementi fondamentali che determinano le controversie consumate in modo subdolo sulla pelle degli inermi cittadini, ingannati con mistificazioni e false prospettive. Come anticipato, è storia vecchia. Sovviene alla mente, per esempio, il “vae victis” pronunciato da Brenno dopo l’occupazione di Roma e, più ancora, i mille e mille episodi di ignavia che hanno segnato la storia dell’umanità, consentendo a feroci tiranni di dare sfogo alla loro malvagità, magari utilizzando ridicoli e falsi alibi, come quello orchestrato da Hitler per attaccare la Polonia e avviare l’invasione dell’Europa: la distruzione di una stazione radio da parte di dodici militari, mai avvenuta, ovviamente, essendo i dodici militari dei tedeschi travestiti da polacchi. Bush Jr. attaccò l’Iraq anche quando fu chiaro che Saddam non disponeva di armi atomiche ma solo di un’accozzaglia di ferro vecchio che non faceva paura a nessuno e non esitò a “bruciare” l’eccellente agente segreto Veronica Plame che scoprì la verità, rendendola nota ai vertici della CIA e del Governo affinché si bloccasse l’iniziativa bellica; fu bloccata lei, invece, perché la guerra era stata decisa “per altri scopi” e non poteva essere fermata. Quanto sia costata all’Occidente quella scellerata condotta, che determinò la nascita dell’ISIS, è cosa nota a tutti. La Turchia, che protegge l’Azerbaigian, ha grossi interessi economici nella zona, da cui partono i principali gasdotti che raggiungono l’Occidente. L’Armenia cristiana è una fastidiosa presenza in una zona che, con la sola eccezione della Georgia, vanta una massiccia maggioranza di musulmani. La conflittualità religiosa condiziona la politica alla pari degli interessi economici, se non più, e si può immaginare quanto ciò costituisca un problema per la piccola repubblica armena, solo a “parole” protetta dalla Russia, che si guarda bene dall’intervenire


militarmente per non rischiare il conflitto aperto con la Turchia, forte potenza militare della NATO. Per l’Europa vale più o meno lo stesso discorso, reso ancora più spietatamente cinico dagli intensi rapporti commerciali con l’Azerbaigian, a cominciare dalla fornitura di gas. Dal grande giacimento di Shah Deniz parte il gasdotto che passa per la Turchia, al quale recentemente si è agganciato il controverso TAP (Gasdotto Trans Adriatico), che tante polemiche ha sollevato in Salento per i rischi di impatto ambientale in una zona a forte vocazione turistica. Cospicue anche le esportazioni di petrolio: l’Italia ne assorbe da sola il 40% e per avere un’idea delle cifre in ballo basta considerare che nei primi tre mesi del 2020 sono state acquistate 5,9 milioni tonnellate di petrolio, per un valore di 2 miliardi di euro; la quota produttiva restante è precipuamente suddivisa tra altri grandi acquirenti: Cina, Croazia, Israele, India, Ucraina, Grecia e Vietnam. È l’Italia, comunque, il principale partner commerciale dell’Azerbaijan, dove operano ben 113 aziende di connazionali, che ivi godono non solo di particolari condizioni fiscali ma anche di molteplici e molto più gradite “attenzioni” da parte delle autorità. Intelligenti pauca. Con questi presupposti, e con tanti altri ancora che afferiscono ai limiti della natura umana, si può solo concludere, amaramente che non vi è pace per gli armeni e mai vi sarà, almeno fino a quando l’uomo non si evolverà in una specie superiore e imparerà a vivere in armonia e in pace con il prossimo, annullando le diseguaglianze”. Il trentesimo alunno, invece, scriverà un tema di sentore diverso, proteso a giustificare l’aggressione azera, spacciando per vere le farneticanti ragioni prodotte dalle autorità, facendo soprattutto leva sui grandi interessi economici che legano l’Italia al paese caucasico e ai rischi che potrebbero correre le nostre aziende se si mancasse di rispetto ai suoi governanti e “protettori”. Poi farà riferimento all’alleanza militare con i turchi, che vedono gli armeni come il fumo negli occhi. Val la pena di far arrabbiare Erdogan inducendolo a chiudere i rubinetti del gas e a riversarci addosso da un momento all’altro gli oltre due milioni di profughi siriani? Non scherziamo! La ragion di stato è l’unica ragione valida e basta con i continui riferimenti al genocidio! Se tanti Paesi non lo riconoscono vi sarà pure una ragione, no? Cosa vogliono questi armeni, con le loro continue lamentele? Se i turchi li hanno sterminati vi sarà stato un motivo! Vivevano in Turchia ed erano ricchissimi, occupando ruoli importanti nella pubblica amministrazione, nelle scuole, nelle università. Erano abili negli affari e molti turchi erano costretti a lavorare per loro. Insomma, una condizione non certo piacevole per i giovani turchi che avevano preso il potere nel 1913 e sognavano di “rinverdire” il decadente impero. La vita è soprattutto lotta per il dominio e risultano stucchevoli e noiosi coloro che predicano la pace nel mondo e il bene collettivo. Il mondo non è stato mai in pace e la selezione naturale, ossia la sopravvivenza del più forte, è insita nella natura umana. Un popolo ha rivendicato un territorio che ritiene proprio, ha fatto una guerra, l’ha vinta, si è ripreso il territorio conteso e ha ritenuto di festeggiare l’avvenimento con francobolli commemorativi. Vogliamo contestare il diritto di uno stato di emettere dei francobolli come meglio gli aggrada? Suvvia, siamo seri! In fondo che hanno fatto di strano? Hanno proiettato in una immagine grafica la percezione di un diffuso sentimento nazionale: la gioia per aver spazzato via dal territorio conquistato,


evidentemente ritenuto “proprio”, coloro che l’avevano usurpato. E che sarà mai! Si può perdere tempo con queste sciocchezze? Maiora premunt!”. È grave quello che ha scritto il trentesimo alunno? No. Non lo è. Un tipo strano, un po’ fuori di testa e con le idee confuse in mezzo a ventinove bravi ragazzi è fisiologico. È molto grave, invece, che tra quindici-venti anni al massimo il tipo strano sarà un importante manager pubblico o privato, deputato o ministro e più avanti magari commissario europeo o presidente della BCE, mentre i ventinove bravi ragazzi continueranno a esternare i loro buoni propositi sui social, parlando al vento e rodendosi il fegato. Ma così gira il mondo. Povera Armenia. Ma forse è il caso di dire: povero mondo.


Ieri mattina, a Forlì, nella chiesa dei Cappuccini, si sono svolti i funerali di Monica Buzzegoli, seconda moglie di Vittorio Mussolini, secondogenito del duce, deceduta all’età di 91 anni. Al termine del rito funebre la salma è stata portata a San Cassiano, la frazione di Predappio che ospita la cripta della famiglia Mussolini. Monica Buzzegoli aveva sempre espresso il desiderio di riposare accanto al marito, sepolto in un sarcofago insieme con la prima moglie, Orsola Buvoli. In rappresentanza della famiglia Mussolini erano presenti Caio Giulio Cesare, Orsola e Vittoria (Viky), figli di Guido, il primogenito di Vittorio morto nel 2012, che hanno rispettato il desiderio di Monica. Vittorio viveva nella capitale argentina dalla fine della guerra e quando conobbe Monica era già separato dalla prima moglie. La famiglia Buzzegoli, originaria di Vinci (la città di Leonardo), era emigrata in Argentina, a Rosario, dove Monica nacque nel 1930. Studiosa di lirica, la donna incontrò Vittorio in un ristorante nei pressi del teatro Colon, nel 1964, dopo le prove di uno spettacolo. Fu amore a prima vista e nel 1967 i due amanti fecero ritorno in Italia. Dopo aver dimorato prima a Roma, ospitati da Mimmo Musti, (il co-pilota che era a fianco di Bruno, fratello di Vittorio, il 7 agosto 1941, giorno in cui l’aereo precipitò e il giovane perse la vita) e poi a Milano, nel 1968 si trasferirono a Villa Carpena, alle porte di Forlì, dove già soggiornava donna Rachele, morta nel 1979. Nel 1997 morì Vittorio e Monica rimase nella villa fino al 2001, anno in cui fu trasformata in museo dal nuovo proprietario. Trasferitasi nel centro di Forlì, ha dimorato in viale della Libertà, ossia la strada che, durante il Ventennio, era intitolata al suocero. Fino agli ultimi istanti di vita è stata amorevolmente accudita dalla badante romena Joanna e da alcune amiche fidate, sempre pronte a non farle pesare più di tanto le precarie condizioni economiche. La conobbi nel 1983, quando venne a Caserta in compagnia del marito e del cognato Romano. Come tutti i giovani di quel periodo, o quasi tutti, coltivavo i sogni impossibili nella militanza politica che vedeva contrapposte una destra e una sinistra ancora per molti versi prigioniere delle ombre di un ingombrante passato e per nulla disposte a dare credito a pochi illuminati capaci di regolare i conti con la storia e approcciarsi al futuro con nuove prospettive. Per i ruoli ricoperti toccò a


me organizzare alcuni eventi durante il loro soggiorno, avendo l’opportunità di entrare in spaccati di vita molto interessanti e pregni di umanità, che lasciavano trasparire un profondo solco di malinconia solo in parte mitigato dal solido legame che li teneva uniti. Non è mai facile vivere con il peso di certi cognomi sia per chi li porti sia per chi, per debito d’amore, dei primi ne condivida la sorte. *** Nella foto in alto Vittoria Buzzegoli in mia compagnia, nel 1983. In basso sono con Vittorio Mussolini, dopo l’intervista televisiva presso l’emittente Teleluna.


Il rischio più grosso che stiamo correndo, tipico dei momenti tragici, è “l'assuefazione al peggio”. La mente si rifiuta di percepire il pericolo e opera una sorta di rimozione che consente di convivere con l'orrore. Ciò è sbagliato, ma sbaglia anche chi, essendo immune da questa che è una vera e propria psicopatologia, reagisce con veemenza, non riuscendo a comprendere come sia possibile non rendersi conto di cose banali nella loro drammaticità: occorre chiudere subito le scuole, senza porsi limiti temporali, perché il tenerle aperte significa solo allungare, e di molto, l'uscita dal tunnel. È una tragedia, il Covid-19, che non si sconfigge ignorandola. Con calma e pazienza, quindi, occorre spiegare a chi non l'abbia ancora compreso che non è possibile conciliare l'inconciliabile. Tutto ciò, ovviamente, al netto dei mestatori, che non mancano mai e nelle tragedie ci sguazzano, volgendole a loro esclusivo vantaggio. Non saranno i mesi di chiusura necessari a superare l’emergenza pandemica che determineranno l'ignoranza dei ragazzi, come qualcuno sostiene. A prescindere dalla didattica a distanza, che va mantenuta e possibilmente estesa, vi sono molte altre valide opzioni che consentono di fare di necessità virtù in un momento drammatico come questo. Agli studenti delle scuole medie e superiori, per esempio, si prescriva la lettura di un libro a settimana, alternando i romanzi ai saggi di carattere storico e scientifico. Per ogni libro letto dovranno redigere una recensione, che sarà vagliata dai docenti. Anno dopo anno si sta perdendo sempre più l’abitudine di imparare le poesie a memoria, pratica che sopravvive in qualche scuola media ed è del tutto scomparsa nelle scuole superiori. Stupidi presupposti di modernismo, per lo più retaggio della sub-cultura sessantottina, considerano l’apprendimento mnemonico un portato d’altri tempi superato dalla naturale evoluzione della didattica, che privilegia altre forme di apprendimento. Quella naturale evoluzione, per esempio, che alle elementari non associa più il verbo "tremare" a "foglia" ma a "lavatrice" e consente agli studenti delle medie e delle superiori di spostare la scoperta dell’America nell’epoca moderna, la nomina di Hitler a cancelliere nel 1972 (!), l’inizio della Seconda Guerra Mondiale nel 1789 e la fine nel 1965(!) e di profferire tante altre castronerie come quelle evincibili in questo video da giovani che un giorno saranno


adulti e magari riusciranno anche a ricoprire ruoli importanti nella società. Si ritorni all’antico, quindi, e si conferisca alla scuola la dignità perduta. Il succitato programma sarebbe già grasso che cola, ma si può fare ancora di più, naturalmente, dando sfogo alla fantasia e alla creatività. Quanti ragazzi dai 12 ai 18 anni ascoltano musica classica? Se da qualche studio dovesse uscire una percentuale a una cifra non vi sarebbe da stupirsi. Come sarà, rispetto al 2019, un ragazzo che, alla ripresa delle lezioni in presenza, abbia letto almeno una quarantina di libri che non avrebbe mai letto, imparato un po’ di poesie e ascoltato, dopo i necessari approfondimenti, una discreta messe di sinfonie classiche e opere liriche? In Italia si organizzano ogni anno centinaia di concorsi di narrativa e poesia. Non tutti, è noto, sono da prendere in considerazione, ma qualsiasi docente dovrebbe essere in grado di selezionare quelli validi. Ogni scuola, pertanto, potrebbe chiedere ai rispettivi alunni di candidarsi al concorso scelto, offrendo loro una possibilità competitiva e comparativa comunque interessante, a prescindere dal risultato finale. Sarebbe molto grave se non riuscissimo a trasformare un tragico evento in una opportunità per cambiare registro su tutti i fronti, cominciando proprio dalla scuola che deve formare i "potenti" di domani. Cambiare vuol dire che mai più, nelle aule scolastiche e universitarie, si debbano verificare episodi come questo, e questo, e questo, e questo, e questo. Anche questo va censurato, questo ancora e tanto altro di analogo sentore o addirittura peggiore. E nessuno venga a dire che sono episodi isolati. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la società attuale è decadente, che vi è ben poco da salvare e che occorre recuperare stili di vita ancorati al rigore e alla serietà. È inutile esaltare il mito della "didattica in presenza" quando poi nelle scuole si fa tutt’altro. Le dipendenze che avvelenano anima e corpo non sono solo droga e alcool! Ci si rende conto che i ragazzi non riescono a staccarsi dai telefonini e dai videogiochi? È tollerabile che una bimba di dieci anni si ammazzi giocando a Blackout Challenge su Tik Tok? In base a quale logica, se non quella del becero consumismo e del deleterio permissivismo, si concede tanta libertà di azione ai minorenni, anche sul fronte delle bevande alcoliche, senza adottare drastici provvedimenti? È così difficile vietare l’utilizzo degli smartphone al di sotto dei dodici anni e operare controlli stretti su tablet e computer ? È così difficile attuare un piano formativo, sin dalle elementari, per inculcare già in tenera età "altre dipendenze", più salutari e spiegare bene cosa significhi fumare, assumere droghe e ubriacarsi? È così difficile educarli ad ascoltare musica e non rumore, tenendoli il più lontano possibile da tutto ciò che puzzi di trash? È così difficile protestare in modo incisivo affinché la TV non avveleni le menti con insulsi programmi spazzatura? È così difficile imporre regole comportamentali nei Talk Show che privilegino un confronto civile e abiurino la gazzarra cialtronesca di figuri intenti solo a urlare? È così difficile stabilire che in TV e nelle radio occorre osservare un linguaggio decente, senza far ricorso a una parolaccia ogni due secondi? È così difficile capire che certi film, trasmessi in TV, sono veleno per l’anima e impedirne la visione non si chiama censura ma buon senso? Non è difficile correggere anche gravi distonie sociali. Basta volerlo. Nel frattempo si pensi a salvare le vite dei ragazzi e quelle degli adulti con i quali interagiscono: il Covid-19 non guarda in faccia a nessuno.



Un vecchio adagio recita testualmente: “Una giusta causa difesa da uomini sbagliati si trasforma in una causa sbagliata”. Massima quanto mai appropriata per descrivere la rivolta, intrisa di violenza, che ha fatto seguito all’arresto del rapper Pablo Hasél, sostenitore della causa indipendentista con metodi che, di fatto, si trasformano in un boomerang. Nato nel 1988 a Lleida, il rapper è un esponente dell’estrema sinistra aduso a insultare la monarchia, l’esercito e le forze di polizia, più volte imprigionato per l’aperto sostegno ai gruppi terroristici. I primi guai con la giustizia iniziarono nel 2011, quando fu arrestato per aver elogiato, con una canzone, un membro del GRAPO, organizzazione terroristica armata di stampo maoista. Nell'aprile 2014 fu condannato a due anni di reclusione per dieci canzoni in lode a GRAPO, ETA (il più famoso gruppo separatista spagnolo, d’ispirazione marxista- leninista, non più operativo), Rote Armee Fraktion (uno dei gruppi terroristici di estrema sinistra più importanti e violenti nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale), Terra Lliure (organizzazione separatista armata, non più operativa). Nuovo arresto, sempre nel 2014, per aver attaccato, con altri compagni, una bancarella appartenente alla Lleida Identitària, legata al partito di estrema destra Platform for Catalonia. Nel giugno 2016 riversò del detersivo per piatti addosso a un giornalista di TV3. Altra condanna a sei mesi di carcere e 12.150 euro di multa nel giugno 2016, più altri 2.500 euro nel 2017 per aggressione, ostruzione della giustizia, calci e minaccia a un testimone. Nel 2018 ancora lodi sperticate nei confronti dei terroristi di GRAPO e insulti al re Juan Carlos: nuova condanna a due anni. L’ultimo arresto del 16 febbraio scorso ha generato violente sommosse in molte città, culminate sabato scorso col tentato omicidio di un poliziotto, per poco non finito arrosto nel suo veicolo: una ragazza italiana della galassia anarchica lo ha incendiato con una bottiglia molotov ed è stata arrestata insieme con cinque connazionali. In Catalogna è molto forte il sentimento indipendentista, non essendo ritenuto sufficiente il pur alto livello di autonomia concesso nel 1978. Primaria meta turistica del Paese, la regione ha anche il più alto tasso di industrializzazione grazie alle oltre settemila multinazionali presenti sul territorio. Con 7,5 milioni di abitanti, pari al 16% della popolazione spagnola, contribuisce al 19% del Pil. Il reddito pro capite è di 27.663 euro contro 24.100 della media spagnola e la disoccupazione è al 13,2% rispetto al 17,2% del resto del paese.


Le violenze degli ultimi giorni, subito subdolamente sfruttate mediaticamente, sono state condannate con fermezza da tutti gli esponenti dei partiti che si battono per l’indipendenza, con molteplici dichiarazioni protese a prendere le distanze dai manifestanti. Intanto è stato emesso un provvedimento di custodia cautelare, senza possibilità di uscire su cauzione, per i sei italiani, una cittadina spagnola e una francese, tutti sospettati di far del gruppo “violento e organizzato” che ha seminato il panico a Barcellona.


Iniziata ieri la visita di papa Francesco nel Paese da cui partì il patriarca Abramo, padre dei popoli. Prima di salire a bordo dell’Airbus A330 dell’Alitalia il Papa ha incontrato dodici rifugiati iracheni ospiti della Comunità di Sant'Egidio e dalla Cooperativa Auxilium, accompagnati dall'Elemosiniere, cardinale Konrad Krajewski. Subito dopo ha fatto pervenire un messaggio al presidente Mattarella: «Nel momento in cui lascio Roma per recarmi in Iraq pellegrino di pace e di fraternità tra i popoli, mi è gradito rivolgere a lei, signor presidente, il mio deferente saluto, che accompagno con fervidi auspici di serenità e prosperità per il caro popolo italiano». Il Presidente, a sua volta, ha replicato con un messaggio di ringraziamento: «Realizzando un proposito che San Giovanni Paolo II non poté attuare, la Sua presenza in Iraq rappresenta per le martoriate comunità cristiane di quel Paese e dell'intera regione una concreta testimonianza di vicinanza e di paterna sollecitudine». Papa Francesco a Baghdad ha incontrato nel Palazzo presidenziale le autorità politiche e religiose, i rappresentanti della società civile e i membri del corpo diplomatico, esprimendo al presidente Barham Ahmed Salih Qassim la gratitudine per l’invito a compiere la visita apostolica nel Paese «culla della civiltà strettamente legata, attraverso il patriarca Abramo e numerosi profeti, alla storia della salvezza e alle grandi tradizioni religiose dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam». Parlando ai convenuti, poi, non ha mancato di ricordare le sofferenze provocate dal terrorismo e dai conflitti settari «spesso basati su un fondamentalismo che non può accettare la pacifica coesistenza di vari gruppi etnici e religiosi, di idee e culture diverse». Il viaggio del Papa offre lo spunto per ricordare le responsabilità dell’Occidente nella destabilizzazione del Medio Oriente, che portarono alla nascita dell’ISIS, a una feroce recrudescenza del terrorismo islamico, al massacro dei cristiani, questi ultimi costretti ad abbandonare le case e i beni per rifugiarsi, in condizioni disagevoli, nel vicino Kurdistan iracheno, entità federale autonoma dell’Iraq.


Le armi atomiche di Saddam: la madre di tutte le bufale. Premesso che la responsabilità maggiore della Seconda Guerra del Golfo va imputata a Tony Blair e George Bush Jr., con peso maggiore per l’ex presidente USA, non può essere sottaciuto il peso dei servizi segreti italiani, come riportato in un articolo su Repubblica del 24 ottobre 2005, a firma di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo; in un secondo articolo, sempre su Repubblica, il 3 novembre 2005, a firma di D’Avanzo; in numerosi successivi servizi pubblicati dal settimanale L’Espresso e dai media di altri Paesi. In buona sostanza, uno strambo e buffo ex capitano del SISMI (i vecchi servizi segreti militari, sostituiti nel 2007 dall’AISE), allontanato tra il 1976 e 1977 per “difetti di comportamento”, arrestato nel 1985 per estorsione e nel 1993 a causa di assegni rubati, nel 1999, non si sa come, risulta ancora tra i “collaboratori” dell’intelligence. Forse suggestionato da troppi film di spionaggio, decide di dedicarsi al pericoloso gioco del “doppiogiochismo”, facendosi assoldare anche dall’intelligence francese: vende ai francesi notizie sugli italiani e agli italiani notizie raccolte dai francesi. Avendo bisogno di soldi, grazie a complicità e a eventi qui omessi per amor di sintesi, inizia a mettere a punto il “pacco” delle armi di distruzione di massa con uno strampalato dossier nel quale si parla di un protocollo d’intesa tra i governi del Niger e dell'Iraq per la fornitura di uranio dal primo Paese al secondo, facendo addirittura confusione nell’indicazione dei ministri. Lo 007 italiano vende la bufala ai francesi e ne ricava un po’ di soldini che subito “investe” in una deliziosa vacanza in Costa Azzurra, sua meta turistica preferita. «Fino a questo punto - scrive D’Avanzo - siamo a una truffa degna di Totò, Peppino e la Malafemmina». I francesi, infatti, cestinano il dossier senza dargli peso: a prescindere dagli ottimi rapporti con una ex colonia, della quale sanno tutto quel che vi è da sapere, non possono non considerare che un vero agente segreto non avrebbe mai confuso dei ministri. Tutto finito, quindi? Macché! Purtroppo arriva quel tragico 11 settembre 2001 e Bush incomincia a pensare che sia giunto il momento di chiudere la partita con Saddam, lasciata a metà da suo padre che, dopo aver vinto la guerra nel 1991, gli consentì di restare al potere. Per scatenare una guerra, però, vi è bisogno di un alibi e così Bush cerca di coinvolgere Saddam nell’attentato alle Torri gemelle, nonostante per la CIA, e non solo, fosse ben chiaro che l’unica responsabilità ricadeva su Al Qaida. I Governi alleati vengono subissati di richieste per reperire prove contro Saddam. In Italia il capo del Governo è Berlusconi, che chiede al neo direttore del SISMI, Nicolò Pollari, di creare le premesse affinché si dia una mano a Bush e l’Italia possa ritagliarsi un ruolo importante sullo scenario internazionale. Richieste sempre più pressanti arrivano anche dal capo della CIA a Roma, Jeff Castelli: servono prove contro Saddam e servono subito. La Casa Bianca insiste su tutti i fronti affinché si trovino: «L'assenza delle prove non è la prova dell'assenza», filosofeggia Donald Rumsfeld, segretario della Difesa USA, con gli alti dirigenti della CIA. In questo clima di caccia alle streghe al SISMI si rendono conto che il venditore di fumo Martino e i suoi complici che lo hanno coadiuvato nella stesura del dossier (cestinato due anni prima dai francesi, è bene ricordarlo) possono ritornare utili. Il


dossier viene inviato ai potenti ed efficientissimi servizi segreti inglesi (MI6), con la precisazione che proviene da “fonte attendibile”. E così inizia l’escalation. Per correttezza va precisato che, nel febbraio 2006, con una lunga relazione del comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di stato, presieduta dal deputato Enzo Bianco, si tentò di smentire il coinvolgimento del SISMI come prima fonte della bufala. Fatto sta che Toni Blair, capo del governo inglese, informa subito Bush, il quale non può credere ai suoi occhi: finalmente ha le prove che Saddam si sta armando con armi di distruzione di massa grazie alla fornitura assicurata dal Niger! Nella CIA, però, vi è una solerte agente, Valerie Plame, che si occupa proprio della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Ha molti collaboratori sotto copertura in Iraq e sa bene che Saddam non ha nemmeno i tric trac per le festività di fine anno! Il caso vuole che sia sposata con Joseph Wilson, buon conoscitore del Niger avendovi svolto il ruolo di ambasciatore per molti anni, il quale si fa una risata colossale quando apprende la notizia, ben sapendo quanto sia impossibile che delle forniture di uranio, o di qualsiasi altro materiale utile a costruire armi atomiche, possano sfuggire ai rigidi controlli, ufficiali e non, considerati i sofisticati mezzi a disposizione dei governi occidentali. Nondimeno la moglie gli chiede di andare a indagare in Niger e l’ex ambasciatore, “con il pieno assenso del governo e della CIA” (attenzione a questi dati), si reca nel Paese africano, dove non può che trovare piena conferma delle sue supposizioni. Ritorna negli USA, redige un rapporto e tranquillizza tutti: non vi è stata nessuna vendita di materiale utile alla fabbricazione di armi micidiali; le notizie ricevute da Bush sono da considerare destituite di ogni fondamento! Bush, però, ignora il rapporto di Wilson perché ha proprio voglia di farla, quella guerra, per ragioni che nulla hanno a che vedere con il terrorismo. Nel mese di agosto 2003 organizza una squadra per “condizionare” l’opinione pubblica sulla necessità di punire Saddam. Milioni di persone si convincono che il tiranno di Baghdad c’entri anche con l’attentato dell’11 settembre 2001. La guerra viene sempre più percepita come utile e ineluttabile. Valerie Plame si affanna per convincere i superiori che stanno prendendo un grosso abbaglio ma, come spesso succede in simili circostanze, tutti fanno spallucce: nessuno ha voglia di inimicarsi il Governo e il Pentagono: prima di tutto, la carriera! Si arriva, quindi, al 28 gennaio 2003, quando Bush, nel discorso sulla Stato dell’Unione, pronuncia le fatidiche sedici parole bugiarde: “The British government has learned that Saddam Hussein recently sought significant quantities of uranium from Africa”. Il 20 marzo 2003 gli USA attaccano l’Iraq e nel luglio successivo l’ex ambasciatore Wilson, in un editoriale sul New York Times, rivela che le prove addotte da Bush sono una bufala. La guerra, però, oramai non si può più fermare. Va fermata, invece, Valerie Plame, costretta ad abbandonare la CIA dopo che la Casa Bianca rivelò pubblicamente il suo ruolo, bruciandola. La guerra in Iraq costò tredicimila morti alla coalizione internazionale; venticinquemila furono i soldati iracheni uccisi; 1.220mila le vittime civili. Nel dicembre 2003 Saddam fu catturato e dopo tre anni di prigione fu impiccato. Nel maggio


2003, intanto, Lewis Paul Bremer, che governava l’Iraq in nome e per conto di George Bush, emise due decreti: messa al bando del partito Baath (quello di Saddam) e smantellamento dell’esercito. Oltre quattrocentomila militari si trovarono esclusi da ogni ruolo e privati anche del trattamento pensionistico. Il risentimento fu forte e costoro iniziarono a organizzarsi in gruppi paramilitari, ostili agli USA, ai loro alleati e al governo Scita imposto dall’Occidente. Ecco nascere quindi i primi germi del futuro Stato Islamico, che dopo alcuni incisivi “prodromi”, vedrà la luce ufficialmente il 29 giugno del 2014, con la proclamazione di Abu Bakr al-Baghdadi a Califfo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il Papa nella chiesa colpita dalla furia omicida dei terroristi islamici Dopo il discorso nel palazzo presidenziale il Papa si è recato nella cattedrale di Nostra Signora della Salvezza, dove ha ricordato l’attentato del 2010, che provocò quarantotto morti e oltre cento feriti. Toccanti le sue parole: «La loro morte ci ricorda con forza che l'incitamento alla guerra, gli atteggiamenti di odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi». Toccanti per tutti ma non per i potenti della Terra, purtroppo.


La pandemia ha relegato in secondo piano l’attenzione sui flussi migratori, già preda di una sorta di oblio mediatico insorto dopo l’addio di Salvini al Viminale. Nel nostro Paese, infatti, si è soliti conferire ai vari problemi un livello di gravità a seconda delle persone chiamate a risolverlo: se inefficienti, ma gradite alla classi dominanti, palesi e occulte, il problema magicamente sparisce nonostante la crescita esponenziale dovuta proprio all’inefficienza dei risolutori. Di fatto, limitandoci al solo 2020, i dati che emergono lasciano chiaramente intendere il disfacimento dello Stato al cospetto dell’annoso fenomeno: 19.194 i clandestini sbarcati fino al 30 agosto e circa trentamila in totale, nel corso dell’anno. Per lo più provengono da Tunisia, Algeria, Marocco, Bangladesh, Costa d’Avorio, Pakistan, Sudan: non fuggono da guerre o carestie, pertanto, e pur nella considerazione del legittimo desiderio di costruirsi un futuro migliore, non avrebbero diritto, a norma di legge, a nessun trattamento diverso dal respingimento o dall’espulsione immediata. I flussi hanno fatto inevitabilmente registrare un’ampia presenza di soggetti positivi al Covid-19, anche se i dati certi mancano e si tende a eludere il problema o addirittura a gestirlo in modo mistificatorio, al fine di mitigarne la portata. Delle possibili azioni di contrasto, logiche ed efficaci, se ne discute da sempre e non mancano le proposte sensate che, se attuate, potrebbero contenere sensibilmente il problema o risolverlo in toto. Parimenti non sono pochi coloro che hanno indagato sulle ONG mettendone in luce gravi distonie operative, configurabili come veri e propri reati: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e collusione con i trafficanti di esseri umani che operano dalla Libia. Denunce e inchieste, però, sono rimaste lettera morta e persiste quell’atteggiamento di falso buonismo deleterio soprattutto per i diretti interessati, i cui sogni s’infrangono su una triste realtà che li trasforma in emarginati, schiavi, mano d’opera per la criminalità e in manna dal cielo per i cinici gestori dei centri di


accoglienza. È perfettamente inutile, quindi, continuare a battere su questo tasto perché è come parlare al vento. Si può fare ricorso, pertanto, anche se a titolo provocatorio, al cosiddetto “pensiero laterale” che consente di individuare la risoluzione di un problema partendo da una prospettiva che escluda il tradizionale metodo logico, istintivamente da ciascuno utilizzato, che magari ne offre molteplici, senza però che nessuno di esso abbia effettiva possibilità attuativa per i più svariati motivi. I Paesi europei, come noto, hanno lasciato praticamente da sola l’Italia nel fronteggiare i flussi provenienti via mare, comportandosi in modo vergognoso. Se si riuscisse, pertanto, a trovare il modo di metterli con le spalle al muro, si otterrebbe un risultato che potrebbe sorprendere per efficacia e tempistica. L’isola di Lampedusa, primario e martoriato approdo dei barconi che trasportano i migranti irregolari, ha una superficie di 20,2 Km2 (il doppio di Capri, poco meno della metà di Ischia) e circa seimila abitanti. L’idea “indecente” è la seguente: suddividere l’isola in due entità territoriali separate da una linea di confine che, partendo da Capo Ponente e terminando a Cala Creta (poco meno di otto chilometri in linea d’aria), consenta di definire una superficie identica tra la zona nord e quella sud. Le due entità territoriali, quindi, dovrebbero essere vendute a Francia e Germania. I residenti potrebbero scegliere tra tre opzioni: restare nell’isola, acquisendo la nuova cittadinanza; accettare un trasferimento in un comune del territorio nazionale con forte sussidio dello Stato e mantenimento dell’eventuale impiego pubblico; restare nell’isola mantenendo la cittadinanza italiana, come qualsiasi lavoratore che risieda in un Paese dell’Unione. Dopo tutto si tratta di poche migliaia di persone ed è lecito ritenere che in maggioranza deciderebbero di restare nell’isola. Lo Stato che acquisti la zona nord potrà realizzare un secondo porto e magari anche un secondo aeroporto, fatta salva la possibilità di trovare un accordo per suddividersi quello già attivo. La presenza dei due Paesi nel Mediterraneo, con dislocazione di un contingente delle rispettive Forze Armate, sicuramente creerebbe le premesse per un blocco delle partenze e un sostanziale cambio di rotta della politica comunitaria in tema di gestione dell’immigrazione illegale! Francia e Germania potrebbero rifiutare la proposta, ovviamente, e in questo caso, volendo essere ancora più “provocatori”, il pensiero laterale suggerisce una soluzione addirittura più efficace: vendere l’isola agli Stati Uniti d’America, che di certo non si farebbero pregare due volte per mettere piede nel Mediterraneo senza essere “ospiti” dei Paesi alleati e per giunta senza alcuna necessità di deturpare il territorio costruendo un secondo porto e un secondo aeroporto! Vi è qualcuno, ammesso che ciò fosse possibile, capace di dubitare che nel giro di un paio di mesi di barconi alla deriva e di ONG in cerca di “porti sicuri” non si sentirebbe più parlare?


La Consulta ha stabilito che l’ergastolo ostativo è incompatibile con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Occorre un intervento legislativo e il Parlamento ha un anno di tempo per inventare un “ergastolo” che non contempli il concetto di “fine pena mai. Vediamo di cosa parliamo. Ergastolo ostativo Previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prescrive il particolare tipo di regime penitenziario che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati particolarmente riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, individuati al comma 1 di tale norma, a meno che il soggetto condannato non collabori con la giustizia. La pena, quindi, nel caso di mancata collaborazione, viene scontata interamente in carcere. Il principio “fine pena mai” prende in massima considerazione la pericolosità sociale del detenuto in conseguenza della tipologia e gravità del reato commesso, sottraendo al giudice il potere di valutare caso per caso l’accesso ai benefici penitenziari. Articolo 3 Costituzione “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Articolo 27 Costituzione “La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Articolo 3 Dichiarazione universale diritti umani “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.


COSA HA DECISO LA CONSULTA I giudici hanno rilevato che la “vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. In poche parole s’intende snaturare la ratio dell’ergastolo ostativo che, sottraendo al giudice la possibilità di intervenire caso per caso sulla concessione dei benefici carcerari, mette al riparo il Paese dalla presenza di soggetti per i quali la lingua italiana non ha ancora coniato aggettivi idonei a descriverne la pericolosità. Ciò premesso, i giudici della Consulta, bontà loro, si sono resi conto che “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Tradotto in italiano: “consentirebbe a molti detenuti di cui sopra (quelli per i quali non esistono aggettivi) di accedere subito ai benefici carcerari, con tutto quel che ne conseguirebbe, cosa facilmente intuibile”. La palla, quindi, passa al Parlamento, che deve modificare la norma entro maggio 2022. REAZIONI POLITICHE E SOCIALI L’ergastolo ostativo fu introdotto dopo le tragiche morti dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e si è rivelato un efficace strumento di contrasto alla mafia grazie ai tanti pentiti che, pur di evitare il carcere a vita, hanno deciso di collaborare con la giustizia, spezzando ogni legame con l’ingombrante passato. In Parlamento, pertanto, le reazioni dei politici riflettono gli umori e le sensibilità dei rispettivi elettorati. Ferma opposizione alle decisioni della Consulta sono pervenute dal Movimento 5Stelle, dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Ambiguo ma tendente al compiacimento l’atteggiamento del PD, come ben si evince dalle dichiarazioni di Andrea Bazoli, capogruppo in commissione Giustizia alla Camera: «Occorrerà leggere con attenzione l’ordinanza della Corte, e poi rapidamente intervenire in modo puntuale, chirurgico e calibrato, per rendere la speciale disciplina dell’ergastolo applicabile agli appartenenti alla criminalità organizzata coerente con i principi costituzionali richiamati dalla Corte»; tradotto in italiano: se la Costituzione dice che la dignità sociale di un cittadino probo e onesto vale quanto quella degli assassini di Falcone e Borsellino ne dobbiamo prendere atto e regolarci di conseguenza. Molto duro il commento di Stefano Paoloni, segretario generale del Sap (Sindacato Autonomo di Polizia: «É gravissimo solo pensare che criminali che si siano resi responsabili di reati gravi legati a fenomeni mafiosi o terroristici nazionali ed internazionali, non essendosi pentiti e non collaborando dunque con la giustizia, possano beneficiare di alcuni benefici, tenuto conto della loro assoluta pericolosità sociale. É ingiusto che tali soggetti possano beneficiare di prerogative quali semilibertà, permessi per lavoro esterno o addirittura permessi premio. Sottolineo che tali criminali potrebbero ritrovarsi in semilibertà e magari incontrare quelle stesse persone delle quali sono stati i carnefici. Questo sarebbe oltremodo obbrobrioso». CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Ciascuno si faccia delle domande e si dia una risposta. L’autore di questo articolo si astiene per non incorrere nella violazione dell’articolo 290 del Codice Penale,


concedendosi una semplice osservazione, rivolta soprattutto ai giuristi, sull’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani, ritenuta “violata” dall’attuale normativa. Se ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona, come si concilia questo assunto con la messa in libertà di soggetti che costituiscono una palese minaccia per la vita, la libertà e la sicurezza di ciascuno?


Incipit Dal 1988, ogni 24 aprile, si celebra il “Giorno del Ricordo per il genocidio armeno”, una serie di massacri da parte dei turchi, che causarono un milione e mezzo di morti. In Armenia la data si configura come festività nazionale e lo stesso dicasi per la Repubblica dell'Artsakh, meglio nota come Nagorno Karabach, almeno fino allo scorso anno. Quest’anno niente celebrazioni pubbliche per gli armeni ivi residenti, essendo il territorio passato all’Azerbaigian a seguito della guerra conclusasi nel novembre 2020, combattuta e vinta grazie al determinante aiuto delle milizie jihadiste e della Turchia. Oggi, a Yerevan, al cospetto del Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio, centinaia di migliaia di persone pregheranno non solo per i loro nonni, ma anche pe le cinquemila vittime della recente guerra, tra militari e civili, e per i settemila caduti delle due precedenti guerre, combattute dal 1992 al 1994 e nel 2016. Una ferita sempre aperta Il genocidio armeno fu il primo grande massacro di civili del XX Secolo. Nell’impero ottomano, oramai prossimo alla dissoluzione, si era affermato un progetto che vedeva al centro le popolazioni turche, omogenee per etnia, religione, lingua e cultura. Per gli armeni, minoranza cristiana nel firmamento islamico, non vi era più posto. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 iniziò lo sterminio. Prima i militari e l’élite intellettuale e imprenditoriale, poi i vecchi, le donne, i bambini, allontanati a forza dai luoghi dove vivevano da millenni, deportati nei deserti di Siria e Mesopotamia e lasciati morire di fame e di sete. Oltre 1.500.000 le vittime, cui vanno aggiunte le decine di migliaia trucidate dal 1890. Oggi l’Armenia conta poco più di tre milioni di abitanti, che portano nel sangue il retaggio di una tormentata storia. Ottenuta l’indipendenza dall’Urss nel 1991, aveva risolto nel 1994 il lungo conflitto con l’Azerbaigian per il controllo dell’Artsakh, enclave in territorio azero, assegnata al governo di Baku da Stalin. La nuova guerra, scatenata dall’Azerbaigian nel settembre 2020, ha visto soccombere dopo soli due mesi il modesto e mal armato esercito armeno, che comunque ha combattuto con grande spirito di sacrificio per difendere un territorio ritenuto sacro per la storia millenaria che lo lega in modo indissolubile al popolo armeno.


Il genocidio armeno rappresenta una delle pagine più buie e atroci della storia dell’umanità, sulla quale ricade una scarsa attenzione mediatica e culturale. La propensione diffusa è quella di “dimenticare”, lasciando prevalere i molteplici interessi nei confronti della Turchia, che proprio non ne vuole sapere di ammettere le responsabilità dei “Giovani Turchi”. Storia analoga a quella delle foibe, per anni dimenticate al fine di non dispiacere a Tito, che faceva comodo all’Occidente in chiave anti Urss. In Turchia, addirittura, si rischiano fino a tre anni di carcere solo se si parla di genocidio armeno. Sono agghiaccianti le argomentazioni addotte per negare ciò che è testimoniato da migliaia di foto, da riprese video e dai ricordi dei sopravvissuti. La morte di migliaia di persone durante le deportazioni, che loro chiamano “trasferimenti”, non può essere considerata genocidio perché in parte si è provveduto a eliminare i filorussi (la Russia sosteneva la causa armena per l’ottenimento dell’indipendenza) e tanti sono morti di fame e di freddo. Per cento anni il genocidio è stato sistematicamente ignorato, cancellato dalla memoria storica come una pagina fastidiosa, da strappare per non turbare le coscienze. “Ma chi sono questi armeni? Dove sono? Cosa vogliono?” Si rispondeva infastiditi a chi ne parlava, senza rendersi conto di emulare qualcuno che pensava più o meno le stesse cose quando affermò, prima di avviare il suo, “che nessuno si ricordava del genocidio degli armeni”. Era il 1939 e quel qualcuno si chiamava Adolf Hitler. Sembrava impossibile che il mondo si scuotesse dal suo torpore e che la terribile “ragion di Stato”, da sempre complice di tutti i metz yeghern che la storia ricordi, fosse sconfitta. Troppo forte la Turchia, per contraddirla. Troppo piccola e debole l’Armenia, perché potesse indurre il mondo ad accorgersi di essa, nonostante la sua millenaria storia. E invece! Nel 1936, Mario Bergoglio, ferroviere astigiano emigrato in Argentina in cerca di fortuna, e sua moglie Regina Maria, mettono al mondo un pargolo cui “impongono” il nome di Jorge Mario. Settantasette anni dopo quel pargolo ascende al soglio di Pietro “imponendosi” il nome di Francesco. Non ha alcun timore dei turchi e alla ragion di Stato antepone quella dell’onore e della verità storica. Il 12 aprile 2015, durante una toccante messa celebrata con il rito armeno, cambia la storia. Il mondo fu costretto a scoprire il genocidio armeno e a nulla servirono le feroci reazioni di Erdogan, che intimò di “mai più ripetere tale termine”, in un delirio che sconfinava nel ridicolo, se non fosse stato tragico. Come birilli iniziarono a cadere le resistenze dei riluttanti, anche di coloro che con la Turchia hanno solide e consolidate relazioni: militari, economiche, diplomatiche, culturali. L’allora presidente degli USA Obama, con un arzigogolato ghirigoro sintattico, riuscì a non pronunciare la parola genocidio, sostituendola con massacro, enfatizzando un concetto affinché fosse chiaro il messaggio subliminale che conteneva: “Caro Erdogan hai chiesto di non utilizzare la parola genocidio e ti accontento giacché siamo alleati, ma non tirare troppo la corda e datti una mossa perché sei rimasto isolato. Se la corda si spezza, sei tu che cadi”. Due giorni dopo anche Angela Merkel telefona al premier turco Ahmet Davutoglu e gli dice ciò che era stato sempre taciuto


nel rispetto dei solidi rapporti tra i due stati: «Il governo tedesco considera il massacro degli armeni compiuto dall’impero ottomano cento anni fa come un genocidio». L’Austria si accoda, senza eccezione alcuna: i leader dei sei maggiori partiti diramano un comunicato in cui si spiega che, in qualità di ex alleato dell’Impero ottomano, «l’Austria ha il dovere di riconoscere e condannare questi orribili eventi come genocidio». Grazie a Papa Francesco il mondo sembra scuotersi e in Armenia divampa la speranza. Speranza che, però, s’infrange di nuovo sui terribili scogli di una realtà che non consente cambiamenti radicali. Esauritasi la spinta propulsiva generata nel 2015, tutto torna come prima e le priorità, in quella tormentata area geografica che suscita molti appetiti, tornano ad essere altre, tutte nocive per l’Armenia, costretta a subire l’ennesimo schiaffo nel 2020. Il turco miete “Il Turco miete. Eran le teste Armene che ier cadean sotto il ricurvo acciar: Ei le offeriva boccheggianti e oscenea i pianti de l’Europa a imbalsamar. Il Turco miete. In sangue la Tessaglia ch’ei non arava or or gli biondeggiò. Aia - diss’ei - m’è il campo di battaglia, e frustando i giaurri il trebbierò. Il Turco miete. E al morbido tiranno manda il fior de l’elleniche beltà. I monarchi di Cristo assisteranno bianchi eunuchi a l’arèm del Padiscià”. ( Giosuè Carducci – “Il turco miete” – 1897) La poesia è stata scritta nel 1897 e ovviamente non ha nulla a che vedere con il genocidio del 1915. Anche in essa, però, si parla di “teste armene che cadono”. Perché? Perché i turchi, dopo averli sempre discriminati, hanno iniziato a massacrare gli armeni già nel 1878, subito dopo la batosta subita nella guerra scoppiata l’anno precedente con la Russia, a seguito della quale l’impero ottomano perse molti territori. Nel “Trattato di Santo Stefano” i russi imposero anche la concessione dei diritti fondamentali alla minoranza armena cristiana – circa due milioni – con quanta gioia da parte dei turchi è facilmente immaginabile. Il trattato, infatti, divenne carta straccia, generando le vibrate proteste degli armeni, che ne reclamavano il rispetto. Il governo turco, a sua volta, fomentò la violenza dei cittadini contro “i cristiani armeni”, esortandoli espressamente a compiere qualsiasi atto di barbarie. Gli eccidi maggiori si ebbero dal 1895 al 1897 e generarono circa 300mila vittime. La notizia dei massacri fece scalpore in tutto il mondo e fu anche disposta “una commissione d’inchiesta” (ma guarda un po’…) composta da rappresentanti turchi, russi, inglesi, francesi. Inutile dire come si concluse. La poesia di Carducci, nella parte iniziale, fa riferimento proprio all’eccidio di quegli anni, e fu composta dopo lo scoppio della guerra Greco-Turca, fomentata dalle rivolte dei cretesi, desiderosi di sganciarsi dalla dominazione ottomana e ricongiungersi alla madre patria. È appena il caso di ricordare, per tale evento, il deplorevole comportamento delle potenze occidentali, che lasciarono la Grecia in balia della soverchiante superiorità ottomana. Solo dei “volontari” accorsero da ogni parte d’Europa a combattere nel nome della libertà e a sostegno di un popolo che tanto aveva dato alla cultura occidentale. Un manipolo di italiani fu guidato dal figlio di Garibaldi, Ricciotti, subendo pesanti perdite, la più famosa delle quali fu il deputato Antonio Fratti, poi celebrato da Pascoli nell’ode “Ad Antonio Fratti”.


OGGI SIAMO TUTTI ARMENI In Italia vive una nutrita comunità armena, composta da persone fantastiche, culturalmente di altissimo profilo, tutte bene inserite in prestigiosi contesti sociali. A loro, e ai connazionali che vivono in quella meravigliosa Terra alle pendici dell’Ararat, giunga un caloroso abbraccio da parte di chi non aspetta altre altro di vederli tornare a danzare, ancora una volta, al cospetto del Menq enq mer sarerè, su quella collina dove ora, ignominiosamente, anche per le colpe di noi occidentali, danzano gli azeri.


L’Azienda ospedaliera San Camillo Forlanini, insieme con l’associazione Genderlens e Agedo (genitori di bambini e adolescenti con varianza di genere), ha elaborato le linee guida da adottare nelle scuole per “promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione”. L’ufficio scolastico regionale del Lazio, oltre a pubblicarle sul proprio sito (Strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere: trasmissione Linee guida elaborate dal Servizio per l’Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica (SAIFIP) dell’Azienda Ospedaliera San Camillo), le ha diramate ai dirigenti scolastici affinché siano recepite dai docenti, per i quali è previsto anche un corso di formazione nel prossimo mese di settembre. Le linee guida (10 pagine con ricca bibliografia), che di fatto anticipano alcuni contenuti del controverso e ampiamente dibattuto disegno di legge Zan, oltre a spiegare il concetto di “varianza di genere”, illustrano vari correttivi che, a giudizio degli estensori, dovrebbero consentire la tutela «di quei minori che non si sentono a loro agio nel genere assegnato alla nascita sulla base del loro sesso biologico, oppure che non si conformano con le regole sociali che tale assegnazione suppone». I documenti ufficiali, per esempio, non devono contemplare solo la casella “maschio” e “femmina” ma «garantire che gli studenti con varianza di genere siano in grado d’identificarsi in modo coerente con la loro identità di genere, piuttosto che essere costretti a scegliere una casella che non li descrive». Non è indicato il termine da apporre nella terza casella, che forse sarà comunicato ai docenti durante il corso. Si prevede, poi, la “carriera alias” (è scritto Carrera Alias due volte e non si comprende se si tratti di un refuso o di un neologismo. N.d.R.) per tutelare la privacy e l’identità del transgender, che potrà imporre di essere chiamato con il nome che preferisce, indicando anche il relativo pronome. Ogni scuola dovrà predisporre dei bagni e degli spogliatoi solo per i transgender “non connotati per genere”. Stando a quanto si legge andrebbero bene i bagni dei professori.


Al momento, a livello politico, emerge la sola reazione della Lega che, senza tanti giri di parole, ha invitato i dirigenti scolastici del Lazio a tenere giù le mani dai bambini. L’argomento è delicato – lo è sempre quando si tratta di minori – e pertanto è il caso di parlarne con calma, dopo aver contato fino a dieci, poi fino a venti e poi fino a trenta, per sedare la voglia di utilizzare termini che, ancorché inappropriati, sgorgano spontanei dal cuore e non sono certo gratificanti per i fantasiosi autori di cotanta stupidità normativa. Partiamo da lontano e cerchiamo di comprendere, soprattutto, le molle psicologiche che spingono taluni individui a pensare certe cose e ad agire di conseguenza. Nel 1938 in Italia furono varate le leggi razziali. Fino a quel momento, fatti salvi episodi marginali, fisiologici in qualsiasi società, gli ebrei erano perfettamente integrati e nessuno si sognava di emarginarli. Ciascuno viveva serenamente la propria vita; in tanti lavoravano anche in contesti molto importanti, ricevendo gratificazioni e rispetto. All’improvviso, quelle stesse persone che non disdegnavano di frequentare amici ebrei, di fare acquisti nei loro negozi, di mandare i figli alle scuole dove loro insegnavano, scoprirono che gli ebrei erano “una razza inferiore” con la quale non si poteva e non si doveva avere relazioni. Fior di accademici si precipitarono a scrivere corposi saggi per spiegare le nefandezze di quel popolo e sui giornali iniziò una vera e propria gara di antisemitismo, con articoli allucinanti e farneticanti. Parliamo, quindi, di persone culturalmente evolute, laureati, studiosi, docenti, accademici, scienziati che, fino al 5 agosto 1938, data in cui fu varato il manifesto sulla razza, trovavano lecito relazionarsi amorevolmente con gli ebrei, per poi scoprire, dans l’espace d’un matin, che esistono le razze, che gli italiani sono “ariani puri” e rimontano a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio, che è giunto il momento di proclamarsi “francamente razzisti”, che è necessario distinguere i mediterranei d’Europa (occidentali) dagli orientali e dagli africani, che i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo. Vengono i brividi, ovviamente, nel leggere il manifesto, i nomi dei dieci scienziati che lo hanno varato e delle decine di migliaia di altri illustri personaggi che lo hanno sottoscritto senza colpo ferire. Non essendo possibile nemmeno con la fantasia di Asimov ritenere che tutte quelle persone avessero colmato in pochi giorni “presunte” lacune culturali maturate in decenni di severi studi, è facile arguire che “i segnali del tempo” abbiano prodotto un guasto sociale di grande rilevanza, inducendole – attenzione, è questo il punto focale – non tanto a “mentire sapendo di mentire” (la qual cosa, comunque, sarà “anche” accaduta), ma a “convincersi” della bontà di quanto asserito, per assecondare l’indirizzo politico dominante. Questa distorsione mentale, che di fatto è una psicopatologia, fa sì che in talune circostanze la mente riesca a creare i presupposti per indurre ad accettare l’inaccettabile. Persone normali, ragionevoli, addirittura dotate di equilibrio e buon senso, se non munite di uno speciale antidoto che prescinde dalla “preparazione culturale” e attiene esclusivamente alla cultura (intesa quindi nella sua accezione più nobile, che va ben al di là di quanto appreso


studiando sui libri), al carattere e al DNA (retaggio ancestrale), si lasciano travolgere dal vento degli eventi e predicano con convinzione ciò che, in altre circostanze, avrebbero considerato assurdo, abominevole, ripugnante, né più né meno di come fecero coloro che del succitato antidoto erano detentori, a cominciare da Pio XI: «Ma io mi vergogno... mi vergogno di essere italiano. E lei padre [il gesuita Tacchi Venturi], lo dica pure a Mussolini! Io non come papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza». Le nefaste dittature del XX secolo, di fatto, si sono potute affermare senz’altro grazie all’abbondanza delle “pecore stupide”, ma non sarebbero mai riuscite nell’impresa, tuttavia, se non vi fosse stato il sostegno, il forte sostegno, delle “pecore intelligenti”. Traiamo insegnamento dalla storia, pertanto, altrimenti smettiamola di ripetere un giorno sì e l’altro pure che è “maestra di vita”. Oggi, a ben guardare, si registra un clima “malsano” non dissimile da quello che rese plausibili le leggi razziali. Non importa la sostanziale diversità del contesto perché l’effetto di un’esaltazione è sempre lo stesso e non è mai positivo. Allora l’illusione della “Grande Italia” rese possibile un abominio; oggi, la crescente propensione all’illusorio raziocinio illuminista, proteso a regolamentare ogni cosa nonostante fosse chiaro da molto tempo che la natura dell’uomo è “irrazionale” ed è all’interno di questa irrazionalità che ci si deve muovere, in modo razionale, per armonizzare i rapporti tra gli individui, induce a partorire norme che si trasformano in un boomerang soprattutto per coloro che ne dovrebbero essere i beneficiari. Possibile che non ci si renda conto dell’impossibilità materiale di rispettare i precetti prescritti nelle linee guida? Che non è possibile garantire l’anonimato dei transgender? Che un terzo bagno li esporrebbe ad atti di bullismo da parte dei soliti idioti che non mancano mai in nessuna scuola? Che anche rivolgersi con un nome di donna a un maschietto e viceversa, usando lui e lei all’inverso, li esporrebbe all’inevitabile sarcasmo dei compagni, proprio perché è impossibile tutelare la privacy e tener celato il “sesso biologico?”. Ma vogliamo scherzare? Altro che “giù le mani dai bambini!” Egregi signori, affettuosamente, datevi all’orticoltura e sfogatevi con finocchi e broccoli: avete partorito una mostruosità. Anche se in buona fede, sempre mostruosità resta. Nelle scuole si insegni il rispetto per il prossimo; si educhino i ragazzi all’impegno serio e produttivo; si puniscano “severamente” gli atti di bullismo, cosa che oggi non avviene e, soprattutto, la si smetta con quella leggerezza didattica che consente ad autentici somari di proseguire gli studi fino alla laurea. Rigore, severità, serietà: sono questi gli ingredienti per “tutelare tutti i ragazzi”, indipendentemente dal loro sesso. I transgender, a quell’età, vivono già un profondo disagio esistenziale che proprio non può e non deve essere amplificato dalle scellerate scelte degli adulti. Li si accompagni con saggezza e amore verso la maturità, affinché possano decidere serenamente sul percorso da intraprendere. Nel periodo scolastico, però, non li si esponga a inutili “morbosità” e, se necessario, si spieghi loro, magari con l’aiuto di


uno psicologo, che per il loro bene è meglio utilizzare i bagni nel rispetto del sesso naturale e non di quello percepito e non è opportuno alterare i nomi. Li si aiuti a vivere serenamente la loro condizione. Solo in questo modo, divenuti grandicelli, saranno in grado di gestirla con un sorriso sulle labbra e senza timori.


PREMESSA Non c’era bisogno della pandemia per far comprendere che lo Stato sociale rappresenti l’unica meta perseguibile per garantire accettabili condizioni esistenziali, ammesso e non concesso che lo si sia capito davvero, cosa circa la quale è lecito nutrire molti dubbi. Più evidente, invece, al netto delle chiacchiere strumentali, è il progressivo fallimento dell’idea sociale, tragica conseguenza di due gravi negatività: trasferimento dei veri poteri dalla politica alla finanza transnazionale e massiccio incremento della corruzione a ogni livello. Limitatamente all’Italia si deve aggiungere il totale fallimento del decentramento amministrativo, che vede nelle regioni uno strumento utile solo a far arricchire chi le gestisce. Masse sempre più amorfe e confuse si limitano a sfogare la rabbia sui social, ripetendo a mo’ di mantra lo stantio ritornello “stiamo precipitando verso il fondo del baratro”, sistematicamente derise dai tanti fetentoni che possono permettersi di urlare gaudenti “tutto va bene, madama la marchesa” e poi prodursi nel gesto dell’ombrello. Il fondo, di fatto, lo abbiamo raggiunto da un pezzo ed è nelle sue acque putride e melmose che annaspiamo. Eppure, a ben guardare, la strada per la soluzione dei problemi sociali era già stata asfaltata da Socrate e Platone: sarebbe bastato manutenerla e adeguarla al fluire dei tempi per evitare ogni problema, ma è chiaro che l’impresa deve essere apparsa inconcepibile più ancora che difficile. CONFUSIONE CONCETTUALE Se chiedessimo a chicchessia di spiegare cosa preveda uno Stato sociale, per lo più sentiremmo concetti che descrivono uno Stato assistenziale. I più preparati parleranno del welfare state e delle tante conquiste ottenute dal XVII secolo ai giorni nostri su vari fronti: sanità, pubblica istruzione, indennità per i meno abbienti. La sostanza non cambia: i provvedimenti, pur avendo una matrice politica, vengono recepiti nella loro essenza economica. Uno Stato sociale, in realtà, è una cosa ben diversa da quello assistenziale, anche se quest’ultimo contemplasse so-


luzioni innovative e senz’altro valide come il reddito di cittadinanza (al netto delle note distonie che nel nostro Paese lo inficiano, rendendolo, di fatto, inutile e dannoso) e lo svolgimento di lavori socialmente utili retribuiti. Solo in pochi, quindi, saprebbero rappresentarlo adeguatamente, sancendo il primato dell’Uomo sullo Stato, quello della Politica sull’economia e retrodatando i suoi prodromi di molti secoli. Gli antichi Romani, per esempio, avevano compreso l’importanza di soddisfare i bisogni primari dei cittadini e istituirono l’annona, ossia la distribuzione gratuita del grano, cui fece seguito quella di altri generi di prima necessità e l’accesso gratuito alle terme e al teatro. Seneca, nel De brevitate vitae, scriveva testualmente: «Un popolo affamato non ascolta ragioni, né gl'importa della giustizia e nessuna preghiera lo può convincere». Boris Johnson, attuale premier inglese, nel 2010, quando era sindaco di Londra, scrisse un saggio 1 nel quale si ispirò proprio a Seneca, sintetizzando il suo concetto nella frase: «Un popolo affamato è un popolo arrabbiato». Il pittoresco politico inglese (che è bene ricordare discende da una famiglia con origini inglesi, turche, russe, ebraiche, francesi e tedesche), sostanzialmente spiega che l’antica Roma dovette affrontare una sfida non dissimile da quella affrontata oggi dall'Europa, alle prese con i problemi interni e con quelli generati dall'immigrazione. Vi è un solo errore nella sua pur valida analisi: la definizione della politica romana come “assistenziale”. L’annona, invece, sia pure embrionalmente, aveva tutti i presupposti di una vera politica sociale: non creava disarmonie ed era strutturata con regole protese a bloccare sul nascere il convincimento che “papà Stato” pensa a tutto. Il prosieguo della storia dell’uomo, purtroppo, ha via via annichilito la possibilità di armonizzare in modo ottimale le varie componenti dell’essere, impedendo che la qualità della vita fosse soddisfacente anche per chi occupi i gradini più bassi della scala sociale. Questo processo di decadimento era già stato compreso da Argo Vilella, nel 1978, quando scrisse che: «Tutte le riforme e tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire se l’uomo non identifica nell’essenza della propria interiorità le cause che conducono dalla decadenza delle antiche istituzioni al vuoto attuale»2. CRISI DEL MONDO MODERNO Nell’Occidente la democrazia rappresentativa è considerata la migliore formula di governo, ancorché imperfetta. Le analisi sociologiche e la semplice osservazione di ciò che accade nel mondo, tuttavia, ci dicono che essa sia ben lungi dall’aver assolto al suo compito primario. Atterrisce la metodica frequenza con la quale, dappertutto, si parli di brogli elettorali e ancor più atterrisce la straordinaria capacità degli individui di tirarsi la zappa sui piedi, passando sistematicamente dall’illusione apologetica nei confronti di qualcuno alla dolorosa disillusione, senza che ciò, però, produca alcun effetto per non reiterare l’errore. «La storia è maestra, ma non ha scolari», sosteneva Gramsci. Siccome, però, sarebbe tempo perso, almeno in questa fase epocale, vagheggiare formule diverse, che indurrebbero solo a considerare folle chi le proponesse, cerchiamo di individuare qualcosa che possa limitare i danni, divenuti oramai insostenibili sotto qualsivoglia profilo.


I primari fattori della produzione che condizionano la vita di ogni essere umano sono il capitale e il lavoro. I lavoratori si suddividono in tante categorie, due delle quali si possono definire preponderanti: i privilegiati, che beneficiano di uno stipendio sicuro, a volte guadagnato scaldando sedie, soprattutto nella pubblica amministrazione; gli sfruttati, che sgobbano molte ore al giorno, spesso in contesti miserabili e senza tutele. È appena il caso di ricordare l’alto numero di morti nei luoghi del lavoro: 896 dall’inizio dell’anno. Quanti sono, poi, gli imprenditori che onorano il loro ruolo, creando ottimali condizioni di lavoro per i propri dipendenti corrispondendo loro il giusto salario senza obbligarli a prestazioni non retribuite, ivi comprese quelle “private”, che mortificano soprattutto le donne; non evadono le tasse e non si prestano a compromessi di natura politica? Se si potesse fare un reale censimento, molto probabilmente la percentuale sarebbe rappresentabile con uno “zero virgola qualche cosa”. Un quadro desolante, reso ancora più triste dalle deficienze che si registrano sul fronte sindacale e su quello politico, che vede tanti soggetti, per lo più di infima qualità, propensi solo a tutelare sé stessi. È chiaro, quindi, che senza un radicale ricambio nelle stanze del potere, con persone in grado di diffondere e tutelare la cultura del lavoro, parlare di Stato sociale sia una pia illusione. Una società marcia fino al midollo non può che farsi rappresentare da persone marce, nella folle speranza di sopravvivere nel proprio orticello, indipendentemente da ciò che accade negli altri orticelli. Quando iniziano a scarseggiare gli ortaggi, però, si creano le premesse per un cambiamento, anche se molto lentamente, perché nell’Occidente l’epoca delle rivoluzioni è terminata e l’ideale romantico che consentiva di rischiare qualcosa per l’affermazione di un principio ritenuto giusto, valido fino alla metà degli anni Ottanta, è stato completamente spazzato via dalla veloce mutevolezza dei costumi e il suo assunto è del tutto incomprensibile per i giovani di oggi. Nondimeno bisogna fare di tutto affinché quella labile fiammella, che per fortuna ancora alberga nei cuori di qualcuno, alimenti fuochi sempre più consistenti e induca, soprattutto i giovani, a riconsiderare il loro stile di vita, che oggi, fatte le debite eccezioni, si può definire con un solo termine: malsano. IL CORAGGIO DELLA VERITÀ: PARLIAMO DI CORPORATIVISMO Da tredici anni la crisi economica – che come più volte ripetuto è una crisi dei valori – domina la cronaca quotidiana. I bimbi nati agli albori del terzo millennio sono cresciuti bruciando un periodo importante della loro vita in una realtà sociale turbolenta e drammatica. La mia generazione, in analoga fascia di età, ha sì vissuto anni turbolenti e drammatici, maturando però esperienze che sono servite a temprare un carattere, a trovare un sentiero, a crescere in fretta. I giovani di oggi vivono esperienze frustranti che li rendono insicuri, con quali nefaste conseguenze è facilmente immaginabile, quando non ampiamente riscontrabile. I vincenti, coloro che emergono dalla massa amorfa e impaurita, volando verso le alte vette del successo, lungi dall’essere i “migliori”, sono solo coloro che più rapidamente riescono a marciare al passo con i tempi, assimilandone le distonie e lasciandosi contaminare da esse, per poi gestirle affinché risultino funzionali ai


propri progetti. La genialità trova pratica attuazione precipuamente in quelle attività che generano facili guadagni grazie alle potenzialità del mondo virtuale, non ancora ben decantate dalla moltitudine degli esseri umani, che quindi diventano facili prede. Non è accaduto nulla di diverso quando spagnoli e portoghesi soggiogarono le civiltà precolombiane del Sud America, depredandole dei beni preziosi il cui reale valore era ignoto ai possessori. Lo stesso settore produttivo si nutre del condizionamento manicheo dei consumatori, cui sfugge la differenza tra un utile aziendale configurabile come corretto profitto e il surplus pazzesco favorito dai prezzi finali fuori controllo, che generano da un lato povertà diffusa e dall’altro una massiccia concentrazione di capitali. Chi spende mille euro (o anche più) per un telefonino che potrebbe essere venduto tranquillamente a meno di duecento euro, consentendo margini “onesti” a tutti, è un idiota3. Ma quanti sono gli idioti, sotto questo profilo? Miliardi di persone e quindi non c’è partita, perché il telefonino è solo uno dei tanti prodotti con medesime caratteristiche devianti. Le stesse automobili, per esempio, non sfuggono alla regola: una berlina, tranquillamente pagata trentamila euro da milioni di automobilisti, in realtà potrebbe essere venduta a non più di 24mila euro assicurando comunque un utile onesto a produttore e rivenditore. Quei seimila euro di differenza (o forse più) costituiscono un serio problema economico e sociale perché contribuiscono ad aumentare sensibilmente il gap tra ricchi e poveri. Nel settore terziario, infine, si pratica una violenza delle coscienze che genera veri mostri. I giovani che si affacciano al mondo del lavoro, magari con le migliori intenzioni, vengono formati ed avviati ad attività truffaldine, da estrinsecare soprattutto a danno delle persone più deboli e più facilmente abbindolabili, a partire dagli anziani. A questi giovani viene inculcato, da autentici criminali che gestiscono società anche importanti e dai fatturati plurimilionari, il principio del “mors tua vita mea”. Sicuramente tra chi legge vi saranno le vittime di compagnie energetiche e telefoniche che hanno stipulato contratti di subentro fasulli, nonché coloro che hanno riscontrato l’azzeramento del credito telefonico in virtù di abbonamenti a servizi mai richiesti. Queste società, ancorché legali sotto il profilo giuridico, basano la loro attività sulle truffe, sulle capacità truffaldine di dipendenti appositamente istruiti e sulla vulnerabilità delle vittime. Uno Stato sociale non sarà mai possibile fin quando non si realizzerà un vero equilibrio nei fattori della produzione, superando il capitalismo e la sua degenerazione rappresentata dalla finanza, nonché educando i cittadini a una sana gestione delle proprie risorse economiche, anche attraverso una corretta informazione sui reali costi di produzione. Un processo possibile solo quando la politica assumerà un ruolo che le consenta di essere scritta con la “P” maiuscola e l’economia sarà incanalata nel suo alveo naturale, che è quello di organizzare l'utilizzo delle risorse per soddisfare al meglio i bisogni collettivi e non di essere manipolata per creare disparità sociali e l’arricchimento di pochi. Un sistema economico “sposabile” con questo presupposto esiste e si chiama “corporativismo”. Un corporativismo moderno, sia detto a scanso di equivoci e di facili strumentalizzazioni, capace di interpretare le esigenze di una società in veloce evoluzione, senz’altro suscettibile di progressivi svilup-


pi, sempre nell’alveo, però, di una sana e corretta gestione delle politiche economiche e sociali. Iniziamo a parlare di corporativismo quindi, senza avere la pretesa di svilupparne compiutamente l’essenza in un articolo giornalistico, che si prefigge solo di smuovere le acque e stimolare l’interesse sull’argomento, sia pure nella consapevolezza che il termine evoca, erroneamente, scenari foschi che per fortuna possono essere serenamente studiati e storicizzati, al di là delle comode strumentalizzazioni di chi, dando la caccia ai fantasmi, distoglie l’attenzione dagli scheletri che custodisce nell’armadio. Proprio per questo, quindi, è importante stroncare sul nascere ogni possibile mistificazione dando ampio risalto alla dimensione spirituale dell’individuo, concepita in un’ottica che, trascendendo il mero ambito religioso, possa realmente offrire nuove prospettive speculative, soprattutto ai giovani. Sotto il profilo prettamente economico, poi, il corporativismo moderno deve necessariamente incunearsi in una società pluralistica e non totalitaria, bandendo l’autarchia a vantaggio dei mercati aperti, della proprietà privata e della libera iniziativa. Questi fondamentali elementi, però, a differenza di quanto avvenga nella società capitalista, vanno gestiti in modo da non creare disequilibri sociali. Come sosteneva il compianto Gaetano Rasi, infatti: «La dottrina corporativa ha la sua ragion d’essere nel perseguimento del bene collettivo e non nella difesa degli egoismi dei singoli o delle categorie4».

Boris Johnson, Il sogno di Roma, Garzanti, 2010 (attualmente di difficile reperibilità in italiano; disponibile nella versione originale) 2. Argo Vilella, Una via sociale – Società Editrice il Falco, 1978. L’intero saggio, manco a dirlo, è incentrato sull’importanza della centralità dell’Uomo. 3. Vedere a tal proposito: Lino Lavorgna*, Crescere o decrescere? Mensile “CONFINI”, nr. 72, pp. 7-13 4. Gaetano Rasi, La società corporativa – Partecipazione – Programmazione, Istituto di Studi Corporativi, 1973 1.

* L’autore, allievo di Gaetano Rasi, è stato membro dell’Istituto di Studi Corporativi dal 1972 al 1985 e direttore della sezione di Caserta dal 1982 al 1985. I principi di un moderno corporativismo costituiscono il fulcro della dottrina economica e sociale contemplata nel programma di “Europa Nazione”, movimento politico dall’autore fondato nel 2013.


I programmi televisivi, impietosi, riflettono senza ombre lo squallore di un Paese allo sbando e la tristezza di una classe dirigente avviluppata nella propria inconsistenza, confusa e persa nell’impossibile compito di conciliare l’inconciliabile. Tratteggiare volti e storie è impossibile senza trasformare un articolo in un romanzo dell’orrore e pertanto ci limitiamo a pochi esempi. C’è la Fornero, che con il truce sguardo mefistofelico ci ricorda perennemente l’empietà del male, elemento che sfugge al relativismo einsteiniano assumendo valore assoluto, alla pari del motto ripetuto come un mantra dai frati trappisti: “Ricordati che devi morire”; c’è il tronfio e patetico Giuliano Cazzola, “economista (?)” con laurea in legge che, come ogni furbo socialista dei tempi craxiani, ha navigato tutti i mari della successiva malapolitica, riuscendo anche a trascorrere cinque anni in Parlamento. C’è anche Nicola Fratoianni, filosofo nostrano di scuola marxista, che se uno non lo conoscesse potrebbe tranquillamente scambiare per un gigante in mezzo ai nani, grazie ad argomentazioni sul rispetto della dignità umana intrise di umanità e condivisibili senza eccezione alcuna. Argomentazioni che dimostrano per l’ennesima volta e in modo ancora più pregnante quanto magistralmente asserito da un filosofo vero, sicuramente il più grande tra i viventi, il francese Alain de Benoist: «Tutte le famiglie di pensiero, intellettuali, politiche e religiose, si stanno oggi dissolvendo, urtando contro nuovi spartiacque: non più la destra e la sinistra, ma l’identità, l’individualismo e le comunità, il capitalismo liberale, le nuove forme di alienazione sociale, i valori mercantili». (Rivista “Elements”, nr. 157). La complessità della società contemporanea ha spezzato il fronte dell’appartenenza, creando quel caos che poi induce la maggioranza delle persone a “non scegliere” perché disorientate da una politica disomogenea e frustrante: Fratoianni che dice cose sensate in tema di pensioni e fa venire i brividi quando sale con altri parlamentari sulle navi delle ONG che infrangono le leggi che egli, come parlamentare, dovrebbe essere il primo a rispettare; Salvini ineccepibile nella gestione dei flussi migratori, meritevole di gratitudine per “Quota 100”, impegno contro la liberalizzazione delle droghe e poche altre cose, ma disastroso in tutto il resto. E per amor di sintesi fermiamoci qui, essendo le contraddizioni della politica infinite.


Per le pensioni, sentendo tanti figuri impegnati in discorsi sconclusionati, nei quali troneggiano le tentazioni schiaviste care alla Fornero ritornare prepotentemente attuali, viene istintivamente la voglia di istituire subito un plotone di esecuzione, ma poi la rabbia sbolle e la mente impone d’impeto il dovere di contrapporsi allo scempio disumano restando “umani”. Che fatica, tuttavia. Per comprendere le distonie di una problematica gestita in modo insulso, utile anche a trovare un piccolo alibi al comportamento dei figuri succitati e dei loro tanti compagni di merende, altrimenti passibili di essere assimilati solo ai criminali, facciamo un esempio simbolicamente emblematico. Immaginiamo di doverci recare a Viareggio partendo da Roma e di prendere in considerazione solo due percorsi: quello autostradale e quello costiero, sulla storica Via Aurelia. Immaginiamo, tuttavia, che entrambi i percorsi siano intrisi di ostacoli, in alcuni tratti insormontabili, in altri pericolosi per cause che divergono ma sostanzialmente di pari negativa efficacia. Coloro che devono decidere quale strada scegliere, pertanto, si affannano nel cercare di individuare quella che presenta meno rischi, nonostante sarebbero da evitare entrambe. Immaginiamo, poi, che l’autostrada da Roma a Teramo sia la più bella del mondo (non ridete, è solo un esempio), seguita da una seconda autostrada che, da Teramo a Viareggio, passando per Pesaro e Bologna, non sia da meno per bellezza, sicurezza e offerta di servizi. Qualsiasi persona di buon senso non avrebbe esitazioni a scegliere questa alternativa! Percorso più lungo, certo, ma sicuramente meno impegnativo, percorribile in tempo addirittura inferiore e meno oneroso: i maggiori costi di carburante sarebbero ampiamente compensati dai costi, sicuramente più consistenti, necessari per superare tutti gli ostacoli presenti nelle strade scartate. Per le pensioni basterebbe ragionare con questi presupposti e la terza via si dipanerebbe alla vista più limpida dell’acqua di sorgente. «I costi del lavoro non ci rendono competitivi», sostengono gli industriali; «Bisogna lavorare fino a 67 anni», sostengono coloro che non hanno idea di cosa significhi “lavorare”, in quanto parassiti lautamente retribuiti da un sistema marcio. Mettiamo un po’ di ordine. Non sono i costi del lavoro a penalizzare le aziende ma la volontà di “snaturare” il rapporto tra i fattori della produzione a esclusivo vantaggio del capitale, rendendo schiavi i lavoratori. Prolungare l’attività lavorativa degli individui in modo disumano vuol dire esaltare il concetto di “lavorare per vivere” e penalizzare quello che, invece, dovrebbe essere alla base di una società civile: “vivere per lavorare”. Vivere per lavorare, però, in modo dignitoso, gradevole e con il sorriso sulle labbra. Mera utopia, per ora, anche per colpa di quei sindacati che, seppure in questi giorni manifestano legittima indignazione per le chiusure governative, che ovviamente fanno aggio ai veri “gestori del sistema”, sono responsabili delle tante “compromissioni e complicità” con gli antagonisti e della propensione a tollerare profonde ingiustizie, tra le quali lo sfruttamento indiscriminato, a cominciare da quello minorile, figura al primo posto. Invertire la rotta affinché si possa realizzare una più equa distribuzione della ricchezza, quindi, è l’unica strada percorribile per sanare la grave distonia sociale in tema di lavoro. A 62 anni occorre “smettere” di lavorare e lasciare spazio ai giovani, che avranno così modo di effettuare un percorso lavorativo dignitoso, senza


attendere di diventare nonni prima di reperire un’occupazione stabile. Gli imprenditori devono “arrendersi” all’idea di guadagnare di meno e onestamente, perché tutta la ricchezza che rubano evadendo le tasse e sfruttando i lavoratori serve ad “altri”; serve a chi ne abbia effettivamente bisogno. I prezzi dei prodotti industriali contengono un “surplus” ingiustificato che avvantaggia solo i produttori e si rendono plausibili grazie alla “stupidità” dei consumatori, i quali si tirano la zappa sui piedi cambiando, per esempio, un telefonino ogni anno, pagandolo mille euro e ignorando che potrebbe essere venduto tranquillamente a meno della metà, senza che nessuno ci perda! Quel surplus ingiustificato, però, che riguarda tutti i prodotti, automobili comprese, amplifica e non di poco il divario tra ricchi e poveri. Il discorso sulla regolamentazione dei prezzi (che di fatto si trasformerebbe in un “aumento della disponibilità economica per le famiglie”) è complesso, richiedendo una propedeutica azione formatrice da effettuare tra i consumatori e pertanto lo rimandiamo ad altra occasione. Per ora facciamo le barricate per difendere “Quota 100”, ma facciamole sul serio, senza lasciare respiro ai cinici servi di un sistema malato e dei poteri forti. Forti solo nella propensione al male. Poi si vedrà, perché è ben chiaro che sono ancora tanti i problemi da risolvere. Serve un passo alla volta per costruire una società più giusta che, per la confusa condizione attuale, consente anche di “sfruttare”, in modo volutamente “provocatorio”, qualche citazione di soggetti dalla storia severamente condannati, come Karl Marx: “Le condizioni disperate della società in cui vivo mi riempiono di speranza”.


L’occasione – dice un vecchio proverbio – fa l’uomo ladro. Non tutti, per fortuna, anche se, purtroppo, per quei complessi meccanismi che determinano le umane vicende, coloro che fossero adusi ad approfittare delle occasioni riescono più facilmente degli altri, capaci di resistervi, a conquistare posizioni di potere. I grandi mali del mondo, in buona sostanza, nascono da questo rapporto, che va inquadrato nella sua accezione più ampia. La pandemia, per esempio, ha fatto emergere in modo spaventosamente drammatico quanto sia possibile “approfittare” anche delle mostruosità per trarre vantaggio personale, come del resto è sempre avvenuto con guerre, carestie e fenomeni più o meno analoghi. Il caos mediatico che ne consegue non è meno grave del virus. Questo triste dato di fatto, tra l’altro, risulta aggravato dalle modalità mediatiche seguite anche da coloro che, in perfetta buona fede, si prefiggono di sviluppare un dibattito senza alcun intendimento di privilegiare delle teorie a discapito di altre. Travolti comunque dalla volontà e dalla necessità di “fare audience”, anche loro risultano dannosi quando conferiscono il diritto di parola, su problematiche scientifiche, a soggetti che stanno alla scienza come il vinello annacquato venduto a meno di un euro sta a una riserva speciale di una pregevole marca, che costa centinaia di euro. Chi scrive non ha mai avuto padroni e con questo articolo, pertanto, si prefigge esclusivamente di far emergere il caos mediatico, senza alcuna pretesa di fornire indicazioni di carattere scientifico che non siano espressione di soggetti titolati a fornirle. I punti fermi dai quali partire sono quelli che, con più insistenza, vengono ribaditi dagli scienziati di tutto il mondo: la pandemia è ben lungi dall’essere stata sconfitta; vaccinarsi è fondamentale; rispettare le norme già sancite all’atto del suo insorgere (distanziamento, mascherina e lavaggio frequente delle mani) altrettanto fondamentale. Il dibattito sviluppatosi sui succitati presupposti, come a tutti noto, ha assunto toni bellicosi tra “eserciti contrapposti”, che vanno dai negazionisti duri e puri ai


critici capaci di fare le pulci a ogni provvedimento per evidenziarne i punti deboli, le contraddizioni o qualsiasi altro elemento ritenuto imposto per fini avulsi da quelli tesi a combattere la pandemia. Tutto ciò, ovviamente, confonde l’opinione pubblica e la spaventa. Cosa, invece, sarebbe opportuno far trasparire con chiarezza e come si dovrebbe sviluppare il dibattito mediatico sulla pandemia. Partiamo proprio da quest’ultimo punto. Suddivisi nei sette giorni della settimana, almeno una ventina di talk show, trasmessi dai canali televisivi delle principali emittenti (Rai, Mediaset, La7, Sky) bombardano i telespettatori con dibattiti ai quali partecipano più soggetti scelti in ogni ambito dello show system (sport, spettacolo, media, etc.) che esperti settoriali, ciascuno con una personale visione del mondo e con la ricetta giusta per risolverne i mali. Evitare di dare spazio a siffatti soggetti, pertanto, sarebbe il primo passo da compiere e già con esso risolveremmo molti problemi. Parlino solo gli esperti, privilegiando coloro che, in campo scientifico, abbiano “consistente voce in capitolo” per i meriti acquisiti, rispetto ad altri colleghi. Parimenti va radicalmente sovvertita la modalità con la quale si sviluppa il dibattito tra scienziati e no vax, negazionisti, farneticanti complottisti. Metterli sullo stesso piano, conferendo “pari diritto di parola e dignità interlocutoria”, è davvero disdicevole e inopportuno: è come se si mettessero a confronto dei medici con degli alcoolisti tossici e consentire a questi ultimi di esprimere il loro parere sui mancati effetti negativi nell’uso di bevande alcoliche e droghe. Dare notizie sui no vax è legittimo e doveroso, ma in un contesto mediatico che si configuri come “cronaca”: è caduto un ponte; Tizio ha vinto una medaglia d’oro; il politico Caio rinviato a giudizio; il regista Sempronio in sala con un nuovo film; dopo Fedez anche i neomelodici fondano un partito politico – a breve le primarie per la scelta del leader; ancora proteste da parte dei no vax e la polizia arresta cinque facinorosi. Stop. Criticare i politici e il Governo del Paese, ci mancherebbe altro, è un diritto sacrosanto e nessuno si sogna di metterlo in discussione, tanto meno chi scrive, che compie questo esercizio sin dalla prima volta che abbia messo una penna tra le dita per scrivere un articolo, nel marzo del 1972 e quindi quasi mezzo secolo fa. Esporre delle perplessità per talune decisioni, però, è lecito solo se le stesse abbiano un serio fondamento scientifico e siano espresse “in buona fede”, con spirito costruttivo e collaborativo. Criticare “a prescindere”, solo per fini elettorali o di altra natura eticamente discutibile, è da vigliacchi, perché mai come nei momenti di grandi crisi si dovrebbero accantonare le divisioni e marciare compatti per sconfiggere il nemico comune. Lo scenario che emerge dalla realtà contingente, purtroppo, lascia chiaramente trasparire il cinismo spietato di molti protagonisti della vita pubblica, tra i quali “brillano”, per mancanza di serietà, frotte di politici e giornalisti. Cerchiamo, quindi, di fare luce su alcune ombre, al netto delle polemiche strumentali. L’intento di creare i migliori presupposti per conciliare la tutela dei lavoratori con la salute pubblica è lodevole e solo ai mestatori può sfuggire quanto sia difficile questo compito. Ben venga, quindi, il Super Green Pass, ma siamo sicuri che per i trasporti pubblici e le scuole non servano provvedimenti più restrittivi? La didattica a distanza crea problemi a molte famiglie, è evidente! Ma quale “guerra”


non li crea? Togliere milioni di ragazzi dalle strade e dai trasporti fatiscenti, rebus sic standibus, contribuirebbe sensibilmente al contenimento della pandemia. Assodato che i no vax rappresentino un pericolo pubblico e che l’adozione del Super Green Pass, lungi dall’indurli alla ragione, abbia solo fatto lievitare il livore, come ogni psicologo sarebbe in grado di spiegare (l’aumento della rabbia nei soggetti psico-labili è direttamente proporzionale all’inasprimento dei provvedimenti che l’abbiano fomentata), perché non prendere in considerazione l’idea di rendere il vaccino obbligatorio per tutti? Si rischiano rivolte di piazza? No. Non si rischiano: basta mettere subito fuori gioco coloro che le organizzano: i capipopolo e i capi-rivolta. Senza un capo che li porti al macello, le masse se ne stanno buone nei loro ovili. Siamo tutti testimoni diretti, o indiretti grazie ai servizi televisivi, della leggerezza comportamentale di tante persone, in particolare dei giovani drogati di movida, ai quali si aggiungono quelli proprio fuori di testa che si fanno contagiare per ottenere il Green Pass. È chiaro che le forze dell’ordine da sole non ce la fanno a controllare il territorio, né in chiave preventiva né in chiave repressiva. È così difficile chiedere aiuto all’esercito? Vogliamo capirlo, una volta per tutte, che “democrazia” non fa rima con “anarchia” e che la tolleranza, come c’insegna Popper, al pari della libertà, non può essere illimitata, altrimenti si autodistrugge?



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