Internazionale

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IN QUESTO NUMERO: Pag 1 Marcinelle e le migrazioni Pag 3 Il job Act e l’occupazione Pag 5 Io voto no al referendum costituzionale Pag 7 Referendum Costituzionale

Marcinelle e le migrazioni

Il 2016 é l’anno di importanti ricorrenze e commemorazioni. Sono passati esattamente 60 anni dalla tragedia della miniera di Marcinelle, in Belgio, dove perirono 262 lavoratori di cui 162 italiani e tra questi 60 abruzzesi, e 70 anni dagli accordi “Uomo-carbone” che prevedevano, in cambio dell’invio di migliaia di lavoratori italiani nelle miniere del Belgio, carbone per la rinascente industria italiana del secondo dopoguerra. Giusto e fondamentale è ricordare quello che è stato: morti sul lavoro, vedove e orfani, invalidi, spesso neanche consid-

Gli articoli possono essere riprodotti citandone la fonte Suggerimenti? Critiche? Contattaci su unitacomunistaeuropa@gmail.com o al numero +32472098231 Vuoi aiutarci a diffondere il bollettino? Richiedici delle copie! L’Internazionale– Bollettino degli emigrati comunisti in Europa Rue de Foulons 47-49 Bruxelles

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Settembre 2016

BOLLETTINO DEGLI EMIGRATI COMUNISTI IN EUROPA

erati come invalidi per cause di lavoro, le lotte coraggiose dei nascenti patronati italiani all’estero – in primis l’INCA CGIL – per il riconoscimento delle malattie professionali e per un’ uguaglianza dei diritti tra i lavoratori emigrati e quelli autoctoni. Di tutto questo dobbiamo tramandare il ricordo e continuare nella lotta per far si che non accada mai più. Però bisogna anche legare a tutto questo una riflessione sui motivi che portarono a quelle emigrazioni di massa, con uno sguardo insistente anche quelle che hanno innescato la nuova ondata di emigrazione, portando dai centomila ai trecentomila cittadini italiani a lasciare ogni anno il proprio paese alla ricerca di una vita migliore. Ai tempi in cui maturarono i fatti di Marcinelle, l’Italia usciva distrutta dalla seconda guerra mondiale. I militari e i Partigiani tornavano alle loro famiglie, ritrovandosi senza un lavoro e spesso senza una casa o un terreno da coltivare. Nel tentativo di diminuire il malcontento sociale che montava inesorabile, il governo italiano decise di favorire l’emigrazione all’estero, sopratutto nelle nazioni dove la richiesta di braccia a buon mercato era più forte: Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Belgio, solo dopo la Germania. Non di rado, si favoriva l’emigrazione dei lavoratori più politicizzati, nel frattempo vittime di licenziamenti politici avvenuti

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durante la normalizzazione delle fabbriche, avvallando una delle condizioni poste dal governo americano per accedere ai fondi del piano Marshall. Quindi il governo italiano dell’epoca usa l’emigrazione come una valvola di sfogo per abbassare la tensione sociale, coprendo le sue incapacità -addirittura il governo americano si lamentava a proposito dell’incapacità dello stato italiano di utilizzare in modo proficuo le risorse del piano Marshall- con l’effetto positivo non trascurabile per le casse e il bilancio dello Stato della valuta estera che arrivavano alle famiglie degli emigrati per il loro sostentamento. Punto che andrebbe ricordatato ai nuovisti che ogni tanto riprovano a tagliare sia le già esigue pensioni versate agli italiani all’estero che i servizi erogati dai consolati. Ovviamente nulla delle responsabilità dei vari governi italiani e europei del tempo sono apparse nei fiumi di parole delle commemorazioni ufficiali di questi giorni, come se quegli incidenti e quelle migrazioni fosse accadute solo per responsabilità del destino cinico e baro. Oggi sarebbe piuttosto difficile favorire un’emigrazione di massa ufficiale come ai tempi di Marcinelle, ma il governo italiano fa poco o nulla per fermare l’emorragia che sta spopolando nuovamente il nostro paese. Non solo dal sud Italia, ma sempre più dalle regioni del nord, colpite da una imponente deindustrializzaizone. Al netto dei profili molto qualificati che emigrano perché sicuri di migliorare la loro posizione lavorativa, spesso partendo con un nuovo contratto di lavoro già in tasca, buona parte di chi emigra lo fa per necessità. I pochi studi disponibili, confermati dall’esperienza quotidiana di chi vive tra la nuova emigrazione, ci dicono che una gran

parte dei nuovi emigrati una qualche forma di “occupazione” l’aveva in Italia. Purtroppo però o era in nero o rientrava in una delle decine di forme di lavoro flessibile inventate da solerti politici italici per aumentarne i profitti delle imprese sulla pelle dei lavoratori. Si emigra, quindi, per trovare un lavoro “buono e stabile” e un sistema di welfare efficiente che aiuti i cittadini quando ne avranno bisogno. Decidere di emigrare o restare in Italia sono entrambe delle decisioni molto difficili, e entrambe meritano rispetto. Crediamo pero’ che l’apporto di idee e di energie degli emigrati italiani all’estero, sia di fondamentale importanza per fermare il declino dell’Italia e contribuire a gettare le basi di una sua rinascita economica, culturale e sociale.

attesti tra 24 e 32 mila, persone “invisibili” al consolato ma non al Belgio. Per tutti, la prima tappa è l’ufficio anagrafe comunale.. 4-5mila l’anno in totale gli OQT complessivi. «Non abbiamo ancora interagito con la nostra ambasciata. Sarà una delle prossime mosse. Ma è sintomatico di una mancanza assoluta di presenza delle istituzioni italiane in Belgio rispetto ai nuovi migranti. Mi stupirei che abbiano dati in mano», dice Alessandra Giannessi, 27 anni, da Pistoia, “sedotta” da Bruxelles («ci sono più opportunità che altrove per stare al mondo e questa città ha accolto le energie che avevo voglia di mettere a disposizione») durante l’Erasmus in Scienze Politiche.

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denti penali. «Poi dal 2010, comincia a essere applicato in maniera arbitraria questo concetto del “sei un peso per la spesa sociale del Belgio”», continua Pietro facendo riferimento a una Direttiva Europea, che dà diritto a uno stato membro di allontanare chi è un “onere eccessivo” per il welfare locale. Gli uffici stranieri si barricano dietro quella direttiva ma per moltissimi giuristi l’interpretazione è arbitraria, c’è un altissimo tasso di discrezionalità e una pressione su chi rischia di non essere un produttore di ricchezza. «Dall’Italia, stando ai registri del Consolato, ci sono stati circa ottomila mila nuovi arrivi nel 2015, ma si pensa che il dato ufficioso si

La Comune, in rete con spagnoli del 15M 2

(gli indignados), portoghesi e greci di sinistra, ha dato vita a EU4People, una rete che si occupa di sensibilizzare sulle espulsioni di europei e rivendica il diritto alla libera circolazione. «Bruxelles è una realtà fertile e aperta. Finché va tutto bene. Lo stato sociale belga, finché funziona, finché si riesce a entrarci, è uno dei migliori. Meglio, lo era perché ci sono spinte politiche per manometterlo. Europe for people nel giro di un paio d’anni ha dovuto contare alcune migliaia di espulsioni di europei. Quasi nessuno di loro risponde agli stereotipi di scansafatiche in cerca di sussidi, quasi tutti lavoravano in regime di articolo 60, reinserimento professionale (come Francesco, ndr) – continua Alessandra – dopo la vicenda di Silvia ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare ed è nata questa piattaforma con altri collettivi, sindacalisti belgi, avvocati che lavorano a titolo gratuito. Una volta a settimana apriamo lo sportello al Garcia Lorca e intanto costruiamo l’analisi sulle varie figure di migranti per decostruire il discorso puramente economico, lo stereotipo. Tuttavia, la crisi ha fatto schizzare gli arrivi dal 2011 (+93% comparato agli arrivi del 2007). Intanto, il welfare è sotto attacco in Belgio. «Non è solo l’ultimo governo di centrodestra ma anche quello a guida “socialista” aveva spianato la strada alla riduzione della platea dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione, della cassa integrazione, dei contributi sociali da parte dei Cpas (centro pubblico di aiuto sociale) per l’affitto o le spese sanitarie di che non sa come vivere. Dall’inizio dell’anno, anche sulla scia della Francia, si sono susseguiti scioperi e manifestazioni, il 24 giugno c’è stato uno sciopero generale, contro la Legge Peters, una sorta di jobs act che vuole portare a 45 le ore di lavoro settimanali».

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Quest’ultimo risponde proprio da Molenbeek, 100mila persone a ovest della capitale, molte delle quali di origine araba o nordafricana. Francesco ci vive bene. «Molenbeek mi ha rimesso al mondo, al di là dei muri costruiti nella testa della gente». Una laurea in Lettere su Jung e l’Alchimia, Francesco è in Belgio da due anni e, dopo aver promosso eventi sportivi tra i canali e le calli di Venezia ora lavora nel quartiere per conto del Centre Communautaire Maritime de Molenbeek, con un contratto che gli dovrebbe consentire l’accesso all’indennità di disoccupazione. Racconta di essere andato via da una città in preda alla speculazione, commissariata dopo le vicende che travolsero la giunta Orsoni: «Non volevo essere un “indiano”, una comparsa. Sono emigrato nella speranza di un confronto con l’Europa». La scelta di un paese francofono per via di sua moglie francese: «Volevamo stare dove ancora regge il patto sociale – spiega – qui è un’altra dimensione. Il Belgio chiede molto ma restituisce nei momenti di difficoltà. C’è una forma di reddito garantito per chi perde il lavoro. Quartieri come questo vivono così: certo, esistono rischi di assistenzialismo ma non esistono le angosce che si vivono in Italia nelle stesse condizioni». Lo scorso 16 marzo, proprio mentre la sua compagna scampava alla sparatoria prodotta da un’operazione antiterrorismo nel quartiere, Francesco ritirava una raccomandata dell’ufficio stranieri il preavviso di OQT perché per quattro mesi non risulta aver lavorato. In realtà ha lavorato al nero, «la ristorazione funziona peggio di quella italiana e spreme lavoranti del Sud dell’Europa». Anche per Francesco la conclusione è amara: «A settant’anni dagli accordi bilaterali sull’immigrazione italiana, quando braccia a basso costo venivano concentrate in posti come Marcinelle, ci

Il Jobs Act e l’occupazione

vengono a dire che siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità mentre siamo tornati come migranti economici anomali, in cerca di futuro e ancora come manodopera a basso costo. Ma io ho avuto una buona stella, in poche ore ho scritto una memoria e l’ho portata a La Comune del Belgio che ha impostato una procedura di ricorso».

Bruxelles Mille

Bruxelles Mille, il centro della “capitale” dell’Europa. Su una porta, un cartello scritto a mano recita, in italiano, “Sportello migranti”. I locali sono del centro Garcia Lorca. Qui hanno trovato sede associazioni, collettivi e partiti di sinistra, belgi, italiani, spagnoli. Ci sono spazi per il doposcuola per i bambini, per la riduzione del danno, ed è qui che si trova La Comune del Belgio. «Un’associazione di nuovi emigrati italiani che pratica mutuo soccorso per promuovere equità, solidarietà, cooperazione. Non è solo un centro di servizio ma lo spazio per una pratica che serve a coinvolgere ed emancipare». Così spiega Pietro, ricercatore di 40 anni in Belgio da cinque. A due anni dal caso dell’attrice Silvia Guerra, che fece scoprire all’Europa l’espulsione di massa dei comunitari, il 10% degli espulsi dal Belgio sono ancora italiani. Fino a quel momento si trattava delle persone più borderline, spesso con prece-

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di Roberta Fantozzi La pausa estiva lascia molte partite aperte il cui esito è rimandato a quello che accadrà in autunno e con la legge di stabilità per il 2017: dagli 8 milioni di lavoratrici e lavoratori senza contratto alle pensioni, dalle politiche per il lavoro al contrasto alla povertà. Il governo Renzi negli ultimi mesi ha messo in campo una nuova strategia comunicativa: non più lo scontro frontale con i soggetti sociali a partire dai sindacati, ma un’esibita apertura di confronto. La data non ancora definita per lo svolgimento del referendum sulla controriforma costituzionale, è del resto evidentemente legata al tentativo di recuperare consensi, dopo la sconfitta pesantissima delle amministrative, attraverso qualche provvedimento sul terreno delle maggiori emergenze. Nel frattempo va avanti la propaganda, non solo sulla controriforma Costituzionale, ma sulle magnifiche sorti e progressive delle politiche del governo: dal Jobs Act all’approvazione della legge delega sulla povertà. Quelle che seguono sono poche note per

fare il punto sullo stato delle cose, fuori dalla propaganda del governo. Come è noto il governo ha venduto gli ultimi dati sull’occupazione come la dimostrazione della riuscita delle proprie politiche del lavoro ed in particolare del Jobs Act (la legge Peeters in salsa italiana). Eppure i dati Istat e Inps raccontano un’altra storia. Partiamo da quelli che sembrerebbero dare maggiormente ragione alle affermazioni del governo, e cioè l’ultimo bollettino dell’Istat sull’occupazione uscito il 29 luglio e relativo al mese di giugno. Secondo l’Istat l’occupazione a giugno 2016 rispetto a giugno 2015, registra un aumento di 329.000 occupati. Di questi 329mila, 83mila sono i lavoratori autonomi. Dei 246mila lavoratori dipendenti in più, quelli “permanenti” sono 207mila. Dunque posto che l’obiettivo (propagandato) del Jobs Act era in particolare la creazione di occupazione dipendente a tempo indeterminato, l’aumento registrato è pari a poco più di 200mila persone. Ovviamente quando parliamo di occupazione permanente, sappiamo che si tratta di una falsità: essendo l’obiettivo del Jobs Act la piena libertà di licenziamento, nessun contratto “a tutele crescenti” è a tempo indeterminato! Si dirà tuttavia che 200mila posti di lavoro in più non sono poco cosa. Invece lo sono, se raffrontati con la quantità ingentissima di risorse che sono andate alle imprese per la decontribuzione legata ai nuovi contratti. Come si ricorderà infatti la legge di stabilità 2015 ha messo a disposizione, per i nuovi contratti stipulati entro quell’anno e per le conversioni di con-

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tratti precari nel “contratto a tutele crescenti”, 8060 euro di riduzione annua dei contributi per un periodo massimo di 3 anni, decontribuzione poi ridotta dalla successiva legge di stabilità 2016, a 3250 euro annui per due anni. Nanni Alleva ha denunciato anche recentemente la grande truffa che questi contributi hanno rappresentato in particolare per tutte le trasformazioni in contratti a tutele crescenti di quei contratti (a termine,

di apprendistato o cocopro) che 9 volte su 10 avrebbero dovuto essere perseguiti in quanto irregolari Ma anche a voler prescindere da questo dato rilevantissimo (dagli 8 ai 10 miliardi regalati agli evasori e truffati all’Inps), quanto è costata l’occupazione aggiuntiva “creata” dal Jobs Act? Prendendo l’ipotesi intermedia siamo a 18,5 miliardi di costo nel triennio, oltre 6 miliardi su base annua. (stima confermata dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità 2016). Dunque ogni posto di lavoro “creato” con il Jobs Act in realtà con la decontribuzione - è costato circa 30.000 euro. Un piano di assunzioni dirette da parte dello stato avrebbe creato un numero maggiore di posti di lavoro, senza regalare 8 o 10 miliardi agli evasori. Inconfutabile. Parallelamente continua l’esplosione dei voucher, che raggiungono nei primi 5

mesi del 2016 un incremento del 43% sullo stesso periodo del 2015, periodo in cui si era registrato rispetto all’anno precedente un incremento del 75,2%. Sono 56,7 milioni i voucher venduti da gennaio a maggio, con un’esplosione del lavoro “usa e getta” sempre più sostitutiva dei rapporti di lavoro. Cancellazione dell’articolo 18, massima precarizzazione del lavoro in ingresso tra eliminazione delle causali nei contratti a termine e esplosione dei vouchers, demansionamento e videosorveglianza, ed un’ enorme quantità di risorse regalate alle imprese (comprese quelle che avrebbero dovuto essere perseguite per l’irregolarità dei contratti stipulati) hanno prodotto questo quadro. Le politiche neoliberiste fatte di cancellazione dei diritti del lavoro e risorse regalate alle imprese, portano ad una regressione sociale senza precedenti e continuano ad essere totalmente fallimentari: il Jobs Act non serve con tutta evidenza a creare occupazione. Serve a rendere più ricattabile il lavoro, ad indebolirlo e frammentarlo ulteriormente, a partire proprio dalla partita dei rinnovi dei contratti nazionali.

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Ancora espulsi europei dal Belgio

Di Checchino Antonini Popoff Quotidiano Max, chiamiamolo così, è venuto in Belgio per amore. E Francesco, nome di fantasia pure questo, è un migrante economico fuggito da Venezia con moglie, un figlio piccolo e un altro in arrivo, dalla sua Venezia. Hanno in comune l’età – appena sotto i quaranta – la residenza a Bruxelles e un pezzo di carta: l’OQT, l’ordre de quitter le territoire. Foglio di via. Perché l’Europa esiste ma la libera circolazione degli europei no. E’ appesa a un comma di una circolare, ostaggio della discrezionalità di funzionari comunali e questure. Una norma del 2004, all’epoca dell’allargamento a est dell’Unione, per scongiurare il turismo del welfare, che fa a pugni con altre clausole dei trattati e mette le persone nelle mani della discrezionalità dei burocrati e di interpretazioni restrittive o illegali.

Schaerbeek

Max era stanco di supplenze. E’ venuto per insegnare italiano ma anche qui l’Italia lo ha trattato da insegnante di serie B, senza indennità di trasferta e con gli stipendi che arrivavano a singhiozzo. Max si licenzia ma intanto s’è innamorato e decide di 4

iniziare la trafila per ottenere la residenza, allega il contratto di lavoro di lei e il certificato di proprietà della casa. «Volevo stare in Belgio ma loro volevano le prove che stessi fattivamente cercando lavoro». Lui, insegnante più che specializzato, sfodera un curriculum di tutto rispetto: sette anni di insegnamento tra il Belgio e il Nord Italia, un progetto in Islanda. Poi, a febbraio 2016, scende a Bologna per sposarsi. Pochi giorni dopo, il 15 marzo, il comune di Schaerbeek, uno dei municipi della cintura della capitale, lo manda a chiamare: «Lei è stato espulso, deve lasciare il Belgio entro 30 giorni. Altrimenti è la prigione». Max descrive quello che chiama il Castello di Kafka, le visite della polizia a casa e il dialogo impossibile con la burocrazia belga che, ad esempio, rifiuta di prendere in considerazione il certificato di matrimonio tradotto a 30 euro al foglio e vidimato dall’ambasciata. «50 anni fa compravano contadini siciliani per farli morire nelle miniere e ora cacciano un siciliano che non chiede nulla al Re del Belgio se non la residenza». Secondo Max, le amministrazioni sono ostaggio dei nazionalisti fiamminghi come quelli del NVA e cercano di movimentare le statistiche sulle espulsioni. C’è una forte discrezionalità, però: Bruxelles non è una città ma la somma di diciannove comuni. La stessa domanda respinta a Schaerbeek, dove c’è una forte presenza di immigrati, può essere accettata in scioltezza in altri comuni. Schaerbeek, come Molenbeek, Forest e Saint-Gilles, sono stati teatro delle operazioni massicce in seguito agli attentati jihadisti di Parigi e di Bruxelles. Proprio mentre le storie di Max e Francesco prendevano corpo.

Molenbeek

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