ORGE EIELSON J ARTE COME NODO/NODO COME DONO
ORGE EIELSON J
ARTE COME NODO/NODO COME DONO
a cura di Martha Canfield
JORGE EIELSON ARTE COME NODO/NODO COME DONO
Firenze
Palazzo Vecchio, Sala d’Arme
29 novembre 2008 - 8 gennaio 2009
Enti promotori Centro Studi Jorge Eielson Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura
Produzione e realizzazione Centro Studi Jorge Eielson
Traduzioni in italiano Antonella Ciabatti
Coordinamento e organizzazione Laura Del Conte
Traduzioni in spagnolo Claudia Cortés
Progetto di allestimento Centro Studi Jorge Eielson Duilio Affanni Luigi Cupellini
Traduzioni in inglese Ashlee Redfern
Ambasciata del Perù, Roma
COMUNE DI FIRENZE
Assessorato alla Cultura
EMBAJADA DEL PERÚ EN ITALIA
Ideazione della mostra Centro Studi Jorge Eieslon
Realizzazione dell’allestimento Ditta Galli, Firenze Ditta Atlas Livelux, Firenze
Mostra a cura di Martha Canfield
Progetto grafico e impaginazione Lisa Cigolini
Comitato scientifico Marina Affanni Antonio Aimi Luciano Boi Antonella Ciabatti Aldo Tagliaferri
Ufficio Stampa Centro Studi Jorge Eielson Lisa Cigolini Laura Del Conte Giulia Spagnesi
Catalogo a cura di Martha Canfield con la collaborazione di Antonella Ciabatti
Trasporti Luigi Trolese Trasporti, Milano Assicurazioni Assicurazioni Generali S.p.A.
Crediti fotografici Gian Paolo Balestrini, Saronno Alicia Benavidas, Lima, Perù Dario Lasagni, Reggio Emilia Maria Mulas, Milano Giovanni Ricci, Milano Giovanni Volante, Firenze Prestatori Centro Studi Jorge Eielson, Firenze Il chiostro arte contemporanea, Saronno ILLVA, Saronno Martha Canfield, Firenze Giuliano Gori, Pistoia
Centro Studi Jorge Eielson
Ringraziamenti della Curatrice
Presidente Onorario Olivia Eielson
La prima mostra personale del grande artista peruviano a Firenze ha visto coinvolte molte istituzioni e persone che per il loro ruolo, per competenza professionale o più semplicemente per motivi di amicizia e generosità, si sono prodigate e hanno stimolato e collaborato a questo progetto durante la sua non semplice ideazione e realizzazione. A tutti va la mia profonda gratitudine, anche a quelli che non riuscirò a citare qui per nome. In ogni caso, un ringraziamento speciale va a: il Comune di Firenze per l’appoggio offerto fin dall’inizio e il personale dell’Assessorato alla Cultura, in special modo Daniele Ciullini; l’Ambasciata del Perù, l’Ecc. mo Sig. Ambasciatore Carlos Roca Cáceres e la Dott.ssa Giovanna Zanelli, che hanno auspicato l’attuale mostra collaborando in varie forme alla realizzazione di questo progetto; l’ILLVA di Saronno e la Galleria Il Chiostro Arte Contemporanea, e in particolare Marina Affanni, per la devozione nei confronti del “suo” Maestro e per il delicato e importante lavoro da lei intrapreso configurando l’archivio delle sue opere; a lei e a suo padre Duilio per la collaborazione fondamentale nell’allestimento di questa mostra; Michele Ventura e sua moglie Silvia, che hanno creduto subito al nostro progetto e mi sono stati a fianco soprattutto nelle prime e ancora incerte decisioni, e proprio per quello più difficili; Aldo Tagliaferri, vicepresidente del Centro Eielson, amico personale del Maestro ed esperto conoscitore della sua opera artistica e letteraria, che mi è stato vicino fin dalle ore difficili della sua scomparsa e della fondazione del Centro, fornendomi contatti e consigli saggi e utili; Antonio Aimi per i suoi molti e giusti suggerimenti; e anche per avere immaginato una manifestazione molto più vasta e articolata di quella che poi abbiamo effettivamente realizzato, ma il cui sogno rimane in piedi come sicuro stimolo; Antonella Ciabatti, socia fondatrice del Centro, collaboratrice e amica costante, che ha lavorato fin dall’inizio con competenza e generosità, mettendo a frutto l’esperienza guadagnata insieme nelle prime manifestazioni organizzate a Venezia, nelle quali Eielson aveva un ruolo centrale; Laura Del Conte, per il suo indispensabile aiuto, per essersi prodigata in vari campi, dall’amministrativo, all’organizzativo, al logistico, al pubblicitario, sempre con grande fede ed entusiasmo, senso della responsabilità ed efficenza professionale; Lisa Cigolini, che ha voluto dedicare la sua tesi di laurea proprio agli eventi del Centro Eielson, e poi ha continuato a porre al servizio di questo progetto la sua creatività e la sua professionalità; Giuliano Gori, amico, collezionista ed editore di una parte delicata e fino ad allora trascurata dell’opera di Eielson, la sua poesia visiva; Maria Mulas, fotografa “storica” di Eielson, e cara amica; Marco e Roberto Niccoli, per il lavoro svolto attraverso la loro Galleria di Parma e l’attenzione offerta all’attività multiple di Eielson; infine, un grazie di cuore e la mia affettuosa riconoscenza a Patricia e Mario Vargas Llosa.
Presidente Martha Canfield Vicepresidente Aldo Tagliaferri Consiglieri Antonio Aimi Luciano Boi Antonella Ciabatti Bruno Coppola Paolo Iacuzzi Antonio Melis Mario Sartor Tesoriera Laura Del Conte Segretario Ivano Malcotti Comitato Scientifico Mario Vargas Llosa (Direttore) Fernando de Szyszlo Antonio Aimi Irma Arestizábal Luciano Boi Fina García Marruz Paolo Fabrizio Iacuzzi Antonio Melis Álvaro Mutis José Miguel Oviedo Luis Rebaza Soraluz William Rowe Márgara Russotto Lorraine Verner Cintio Vitier
sommario presentazione Ambasciata del Perù in Italia
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saggi Mario Vargas Llosa Vivere è un’opera maestra Martha Canfield Jorge Eduardo Eielson: l’uomo che annodava parole e stelle
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Fernando de Szyszlo Jorge Eduardo Eielson come artista adolescente
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Aldo Tagliaferri Il sorriso malinconico del clown artista
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Luciano Boi e Lorraine Verner La realtà come creazione e trasformazione di nodi
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Antonio Aimi Intervista a Jorge Eielson, un artista totale
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Carlos Runcie Tanaka Al maestro e amico
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opere in mostra
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apparati Eielson nella memoria di artisti e poeti
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Cronologia
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Bibliografia
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Esposizioni
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traduzioni inglese
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spagnolo
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Jorge Eduardo Eielson
(Lima, 13/04/1924 – Milano, 8/3/2006)
Jorge Eduardo Eielson non è solo un nome, sono anche tre parole che insieme dicono “arte” ed evocano armoniosamente un peruviano eccezionale. Pittore, scultore, scrittore e poeta sono tre categorie che descrivono il genio creatore di un artista integrale che ha fatto della sua vita un’intera opera d’arte nella ricerca continua della propria identità creativa e nello stesso tempo creatrice. Propria dei grandi uomini e dei grandi artisti, soprattutto, è l’incomprensione con cui è stata percepita la sua opera iniziale (in contrasto con il successivo repentino riconoscimento della sua opera, presentata e tradotta in diverse lingue). Il fatto è che l’innovatrice proposta delle sue prime creazioni artistiche a Lima, non venne apprezzata nella sua dimensione reale. La sua sensibilità fu unica. La permanente capacità di apprendere la realtà attraverso la esplorazione del mondo, sorprendeva Eielson nella ricerca di sé stesso e di quel che del mondo prese per sé. La sua speciale apertura verso il mondo si costruì nei suoi anni di formazione in Perú, e va dal suo avvicinamento ai nodi e dalla sua relazione con i quipus andini, fino alla ricreazione dei paesaggi della costa peruviana. La famiglia, gli amici, il Perú, l’America Latina, la vita stessa, hanno fatto parte della sua identità come artista e della sua conformazione come essere umano, ed è stata proprio questa identità, aperta, contemplativa e esplorativa, a servire da mezzo all’artista per avvicinarlo con fluidità al mondo che lo circondava. In commemorazione di Jorge Eduardo Eielson, l’Ambasciata del Perú in Italia ringrazia e saluta coloro che diffondono l’opera universale di questo illustre artista peruviano che, come la sua opera, nacque a Lima, viaggiò per il mondo, crebbe immensamente e, dall’Italia, partì verso l’infinito.
Ambasciata del Perù in Italia
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saggi
VIVERE È UN’OPERA MAESTRA Mario Vargas Llosa
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Jorge Eduardo Eielson (1924-2006) apparteneva alla cosiddetta “generazione del ’50”, che ha contribuito in modo decisivo a infrangere i limiti regionalisti della poesia peruviana e a introdurla nella modernità. Seguì, in questo impegno, l’esempio di alcuni illustri predecessori: José María Eguren, César Vallejo, Martín Adán, César Moro y Emilio Adolfo Westphalen. All’interno della “generazione del ’50”, della quale facevano parte Javier Sologuren, Sebastián Salazar Bondy, Blanca Varela, Raúl Deustua y Carlos Germán Belli, Eielson fu uno dei poeti più precoci e di più definita personalità. Lettore appassionato dei classici, dei greci, del Secolo d’Oro, della poesia francese, di Rilke, dei surrealisti, le sue prime pubblicazioni, fin dal quasi adolescenziale Reinos (1945), mostrano un poeta magnifico ed esaltato, dalla voce molto personale, che ambisce a fare propria tutta la migliore tradizione culturale dell’Occidente. Due anni prima, nel 1943, aveva scritto una bella trasfigurazione visionaria de La chanson de Roland, Canción y muerte de Rolando, poema in prosa che mentre evoca le celebri gesta di Roncisvalle, scorre come un fiume di immagini audaci e imprevedibili e di grande bellezza verbale. Antigone, Aiace, il Chisciotte sono anch’essi pretesti per evocazioni liriche in cui il giovane creatore esprime la propria vocazione universale e la disinvoltura con cui utilizza i classici come una piattaforma dove costruire la propria personalità. Nel 1948, quando Eielson parte per l’Europa, dove di fatto passerà il resto della sua vita, è un poeta già formato, di singolare accento e, culturalmente parlando, cittadino del mondo. Mai rinnegherà tale condizione di artista che non ammette frontiere, né geografiche né culturali, e per tutta la sua vita manterrà uno spirito aperto, curioso e vorace che lo porterà, non contento di coltivare un unico genere, a saltare dalla poesia alla pittura, al teatro, al romanzo, agli spettacoli (che chiamava “performance” e “azioni”), alle installazioni e perfino al circo (a Martha Canfield disse, con molta serietà, che si considerava soltanto un “saltimbanco” e “un pagliaccio”). Era interessato a tutto: archeologia, scienza, religioni, e soprattutto, dalla fine degli anni ’50, al buddismo zen. Partecipò in certo qual modo a tutte le mode intellettuali e artistiche del dopoguerra europeo, ma non prese mai parte a nessuna setta o gruppo e difese sempre la propria indipendenza e solitudine, e mantenne, anche nei momenti più esibizionistici del suo percorso, come quando collocava poesie invisibili nelle astronavi o in monumenti pubblici famosi, una distanza discreta e segreta da quello che faceva. A differenza di altri artisti contemporanei che incorrevano spesso nel ridicolo per ragioni di autopromozione, Eielson ha mostrato lungo tutta la sua vita un’indifferenza olimpica per il successo e una serietà rigorosa in tutto ciò che intraprendeva come artista, perfino nelle sue burle piene di humour. Il suo disprezzo per la fama era tale che per molti anni è stato quasi impossibile leggere la sua poesia, per mancanza di edizioni accessibili. La sua pittura è sottilmente ispirata ai tessuti e ai quipus preispanici, che lo interessarono fin da giovane, così come alle arti e alle credenze dei popoli primitivi che studiò con passione nei suoi anni europei. I “nodi” che percorrono le sue tele, disegni e oggetti, non sono tuttavia ricostruzioni archeologiche, imitazioni, bensì variazioni che, a partire da forme provenienti da una cultura ancestrale, permettevano a Eielson di esercitare la sua immaginazione e di riversarvi una singolare sensibilità, nella quale si fondevano il suo recondito misticismo, la sua grande versatilità in discipline e materie diverse e la sua passione per la bellezza. Non si annoiava mai e con la sua vita ha dimostrato che era esatto il titolo che aveva scelto per uno dei suoi libri: vivere è un’opera maestra.
Eielson come persona ha avuto sempre un che di segreto, un’intimità che teneva fuori portata anche i suoi amici più vicini. Quel fondo misterioso che coinvolgeva e affascinava coloro che lo conoscevano e che è ben presente nei suoi scritti, nelle sue culture e nei suoi quadri. E forse sarà uno degli elementi in grado di garantire la perennità di un’opera plastica e poetica che, benché inseparabile dal tempo in cui ha preso forma, merita di sopravvivere e dare testimonianza, là nel futuro, davanti alle nuove generazioni, dei miti, dei sogni, delle miserie e degli eroismi del mondo in cui Eielson ha sofferto e gioito.
Firenze, 2008
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Jorge Eduardo Eielson: l’uomo che annodava parole e stelle Martha Canfield
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Jorge Eduardo Eielson nacque a Lima, Perú, il 13 aprile del 1924. Suo padre, nordamericano di origine scandinava, scomparve quando lui era molto piccolo e a lui fu detto che era morto. Venne allevato da una famiglia della capitale di cui parlò sempre come se fosse la sua: la madre, due sorelle più grandi e un fratello più piccolo, morto prematuramente. Il piccolo Jorge manifestò subito marcate tendenze artistiche, suonava il pianoforte (tutta la famiglia amava la musica), disegnava in continuazione, recitava passi dei suoi autori preferiti e inventava oggetti con qualunque materiale gli capitasse a tiro. Nel corso di alcune delle numerose interviste che gli hanno fatto, lui stesso ha riconosciuto un nesso tra le sue varie radici etnico-culturali e la varietà dei propri interessi creativi, senza escludere la sua curiosità scientifica, filosofica e religiosa: «le mie quattro culture» ha detto «spagnola, italiana, svedese e nazca». All’epoca, la capitale peruviana non soffriva ancora il degrado dei tempi più recenti, tempi che Eielson seppe anticipare nel suo romanzo Primera muerte de María [Prima morte di Maria], scritto negli anni cinquanta. A Lima si viveva allora una relativa stabilità economica e in città si potevano trovare ricchi fermenti culturali aperti agli stimoli che provenivano dai grandi centri internazionali. Il giovane Eielson poté così nutrirsi soprattutto di cultura europea. Imparò l’inglese e il francese, lesse Rimbaud, Mallarmé, Shelley, Eliot, i mistici e i classici spagnoli del Secolo d’Oro, i poeti iberici del XX secolo e, naturalmente, i grandi poeti americani del Nord e del Sud del continente: Poe, Whitman, Darío, Vallejo, Neruda, Borges. Di carattere inquieto e di intelligenza vivace e curiosa, da ragazzo cambiò scuola diverse volte, fino a che, verso la fine dei suoi studi superiori, gli toccò come professore di lingua spagnola José María Arguedas, che cominciava allora a farsi conoscere come scrittore e come etnologo. Arguedas, impressionato dal talento dell’adolescente, divenne suo amico e lo introdusse nei circoli artistici e letterari della capitale. Così come lo iniziò alla conoscenza delle antiche culture peruviane, che erano allora misconosciute, o ancor peggio disprezzate, dalla cultura ufficiale, tradizionalmente filo-ispanica e anti-indigenista. Nel 1945, a 21 anni, con il suo primo libro di versi, Reinos [Regni], Eielson ottenne il Premio Nacional de Poesía del Perú e l’anno successivo vinse un premio nazionale di teatro. A partire dallo studio della scrittura poetica e attratto dal binomio tradizione/innovazione nella sua patria, realizzò insieme ai suoi amici Javier Sologuren e Sebastián Salazar Bondy l’antologia La poesía contemporánea del Perú (Lima, 1946). Nello stesso periodo cominciò a dipingere le sue prime tele, in cui si nota l’influenza di due artisti molto importanti per la sua formazione: Klee y Miró. Eielson non credeva troppo nello studio accademico –e non avrebbe cambiato idea– ma decise comunque di seguire dei corsi di disegno e di pittura all’Accademia delle Belle Arti di Lima, quasi sicuramente influenzato dalla sua amicizia con il direttore, l’artista peruviano Ricardo Grau. Paradossalmente poco tempo dopo, lo stesso Grau –che a sua volta si era formato a Parigi nello studio di André Lothe– gli sconsigliò di seguire quei corsi in quanto li considerava inadeguati a lui. Nel 1948, insieme al pittore Fernando de Szyszlo e nell’unica galleria allora esistente nella capitale, Eielson espose un gruppo di opere che testimoniano la sua versatilità : disegni, acquarelli, olii, costruzioni di legno dipinto e bruciato, oggetti di tipo surrealista e mobiles di metallo a forma di spirale. In questo periodo scriveva per diversi periodici locali e dirigeva, in collaborazione con Jean Supervielle, figlio del poeta Jules, la rivista di arte e letteratura «El Correo de Ultramar». Sempre nel 1948 si recò a Parigi con una borsa di studi del governo francese. Parigi era da più di mezzo
secolo la meta naturale degli intellettuali latinoamericani ed Eielson ci si sentì subito a proprio agio. Frequentava il Quartiere Latino, allora in piena effervescenza esistenzialista, e passava molte ore del giorno e della notte nelle caves di Saint-Germain des Près, insieme a scrittori provenienti da tutto il mondo, che consideravano la Ville lumière del dopoguerra come centro della cultura e fulcro di ogni creatività. Conobbe l’arte di Piet Mondrian e si avvicinò al gruppo MADI, che lo invitò a partecipare alla prima manifestazione d’arte astratta realizzata nel Salon des Réalités Nouvelles. Il gruppo MADI era guidato da Arden Quin e da Volf Roitman e a Buenos Aires contava fra i propri adepti Lucio Fontana, Tomás Maldonado e G. Kosice. Il risultato di tale partecipazione fu l’invito ad esporre anche nella prestigiosa galleria d’avanguardia di Colette Allendy. Conobbe così Raymond Hains, di cui continuò ad essere amico per molti anni, e grazie a lui entrò in contatto con in “nuovi realisti” e con Pierre Restany, considerato guida spirituale e teorizzatore del gruppo, e che successivamente si occupò più volte dell’opera del nostro peruviano. Poco dopo, Eielson dava per conclusa la sua fase geometrica, costruttivista e neoplastica e si trasferiva in Svizzera con una borsa di studio dell’Unesco per i suoi articoli giornalistici. Lì conobbe Max Bill. A Ginevra riprese la scrittura, attratto dalla collocazione del testo letterario in uno spazio visuale, ovvero lo scenario teatrale. Pochi, ma molto originali, sono i testi teatrali da lui realizzati. Nel 1947, a Lima, aveva scritto un’opera intitolata Maquillaje, che venne messa in scena nel 1950, provocando perplessità e anche un certo scandalo. Successivamente, come autore di teatro, si collocò nella linea di Beckett, che fu sempre l’autore contemporaneo che sentì più vicino alla sua sensibilità e alla sua idea di quello che avrebbe dovuto essere il teatro. Nel 1951 intraprese il viaggio che si rivelò fondamentale e definitivo per la sua vita, trasferendosi in Italia per le vacanze estive, in compagnia del poeta Javier Sologuren. Appena calpestò il suolo della penisola capì di avere incontrato la sua terra d’elezione. Arrivato a Roma decise di restarci e pregò il suo amico di fargli arrivare da Parigi alcuni libri e i suoi effetti personali, e iniziò così la lunga e intensa esplorazione delle proprie radici latine. Con molti viaggi più o meno brevi e numerosi spostamenti interni ed esterni, l’Italia si rivelò la sua definitiva sede di residenza: per oltre cinquant’anni, e fino alla sua morte. Negli anni ottanta si trasferì definitivamente e Milano e iniziò la consuetudine di trascorrere tutte le estati in Sardegna, in provincia di Nuoro. Lì il suo amico, il pittore sardo Michele Mulas, aveva ereditato una casa circondata da boschi, che insieme restaurarono e trasformarono in un’incantevole residenza ecologica e artistica. Nel 1952 vinse un nuovo concorso, questa volta organizzato dal Centro Sperimentale di Cinecittà a Roma, per seguire un corso di regia. Sebbene sia certo che il cinema è stata una delle sue grandi passioni e nonostante l’entusiasmo iniziale, non vi rimase molto a lungo e si ritirò disgustato da alcuni aspetti dell’ambiente. Nel 1953 espose alcuni dei suoi mobiles presso la Galleria dell’Obelisco, che era allora il più importante spazio romano di novità artistiche e in questa occasione conobbe Emilio Villa, che scrisse un’acuta recensione sulla sua opera, pubblicata dalla rivista «Arti visive». Villa gli presentò, fra gli altri, Ettore Colla e Alberto Burri, e con quest’ultimo Eielson stabilì una stimolante relazione che si protrasse durante il suo famoso periodo delle “borse”, portate a termine nello studio di via Aurora, che Eielson frequentava assiduamente. Anche Giuseppe Capogrossi si interessò ai mobiles di Eielson e lo presentò a Carlo Cardazzo, che stava per aprire una galleria d’arte a Roma. Ma l’artista, deciso a proseguire per la propria strada e nella propria ricerca, decise di non accettare l’invito e diede per conclusa questa fase della sua sperimentazione. Seguì una fase di ripiegamento interiore nella ricerca visiva; in questo periodo soleva andare quasi ogni
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pomeriggio allo studio di Corrado Cagli, in via del Circo Massimo, dove l’artista marchigiano gli fece conoscere Afro, Mirko, Salvatore Scarpitta, Richard Serra e altri. In quegli anni conobbe anche alcuni dei cosiddetti “artisti di Piazza del Popolo”, come Piero Dorazio, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Antonio Sanfilippo, Carla Accardi, Cy Twombly, Roberto Sebastián Matta, poco prima dell’inizio della pop art italiana, della quale Eielson non si interessò mai. Fu questo un periodo di intensa consacrazione alla scrittura, durante il quale produsse una delle sue raccolte più significative Habitación en Roma [Di stanza a Roma] e due romanzi El cuerpo de Giulia-no [Il corpo di Giulia-no] e Primera muerte de María [Prima morte di Maria], che però resteranno inediti per molto tempo. Questo fu anche il periodo della scoperta del buddismo zen, attraverso il quale giungerà a una scrittura iconica, visiva e concettuale, con il conseguente rifiuto della letteratura nella sua forma più tradizionale e locutiva e con un nuovo avvicinamento all’esercizio dell’attività artistica. Nel 1959 Eielson riprese il lavoro visivo, disposto a esplorare le proprie radici americane più remote. Lasciando da parte gli eccessi dell’avanguardia, adoperò materiali eterogenei, come terre, sabbie (facendole perfino arrivare direttamente dalla costa del Perù), argille, escrementi animali, polvere di marmo e di ferro, oltre al cemento, con cui “scolpiva” la superficie del quadro. Con questi materiali costruì un paesaggio austero, desolato astratto, quasi metafisico, come effettivamente è il paesaggio della costa peruviana, secondo le sue stesse dichiarazioni. Con queste opere –quei meravigliosi “paesaggi infiniti” che rispetto alla sua letteratura trovano correlazione forse soltanto nei suoi romanzi– Eielson iniziò un lungo e complesso rapporto con la Galleria Lorenzelli di Milano e di Bergamo; diverse volte la relazione s’interruppe bruscamente, diverse volte fu ripresa, ma in definitiva per lui ha rappresentato un eccellente appoggio sulla scena artistica italiana, prima del suo ritorno a Parigi e nel continente americano poi. Nel frattempo, benché avesse lasciato il suo paese –senza sapere che sarebbe stato per sempre, cosa che gli fu rimproverata da Sebastián Salazar Bondy–, a Lima non lo dimenticavano. Al contrario, l’interesse per la sua poesia andava crescendo e diffondendosi, specialmente tra le nuove generazioni. Nel 1959, quando già la sua scrittura percorreva strade molto diverse, a Lima pubblicarono Canción y muerte de Rolando [Canzone e morte di Rolando], esempio di poesia neobarocca, scritta nel 1943. Nel lavoro artistico, i suoi paesaggi cominciano a popolarsi gradualmente dell’immagine umana, ottenuta con indumenti d’ogni tipo: camicie, giacche, blue-jeans, abiti da sposa, o da sera, calze, scarpe, cravatte, guanti, cappelli, ecc. Questo interesse per la simbologia e per la funzione sociale del vestiario è presente in parte nei romanzi, in modo preponderante nella raccolta scritta poco dopo (Noche oscura del cuerpo [Notte oscura del corpo], 1955) si sviluppa ancor più nelle performance e installazioni cui avrebbe dato vita più avanti. Allo stesso tempo, mediante la manipolazione di capi di vestiario –stropicciando, strappando, bruciando, torcendo e finalmente annodando i vari capi– si andava poco a poco definendo la speciale sensibilità dell’artista per i tessuti. Nel 1963, presa coscienza della grande energia e bellezza racchiusa nel nodo, Eielson iniziò la prima serie dei suoi quipus, con tessuti dai colori vivaci annodati e tirati sul telaio. Usando la parola in lingua quechua come titolo delle proprie opere, lui non voleva imitare bensì citare le famose composizioni di corde annodate, usate come codice linguistico dai suoi antenati precolombiani. In questo modo realizzò un’autentica sintesi culturale, plastica, magica e simbolica, in cui contemporaneamente recuperava il linguaggio degli antichi amerindi –inteso nel suo aspetto più visivo– in stretta armonia con uno degli elementi fondamentali dell’arte
occidentale: il telaio europeo. La dualità tela/telaio, così ricostruita, si trasforma in un oggetto estetico nuovo che coincide, sebbene con un segno diverso, con il “concetto spaziale” di Fontana, che ha posto in evidenza la stessa dualità come unica protagonista dell’opera. Ma il nodo in quanto tale si può dire che si trova in ogni stadio della civiltà e che può esercitare la più semplice funzione di utilità, come incarnare a volte le più sofisticate concezioni mitiche, magiche e sacre. Eielson fu cosciente di questo e non pretese di rielaborare un linguaggio, ma piuttosto di proporre di nuovo un’entità plastica e cromatica, concentrandovi il suo contenuto archetipico meno esplorato. Al complesso insieme di significati che il nodo implica, si deve esattamente il posto preponderante che Eielson gli ha destinato nel suo personalissimo codice espressivo. Il nodo è per lui segno grafico, fondamento estetico e nucleo del colore. Così come è anche il punto di saldatura tra il passato precolombiano del suo paese e il suo presente storico ed artistico. Altri artisti latinoamericani hanno cercato nei codici maya e aztechi, o in altre forme dell’arte preispanica, un segno che potesse modulare il loro linguaggio contemporaneo con la suggestione e la profondità delle radici storiche: così lo hanno fatto attraverso diverse invenzioni pittoriche, il cileno Matta, il cubano Lam, l’uruguaiano Torres García e altri. Però solo Eielson ha trovato un fondamento artistico e antropologico nel quipu peruviano e ha saputo trasformare l’antico segno quechua nel nucleo estetico e semantico di un linguaggio squisitamente moderno. Il nodo di Eielson, inoltre, è il momento d’incontro tra i suoi vari codici espressivi, dalle pitture alle tele, agli oggetti, alla poesia, e anche tra le due dimensioni in cui si sviluppa la sua stessa ricerca: materiale e metafisica. Questo appare chiaramente in due quadri dal titolo emblematico: Nudos como estrellas e Estrellas como nudos [Nodi come stelle e Stelle come nodi], poi riuniti in uno solo. Di modo che il nodo è anche ciò che lega il cielo alla terra, il corpo al cielo, l’anima alle viscere. Da qui le infinite variazioni del nodo stesso che esercita molteplici tensioni, creando spazi dinamici, diagonali, triangolari o romboidali, che continuamente conducono a oasi circolari dove l’energia liberata dagli annodamenti, si diffonde e si dilata con grande serenità. Altre volte, al posto del nodo con le sue diverse tensioni, appaiono fasci di tessuti ritorti, che possono essere bandiere, o capi d’abbigliamento, o puri giochi di tessuti colorati o neutri (iuta, cotone, lana, velluto, etc.) che si presentano come oggetti scultorei, in tre dimensioni, affrancati dal telaio. Dopo la biennale di Venezia del 1964, dove espose i suoi primi nodi, Eielson ottenne prestigiosi riconoscimenti internazionali e gli fu perciò possibile portare le proprie opere in grandi musei come il MOMA e la Collezione Nelson Rockefeller di New York, ricevette rinnovati inviti al Salon de Mai e al Salon des Comparaisons di Parigi e fu, inoltre, chiamato a esporre in numerose gallerie private. Nel 1967 visse a New York e frequentò l’ambiente del Chelsea Hotel, dove conobbe i più grandi artisti americani della pop art e della nascente arte concettuale. Nel frattempo a Lima veniva pubblicata, con oltre dieci anni di ritardo rispetto alla data di scrittura, la sua raccolta poetica, mutatis mutandis. Tornato a Parigi in pieno maggio 1968, partecipò attivamente alle manifestazioni di quel periodo che segnò profondamente la sua creatività. Nel 1969 fu invitato alla storica mostra Plans and Projects as Art, nella Kunsthalle di Zurigo, dove presentò Escultura subterránea [Scultura sotterranea], una serie di cinque oggetti immaginari e irrealizzabili che dovevano essere sepolti in cinque diverse città del pianeta vincolate alla sua storia personale: Parigi, Roma, New York, Eningen e Lima. Allo scoccare della mezzanotte del 16 dicembre del 1969, nella Galleria Sonnabend di Parigi,
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si dette vita all’“inaugurazione” della Escultura subterránea, alla presenza dell’autore, mentre nelle altre città prescelte si svolgevano contemporaneamente le cerimonie di “sepoltura”. Nello stesso anno Eielson propose all’ente spaziale americano la collocazione di una sua “scultura” sulla Luna. La NASA rispose suggerendogli una data posteriore, dato che in quel momento, nell’ambito del “Progetto Apollo”, tale iniziativa era irrealizzabile. Allora passò a proporre di spargere le proprie ceneri sulla superficie lunare, in quanto riteneva che il satellite della terra fosse da sempre un cimitero ideale per i poeti. Nel 1971 esce in Messico il suo romanzo El cuerpo de Giulia-no, pubblicato da Joaquín Mortiz, grazie all’interessamento effettivo di Octavio Paz, con cui Eielson mantenne sempre un’amicizia cordiale fin dall’epoca della loro permanenza a Parigi. Il romanzo, che si svolge a Venezia, esprime la perplessità dell’autore di fronte alle ambiguità della vita (Giulia è e non è Giuliano, è contemporaneamente l’amore e l’amicizia, la grazia e la volgarità) e contiene un riferimento sostanziale al mondo peruviano e al codice dei quipus. È proprio in questo romanzo che compaiono le famose triadi simboliche, già citate in cataloghi e altri testi sull’opera di Eielson:
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un nodo bianco due nodi bianchi tre nodi bianchi
la vita l’amore dio-il paradiso-il bene
un nodo nero due nodi neri tre nodi neri
la morte la guerra l’inferno-il demonio-il male
un nodo rosso due nodi rossi tre nodi rossi
il sangue la riproduzione le stelle
un nodo giallo due nodi gialli tre nodi gialli
il fiore il frutto il sole
un nodo azzurro due nodi azzurri tre nodi azzurri un nodo verde un nodo arancio un nodo violetto
l’aria l’acqua-il fiume-il lago-la pioggia e il cielo la terra-la pianta-l’albero il fuoco la luna
I lavori che seguirono sono simili alle “sculture sotterranee”: il Ballet subterráneo [Balletto sotterraneo], realizzato in un vagone della metropolitana di Parigi in movimento; la performance Natación [Nuoto], realizzata nella campagna parigina (le foto mostrano l’artista mentre, nudo, nuota in un immenso campo di fiori di lavanda); il Concierto de la Paz [Concerto della Pace], in Documenta N° 5 di Kassel, su invito di Harald Szeemann; la performance El cuerpo de Giulia-no, a partire dal succitato romanzo, alla Biennale di Venezia
del 1972; la performance Gran quipu de las naciones [Gran quipu delle nazioni], alle Olimpiadi di Monaco, interrotte dalla tragica azione di terrorismo antisemita; la performance Paracas-Pyramid, alla Kunstakademie di Düsseldorf, su invito di Fritz Schwegler. Nel 1973 uscì a Lima la seconda edizione di Reinos, a quasi due decenni di distanza dalla prima (1945), con la quale aveva ottenuto il Premio Nazionale di Poesia e nel 1976 l’editrice Albin Michel pubblicò la traduzione francese di El cuerpo de Giulia-no (Le corps de Giulia-no). Nello stesso anno Eielson andò in Venezuela, dove presentò Paracas-Pyramid e una esposizione di fotografie al Museo di Arte Contemporanea di Caracas. Proseguì in Perù dove l’Istituto di Cultura pubblicò un’ampia selezione della sua opera poetica, a cura di Ricardo Silva-Santisteban con il titolo Poesía escrita. Tale titolo, per espressa volontà dell’artista, rimarrà unico e immodificabile in tutte le successive edizioni della sua poesia, a prescindere dalle considerevoli differenze fra l’una e l’altra (1989 Messico e 1998 Bogotà), fino a che, con il nuovo millennio, e a partire da una nuova fase intensamente creativa e innovatrice, cominciano a delinearsi nuove raccolte poetiche e nuovi titoli. Durante la sua permanenza in Perù, nel 1976, Eielson si dedicò con fervore allo studio dell’arte precolombiana, con particolare attenzione ai tessuti, da lui considerati i prodotti più straordinari dell’arte tessile di tutti i tempi, caratterizzati da una freschezza e da una modernità che non cessano di sorprendere, come dimostra la suggestione che avrebbero esercitato su artisti del calibro di Klee, Miró, Picasso, Mondrian, Torres García, Matta, fino a Keith Haring e molti altri. Nel 1978 ottenne a New York la borsa di studio Guggenheim per la letteratura, nel 1979 espose nel Museo di Arte Moderna del Messico, e successivamente si dedicò per diverso tempo a scrivere sull’arte precolombiana. Alcuni di questi saggi e articoli (Puruchuco, L’arte e la religione Chavín, Luce e trasparenza nei tessuti dell’antico Perù) furono pubblicati su riviste d’arte come la italiana «FMR» di Franco Maria Ricci; altri articoli come Escultura precolombina de cuarzo [Scultura precolombiana in quarzo], diventeranno libri, accompagnati da un originale e insolito materiale fotografico. Nel 1983 uscì per la prima volta e in edizione bilingue, tradotta in francese da Claude Couffon, la raccolta poetica Noche oscura del cuerpo/Nuit obscure du corps, scritto a Roma nel 1955. Tuttavia malgrado l’eleganza delle versioni francesi, l’edizione non riuscì a convincere l’autore, in quanto la serie era in realtà incompleta. Successivamente si pentì di avere inserito in quel volume poesie che in edizioni successive avrebbe identificato come parti integranti di un’altra raccolta: Ceremonia solitaria [Cerimonia solitaria] (come si può vedere nell’edizione di Poesía escrita, pubblicata nel 1989 da Vuelta). Nel campo delle arti visive la sua attività continuò con esposizioni personali al Museo di Belle Arti di Caracas nel 1986, alla III Biennale di Trujillo in Perú nel 1987, al Centro Cultural de la Municipalidad de Miraflores a Lima e alla Biennale di Venezia del 1988. Nel 1987 il Fondo di Cultura Economica del Messico pubblicò il suo romanzo Primera muerte de María, il cui titolo, che riprende quello di una poesia del 1949, apparirà ancora in alcune installazioni e performance. Il romanzo si presenta come un collage di due momenti di scrittura: la prima versione della storia, dove l’autore aveva voluto manifestare direttamente la propria visione della realtà peruviana: e la successiva serie di riflessioni che aveva poi risvegliato in lui nel 1980 la rilettura di quel vecchio testo. Questo secondo momento di scrittura crea una seconda versione –che appare intercalata alla prima– in cui il problema della scrittura stessa, amata e rifiutata da Eielson nel corso della propria storia, torna a porsi in primo piano.
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Nel 1989, la casa editrice Vuelta, diretta da Octavio Paz, pubblicò, come si è già detto, Poesía escrita, in una edizione sostanzialmente diversa dalla precedente edizione peruviana. In primo luogo l’edizione messicana eliminò tutto quello che nell’edizione peruviana si trovava sotto la denominazione di “poesia visiva”. Questa decisione dell’autore soppresse di fatto qualcosa che, per il lettore, era utile in quanto illustrava il processo che lo aveva portato verso una poesia sempre più spoglia di supporti retorici, sempre più essenziale, disincantata, ironica e, infine, iconica e visiva, sino ad arrivare alla soppressione totale della parola. Eielson, naturalmente, aveva i suoi motivi: la pubblicazione limegna, con tutti i suoi meriti, aveva dimostrato che il passaggio a forme visive non poteva realizzarsi senza il supporto formale di una edizione di tipo artistico che potesse illustrare efficacemente l’idea visiva dell’autore, e per ciò era indispensabile qualcosa di più di una tipografia di tipo tradizionale. Lo stesso problema si presentò di nuovo con la casa editrice Vuelta. E allora decise di sopprimere le serie intitolate naturaleza muerta, eros/iones, canto visible e papel, e aggiunse, invece, la versione completa della raccolta Noche oscura del cuerpo (1955), pubblicata in volume unico a Lima, pochi mesi prima; completò le serie di Ceremonia solitaria (1964) e Arte poética (1965), e introdusse l’opera inedita Ptyx (1980). Un’altra selezione antologica che rispetta quest’ultima divisione è quella pubblicata a Firenze, nel 1993, in edizione bilingue con traduzione italiana e fedelmente intitolata, ancora una volta, Poesia Scritta. Nel 1990, poco dopo l’uscita dell’edizione messicana di Poesía escrita, Eielson andò in Messico invitato da Octavio Paz, per partecipare all’esposizione Los privilegios de la vista, nel Centro Internazionale di Arte Contemporanea. Al suo ritorno presentò un’esposizione personale all’Istituto Italo Latino-Americano di Roma (IILA), con cui si può dire che sancì la ripresa dell’attività artistica in Italia e pose fine a un nomadismo geografico e culturale che se da una parte aveva arricchito e diversificato i suoi modi di espressione, d’altra parte gli aveva procurato alcune incomprensioni, tanto in campo artistico quanto letterario, non permettendo che si mettesse a fuoco nel debito modo la grande ansia di variazione, mobilità, innovazione e sorpresa che, tanto nella sua opera plastica come in quella letteraria, testimonia la ricerca infaticabile e autentica di una personalità pluriforme e multidotata. Due eventi furono, a suo parere, molto utili per una valutazione più completa della sua opera: il primo, nel 1993, fu l’allestimento di una vasta esposizione, accompagnata da un eccellente catalogo, del suo lavoro visivo nella prestigiosa Galleria delle Stelline, a Milano, con il titolo Il linguaggio magico dei nodi, che comprendeva pitture, assemblaggi, sculture, fotografie e due istallazioni dedicate a Leonardo da Vinci. Il secondo evento, nel 1995, fu la pubblicazione, da parte dell’Università Iberoamericana del Messico, del volume El diálogo infinito (una lunga conversazione con l’autrice del presente articolo) illustrato con fotografie e riproduzioni a colori di alcune delle sue opere. Lì l’artista affronta svariati temi, chiarisce possibili ambiguità e definisce la propria posizione sull’arte, la letteratura e la cultura in generale. Un importante sforzo per mettere finalmente a fuoco la totalità della sua opera, senza incorrere in settorializzazioni (cosa che facilmente accade a chi lo studia) fu realizzato a Londra, nel 1997, su iniziativa di William Rowe. Presso, l’Institute of Latin American Studies, dell’Università di Londra, si riunirono per due giorni (23 e 24 ottobre) esperti di arte contemporanea e di letteratura ispanoamericana nel convegno internazionale L’opera visiva e letteraria di Jorge Eduardo Eielson; in quell’occasione fu presentato un CD Rom su tutta la sua opera e sulle connessioni tra i suoi diversi codici espressivi. Nel 1998 Norma pubblicò a Bogotà una nuova compilazione di tutto ciò che fino ad allora si poteva
considerare la totalità dei suoi scritti poetici: il titolo, di nuovo, era Poesía escrita. Questo volume raccoglie per la prima volta diverse poesie ancora inedite o pubblicate soltanto in riviste letterarie e che, per le loro caratteristiche e per il periodo in cui erano state scritte, possono essere attribuite a raccolte poetiche già conosciute (Reinos, Doble diamante, Tema y variaciones, Ceremonia solitaria) e anche un atto unico per il teatro, Acto final, oltre a quattro serie inedite, Cuatro parábolas del amor divino [Quattro parabole dell’amor divino] (1943), De materia verbalis (1957-58), Pequeña música de cámara [Piccola musica da camera] (1965) e Esculturas subterráneas [Sculture sotterranee] (1966-68), per chiudere infine con Ptyx, come l’edizione messicana. Come artista visivo, Eielson fu molto attivo e molto partecipe negli ultimi anni della sua vita, reagì così alla malattia che lo consumava e al grave lutto per la morte di Michele Mulas, scomparso nel dicembre 2002. Nel 1997 allestì un’esposizione personale nella Galleria Lorenzelli di Milano, con sei tele raffiguranti costellazioni e una installazione-performance dal titolo La scala infinita. A questa seguì l’installazione L’Ultima Cena, presso la Fattoria di Villa Celle, Collezione Gori, in Toscana, nel 1998; e la partecipazione alla grande rassegna Dalle avanguardie alla fine del millennio organizzata da Jorge Glusberg negli spazi espositivi di Culturgest, a Lisbona nel 1999. Nel 2000 a Lima uscì un numero della rivista «more ferarum» interamente dedicato a Eielson e il Museo d’Arte dell’Università Maggiore di San Marco preparò una mostra omaggio dal titolo La entità dell’argomento, realizzata nel 2001 contemporaneamente al convegno internazionale dedicato congiuntamente all’opera letteraria e artistica dell’autore. Con il nuovo millennio, come abbiamo detto, mette fine alla parentesi di silenzio verbale e pubblica alcune nuove raccolte le prime delle quali sono Sin título [Senza titolo] (Madrid, 2000), scritto tra il 1994 e il 1998, e Celebración [Celebrazione] (Lima, 2001), scritto fra il 1990 e il 1992. Entrambi i libri confermano la grande capacità lirica dell’autore, il raffinamento e l’austerità del suo linguaggio, toccato ormai da una dolce, antica e saggia ironia. Specialmente nella prima raccolta si mette in evidenza l’unione di vari codici espressivi, disegno e parola, immagine e colore, linguaggio scritto e dipinto, meta cercata da sempre e pienamente raggiunta. A questi seguono Nudos del 2002, dove l’espressione tramite la parola si accompagna al disegno, e Del absoluto amor del 2005, dedicato a Michele, scomparso poco prima. Di seguito escono nuove antologie con titoli nuovi: Canto visibile (Pistoia, 2002), De materia verbalis (Città del Messico, 2002) e Arte poética, quest’ultima curata da Luis Rebaza Soraluz (Lima, 2004). Una luce inattesa e un tenero conforto affettivo gli è venuto, quasi alla fine della sua vita, dalla scoperta dell’esistenza di una sorella: Olivia Eielson. L’ultima estate della sua vita, quella del 2005, la trascorse con lei nella sua amata casa sarda. Con sorpresa ed emozione entrambi scoprirono poco a poco affinità e somiglianze sorprendenti e significative. Nonostante la quantità e la varietà delle proposte visive di Eielson, non c’è dubbio che sia il quipu la sua invenzione centrale. Ma non si deve dimenticare che ha praticato anche una pittura molto personale, che consiste in una brillante rivisitazione dell’arte tessile preispanica, e che ha realizzato oggetti e installazioni ispirandosi ai propri scritti e, in misura minore, a testi di altri autori. Sul piano letterario, poi, ha saputo passare con eleganza e originalità da un genere all’altro. Non sorprende che oggi sia considerato uno dei maggiori poeti di lingua spagnola e che le sue poesie siano tradotte in dodici lingue. Certo è che non accettò mai la definizione di poeta; in primo luogo perché non amava le etichette e in secondo luogo perché
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preferiva essere considerato semplicemente “un lavoratore della parola” stando alla sua stessa definizione, o “un lavoratore dell’immagine”, “un lavoratore del colore”, “un lavoratore dello spazio”… Il suo obiettivo non è stato semplicemente contestare un sistema che sollecita sempre lo stesso prodotto per interessi di mercato, ma, al contrario e ben più profondamente, la sua infaticabile e proteiforme attività corrisponde alla fedeltà a se stesso e alla propria libertà interiore. Una libertà che gli ha permesso di muoversi, con estrema naturalezza da un campo all’altro dell’espressione artistica contemporanea; e gli ha dato, nel contempo, l’opportunità di sviluppare una visione globale, cosmopolita e planetaria. L’attualità della sua opera risiede proprio in questo continuo “spostamento”, al fine di creare una specie di rete di relazioni interattive tra razionalità e magia, tra sacro e profano, tra affettività e concetto, tra visuale e verbale, tra arcaico e moderno. Un universo gemello, uguale a quello rivelato dalla fisica contemporanea, che non ammette nessuna gerarchia, nessun punto fisso, nessun “mattone fondamentale”. Nelle nostre conversazioni, parlando delle arti visive (ma potremmo anche facilmente parafrasarlo applicandolo alla sua letteratura), Eielson ha risposto così alla classica domanda su quali fossero gli artisti di tutti i tempi con cui si considerava in debito o con i quali aveva maggiori affinità:
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Potrei distinguere tra artisti-padri, artisti-madri, artisti-fratelli, artisti-amici… Vorrei dire che amo molto questa mia grandissima famiglia, che comprende gli artisti cicladici greci, gli artisti preispanici d’America, gli artisti zen di Kyoto, gli scultori dell’Africa nera, i pittori del XV secolo fiorentini e fiamminghi. E poi Leonardo, Goya, Van Gogh, Cézanne, Picasso, Miró, Malevich, Mondrian, Klee, Schwitters, Torres García, Duchamp, Pollock, Burri, Calder, Brancusi, Rothko, Fontana, Klein, Hains, Manzoni, Beuys, e alcuni artisti concettuali e dell’arte povera italiana. Quale migliore famiglia si potrebbe desiderare?
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L’opera di Jorge Eielson: la realtà come creazione e trasformazione di nodi Luciano Boi e Lorraine Verner
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Fig. 1a: un’immagine matematica presagita nell’antico mito buddista della “rete” del dio Indra; Fig. 1b: Limite del cerchio III (1959) di M. C. Escher. Nella produzione di Escher gli anni che vanno dal 1956 al 1970 individuano quello che possiamo definire periodo dell’infinito. L’opera qui a fianco è una rappresentazione di uno spazio iperbolico il cui modello è dovuto al matematico francese Henri Poincaré. Diamo un’idea dello spazio che Escher ha voluto rappresentare. Poniamoci al centro del disegno e supponiamo di voler camminare fino al bordo di esso. Mentre camminiamo ci restringiamo sempre di più, proprio come accade ai pesci della figura. Per raggiungere il bordo quindi dovremmo percorrere una distanza che ci sembrerà infinita, ma essendo immersi in questo spazio non ci parrà subito ovvio che sia qualcosa di inusuale. Questa rappresentazione dell’infinito anticipa di qualche decennio la formulazione matematica del concetto di frattale ad opera di Benoît Mandelbrot.
L’esistenza attiene allo spazio, e lo spazio emana presenza. Jorge Eielson
Nudos de materia Y nudos de energía Nudos que son sombras De infinitos nudos Celestes
Jorge Eielson, Nudos, 1998.
1. Cercare il significato degli oggetti nelle loro trasformazioni e negli eventi che esse annunciano, oltre il linguaggio verbale Jorge Eielson può essere considerato uno tra i più grandi artisti e poeti contemporanei. I suoi nodi sono la radice di un nuovo intreccio possibile tra scienza, arte e natura, e rivelano al contempo la natura libera della conoscenza e il carattere generoso degli oggetti. Il suo lavoro creativo lo ha in gran parte dedicato ad esaltare il confronto fra (e a riavvicinare) culture, filosofie e arti diverse e anche molto lontane nello spazio e nel tempo. Eielson ha creato un’opera straordinariamente ricca che è il frutto di un’attività poliedrica, la quale oltre la poesia, la letteratura e altri linguaggi artitici, ha abbracciato i campi dell’archeologia e dell’antropologia, nonché quelli della filosofia e della scienza. Egli era convinto che tutte queste forme di conoscenza, lungi dall’essere separate e impermeabili fra loro, fossero in realtà delle modalità e manifestazioni diverse attraverso le quali si esprime l’armonia essenziale e invisibile dell’universo e dello spirito. Un’armonia, appunto, intimamente dinamica e in continuo movimento, soggetta a un cambiamento incessante e perlopiù imprevedibile. Inoltre, l’universo gli appariva come un insieme di caos e ordine, d’instabilità ed equilibrio, d’accordo e rottura, elementi che vedeva non come giustapposti ma come complementari, non come dei contrari immobili, ma capaci di mutare e di ricomporsi ininterrottamente. La visione dell’artista evoca, da un lato, l’antico mito buddista della “rete” del dio Indra che si estende all’infinito e i cui fili si compongono perciò di un numero altrettanto infinito di perle. Dall’altro, questa rete ricorda l’immagine dell’esistenza di una generazione spontanea di mondi i quali si rispecchiano l’uno nell’altro all’infinito, come nelle stupende forme frattali o negli incantevoli Limite del cerchio dell’artista olandese Maurits C. Escher (figura 1).
Fig. 1a
Fig. 1b
In più delle tante miserie e sofferenze che questo mondo ci riserva, Eielson ne vedeva anche e soprattutto il suo splendore, quello degli enti e degli esseri palpabili e materiali. Un mondo che è fatto di oggetti solo apparentemente inerti e senza valore, ed è abitato da sedie, camicie, vestiti, sabbia, scale, ciottoli, bottiglie, tessuti, sfere e piramidi in cristallo e altri oggetti artigianali e quotidiani che per l’artista possedevano un’esistenza vera e propria e persino una certa umanità. Nella sua poesia e nella sua arte, così come nei mondi immaginari e fantastici da lui creati, questi oggetti si trasmutavano in individui dotati di proprietà, qualità, intenzioni ed emozioni. Essi acquistavano, per così dire, un’identità autonoma ma che poteva essere di volta in volta comunicata alle sensibilità attente e alle coscienze critiche. In questo, l’artista era molto vicino allo scrittore argentino Jorge Luis Borges, per il quale «ogni essere è unico (una pura individualità) e in quanto tale partecipa a quella prodigiosa e inestricabile avventura che è il processo cosmico, l’universo». Si può inoltre rilevare un’affinità molto significativa tra il lavoro di Jorge Eielson e la riflessione geometrica e filosofica del matematico francese René Thom, scomparso alcuni fa, in quanto entrambi erano interessati alla creazione di una molteplicità di ontologie intelligibili del reale, che si figuravano come un orizzonte simbolico e semantico inesauribile, e in cui gli oggetti che lo popolano sono accomunati a delle entità individuate e incompiute allo stesso tempo. Entrambe le opere indagano sul rapporto tra scienza e arte, tra realtà fisica e percezione umana, ed esplorano la frontiera mobile e sensibile in cui luce e ombra, visibile e invisibile si incontrano e si scambiano effetti figurativi e di senso; da questa compenetrazione risulta un’immagine al contempo celeste, terrestre e fenomenica del reale. L’unità della loro opera, pur nelle loro profonde differenze, è basata su una cosmologia astratta che si erige su modelli matematici. Per entrambi, la geometria (e la topologia) si offre come uno dei linguaggi possibili per mettere in luce e rappresentare il metafisico. È così che scompongono e ricompongono le forme, che formano e trasformano gli oggetti in dimensioni che non sono necessariamente quelle abituali conferendogli in questo modo un’esistenza plastica; e ciò avviene in un flusso di processi continui e discontinui che costituiscono il ritmo stesso dell’esistenza materiale e spirituale, dell’attrazione e dell’alterità tra le cose e i corpi. Entrambi, l’artista e il matematico, scavano fino ad arrivare ai presunti dettagli nascosti della materia, dai quali tuttavia rimontano per mezzo dell’immaginazione e della creazione per mettere in luce le forme entro le quali essi liberamente s’inseriscono ed acquistano cosi un ruolo, attraverso il quale manifestano proprietà e qualità pregnanti, seppur dentro un orizzonte aperto e incompiuto. Non solo Eielson dava agli oggetti di cui parlavamo sopra un nome, primo atto dell’individuazione, ma li inseriva in un tessuto linguistico inventando spesso un nuovo linguaggio capace di rivelarne alcuni dei loro misteri e alcune delle loro virtù difficili da decifrare e a prima vista impenetrabili. Così come per gli esseri viventi quali alberi, fiori, frutti, gatti, cavalli, donne, uomini, ecc., Jorge pensava che quegli oggetti fossero legati alla nostra storia, che scandissero le nostre scelte culturali ed etiche, che influenzassero il percorso della nostra vita conferendole una più gran naturalezza e purezza. L’artista se n’è ispirato continuamente per creare universi immaginari e fantastici, sia poetici, che pittorici o sonori. Si vedano, per esempio, l’opera Proliferazione (1993), in cui la sedia accoglie il nodo prolifero diventando la prolungazione di quest’ultimo fino a confondersi con esso (un oggetto dall’aspetto semplice come la sedia può in realtà diventare il sostrato di un oggetto complesso, il cui carattere matematicamente selvaggio, cioè non scomponibile in un insieme finito di segmenti poligonali, sembra avere un legame con la sua crescita caotica ed esuberante). Oppure Paesaggi infiniti della costa del
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Perù (i primi risalgono al 1958-59): questi paesaggi formano altrettanti strati del paesaggio geofisico che si sedimentano sulla tela (vale a dire la terra del Perù) così come gli spazi della memoria si sedimentano, nel corso del tempo ciclico, sulla scrittura poetica e la gestualità delle forme dell’artista, entrambi forme di creazione. Fig. 2. (a sinistra): Un nodo “prolifero”, che cresce all’infinito (opera di Jorge Eielson, 1993). (a destra): un nodo selvaggio.
2. Il gomitolo di lana e l’Universo come un tessuto ricamato; sulla struttura nodale del cosmo È importante inoltre ricordare che l’opera Nodi come stelle/stelle come nodi (opera su tela realizzata da Eielson nel 1990) evoca una visione cosmologica nella quale una pluralità d’universi (raffigurati dall’artista come delle minuscole sfere o dei nodi invisibili tenuti assieme da un filo tenue) diversi tra loro possono coesistere (figura 3).
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Fig. 3 (da sinistra a destra) le opere di Eielson: Nodi come stelle/stelle come nodi (1990), e Centaurus (1991). Fig 3a: serie d’immagini raffiguranti l’origine e la formazione dell’universo: (a) dopo un millesimo di miliardesimo di secondo che ha seguito l’esplosione iniziale e a una temperatura di un milione di miliardi di gradi Celsius, si forma un plasma di quark e di gluoni; (b) dopo un centesimo di millesimo di secondo e a mille miliardi di gradi °C avviene la formazione dei protoni e neutroni; (c) dopo tre minuti si ha la formazione dei nuclei leggeri; (d) dopo 380 000 anni si formano gli atomi; (e) dopo 200 milioni di anni e a una temperatura di 4 000 °C si ha la prima generazione di stelle; (f ) dopo 9,2 miliardi di anni, avviene la formazione del sistema solare; (g) dopo 13,7 miliardi di anni e a una temperatura di – 270 C, ci troviamo a vivere nel nostro sistema solare con le sue proprie caratteristiche.
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
(f )
(g)
Tali universi sono inoltre capaci d’autoriprodursi e ramificarsi in configurazioni che danno luogo ad una sorta di geometria frattale, o a un modello di spazio in cui l’universo si moltiplica all’infinito passando da una scala di grandezza all’altra, da un ordine ontologico ad un altro (dal macroscopico al microscopico) come nei ben noti Limiti circolari di Escher, in cui l’artista utilizza le rappresentazioni dei matematici Poincaré e Klein per costruire la tessellazione del piano iperbolico non-euclideo con pesci e uccelli invece che con triangoli e cerchi. (Nel modello del disco di Poincaré, le simmetrie non-euclidee sono date dalle cosidette trasformazioni di Möbius, un tipo di trasformazioni molto elastiche e dunque poco rigide che consentono di deformare le grandezze e i rapporti tra le grandezze). La straordinaria intuizione di Jorge Eielson incontra così la nuova teoria inflazionaria dell’universo proposta verso il 1980 dagli astrofisici Paul Steinhardt, Alan Guth e Andrei Linde. Diversamente dalla teoria del big bang, in questo nuovo paradigma cosmologico l’universo appare caotico e omogeneo, in espansione e stazionario; il nostro cosmo cresce, fluttua e si riproduce eternamente in tutte le forme possibili, come se tendesse ad adattarsi a tutti i possibili tipi di vita (figura 4). Eielson mostrò soprattutto negli ultimi anni un profondo interesse per i modelli cosmologici alternativi alla teoria del big bang, e anche per gli ultimi sviluppi della teoria quantistica delle stringhe. Si interrogava spesso sui principali assunti di queste due teorie. Due concetti in particolare gli sembrava confermassero la sua visione artistica e filosofica del cosmo: il primo sostiene che possa esistere un’infinità di universi di cui il nostro non sarebbe che una parte; il secondo, ancora più radicale, asserisce che l’universo è a-temporale e che quindi non abbia avuto ne inizio né avrà una fine. Nel Dialogo infinito (conversazione con Martha Canfield), Jorge scrive: «Mi hanno rallegrato molto alcune recenti teorie cosmologiche che concepiscono l’universo come una struttura nodale, vale a dire una rete (la metafora della rete occupa un posto importante nel suo pensiero) di nodi infiniti che si fanno e si disfanno senza sosta». La fisica quantistica e in particolare le nuove concezioni filosofiche che essa ha introdotto riguardo al concetto di vuoto hanno avuto un’influenza profonda sull’artista e sulla sua visione di ciò che è la realtà. Per Jorge Eielson, il vuoto non era da confondere col nulla, ma bensí da “vedere” come un’altra forma, un altro volto del pieno, la sua parte invisibile, ricca di potenzialità e di novità. Si sa che nella fisica classica, vuoto significa “spazio vuoto”, e viene spesso considerato sinonimo di “nulla”. Ma l’opinione dei fisici a proposito del vuoto è andata incontro a una radicale trasformazione, risultato degli sviluppi che la fisica delle particelle ha subito nel corso degli ultimi cinquant’anni. Stando alle attuali teorie delle particelle elementari, il vuoto è un oggetto fisico: può essere caricato di energia, e può manifestarsi in una grande varietà di stati. Nel linguaggio della fisica, ci si riferisce a tali stati come a vuoti diversi. I tipi di particelle elementari, le loro masse, le loro interazioni sono determinate dal vuoto che vi soggiace. Noi viviamo nel vuoto col livello di energia più basso: il vero vuoto. I fisici hanno accumulato un gran numero di conoscenze sulle particelle che popolano questo tipo di vuoto e sulle forze con le quali esse interagiscono. Per esempio, l’interazione (nucleare) forte lega protoni e neutroni
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Fig.4. L’immagine mostra un cosmo che si autoriproduce, cioè che è capace di dare nascita a nuovi universi per germinazioni successive (cf. A. Linde, The self-reproducing inflationary universe, «Scientific American», novembre 1994, p. 55). Secondo la nuova teoria sulle origini del cosmo, il cosiddetto modello inflazionario dell’universo, introdotto agli inizi degli anni ottanta dai fisici A. Guth, P. Steinhardt e A. Linde, l’universo deve essere descritto come un immenso frattale capace di autorigenerarsi e dare così luogo ad altri infiniti universi inflazionari. Un cosmo che si autoriproduce ci apparirebbe come una ramificazione estesa di bolleuniversi inflazionari, ognuno dei quali avrebbe le sue leggi fisiche. Nel corso di questo processo possono verificarsi dei cambiamenti nelle proprietà delle leggi fisiche, rispetto a quelle che caratterizzavano gli universi-padri.
nel nucleo atomico; l’interazione elettromagnetica mantiene gli elettroni in orbita attorno al nucleo dell’atomo; l’interazione debole è responsabile delle forze che si esercitano tra quelle elusive, leggerissime particelle chiamate neutrini. Come suggeriscono i loro stessi nomi, i tre tipi di forza hanno intensità estremamente diverse; la forza elettromagnetica occupa una posizione intermedia tra l’interazione forte e quella debole. Le proprietà delle particelle elementari negli altri tipi di vuoto possono essere del tutto diverse. Non sappiamo quanti vuoti ci siano, ma la fisica delle particelle ci fa pensare che, oltre al nostro vero vuoto, è probabile ne esistano almeno altri due tipi, entrambi dotati di maggiore simmetria e di minori differenze tra le particelle e le loro interazioni: si tratta del vuoto elettrodebole, e del vuoto di grande unificazione. Questi due tipi di vuoto contengono una colossale quantità di energia e la loro densità di massa è perciò altissima. A confronto di tali energie abnormi, l’energia del normale vero vuoto è minima. A lungo si è creduto che il suo valore fosse esattamente uguale a zero; osservazioni svolte di recente, però, indicano come l’energia che il nostro vuoto possiede abbia valore positivo. I vuoti ad alta energia sono chiamati “falsi” perché, diversamente dal nostro “vero” vuoto, sono instabili. Dopo breve tempo – tipicamente, una minuscola frazione di secondo – un falso vuoto decade trasformandosi in vero vuoto, mentre l’energia che possiede in eccesso viene rilasciata sotto forma di una palla di fuoco di particelle elementari. Se d’altra parte compariamo, per analogia, il vuoto visto come (un altro) stato possibile del mondo fisico al silenzio inteso come stato possibile (o anche l’alterità) del linguaggio, allora il silenzio non è sinonimo d’assenza o di rinuncia, ma l’espressione inudibile e ineffabile del pensiero. Il pensiero germoglia nel silenzio, che l’artista vedeva come una specie di materia prima da cui scaturisce ogni forma di meditazione e di riflessione. Se, da un lato, il pensiero gli appariva come la “voce”, il “logos”, dall’altro, il silenzio era per Eielson inscindibilmente legato all’intuizione e all’immaginazione. In questo senso si può dire che esso porta “in nuce” tutte le qualità che potranno in seguito depositarsi nel pensiero, un po’ come le qualità di un seme possono condurre, se le condizioni sono propizie, alla maturità del frutto. Viene in mente ciò che ha scritto Octavio Paz in Tiempo nublado (1983): «Ho cominciato a scrivere, operazione tra le più silenziose, per oppormi al rumore delle dispute e battaglie del nostro secolo. Ho scritto e continuo a scrivere perché concepisco la letteratura come un dialogo con il mondo, con il lettore e me stesso – e questo dialogo è tutto il contrario del rumore che implica la nostra negazione e del silenzio che ci ignora. Ho sempre pensato che il poeta non è solamente colui che parla, ma colui che ascolta». L’amicizia e l’opera di Paz, al pari di quelle di Samuel Beckett, John Cage e Joseph Beuys, autori che in modi diversi vedevano nel silenzio una sorta di energia vitale e di sorgente preziosa della creazione, sono state determinanti per il giovane Eielson e la maturazione futura dei suoi lavori. Jorge non amava molto le parole, e soprattutto la ridondanza e la vanità di cui esse vengono spesso caricate. Più che come semplice veicolo verbale della comunicazione, egli vedeva nelle parole un altro tipo di scrittura, impregnata di significati e di contenuti il cui senso non può tuttavia essere né immediatamente né totalmente comunicato e espresso. Il significato delle cose e delle idee sta per l’appunto al di qua e al di là delle parole, oltre i limiti del linguaggio verbale: «Nella mia personale idea dell’arte –scrive Jorge– dire non è necessariamente comunicare». E aggiunge: «È perciò che ho fatto soprattutto ricorso alla poesia scritta, che circonda più strettamente il silenzio del dire, dello scrivere e della stessa lettura, e alle immagini astratte, che non comunicano esplicitamente nulla, ma qualcosa che va più in là d’ogni linguaggio, e che, pertanto, anche se sommessamente, stanno dicendo molto». Più o meno negli stessi anni, Italo Calvino scriveva (in Una
pietra sopra, del 1980): «La lotta della letteratura è precisamente uno sforzo per oltrepassare le frontiere del linguaggio, è dal bordo estremo del dicibile che la letteratura si proietta, è l’attrazione per ciò che stà fuori del dizionazio che muove la letteratura». A questo proposito Jorge si considerava assai vicino alle posizioni filosofiche del secondo Wittgenstein, il quale aveva del tutto rinunciato all’idea che i limiti del linguaggio delimitassero i confini del mondo e della realtà. Jorge era convinto che intanto esistesse una pluralità di linguaggi molto diversi fra loro, e poi che essi costituissero una frontiera mobile e fluida che lasciava spazio alla creazione di nuove forme espressive e modalità creative. Tutti i linguaggi e tutte le forme di conoscenza si compenetrano e si arricchiscono in uno scambio reciproco continuo, e non esiste nessuna vera barriera tra loro. Come amava dire il fisico Richard Feynman: «La separazione delle discipline è semplicemente un fatto di convenienza umana, un fatto insomma del tutto innaturale. La natura non è affatto interessata alle nostre separazioni artificiali, e i fenomeni più interessanti sono quelli che rompono e travalicano le barriere tra i vari campi del sapere». Jorge è ancora più radicale e ironico nel suo assunto: «Che cosa significa ieri e domani, arte contemporanea o arte antica, arte africana o arte greca, precolombiana od orientale, scultura o pittura, pittura o poesia, poesia o musica, musica o architettura, matematica, filosofia, religione, magia?». Eielson ha costruito la sua intera opera a partire da questo scambio e dialogo continuo tra campi del sapere e universi del reale. Ha sempre difeso una visione organica e unitaria della conoscenza (anche se né sistematica né totalizzante, da qui, infatti, la sua reticenza nei confronti di un certo romanticismo tedesco), e ha criticato fino all’ultimo alcune forme di specializzazione esacerbata del sapere e della ricerca scientifica, che tanti pregiudizi iniettano in una società già così orientata al pragmatismo e alla “spettacolarizzazione” volgare e banale della cultura, dell’arte e della scienza. Soffriva nel vedere che la nostra esistenza è sempre più sommersa da quell’immondezza che è la televisione, la cultura-immagine, la politica-spettacolo, la stupidità, l’arroganza, il malcostume, il mercato dell’arte (e non solo dell’arte!), la svendita e la distruzione delle cose più care e “preziose” che appartengono al pianeta e all’umanità intera. Pienamente conscio dell’importanza e della gravità di tale situazione, egli stesso ha sottolineato nel testo La scala infinita (del 1997) quanto segue: «Pregiudizi da una parte, e imprecisioni propriamente scientifiche dall’altra, giacché, ad esempio, non si può studiare per anni la penultima vertebra della coda di una rara specie di lucertola australiana, senza perdere di vista l’intera realtà dell’animale, non solo dal punto di vista del suo habitat naturale, ma anche da quello sociale». Quest’ultimo passaggio mostra l’interesse profondo che Eielson nutriva per uno dei più importanti temi delle ricerche attuali in biologia. Queste ricerche hanno permesso di mettere in evidenza che la comprensione delle forme, della loro trasformazione ed evoluzione non può in alcun caso ridursi a una descrizione puramente meccanica delle sue basi fisiche e chimiche. Ciò vale sia per le forme naturali e biologiche, che per le forme estetiche e simboliche. Con l’applicazione di un tale metodo si distrugge la forma, o meglio, se ne distrugge la sua struttura interna, le sue possibilità e potenzialità. La natura e la vita sono essenzialmente creazione di forme, e non appena si pretende di conoscere queste forme analizzandone e determinandone le loro componenti separatamente dalla morfogenesi e dalle loro interazioni con l’ambiente vitale, si finisce in realtà per trattare delle materie informi, poiché ogni tipo di forma vivente è un “tutto” il cui senso risiede nella sua tendenza a realizzarsi come tale nel corso del suo sviluppo. Ed è per questo che esse possono essere colte
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unicamente tramite una visione globale, e mai tramite una divisione in elementi isolati. È chiaro, per esempio, che qualsiasi spiegazione autentica nel campo della biologia deve, a partire dalle basi molecolari più fini, poter risalire verso la morfologia complessa tridimensionale, vale a dire verso l’organismo completo, compiuto o in corso di costruzione.
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3. Le cose si annodano e si snodano per esistere ed esprimersi, dalla matematica dei nodi ai nodi della vita Jorge Eielson ha creato un nuovo linguaggio universale, quello dei nodi, espressione straordinariamente moderna dei Quipus precolombiani dell’antica civiltà Inca del Perù. Egli ha dedicato una parte importante della sua vita all’elaborazione di questo linguaggio nei campi dell’arte e della poesia. Ma, in realtà, questo linguaggio ha un significato più ampio e profondo, giacché esso travalica i limiti delle arti puramente visive e della scrittura, per abbracciare l’indagine filosofica e la ricerca scientifica più avanzata in matematica, fisica e biologia. Inoltre, il nodo sconfina nel pensiero mistico e nella riflessione etica, ed esprime anche un chiaro contenuto culturale e politico. Il nodo, infine, è un simbolo che contiene un valore metafisico e religioso. Qui parleremo principalmente delle proprietà matematiche dei nodi. La teoria dei nodi è un esempio d’interdisciplinarietà delle scienze: una legge fisica (legge di Gauss) ha ispirato negli anni 1870-1882 la creazione di una nuova branca della matematica. All’epoca, I fisici Lord Kelvin (18241907) e G. Tait ipotizzarono che le forme nodali fossero gli elementi costitutivi della materia, che gli atomi fossero dei vortici annodati di etere, e che a diversi tipi di nodi corrispondessero diversi tipi di atomi. Questa ipotesi indusse Tait ad intraprendere un lungo lavoro di classificazione dei nodi, da cui dedurre una tavola degli elementi, dove quei nodi erano quindi concepiti come una specie di modello originario soggiacente alla formazione delle diverse forme di materia. L’opera Alfabeto realizzata da Eielson nel 1973, che riunisce una serie di 16 nodi disposti secondo una matrice a quattro posti, suggerisce una profonda somiglianza con l’idea del fisico scozzese Tait (1831-1901): in effetti, l’idea dell’artista italo-peruviano è, molto probabilmente, che ci sia un sistema di forme ideali che potrebbero essere usate per rappresentare i diversi modi di trasformazione della realtà. L’opera di Eielson sembra inoltre proporre una specie di enigma (e di gioco) con almeno due variazioni fondamentali: quella della rappresentazione grafica (o segnica) e quella dell’equivalenza topologica. Con la prima nozione si deve intendere che esistono più rappresentazioni diagrammatiche equivalenti dello stesso nodo, il che significa, in altre parole, che uno stesso nodo può esistere e manifestarsi in tanti stati o modi diversi nello spazio tridimensionale R3. Per esempio, esistono più rappresentazioni possibili del nodo triviale o del nodo a trifoglio o ancora del nodo figura otto, così come di altri nodi molto più complessi (la complessità di un nodo è data dal numero di incroci necessari per rappresentarlo con un diagramma, e dal numero di mosse che permettono di sciogliere il nodo). La seconda nozione, quella di equivalenza, è in realtà intimamente legata alla prima. È importante far notare che entrambe fanno intervenire le operazioni concrete di movimento e di deformazione. Dati due o più nodi, si può mostrare (e dimostrare) che ciascuno dei nodi è ottenuto dal precedente mediante una serie di movimenti continui della corda (con cui si forma un nodo) senza tagliare la corda stessa. Si dice allora che i tre nodi sono equivalenti. Diciamo che due nodi sono equivalenti quando possiamo trasformare (o deformare) l’uno nell’altro mediante una serie di movimenti continui (chiamate anche isotopie) che non rompano la corda con cui è fatto il nodo. Non potremo quindi tagliare
e incollare la corda, ma potremo ammettere di poter allungare o accorciare il nodo, come se fosse un elastico. Più precisamente ancora, i nodi equivalenti sono quelli che possono essere definiti per mezzo dello stesso invariante (o degli stessi invarianti). Un invariante di nodi o link è una regola che associa ad ogni nodo (o link) un numero, in modo tale che a due nodi (o link) equivalenti sia associato lo stesso numero. Per esempio, il linking number è un invariante di nodi (o link) che misura quante volte due o più nodi (o link) sono legati fra loro. Se per convenzione si attribuisce ad ogni incrocio tra due componenti (curve) M e N orientate i valori +1 o –1 (dove il segno dipende dal senso di rotazione della curva, cioè dalla sua orientazione), allora il linking number si calcola prendendo la somma di tutti i +1 e –1 e dividendola per 2. La teoria dei nodi si è sviluppata nel corso della prima metà del secolo scorso indipendentemente dalla fisica e ha prodotto dei risultati teorici che hanno trovato applicazioni nei diversi campi delle scienze: dalla cosmologia alla dinamica dei fluidi e alla biologia molecolare. Dal punto di vista matematico, un nodo è definito semplicemente come una curva chiusa immersa nello spazio; un link consiste di due o più nodi eventualmente intrecciati tra di loro. Nella visione di Eielson, il nodo è innanzitutto un oggetto estetico e figurativo tridimensionale immerso nello spazio autonomo della tela (modello che in qualche modo crea il nostro spazio ambiente). Ma invece di costituirne il supporto inerte, lo spazio della tela è a sua volta un oggetto dinamico che non si giustappone semplicemente al nodo poiché esso ne fa parte integrante (in topologia si chiama il “complementare del nodo” ed è altrettanto importante del nodo stesso che ingloba), ma apre nuove e svariate dimensioni e qualità di diverso genere: cromatiche, geometriche, energetiche, simboliche, percettive e affettive. Il nodo e la tela risultano così un tutt’uno, e da quest’incontro allo stesso tempo conflittuale e armonioso emerge un nuovo oggetto, quello del “nodo-universo” che genera altri possibili tipi di forme e di forze.
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Fig. 5. (a sinistra): un nodo iperbolico come oggetto artistico (Eielson, Nodo, 1976); (a destra): un nodo iperbolico analogo costruito matematicamente.
È interessante osservare che molti dei nodi realizzati da Eielson sono di tipo iperbolico (essi cioè rivelano una geometria molto ricca e intima che non è quella euclidea). Forse l’artista era attratto da alcune qualità fenomeniche o percettive di questo tipo di nodi, e in particolare dalla varie simmetrie che presentano e dalla loro natura infinita, come se potessero crescere in tanti nodi di forme e dimensioni diverse. Recentemente la topologia ha fornito la prova del fatto che una grande varietà di nodi sono dei nodi iperbolici. Il matematico
Matematicamente lo si definisce come segue: Sia R3 lo spazio a tre dimensioni in cui è immerso il nodo K. Allora lo spazio intorno (o esterno) al nodo, vale a dire l’intero spazio tranne il nodo, lo si designa con R3 – K e viene chiamato il complementare del nodo K. Una geometria iperbolica o non-euclidea (scoperta intorno al 1830) è caratterizzata da due proprietà fondamentali: (1) la somma degli angoli interni di un triangolo iperbolico è strettamente minore di π o 180° (essa è uguale a π nella geometria euclidea e maggiore di π nella geometria sferica) ; (2) una superfie di cui la geometria è iperbolica, come ad esempio la pseudosfera, possiede una curvatura costante negativa, K < 1 (K = 1 nella geometria euclidea, e K > 1 nella geometria sferica).
William Thurston ha mostrato intorno alla fine degli anni settanta che tutti i nodi appartengono a una delle tre seguenti categorie (o specie): iperbolici, toroidali o satellite. I nodi di tipo iperbolico sono di gran lunga i più diffusi. Inoltre, grazie a certe manipolazioni effettuate su di essi (chiamate chirurgie) è possibile generare una grande varietà di spazi a tre dimensioni. L’iperbolicità del nodo significa che il complementare del nodo (vale a dire i punti dello spazio tridimensionale non situati sul nodo stesso) ammette una struttura geometrica, e più precisamente una struttura geometrica di tipo iperbolico. Questa geometria ci permette di visualizzare ciò che accade all’interno del complementare del nodo o link, se immaginiamo che i raggi di luce viaggino lungo le geodesiche della geometria iperbolica (un po’ come nel modello spazio-tempo di Minkowski della relatività ristretta di Einstein). L’immagine del complementare dell’anello di Borromeo ce ne fornisce un esempio interessante. (È bene ricordare che gli anelli di Borromeo hanno una proprietà importante: i tre anelli sono legati fra loro, benché non lo siano a coppie. Più precisamente, rimuovendo uno qualsiasi dei tre anelli, i due anelli rimanenti risultano sciolti, benché i tre insieme non lo siano.) Uno che vive dentro il complementare del link (formalmente, un link è un insieme finito di curve semplici chiuse disgiunte nello spazio euclideo tridimensionale; un link è un oggetto elastico flessibile, per cui si può immaginare che esso abbia un certo numero finito di componenti connesse, ciascuna delle quali è un nodo) vede lo spazio da una distanza vicina alle componenti (alle palle sferiche) rosse. Le palle nella figura sono immagini degli intorni delle palle luminose (bordate da tante sferette) che formano il link. Supponiamo adesso che il link di Borromeo abbia un certo spessore (cioè un volume di tipo tubolare), di modo tale che si ottengono degli intorni di sferette luminose appartenenti al complementare del link. Benché il bordo di un intorno sia un toro, in realtà quando lo si guarda dall’interno del complementare del link, ci appare come una sferetta, chiamata palla (o sferetta) luminosa bordata. Ogni complementare del link ci appare come un’infinità di palle (sferette) luminose bordate (tutte dello stesso colore), come se fossero altrettanti raggi di luce che viaggiano dall’osservatore fino al complementare del link. Il parallelogramma fondamentale (disegnato nella figura) ricopre una larga regione del complementare del link secondo gli assi verticale e orizzontale (vedi figura 6).
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Fig. 6. (a sinistra): l’immagine di un anello di Borromeo; (a destra): vista della sezione cuspidale del complementare dell’anello di Borromeo, secondo la prospettiva di uno che vive nei pressi della componente rossa del link; in quest’ultimo si trova tracciato un parallelogramma fondamentale; (in basso a sinistra): Nodo XI (Eielson, 1988) che può anche essere visto come un link (più complesso dell’anello di Borromeo) a tre componenti annodate fra loro; (in basso a destra): Orione (Eielson, 1991).
Alla luce di alcune considerazioni precedenti, colpisce la chiara e forte affinità con il lavoro dell’artista italoargentino Lucio Fontana, al quale Jorge si sentiva molto vicino dal punto di vista artistico e anche umano. Diceva, infatti, di vedere una profonda sintonia tra i “concetti spaziali”, le tele tagliate e incise di Fontana e le sue tele annodate o le sue corde intrecciate (figura 8). In effeti, sia le tele tagliate che le tele annodate sono capaci di creare nuove dimensioni spaziali e di moltiplicare gli eventi che accadono nello spazio. Entrambe le operazioni (i gesti) cambiano la topologia dello spazio. In che cosa consiste tale cambiamento? Consideriamo due superfici apparentemente molto diverse fra loro: il cilindro e il toro. Dal punto di vista topologico esse sono diverse dal piano, ma appartengono alla medesima famiglia di spazi a curvatura nulla: le superfici localmente euclidee. In topologia si dispone di un metodo elegante per caratterizzare queste differenti topologie: la chiusura di lacci (loops). Un laccio è una curva chiusa tracciata su una superficie. Sul piano infinito possiamo disegnare in un qualsiasi punto un laccio qualsiasi, di grandezza qualunque; questo laccio potrebbe essere sempre ristretto e ridotto a un punto senza incontrare ostacoli. I topologi definiscono una tale superficie “monoconnessa” (o “semplicemente connessa” ). Di contro, il cilindro e il toro non hanno questa proprietà. Certo, esistono lacci che possono essere completamente ristretti, come nel piano; ma ve ne sono alcuni per cui ciò non è possibile: un cerchio che fa il giro del cilindro o che si arrotola intorno al toro, per esempio, non può essere ridotto in maniera continua a un punto. Le superfici, in cui i lacci non possono essere ristretti indefinitamente poiché fanno il giro di un buco, hanno una topologia detta “multiconnessa” (o “non semplicemente connessa”). Cosi, le tele tagliate (o forate) di Fontana possono essere viste come delle superfici multiconnesse (degli spazi multiconnessi). Ricordiamo inoltre che si potrebbe associare a ogni tela avente un certo numero di tagli il concetto spaziale (estremamente importante in topologia algebrica) di numero di Betti di uno spazio topologico, il quale è, in termini intuitivi, un modo di contare il massimo numero di tagli che possono essere eseguiti senza dividere uno spazio in due pezzi (cioè senza disconnetterlo). Questo definisce, in effetti, quello che è chiamato il primo numero di Betti. Si può inoltre definire una sequenza di numeri di Betti. I numeri di Betti (razionali) bk(X) sono invarianti topologici basilari molto utili. Nei termini più intuitivi, permettono di contare il numero di buchi in diverse dimensioni. Per un cerchio, il numero di Betti è 1. Per un generico pretzel il primo numero di Betti è il doppio del numero dei buchi, per una sfera il numero di Betti è 0, e per un toro è 2. Da un punto di vista matematico, il concetto di gruppo fondamentale, essenziale in topologia, permette di esplorare alcune delle proprietà formali più profonde delle tele tagliate di Fontana. Il concetto di gruppo fondamentale è uno strumento potente che permette di analizzare la forma di un oggetto e di tradurla in una forma algebrica. L’oggetto da analizzare deve essere uno spazio topologico (ad esempio un sottoinsieme del piano, dello spazio, o di un qualsiasi spazio euclideo). Il risultato della traduzione è un gruppo, detto appunto il gruppo fondamentale dello spazio. Prendiamo come esempio il toro: il gruppo fondamentale del toro
Tecnicamente, uno spazio topologico con gruppo fondamentale triviale (cioè avente un solo elemento) si dice semplicemente connesso. Gli spazi topologici semplicemente connessi hanno un ruolo fondamentale in geometria. La palla n-dimensionale (e quindi in particolare l’intervallo) è semplicemente connessa. In generale, ogni spazio contraibile, cioè omotopicamente equivalente ad un punto, è semplicemente connesso. Quindi un qualsiasi insieme convesso dello spazio euclideo è semplicemente connesso. Anche la retta e il piano sono semplicemente connessi. La sfera n-dimensionale con n maggiore o uguale a due è semplicemente connessa, benché non sia contraibile. Lo spazio topologico più semplice non semplicemente connesso è la circonferenza S1. Il suo gruppo fondamentale è isomorfo al gruppo additivo dei numeri interi Z: il numero intero associato ad un laccio di S1 è il numero di volte che questo “gira” (cioè si arrotola) intorno ad essa.
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è un oggetto algebrico che ne cattura la forma, e che qui codifica la presenza di un “buco”. Come sempre in topologia, questo oggetto deve dipendere solo dalla forma del toro e non dalla sua particolare posizione e rappresentazione nello spazio. Il gruppo fondamentale è definito usando le curve (i lacci) sul toro che partono da un punto p e tornano a p. Ad esempio, la curva mostrata nella figura 7(a). Questo laccio non sembra però catturare informazioni sulla forma del toro: infatti esso può essere deformato in modo continuo (tramite una omotopia) fino a diventare arbitrariamente piccolo. I due lacci a e b mostrati nella figura 7(b), invece, sono molto più rappresentativi: proprio a causa del buco centrale, nessuno dei due può essere deformato ad un laccio piccolo. E inoltre non è possibile ottenere b deformando a. Notiamo ancora che queste sono proprietà intrinseche del toro: tramite queste considerazioni ci siamo accorti dell’esistenza di un buco “dall’interno”, senza usare lo spazio tridimensionale che lo contiene. A questo punto notiamo che i due lacci a e b possono essere composti in modo da ottenere un terzo laccio (figura 7(c)), che prima fa un giro come a e poi ne fa un altro come b. Diamo a questo nuovo laccio il nome di ab. In questo modo, dando dei nomi ai lacci, considerandoli a meno di deformazioni, e componendoli otteniamo un oggetto basilare dell’algebra: un gruppo. Ad esempio in questo caso otteniamo il gruppo Z×Z dato da tutte le coppie (x, y) di interi, generato dai lacci a e b che si traducono rispettivamente in (1, 0) e (0, 1). Fig. 7. I lacci del gruppo fondamentale del toro. 48
(a)
(b)
(c)
La visione di Eielson è per certi aspetti ancora più radicale e creativa. Nei suoi lavori, se così possiamo esprimerci, la topologia di un nodo non è (o non è solo) una proprietà della curva che lo rappresenta; infatti, lo spazio della tela (lavorato e trasformato dall’artista) genera forme e forze che dal nodo stesso si originano o verso cui confluiscono senza pertanto attraversarlo. Nel nodo convergono più cammini intrecciati fra loro, e da questo stesso nodo sorge poi un’infinità di cammini che percorrono altre regioni dello spazio. Benché questi cammini siano tutti diversi fra loro, essi presentano allo stesso tempo delle affinità profonde. Eielson ci mostra come, grazie a un certo tipo di manipolazioni (incurvamenti, piegature, tensioni, torsioni, rotazioni, avvolgimenti, contrazioni, espansioni) fatte sulla materia (la stoffa dai vari spessori e colori) che servirà da matrice primordiale del nodo, i cammini possano essere deformati e congiunti l’uno con l’altro. Lo spaziouniverso globale (cioè l’opera) risulta da una dinamica interna che il nodo riesce a conferire allo spazio omogeneo della tela. Il nodo è ciò che risulta da un’immersione (un certo tipo di trasformazione matematica) nello spazio ambiente tridimensionale. Il nodo scaturisce da una serie di gesti e operazioni per niente neutre, che mettono in moto dei processi capaci di modificare la situazione di questo stesso spazio. In effetti, l’immersione avrà come effetto di dinamizzare, deformare, trasformare lo spazio originario (quello della tela), e in questo modo ne rileverà un’interiorità ricca e profonda fino ad allora “celata” di là il suo aspetto omogeneo e amorfo. In virtù del nodo che vi è “immerso”, la superficie della tela si converte in uno spazio diventato luogo di eventi insoliti, che sono frutto delle forme e forze che muovono quello spazio. Si può dire che il nodo non è nello spazio: è spazio. (Allo stesso modo, mi sembra, che l’uomo e la natura non sono nella storia: sono storia).
L’“immergere” un oggetto matematico (una curva, una superficie, il grafo di una funzione) nello spazio euclideo, porta quest’ultimo a organizzarsi, ad acquisire delle strutture; e ciò è simile all’operazione che consiste nel deformare localemente lo spazio in modo tale da farvi apparire una varietà di nuove forme. In altri termini, si tratta di un processo d’individuazione e di qualificazione progressive dello spazio che è messo in rilievo. Più precisamente, il nodo cristalizza una discontinuità qualitativa dello spazio, ma questa cristalizzazione nasce da un processo continuo soggiacente, vale a dire da un tipo di immersione di uno spazio dato in uno spazio di più grandi dimensioni. In realtà siamo di fronte a una situazione molto generale, che interessa sia gli oggetti artistici (tessuti, trecce, tessellazioni, ecc.) che gli oggetti naturali o quelli viventi. Se ne può dare un enunciato astratto: quando uno spazio è soggetto a una limitazione o a una modificazione energica (del tipo spiegazzare una camicia, torcere un pezzo di stoffa o attorcigliare una corda su se stessa), vale a dire quando lo si proietta su qualcosa di più piccole dimensioni, allora lo spazio accoglie la limitazione tranne in un certo numero di punti (in un intorno) dove, per cosi dire, si concentra o si accumula tutta la sua individualità primaria. Ecco, per Jorge Eielson il pensare e creare nodi significava andare alla scoperta delle singolarità segrete e invisibili, ricercare l’individuazione degli oggetti nelle loro stesse pieghe, cogliere quei caratteri universali che mettono in rapporto le cose facendone risaltare le qualità affini. Egli cercava l’ordine nel caos e il caos nell’ordine, il vero nel bello e il bello nel vero, e per questo non ha mai rinunciato a rompere modelli percettivi, schemi di pensiero e precetti morali, preferendo sempre il silenzio e la creazione al rumore e all’ostentazione. Per ritornare brevemente a Fontana, è interessante far notare che il gesto che consiste nell’effettuare un taglio nella tela produce un cambiamento permanente nel modo d’essere dello spazio. In particolare, esso apre nuove possibilità: invece di essere semplicemente connesso, si potranno d’ora in poi percorrere più cammini possibili per congiungere un punto con un altro, per passare da un luogo ad un altro. I buchi o fori che Fontana intaglia sulla superficie della tela hanno un significato matematico preciso, legato al concetto di genere di una superficie (o di uno spazio di dimensione maggiore o uguale a 3), e questo cambia radicalmente la percezione del mondo di proprietà e qualità che la tela include. Per rendercene conto, spingiamo più in là l’analogia e supponiamo che la tela dell’artista corrisponda a una varietà di dimensione 2, cioè a una superficie. Le superfici compatte e orientabili sono classificate dal loro genere, intuitivamente pari al “numero di buchi”. Più in generale, esiste una classificazione delle superfici per ogni superficie di tipo finito.
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Fig. 8. (Da sinistra a destra): Concetto spaziale (L. Fontana, 1965); Quipus 15 AZ – 1 (J. Eielson, 1965): Una treccia che si trasforma in nodo, da cui sorge un tessuto dalle tante piegature che assomiglia a un fascio di luce. Questi tre elementi generano uno spazio dinamico che si forma sopra lo spazio della tela (come un nuovo strato della realtà). Qui il nodo può essere assimilato a un nucleo di energia; la sua topologia caratteristica oppone una resistenza alla possibile dissipazione dell’energia presente nello spazio-universo della tela, che viene poi comunque irradiata in forma di luce.
AA: Lei li ha chiamati quipus, come gli strumenti mnemotecnici o forse di scrittura degli Inca. JE: Certo, perché chiamarli quipus era per me rendere omaggio ai miei antenati che avevano creato un “linguaggio” così sofisticato. Ma il nome riflette anche una sorta di travaso tra la mia attività e l’arte del passato, perché l’arte per sua natura, non appartiene al tempo convenzionale, lineare, che apprendiamo dal calendario. I nodi - quipus, tuttavia, non devono trarre in inganno, perché le mie opere non rinviano solo all’arte del Perù preispanico. Tra i temi che non hanno nulla di peruviano potrei citare, ad esempio, un quadro con l’icona di Marilyn Monroe che ho realizzato ben prima di Warhol, solo che io ne ho fatto una sola perché non credo nella serializzazione. Ricordo che Pierre Restany, grande critico e amico, approvava questa mia unica interpretazione. E anche nell’ambito della letteratura ispano-americana i miei rapporti sono stati molto più stretti, ad esempio, con Octavio Paz che con José Maria Arguedas, che pure ho avuto come insegnante alle superiori e per il quale ho revisionato qualche suo testo, perché me l’aveva chiesto lui stesso. AA: Crede ancora nella cosiddetta funzione sociale dell’arte?
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JE: Potrebbe apparire un’affermazione un po’ demodé, ma credo che, oggi più che mai, l’arte non può che essere un veicolo di pace e di concordia tra i popoli. Ma l’arte è anche un’interrogazione, uno strumento di conoscenza, una celebrazione. Ma non certo una banale provocazione, come ai tempi dell’avanguardia storica, pour épater les bourgeois. Cosa che nel mondo drammatico d’oggi, mi sembra francamente fuori luogo.
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AL MAESTRO E AMICO Carlos Runcie Tanaka
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Ho conosciuto Jorge Eduardo Eielson attraverso la parola scritta e la sua poesia. La mia ammirazione per la sua opera parte dalla metà degli anni settanta e ricordo ancora l’impatto e il fascino causati in me dal peso e dalla dimensione delle sue parole in Obra Poética [Opera Poetica]. Più avanti avrei scoperto quelle stesse parole visive attraverso la sua opera pittorica, le installazioni e le performance. Ci siamo conosciuti nell’anno 1987, durante la III Biennale di Trujillo. Stavo terminando un’installazione che lo interessò per la sua relazione con il deserto della costa del Perù e la risonanza con la ceramica preispanica. Iniziò così un’amicizia che continuò a crescere con il trascorrere degli anni e che non dava peso né alla differenza generazionale né alla distanza geografica. Un’amicizia fondata sul reciproco rispetto e sull’interesse condiviso per la musica, l’archeologia, lo spazio, il silenzio del deserto e per la ceramica, fra molte altre cose. Quest’amicizia è stata un privilegio per il quale sarò sempre grato e che mi ha permesso di godere del suo spirito gioviale e del suo stupore di bambino grande. Facevamo lunghe conversazioni telefoniche, soprattutto negli ultimi mesi, prima della sua scomparsa. Parlavamo d’arte e filosofia, di vita, della nostra vita di ogni giorno… mi stupiva sempre con il suo umorismo tanto speciale e le opinioni acute. È stato molto generoso nei suoi commenti sul mio lavoro e nel considerare l’esistenza di una grande empatia e vicinanza fra le nostre ricerche. Ho un’impressione molto personale della sua opera, motivata dall’emozione che sento provenire dall’opera stessa. Le tele passano dal piano al volume, formano nodi e tensioni che invadono lo spazio… come note musicali che cercano di completare una melodia… la tela avvolge i corpi ci riporta alla memoria il senso rituale dei tessuti preispanici. Ha infranto le frontiere di molte discipline artistiche con una grande libertà espressiva e una ricerca costante. Senza dubbio un’opera universale ma impregnata del senso di appartenenza al Perù nonostante la lontananza fisica. Nella mostra antologica a lui dedicata quando ottenne il Premio Tecnoquímica nell’anno 2005, il maestro Eielson, fedele al proprio spirito creativo e innovatore, presentò due nuovi pezzi che diventarono il cuore della mostra: l’installazione Pirámide de Lima e una performance. Lavori molto intensi e di grande sottigliezza che ritengo siano stati un nuovo incontro con il Perù e, soprattutto, un modo di dire addio. Al centro della sala, quel corpo che respirava sotto il tessuto azzurro ci diceva che lui era presente. Credo che lo spirito che animava e anima la sua opera sia descritto dalle sue stesse parole nel testo Autoritratto, parte del quale mi permetto di citare: […] la mia attività si è diversificata sempre più, con o senza il contributo della pittura. E soprattutto lasciando che le cose accadessero, come nel Tao. Materializzandosi rarissime volte in un verso, un colore, un’idea, un suono, un sapore, un profumo, uno spazio, una forma. Chissà una conchiglia. Forse un nodo. Probabilmente nulla.
Forse tutto…
Lima, 5 Ottobre 2008
opere
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Quipus 53cr tela iuta su telaio cm 180x180x21 1984
63
Quipus 57 CR
acrilico e tela iuta su telaio, dittico cm 180x360x18,5 1985
64
nodo
diam. cm 95 legno dipinto 1985
65
nodo dorato diam. cm 95 legno dipinto 1987
68
Disco Lunare
acrilico e tela su telaio diam. cm 92x p. cm 9 1989
69
Amazzonia
acrilico e tessuti su legno diam. cm 180x p. cm 16,4 1992
70
tensione
acrilico e tela iuta su legno, dittico cm 180x360x17 1992
71
Bandiere
bandiere e acrilico su legno diam. cm 180x p. cm 17 1993
72
Proliferazione tessuti e sedia cm 105x65x80 1993
75
Codice sul volo degli uccelli e sugli annodamenti di leonardo tela stampata su legno cm 81x81x8 1996
78
nodo bianco e nero tessuto cm 25x25x25 2000