La ricerca Marzo 2013 Anno 1 - n. 2 Nuova Serie
6 euro
SAPERI Leggere: come e perché
DOSSIER La scuola, agente di socializzazione politica
SCUOLA
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DSA: la voce dei ragazzi Flipped classroom Progetto Compìta Portfolio come strumento di lavoro Classi di concorso “atipiche”
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Il tutor online per l’analisi e la traduzione del testo latino La versione 2.0 è un’esclusiva Loescher
CICERO per l’insegnante L ’insegnante sceglie la versione e la assegna agli studenti attraverso la classe virtuale CICERO riporta per ogni studente gli ambiti di competenza rilevati CICERO impara dal docente e riduce il suo lavoro
CICERO per lo studente CICERO segue passo passo nella traduzione e adatta il livello delle domande alle conoscenze dello studente rilevate su ogni competenza www.cicerolatintutor.it
il “metodo”
Il tutor online di italiano per l’analisi e la comprensione del testo
EUGENIO per l’insegnante L ’insegnante sceglie il testo e lo assegna attraverso la classe virtuale EUGENIO, dopo che lo studente ha lavorato, riporta al docente gli ambiti di competenza rilevati
EUGENIO per lo studente E UGENIO chiede allo studente di confrontarsi direttamente con il testo e lo segue in un’analisi attiva, portandolo a cercare e riconoscere di volta in volta nel testo gli elementi segnalati www.eugeniotutoritaliano.it
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Sommario
SAPERI | Leggere: come e perché
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Leggere nella mediasfera Raffaele Simone Il club dei lettori Paolo Jedlowski Racconti come scuola di vita Andrea Smorti Leggere romanzi di altre parti del mondo Giuseppe Mantovani Guerra e pace: crescere con la lettura Giusi Marchetta Leggere per gli altri Federico Batini Leggere per il pubblico Sonia Bergamasco Ad alta voce: l’audiolibro a lezione Silvia Verdiani Leggere il latino, non decifrarlo Marco Ricucci Come leggere un’opera d’arte Ludovica Lumer Leggendo s’impara a scrivere Alicia Giménez-Bartlett Perché scrivere narrativa scolastica Gina Basso, Riccardo Medici
DOSSIER | La socializzazione politica
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La socializzazione politica giovanile Ubaldo Nicola Sull’uso dei simboli in politica Francesca Nicola Lo zio Sam? È buono come il nonno! Robert Hess, David Easton Come nasce il cinismo politico Dean Jaros, Herbert Hirsch, Frederic Fleron La selezione meritocratica è formativa? Paul Abramson
SCUOLA
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DSA: la voce dei ragazzi Vittoria Hayun, Filippo Gerli Capovolgere l’insegnamento? Ugo Avalle Per un nuovo modo di studiar letteratura Natascia Tonelli Il portfolio come strumento di lavoro Valeria Zagami Docenti atipici Fulvio Allegramente 3
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La ricerca Nel prossimo numero Periodico quadrimestrale Anno 1, Numero 2 Nuova Serie, marzo 2013 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012
L’“altra” scuola L’“altra” scuola è la scuola che costringe a fronteggiare e risolvere problemi inaspettati, che allena competenze nuove e sperimenta soluzioni inedite, all’avanguardia, utili a tutti. È la scuola di altri studenti: adulti, stranieri, analfabeti, drop out, studenti eccellenti, o con BES o DSA. È la scuola che cresce e si trasforma grazie a persone e modelli nuovi che si affiancano agli insegnanti e alla tradizione di fare lezione frontale: mediatori culturali, insegnanti di sostegno, psicologi, genitori, esperti che portano la loro testimonianza, studenti che spiegano a studenti. L’“altra” scuola è quella che vive e si organizza fra le mura scolastiche, ma anche in luoghi differenti o fuori Italia: la piazza, l’ospedale, i CTP, le scuole serali, le scuole nordeuropee, quelle di modello anglosassone, le scuole in Medio Oriente. L’“altra” scuola è quella che rende gli studente migliori cittadini e parte attiva del percorso di apprendimento, coinvolgendoli in progetti e sperimentazioni di qualità: flipped classroom, cooperative learning, rinforzo del metodo di studio e delle strategie di apprendimento, scoperta della propria intelligenza emotiva, sempre nel segno di una didattica inclusiva.
Editore
Loescher Editore
Direttore responsabile Martina Pasotti
Direttore editoriale Ubaldo Nicola
Redazione
Sandro Invidia, Elena de Leo Francesca Nicola, Martina Pasotti
Grafica e impaginazione Michele Magnani
Pubblicità interna e di copertina Visual Grafika - Torino
Stampa
Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)
Prezzi per l’Italia
Un fascicolo € 6,00 Abbonamento annuo Italia, 3 numeri, € 15,00
Come cambia la genitorialità «Per sostenere i genitori nel loro difficile compito educativo», il Corriere della Sera ha dato alle stampe la Biblioteca dei Genitori: «i trenta libri di cui nessun genitore può fare a meno», come recita la pubblicità. È anche questa un’indicazione di come in questi anni la nozione e la pratica della genitorialità stiano velocemente cambiando. Veramente bisogna leggere trenta libri per diventare buoni genitori? Perché gli istinti paterni e materni sono improvvisamente diventati insufficienti? Soprattutto, al di là delle buone intenzioni, questo zelo professionalizzante non rischia di amplificare ulteriormente l’ansietà dei genitori? La scuola, del resto, è un buon osservatorio di questi cambiamenti: basta riflettere su come è cambiato negli ultimi decenni l’atteggiamento dei genitori durante le ore di colloquio con i docenti.
Servizio abbonamenti
I 3 fascicoli dell’Anno 1 (2012-13) sono gratuiti, pertanto distribuiti esclusivamente in forma di omaggio. Le modalità di acquisto e abbonamento relative alle annate prossime saranno rese note nel primo fascicolo dell’Anno 2. Per informazioni e contatti: laricerca@loescher.it.
Autori di questo numero
Paul Abramson, Fulvio Allegramente, Ugo Avalle, Gina Basso, Federico Batini, Sonia Bergamasco, Alicia Giménez-Bartlett, David Easton, Frederic Fleron, Filippo Gerli, Vittoria Hayun, Robert Hess, Herbert Hirsch, Dean Jaros, Paolo Jedlowski, Ludovica Lumer, Giuseppe Mantovani, Giusi Marchetta, Riccardo Medici, Ubaldo Nicola, Francesca Nicola, Marco Ricucci, Raffaele Simone, Andrea Smorti, Natascia Tonelli, Silvia Verdiani, Valeria Zagami.
© Loescher Editore
La redazione è lieta di ricevere le vostre proposte e suggerimenti. Scrivete a: laricerca@loescher.it
via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.loescher.it La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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SAPERI
Leggere nella mediasfera Etologia ed ecologia della lettura nell’epoca dell’e-book.
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ra le attività strumentali del conoscere, lettura e scrittura occupano un posto centrale. Che la scrittura abbia a che fare con la cognizione, la memoria e la mente, si sa almeno dai tempi di Platone e non occorre più discuterne; più recente è la scoperta che anche la lettura influenza in modo importante le attività della conoscenza e della mente, come mostrano in modo incisivo le ricerche delle neuroscienze. In queste pagine voglio considerare i cambiamenti che il mondo digitale ha prodotto
anche in questi ambiti, concentrandomi però su un livello puramente “superficiale” di analisi, cioè su quelle che chiamo l’etologia e l’ecologia del leggere e dello scrivere. Che lettura e scrittura comportino queste due dimensioni si verifica facilmente: per praticarle occorre tenere dei comportamenti e accettare regole specifiche (è la loro etologia); inoltre, entrambe si svolgono in un ambiente apposito e secondo una precisa organizzazione (la loro ecologia). La mia tesi è che all’epoca della rete lettura e scrittura sono state colpite in pieno da mutamenti nell’uno e nell’altro campo, che si aggiungono a quelli che hanno interessato alcune loro dimensioni più profonde, come la natura del testo e la concezione della storia narrata. Nel saggio Una lettura
▶ Raffaele Simone
«Signori bambini, se fossi in voi, la prima cosa che chiederei alla maestra sarebbe: “Cara maestra, raccontaci una storia”. In realtà non c’è modo migliore per cominciare una giornata di lavoro». Daniel Pennac Kenya Hara, A new desire, installazione al Temporary Museum for new Design durante la Settimana del design, Milano, 2012. 5
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SAPERI | Leggere nella mediasfera ben fatta, descrivendo e commentando un quadro di Chardin (Le philosophe en lisant del 1734), George Steiner delinea quella che chiama la «concezione classica dell’atto di leggere»: termine indovinato, perché segnala il fatto, spesso trascurato, che atti come il leggere e lo scrivere nascondono e presuppongono, oltre alla maestria tecnica e intellettuale, anche una concezione tacita e un paradigma a cui si uniformano. Ora, i modelli di lettura, non meno di quelli di scrittura, cambiano nel tempo e le diverse forme che prendono hanno affinità evidenti con vasti segmenti della storia del conoscere e delle mentalità.
si possono strappare e interfoliare le sue pagine; permette di calcolare a colpo d’occhio quanto manca alla fine, di capire a che punto ci si trova e di spostarsi velocemente da un punto all’altro; ospita tra le sue pliche quel che si vuole (dediche, disegni, ciuffi di capelli, poesie, cartoline, fiori secchi, biglietti, fotografie, soldi…); quando si lascia aprire e leggere squaderna tutto il suo contenuto, quando è richiuso non mostra di sé stesso che la copertina o il dorso. Ci sono libri più o meno comodi a usarsi: alcuni si aprono e si distendono facilmente, si tengono in mano senza sforzo, si possono leggere stando a pancia in su. Il libro si lascia mostrare, prestare, collezionare e affiancare ai suoi simili sugli scaffali, formando filze ordinate e decorative. Anche la sua fisicità, dunque, è fondamentale, tanto che si può amare un libro più per il suo aspetto esteriore che per il testo che contiene. Insomma, il libro di carta come supporto ha una vita relativamente indipendente dal libro come testo, anche se i due sono intrinsecamente collegati. Con esso è possibile praticare quel «maneggio» fisico che Calvino descrive così bene nel primo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore, chiamandolo «girare intorno al libro» e accostandolo con un’analogia trasparente ai preliminari della copula: «Rigiri il libro tra mani, scorri le frasi del retrocopertina, del risvolto, frasi generiche, che non dicono molto […]. Certo, anche questo girare intorno al libro, leggerci intorno prima di leggerci dentro, fa parte del piacere del libro nuovo, ma come tutti i piaceri preliminari ha una sua durata ottimale se si vuole che serva a spingere verso il piacere più consistente della consumazione dell’atto, cioè della lettura del libro».
Addio ai piaceri tattili e olfattivi della carta Nella concezione classica, la lettura è un processo che sembra non correre pericoli e quasi non avere nemici: si svolge in un ambiente protetto, è segnalata e quasi onorata da un abbigliamento speciale, si riferisce a opere imperiture. Tutto sembra difenderla dal mondo esterno. Inoltre, in quella concezione, al libro che si sta leggendo si tributa rispetto. Se però, uscendo dalla lieve fascinazione che l’analisi di Steiner produce, guardiamo alla condizione del leggere oggi, ci accorgiamo che quella che egli sta descrivendo è un’anticaglia ormai impresentabile: il philosophe che legge incarna un’etologia e un’ecologia oggi completamente impraticabili. Non basta, come fa Steiner, dire che i nostri modi di leggere attuali sono «vaghi e irriverenti». Il modello di lettura oggi è ben di più: è totalmente trasformato. Non solo non si cambia più l’abito prima di mettersi a leggere, ma l’intera cornice ambientale è alterata. La lettura non si fa né in silenzio né in solitudine, non si fa più solo a partire da un supporto come il libro: è diventata multimodale e conviviale. Quindi si può fare in ambienti affollati e rumorosi, perché nessuna intrusione sensoriale esterna può essere davvero un fastidio; si può leggere sullo schermo del computer sotto gli occhi di chi sta attorno. Inoltre, non è più uni-mediale, cioè non è un’attività a cui si debba dedicare attenzione esclusiva, ma è multimediale: ammette l’uso simultaneo di altri media, coi quali convive perfettamente. Quanto al supporto, il libro di carta è ancora il principale, ma il suo primato secolare è minacciato da un concorrente aggressivo. Parlo ovviamente dell’e-reader, il lettore elettronico di testi, il quale, pur essendo ancora quasi agli inizi, trasforma il libro in qualcos’altro. Infatti l’e-reader contiene ancora testi (quindi libri), ma li presenta in forma completamente diversa. La concezione classica del leggere è alterata in profondità. Il libro di carta ha una massa definita, sta bene in mano, si manipola senza sforzo, si copia e si annota; La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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Libri senza peso, forse troppo leggeri L’e-book invece smaterializza il libro come supporto fino a renderlo irrilevante. Al primo contatto, quel che colpisce nel confronto è l’insieme delle perdite fisiche: nell’e-book mancano l’”effetto-carta” e l’”effetto inchiostro”, non c’è odore del manufatto, la questione della maneggevolezza non si pone neanche. La fisicità è scomparsa. Anche la dimensione collettiva è indebolita: l’e-book non si può mostrare, non si può collezionare in alcun senso rilevante, non si può accumulare e stipare. Non ci sono però solo restrizioni; alcuni aspetti sono liberazioni. È soprattutto la leggerezza a fare impressione. Il libro comprato in rete si trasferisce silenzioso e veloce sul lettore (l’e-reader). E, siccome un lettore di e-book può immagazzinare migliaia di volumi in un oggetto quasi senza peso, trova pace il lettore inquieto (il viaggiatore, il divoratore di li6
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SAPERI bri, il maniaco), che ha bisogno di saltare senza posa da un libro all’altro. Ma, soprattutto, l’e-book impone un’altra etologia a cui non è istintivo assuefarsi. Per esempio, non sapremo mai, leggendo, a che punto siamo, perché gli e-book non hanno una scansione in pagine. Tutto quel che c’è è un indicatore di avanzamento, che dice che percentuale del libro si è già letta. E siccome le cose vitali si riconoscono quando le si perde, si capisce quanto sia ricca di informazioni l’apparentemente banale indicazione di pagina: citare un passo da un libro elettronico è (finora) impossibile. Un’altra peculiarità è che l’e-book non ha equivalente dello sfogliare: le sue pagine si mostrano ciascuna per intero. Ciò rende l’e-book curiosamente “lento” e renitente: scorrerlo, dargli un’occhiata è impossibile, come è impossibile sfogliarlo dall’inizio alla fine e viceversa. Infine, siccome gli e-reader possono connettersi alla rete, l’e-book concede un brivido di quella speciale felicità che apporta la mediasfera: far sapere al mondo quanti brani di un libro abbiamo sottolineato o annotato. Ma se l’e-book è sempre un libro (sia pure con le enormi differenze che ho descritto), gli altri supporti (siti di chat, social forum, blog ecc.) non contengono più libri, bensì oggetti che sono genericamente testi. In realtà, si tratta piuttosto di non-testi: frasi, brevi storie, citazioni, battute, barzellette, motti celebri, volgarità, commenti liberi, e stupidaggini a cascata. Si tratta di una versione ammodernata delle compilationes medievali, dedicate non più a testi dottrinali ma di altro genere. Inoltre, in questi testi non c’è più autore: chiunque può inserirsi, modificare il testo, uscirne anche senza lasciare traccia. Intanto, sia la lettura con libro di carta sia quella con e-book hanno cominciato a svolgersi in mezzo a fattori di disturbo che un tempo si sarebbero classificati come “nemici” della lettura. Uno dei principali (anche Steiner lo sottolinea) è l’interferenza dell’ascolto, dovuta al fatto che la lettura è diventata conviviale: leggere non esclude che la percezione uditiva sia attiva. Si legge anche con gli auricolari nelle orecchie.
Jean-Baptiste Siméon Chardin, Filosofo che legge, 1734, Museo del Louvre, Parigi.
Imporre il silenzio al mondo reale «Si può accedere al libro solo se si ha una certa familiarità con il silenzio, perché, lo si voglia o no, la lettura per sua esigenza tecnica ha bisogno di quel silenzio che fa tacere il rumore del mondo. E questo perché è il libro stesso un mondo alternativo al mondo. Ma il libro se ne sta lì, senza muoversi e senza far rumore, esso stesso silenzioso, può aprire le proprie pagine e concederci il suo mondo solo se noi siamo capaci di interrompere temporaneamente la comunicazione con il mondo esterno e creare quel vuoto di mondo reale che è la condizione perché possa accadere un mondo possibile. Ma siamo davvero noi oggi capaci di fare silenzio? O il silenzio ci spaventa, per cui anche quando ci capita di leggere abbiamo bisogno della colonna sonora della comunicazione di massa o di quel sottofondo musicale o radiofonico senza il quale molti giovani non riescono a prendere contatto con una pagina?». Umberto Galimberti
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Tratto da: R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano, 2012.
▶ Raffaele Simone è ordinario di Linguistica genera-
le all’Università Roma Tre. Linguista di reputazione internazionale, svolge un’intensa attività di saggista e consulente editoriale in Italia e all’estero. Ricopre ruoli preminenti all’interno di istituzioni accademiche e culturali.
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Il club dei lettori
La lettura di un romanzo si completa quando diventa una pratica sociale. Non vi è nulla di più appagante ed istruttivo che confrontare le proprie impressioni, discutere di personaggi e di trame possibili.
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ieci anni fa, nel 2000, l’Osservatorio sui processi culturali e la vita quotidiana dell’Università della Calabria realizzò una ricerca sulle letture e i consumi culturali degli studenti delle scuole secondarie calabresi. Il volume fu pubblicato l’anno seguente col titolo Libri e altri media. Il punto di partenza della ricerca era costituito da alcune preoccupazioni ricorrenti nel mondo della scuola, che potrebbero essere riassunte in frasi come queste: «I ragazzi non leggono!»; oppure: «Guardano soltanto la televisione!». I risultati contraddissero queste affermazioni. La televisione e gli altri media non sostituiscono necessariamente la lettura: possono affiancarvisi. I ragazzi calabresi leggono più o meno quanto i loro coetanei di ogni altra regione: non molto ma neppure poco. La differenza più cospicua è ovviamente fra chi prosegue le scuole e chi no (e la Calabria effettivamente è fra le regioni dove il tasso di abbandono è più alto), ma anche fra chi studia vi sono differenze importanti. A determinarle è in gran parte la famiglia d’origine, ma a rendere conto della propensione dei ragazzi alla lettura è anche un altro fattore, e probabilmente è quello decisivo: l’avere incontrato oppure no un insegnante che abbia saputo “contagiarli” con il proprio piacere di leggere. Quest’ultima osservazione ha spinto diversi insegnanti a incontrarsi fra loro per ragionare sulla propria capacità di educare alla lettura, e possibilmente per affinarla. È cominciato così un lavoro che dura tuttora. A immaginarlo e a coordinarlo sono stati Emilia Florio, presidente della Fondazione Rubbettino, e io stesso; le attività sono state ospitate nei locali del dipartimento di sociologia dell’Università, presso l’Osservatorio (“Ossidiana”) che aveva realizzato Libri e altri media. Inizialmente si è trattato di mettere a fuoco la nostra esperienza di lettori. Alcuni testi ci sono stati utili (Come un romanzo di Pennac, per
esempio, o una bella ricerca di Gabriella Pagliano su Perché leggere). Ma a contare è stato soprattutto parlare in prima persona, riflettere sulla nostra esperienza. Incontri di viaggio e vite parallele Ci è parso che leggere romanzi sia qualcosa di simile a mettersi in viaggio. Un viaggio ha l’aspetto di una parentesi, di una sospensione della vita ordinaria. Quando si parte, i legami si allentano. Può essere eccitante oppure doloroso, in ogni caso non si sa esattamente cosa accadrà: può anche non accadere nulla, ma ciò non toglie la sensazione di libertà che accompagna chi viaggia. Così nel viaggio possono avere luogo avventure: possiamo fare incontri; conoscere luoghi, situazioni, persone che nelle consuete routine non avrebbero posto; addirittura trovare soddisfazione a desideri che nella vita ordinaria non ci permetteremmo, e di cui forse neppure saremmo disposti a riconoscere l’esistenza. Ma quando entriamo in un mondo narrato avviene qualcosa di analogo: nelle vite parallele in cui ci immergiamo diamo corso a curiosità, inclinazioni, a passioni che altrimenti ci potremmo permettere solo con grande difficoltà. Allarghiamo così i confini della nostra esistenza. Leggendo ci pare di moltiplicare la vita: in ciò sta probabilmente il cuore del piacere che proviamo. È un “vizio”, come suggeriva quel delizioso maestro che fu Giuseppe Pontremoli: un vizio che difficilmente è dannoso. Questo piacere non lo si può imporre a nessuno. Si può però suggerirlo, trasmetterlo. È da qui che è nata l’idea che ha dato forma al nostro lavoro. Lo schema è semplice. Una volta messo a punto non l’abbiamo più abbandonato. Ogni anno scegliamo tre romanzi; li commentiamo tra noi in tre incontri; poi gli insegnanti li propongono agli studenti, ciascuno nella propria scuola e secondo le modalità che preferisce; infine gli studenti che lo desiderano partecipano ad altrettanti incontri in università, in cui i commenti di ciascuno sono messi in comune. Nell’insieme sono sei incontri, fissati a cadenza men-
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SAPERI sile, a cui vanno aggiunti uno organizzativo, all’inizio, e uno dedicato alla valutazione, alla fine del lavoro.
si tratta di un impegno obbligato; negli incontri con gli studenti che avvengono in università abbiamo deciso di non superare ogni volta la sessantina di partecipanti (altrimenti la conversazione è difficile), ma le richieste sono sempre molte di più. Ogni anno ci diamo un tema, ma le scelte sono sempre state assai varie. In ogni caso scegliamo romanzi che piacciano a noi e che presumibilmente possano piacere ai ragazzi: libri brevi, avvincenti, ben scritti.
Ogni anno: un tema e tante storie In dieci anni, il gruppo degli insegnanti si è rinnovato man mano (in media ogni anno siamo una dozzina; qualcuno continua dall’inizio, altri ruotano). I ragazzi e le ragazze coinvolti sono ormai più di un migliaio; partecipano volentieri, specialmente perché non
Martin Wetzel, Lettura delle poesie di Bertolt Brecht, 1972, Brücken straße, Chemnitz, Germania.
to. Il consiglio amicale, l’indicazione di lettura, la proposta di citazioni, di stralci, di episodi, la lettura collettiva, ad alta voce, ma più semplicemente la testimonianza che delle proprie letture viene resa attraverso il comportamento quotidiano, l’atteggiarsi, il prendere posizione: queste e altre sono le forme elementari con cui ognuno di noi rende conto delle proprie letture, le incarna. Ogni lettura è “romanzo di formazione”». Luca Ferrieri
Ogni uomo è ciò che legge (o che non legge) «L’apertura all’altro che si manifesta nel processo di lettura, continua e si accentua nelle scelte di commento e di testimonianza della lettura. Il commento, la comunicazione dei “lasciti” della lettura, non è solo affare dei critici togati o di mestiere; è pratica di tutti i lettori. Nessuno infatti si può sottrarre, terminata una lettura, al lavoro di “lettura della lettura”: dare un senso, cioè, a quello che si è letto, rielaborandone il pensiero, il desiderio, il lut-
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SAPERI | Il club dei lettori Abbiamo cominciato con Calvino e Fenoglio, siamo passati per Stevenson e Kafka, siamo arrivati a Gli scali del Levante di Amin Maalouf e a Dai Sijie e il suo Balzac e la piccola sarta cinese. È capitato di leggere romanzi a fumetti, come Persepolis, o fantascienza come quella di Bradbury (in questi ultimi casi gli insegnanti dapprima erano perplessi, ho dovuto convincerli: poi sono stati entusiasti, sia personalmente, sia vedendo il successo che riscuotevano presso i ragazzi). Per noi adulti, gli incontri in cui discutiamo di volta in volta di un libro sono diventati appuntamenti di puro piacere. È un aggiornamento, ci si prepara a un lavoro con i ragazzi, ovviamente; succede che ci citiamo reciprocamente Eco o Todorov; ma il divertimento di parlare di personaggi e di trame, fare commenti, scoprire reciprocamente cosa piace e perché, intrecciare interpretazioni, ha dato luogo a qualcosa che è come un appuntamento a cui dispiacerebbe rinunciare. Quanto ai ragazzi, la loro partecipazione agli incontri in università mi ha sorpreso. Dapprima un po’ intimiditi (c’è un professore universitario, ci sono compagni di altre classi), si rinfrancano presto e parlano in prima persona, fanno domande e osano interpretazioni, danno giudizi e accettano di provarsi a spiegarli; si divertono un mondo; alla fine ringraziano. Le conversazioni che ho con loro muovono dai testi ma, come è ovvio, finiamo per occuparci di molte altre cose: i romanzi servono anche a pensare. Ci è capitato di parlare di storia e di sociologia; di discutere dei ruoli di genere e della criminalità; dei bulli e di chi è handicappato; della solitudine e della paura della solitudine.
che abbiamo letto sono stati tratti dei film: alcuni insegnanti li mostrano o li suggeriscono; si mettono a confronto i due diversi linguaggi, si valuta il successo della trasposizione; i commenti proseguono, cresce l’esperienza di essere fruitori attivi di quello che l’industria culturale propone. C’è un film che gli insegnanti hanno visto e hanno commentato fra loro (ne parlano in un testo trovabile on line in www.sociologia.unical.it/ossidiana): è Il club di Jane Austen. Nel film, un gruppo di persone si riunisce una volta al mese per commentare insieme i romanzi di Jane Austen: sei romanzi, sei incontri. Le conversazioni prolungano il piacere che ciascuno ha provato leggendo; con i personaggi della Austen ci si confronta; ma parlarne serve anche a conoscersi, a riconoscersi reciprocamente, a tessere in modo più fitto la trama delle relazioni. La vita di una delle protagoniste cambia quando il marito accetta di leggere ad alta voce con lei un romanzo che ama; un’altra accetta la corte di un uomo quando si permette di leggere quello che legge lui. Un’altra ancora ha un dilemma; per risolverlo si chiede: cosa ne direbbe Jane Austen?
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▶ Paolo Jedlowski è professore ordinario di Sociologia presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università della Calabria e direttore di “Ossidiana - Osservatorio per lo studio dei processi culturali e della vita quotidiana”.
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P. Fantozzi (a cura), Giovani in Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.
Quando un romanzo ti cambia la vita Quest’ultima a volte ha a che fare con il primo approccio alla lettura, e può disincentivarla: leggere è un’attività solitaria e ciò può inquietare. Ma si scopre poi da un lato che può anche essere bello appartarsi (per adolescenti che escono dal periodo in cui la prima preoccupazione è farsi accettare dai pari, è un gran momento di liberazione); e, dall’altro, che leggere è in verità un modo di stare con altri. Non solo con gli autori o con i personaggi, ma anche con i propri compagni e persino con genitori, insegnanti, zii e nonni: dei libri si parla, ce li si scambia, diventano regali. A volte incontro ragazzini o ragazzine che ho conosciuto in questi incontri nella libreria in centro a Cosenza: mi salutano, mi mostrano l’ultimo volume che ha consigliato il loro insegnante, mi chiedono se un altro libro sarebbe un regalo indicato. Finisce che si va anche al cinema. Da molti romanzi La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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APPROFONDIRE
D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1997. G. Pagliano (a cura), Perché leggere, Buonanno, Roma, 1994. P. Jedlowski, Storie comuni, Bruno Mondadori, Milano, 2000. P. Jedlowski (a cura), Libri e altri media, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001. P. Jedlowski, I giovani leggono? E al Sud?, in Id., Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2003.
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G. Pontremoli, Elogio delle azioni spregevoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. R. Swicord (regia di), Il club di Jane Austen (film è tratto dal romanzo omonimo di Karen Joy Fowler), USA, 2007.
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Racconti come scuola di vita
Quando genitori e figli rievocano i ricordi comuni, li interpretano e ricostruiscono le storie di famiglia, nasce una piccola comunità interpretativa, si elaborano schemi utili alla lettura e alla vita. Per Eskilson, Lettura ad alta voce, 1856, Museo Nazionale, Svezia.
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a lettura ha una storia di migliaia di anni. Nel corso di questa storia essa è passata attraverso fasi decisive dovute ai cambiamenti che hanno caratterizzato la vita del testo scritto, quali il passaggio da scriptura continua a scriptura discontinua, la nozione di autorialità, l’invenzione della stampa. Attraverso queste fasi la lettura è divenuta un processo autoriflessivo, metacognitivo e silenzioso. Tuttavia, nella storia della lettura, oltre a questi cambiamenti legati alle trasformazioni che hanno investito la nozione di testo, grande importanza è stata assunta dal problema della alfabetizzazione. In questo quadro la scuola ha avuto un ruolo preminente perché è stata l’istituzione culturale che più di ogni altra ha sottratto bambini e adolescenti alle strade per affidarli in luoghi specificamente deputati all’educazione. In questi luoghi “gli scolari” vengono im-
pegnati per molte ore al giorno su problemi e compiti che solo in piccola parte hanno una utilità pratica. In realtà la scuola è stata nel corso dei secoli un immenso laboratorio linguistico all’interno del quale lo scolaro è stato abituato a riflettere sul linguaggio della pittura, della matematica e delle lettere. In questo laboratorio linguistico lo scolaro impara a leggere i testi e ad interpretarli scoprendo che questa interpretazione non è un processo solitario e univoco ma dialogico e complesso nel quale interagiscono vari soggetti: il lettore stesso prima di tutto e avanti tutto deve fare la parte principale, ma egli può farla solo a patto che conceda pari dignità al testo nella sua materialità e composizione interna, all’Autore con le sue intenzioni, divenendo consapevole altresì del ruolo del linguaggio e della cultura, come riferimenti indispensabili per un’interpretazione che conduca il testo al di là del semplice dialogo tra scrittore e lettore e facendo emergere ciò che Peirce ha chiamato Interpretante e Feldman Comunità Interpretativa. Per queste ragioni ho definito la lettura un processo au-
▶ Andrea Smorti 11
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SAPERI | Racconti come scuola di vita toriflessivo e metacognitivo, la lettura infatti, intesa come processo interpretativo, comporta un’attenta riflessione sul linguaggio, sui significati e sulla scelta dei possibili contesti di riferimento. La lettura non ha tuttavia solo una storia che affonda nei secoli passati ma essa ha anche un percorso ontogenetico uno sviluppo cioè all’interno della storia individuale. Osservare questo percorso permetterà di comprendere meglio la definizione di lettura come processo autoriflessivo e metacognitivo dalla quale siamo partiti. Come è che un bambino impara a leggere? Per poter rispondere a questa domanda dobbiamo porcene un’altra: quando è che un bambino comincia a riflettere sul linguaggio? Ciò avviene prima che il bambino si confronti con un testo scritto, anche se con un testo di figure i bambini si confrontano già precocemente.
Trame, intrecci e schemi per la vita Quando poi leggere diventa un’abilità acquisita e il libro una protesi cognitiva, un prolungamento del Sé verso il mondo, la lettura diventa una scuola di eccellenza per comprendere la vita. Questo avviene perché la lettura delle storie in particolare presenta delle ridondanze che sono state chiamate schemi di storie o anche plot o generi. Anche se tra questi termini esistono delle differenze quello che vorrei sottolineare è che questi schemi (o plot o generi) rappresentano delle modalità fisse di evoluzione del racconto (al di là di una variabilità tra racconto e racconto legata alla identità dei personaggi, ai luoghi e così via) conosciute le quali è possibile fare delle previsioni sulla evoluzione della storia. Ma poiché i racconti raffigurano delle versioni possibili della vita, conoscere gli schemi di storia permette di estendere la propria conoscenza sulle questioni della vita: intravedere per esempio in una vicenda un certo schematismo e, a partire da questo, fare delle previsioni sulla evoluzione, non solo ma anche fare delle inferenze sulle cause di questa evoluzione, proprio perché la persona, come lettore, è stato abituato a ritrovare delle cause a determinati effetti. Tutto questo naturalmente non vuole concludere che sarebbe sufficiente starsene su una comoda poltrona a leggere Dostoevskij per poter sapere tutto sulla mentalità del giocatore, ma solo che la lettura delle storie apporta un archivio di conoscenze anche riguardo gli schemi di vita, quantunque il nostro lettore dovrà imparare altresì a distinguere le differenze che pure in realtà esistono tra schemi di storie e schemi di eventi o script. In conclusione attraverso la lettura il lettore impara a riflettere sulle diverse e possibili rappresentazioni della vita. Egli non farà questo come se dovesse leggere la vita attraverso lo specchio del testo perché, come si è già detto, la lettura comporta un processo complesso di dialogo col testo stesso, con l’autore e con il linguaggio. Sarà quindi un complesso processo metacognitivo e autoriflessivo d’interpretazione che permetterà al lettore di estrarre dal testo quegli insegnamenti che arricchiranno la sua cassetta degli arnesi e per mezzo dei quali egli potrà attribuire un senso alle proprie esperienze.
Partire dalle vecchie storie di famiglia Esiste una situazione nella quale genitore (soprattutto madri) e bambini si confrontano sul linguaggio ed è quando essi parlano del passato. Si tratta di situazioni specifiche e documentate nelle quali il genitore chiede al bambino di ricordare eventi passati, magari vissuti assieme, di raccontarli e di commentarli. Dato che questo compito può assumere livelli diversi di complessità, in relazione al tipo di evento e alla sua lontananza nel tempo, diventa importante il modo con cui il genitore aiuta il figlio in questo compito. Parlare degli eventi passati che hanno accomunato genitore e bambino costituisce prima di tutto una attività sociale: ciò che il bambino farà, ciò che egli si ricorderà e racconterà sarà una funzione della relazione col genitore e quindi anche del modo in cui il genitore guiderà il bambino in questa ricerca. Questa attività sociale non è semplicemente limitata a riscoprire eventi accaduti che rischiano di rimanere perennemente coperti nella memoria, ma anche, una volta scoperti, a farli rivivere interpretandoli. Fare il gioco di parlare del passato significa attribuire emozioni ai personaggi del racconto, attribuire intenzioni e significati, domandarsi quali possono essere state anche le proprie emozioni. Riflettere sul perché una cosa sia successa in un modo piuttosto che in un altro o quale possa essere stata l’emozione sperimentata costituisce quella attività autoriflessiva e metacognitiva che caratterizza la lettura. È proprio in queste situazioni che comincia a formarsi una disposizione a chiedersi il perché dei sentimenti umani e prende forma quella enciclopedia interiore indispensabile poi per saper leggere e trarne godimento. La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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▶ Andrea Smorti è professore ordinario di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, preside della Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze.
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Leggere romanzi di altre parti del mondo In un mondo globalizzato è importante conoscere le storie degli altri: Il ragazzo giusto di Vikram Seth e Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy.
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Utagawa Kuniyosh, Paesaggi e bellezze: la voglia di leggere il prossimo volume, 1850, Museo Nazionale, Tokyo.
romanzi ci stimolano a costruire mondi immaginari. Il lettore dei Tre moschettieri, o di Anna Karenina, o di Sandokan riempie i buchi e interpreta la traccia che il racconto offre alla sua immaginazione usando le sue conoscenze e i suoi interessi. In cambio il racconto gli fornisce informazioni e illuminazioni su mondi lontani nel tempo o nello spazio, o futuribili, o dichiaratamente fantastici come quelli della fantasy. Nel momento in cui siamo sempre più profondamente immersi in un mondo globale che ci sorprende e ci disorienta, una guida può venire dai romanzi che raccontano di altri Paesi. In realtà non è proprio vero che si tratti di “altri” mondi: esistono sempre una serie di traduzioni per cui l’“altro” non sta (solo) dall’altra parte dello steccato, ma è già qui, dalla mia parte. Nel leggere questi romanzi è bene evitare di usare le lenti dell’esotismo, che esalta le differenze come “tipiche” di Paesi primitivi, del pietismo, che enfatizza le condizioni di bisogno di popolazioni lontane, e dell’aperta denigrazione (che presenta gli “altri” come moralmente inferiori). Se rinchiudo l’altro in uno steccato da cui io rimango fuori, perdo l’occasione per immaginare le differenze come parte del mio mondo. Consideriamo molto brevemente due romanzi che offrono degli spunti di conoscenza e di comprensione empatica sul subcontinente indiano, un crocevia di lingue e di tradizioni. 1951, Brahmpur: una ragazza indù cerca marito Il ragazzo giusto di Vikram Seth, del 1993, è un romanzo di dimensioni monstre che ebbe grande successo in tutto il mondo. L’ambiente è Brahmpur, immaginaria città del nord del paese, nel 1951, un momento in cui la memoria viva delle lotta per l’indipendenza ottenuta nel 1947 si scontra con la sanguinosa eredità della partition, la divisione del territorio tra India e Pakistan, e con la delusione per la corruzione dilagante. Il ministro delle finanze risponde a un maestro, che accusa i politici di aver tradito
▶ Giuseppe Mantovani 13
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SAPERI | Leggere romanzi di altre parti del mondo oggi un governo marxista, lo Stato che vanta il più alto livello di alfabetizzazione di tutta l’India, sorprendentemente uguale per uomini e donne. In questo primo romanzo, che vinse il prestigioso Booker Prize, l’autrice non scrive nell’elegante inglese-inglese di Vikram Seth ma mescola espressioni in malayalam (la lingua locale) con un curioso inglese filtrato dal linguaggio infantile dei narratori della storia, due gemelli di sette anni. Mentre Il ragazzo giusto era permeato dell’educazione britannica di bramini che avevano studiato a Cambridge, come Nehru, avevano lottato con Gandhi e si erano trovati alla guida del Paese nei primi difficilissimi anni, i personaggi del Dio delle piccole cose si muovono in un ambiente dominato dal comunismo in versione locale, dai riti della Chiesa cristiana siriano-ortodossa del Kerala (diversa dalla Chiesa cattolica) e soprattutto dal sistema delle caste da cui nasce la tragedia che costituisce il cuore del romanzo. Velutha, l’uomo amato dalla madre dei gemelli, Ammu, separata dal marito, è un comunista e un Paravan, un dalit, un intoccabile. Ecco cosa significa essere un intoccabile: «Pappachi [il nonno dei gemelli] non permetteva che i Paravan entrassero in casa. Nessuno lo faceva. Non potevano toccare niente che venisse toccato dai Toccabili. Caste indù e caste cristiane. Mammachi [la nonna] diceva che si ricordava di un tempo, quando era ragazza, in cui si pretendeva che i Paravan camminassero all’indietro con uno scopino, spazzando le proprie impronte così che i bramini e i cristiano-ortodossi non si contaminassero passando accidentalmente su un’impronta di Paravan. Ai tempi di Mammachi i Paravan, come gli altri Intoccabili, non potevano camminare sulle strade pubbliche, non potevano coprirsi la parte superiore del corpo, non potevano portare l’ombrello. Dovevano mettersi le mani davanti alla bocca quando parlavano, perché il loro fiato non contaminasse coloro cui si rivolgevano. Quando gli inglesi arrivarono nel Malabar un certo numero di Paravan... si convertirono al cristianesimo e si unirono alla Chiesa anglicana per sfuggire al flagello dell’intoccabilità. Non gli ci volle molto per capire che erano caduti dalla padella nella brace: furono costretti a frequentare Chiese separate, con riti separati e preti separati. Come favore speciale ebbero perfino un loro vescovo paria». Velutha non è “il ragazzo giusto” per Ammu. Al con-
gli ideali di chi aveva combattuto per l’indipendenza, che la politica è come il commercio del carbone: tutti quelli che ci hanno a che fare non possono fare a meno di sporcarsi le mani. Il filo conduttore del romanzo è la ricerca del “ragazzo giusto” per Lata, diciannovenne studentessa, che coinvolge quattro famiglie di alto rango, una musulmana e tre indù. Tre ragazzi interessano Lada: Kabir, fascinoso studente musulmano, Haresch, imprenditore di livello sociale inferiore, e Amit, sensibile poeta di ottima famiglia. È Lata a decidere, ma la sua mamma vedova, Rupa Mehra, interviene pesantemente nella scelta: il romanzo esplora i limiti che il desiderio di autonomia della ragazza incontra nella tradizione vigente dei matrimoni combinati. Nella sua esplorazione, Lata si imbatte in uno dei maggiori problemi dell’India, il conflitto tra indù e musulmani, riacutizzato dalle recenti vicende della partition. Il ragazzo di cui si innamora è infatti impossibile per lei perché musulmano. Per Rupa Mehra il matrimonio della figlia con un musulmano è semplicemente «inconcepibile: un conto era mescolarsi ai musulmani in società, ma contaminare il proprio sangue e sacrificare la propria figlia era tutto un altro discorso». «“Vuoi sposarlo?” grido Rupa Mehra infuriata. “Sì”, rispose Lata, lasciandosi trascinare dall’ira, e andando sempre più in collera ogni secondo che passava. “Ti sposerà, e fra un anno dirà ‘Talaq talaq talaq’ e ti ritroverai per la strada. Stupida ragazza ostinata! Dovresti annegarti in un bicchiere d’acqua per la vergogna”. “Lo sposerò”, ribattè Lata, senza tentennamenti. “Ti terrò sotto chiave, come quando volevi farti monaca”. “Vorrei essermi fatta suora»” disse Lata, “Ricordo che papà ci diceva sempre di seguire il nostro cuore”. “Rispondi ancora?”, esclamò Rupa Mehra, infuriata dall’accenno al papà. “Ti darò due ceffoni”. Schiaffeggiò la figlia con forza, due volte, e subito dopo scoppiò in lacrime». 1997, Kottayam: amare un intoccabile Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy, del 1997, ci porta all’altro capo dell’India, nel Kerala, lo Stato meridionale affacciato sull’oceano indiano, nel 1969. L’unico Stato che ospita una consistente minoranza cristiana, l’unico che ebbe dall’indipendenza fino ad La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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Norman Rockwell, Ragazzo mentre legge un libro d’avventure, 1923, Collezione Lucas, USA.
trario. E lei è per Velutha un pericolo mortale. Al “dio delle piccole cose” a cui affidano la loro fragile felicità i due amanti chiedono solo di potersi vedere naaley, domani, perché «le cose possono cambiare in un giorno», e infatti all’improvviso precipiteranno nella tragedia, quando l’amore proibito viene scoperto. Nella prima delle poche notti che i due amanti passano insieme «Ammu si svegliò al rumore del cuore di lui che batteva contro il petto. Come se stesse cercando un modo per uscire. Una costola mobile. Un pannello segreto. Le sue braccia la circondavano ancora, sentiva i suoi muscoli muoversi mentre le mani giocherellavano con un ramo secco di palma. Ammu sorrise tra sé nel buio, pensando a quanto amava le sue braccia, la loro forma e la loro forza, e a quanto si sentisse al sicuro nella loro stretta, mentre invece era il posto più pericoloso in cui potesse trovarsi». Il rispetto per l’altro: un buon investimento Chi leggesse questi due romanzi non potrebbe più tenere dentro di sé un’immagine stereotipata dell’India come di un mondo omogeneo. Se dopo aver letto questi due romanzi il lettore incontrasse un indiano, si chiederebbe subito a quel di questi due mondi appartiene. Inizierebbe a sospettare che di mondi in India ce ne siano forse anche più di due. Incomincerebbe a cercare altri romanzi, per conoscere altri ambienti, altre storie, altri periodi di tempo; e naturalmente troverebbe un mare di racconti. Diventerebbe curioso. Attento alle differenze. Rispettoso delle differenze. E l’“altro” si accorgerebbe subito di questo nuovo, insolito atteggiamento. Si sentirebbe trattato come una persona con una storia degna di attenzione e di rispetto, non come un vuoto. L’insegnante che avesse la fortuna di sviluppare una passione per i romanzi e le storie delle altre parti del mondo sarebbe in grado di introdurre con maggior competenza i suoi alunni in un mondo che è sempre più globale e che conosciamo troppo poco. E gli alunni, e le loro famiglie, gliene sarebbero grati. La stima per la propria figura l’insegnante se la deve guadagnare, ora più che mai.
I primi libri, indimenticabili «Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuti tanto pienamente come quelli che abbiamo creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto... L’ape o il raggio di sole che ci davano fastidio, costringendoci ad alzar gli occhi dalla pagina o a cambiar posto; le provviste per merenda e che lasciavamo accanto a noi sul sedile, senza toccarle, mentre, sopra il nostro capo, il sole diminuiva di forza nel cielo azzurro; il pranzo che ci aveva obbligati a rientrare e durante il quale pensavamo solo a salire subito dopo, in camera, a terminare il capitolo interrotto... Ancor oggi, se ci capita di sfogliare quei libri di un tempo, li guardiamo come se fossero i soli calendari da noi conservati dei giorni che furono, e con la speranza di veder riflesse nelle loro pagine le dimore e gli stagni che più non esistono». Marcel Proust
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▶ Giuseppe Mantovani ha insegnato psicologia sociale all’università di Milano e poi in quella di Padova. Ha fatto ricerche e interventi sulle nuove tecnologie, le differenze culturali, l’educazione interculturale. Sull’educazione interculturale ha pubblicato L’elefante invisibile (Giunti, 1998), Intercultura (Il Mulino, 2004), Spezzando ogni cuore (2012). Per seguire il suo lavoro di ricerca si rinvia al sito: www.spezzandoognicuore.it. 15
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Guerra e pace: crescere con la lettura Nelle scuole medie non si dovrebbe studiare storia della letteratura. Si dovrebbe aiutare lo studente a diventare un buon lettore, leggendo.
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dar retta alle testimonianze, sembra quasi una guerra. Cambiando il punto di vista, cambiano anche gli aggressori e gli aggrediti, ma la sostanza resta la stessa: una guerra silenziosa si combatte nelle nostre classi tra professori e alunni. Tutte le mattine, migliaia di insegnanti di italiano tentano di invadere le trincee scavate tra i banchi, armati di libri e di buone intenzioni. Non basta quasi mai. Alunni distratti, indifferenti, a volte apertamente ostili, guardano alla letteratura come all’ennesima testa di un’Idra che, identica alle altre chiamate matematica, storia, francese, si ostina a riformarsi giorno dopo giorno col solo scopo di annoiarli a morte. Così, frustrati da una sensazione di inefficacia tanto feroce quanto più intenso è stato l’investimento professionale ed emotivo, alcuni insegnanti si dichiarano vinti e lamentano l’invasione di una moderna popolazione barbarica cui sembra difficilissimo trasmettere la benché minima passione per la lettura. Dall’altra parte della barricata, torme di ragazzi tra i dodici e i diciotto anni rivendicano il proprio diritto alla diffidenza nei confronti di un’attività che solo sporadicamente riesce a suscitare in qualcuno di loro un lampo di interesse. Certo, sarebbe ingiusto generalizzare entrambe le categorie: non si contano i professori che hanno maturato grazie a studi, capacità e pazienza, un approccio all’insegnamento della letteratura che non risulti solo efficace, ma realmente coinvolgente per i propri alunni, né mi sembra accettabile prendere in considerazione l’ipotesi di una generazione di nativi digitali completamente slegata da quelle precedenti e ad esse inferiore dal punto di vista dell’apprendimento. Tuttavia, la questione esiste: biblioteche e librerie rimangono vuote per anni, poi chiudono; libri e giornali vendono pochissimo, mentre aumentano le difficoltà di giovani e meno giovani nel decifrare il testo scritto. Il dibattito in merito è acceso e negli ultimi anni pedagogisti, scrittori, insegnanti e associazioni culturali hanno portato l’attenzione sull’assenza della narra-
tiva contemporanea dai banchi di scuola, esclusa da un’idea tradizionalista di programmazione, in nome della quale si preferisce sacrificare il piacere della lettura alla sacralità della storia della letteratura. Lo spauracchio dell’analisi del testo Alle critiche mosse alla sequela di biografie di autori e di contesti storici propinati agli alunni, si aggiunge poi quella che ha come bersaglio la pratica pedissequa dell’analisi del testo che, attribuendo una finalità precisa alla lettura di un brano, di un racconto o una poesia (finalità declinata sotto forma di una mitragliata di domande cavillose e spoetizzanti), deforma il senso stesso di quella lettura e la rende inutilmente pesante e noiosa agli occhi di potenziali lettori. Posta la questione in questi termini, la soluzione migliore seppur drastica, parrebbe quella di eliminare la storia della letteratura e l’analisi del testo dai programmi scolastici in favore di una lettura di opere che spazino dalla narrativa contemporanea, più vicina ai gusti e all’immaginario dei ragazzi e quindi più interessanti per loro, a quella più lontana nel tempo. Una proposta, questa, che mi trova solo parzialmente d’accordo. È certamente il momento per la scuola di aprirsi non solo all’utilizzo delle nuove tecnologie, ma anche a una più vasta interazione col mondo che la circonda. Se infatti il suo scopo principale continua a essere la formazione dell’uomo e del cittadino, è inaccettabile pensarla come un’attività totalmente separata dal contesto dell’alunno. Anzi, se considerata in questo senso, direi che proprio in questo momento storico, la scuola riveste una particolare importanza nella vita di una persona, dato che si pone come intermediario tra l’adolescente e una realtà che negli ultimi cinquant’anni è enormemente cambiata, assumendosi l’arduo compito di fornirgli gli strumenti per interpretarne gli aspetti più complessi. Tra questi strumenti, la lettura sembra uno dei più indispensabili: ogni libro rappresenta una possibilità (più o meno significativa) di conoscere, capire e interpretare un pezzo di esistenza. Dalle fiabe ai romanzi d’avventura, a quelli storici, alla fantascienza, non c’è un genere che non offra l’inestimabile occasione di rivivere la propria esperienza umana nei panni di
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vessi una scheda uguale a quella dei compagni, ma perché voglio sapere se ti è piaciuto, che ne pensi di questo personaggio e molte altre cose di cui dovremo parlare insieme. L’analisi del testo è uno strumento, non un obiettivo: è bene che gli insegnanti se ne riapproprino in modo personale, autonomo e tarato sul singolo alunno. Un percorso strutturato in questo modo permetterebbe di circoscrivere alle superiori lo studio della storia della letteratura per cui ritengo indispensabile l’ordine cronologico, in quanto permette all’alunno di comprenderne i richiami interni e le correnti letterarie e di maturare un gusto personale nella scelta delle sue future letture. Perché questo, credo, sia il problema che dobbiamo porci innanzitutto: quello di accompagnare gradualmente l’alunno verso uno sviluppo sempre più autonomo del suo essere lettore. Non ci riusciremo se non teniamo in conto le difficoltà e la sfiducia che prova nei confronti della pagina scritta. Non ci riusciremo se continueremo a considerare noi per primi la letteratura come una materia identica alle altre. Soprattutto però, io credo, che difficilmente otterremo risultati se la scuola non potrà contare su altri tasselli come la collaborazione dello Stato e delle famiglie che contribuiscano a quest’attività investendo tempo, risorse e attenzione. Non si tratta di vincere una guerra, ma di costruire una pace, un sistema integrato in cui leggere rappresenti un piacere che si ha voglia di condividere.
A ogni studente il libro giusto per lui È per questo motivo che dalle medie dovremmo bandire definitivamente la storia della letteratura. Non ci servono le date, i contesti, le biografie; dobbiamo solo leggere, scegliendo accuratamente il libro giusto per la persona giusta. Mi sembra, infatti, inutile e controproducente assegnare alla classe intera Il barone rampante. Più efficace sarebbe orientarsi su alcuni testi comuni da leggere in orario scolastico e scegliere con i ragazzi le letture che faranno autonomamente. Né è ancora il momento di lasciarli soli col libro: se vogliamo che continuino a leggere, dobbiamo rendere la lettura un momento di interazione che, in modo più complesso che negli anni precedenti, ricrei la stessa forma di scambio tra educatore e alunno. Insomma: non ti ho assegnato il libro perché volevo che scri-
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▶ Giusi Marchetta, scrittrice, è insegnante di soste-
gno in un liceo di Torino. Ha pubblicato il romanzo L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo), con la quale nel 2007 ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (Terre di mezzo, 2009).
John William Waterhouse, Santa Cecilia sente gli angeli mentre legge,1895, Museum of Fine Arts, Montreal. 17
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Leggere per gli altri
La lettura ad alta voce è un un evento sociale che trasforma un testo rendendolo vivo. Il parere di due esperti: Lucia Lumbelli e Simone Giusti.
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a ricerca riguardo al tema della lettura ha conosciuto, negli ultimi anni, una polarizzazione attorno a focus differenti con lo scopo dichiarato di inquadrare questo ampio tema di ricerca e le possibili declinazioni di indagine che esso richiede. In questo contributo si tenta di fornire uno sguardo da differenti prospettive attraverso due interviste comparate che, coinvolgendo due importanti studiosi e due modi differenti di fare ricerca attorno alla lettura (provenienti anche da ambiti disciplinari differenti ma essenziali ai fini della comprensione di questo tema), possano rappresentare, anche per un pubblico non specialistico, un orientamento circa le direzioni, gli stimoli e le prospettive possibili nei confronti dei guadagni di apprendimento che la lettura consente. Mi corre l’obbligo, per prima cosa, di ringraziare i due studiosi che si sono prestati a rispondere alle mie domande, inviate via mail a seguito di altri confronti. Sono studiosi caratterizzati da differenti approcci allo stesso tema/problema conoscitivo. Infatti Lucia Lumbelli rappresenta, in Italia, l’attenzione particolare ai pre-requisiti cognitivi che rendono la lettura possibile e piacevole per un soggetto; i suoi lavori sottolineano la necessità di approcci educativi non direttivi, nei processi di istruzione, al fine di non perpetuare l’ereditarietà di svantaggi culturali che rendono l’esperienza personale della lettura poco attingibile. Simone Giusti rappresenta un particolare orientamento degli italianisti, per il quale l’approccio al testo, fonte di esperienza mediata, repertorio di significati da attribuire alla propria esperienza, deposito di emozioni e di senso da attribuire a ciò che c’accade e ciò che facciamo, comporta, in ogni segmento formativo, la necessità di insegnare con la letteratura anziché di insegnare la letteratura (e più in generale, in una didattica centrata sui soggetti e i loro apprendimenti, insegnare attraverso l’uso delle discipline e non insegnare le discipline).
Che valore attribuisci, oggi, alla lettura? Lucia Lumbelli: «Ci sono molteplici ragioni per attribuire valore alla lettura. Sono ragioni ripetutamente ribadite: dalla lettura come risorsa del tempo libero e garanzia di qualità della vita, alla lettura come condizione imprescindibile di cittadinanza informata, e quindi sottratta ai rischi della manipolazione e della disinformazione di cui si tende a ritenere responsabile soprattutto la comunicazione televisiva. Quanto alla mia ricerca, con una drastica sintesi posso dire che il risultato principale è la segnalazione della complessità cognitiva della comprensione della lettura: capire non è soltanto decodificare quanto è espresso linguisticamente nel testo ma anche integrarlo e connetterlo con veri e propri ragionamenti. Ragionamenti che possono essere così semplici da sfuggire all’attenzione degli analisti, ma anche così difficili da rendere molto probabili rilevanti quanto ignorate incomprensioni. A questo risultato sono arrivata sia studiando un settore poco noto della psicolinguistica sia osservando lettori in difficoltà mentre pensavano ad alta voce leggendo. È una scoperta che, lungi dallo sminuire, rafforza le ragioni dell’urgenza di un impegno a favore della lettura, sia come risorsa esistenziale “privata” sia come strumento fondamentale per la partecipazione attiva e responsabile alla vita civile e produttiva. È un riconoscimento del valore della lettura che si combina con la constatazione del peso delle diseguaglianze sociali sulla possibilità di fruire di quella risorsa e di quello strumento. Concludendo, difendere il valore della lettura significa per me impegnarsi nella costruzione di progetti educativi che si fondino contemporaneamente sulla consapevolezza sia di quel peso sia della complessità cognitiva della comprensione della lettura». Simone Giusti: «Per la mia attività, è ovvio, la lettura è tutto. Nella ricerca letteraria, che conduco soprattutto attraverso la rivista “Per leggere - I generi della lettura” ma anche attraverso la produzione di testi scolastici, la lettura è allo stesso tempo un processo e un prodotto: il processo conoscitivo che conduce il lettore esperto (lo studioso di letteratura) all’elabo-
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SAPERI razione di un prodotto (che può essere un commento, un’edizione critica, una lectio o un apparato didattico) che deve servire agli altri lettori a intraprendere un ulteriore processo di lettura. Ultimamente, inoltre, mi trovo spesso a riflettere sul ruolo che ha avuto la lettura nella mia vita personale e professionale. Penso che il metodo di lettura che ho imparato dal mio maestro Domenico De Robertis e dal gruppo di lettori composto dai suoi allievi degli anni Novanta abbia fornito le fondamenta a tutte le competenze professionali che ho successivamente sviluppato anche in ambiti apparentemente lontani dalla letteratura. Inoltre, penso che l’incontro, anche casuale, con alcuni testi abbia orientato la mia vita al di là di ogni mia previsione. E adesso mi piace osservare, a ritroso, le tracce lasciate da quegli incontri».
tavia, ritengo sia sottovaluto l’impatto che la lettura può avere nella costruzione della vita di ciascuno». Quale valore specifico ha la lettura ad alta voce? Lucia Lumbelli: «Anche qui sento il bisogno di distinguere in base all’appartenenza socioculturale e di riferirmi anzitutto alle persone per le quali la decifrazione dello scritto può essere un problema, e un problema così rilevante da sottrarre spazio, nella memoria di lavoro, all’esecuzione di quei ragionamenti
«Ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso. L’opera non è altro che una specie di strumento ottico che lo scrittore gli offre per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso». Marcel Proust
Quale valore dà oggi alla lettura la maggior parte della popolazione? Lucia Lumbelli: «Mi chiedo anzitutto: qual è la “maggior parte della popolazione”? E penso che forse sarebbe meglio domandarsi quali siano le categorie della nostra popolazione che hanno familiarità con la lettura, che vi riconoscono sia una risorsa esistenziale sia uno strumento di cittadinanza attiva, e quali siano invece le categorie che non le attribuiscono valore e non hanno familiarità con la sua pratica. Ancora una volta non posso non rispondere rivendicando l’urgenza di fare parti più uguali tra la popolazione grazie a un investimento nella scuola che la renda efficace nel creare nella mente degli allievi più svantaggiati le premesse cognitive indispensabili per leggere con facilità, e anche per divertirsi leggendo. Le testimonianze di apprezzamento della lettura anche da parte di coloro che probabilmente appartengono a quei settori della popolazione che tendono a non darle valore sono secondo me altrettante dimostrazioni dell’urgenza che la scuola fornisca a tutti (e non solo ad alcune persone eccezionalmente dotate di motivazione in questo senso) le premesse cognitive indispensabili della lettura come esperienza di arricchimento esistenziale». Simone Giusti: «Mi pare che la lettura sia considerata qualcosa di prestigioso (c’è ancora il pregiudizio per cui un lettore è considerato un intellettuale o comunque una persona colta) ma non davvero basilare per la gestione della vita quotidiana e, in definitiva, dell’esistenza stessa. Ho l’impressione (non supportata da prove scientifiche) di vivere in un mondo che ritiene la lettura un fatto socialmente importante e utile per cavarsela nelle varie circostanze della vita, dal fare un chek-in in aeroporto al leggere un contratto di lavoro. Tut-
Johnson Eastman, Donna che legge, 1874, Museum of Art, San Diego. 19
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SAPERI | Leggere per gli altri che fanno parte integrante del processo di comprensione. Mi riferisco anzitutto cioè a chi ha ereditato socialmente questa problematicità. Nel lavoro che ho condotto con insegnanti impegnati nella mia stessa direzione, i ragazzi venivano invitati a seguire il testo fruendo nello stesso tempo della nostra lettura ad alta voce. In quel caso, la lettura ad alta voce era un modo per liberare la loro memoria di lavoro dall’impegno nella decifrazione, permettendo alle loro menti di impegnarsi nei ragionamenti destinati a integrare e connettere le frasi del testo. Penso che questa funzione della lettura ad alta voce possa essere estesa a situazioni che non siano di didattica scolastica e che abbiano lo scopo di far vivere una esperienza di lettura il più possibile gratificante a chi non abbia le premesse cognitive per essere un lettore abituale. Diverso è il discorso a proposito di chi ha avuto l’opportunità di diventare un lettore esperto, e cioè possiede le premesse cognitive perché la lettura non sia una prestazione problematica. In questo caso mi sembra degno di nota l’aspetto d’interpretazione che chi legge ad alta voce associa alla lettura con le proprie scelte espressive. Il rapporto con il testo è mediato e la lettura può perdere quei caratteri di libertà e privatezza in cui vengono individuati i suoi vantaggi. Se d’altra parte le scelte espressive del lettore che parla fossero in sintonia con il lettore che ascolta, all’esperienza di lettura si assocerebbe un’ulteriore fonte di gratificazione. In proposito mi sembrerebbe utile un’analisi di questa forma di lettura che la mettesse a confronto con l’esperienza del teatro come lettura di testi ad alta voce per eccellenza». Simone Giusti: «Credo di aver sviluppato negli anni un vero e proprio culto per la lettura ad alta voce, intesa sia come attività solitaria, da svolgere per sé, sia come attività sociale, come ascoltatori o lettori. È innanzitutto un modo efficace per appropriarsi del testo, anche prima di averlo capito fino in fondo. Come accade con le canzoni, che si fanno risuonare con la voce anche quando non si capisce il significato del testo: ne prendiamo possesso, poi, un giorno, le comprenderemo appieno. Leggere ad alta voce le poesie, per esempio, è uno straordinario allenamento della voce che cerca di imparare di nuovo a parlare, come fosse la prima volta, attraverso le parole di qualcun altro, che ci presta le sue per rendere la nostra voce più bella e interessante. Per questo non importa la qualità della lettura. Importa mettere in funzione la voce, agire con la propria voce sulla poesia, dare fiato ai polmoni, far vibrare le corde vocali. Rendere il testo vivo, facendolo passare attraverso il nostro corpo. Come fatto La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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sociale, la lettura ad alta voce è uno straordinario strumento per costruire legami di fiducia. È alle fondamenta di ogni educazione alla lettura». Quali sono le difficoltà, a proposito della lettura, che possono riscontrare le persone in generale? Lucia Lumbelli: «Anche qui eviterei di parlare di persone in generale, sempre per le ragioni dell’incidenza della provenienza sociale sull’incontro con la lettura. Le difficoltà che contribuiscono alla demotivazione verso la lettura e alla preferenza per altri mezzi di comunicazione come la televisione, si possono toccare con mano non appena si cerchi di capire ciò che avviene nella mente del lettore non esperto. Sono difficoltà che non si limitano a quelle generalmente denunciate e debitamente affrontate quali la povertà lessicale o l’ignoranza della sintassi. Ripeto che si tratta di un tipo di difficoltà cognitiva che interessa processi che vengono eseguiti in modo automatico, non consapevole, e che pertanto danno luogo a lacune e distorsioni difficilmente avvertite sia dai lettori inesperti sia da insegnanti e analisti di testi. Il carattere automatico e sotterraneo di tali processi cognitivi permette di distinguerli nettamente dalla cognizione come processo interpretativo del lettore, quella con cui egli fa interagire il contenuto ricavato dal testo (prodotto di processi inconsapevoli) con le proprie esperienze extra- ed intertestuali, ricavandone quello che per lui sarà il senso del testo. A questo secondo livello le difficoltà possono derivare dai limiti di conoscenze culturali e di letture pregresse, ma si tratta di difficoltà suscettibili d’elaborazione consapevole e quindi molto più facilmente gestibili nelle interazioni tra lettori più o meno esperti, a partire da quelle che si svolgono nelle classi scolastiche». Simone Giusti: «La difficoltà principale è collegata all’eccesso di informazioni e alla scarsa capacità di orientarsi. Non è facile individuare testi adeguati alle proprie esigenze e competenze se non si è lettori esperti. Occorre avere una guida, un mentore”». Che cosa si guadagna leggendo? Lucia Lumbelli: «In generale penso di aver già risposto a questa domanda a proposito della prima. Aggiungo qui un riferimento a quella che viene comunemente considerata come una specificità del mezzo, riformulando la domanda: c’è un guadagno specifico nel cercare le informazioni nella lettura di giornali piuttosto che nella televisione? C’è un guadagno specifico nel leggere un romanzo piuttosto che vedere un film, sia pure ricavato da quello stesso romanzo? Concisamente: penso siano in questione cose come la qualità dell’attenzione, e quindi anche 20
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SAPERI dell’elaborazione dell’informazione, nel primo caso, e la concentrazione e la libertà del tempo di elaborazione nel secondo caso. È una risposta che è stata confortata da mie ricerche sperimentali con adulti e con allievi di scuola media superiore in cui ho confrontato la comprensione di testi scritti con quella di testi filmici e televisivi, mantenendo sempre invariato il contenuto dei testi da un lato e il livello di abilità di comprensione della lettura dall’altro. Le persone che hanno operato come lettori, invece che come spettatori, hanno sempre dimostrato una comprensione del testo che era significativamente migliore che nel caso degli spettatori. Non ne ho mai tratto demonizzazioni di cinema e televisione, che viceversa ritengo possano essere efficacemente utilizzati per la loro attrattività e quindi proprio per quella facilità di incatenare l’attenzione dello spettatore che sembra avere come contropartita la debolezza dell’elaborazione. La specificità del mezzo, sia esso la lettura o la televisione, va riconosciuta come dato di fatto con cui fare i conti nella progettazione educativa, senza ricavarne conclusioni affrettate, come quando si considera la lettura di per sé come un valore, indipendentemente dal valore del contenuto del testo. Infatti, se è vero che la lettura ha il vantaggio di comportare una maggiore concentrazione rispetto ad altre forme di comunicazione, non è vero che il valore dell’esperienza di lettura sia completamente indipendente dalla qualità del testo letto». Simone Giusti: Si mettono da parte risorse che utilizzeremo per dare un senso alla nostra vita, per orientarci nel mare delle informazioni e degli accadimenti. Attraverso la lettura acquisiamo storie. E la cosa straordinaria è che (a differenza delle epoche basate sulla narrazione orale) possiamo scegliere quali storie acquisire, modificando l’ambiente intorno a noi. Non siamo costretti a stare nel nostro gruppo familiare, nella comunità di origine. Possiamo scegliere altre comunità (Jedlowski ha parlato di comunità di pratiche narrative), cambiare cultura e, allo stesso tempo, avere strumenti utili a gestire i cambiamenti cui siamo sottoposti. Non mi pare poco».
ginazione, e quindi si tratta di istituire un contesto educativo totalmente centrato sull’allievo lettore. Il suo compito è leggere i brani successivi di un racconto e dire tutto quello che ha capito di ciascuno di essi, parlando liberamente e quindi presentando anche dubbi, incertezze e altre impressioni. Già in questa fase l’iniziativa del lettore è incoraggiata evitando domande, inviti e giudizi, che invece scoraggerebbero gli sprazzi d’elaborazione attiva e personale. Devo a Carl Rogers la soluzione del problema educativo di stimolare senza interferire con la libera lettura dell’allievo: è un atto comunicativo che consiste nell’attestare sistematicamente la propria attenzione e sforzo di comprensione, incoraggiando così l’allievo nella sua elaborazione autonoma. Anche nella seconda fase dell’intervento si fa un uso sistematico di questo atto comunicativo mentre il compito dell’allievo diventa (ovviamente nel caso di incomprensione accertata nella prima fase) quello di riesplorare il testo per trovarvi la base per l’autocorrezione. Solo se l’allievo non vi arriva autonomamente è prevista la soluzione del problema di comprensione da parte dell’insegnante. L’esigenza di fornire strumenti cognitivi viene così soddisfatta insieme all’istanza educativa di incoraggiare la concentrazione e motivazione del lettore». Simone Giusti: «Fondamentale è un’azione di accompagnamento che possiamo paragonare al cosiddetto mentoring. Adulti che leggono ai bambini e che, soprattutto, si mostrano mentre leggono ai bambini, dimostrando piacere se non entusiasmo per quello che leggono. Non vi è niente di peggio che dire a un bambino di leggere mentre si è seduti davanti alla televisione».
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▶ Federico Batini è saggista, ricercatore di pedagogia
sperimentale all’Università di Perugia e ideatore di LaAV, Letture ad Alta Voce (www.narrazioni.it). APPROFONDIRE
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AA.VV., La lettura durante l’intero arco della vita, numero monografico di “Lifelong Lifewide Learning”, rivista. edaforum.it, n. 20, 2012.
Come si può facilitare un approccio alla lettura? Lucia Lumbelli: «Ecco un’estrema sintesi delle linee operative dell’approccio alla stimolazione intensiva della comprensione della lettura che ho sperimentato con allievi degli ultimi anni della scuola dell’obbligo, per incidere almeno minimamente nell’eredità culturale con cui gli allievi socialmente svantaggiati sarebbero usciti dalla scuola. Primo, ci vuole una rottura con la consueta condizione scolastica di passività e tendenza all’autoemar-
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F. Batini, Storie che crescono. Le storie al nido e alla scuola dell’infanzia, Junior, Bergamo, 2011. F. Batini, Storie, futuro e controllo, Liguori, Napoli, 2011. S. Giusti, Insegnare con la letteratura, Zanichelli, Bologna, 2011. L. Lumbelli, La comprensione come problema. Il punto di vista cognitivo, Laterza, Roma- Bari, 2009.
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Leggere per il pubblico Dalla lettura silenziosa alla lettura pubblica, un inesorabile percorso alla scoperta del segreto che siamo.
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eggere è aprirsi al mondo. L’ho scoperto piano piano, attraverso anni di lenta insaziabile fame – di storie, di voci, di parole scritte, che avessero come casa un libro, un volume. Fame di voci. Non ho iniziato particolarmente presto, e la mia “scoperta” è passata attraverso le letture rituali – le prime. I fumetti, intendo. Che meraviglia, i fumetti! Che gioia scoprire le parole attraverso le immagini, attraverso il piacere del gioco, del travisamento, dell’associazione libera. Verso i dieci, undici anni, poi, ho attraversato un periodo di letture disordinate – la cosiddetta “letteratura per ragazzi” . Se si è ben consigliati, può anche andar bene; comunque, per me, niente di soddisfacente. Presto, molto presto, sono passata alla poesia. La prima grande passione. Anni e anni di letture onnivore. E i miei primi acquisti di libri, i primi vagabondaggi nelle sale di lettura (principalmente la Biblioteca Sormani, a Milano, dove allora vivevo) e nelle librerie del Centro, dove trascorrevo ore, prima o dopo le lezioni di musica in Conservatorio. Ricordo in particolare la Libreria Cortina, di fronte all’Università Statale e una piccola libreria bellissima e molto fornita proprio all’angolo con via della Passione, a un passo dal Conservatorio. Credo che non esista più. Il tempo che trascorrevo in quei luoghi era la mia cura, la mia pratica di libertà necessaria, per non rimanere sepolta nella “prigione” Conservatorio e nella mia fragilissima scorza malinconica. Sostavo per ore davanti a un volume, a un libro nuovo, a un autore sconosciuto. Proprio in quel periodo, verso i quattordici, quindici anni, ho cominciato a scrivere io stessa poesia – come milioni di altri adolescenti. Anni, quindi, di lettura silente. Il desiderio di condividere la bellezza di queste scoperte si è fatto largo in maniera sotterranea ed evidentemente inconsapevole in me, proprio attraverso la pratica di scrittura poetica (il desiderio di essere letta!) quando ho pensato – di punto in bianco, e sen-
za alcun “preavviso” o “chiamata”, se non puramente musicale – al teatro. Al teatro come pratica che mi riguardava. Quando, verso i diciannove anni, si è affacciata concretamente la possibilità di fare l’attrice, tutte le letture che negli anni avevano creato il mio mondo, i miei amici, i miei amori, hanno cercato di intonarsi, di trovare una voce. La pratica della scrittura poetica e del teatro hanno tradotto musicalmente, attraverso la lingua parlata, prima ancora che attraverso la consapevolezza di un corpo parlante, il desiderio di condivisione e di gioco. Sono pochi gli attori che amano la dimensione della lettura (per il pubblico, intendo). E in effetti, la lettura per gli altri rappresenta un momento di equilibrio estremamente sottile. Si tratta di dare voce alla storia, ai personaggi, all’autore, senza imporre la propria storia e la propria voce. Passare attraverso, con la leggerezza dello strumento, che può incantare ma deve rimanere uno strumento. Amo profondamente la pratica della lettura, e ormai non posso che concepirla nella sua dimensione più matura, rivolta a un pubblico in ascolto. L’esperienza mi dice che la voce è viva per gli altri solo se porta in sé la storia di un corpo desiderante, di un corpo umano che si immerge nel rito. La voce, come dice Jean Renoir, grande regista francese e figlio del pittore Pierre-Auguste, è ciò che più parla di noi, della nostra anima. È per questo che non riesco a vedere un film doppiato. È per questo che ascolto le voci di chi mi parla con un orecchio segreto. È per questo che scrivo poesia. È per questo che amo leggere. Soprattutto per gli altri, dal momento che ormai so che leggendo per gli altri leggo prima di tutto e sempre per avvicinarmi al segreto che siamo.
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▶ Sonia Bergamasco è attrice, musicista e poeta. Ha lavorato nell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, nel Pinocchio di Carmelo Bene e con registi quali Therzopoulos e Castri a teatro, Bertolucci, Giordana e Liliana Cavani al cinema.
▶ Sonia Bergamasco La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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Ad alta voce: l’audiolibro a lezione I testi letterari letti da attori o dagli stessi autori possono cambiare in modo radicale l’approccio alla lettura da parte dei ragazzi e non solo nella loro lingua madre.
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a materialità dei libri è qualcosa che ci accompagna fin dalla più tenera età. Col passare degli anni impariamo a orientarci in un universo cartaceo affinando l’abilità tattile di riconoscere i diversi mezzi attraverso i quali entriamo in contatto con il mondo. Il fruscio della carta dei media che ogni giorno passano per le nostre mani è parte del nostro corredo cognitivo ed è questa dimensione del silenzio che siamo abituati ad associare alla lettura, al fruscio lieve delle pagine, diverso a seconda della grana della carta. Questa percezione acustico tattile che caratterizza la nostra interazione con i libri sin dall’infanzia - che in un certo senso è impregnata dalla consistenza della materia di cui il libro è fatto, dalla compresenza di carta, inchiostro, colori e odori di stampa - fa di ogni volume qualcosa che resterà per sempre impresso nella nostra memoria. La sonorità materica del libro è ancor più presente nel silenzio che accompagna la lettura. Esiste però anche un’altra sonorità dei libri che non ha nulla a che fare con la loro materialità di oggetti, ma con le voci create dagli autori, le voci dei loro personaggi la cui riproducibilità sonora è un dato relativamente recente ma che fa parte da sempre dei desideri dei lettori.
del linguaggio. Quando ebbi in seguito riflettuto a lungo su questa meravigliosa invenzione per fare i libri, non mi stupivo più che i giovani di quel paese possedessero più conoscenze a sedici o diciotto anni delle barbe grigie del nostro; perché, sapendo leggere appena in grado di parlare, non stanno mai senza leggere; in camera, passeggiando, in città o in viaggio possono avere in tasca, o appesi alla cintura una trentina di questi libri dei quali non devono che caricare una molla per ascoltarne un capitolo solo, oppure molti, se sono nello stato d’animo di ascoltare un libro intero: così voi avete sempre intorno a voi tutti i grandi uomini, sia morti che vivi, che vi intrattengono con la loro voce.»
Un libro miracoloso «Aperta la scatola, vi trovai dentro un non so che di metallo, in tutto simile ai nostri orologi, pieno di non so quali piccole molle e congegni impercettibili. Si tratta in verità di un libro: ma un libro miracoloso, che non ha pagine né caratteri; insomma un libro per il quale, per studiare, gli occhi sono inutili; solo le orecchie sono necessarie. Quando, dunque, qualcuno desidera leggere, carica questa macchina con una grande quantità di ogni sorta di piccoli tiranti, quindi volge l’ago sul capitolo che desidera ascoltare e subito ne escono, come dalla bocca di un uomo o da uno strumento musicale, tutti i suoni, distinti e diversi, che servono, tra i grandi della luna, all’espressione
▶ Silvia Verdiani
Johnson Eastman, Ragazzo che legge, 1863, Collezione privata, Beverly Hills, California. 23
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SAPERI | Ad alta voce: l’audiolibro a lezione Testimonianza famosa, anticipatrice di tanta letteratura fantascientifica ma anche singolare testimonianza del desiderio di ascoltare la voce del testo. Questo brano è di Savinien Cyrano de Bergerac, noto al pubblico come protagonista dell’omonima commedia teatrale di Edmond Rostand. Nella realtà Savinien Cyrano de Bergerac fu uno scrittore francese di successo della seconda metà del ‘600, libertino, barocchista (Le lettere) e precursore del genere fantascientifico. Il testo citato è tratto da L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della luna che venne pubblicato postumo nel 1657 ed è considerato il suo capolavoro. È singolare che in esso trovi spazio una descrizione così accurata di un oggetto che permette di sostituire l’ascolto alla lettura. Un libro magico, che non ha pagine o parole e per leggere il quale non servono gli occhi ma le orecchie.
avranno un incredibile successo senza che questo costituisca in alcun modo un fattore di concorrenza con il libro stampato o l’e-book, anzi proponendosi come completamento a essi. Forse questo è dovuto al fatto che la voce umana è un’espressione corporea e dall’aspetto corporeo è inscindibile, produce un effetto diretto sull’ascoltatore, evoca emozioni e associazioni, punta all’intimità. La voce è un «organo di contatto socioemotivo»; secondo l’antropologo Robin Dunbar la sua prima funzione, infatti, non sarebbe permettere lo scambio di informazioni ma di «carezze». Le prime esperienze letterarie dei bambini avvengono con la lettura o il racconto delle fiabe da parte dei genitori e sono proprio queste esperienze che accompagneranno il loro futuro di lettori. Non è certo un caso che, con l’avvento degli audiolibri, il passaggio dal testo scritto al testo letto, interpretato, sia stato recepito anche dal pubblico degli adulti come un valore aggiunto all’opera: basti pensare al successo della Divina Commedia letta da Benigni. Nel brano di Cyrano de Bergerac l’ascolto si sostituisce alla lettura, a quel percorso che normalmente è legato al filo dei nostri pensieri e avviene invece nel silenzio. In un certo senso si sostituisce al nostro personale contributo sonoro che completa la ricezione del testo scritto e che avviene nella mente. Di questa sonorità rimane traccia nel nostro modo di rendere la musicalità poetica dei testi letterari, nel ruolo di “coautori” che l’atto stesso della lettura ci attribuisce. Di questa dimensione, che è il senso ultimo e primario della lettura, non resta traccia se non in noi stessi, nella nostra capacità di richiamare alla memoria un testo. A differenza della partitura musicale, infatti, o di determinati tipi di scrittura, appositamente pensati per la lettura ad alta voce, i testi scritti (in particolare i testi letterari) non contengono informazioni che riguardino la loro resa vocale. Quello che l’audiolibro propone all’ascoltatore è una lettura nei due significati che questa parola possiede: l’atto del leggere e la sua interpretazione. Rispetto al testo scritto si muove su due livelli in modo analogo a quanto accade anche nel caso della traduzione. L’audiolibro è in un certo senso il risultato del corpo a corpo fra il testo e colui che lo interpreta, la traduzione fra il testo e colui che lo traspone in un’altra lingua: in entrambi i casi il passaggio obbligato è l’atto della lettura intesa come interpretazione. Il che non significa però che all’ascoltatore venga imposta un’interpretazione del testo, che in qualche modo la sua capacità interpretativa venga limitata o influenzata, al contrario, come dice Sigfried Lenz, a volte ascoltando un audiolibro ci si accorge di aver frainteso il testo scritto leggendolo e si può ancora aggiusta-
Accarezzare con la voce Tilla Schnickmann in un suo articolo dedicato agli audiolibri, oltre a segnalare questo sorprendente riferimento letterario, evidenzia come con l’invenzione della registrazione verso la fine del XIX secolo il passo da bibliofili ad audiofili diventi assai breve. In molti paesi europei a partire dalla metà del XX secolo gli audiolibri (in tutte le loro varianti mediatiche)
Maurice Prendergast, In biblioteca, 1902, collezione privata..
L’esperienza più importante «Credo che la lettura abbia arricchito in modo straordinario la mia vita mi ha fatto vivere avventure che non avrei mai immaginato di vivere nella realtà, mi ha fatto conoscere persone veramente straordinarie, mi ha fatto viaggiare nello spazio, nel tempo e la mia esperienza, dunque, ne è uscita straordinariamente arricchita e moltiplicata. Imparare a leggere è stata l’esperienza più importante della mia vita». Mario Vargas Llosa
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SAPERI re il tiro. Con gli audiolibri si inaugura una nuova stagione estetica della letteratura, veicolata dalla lettura competente di un lettore professionale (l’autore o un attore) l’interpretazione vocale apre nuovi orizzonti anche alla comprensione del testo. La presenza sonora di una cifra poetica è quanto viene valorizzato dalla lettura professionale dei testi letterari. Gli audiolibri propongono all’ascoltatore un’esperienza diversa dalla lettura silenziosa a cui è abituato. A leggere il testo letterario è infatti un attore capace di valorizzarne i tratti o in certi casi è l’autore stesso mettendo a disposizione del pubblico la sua voce e la sua particolare inflessione che diventano un punto di riferimento evocativo per il pubblico quanto lo è la sua immagine, e continueranno a esserlo nel tempo anche dal punto di vista storico letterario. Il pubblico potrà non solo leggere e rileggere ma anche ascoltare e riascoltare il testo, affiancando in questo modo due esperienze estetiche abbastanza diverse da non essere sovrapponibili. La capacità di creare ascolto e catalizzare l’attenzione legate alla lettura ad alta voce di un attore è un aspetto molto importante degli audiolibri, soprattutto per il pubblico più giovane. Ed è proprio questa caratteristica che ha determinato il grande successo (anche commerciale) di questi prodotti editoriali in diverse aree linguistiche, nei Paesi di lingua inglese, tedesca, francese, spagnola, ultima l’editoria italiana.
formativa del testo dando risalto con la voce a determinati elementi e stabilendo un preciso ordine di priorità. Una funzione di strutturazione, cioè definizione e organizzazione delle unità di senso del testo. Una funzione emozionale: rende con l’intonazione e il cambio di qualità della voce di determinate situazioni emotive (agitazione, rabbia, noia). E infine una funzione estetica legata all’organizzazione drammaturgica del testo (creazione della suspense) ed eventualmente all’arrangiamento musicale e sonoro. La dimensione dell’ascolto di un audiolibro ha evidenti analogie con una delle prime esperienze letterarie del bambino: l’ascolto delle storie lette o raccontate dai genitori. Come evidenzia Lynn Cameron, i bambini apprendono la maggior parte del lessico attraverso l’interazione sociale con gli adulti. L’apprendimento incidentale svolge un ruolo determinante nell’acquisizione della lingua madre. Leggere o raccontare storie in classe è una strategia vicina a questo tipo di apprendimento: offre l’occasione per imparare il lessico indirettamente o incidentalmente, mentre si sta facendo qualcos’altro. Fin dalla più tenera infanzia l’atmosfera del racconto è una delle preferite dai bambini, l’immedesimazione è immediata e consente di azzerare il filtro affettivo potenziando al massimo la ricezione dei contenuti. Durante la lettura delle storie le parole vengono presentate all’interno di un discorso, nel contesto tutte le informazioni grammaticali e le collocazioni sono già presenti. La trama della storia permette poi l’organizzazione tematica che è utile alla comprensione e alla memorizzazione. Quando si raccontano storie ai bambini l’apprendimento può essere influenzato da diversi fattori, primo fra tutti il numero di occorrenze della parola nuova nella storia e il numero di illustrazioni della parola, le spiegazioni fornite dall’insegnante possono migliorare il risultato. Storie diverse producono risultati diversi, l’efficacia dipende molto dal coinvolgimento dei bambini. Il coinvolgimento gioca un ruolo determinante per il processo di apprendimento. Com’è noto, imparare le parole è un’operazione complessa e che richiede molto tempo, in certi casi l’effetto della storia è legato alla presenza di parole precedentemente introdotte, alle conoscenze pregresse che la storia riattiva. La scelta della storia inoltre deve essere fatta a partire dal livello linguistico degli allievi e dai loro interessi, se le parole nuove sono troppe essi non saranno in grado di seguire. La proporzione ideale secondo Nation (1990) dovrebbe essere di una parola nuova ogni 15-50 parole. Molto utili a questo scopo sono gli indici di leggibilità, che permettono di valutare
L’audiolibro nell’attività scolastica Per le loro caratteristiche gli audiolibri possono essere strumenti molto utili anche per la didattica scolastica. Un brano di letteratura ben letto è il modo migliore per avvicinare alla lettura i ragazzi. L’ascolto di un testo reso dalla voce di un attore o dell’autore migliora la sensibilità alla sonorità del testo e questo è alla base della scrittura letteraria a creativa. Nel corso della formazione scolastica spesso si perde l’occasione di evidenziare questo aspetto della scrittura poetica. L’introduzione di materiale autentico come gli audiolibri nella didattica scolastica ha l’indubbio vantaggio di migliorare la sensibilità nei confronti della lingua letteraria in fase ricettiva e ha risvolti positivi anche in fase produttiva. Il discorso non vale solo per i testi letterari italiani ma può essere esteso a tutte le altre lingue. Uno degli aspetti più interessanti della lettura ad alta voce di un testo è che la resa prosodica può favorirne una migliore comprensione. La lettura ad alta voce ha, secondo Schnickmann, diverse funzioni utili all’insegnamento. Una funzione comunicativa: permette infatti di distinguere meglio la modalità della frase (interrogativa, affermativa, ecc.), di marcare la struttura in25
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SAPERI | Ad alta voce: l’audiolibro a lezione la difficoltà di un testo scritto, quanto sia facile da comprendere e rapido da leggere. In rete sono disponibili diversi siti che permettono di calcolare l’indice di leggibilità di un testo scritto nelle diverse lingue (vedi sitografia in fondo all’articolo).
di varia natura, come fumetti, grafic novel, riduzioni filmiche del testo e documentari sull’autore. Gli insegnanti di lingue straniere non hanno che l’imbarazzo della scelta, il catalogo degli audiolibri rispecchia ormai perfettamente la proposta editoriale del cartaceo. Il panorama italiano sembra ormai adeguarsi al contesto europeo e promette bene.
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La voce rispetta la musicalità di un testo In modo analogo, la selezione degli audiolibri da utilizzare per la didattica delle lingue straniere andrebbe innanzitutto orientata verso un repertorio di testi originali, non adattati. Nell’adattamento ciò che va perso è proprio il valore aggiunto della scrittura poetica; la magia dell’esperienza estetica esaltata nella lettura originale dell’autore del testo o di un attore è proprio ciò che catalizza l’attenzione del lettore. Nell’adattamento resta solo la trama, il contenuto della storia: appunto ciò che non ha senso leggere ad alta voce e può invece rimanere come semplice traccia scritta per consolidare le competenze acquisite. L’efficacia dell’introduzione degli audiolibri per la didattica delle lingue è quindi legata ad aspetti diversi: la loro capacità di coinvolgere l’ascoltatore facendo leva sulla musicalità, sulla sonorità del testo letterario e dunque sull’esperienza estetica; il fatto che la lettura del testo sia realizzata da un madrelingua che legge non solo correttamente, ma anche spontaneamente, propone un modello di pronuncia e inflessione utile sia a migliorare la ricezione e comprensione del testo, sia l’apprendimento della pronuncia corretta; infine la possibilità di affiancare all’audiolibro il testo scritto, permettendo la riflessione sulle caratteristiche ortografiche e flessive proprie della lingua straniera. Dunque nella didattica delle lingue accanto ai testi scritti e a quelli iconici non andrebbe trascurata la possibilità di far ricorso ai testi orali, letti da professionisti che favoriscono lo sviluppo delle diverse abilità e facilitano l’introduzione di elementi interculturali. Il termine audiolibro (al pari di quello di libro) è un concetto molto ampio che comprende una grande varietà di generi: si va dalla letteratura ai radiodrammi, dalla saggistica alle trasmissioni radiofoniche. Come accade in generale ogni volta che si ricorre all’impiego di materiale autentico nella didattica delle lingue, anche in questo caso la prima vera difficoltà consiste nella ricerca del testo da proporre ai discenti. Esso non andrà selezionato semplicemente a partire dalle loro abilità linguistiche e comunicative, ma sarà invece essenziale tenere conto dei loro interessi, delle loro inclinazioni e dell’attualità del testo scelto: occorrerà puntare innanzitutto sul loro coinvolgimento. Magari affiancando all’audiolibro materiali autentici La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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▶ Silvia Verdiani è autrice di opere di consultazione
e materiale didattico. Per Loescher ha pubblicato Tedesco Junior – Dizionario di apprendimento della lingua tedesca. Collabora con le Università di Torino e di Potsdam. Indici di leggibilità Gli indici di leggibilità permettono di valutare la difficoltà di un testo scritto, quanto sia facile da comprendere e rapido da leggere. In rete sono disponibili diversi siti che permettono di calcolare questo indice per testi nelle diverse lingue. Inglese: www.online-utility.org. Francese: www.technolangue.net. Spagnolo: www.sepln.org. Tedesco: www.psychometrica.de; www.leichtlesbar.ch: www.it-agile.de. Italiano: www.eulogos.net; www.corpora.unito.it; www.labs.translated.net.
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APPROFONDIRE
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L. Cameron, Teaching Languages to Young Learners, Cambridge University Press, Cambridge, 2011. S. Cyrano de Bergerac, L’altro mondo ovvero gli stati e gli imperi della Luna, tr. C. Gaza, Edizioni Il Leone Verde, Torino, 1999.
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R. Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi, Milano, 1998. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma, 2003. W. Iser, L’atto della lettura, Il Mulino, Bologna, 1987. S. Lenz, Sprich, damit ich dich sehe. Das Hörbuch als Fenster zur Welt, in “Die Blindenselbsthilfe”, n.12, Bonn, 1983.
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P. Nation, Teaching and Learning Vocabulary, Heinle and Heinle, New York, 1990. P. Nation, Learning Vocabulary in another Language, Cambridge University Press, Cambridge, 2001. T. Schnickmann, Vom Sprach – zum Sprechkunstwerk, in U. Rautenberg (Hrg. von), Das Hörbuch – Stimme und Inszenierung, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden, 2007 (atti del convegno sugli audiolibri, Monaco, Baviera, 2006).
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Leggere il latino, non decifrarlo Oltre la tecnica del ditino: spunti di riflessione psicolinguistica sulla lettura comprendente nella didattica del latino e delle lingue classiche.
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econdo il racconto del Fedro di Platone, il dio Teuth, inventore delle lettere, disse al faraone che la conoscenza della scrittura avrebbe reso gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, poiché la scrittura era stata inventata come medicina per la memoria e veicolo per la sapienza. Ma la risposta del faraone smentì il dio: l’arte della scrittura avrebbe creato nelle anime la dimenticanza poiché chi apprende quest’arte vi fa affidamento traendo i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi. L’arte della scrittura (e della lettura) è dunque una medicina non per la memoria, ma per richiamare alla memoria, e procura ai discepoli una parvenza di sapienza, non la vera sapienza. Il mito di Platone, al di là dell’esegesi degli specialisti, mette in luce una verità: l’uomo non è nato per leggere, poiché è stato proprio lui ad aver inventato la lettura solo qualche millennio fa e, grazie a questa invenzione, ha ristrutturato – in un certo senso – la propria mente, espandendo la capacità di pensare e, perciò, di alterare l’evoluzione dell’intelligenza della specie umana (Wolf 2007).
relativamente chiaro nei suoi aspetti fondamentali. In anni recenti con l’affermarsi di un nuovo campo di indagine, la Second Language Acquisition (SLA), che – nata negli anni Settanta dalla linguistica applicata – si occupa delle modalità con cui la mente umana apprende una lingua straniera o seconda (L2), l’attenzione dei ricercatori si è spostata anche sulla lettura in L2 secondo molteplici prospettive di cui William Grabe (2009) offre un’accurata sintesi. Nell’ambito degli studi di SLA, Stephen D. Krashen (2003), che negli ultimi vent’anni ha pubblicato importanti contributi sulla glottodidattica, sulla linguistica applicata e sul bilinguismo, ha proposto la teoria, prima denominata «modello del monitor», poi «ipotesi dell’input», infine «ipotesi della comprensione». Secondo questa teoria, la lettura è un’ottima fonte di input comprensibile e può contribuire in modo significativo alla competenza in L2, in tutte e quattro le abilità: chi legge di più legge meglio, scrive meglio, migliora in ortografia e arricchisce il proprio bagaglio lessicale. Krashen sottolinea in particolare che, se la lettura è piacevole in quanto il testo letto risulta interessante per l’apprendente, il miglioramento diventa più visibile: questo fenomeno viene chiamato free voluntary reading e si accorda con quella che Krashen ha definito «l’ipotesi del piacere», dimostrando come il “filtro affettivo” svolge un ruolo importante per l’acquisizione della lingua durante la lettura in L1 o L2. Krashen spesso si riferisce alle tesi di Frank Smith, psicolinguista americano che fin dagli anni Settanta si è dedicato allo studio della understanding reading o “lettura comprendente” (dal titolo del suo saggio fondamentale, 2004). In estrema sintesi, contrariamente a quanto diceva Platone, Smith ribadisce che la lettura è un processo, un’abilità del tutto naturale: comprendere e imparare sono fondamentalmente la stessa cosa, cioè mettere in relazione il nuovo con il già noto. La predizione è il cuore della lettura: tutti gli “schemi” mentali che costituiscono la nostra conoscenza del background di luoghi e situazioni, di discorsi scritti, di generi e di storie ci mettono in grado di fare predizioni quando leggiamo e, in questo modo, ci permettono di capire, sperimentare e trarre piacere da ciò che leggiamo. In
Leggere è un’abilità da indagare La lettura è qualcosa che molti danno per scontato, in quanto l’uomo di oggi, immerso in un mondo dominato dall’immagine, è circondato dalla parola scritta su qualunque supporto: giornali, riviste, libri, pubblicità, sms, internet, tablet offrono quotidiane occasioni per leggere, facendo della lettura un fenomeno variegato in base a fattori esterni e contingenti. Gli studiosi, a partire da un celebre articolo di Kenneth S. Goodman (1967) sulla «lettura come gioco psicolinguistico», hanno affrontato la complessità della lettura nella lingua madre dell’individuo (L1) con approcci e intenti diversi per metterne in luce le molteplici finalità e le tante proprietà, ma nel corso degli ultimi venticinque anni hanno anche indagato le sue componenti in termini di abilità, competenze e conoscenze di base per dare un quadro del “funzionamento” della lettura sostanzialmente unitario e
▶Marco Ricucci 27
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SAPERI | Leggere il latino, non decifrarlo questa prospettiva siamo in grado di generare un’esperienza comprensibile da pagine stampate inerti e prive di vita. La comprensione è dunque assenza di confusione: la predizione comporta semplicemente che l’incertezza nel lettore sia limitata a poche alternative probabili, in quanto l’informazione può essere trovata nella struttura di superficie della frase per “aggiustare” il dubbio rimanente. Quando la predizione dell’alternativa è appropriata al contesto ricco di significato (meaningful), allora avviene la comprensione. Quando leggiamo un testo, empiricamente, diciamo di “seguire” il testo. Ma cosa significa esattamente seguire il testo? Significa che, quando leggiamo, facciamo predizioni, eliminando l’incertezza delle alternative probabili: sostanzialmente ciò che tentiamo di predire è il significato (meaning), sebbene ci possano essere alcune parole o frasi che confermino o meno la nostra interpretazione. Cerchiamo dunque il senso generale, mentre la nostra mente è impegnata a fare un certo numero di predizioni dettagliate e, nel contempo, verifiche di queste. Le predizioni hanno una piattaforma comune a livello operativo: le nostre aspettative più generali sugli specifici punti in cui il testo ci vuole condurre nel suo insieme. Secondo Smith (2004, 60-61), «we comprehend when we can “make sense of experience”. Comprehension in reading is “making sense of text”, relating written language to what we know already and to what we want to know or experience».
dine della frase della propria lingua madre, e tradurre parola per parola per arrivare alla comprensione della frase latina o greca attraverso la lingua nativa. Reading Latin as Latin significa, in sostanza, leggere comprendendo, carpendo il senso generale, senza dover passare attraverso la traduzione nella propria lingua nativa. Secondo Cracas (1999, 8), leggere significa capire le parole nell’ordine in cui esse si trovano nella frase latina: questo significa che portabant non deve essere interpretato come il prodotto analizzato in: -nt, che indica “essi”, -ba che indica l’imperfetto cioè un’azione durativa (“stavano” in italiano), e porta-, la cui radice è quella del verbo “portare”. Il che produce la traduzione dell’equivalente “stavano portando” o, più comunemente, “portavano”. Cracas chiama questa maniera di procedere «transverbalizzazione». Nell’ottica del Reading Latin as Latin, si comprende senza la mediazione della traduzione che implica la trasposizione della L2 nelle forme della L1. Se il discente segue tali procedimenti, non sta leggendo, bensì decifrando o, nella vulgata, si sta servendo della traduzione come un mezzo e non come un fine. Durante la lettura le informazioni hanno un ruolo importante nei vari processi attivati nella mente: gli studi hanno messo in luce le caratteristiche multiformi della complessità del concetto di contesto i cui effetti durante la lettura in L2 sono fondamentali (Grabe 2009, 70-71). Leggere in latino senza decodificare In accordo con l’Ipotesi della Lettura di Krashen, la lettura comprendente ha un ruolo fondamentale per l’apprendimento linguistico, agevolato anche dalla conoscenza diretta del contesto organizzata in “schemi” mentali: se si comprende ciò che si legge mentre si legge con piacevolezza, si apprende in modo “naturale”. Il fatto che lo studente comprenda il testo greco o latino senza dover fare la costruzione (o metaphrasing) fa sì che il focus rimanga sul meaning (il contenuto) e non sulla form (la struttura o la regola grammaticale). L’obiettivo è leggere e comprendere il messaggio e attivare, a livello cognitivo, tutte quei fattori che possono agevolare la comprensione, sostenuta dall’aiuto del contesto, così come specificato da Grabe. Per esempio, nel metodo induttivo-contestuale, su cui è basato il manuale di Hans Ørberg Lingua latina per se illustrata che intercetta le teorie dell’apprendimento di Krashen (Ricucci 2012), lo studente, leggendo con piacere, capisce un testo che è, come abbiamo visto, almeno a livello didattico-pedagogico un input comprensibile e nel contempo un input “ar-
La lettura nella didattica delle lingue classiche Il metodo della lettura, nato e sviluppato tra fine Ottocento e inizio Novecento nel mondo anglosassone, ha suscitato un interessante dibattito sul significato della “lettura” della frase latina, nota con la formula di Reading Latin as Latin, che rientra in modo predominante negli interessi pedagogici del mondo anglofono, come dimostrano i contributi elaborati nel corso di un secolo (Hale 1887; Cracas 1970; Hoyos 1993,1997; Hansen 1999) e i recenti tentativi di applicazioni didattiche alle lingue classiche alla luce della ricerca specialistica sulla lettura (Truini 2002; Ross-Markus 2004; McCaffrey 2006; Van Houdt 2008; Harrison 2010). In questi studi viene discussa la questione del fine ultimo dell’apprendimento della lingua latina, cioè quello di leggere il latino e di comprenderlo senza dover fare ciò che gli inglesi chiamano metaphrasing, cioè senza “la tecnica del ditino” (come è stata ironicamente ribattezzata), ovvero senza scomporre l’ordine delle parole della frase latina (o greca) per ricomporlo, facendo l’analisi logica (parsing) nell’orLa ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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SAPERI APPROFONDIRE
ricchito”: secondo la prospettiva psicolinguistica di Smith, ciò fa sì che lo studente incominci a operare predizioni, cioè a utilizzare ogni genere di informazioni, dal contesto noto e dagli elementi linguistici ed extralinguistici, paratestuali e cotestuali disponibili nella pagina del corso, per ridurre l’incertezza delle alternative che possono rendere il significato ambiguo oppure oscuro. In questo modo lo studente, che è nel contempo lettore e apprendente, porta senso al testo nella misura in cui, in modo biunivoco, anche il testo “concede”, come input comprensibile e input “arricchito”, senso al lettore che è anche apprendente. Secondo Smith (2004, 172), «we learn when we understand: learning is a by-product of understanding. In effect, children learn about language the way archeologists decipher ancient texts. By bringing sense to them. It’s all natural». Il giovane discente delle lingue classiche, dunque, non è un archeologo che decifra delle stele di Rosetta, secondo l’efficace immagine di Smith, bensì colui che comprendendo impara e, secondo l’Ipotesi della Lettura di Krashen, acquisisce una L2.
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U. Cardinale, Oniga R. (a cura di), Lingue antiche e moderne dai licei all’università, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 199-216.
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T.L. Cracas, What is “reading Latins as Latin”?, “The Classical World” 64, 1970, pp. 81-86 (acquistabile in rete sul database JSTOR.org).
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K. Goodman, Reading: A Psycholinguistic Guessing Game, “Journal of the Reading Specialist” 6, 1967, pp. 126-135.
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W. Grabe W., Reading in a Second Language: Moving from Theory to Practice, New York, 2009. W.G. Hale, The Art of Reading Latin: How to Teach It, Boston, 1887 (consultabile sul sito: perseus.tufts.edu). W.S. Hansen, Teaching Latin Word Order for Reading Competence, “The Classical Journal” 95, 1999, pp. 173ss. R.R. Harrison, Exercises for Developing Prediction Skills in Reading Latin Sentences, “Teaching Classical Languages Fall”, 2010, pp. 1-30 (consultabile sul sito della Teaching Classical Languages: tcl.camws.org).
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B.D. Hoyos, Decoding or Sight-Reading? Problems with Understanding Latin, “Classical Outlook” 70, 1993, pp. 126-130.
▶ Marco Ricucci è laureato in Lettere antiche presso
l’Università di Milano e dottorando in Didattica delle lingue classiche presso l’Università di Udine.
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B.D. Hoyos, Latin: How to Read it Fluently, Amherst (MA), 1997. S.D. Krashen, Explorations in Language Acquisition and Use: The Taipei lectures, Portsmouth, 2003. K.S. Morrell, Language Acquisition and Teaching Ancient Greek. Applying recent theories and technology, in J. Gruber-Miller (a cura di ) When dead tongues speak. Teaching beginning Greek and Latin, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 134-157.
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M. Ricucci, L’apprendimento delle lingue classiche alla luce delle teorie di Stephen D. Krashen, in P.D. Ross, D. Markus, Reading Proficiency in Latin Through Expectations and Visualization, “The Classical World” 98, 2004, pp. 79-93.
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N. Segalowitz, Automacity and Second Languages, in C. Doughty, M. Long (a cura di), The Handbook of Second Language Acquisition, New York, 2003, pp. 302-408.
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F. Smith, Understanding Reading: A Psycholinguistic Analysis of Reading and Learning to Read, New York, 2004. M.V. Truini, La didattica della lettura nell’approccio ai testi latini, “Docere” 4, 2002, pp. 5-21. T. Van Houdt, The Strategic Reading of Latin (and Greek) texts: A Research-based Approach, in B. Lister (a cura di) Meeting the Challenge. International perspectives on the teaching of Latin, Cambridge, Cambridge University Publishing, 2008, pp. 54-70.
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M. Wolf, Proust and the Squid: The Story and Science of the Reading Brain, New York, 2007.
Ferdinand Hodler, Il lettore, 1885, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid. 29
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William Kentridge, I am not me, the horse is not mine, performance, 2011.
Come leggere un’opera d’arte
Le neuroscienze offrono un contributo imprescindibile per capire i processi con cui apprezziamo le opere d’arte, sia visive che letterarie. Infatti, come diceva Oscar Wilde, «è dentro il cervello che il papavero è rosso, la mela odora e l’allodola canta».
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a neuroscienziati che studiano il funzionamento del sistema nervoso umano, con la grande pretesa di comprendere l’individuo contemporaneo, abbiamo cominciato molti anni fa a interessarci all’arte, a cercare nell’arte delle risposte alla complessità crescente delle nostre domande e a cercare nell’arte nuove domande. I nostri esperimenti sulla fisiologia della percezione visiva sono sempre stati, e sempre saranno, condizionati dalle risorse tecnologiche, dai metodi di analisi statistica, dal linguaggio con cui vengono descritti, non meno che dal modo in cui i soggetti, usati come
cavie da laboratorio, rispondono ai quesiti posti dal paradigma sperimentale. A questi soggetti, siano essi sani o pazienti, viene spesso chiesto di raccontare cosa vedono durante l’esperimento, o di sintetizzare le loro complesse sensazioni nella scelta di premere un bottone piuttosto che un altro, con la costrizione a trasformare percezioni ed emozioni in semplici risposte verbali o motorie. Proviamo ora, per un attimo, a dare per scontato che la visione non sia solo una semplice analisi di stimoli esterni che colpiscono l’occhio e arrivano al cervello, ma sia anche un processo guidato da un umano istinto di ricerca di nuove conoscenze sempre condizionato dallo stato emotivo interno della persona. Come possiamo, allora, pensare di ridurre tutti
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SAPERI questi complicati aspetti della visione umana a una risposta semplice, che ha senso solo per lo scienziato che cerca una spiegazione a un fenomeno la cui risposta è già condizionata dal suo modo di formulare la domanda? Ecco che a svelare i misteri di questo processo viene in aiuto l’artista: l’opera d’arte e il processo creativo diventano il racconto esplicito e diretto di quell’esperienza visiva.
cervello utilizza meccanismi, alcuni ereditati e altri acquisiti, che gli permettono di organizzare le esperienze e di renderle il più indipendenti possibile dai cambiamenti esterni. Tali meccanismi sono stati svelati, ad esempio, nel caso della percezione del colore, dove lo stimolo cromatico viene percepito come una proprietà stabile di un oggetto indipendentemente dalle variazioni di illuminazione. Questa ricerca di stabilità si manifesta non soltanto nell’attribuire un significato ai segnali che ci raggiungono dal mondo circostante, ma anche nella costruzione, percezione ed espressione del proprio corpo e delle proprie emozioni, in ultima istanza della propria identità.
Quattro zampe e una testa? È un cavallo! Ogni esperienza che facciamo è il risultato di complessissime elaborazioni da parte del nostro sistema nervoso. Tutto ciò che ci circonda non è stabile ma in costante mutamento e soggetto a evoluzioni a volte imprevedibili. Il cambiamento continuo che trascina il mondo circostante e noi stessi ha modellato il nostro sistema nervoso in modo tale che esso riesce a estrarre, con il tramite dell’arte, una sorta di stabilità da ciò che stabile non è. La stabilità che, come unica consolazione, ci salva dall’ineluttabilità del nostro destino. Questo destino, unito alla nostra natura estremamente sociale, ci spinge, in ogni istante, verso quella che potremmo chiamare un’ossessione: la smania di comunicare e di estrarre un significato da tutto ciò che ci circonda. È un vano tentativo di opporsi all’entropia, di ricomporre ogni dettaglio in una scena coerente con l’intento di forzare il caos in una sorta di ordine e armonia semantica. L’artista sudafricano William Kentridge, in una memorabile performance intitolata I am not me, the horse is not mine, ci ricorda le nostre abitudini, sottolinea la nostra attitudine a completare le frasi altrui. «Abbiamo intorno tonnellate di pezzetti di carta che rappresentano forme, ma di quante di queste forme abbiamo bisogno per estrarre un significato da ciò che vediamo. Continuiamo a predire ciò che verrà detto prima di sentirlo, vediamo figure a cui forzatamente attribuiamo un senso. La brama di significato ci porta ad attaccarci ad ogni parola, ci aggrappiamo al significato anche quando questo si disintegra; tutto ciò avviene con il linguaggio, con le immagini, con le idee e perfino con gli ideali. Anche quando l’utopia muore, afferriamo il suo scheletro sperando di resuscitarla con la nostra volontà. E così, anche se la forma del cavallo è ridotta all’ossatura del cavallo di legno, fosse anche solo una linea nera su un foglio, noi restiamo aggrappati all’idea del cavallo che era stato». Il nostro cervello, per permetterci di sopravvivere in un mondo che cambia incessantemente, è alla ricerca perenne di proprietà costanti. Per acquisire conoscenze, a dispetto di questi continui mutamenti, il
Senza l’arte, forse, non ci sarebbero significati L’arte rappresenta il tentativo estremo di dar forma alle nostre esperienze emotive e sensoriali, l’arte è la ricompensa per la nostra incapacità di raggiungere la perfezione, l’arte esorcizza la paura ed è il più complesso e sofisticato prodotto del nostro cervello. Per questo, forse, è così potente; nelle opere d’arte riconosciamo empaticamente proprio le cose che più ci sfuggono, che sono così difficili da verbalizzare: illusioni, turbamenti, chimere, sentimenti, terrori. Mettersi di fronte a un’opera d’arte diventa forse un modo per dialogare con se stessi. Come diceva Kazimir Malevich commetando la sua opera Black Circle del 1913 [un semplice cerchio nero inscritto in un quadrato bianco]: «L’arte evoca un’esperienza trascendentale». La cultura in generale e l’arte visiva, la poesia, la musica in particolare contribuiscono a ricostruire il nostro senso di identità, non solo psicologico e individuale, ma anche nazionale e sociale. Come scrive il poeta Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, in Dall’esilio (Adelphi, Milano, 1988), «quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero, anche se non necessariamente più felice, sarà lui stesso».
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▶ Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, lavora dal 1997 presso il Department of Anatomy and Developmental Biology (University College London) con Semir Zeki, pioniere nello studio della funzione visiva del cervello. Ha condotto ricerche nell’ambito della neuroestetica, studiando la relazione tra percezione visiva e rappresentazione artistica. Ha pubblicato con Semir Zeki La bella e la bestia. Arte e neuroscienze (Laterza, 2011) e con Marta Dell’Angelo C’è da perderci la testa. Scoprire il cervello giocando con l’arte (Laterza, 2009). 31
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Leggendo s’impara a scrivere La celebre scrittrice spagnola Alicia Giménez-Bartlett ricorda gli anni di insegnamento al liceo e svela il segreto della sua professione: star soli.
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Vincent Van Gogh, Vecchio che legge, 1882, Van Gogh Museum, Amsterdam.
a scrittrice spagnola, che ha conquistato il pubblico inizialmente con in romanzi Riti di morte e Giorno da cani ed è stata molto apprezzata in seguito come giallista grazie al personaggio dell’ispettrice di Barcellona Petra Delicado, si racconta. Insegnante di francese e di letteratura spagnola prima, scrittrice a tempo pieno dopo. Le sue esperienze a scuola con gli studenti nel rapporto con la lettura dei classici; i suoi gusti letterari; le fonti di ispirazione e l’attività di scrittura; un consiglio per chi vuole intraprendere questo lavoro, in realtà duro e solitario. D: Buongiorno. Potrebbe gentilmente presentarsi? R: Mi chiamo Alicia Giménez-Bartlett e faccio la scrittrice. D: Da quando scrive? R: Direi da sempre perché ho la vocazione da quando ero molto piccola. Stavo sempre, sempre, a scrivere qualcosa. Saranno circa 15 anni che lo faccio di professione, che mi dedico esclusivamente alla scrittura. D: Quindi avrà fatto studi legati alla letteratura o alla storia, studi di lettere. R: Ho studiato filologia francese e successivamente ho preso il dottorato in letteratura spagnola, all’università. Con una tesi su Gonzalo Torrente Ballester. D: Riesce a conciliare la scrittura e l’insegnamento? R: No, non più. Per i primi dieci anni della mia carriera ci riuscivo o perlomeno ci provavo: al mattino insegnavo e nel tardo pomeriggio, dalle quattro alle otto, scrivevo. Ma a un certo punto non è stato più possibile. Avevo sempre più impegni, la letteratura mi prendeva sempre più tempo. E così ho deciso di lasciare l’insegnamento. D: Dove insegnava? R: Alle superiori. I miei studenti avevano dai 14 ai 17 anni. D: Le piaceva? R: Sì, è stato un periodo molto piacevole. Ora, parlando con i miei ex-colleghi, mi dicono che le cose sono cambiate, che è più difficile trattare con gli studenti, che la disciplina si è allentata, non è più come
ai miei tempi, ma per me è stato un periodo molto piacevole, per niente duro. Mi serviva per stare a contatto con i giovani, per vedere che cosa pensavano, che cosa dicevano, e mi divertivo abbastanza. D: Cosa insegnava? R: Insegnavo francese. Però per un anno, un anno e mezzo, ho sostituito una professoressa che era incinta e aveva avuto un bambino, e mi è piaciuto molto insegnare letteratura spagnola in due corsi: in un corso insegnavo storia della letteratura, nell’altro studiava-
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SAPERI mo i libri, leggevamo alcuni classici spagnoli. Mi ero resa conto che molte volte gli studenti non avevano l’abitudine di leggere per se stessi. E così in classe (eravamo una classe ridotta, circa 15 studenti) passavo la parola a uno di loro, che leggeva 10 minuti, e quando ritenevo che dovesse fare qualche riflessione lo fermavo. Gli dicevo: “Fermati. Che cos’hai letto? Spiegami. Perché questo personaggio dice così? Perché descrive il paesaggio in questo punto?”. Credo che queste pause siano servite affinché gli studenti, quando leggevano da soli, capissero che ogni tanto era necessario fermarsi e farsi delle domande sul testo. D: E lei leggeva ad alta voce davanti a loro? R: Sì, iniziavo io e poi ogni studente leggeva un paragrafo e lo analizzava. D: Sia narrativa che poesia o saggistica? R: Sì, soprattutto narrativa, ma anche poesia, che per me era molto più difficile perché la poesia classica non è per niente semplice. Inoltre siamo in Catalogna e per molti studenti il catalano era la madrelingua. Quindi io facevo più fatica con la poesia. D: Come si racconta un libro? R: Raccontare un libro? Lo fanno molto bene gli studenti stessi, con parole loro. Se li raccontano a vicenda, se li consigliano: devi assolutamente leggerti questo libro! perché parla di questo, di quello… ci sono momenti importanti, questo personaggio mi piace... Secondo me, chiunque debba consigliare un libro a qualcun altro finisce inevitabilmente per raccontargli i veri punti di interesse di quel libro. D: Ricorda quali libri, soprattutto di autori spagnoli, si facevano leggere agli studenti in quel periodo? R: Sì, leggevamo El cantar de mío Cid, leggevamo la... oddio... La Celestina di Fernando de Rojas. Successivamente arrivavamo al romanticismo e leggevamo Don Álvaro o la fuerza del sino del Duque de Rivas, La Regenta di Clarín, le poesie di Antonio Machado e, più attuali, quelle di García Lorca. Molte volte leggevamo anche articoli di giornale con la critica delle opere che stavamo studiando. D: Perché secondo lei il Don Chisciotte è il libro più tradotto della storia, il secondo dopo la Bibbia? R: Credo che il Don Chisciotte sia un libro immortale perché tocca argomenti molto intimi dell’essere umano. Parla della filosofia della vita applicata a una storia apparentemente semplice. Questo obiettivo, a lungo perseguito da tanti autori, beh… Miguel de Cervantes lo ha raggiunto facilmente. Ha raccontato le possibilità che ha l’essere umano di imprimere un marchio alla propria vita (ottimista, pessimista, materialista, idealista) e di analizzare tutta la società narrando una storia divertente, una storia dove c’è
umorismo e movimento, dove c’è satira. D: Il Don Chisciotte in Spagna è un pilastro fondamentale. Si studia a scuola, così come in Italia si studia la Divina Commedia di Dante. A parte questi due libri, secondo lei quale altra opera fondamentale si dovrebbe studiare a scuola? R: Intende di autori spagnoli? D: Sì. R: Credo sarebbe importantissimo che La Regenta, un libro paragonabile a Anna Karenina e a Madame Bovary, lo leggessero studenti più giovani. Credo che lo capirebbero perfettamente. Ed è un libro con una profondità intellettuale enorme. D: E di autori contemporanei? R: Autori contemporanei? Attualmente siamo tanti in Spagna, direi che è un buon momento per la letteratura. Quindi l’ideale sarebbe che l’insegnante conoscesse i maggiori interessi dei propri studenti e consigliasse a ognuno di loro delle letture mirate. C’è chi fa molta fatica a leggere e forse bisognerebbe consigliargli un romanzo d’avventura o un noir, c’è chi è molto passionale e preferirebbe un romanzo d’amore… Oggi c’è tutto un panorama di autori che possono soddisfare i gusti di una classe. D: Qual è il suo autore o il suo libro preferito? R: Fra quelli di tutto il mondo e di tutta una vita? Molti, molti. Mi piace tutta l’opera di Shakespeare. In letteratura moderna, i contemporanei americani, mi piace tutta quella piccola generazione di ebrei come Philip Roth, che ha appena ricevuto [ndr questa intervista risale a giugno 2012] il Premio Príncipe de Asturias, o Saul Bellow… ma mi rendo conto che ogni volta, invece di diventare più selettiva, amplio i miei gusti. Forse, proprio perché mi rendo conto di quanto sia difficile scrivere, punto gli occhi su più autori. D: C’è un libro che regala spesso? R: Ah no, no. Non lo faccio mai. Vedo a quale amico lo sto regalando, studio molto bene la sua personalità e i suoi gusti, e ne scelgo uno. Non mi baso su ciò che piace a me bensì su ciò che credo possa piacere a lui. D: Crede che noi spagnoli siamo grandi lettori? R: Vediamo... La protesta generale è che in Spagna si legge poco. Ma il numero di lettori è aumentato parecchio e soprattutto si è democratizzato. Prima leggeva un gruppo ristretto di spagnoli, che erano molto selettivi, molto intellettuali, e c’era una massa di gente che non leggeva mai. Attualmente le cose sono cambiate: si leggono best-seller, libri di avventura, noir, forse generi che prima non erano così considerati, ma c’è molta più gente che legge. Persino i giovani in certi momenti hanno considerato il libro come un bene di consumo in più. Sarebbe auspicabi33
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SAPERI | Leggendo si impara a scrivere le che leggessero di più? Sì. Il libro cambierà e diventerà uno schermo? Sì. Ma credo che la letteratura e la storia continueranno a interessare sempre. D: Secondo lei è un vantaggio? Intendo che la tecnologia si sia mescolata alla letteratura. R: Mah, non so. Ci sono vantaggi e svantaggi, ma non sono contraria. Credo che se la tecnologia facilita la vita, se entra in tutti gli ambiti della vita, perché non anche nella letteratura? Non possiamo pensare che sia una specie di zona invalicabile, solo
per pochi eletti. No, presumo che i giovanissimi o i bambini di oggi leggeranno forse esclusivamente o prevalentemente e-book. Ma è molto probabile che così si ottenga un maggior numero di lettori, che è la cosa più importante. D: Qual è il suo metodo di scrittura, se ne ha uno? R: Sono giunta a una sorta di conclusione e rispondo sempre così quando mi fanno questa domanda: credo che ci siano due tipi di scrittori. Gli scrittori di tipo “architettonico”, che costruiscono le proprie storie seguendo una specie di piano prestabilito. Sanno molto bene dove vogliono arrivare: fanno il piano della propria casa (ovvero il piano del proprio romanzo), presentano subito i personaggi, sanno che a un certo punto la storia prenderà una certa direzione, vanno avanti e sanno qual è il finale, la meta. Poi ci sono gli scrittori di tipo “scultorio”, più scultori che architetti. Prendono della materia, dell’argilla per esempio, e iniziano a darle forma con le mani. Non sanno esattamente cosa vogliono ottenere, ma se lo vanno configurando poco a poco, dando forma a quella materia che avevano per le mani e che rappresenta ciò che volevano raccontare. Io sono più scultoria che architettonica, modifico la mia storia iniziale. A volte faccio un passo indietro, taglio, aggiungo... sono più anarchica nello scrivere. D: In quanto scrittrice, quando cerca una storia o un personaggio, come procede? Scrive tutto il tempo? R: Credo sia impossibile cercare una storia, e che siano i personaggi a dover trovare te. Perché noi scrittori siamo limitati come qualsiasi altra persona, abbiamo un numero di argomenti da trattare, un numero di pensieri, un numero di esperienze, oltre cui è molto difficile andare. E così tutti gli argomenti e i pensieri che hai lavorano dentro di te finché non arriva il momento in cui saltano fuori. Quindi tu non cerchi, semplicemente lasci spazio affinché quello che hai dentro emerga ed esca. Mi chiede se scrivo tutto il tempo? Beh, no. Cerco accuratamente di non farlo. Quando finisco di scrivere chiudo la mente e dico: «Basta. Non pensare più al romanzo. Non pensare più ai personaggi. Domani, quando riprenderai il lavoro, saranno lì ad aspettarti». Tuttavia, poi ti rendi conto di guardare il mondo in modo un po’ selettivo dal punto di vista letterario: «Questo sarebbe un bell’argomento per un racconto!». Qualcuno dice una frase, per esempio il taxista che ti porta da un posto all’altro, e pensi: «Questa è una bella frase, la userò». Come in tutti i lavori, c’è sempre un po’ di deformazione professionale. D: Le è mai capitato di rimanere bloccata su un personaggio o su un’opera, un romanzo, e di doverlo lasciar riposare qualche giorno o qualche mese?
Auguste Toulmouche, Dolce far niente, 1877, collezione privata.
Leggere troppo, per non pensare «Quando leggiamo, vi è un altro che pensa per noi: noi ripetiamo soltanto il suo processo mentale... Questo spiega lo stato di sensibile sollievo che proviamo quando non ci occupiamo più dei nostri pensieri e passiamo alla lettura... Questa è la ragione perché colui che legge molto e negli intervalli si riposa passando il tempo senza pensare, a poco a poco perde la capacità di pensare, come chi va sempre a cavallo disimpara a camminare. È il caso di molti eruditi: a furia di leggere si sono instupiditi. Perché il leggere senza tregua paralizza lo spirito più del lavoro manuale, dato che durante il lavoro manuale vi è modo di abbandonarsi ai propri pensieri». Arthur Schopenhauer
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SAPERI R: Sì, mi è successo. Quando ero più giovane non mi succedeva mai perché, beh, hai più idee e una maggiore capacità di superare i problemi. Ora sì, ora a volte devo davvero fermarmi. Persino con l’ultimo romanzo, che è di Petra Delicado, c’è stato un momento in cui ho detto “No, no. Bisogna lasciarlo riposare. Bisogna lasciare che la storia prenda peso” e sono stata un mese senza toccarla, un po’ preoccupata perché vedevo che non mi venivano le idee. Dopo un mese ho ricominciato, sollevata nel vedere che potevo riprendere la storia. D: Consiglia ai giovani di fare gli scrittori? R: No. Chiunque conosca il proprio lavoro pensa che sia duro e poco riconosciuto. Perciò se un giovane mi dice: «Mi piacerebbe fare lo scrittore”, rispondo: «Bene, vai avanti. Ma sappi che è un lavoro ingrato, solitario». Quando insegnavo, stavo con i miei studenti, arrivavo alle nove di mattina, a volte ero triste o di malumore, come tutti, ma, a forza di sentire le stupidaggini e il vociare dei giovani, arrivava l’una del pomeriggio e io stessa dicevo stupidaggini e ridevo. La letteratura, la scrittura, è fondamentalmente solitudine. Sei sempre lì ad analizzare te stesso, a tirar fuori cose di te stesso. Non c’è nessuno che possa aiutarti. Per questo a volte mi piace partecipare a congressi di scrittori, perché all’improvviso senti qualcuno, un collega, che dice: «Ho questo problema», e pensi: «Oddio, ce l’ho anch’io, allora non sono pazza». Voglio dire che è un lavoro duro, in solitudine. Chi non ama la solitudine non può farlo. D: Nonostante tutto darebbe qualche consiglio a chi vuole farlo? R: Che legga, che legga molto. Che legga tutta la vita, perché leggendo s’impara sempre, sempre. S’impara persino dai libri brutti, che non ti piacciono per niente. E all’improvviso dici: «Beh, guarda, questo però lo ha fatto bene. Se l’è cavata bene con questa breve descrizione, è buona». Quindi leggere per me è fondamentale, più che studiare, più che conoscere autori. Avere sempre un libro per le mani. Leggendo s’impara a scrivere.
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▶ Alicia Giménez-Bartlett è originaria di Almansa e vive a Barcellona dal 1975. Autrice di diversi saggi e romanzi, ha vinto nel 1997 il premio Feminino Lumen come miglior scrittrice spagnola con il titolo Una stanza tutta per gli altri. Si è dedicata alla serie che ha per protagonista l’ispettrice Petra Delicado, ottenendo grande favore di pubblico. Nel 2011 ha vinto il premio Nadal con il romanzo Dove nessuno ti troverà. La lettura del cuore, arca di sant’Agostino, XIV secolo, Pavia. 35
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SAPERI
Perché scrivere narrativa scolastica
Forse perché subissati dalla fantasy televisiva, i ragazzi sembrano apprezzare letture su temi più impegnati e di grande attualità.
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uante volte ci siamo posti la domanda «Perché scriviamo?». Se guardiamo bene ai momenti in cui questo è accaduto, il quesito ha un carattere assai meno esistenziale di quanto potrebbe sembrare di primo acchito. Sì, perché in genere ce lo chiediamo al telefono, in orari nei quali la gente ben educata non si chiama, per lo più quando nel lavoro di stesura di un nuovo libro ci si trova di fronte a quello che in termini forbiti si definisce un nodo narrativo da sciogliere, ma in concreto è costituito da una pagina che fatica a riempirsi, o che non soddisfa uno di noi. Quindi la domanda viene formulata non nell’ambito di una speculazione filosofica, ma a fronte di qualche esigenza ben specifica, da risolvere in tempi rapidi, che per di più nel nostro immaginario assume il volto di un editore impaziente: e gli editori, si sa, (tranne alcune eccezioni che ci teniamo ben strette!) non sono facili al sorriso. Ci siamo dati due regole, che hanno per noi valore di Costituzione: «volare basso», cioè affrontare ogni impegno con umiltà costruttiva, e «non si può essere medici di sé stessi», cioè si può trovare la soluzione ai problemi personali aprendosi al prossimo. Di fronte alla nostra domanda, così concreta e drammatica, l’applicazione delle due regole ci fa subito rispondere che scriviamo per i ragazzi. Di certo non scriviamo per danaro, perché scrivendo narrativa scolastica non si diventa ricchi. E quanto allo scrivere in sé, siamo sicuri che lo faremmo comunque, anche a costo di ricopiare a mano gli elenchi telefonici, perché è una di quelle malattie congenite che quando si manifestano non te ne liberi mai più.
loro età, cioè con un approccio estetico, provando la sensazione di essere circondati di mondi nuovi, che si schiudono al contatto dei sensi, della mente, dell’immaginazione. Essere autori per ragazzi significa prenderli per mano e scambiare la nostra esperienza con la loro curiosità. E qui è necessario soffermarsi un attimo su questa parola: esperienza. I nostri libri parlano per lo più di esperienze concrete, di attualità. Anche se le vicende narrate e i personaggi sono di fantasia, ogni riferimento a situazioni e persone reali è assolutamente voluto! Noi abbiamo la massima stima per la narrativa “di fantasia”, che ci piace e nella quale a volte ci cimentiamo. Ma oggi a nostro avviso i ragazzi sono alluvionati di storie “fantastiche”, in libreria, come in televisione, così nei nuovi mezzi di comunicazione. A noi, questo rivolgersi ai ragazzi utilizzando quasi esclusivamente il registro del fantastico sembra tutto sommato un po’ manipolatorio. Il fatto è che la fantasia è qualcosa che appartiene a loro, non a noi adulti: scrivere libri di fantasia per ragazzi alla fine è come vendere ghiaccio agli eschimesi! Sicuramente la clientela è composta di grandi esperti della merce, la trattativa si presta a virtuosismi ammirevoli da entrambe le parti, ma alla fine chi si avvantaggia dell’affare è solo il venditore: gli eschimesi il ghiaccio ce l’hanno già! Fra noi due, Gina è una antesignana nel portare nella narrativa per ragazzi tematiche di grande e drammatica attualità come la mafia, i problemi familiari, il rapporto con gli stranieri. Da quando scriviamo assieme abbiamo continuato a muoverci in questa direzione, con sempre maggiore decisione. Negli incontri che facciamo nelle scuole questa scelta è confortata dai riscontri entusiasmanti che abbiamo da parte dei ragazzi. Rimaniamo stupiti dall’affetto con cui letteralmente adottano i nostri personaggi, benché non abbiano superpoteri o occhioni intermittenti, anzi sono quasi sempre bruttini e sfigatelli, ma lo sono in modo niente affatto forzato (alla Simpson, tanto per intendersi). E rimaniamo davvero ammirati per la profondità delle domande che spesso ci rivolgono: emerge in modo carsico, inaspettato ma costante, un insospettabile desiderio di approfondimento, una attitudine all’analisi che non è fine a sé stessa, ma è
Ciò che il lettore dona all’autore Noi scriviamo per ragazzi perché essenzialmente pensiamo che loro siano il pubblico più bello a cui rivolgersi. I ragazzi sono buffi, sono curiosi, puri, hanno una intelligenza aperta, chiara come il cielo e in espansione come l’universo. Scrivere per loro è come guardare alla realtà come se si avesse ancora la
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SAPERI indirizzata alla ricerca di criteri per interpretare meglio la realtà che li circonda. I ragazzi vogliono crescere: perciò i ragazzi vogliono capire! Questo ci fa un piacere infinito, in quanto uno dei nostri obiettivi è appunto quello di dare loro degli strumenti critici per esplorare il significato dell’attualità. Questa è anche la maggiore difficoltà che incontriamo nello scrivere. Siamo assolutamente certi della verità del primo assioma di Watzlawick: se non è possibile non comunicare, a maggior ragione non è possibile scrivere senza che emergano dallo scritto le opinioni dell’autore. Ci responsabilizziamo molto per questo: vorremmo che i nostri testi non fossero manipolatori nel modo più assoluto, quindi lavoriamo molto di lima, e in questo caso scrivere in due è un grande vantaggio, perché permette un controllo reciproco molto efficace. Cerchiamo non tanto di non esprimere le nostre convinzioni, perché questo sarebbe disonesto prima di tutto nei confronti di noi stessi, quanto di presentare sempre ai ragazzi diverse chiavi di lettura della realtà, così che possano sforzarsi di sintetizzare da sé la soluzione migliore, per sé stessi e per chi sta loro attorno. Non sappiamo se questo obiettivo riusciamo a coglierlo, ma per noi è prioritario.
si perde la traccia di chi abbia generato la prima stesura. Gli editor che scrivono le schede, invece, intervengono a libro finito. Pensiamo che il loro lavoro sia utile non solo ai docenti, che trovano così già pronte delle valide liste di controllo per abituare i ragazzi ad analizzare il testo con metodo (e possono così dedicarsi a lavori più creativi), ma anche a noi: leggere le schede spesso ci fa riconsiderare con maggiore attenzione alcuni aspetti del lavoro, e sempre ci è di aiuto per i nuovi libri. Alla fine, uno degli elementi che rendono affascinante lo scrivere libri di narrativa scolastica è proprio questo lavoro di gruppo, che finisce per instaurarsi fra soggetti così diversi: la scoperta della reciproca complementarietà è in fondo il miglior viatico per la realizzazione di una vita armoniosa.
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▶ Gina Basso è giornalista, scrittrice e curatrice di programmi radio-televisivi socio-culturali. ▶ Riccardo Medici, scrittore, ha ricevuto nel 2009 il premio “Mille Applausi”.
Insegnanti e revisori editoriali Per fortuna, in una situazione tanto complessa possiamo contare su potenti alleati. Se i ragazzi che incontriamo sono così affamati di realtà, il merito è prima di tutto degli insegnanti, che riescono in modo ammirevole a far emergere e a ben indirizzare quella che è una loro attitudine innata. Abbiamo un grande rispetto per il lavoro svolto dai docenti e, grazie all’amicizia di cui ci onorano alcuni di loro, sappiamo quanto quel lavoro possa essere difficile e ingrato: però quando ne possiamo toccare con mano i frutti, e li troviamo così entusiasmanti, invidiamo davvero la loro fatica quotidiana. Sono loro e solo loro, lo sappiamo bene e li ringraziamo per questo, a garantire che i ragazzi acquisiscano dai libri i valori migliori nel modo più equilibrato. Un altro fattore insostituibile per la buona riuscita di una lettura scolastica sono le schede critiche. Il rapporto che si ha con gli editor che le compongono non è nemmeno paragonabile a quello che lega noi co-autori, ma non per questo è meno prezioso. Per noi ormai scrivere assieme è una cosa talmente naturale che a libro finito diventa difficile ricordare quali pagine sono state scritte da una e quali dall’altro. Decidiamo assieme la trama, ci dividiamo il lavoro, poi ogni parte prodotta da ciascuno viene rivista dall’altro e modificata tante volte che alla fine
Robert Delaunay, Donna nuda che legge, 1920, Museo de Bellas Artes, Bilbao.
La (buona) lettura è un atto anarchico «Il lettore ha sempre ragione e nessuno può togliergli la libertà di fare di un testo l’uso che più gli piace. Fa parte di questa libertà sfogliare il libro da una parte e dall’altra, saltare interi passi, leggere le frasi alla rovescia, travisarle, rielaborarle, continuare a tesserle e a migliorarle con tutte le possibili associazioni, ricavare dal testo conclusioni che il testo ignora, arrabbiarsi e rallegrarsi con lui, dimenticarlo, plagiarlo, e a un certo punto gettare il libro in un angolo». Hans Magnus Enzensberger
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DOSSIER Il decreto di legge n. 3366 emanato dal governo nel novembre 2012 istituisce nelle scuole, il 17 marzo di ogni anno, il Giorno dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera, allo scopo di promuovere i valori di cittadinanza e consolidare la nostra identità nazionale. Abbiamo scelto di contribuire a questa giornata offrendo ai lettori una riflessione su come in altri Paesi, e in particolare gli stati Uniti, si riflette sul tema della socializzazione politica durante l’infanzia e l’adolescenza, nella scuole in particolare. Certamente grande è la differenza dei contesti, tuttavia ci sembra che la rilevazione delle somiglianze e delle differenze su come altrove si cerca di formare buoni cittadini sia di per sé interessante.
David Gilmour Blythe, Il presidente Lincoln mentre scrive il Proclama di emancipazione, 1863, Pittsburgh. La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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La socializzazione politica giovanile Capire come nell’infanzia e nella adolescenza si formano le idee politiche è di grande utilità per un’educazione alla cittadinanza.
▶ Ubaldo Nicola
N
ella storia europea, osservava il filosofo tedesco Jürgen Habermas, lo Stato-nazione ha forgiato l’omogeneità etnica e culturale che ha garantito il fondamento necessario alle istituzioni liberali e democratiche. In Germania, tuttavia, il nazionalismo si è affermato contro lo spirito repubblicano ed è degenerato nelle aberrazioni razziste che hanno condotto all’olocausto. Dal 1871 al 1945 in Germania la parola patria ha significato una purificazione da perseguire per mezzo dell’espulsione o dell’emarginazione di tutti i supposti nemici della comunità nazionale. Per questo, secondo Habermas, a questa forma di patriottismo nazionalistico, ne andrebbe contrapposta un’altra, fondata sulla lealtà ai principi politici universalistici di libertà e democrazia incorporati nella legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca. Diversamente dalla variante nazionalistica, questo patriottismo costituzionale separa l’ideale politico della nazione di cittadini dalla concezione del popolo inteso come un’unità prepolitica di linguaggio e di cultura, riconoscendo quindi la legittimità e la dignità morale di culture e stili di vita differenti all’interno della repubblica. Come si vede, all’origine del
concetto, nella seconda metà del secolo scorso, stavano considerazioni fortemente legate alla storia tedesca, in particolare l’impresentabilità di quel complesso di liturgie, riti e simboli, carichi di affettività irrazionalistica, con cui la parola patria era stata connotata durante la dittatura nazista. Successivamente però altre motivazioni si sono aggiunte, dato che un approccio costituzionale alla formazione di un senso comunitario sembra a molti analisti l’unica via sia per lo sviluppo di una patria europea sia per la gestione di società sempre più multietniche. Un patriottismo costituzionale, europeo ha scritto Barbara Spinelli, dovrebbe consistere in «un sentimento di lealtà e di attaccamento nei confronti di una Costituzione Europea fondata su principi di libertà e di eguaglianza». Dovrebbe essere «un patriottismo differente da quello tradizionale: più freddo, meno determinato da legami di sangue, più universalista, basato sul rispetto delle leggi, sulla cultura del contratto, della parola data, dei doveri e diritti dell’individuo-cittadino». Non più quindi le passioni cieche e brutali dell’attaccamento alla terra, agli antenati, all’etnia o alla religione nazionale, ma l’amore della libertà comune, la lealtà nei confronti della Costi-
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DOSSIER | La socializzazione politica giovanile tuzione e la speranza in un futuro da costruire insieme. Oggi il patriottismo costituzionale sarebbe l’unico antidoto capace di contrastare il regionalismo xenofobo che sta intaccato parti significative della mentalità europea. Il patriottismo civile Oltre che solidi, questi argomenti in favore di un rinnovamento nel modo di concepire l’identità nazionale appaiono ben calzanti anche per l’Italia. Lascio quindi il compito di introdurre una loro critica a una fonte autorevole, il filosofo della politica Maurizio Viroli, non solo storico eminente della nozione di patria, presso l’Università di Princeton, ma anche impegnato ai massimi livelli istituzionali in molto iniziative tese a rinvigorire il senso civico degli italiani. È stato coordinatore del Comitato Nazionale per la Valorizzazione della Cultura della Repubblica presso il Ministero dell’Interno, consulente del Presidente Ciampi e della Camera dei Deputati durante la presidenza Violante, ricevendo nel 2001, per queste sue attività, l’Ordine al merito della Repubblica italiana. «A mio giudizio», afferma questo nostro civil servant, «il patriottismo costituzionale non è efficace all’interno dei diversi contesti nazionali e non potrà esserlo, a maggior ragione, nel contesto di un futuro Stato federale europeo. Questa considerazione non deve tuttavia affliggere chi, come chi scrive, auspica sinceramente la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Esiste infatti, per fortuna, un’alternativa: il vecchio patriottismo repubblicano o civile, che può aiutare l’Europa molto meglio del patriottismo costituzionale. Nonostante i suoi evidenti pregi, ritengo che il patriottismo costituzionale non sia efficace nello svolgere i compiti che il patriottiLa ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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smo deve svolgere, per la semplice ragione che esige che i cittadini degli stati nazionali sentano lealtà e attaccamento per i principi della democrazia e della giustizia sociale intesi quali principi universalistici. Ma nella vita reale gli uomini e le donne provano lealtà e attaccamento seri (quando li provano) per un particolare popolo, per la libertà di quel particolare popolo, per particolari parole pronunciate in momenti particolari della vita, per questa o quella persona, questo o quel luogo, questa o quella narrazione, questo o quell’eroe, questo o quel martire, questo o quel simbolo, questa o quella cultura, non per princìpi o concetti, o entità universali o astratte. Lealtà e attaccamento sono sentimenti non modi della ragione, anche se la ragione svolge un ufficio importante nella loro nascita e nella loro vita. Come tali hanno bisogno di immagini, di colori, di sapori, di musiche. Hanno insomma bisogno, per nascere, rimanere vivi e rinascere, di elementi che principi universali non hanno e non possono avere. Affermare che i cittadini europei dovrebbero sentire lealtà e attaccamento per i principi universali della libertà, della giustizia sociale è come dire che sarebbe bene provare lealtà e affetto, o amare “la donna” o “l’uomo”. Non si ama “la donna” o “l’uomo”, ma questa o quella donna, questo o quell’uomo. Magari oggi quella donna e fra qualche anno un’altra donna, o questa e quella donna nel medesimo tempo, cadendo in tal guisa, in grave contrasto e acerbi conflitti interiori, ma mai “la donna”». Diffidare dei simboli? L’ammonimento di Viroli può essere recepito, perlomeno, nel senso della necessità di un equilibrio.
L’apprezzamento razionale della Carta costituzionale implica una valorizzazione non mitologica dei suoi principi fondamentali assieme a un riconoscimento dell’inattualità di altre sue parti, a partire dal bicameralismo perfetto, che seguendo Benigni, potremmo definire «l’istituzione più brutta e inefficiente del mondo».
Soprattutto necessita d’essere accompagnato da un apparto simbolico capace di dare concretezza visibile alla passione civica, di una ritualità collettiva che ne testimoni la condivisione, di immagini che ne veicolino i significati profondi. Sono aspetti “caldi” e affettivi che non implicano di per sé alcuna adesione a forme di aggressività nazionalistica, come testimonia la loro pratica diffusa in Paesi di tradizione democratica ben più salda della nostra, Inghilterra, Francia e Stati Uniti in primo luogo, ma verso i quali l’attuale mentalità politica italiana si mo-
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Plumcake, Viva l’Italia, 2012, Plumcake ©.
stra particolarmente diffidente. Volendo disegnare l’idea del Paese cui appartiene, un bambino francese potrà usare l’immagine della Marianne, un inglese la Britannia, un americano lo zio Sam, ma un bambino italiano non ha disposizione alcuna personificazione della sua identità nazionale.
Non pratichiamo neppure alcuna ritualità patriottica veramente condivisa, perché tali non sono mai diventate né le celebrazioni del 25 aprile né le commemorazioni delle stragi e dei lutti nazionali. Persino l’uso dell’inno nazionale è rigorosamente riservato alle pratiche agonistiche, istituzionali o militari. Caso unico al mondo, non abbiamo alcun simbolo femminile che, attraverso l’allusione implicita alla continuità generazionale, raffiguri la comunità nella sua continuità storica, nelle sue radici secolari. È su questo sfondo che la scuola dovrebbe svolgere la sua opera
educativa, ma è ben noto come l’innesto di una cultura propriamente “civica” in quella più generale umanistica o scientifica non sia affatto facile sul piano didattico, come dimostrano i ricorrenti tentativi di reintrodurre corsi specifici di educazione civica. Come contributo alla discussione, ci sembra utile citare a questo proposito i risultati cui è giunta una branca della sociologia purtroppo non molto praticata in Italia, che pone come specifico oggetto di studio i processi dell’apprendimento politico, ovvero, dal Dizionario di politica di Norberto Bobbio, «quell’insieme di esperienze che nel corso del processo di formazione dell’identità sociale dell’individuo contribuiscono a plasmare l’immagine che egli ha di se stesso nei confronti del sistema politico e nel definire il rapporto che instaura con le istituzioni». Le competenze politiche a scuola Il primo dato su cui convergono gli studiosi è la precocità di tale apprendimento politico. È infatti nell’infanzia, nel periodo che va dai cinque-sei sino agli undici-dodici anni, che si forma l’«orientamento verso la comunità», un termine tecnico che, con le parole della sociologa dell’Università di Cagliari Anna Oppo «comprende quel complesso di nozioni e valori che permettono di distinguere il proprio gruppo dagli altri, di identificarsi con i suoi simboli più visivi, di sviluppare un senso di appartenenza e di lealtà verso di esso, di solidarietà nei confronti degli altri membri». Le ricerche sulla socializzazione politica, a partire dagli articoli ormai storici in questo campo che pubblichiamo nelle pagine seguenti, hanno mostrato come in questa fase i bambini si identifichino nel proprio Paese, svilup-
pino forti sentimenti di attaccammento per i suoi simboli sociali e politici più elementari e visibili. Proprio perché si tratta di un apprendimento infantile, nota Anna Oppo, «esso si caratterizza per la presenza di forti valenze emotive e di intense identificazioni affettive che fanno sì che gli scarsi elementi conoscitivi, di natura pre politica, abbiano la possibilità di radicarsi e di costituire, perciò, una solida cornice entro cui situare le successive informazioni». Il secondo livello, chiamato dai sociologi «orientamento verso il regime», si sviluppa negli anni delle medie superiori, dalla fine dell’infanzia all’adolescenza e riguarda «lo sviluppo di atteggiamenti specifici nei confronti dell’assetto politico della comunità, l’accettazione o il rifiuto delle concezioni ideologiche che lo giustificano, dei suoi meccanismi istituzionali, dei codici di comportamento prescritti, oltre che l’acquisizione delle capacità di agire politicamente utilizzando tali codici». È questo il periodo decisivo in cui si delineano gli attributi fondamentali della personalità politica adulta. Non è ancora la capacità di operare consapevoli scelte di voto, ossia di giudicare il comportamento specifico degli attori politici, una competenza definita dai sociologi di terzo livello che matura solo alla fine dell’età scolare. Ma è nell’adolescenza che si forma, sempre secondo Anna Oppo, «il complesso di sentimenti in base ai quali si arriverà ad accettare o a rifiutare le regole del sistema politico, in cui si instaurano dimensioni psicologiche importanti come il cinismo o la fiducia politica». Sono gli anni dell’adolescenza «a stabilire se la politica sarà o meno un elemento centrale della vita adulta, se l’atteggiamento di fondo delle
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DOSSIER | La socializzazione politica giovanile persone sarà di partecipazione, rinuncia o rifiuto della dimensione politica dell’esistenza».
Dovremmo quindi chiederci, a questo punto, se la programmazione scolastica italiana aderisca
a queste fasi di sviluppo che tipicizzano l’apprendimento politico, fornendo di volta in volta gli adeguati stimoli critici. Perché da questi studi, solo parzialmente esemplificati dagli articoli che abbiamo selezionato, appaiono alcune evidenze. La prima suggerisce l’inefficacia di qualsivoglia approccio alla “educazione civica” in età liceale quando la precedente fase di sviluppo politico del bambino, connessa al primordiale senso di identità collettiva, non sia stata ben articolata. Al ragazzo che già ha sviluppato una pre-comprensione in senso cinico del mondo politico, di scarso giovamento (anche se non inutile) sarà poi lo studio critico dei principi costituzionali. La seconda riguarda l’ineludibile esistenza nel processo complessivo di formazione politica degli studenti di fattori affettivi la cui natura simbolica e prerazionale, prestandosi anche a fini manipolatori, pone delicati problemi di gestione didattica.
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APPROFONDIRE
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J. Habermas, La rivoluzione in corso, Feltrinelli, Milano, 1990. A. Oppo, La socializzazione politica (a cura di), Il Mulino, Bologna, 1980.
Norman Rockwell, Il fuggitivo, illustrazione per la rivista The Saturday Evening Post, 1958.
La cultura della cittadinanza si apprende dalla pratica «I cittadini imparano la cultura della cittadinanza, quando la imparano, nel partito, nel sindacato, nell’associazione sportiva o culturale o professionale, al caffè o al pub, in parrocchia, o nei partiti. L’apprendistato alla cittadinanza avviene sempre, quando avviene, in contesti locali, particolari, culturalmente densi e significativi. Una volta imparata nei contesti locali, la cittadinanza può essere trasportata facilmente nel contesto europeo senza bisogno di aggiungere astratti principi universalistici. Ma senza l’apprendistato nei contesti particolari non si impara nessuna cultura della cittadinanza». Maurizio Viroli
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B. Spinelli, Giustizia e libertà per la Patria Europa, La Stampa, 8 aprile 2001.
•
M. Viroli, È possibile un patriottismo costituzionale europeo?, Discorso di inaugurazione dell’anno accademico del Master’s Degree in European and International studies, Università di Trento, 26 ottobre 2006.
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M. Viroli, Per amore della Patria, Laterza, Bari, 1995.
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Sull’uso dei simboli in politica
Una rassegna delle riflessioni sull’uso politico dei simboli nel Novecento non porta a conclusioni definitive. È vero che i totalitarismi ne abusarono per fini manipolatori; forse, però, ebbero successo anche per l’atrofia simbolica della repubblica di Weimar e dei regimi liberali. ▶ Francesca Nicola
L’
uso consapevolmente criminale del simbolismo da parte dei bolscevichi in Russia, dei fascisti in Italia e dei nazisti in Germania ha indotto molti osservatori a considerare le cerimonie, lo sventolio di bandiere e le uniformi, come una componente irrazionale e antidemocratica della politica, un orpello pericoloso da eliminare e da sostituire con il ragionamento. È una tendenza basata non solo sui drammatici fatti della storia, ma anche sull’idea illuministica che gli individui facciano le loro scelte politiche sulla base di considerazioni puramente razionali, generalmente identificate con il calcolo dei propri interessi. La versione attuale di questa idea, ormai diffusasi nell’opinione pubblica, si traduce nella tenace convinzione che i simboli rappresentino allettamenti destinati agli ingenui o strumenti nelle mani delle élite politiche per manipolare le masse. Questa visione ignora però che non può esservi politica senza simbolismo, o senza i rituali e i miti attraverso cui esso si esprime. In primo luogo la sociologia e la filosofia contemporanee hanno efficacemente sottolineato che ogni processo cognitivo, incluso quello politico, è filtrato attraverso lenti sostanzialmente non razionali. Anche la dimensione che percepiamo come “reale” implica dunque una manipolazione
di simboli. È una prospettiva che deve molto alle riflessioni della filosofia, per esempio di autori quali Ernst Cassirer e Suzanne Lange, secondo le quali l’uomo vive in un mondo simbolico da lui stesso creato, che funge da intermediario tra il mondo esterno e il mondo interiore. La «ragnatela di simboli» che l’uomo ha tessuto, per usare il linguaggio di Ludwig Wittgenstein, non veicola solo contenuti cognitivi, ma suscita anche risposte emotive. Ed è questa la seconda ragione per cui la teoria della politica come scelta esclusivamente razionale appare fuorviante. Come osserva il filosofo della politica Michael Walzer, «lo Stato è invisibile; deve essere personificato per poter acquistare visibilità, simbolizzato per poter essere amato, immaginato prima di poter essere concepito». A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, dell’idea che l’uomo è mosso anche dalle emozioni e non esclusivamente da un freddo calcolo dell’interesse personale, vi è anche la psicologia politica. Lo psicologo David Sears, ad esempio, ha contrapposto l’approccio della «politica simbolica» a quello della scelta razionale, affermando che gli individui non valutano cognitivamente l’informazione a disposizione in modo realistico e sensato, ma si dimostrano in genere restii al cambiamento. «L’elaborazione simbolica», egli scrive «è in ultima istanza funzionale
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DOSSIER | Sull’uso dei simboli in politica agli scopi razionali dell’individuo e della società, ma è tale non in virtù di un processo di deliberazione attenta e razionale, né di una valutazione dei costi e dei benefici». Di fatto, conclude Sears, «tutto dimostra che l’interesse personale ha un’influenza relativamente marginale sugli orientamenti politici». Miti e rituali politici Nella letteratura sul simbolismo politico una particolare attenzione è stata dedicata agli usi politici del rituale. È nel rituale, infatti, che ai simboli viene data pubblica espressione nel modo più solenne. Vista in quest’ottica laica e antropologica, il rituale appare come qualsiasi insieme di azioni ripetitive e ridondanti, ricche di significati simbolici che legano il passato al presente e il presente al futuro comportando una complessa stimolazione fisiologica, fatta di gesti, canti, rumori, colori, odori. La manipolazione dei simboli nel rituale suscita emozioni che vengono associate a particolari visioni del mondo. Ma come avviene questa stimolazione? L’antropologo britannico Victor Turner ha distinto una serie di caratteristiche del simbolismo. In primo luogo, i simboli realizzano una condensazione di significato, vale a dire che un unico simbolo unisce in un’associazione complessa una varietà di referenti. In secondo luogo, essi rappresentano una polarizzazione di significato. Con ciò Turner si riferisce al fatto che nei simboli esistono due poli semantici, uno ideologico e l’altro sensoriale: il simbolo evoca determinate visioni del mondo, certe idee relative alle entità sociali, alla storia e ai sistemi normativi, ma nello stesso tempo suscita anche particolari stati emotivi. Turner afferma che attraverso i simboli dominanti «le norme etiLa ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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Theodors Vryzakis, Grateful Hellas, 1858, Museo Storico Nazionale, Atene.
Patrie e Madonne nazionali L’idea moderna di patria si è costruita a partire dalla lotta per l’indipendenza greca, il primo dei Risorgimenti dell’Ottocento. A metà di quel secolo, Theodoros Vryzaki rappresentò tale evento storico-politico in questo quadro fortemente connotato da un’aura religiosa e da riferimenti espliciti alla tradizionale iconografia cattolica e ortodossa della Madonna: in ginocchio davanti a lei, o tutt’attorno come in un coro angelico, i protagonisti della rivoluzione prorompono in gesti di devozione, letteralmente pregano, a mani giunte o mostrando le palme. La Patria, poi, stende le braccia nel gesto protettivo e universalistico tipico di molte rappresentazioni della Vergine e schiaccia con i piedi qualcosa di simile ai serpenti della tradizione. L’immagine si presta a un duplice commento. Da una parte ricorda come le categorie fondamentali della politica moderna (Stato, Nazione, Patria) derivino per secolarizzazione da concetti teologici; dall’altra suggerisce la permanenza di elementi di religiosità, più o meno consapevole, anche nella pratica politica contemporanea. In un saggio sull’attualità del culto mariano (Ipotesi su Maria, Ares, 2005), Vittorio Messori nota come in alcuni Paesi cattolici, come la Polonia, la Spagna, il Messico o i Paesi dell’Est europeo, il senso di identità comunitaria sia ancora oggi favorito dalla presenza di Madonne nazionali. E d’altra parte, la nota carenza di senso patrio degli italiani sarebbe ben suggerita, su questo piano teologico-politico, dal nostro avere decine di Madonne comunali, ma nessuna “nazionale”, come la Guadalupe, la Madonna di Lourdes o di Czestochowa.
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DOSSIER che e giuridiche di una società entrano in stretto contatto con forti stimoli emozionali». Tali simboli possono essere di tipo religioso, come nel caso del crocefisso, politico o agonistico, come nel caso delle bandiere sventolate dopo la vittoria di una squadra nazionale. Se è vero che gli antropologi hanno da tempo riconosciuto l’intima connessione esistente tra rito e mito, va pur detto che il riconoscimento della componente simbolica della vita pubblica all’interno della disciplina antropologica non è sempre stato dato per scontato. Si è piuttosto trattato di una graduale estensione alla società occidentale di attitudini irrazionali che prima erano principalmente rintracciate nei popoli “selvaggi”. Studi sul sacro sul simbolico Nell’introduzione di African political systems, uno studio del 1940, i due esponenti più illustri dell’antropologia sociale britannica, Meyer Fortes ed E.E. Evans-Pritchard scrivevano che «L’uomo africano non vede al di là dei simboli; si potrebbe sostenere che se egli ne comprendesse il significato oggettivo, essi perderebbero ogni potere su di lui. Tale potere risiede nel loro contenuto simbolico e nella loro associazione con le istituzioni nodali della struttura sociale, come ad esempio la monarchia». L’approccio dei due antropologi era chiaramente influenzato dall’opera del grande sociologo Émile Durkheim la cui interpretazione delle cerimonie religiose tra gli aborigeni all’inizio del Novecento aveva sottolineato il nesso tra sacro e politica: il totem oggetto di adorazione rappresenterebbe secondo Durkheim non solo una forza sovrannaturale, ma il gruppo sociale stesso. Le idee di Durkheim influenzarono anche
i sociologi, tanto che negli Stati Uniti ebbe un notevole impatto un articolo pubblicato da Robert Bellah in cui le concezioni durkheimiane venivano applicate alla società industriale contemporanea. Il sociologo vi sosteneva che in America, accanto alle varie Chiese, esistesse una forma distinta di religione, che definì «religione civile», consistente in un «complesso di credenze, simboli e rituali attinenti a cose sacre e istituzionalizzati in una collettività». Tale religione sarebbe stata caratterizzata da un sistema simbolico compiutamente elaborato, con una mitologia (in cui la fondazione della nazione era equiparata alla Genesi biblica, e George Washington a un Mosè nazionale) e un complesso sistema rituale (con giorni festivi come il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza). Solo grazie a questa religione civile i diversi popoli che formavano gli Stati Uniti potevano costituirsi in un’unità politica. Negli ultimi trent’anni diverse correnti teoriche hanno focalizzato l’attenzione sull’interpretazione dei simboli politici. La più importante fa capo all’opera di Clifford Geertz, centrata sui meccanismi attraverso i quali l’uomo conferisce senso al mondo e crea significati. A proposito dei simboli e dei riti legati alla figura del sovrano e ai capi politici, egli osserva: «La distinzione apparentemente ovvia tra il cerimoniale del potere e la sua sostanza diventa meno netta, persino meno reale; ciò che conta è il modo in cui vengono trasformati l’uno nell’altro, un po’ come accade tra massa ed energia [...]. Al centro politico di ogni società complessa vi sono sia un’élite che governa sia un insieme di forme simboliche le quali esprimono il fatto che essa detiene realmente il potere». Questi gruppi elitari giustificano
il loro potere attraverso l’uso di simboli che ereditano dal passato o creano ex novo. «Sono proprio questi simboli (corone e cerimonie di insediamento, limousines e conferenze) che contrassegnano il centro come tale e fanno apparire tali cerimonie non solo importanti, ma anche connesse in qualche maniera imperscrutabile al modo in cui è costruito il mondo. La serietà dell’alta politica e la solennità del culto derivano da impulsi più simili di quanto possa apparire a prima vista». La religione laica della Nazione La maggior parte degli studi sociologici e antropologici, sulla scia di Durkheim, hanno concentrato l’attenzione sui modi in cui il rituale viene utilizzato per preservare la coesione sociale. Si è sviluppata così un’imponente letteratura con numerosi studi dedicati, ad esempio, ai rituali legati alla figura del sovrano o ai modi in cui i capi si servono di riti per consolidare il potere, rafforzare la propria legittimità e delegittimare quella degli avversari. Idee simili hanno goduto recentemente notevole popolarità anche tra gli storici, tanto che vi è stato in questo campo un boom di studi dedicati al simbolismo. Questa corrente storiografica si è affermata soprattutto in Francia, in passato più attenti a focalizzare l’attenzione sui grandi personaggi, sulle imprese militari, e sullo sviluppo di ideologie e di istituzioni. Anche questa corrente, però, ha tendenzialmente analizzato il simbolismo come uno strumento di esercizio “verticale” del potere. George Mosse ne è senza dubbio uno degli esponenti più influenti. Il suo testo più influente, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, pubblicato nel 1975, sviluppa l’idea che la na-
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Norman Rockwell, Il giuramento del boy scout, illustrazione per la rivista Boys’ Life, 1925.
Fra le esperienze che favoriscono la socializzazione politica dei ragazzi vi è lo scoutismo. Ogni scout deve promettere fedeltà a una legge, la cui natura cambia però sensibilmente in ragione dei diversi approcci politici delle tante associazioni che formano il movimento. La legge scout di Baden-Powell, il fondatore del movimento 1. L’onore di uno scout è di essere creduto. 2. Lo scout è fedele: al Re, alla Patria, ai suoi Capi, ai suoi genitori, ai suoi datori di lavoro e ai suoi sottoposti. 3. Il dovere di uno scout è di essere utile e aiutare gli altri. 4. Lo scout è amico di tutti e fratello di ogni altro scout, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza. 5. Lo scout è cortese. 6. Lo scout è un amico per gli animali. 7. Lo scout ubbidisce agli ordini dei suoi genitori, del Capo Pattuglia o del suo Capo senza replicare. 8. Lo scout sorride e fischietta in tutte le difficoltà. La legge del movimento scout svizzero Noi scout vogliamo: 1. Offrire il nostro aiuto. 2. Essere aperti e sinceri. 3. Ascoltare e rispettare gli altri. 4. Condividere. 5. Affrontare con fiducia le difficoltà. 6. Trasmettere gioia intorno a noi. 7. Amare la vita e proteggere la natura. 8. Saper fare delle scelte e prendere degli impegni.
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zione non debba esser considerata come una realtà storica predefinita, ma come un concetto politico e culturale creato e propagandato dall’alto verso il basso dai capi politici dei movimenti nazionali ottocenteschi attraverso un processo di pedagogizzazione nazionale che agiva sulle emozioni e sulla fascinazione emotiva delle masse. Per far presa sui milioni di analfabeti che popolavano le città e le campagne ottocentesche, i leader politici connotarono il discorso nazional-patriottico in senso religioso, così da mobilitare emotivamente la coscienza popolare. Questa nuova “religione laica”, la nazione, istituì ovviamente una serie di pratiche di culto, nonché un vasto corredo di simbologie, allegorie e mitologie patriottiche che avrebbero dovuto incarnare la passata grandezza e il fecondo avvenire dello Stato-nazione. Un’altra prospettiva che osserva il fenomeno del nazionalismo come costruzione simbolica dall’alto è quella di genere. L’autrice che forse più ha approfondito gli effetti oppressivi dell’ideologia nazionalista sulle donne è Anne McClintock. Secondo la studiosa femminista ogni forma di nazionalismo si fonda su un meccanismo di equiparazione simbolica tra l’idea di nazione a quella della famiglia, continuamente ribadita dalla iconografia nazionalista e in espressioni quali “patria” (che fa riferimento alla figura del padre) o “naturalizzazione” (che rimanda alla famiglia come “comunità naturale” primaria). Facendo leva sulla relazione “nazione = famiglia”, i rapporti gerarchici tra uomini e donne all’interno della società verrebbero giustificati in quanto espressione di quelli familiari e questi ultimi, a loro volta, risultano rafforzati in quanto indissolubilmente connessi con il bene della collettività nazionale
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DOSSIER Tuttavia i processi simbolici all’opera nel rituale sono importanti non solo per i detentori del potere, ma anche per i loro avversari, e se la stabilità politica dipende dalla capacità di creare e di mantenere in vita una particolare combinazione di simboli, miti e riti, lo stesso vale per il successo di rivolte o rivoluzioni. Ne consegue che nelle società in cui la legittimità del potere è fortemente contestata, il rito può essere parte integrante di un processo di opposizione. La rivoluzione simbolica francese Ad aprire la strada a questo orientamento della ricerca sono stati gli storici della rivoluzione francese, Maurice Agulhon in particolare, i quali hanno messo in rilievo l’influenza della grande rivoluzione sull’affermarsi degli elementi simbolici centrali dello Stato-nazione moderno. Lo Stato moderno, osserva Agulhon, deve avere una bandiera che lo rappresenti, e deve altresì essere personificato in qualche modo o da un capo di Stato (un sovrano, un presidente, ecc.) o da una figura storica allegorica, ruolo assunto in Francia dalla Marianne. Oltre a una vasta gamma di simboli che rappresentano il governo, sigilli, blasoni e simili, ogni Stato moderno ha il proprio pantheon di notabili, le cui statue compaiono nelle pubbliche piazze. Vista in questa prospettiva, la Rivoluzione francese appare caratterizzata da un’attività simbolica addirittura frenetica. Basti pensare al tricolore: inventato per sostituire la bandiera bianca dei realisti il giorno successivo alla presa della Bastiglia (impresa dotata anch’essa di un alto valore simbolico, rispetto al quale il suo esito pratico, la liberazione di un manipolo di prigionieri, fu del tutto trascurabile), esso divenne il sim-
bolo della prima Repubblica. Subito dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo, il tricolore venne messo al bando e sostituito dalla bandiera bianca. Quindici anni dopo, con la Rivoluzione di luglio del 1830, si ebbe un ulteriore capovolgimento, e il tricolore si impose definitivamente. Come osserva Agulhon, questi cambiamenti di bandiera non erano semplicemente il risultato di una lotta politica condotta su un altro terreno, ma avevano implicazioni emotive di enorme rilevanza, che costituivano una componente essenziale della lotta politica stessa: «Gli oscuri militanti che il 28 luglio 1830 issarono il tricolore in cima alle torri di Notre-Dame e all’Hotel-de-Ville, quando l’esito della battaglia era ancora incerto, contribuirono a risospingere il popolo nella lotta con rinnovato ardore. La vista della bandiera, si disse, produsse un effet électrique». Una volta insediato, il governo rivoluzionario francese varò un vasto progetto di innovazione dell’apparato simbolico, che andava dall’introduzione di determinati capi di abbigliamento, come la coccarda tricolore, all’organizzazione di imponenti riti di massa dalla meticolosa coreografia, come la festa della Libertà. In questa occasione a Parigi venivano esibiti tutti i simboli del nuovo regime: quattro uomini portavano enormi tavole in cui era incisa la Dichiarazione dei diritti dell’uomo; busti di Rousseau, Voltaire e Benjamin Franklin venivano portati in corteo nelle strade; nei pressi della Bastiglia veniva reso omaggio a una statua raffigurante la Libertà, mentre alla statua di Luigi XV erano posti un berretto rosso sul capo e una benda sugli occhi. Analogamente, durante la festa dell’Essere Supremo, a Parigi nel 1794, il regime intensificò gli sforzi per sostituire ai riti religio-
si quelli statali. Mezzo milione di persone (metà della popolazione di Parigi) partecipò alla parata o la osservò sfilare tra gli edifici addobbati e gli imponenti monumenti costruiti per l’occasione, tra cui un’enorme montagna artificiale eretta al centro della città. Qui, Robespierre dette fuoco a una statua in cartapesta raffigurante l’Ateismo, scoprendo sotto il suo involucro un’immagine della Saggezza, mentre alle sue spalle la folla intonava inni rivoluzionari. L’acme emotivo fu raggiunto quando la folla, accompagnata dal rullio di duecento tamburi, intonò la Marsigliese recentemente composta, che terminò tra i colpi assordanti dell’artiglieria. La manipolazione totalitaria Anche le rivoluzioni totalitarie del XX secolo in Europa hanno attirato l’attenzione degli studiosi sul ruolo del simbolismo politico nei cambiamenti di regime. Emblematica a questo riguardo fu la presa di potere dei bolscevichi in Russia nel 1917. Costituito da un piccolo gruppo di rivoluzionari concentrato in poche aree urbane, il movimento bolscevico doveva trovare il modo di diffondere la propria influenza sul vasto territorio euroasiatico. Occorreva conferire un’identità al nuovo regime agli occhi della popolazione, dotarlo di legittimità e assicurargli la fedeltà di una varietà di popoli diversi. E tutto ciò poteva essere realizzato solo inventando un vasto repertorio di simboli e di riti associati, dall’assalto al Palazzo d’Inverno alla visita alla tomba di Lenin. Tanto per Mussolini, che in passato aveva militato tra i socialisti, quanto per Hitler, che nel Mein Kampf parla con toni ammirati della potenza delle dimostrazioni socialiste, i riti, i miti e i simboli del socialismo costituirono una
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lezione. Hitler si servì del potere dei simboli nel creare il movimento nazista e successivamente nel costruire il regime. La svastica e il saluto nazista furono al centro del movimento, istituendo una demarcazione tra i fedeli e i nemici e aizzando odi e passioni. Hitler affermava di aver imparato la lezione del potere dei simboli e dei rituali politici da una dimostrazione marxista di massa svoltasi a Berlino nell’imminenza della prima guerra mondiale: «Un oceano di bandiere rosse, di sciarpe e di fiori rossi conferiva a tale dimostrazione un aspetto imponente», scrive Hitler, «potei sentire e capire personalmente quanto facilmente l’uomo del popolo soccombe al fascino suggestivo di uno spettacolo tanto grandioso e impressionante». L’atrofia simbolica di Weimar Se riconosciamo che ogni società ha i propri miti che ne raccontano le origini e ne santificano le norme, non possiamo snobbare la dimensione simbolica della politica, relegandola a un’attitudine infantile o reazionaria. Gli stessi fatti storici su cui questa convinzione si basa dimostrano quanto essa sia invece centrale. Come dimostra Emilio Gentile nel suo studio Il culto del littorio, Mussolini dedicò grande attenzione alla creazione di un ricco sistema simbolico per rafforzare il suo potere e consolidare il sostegno popolare al suo regime. «A differenza degli altri partiti, i fascisti assegnarono al simbolismo politico una funzione predominante nell’azione e nell’organizzazione, attribuendogli, nel linguaggio e nei gesti, espressione e significato esplicitamente religiosi. Anche nell’elaborazione della sua liturgia, come per la mitologia, il fascismo si comportò come una religione sincretica, La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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assimilando i materiali che riteneva utili per sviluppare il proprio corredo di riti e simboli». La cosa più importante, però, nota Gentile è che il fascismo potè approfittare dell’incapacità dimostrata dai suoi predecessori nell’elaborare un soddisfacente sistema simbolico per lo Stato italiano laico: nell’età giolittiana i riti pubblici suscitavano scarsa partecipazione o entusiasmo popolare; spesso erano considerati poco più che esercizi militari. Il fatto poi che la Chiesa avesse per lungo tempo contestato la legittimità dello Stato rifiutandone il simbolismo contribuì in modo significativo a creare la situazione in cui si trovava il Paese nel primo dopoguerra. Occorre allora, piuttosto che negare, nutrire e orientare in senso democratico la ritualità politica democratica.
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Francesca Nicola è dottoranda in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.
APPROFONDIRE
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B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Manifesto Libri, Roma, 2009.
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M. Billig, Banal Nationalism, Sage, Londra, 1995. E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi, Roma, 2005.
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D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Laterza, Roma-Bari, 1989. G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Il Mulino, Bologna, 2009.
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V. Turner, La foresta dei simboli, Morcelliana, Brescia, 1992.
Norman Rockwell, Il giorno delle elezioni, The Saturday Evening Post, 1948.
DOSSIER |Sull’uso dei simboli in politica
Ritualità democratiche Lo storico Benedict Anderson in Comunità immaginate (1996) mette in luce come alcune pratiche quotidiane contribuiscano a creare il sentimento di appartenenza nazionale. Importante, ad esempio, è la lettura del giornale, che finisce per essere una cerimonia di massa in grado di rafforzare la coscienza che il medesimo atto compiuto da ognuno viene replicato «da migliaia (o milioni) di altri, della cui esistenza si è certi, ma della cui identità non si ha la minima idea». Analogamente, lo scienziato politico Michael Billig chiama “banale” quel patriottismo che si sviluppa nella vita quotidiana, spesso al di sotto della soglia di consapevolezza, grazie a pratiche che fanno riferimento, diretto o indiretto, all’idea di nazione: le mappe nelle rubriche meteorologiche, la bandiera sulla facciata degli edifici pubblici, l’uso del “noi” e “gli altri” per riferirsi al proprio o altri Paesi, l’organizzare dei giornali in notizie dall’estero e nazionali, strutturare i curricula scolastici intorno a elementi riconosciuti propri della nazione.
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Lo zio Sam? È buono come il nonno! Durante la scuola elementare i bambini americani familiarizzano, seppur in maniera informale, con i simboli del Paese: il presidente, il poliziotto, lo zio Sam e la bandiera. Mostrando come queste pre-comprensioni forniscano una base importante per l’elaborazione delle future attitudini civiche, negli anni Settanta questo articolo segnò la nascita degli studi sulla socializzazione politica nelle scuole.
▶ Robert Hess, David Easton
I
programmi di educazione alla cittadinanza hanno una lunga tradizione nelle scuole pubbliche negli Stati Uniti. Si tratta di corsi che puntano a massimizzare le capacità morali interpersonali degli studenti e aumentare le loro attività di cooperazione e di partecipazione alle attività civiche della comunità. Anche se già nelle scuole elementari i curricola includono materie come storia, educazione civica e social studies, i corsi specificatamente finalizzati all’insegnamento della cittadinanza sono di solito impartiti nelle scuole secondarie e nelle università. Fin dall’inizio dell’iter scolastico, la scuola insegna e rafforza le attitudini nei confronti della legge, del governo e della cittadinanza in una serie di modi informali. Giurare fedeltà alla bandiera, cantare l’inno nazionale, celebrare la nascita di Washington e Lincoln e osservare il Veterans Day sono tutte occasioni per insegnare al bambino il rispetto per legge e un sentimento di lealtà e di orgoglio verso la nazione. È soprattutto attraverso strumenti così informali e non sistematici che la scuola continua il processo di socializzazione politica iniziato a casa. Ciò nonostante le ricerche sui
comportamenti politici hanno a lungo avuto a che fare principalmente con le attitudini e le attività degli adulti. Bambini e adolescenti sono stati ignorati, presumibilmente perché non ammessi a votare. Tuttavia, le teorie e le ricerche più attuali hanno suggerito che le inclinazioni verso il governo e la cittadinanza tendono a cambiare durante gli anni dell’adolescenza. Bambini molto ben informati Seguendo questa linea, abbiamo cercato questo presunto cambiamento analizzando quasi duemila studenti liceali. Attraverso alcuni questionari abbiamo sondato il loro interesse verso le questioni civili e politiche: il loro comportamento manifesto, come ad esempio l’ascoltare discorsi elettorali o concernenti l’attualità politica; la preferenza per un determinato partito politico; le convinzioni personali sui limiti entro i quali il governo deve esercitare il proprio controllo sui cittadini; le opinioni su chi ha più probabilità di avere influenza sulla politica; le convinzioni su quali comportamenti dovrebbe avere un pubblico ufficiale, in particolare un senatore; il giudizio sulle funzioni corrette e gli scopi del governo.
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DOSSIER | Lo zio Sam? È buono come il nonno! L’analisi comparativa dei dati raccolti fra gli studenti appena immatricolati e quelli più anziani ha rivelato che avevamo decisamente sottostimato la portata della maturazione del processo di socializzazione politica fra i bambini piccoli. I ragazzi appena entrati alle superiori, infatti, hanno mostrato opinioni e atteggiamenti specifici verso una vasta gamma di questioni, dimostrando che la formazione delle loro inclinazioni personali verso l’autorità e il governo era in atto già da tempo, pronta ormai a entrare in una fase di pieno consolidamento. Se oltre l’80% degli studenti più grandi ha affermato di essere «interessato» o «molto interessato» (piuttosto che «abbastanza interessato» e «assolutamente non interessato») alla politica e all’attualità, il 75% delle matricole ha risposto in modo simile. In risposata alla domanda: «Quanto dovrebbe essere interessata una persona della tua età alla politica e all’attualità?», il 99% degli anziani ha risposto «interessato» o «molto interessato», di fronte a un corrispettivo 97% delle matricole. Il 76% degli studenti senior, poi, aveva indossato spille a favore di un candidato in qualche elezione, ma è notevole il dato che attesta che quasi il 70% delle matricole aveva fatto la stessa cosa. O ancora, nel rispondere a una domanda su quali debbano essere i limiti del potere del governo, il 76% degli studenti in dirittura di arrivo ritiene che il governo non dovrebbe possedere miniere, foreste e falde di acqua; ma sorprendentemente già il 77% degli studenti del primo anno sostiene la stessa cosa. Sono dati interessanti non in sé, ma perché dimostrano che le risposte dei ragazzi delle classi più avanzate e quelle degli studenti junior seguono in generale un andamento analogo. La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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James Montgomery Flagg, Side-by-Side - Britannia, 1918.
L’immagine parentale del potere In un saggio sull’immaginario contemporaneo (Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999), Jean-Jacques Wunenburger nota che «la rappresentazione moderna del corpo politico oscilla fra due poli, lo Stato e la Nazione, che rimandano a due immaginari diversi, derivati tuttavia dalla medesima simbolica, quella delle immagini parentali, paterna e materna». Lo Stato, come il padre nella tradizionale famiglia patriarcale, governa e legifera; la Nazione esprime il senso storico-biologico della comunità, il suo trasferirsi da una generazione all’altra: non è per caso che quasi ovunque si usi rappresentare la Patria con personificazioni femminili. Diventa così possibile una suggestiva analisi psicanalitica dei moderni Stati-Nazione, analizzando sia le vicende storiche della loro formazione sia il differente peso simbolico attribuito all’uno o all’altro aspetto. Lo studioso analizza i differenti casi degli Stati Uniti, nati da una ribellione verso la madre, l’Inghilterra, e della Francia, costituitasi come Nazione moderna durante la grande rivoluzione attraverso l’attraverso l’atto fondatore dell’uccisione del re. Nulla dice lo studioso riguardo l’immaginario politico degli italiani, anche se la nostra particolare carenza di personificazioni nazionali (l’Italia turrita?) potrebbe suggerire la necessità di un’analisi psicanalitica nazionale.
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DOSSIER Il poliziotto e il presidente Avendo capito che la formazione delle attitudini verso il governo e la politica iniziano ben prima di quando ci aspettassimo, ci siamo dedicati ad analizzare il processo di socializzazione politica nelle scuole elementari. Abbiamo misurato la ricettività precoce dei bambini ai concetti politici somministrando un questionario strutturato a un campione di bambini delle aree urbane bianche della scuola pubblica dalla seconda all’ottava classe di otto città americane: Boston, Portland, Chicago, Sioux City, Jackson, San Francisco, Tacoma e Washington. Abbiamo iniziato con alcune interviste preliminari pensate per esplorare la gamma e la natura dei personaggi politici presenti nel campo cognitivo dei bambini. Queste interviste hanno indicato che due figure erano in primo piano nella concezione del bambino dell’autorità governativa: il poliziotto locale e il presidente degli Stati Uniti. D’altra parte, le stesse interviste hanno anche rivelato la familiarità dei più piccoli con altri simboli dell’identità nazionale, come la bandiera e l’inno, del cui significato dimostrano di avere qualche idea, seppur rudimentale. Una volta compiuta questa indagine preliminare, abbiamo messo a punto tre strumenti di lavoro: un questionario sul presidente degli Stati Uniti, un breve saggio sullo Zio Sam, e un altro sulla domanda «Come posso contribuire a rendere il nostro governo migliore?». Le risposte hanno fornito informazioni su come i bambini concepiscono le figure politiche più importanti del Paese, sulla visione infantile di un simbolo nazionale popolare e su come i piccoli concepiscono il ruolo dei singoli cittadini. Per verificare l’esistenza di cambiamenti connessi
all’età, i dati sono stati raccolti fra gli studenti dalla classe seconda alla ottava classe, cioè dai 7-8 ai 13-14 anni. I risultati rivelano come l’immagine del presidente degli Stati Uniti sia un fattore cruciale nel processo attraverso cui il bambino si rappresenta come membro leale della sua comunità politica. Nelle prime classi la figura del presidente è risultata estremamente positiva. Il 60% dei bambini di seconda elementare lo ha descritto come «la persona migliore del mondo», e il 75% ha accettato la simpatica definizione di uno di loro: “Il presidente ama quasi tutti». Le loro rappresentazioni possono essere divise in due gruppi: il primo include le definizioni concernenti il ruolo formale del presidente, l’altro riguarda una serie di caratteristiche etiche attribuite alla sua persona. A questo riguardo si registra un deciso cambiamento rispetto all’età. Infatti, mentre la visione del presidente nei primi anni delle elementari è caratterizzata da una stima verso sue presunte qualità umane, non necessariamente legate ai compiti istituzionali, come l’onestà e la disponibilità, le risposte fornite dai più grandi hanno invece mostrato un sentimento di benevolenza basato sulle presunte qualità di questa figura politica in rapporto ai doveri di mandato. Lo zio Sam? È come il nonno Abbiamo poi chiesto sia ai bambini delle elementari che ai ragazzi del liceo di scrivere un saggio sulla figura di zio Sam, chiedendo loro di descrivere quale tipo di persona potesse essere. Il modello della risposta è chiaro: un brav’uomo, saggio, gentile e protettivo. Un’immagine basata su quelli che Parsons chiama «componenti espressive»: lo zio Sam
descritto dai ragazzi rimanda infatti più all’immagine di un nonno che a quella più tradizionale di un padre severo. Sono risposte su cui è necessario riflettere. Perché le immagini del presidente e dello Zio Sam sono così benigne e positive? Perché è così rara una visione critica, persino al livello del liceo? Perché così poche sono le espressioni di ambivalenza e di ostilità mostrate da questi giovani interlocutori? Probabilmente il bisogno dei bambini di vedere l’autorità all’insegna delle benevolenza rappresenta un loro modo di affrontare i sentimenti di vulnerabilità verso il potere adulto, inclusa le possibilità d’aggressione e diserzione. Nei suoi primi anni di vita, il bambino considera il genitore come una figura in grado di fornire cura e effetto; allo stesso modo, solo un po’ più tardi, definisce l’autorità politica benigna, garante di giustizia e libertà. Su queste basi, è possibile delineare un modello ideale di sviluppo dell’idea del “bravo cittadino”. All’inizio, il bambino tende a concettualizzarlo come «una persona meritevole di cure». Più tardi lo definisce in termini di obbedienza e capacità di cooperazione. Più oltre ancora ancora lo descrive come un soggetto attivamente partecipe alla vita politica, giungendo solo alla fine alla cruciale distinzione fra istituzione e governo. Per approfondire quest’ultimo punto abbiamo analizzato i saggi compilati in risposta alla domanda: «Cosa posso fare per fare migliorare il governo del mio Paese?». I risultati dimostrano d’essere classificabili secondo tre principali categorie. 1) Le risposte che avevano a che fare con questioni personali non direttamente legate al governo, come queste di bambini di quar-
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DOSSIER | Lo zio Sam? È buono come il nonno! ta elementare: «Essere valutare il grado in felice, dire la verità e cui le aspettative non litigare» e «Posso legate alle cariche aiutare il governo fapolitiche sono state cendo il bravo». realizzate, rendendo 2) Le risposte che mopossibile un senso stravano obbedienza e critico che allo stesso cooperazione con le tempo, se sostenuto richieste della legge da una buona edue del governo, come: cazione familiare, «Non disobbedire le non mina un basilare regole, aiutare a essere senso di comune apcivili, pagare le tasse partenenza. La critiogni anno e non essere ca alle persone, allotestardi» e «Posso essera, riesce a convivere re d’aiuto seguendo le con il rispetto per le leggi del governo». istituzioni. 3) Infine le risposte In breve, quanto che esprimevano la detto dimostra che partecipazione volonil processo di sociataria ai processi polilizzazione politica tici, come: «Votando si basa su un apquando è essenziale prendimento perche lo faccia e inforsonale, non formale mandomi molto di e profondamente più», oppure «Manimbevuto di comdando tutte le mie ponenti affettive, Norman Rockwell, Libertà di parola, illustrazione per la rivista The Saturday Evening Post, 1943. idee al senatore della in cui l’esperienza nostra regione». Il senso è che con Dall’esperienza in questo grupvissuta all’interno delle famiglie il crescere dell’età aumenta il ripo primario il bambino sviluppa mantiene un ruolo essenziale, sia ferimento a un’idea assertiva di un’immagine del genitore ideanella formazione dell’immaginabuona cittadinanza come partecile e alcune nozioni su come ci si rio politico infantile, sia poi nelpazione attiva; un approccio fatto aspetta che un giovane cittadino la trasmissione, attraverso comproprio da almeno due terzi delle si comporti. Il bambino trasfeportamenti concreti, di adeguate classi ottave. risce poi molto presto quest’imnorme di civismo. magine di autorità ideale a figure Non mancano tuttavia implicaLa famiglia e il governo politiche distanti e relativamente zioni utili per l’educazione scolaNonostante questi cambiamenti, poco conosciute. Più avanti ancostica. Risulta chiaro, infatti, come tuttavia, stupisce che in tutte le ra, sempre attraverso l’identificagli anni cruciali per insegnare una classi si mantenga invariato l’aszione con la famiglia, il giovane corretta socializzazione politica sunto che l’autorità governativa matura l’attaccamento a un parsiano quelli iniziali del primo cisia già degna di fiducia e abbia tito politico e la conseguente rapclo elementare, non tanto quelli il diritto di avanzare richieste ai presentazione degli avversari podel liceo. singoli cittadini. Ancora una vollitici come l’opposto dei genitori: ▶ Tratto da: Robert Hess e David ta, come spiegarsi questa visione non sinceri, opportunisti e privi di Easton, The Role of Elementary tendenzialmente benevola verso buon senso. School in Political Socialization, in il governo? Solo alla fine di questo lungo pro“The School Review”, The UniUna risposta può essere che le cesso di apprendimento nasce versity of Chicago Press, Chicago, attitudini verso l’autorità politica l’essenziale capacità di distinguevol.70, n. 3, 1962, pp. 257-265. sono inizialmente mediate dalla re fra l’autorità di un’istituzione e famiglia, il cui ruolo rimane di le caratteristiche personali di chi gran lunga fondamentale nel prol’assume. L’elaborazione di questa cesso di socializzazione politica. differenza consente ai bambini di
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Come nasce il cinismo politico Se le idee politiche dei bambini nascessero per estensione del modello paterno, le condizioni economiche dovrebbero avere scarsa importanza. Ma questa ricerca in un’area depressa degli Stati Uniti dimostra quanto siano complicati i percorsi della socializzazione politica infantile.
▶ Dean Jaros, Herbert Hirsch Frederic Fleron
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orse la scoperta più sorprendente delle ricerche sulla socializzazione politica infantile è che i bambini più piccoli sembrano incredibilmente ben disposti verso le istituzioni e le figure politiche che incrociano il loro sguardo, tendenzialmente considerate potenti, ma anche competenti e al servizio dei cittadini. Le implicazioni di questa teoria sono notevoli, prima fra tutte l’ipotesi che lo sviluppo di questa benevolenza politica in un’età molto precoce potrebbe rappresentare la radice del comportamento politico adulto. Vi è però il pericolo concreto che si tratti di conclusioni legate alla cultura entro cui sono state svolte le indagini: la classe media bianca dell’area industrializzata nordamericana. Pochissimi studi si sono invece concentrati sui valori politici dei bambini in altri Paesi o in sottoculture rurali, etniche o economiche negli Stati Uniti. Se la socializzazione politica è il processo per cui il bambino impara la cultura politica in cui vive, esiste la concreta possibilità che il contenuto di ciò che è socializzato possa variare in maniera significativa da cultura a cultura o da sottocultura a sottocultura. Abbiamo quindi svolto una ricerca sulla socializzazione politica infantile nella regione dell’Appalacchia, nella parte orientale del
Kentucky. È una regione caratterizzata da una vera e propria sottocultura. Prima di tutto, povertà e isolamento la differenziano dalla maggior parte delle altre aree del Paese; in secondo luogo, e di conseguenza, molte norme culturali differiscono radicalmente dagli imperativi standard della classe media nordamericana. La benevolenza politica infantile L’evidenza sperimentale che i bambini maturano da subito una concezione positiva verso la politica può avere per lo meno due spiegazioni. La prima presuppone la famiglia come agente primario di socializzazione: essa trasmette direttamente ai bambini i valori positivi sul governo e allo stesso tempo tende a proteggerli dagli stimoli negativi, come ad esempio le storie sulla corruzione dei politici. Per via della natura complicata delle sue dinamiche famigliari, l’Appalachia è un contesto eccellente per testare la validità di questo approccio. In questa regione, infatti, al contrario della maggior parte del Paese, prevale fra gli adulti un sentimento apertamente antigovernativo. Dal momento che l’ostilità verso l’autorità politica, specialmente federale, ha caratterizzato a lungo la società di quest’area, è molto difficile credere che qui i genitori trasmettano alla prole simboli e immagini
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DOSSIER | Come nasce il cinismo politico positive del sistema politico. Consideriamo invece una seconda spiegazione, ovvero la tesi che la famiglia sia un agente importante di socializzazione non perché i genitori trasmettano attivamente ai bambini specifiche attitudini politiche, ma perché i piccoli proiettano le loro esperienze con le figure a loro più vicine (i genitori) sulle quelle sociali più lontane, inclusi i politici. In questa prospettiva il padre, percepito da ogni bambino del mondo come benevolo e protettivo, diventerebbe la figura prototipica dell’autorità, e il sistema politico una sorta di famiglia su larga scala, particolarmente sacra agli occhi del bambino perché beneficerebbe dello stesso attaccamento emotivo che esiste fra genitori e figli. Anche in questo caso l’Appalachia rappresenta un buon terreno d’analisi. In questa parte del Kentucky, infatti, esiste un altissimo grado di disgregazione familiare. Disoccupati, incapaci di mantenere la famiglia, assenti da casa; spesso i padri, in questa area, rappresentano una figura non prototipica e positiva ma inadeguata e biasimevole. Se fosse vero che anche i bambini apalachi generalizzano la figura paterna o la struttura familiare proiettandola nella sfera politica, probabilmente non svilupperanno un’immagine positiva del governo. Per testare queste ipotesi abbiamo raccolto alcuni dati sulla socializzazione politica nelle scuole pubbliche rurali della contea di Knox, somministrando questionari a penna e analizzando le risposte di 305 studenti delle classi dalla quinta alla dodicesima. Abbiamo misurato il coinvolgimento politico dei bambini in due modi: chiedendo loro di descrivere il presidente degli Stati Uniti e misurando il loro livello di cinismo politico tramite un apposito queLa ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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stionario. La scelta di utilizzare il presidente dipende dal fatto che nella letteratura sulla socializzazione politica infantile egli è in genere descritto come la prima figura politica sulla quale i bambini si focalizzano, e a partire dalla quale generalizzano in seguito le loro impressioni ad altre istituzioni politiche e al governo stesso. Cinismo politico e povertà Per quanto riguarda il cinismo politico abbiamo invece usato come metro di paragone gli studi classici di David Easton e Robert Hess in particolare The Role of Elementary School in Political Socilization. Divenuta ormai un punto di riferimento per tutti gli studi successivi, questa ricerca ha però il forte limite d’essere stata svolta esclusivamente fra bambini appartenenti alla classe media bianca e urbana in un unico periodo
storico. Se non si tiene conto di questa contestualizzazione di classe, le conclusioni rischiano d’essere ideologiche e manipolatorie. Come infatti confermano le valutazioni dell’autorità politica espresse dagli studenti “svantaggiati” cui abbiamo somministrato i nostri questionari, molto meno positive rispetto a quelle dei bambini di Chicago della ricerca di Hess e Easton. Anche se il nostro campione include i bambini dalla quinta alla dodicesima classe e quello di Hess e Easton i ragazzi dalla seconda all’ottava, è possibile fare un confronto usando solo le classi dalla quinta all’ottava. Paragonato alla «maggior parte degli uomini», il presidente non fa un gran figurone nelle risposte dei bambini del Kentucky. Nel complesso, non appare come una figura fondamentale, tanto che un discreto nume-
Norman Rockwell, Il ritorno del veterano, illustrazione per la rivista The Saturday Evening Post, 1953. 54
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DOSSIER ro di giovani (circa un quarto) esprimono apertamente reazioni sfavorevoli nei suoi confronti. Hess e Easton, poi, consideravano l’età come un fattore cruciale, sostenendo che l’opinione molto favorevole dei più piccoli per le qualità personali del presidente diminuirebbe con l’aumentare dell’età, mentre la stima per il suo ruolo istituzionale si stabilizzerebbe o addirittura aumenterebbe con la crescita. La diminuzione dei riferimenti “personali” della rappresentazione non viene così interpretata come una delusione verso l’autorità, ma come la maturazione di un sano realismo politico. I dati della contea di Knox mostrano ben poche di queste tendenze incoraggianti. Anche estendendo l’analisi ai bambini più anziani del campione non si assiste a nessun cambiamento significativo. A dire il vero, i riferimenti personali nell’immagine del Presidente appaiono leggermente meno positivi di quelli dei bambini più piccoli. Solo il 31% degli studenti più grandi delle scuole superiori crede che il presidente ami quasi tutti, mentre un altro 31% pensa addirittura che al presidente piacciano meno persone rispetto alla maggior parte degli uomini. Nessuno studente della classe dodicesima pensa che egli sia la persona migliore del mondo, mentre il 33% ne tratteggia un giudizio negativo. Inoltre, l’alta incidenza di mancate risposte («non so») non si riduce in modo significativo con l’avanzare età. Un livello così alto era prevedibile in una popolazione deprivata e non-sofisticata come quella da noi considerata, ma il fatto che rimanga alta anche tra gli studenti anziani delle scuole superiori (in media il tasso di non risposta è del 27%) fornisce un’ulteriore prova che, politica-
mente parlando, quando i giovani appalachi crescono non succede praticamente nulla, e di certo non si assiste alla formazione di individui dediti all’apprezzamento della cosa pubblica. La positività dei senza padre Infine, il forte contrasto fra questi dati e quelli relativi ad altri bambini americani si accentua ulteriormente se prendiamo in considerazione la classe sociale. È stato spesso osservato che i bambini di classi meno abbienti hanno una maggiore propensione a idealizzare le figure politiche. In parte questo potrebbe essere dovuto al fatto che i bambini meno avvantaggiati sono anche meno politicizzati rispetto a quelli della classe media, avendo sviluppato un minor senso critico e continuando a mostrare un eccesso deferenziale verso l’autorità. È impossibile valutare in modo differenziale come il fattore classe sociale sia all’opera nella società appalachia, perché il campione è nel suo complesso di bassa classe sociale. Tuttavia, per la posizione socio-economica decisamente inferiore rispetto al resto del Paese, i giovani della contea di Knox dovrebbe essere altamente idealizzanti. Ma, come abbiamo visto, i risultati dei nostri studi rivelano l’esatto opposto. Quali proposizioni generali esplicative sul processo di socializzazione emergono da questi dati? Il fattore più interessante è che il livello di coinvolgimento dei bambini verso la politica non dipende da come essi rappresentano i loro padri. Come dire che non c’è alcuna evidenza che la valutazione delle figure autorevoli familiari sia proiettata direttamente sulle figure politiche più distanti. Si potrebbe infatti pensare che la presenza o l’assenza del padre abbia conseguenze politiche per
i bambini. Una casa senza padre è in genere disgregata, e generalmente si pensa che ciò abbia implicazioni negative. Se così fosse, i bambini delle famiglie senza padre dovrebbero avere opinioni meno positive della politica. Ancora una volta i questionari ci rimandato dati sorprendenti e contro-intuitivi. Infatti, ci sono generalmente relazioni negative, da basse a moderate ma certamente significative, fra l’avere un padre a casa e valutare il presidente sotto una luce favorevole. I bambini senza padre, insomma, sono più positivi verso la politica. Una spiegazione plausibile può essere che, piuttosto che dar vita a orientamenti negativi verso l’autorità, l’assenza paterna influisce direttamente sul modo in cui la famiglia trasmette direttamente i valori politici al bambino. Molto probabilmente infatti, se in questo processo viene a mancare un agente importante di trasmissione di idee politiche, il padre, i figli sono più inclini a diventare dipendenti dalle madri. Nel Kentucky orientale queste ultime non sono in genere politicamente coinvolte, con il risultato che i valori politici tipici degli adulti appalachi, che in genere consistono nella valutazione relativamente negativa dell’autorità politica, non sono efficacemente trasmessi agli orfani. I bambini senza padre sono meno vincolati alle attitudini ciniche dei padri e, più influenzati da altri agenti (come ad esempio i media), tendono a sviluppare una valutazione più favorevole verso l’autorità politica.
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▶Tratto
da: D. Jaros, H. Hirsch, F. Fleron, The Malevolent Leader: Political Socialisation in an American Subculture, in “The American Political Science Review”, vol. 62, n. 2, 1968..
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DOSSIER
La selezione meritocratica è formativa?
La St. James Independent_School, Londra.
Prevedendo una selezione molto precoce verso scuole accademiche o professionali, la scuola media inglese è costruita secondo un principio elitario che è già di per sé un potente fattore di formazione politica. L’ingresso nelle scuole accademiche sviluppa, nella maturità, l’idea che si possano superare le differenze sociali; ma il fallimento nei test di ammissione porta alla sfiducia sociale, alla diffidenza nella politica. ▶ Paul Abramson
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L’
educazione è stata oggetto di continue preoccupazioni per la filosofia politica, ma non abbastanza per le scienze politiche. L’educazione, tuttavia, è spesso una questione politica. Il sistema elitario inglese della scuola secondaria ne è un chiaro esempio, poiché concorre a sviluppare negli studenti, i futuri cittadini di domani, precise convinzioni ideologiche sia sull’uguaglianza sociale sia sulla cittadinanza politica. Nonostante le molte ricerche eccellenti, si sa relativamente poco
sul ruolo della scuola secondaria inglese nel contribuire alla formazione degli atteggiamenti sociali e politici di coloro che vengono educati. Per approfondire questo argomento ho utilizzato due fonti: un mio studio basato su interviste a 331 studenti inglesi di 14 e 15 anni che frequentano sia una scuola pubblica, sia tre Grammar Schools (ossia le scuole con un insegnamento di tipo classico e accademico), che tre Secondary Modern Schools (scuole che impartiscono solo un insegnamento di base) e tre Comprehensive
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DOSSIER Schools (ossia le scuole ad insegnamento polivalente). La seconda fonte consiste nell’analisi di un campione casuale di 1.800 ragazzi e ragazze inglesi di 16 anni, 17 e 18 anni della Gallup Youth Survey, una compagnia di consulenza che si occupa di ricerche sulle opinioni, le credenze, e le attività degli studenti americani delle scuole superiori. Scuole elitarie e selezione L’aspetto che più colpisce del sistema inglese, ad esempio rispetto a quello americano, è la maggiore importanza delle scuole private, che in lingua inglese si chiamano curiosamente public schools, o independent schools, per via della loro libertà di operare indipendentemente dal sistema governativo. Le più importanti, 110 in Inghilterra e Galles, sono finanziate in modo indipendente e appartengono alla Headmasters’ Conference, l’associazione dei presidi delle scuole private inglesi. Le più prestigiose sono le nove Clarendon Schools: Charterhouse School, Eton College, Harrow School, Merchant Taylors’ School, Rugby School, Shrewsbury School, St Paul’s School, Westminster School and Winchester College. Si sa che i leader politici inglesi vengono spesso reclutati in queste scuole, in particolare nella Clarendon School. Nel comparto statale dell’educazione colpisce invece l’età precoce con cui i bambini con livelli di abilità diversi sono separati in differenti tipi di indirizzi. Il modello base dell’educazione inglese comporta, infatti, una separazione dei ragazzi a undici anni in istituti umanistici o professionali. Fino a poco tempo fa, la selezione avveniva sulla base dell’Eleven plus, un questionario stabilito a livello nazionale introdotto a partire dalla riforma del 1944 e via
via diventato sempre più simile ai test usati in psicologia per misurare il QI (quoziente di intelligenza), comprendendo quasi esclusivamente questioni di logica, matematica, problem solving e comprensione linguistica. In molte aree del Paese, il test è stato soppiantato da altri tipi di prova, la cui funzione selettiva rimane comunque identica. Va poi sottolineato che negli ultimi anni si è assistito a un crescente spostamento di ragazzi verso le scuole comprensive, ossia quelle che includono i bambini con tutti i livelli di abilità e offrono un’istruzione sia di tipo accademico che professionale. Nonostante questi cambiamenti, tuttavia, la strutturale inadeguatezza dei fondi statali diretti verso le scuole comprensive non porterà presumibilmente a grandi cambiamenti nel sistema didattico inglese. Il principio del raggruppamento degli studenti sulla base delle loro abilità sembra destinato a persistere. Tanto che oggi è più rigido e più diffuso dell’analogo metodo americano. Destini decisi a undici anni Non è possibile stabilire in maniera certa in che misura l’educazione giochi un ruolo cruciale nella socializzazione politica, anche se studi recenti, per la verità relativi soprattutto al contesto americano, suggeriscono che la scuola abbia un’importanza maggiore rispetto al passato. Qualunque sia il loro ruolo, è tuttavia possibile analizzare i modi in cui i sistemi educativi influenzano il processo di socializzazione. Quello principale consiste nell’orientare le attitudini politiche attraverso la loro stretta relazione con il sistema di stratificazione sociale. Si tratta di una relazione riconosciuta da tempo: una serie di studi infatti hanno dimostrato
la relazione tra la selezione operata dai test tipo Eleven Plus e la classe sociale di appartenenza. Il Youth Survey Gallup fornisce a questo proposito molti dati interessanti. Tra i giovani inglesi nati da genitori con una professione non manuale, il 41% frequenta le scuole accademiche e il 50% gli istituti professionali, mentre tra i figli di operai solo il 19% ha frequentato le scuole accademiche, contro uno schiacciante 74% finito alle professionali. L’indagine Gallup dimostra poi una forte relazione tra la selezione educativa e la mobilità sociale. Infatti, indipendentemente dalle loro origini sociali, gli studenti delle scuole accademiche hanno maggiori probabilità d’essere impiegati in lavori non manuali. Ma il sondaggio offre anche una spiegazione anti-intuitiva e per certi versi sorprendente di questo fatto, dimostrando che non è l’istruzione selettiva di per sé a determinare la mobilità sociale, quanto l’alta possibilità che l’educazione accademica fornisce d’ottenere una certificazione GCE, General Certificate of Education. Somministrato da commissioni d’esame autonome che si attengono a criteri nazionali, questo test, introdotto dal 1951 in tutto il Commonwealth, è proposto alla fine dell’istruzione secondaria, di solito all’età di 16 anni, ed è basato su materie diverse, a seconda delle capacità del singolo studente. Il superamento di quest’esame permette l’accesso a determinati impieghi e all’iscrizione ai corsi professionali superiori. Tra i ragazzi con origini umili che hanno frequentato la scuola accademica senza ottenere alla fine il certificato GCE, solo il 29% ha trovato lavori non manuali, mentre tra coloro che avevano conseguito almeno il livello base GCE, il 54% ha trovato lavori non ma-
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DOSSIER | La selezione meritocratica è formativa? nuali. Anche il mio studio supporta questi risultati, confermando così come la selezione educativa sia fortemente correlata alle aspirazioni di carriera. Infatti, i ragazzi scartati dalle scuole accademiche, sia quelli provenienti da una classe sociale minore sia i figli della classe media, si aspettano di trovare lavori manuali, anche se i figli della classe media nutrono comunque maggiori speranze d’imbattersi in un’occupazione non manuale dei loro coetanei più svantaggiati. Tuttavia, dal momento che tutti, indistintamente, i ragazzi che ho intervistato mentre ancora stavano studiando in scuole accademiche hanno dichiarato di aspettarsi un posto di lavoro tipico della classe media, ci si può chiedere se lo sviluppo di atteggiamenti rinunciatari dopo la bocciatura al GCE siano dovuti a un processo che il sociologo Ralph Turner definisce di «socializzazione anticipata», ossia da un meccanismo per cui gli individui assumono i valori dei gruppi a cui aspirano. Turner sostiene che il sistema inglese si avvicina a quello che definisce un «modello di sponsorizzazione»: le persone non selezionate nelle scuole accademiche abbassano le loro aspirazioni occupazionali a un livello “realistico” scartando le aspirazioni più alte, che rappresentano come fantasiose. Inoltre, sostiene il sociologo, la mancata selezione insegna alle masse a considerare se stesse come relativamente incapaci di gestire la società, limitando il loro accesso alla sfera della politica pubblica, che rimane così monopolio delle élite. In termini ideologici, quindi, la sconfitta ai test scolastici all’interno di un sistema di sponsorizzazione contribuisce a un basso senso di efficacia politica e una diversa attitudine verso la leadership politica. La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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Premiare il rendimento Anche se, come riconosce lo stesso Turner, il sistema educativo inglese non si adatta al modello della “sponsorizzazione” da molti punti di vista, il suo articolo suggerisce alcune considerazioni. In Inghilterra, il criterio del sistema statale è stato, a partire dalla legge sull’istruzione del 1944, la capacità, o, per essere più precisi, la misurazione delle abilità. Certamente la selezione sociale sulla base della capacità, può, come Platone ha sostenuto nella Repubblica con un linguaggio poetico, servire per legittimare la distribuzione dei ruoli in un sistema di stratificazione sociale. D’altra parte, però, come suggerisce il sociologo dell’educazione Basil Bernstein, le istituzioni educative inglesi legittimano la disuguaglianza sociale al costo di fare maturare un senso di fallimento individuale nei singoli studenti. Questo senso di sconfitta, sostiene lo studioso, può portare a «una perdita del rispetto di sé, che a sua volta modifica le attitudini dell’individuo sia verso il suo gruppo sia verso le richieste che la società ha nei suoi confronti». Le interviste che ho condotto sembrano dimostrare che il principale strumento di selezione educativa, l’esame Eleven-plus è considerato non legittimo dagli stessi ragazzi. La maggior parte degli intervistati lo disapprova e, come era prevedibile, gli studenti delle scuole non accademiche, soprattutto quelli della classe media, lo hanno duramente criticato. Sorprendentemente invece, l’assegnazione dei posti di lavoro sulla base delle performances al GCE, la certificazione esterna, è considerata equa. Anche se non ho chiesto ai ragazzi le loro opinioni sul questo test, gli insegnanti delle scuole che ho visitato, pur critici verso alcuni degli effetti educati-
L’uniforme del Dulwich College, Londra.
vi degli esami svolti da commissioni esterne alla scuola, non hanno mai messo in discussione la sua correttezza come pre-condizionie per trovare lavoro. Tutti, piuttosto, sembrano convinti che sarebbe ingiusto avere un sistema sociale che non premi il buon rendimento scolastico. Persino i bambini più piccoli hanno affermato la stessa convinzione nelle discussioni in classe. È possibile che la scomparsa del test Eleven plus già in atto e lo spostamento verso l’educazione comprensiva aumenterà il ruolo del sistema educativo come fattore di leggittimazione del sistema di stratificazione sociale, in quanto l’assegnazione di posti di lavoro si baserà sempre di più sulle prestazioni GCE, considerate come un premio per la capacità e il duro lavoro degli studenti.
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DOSSIER Modelli disciplinari differenti Anche il modello di disciplina all’interno delle scuole può avere effetti sulle future inclinazioni politiche. Anche se ci sono molte variazioni da scuola a scuola, la mia osservazione di 15 istituti inglesi suggerisce che i ragazzi nelle scuole private e nelle scuole accademiche, in particolare nelle classi più avanzate, sono soggetti a una maggiore libertà rispetto agli altri e ci si aspetta da loro che assumano ruoli di leadership all’interno delle scuole. I ragazzi non selezionati, invece, specialmente quelli nei gruppi di abilità scolastiche più bassi, sono soggetti a una disciplina molto più dura. La teoria di Eckstein della «democrazia stabile» è qui particolarmente rilevante. Egli sostiene che il sistema educativo, fornendo opportunità per i ragazzi delle classi superiori di assumere posizioni di leadership all’interno delle scuole, contribuisce alla loro socializzazione in ruoli di leader politici. In maniera molto simile lo storico Rupert Wilkinson ha suggerito che i modelli di autorità nelle scuole vittoriane private fossero del tutto paralleli alle cariche reali del mondo politico, e che costituissero uno strumento di socializzazione dei ragazzi delle scuole private per i loro futuri ruoli di leader. Dall’altra parte, sempre Eckstein suggerisce che i bambini delle scuole non accademiche statali sono sottoposti a modelli di autorità che corrispondono al ruolo non partecipativo che essi saranno chiamati a svolgere, una volta cresciuti, nella vita politica quotidiana. Ma i sistemi educativi sono anche, in un senso più evidente, trasmettitori di valori sociali e politici. In Inghilterra, questi valori sono costantemente sottolineati attraverso l’enfasi sulle valutazioni esterne, anche se queste pressioni sono
più deboli negli istituti professionali. Inoltre, in diretto contrasto con le scuole americane, l’educazione religiosa è insegnata per legge, e le lezioni di religione sono usate per veicolare valori sociali. Educazione civica per leader C’è relativamente poca enfasi nelle scuole inglesi sulla formazione civica palese. Dei cinque paesi studiati da Almond e Verba, per esempio, la Gran Bretagna è l’unico nel quale la maggioranza degli intervistati ha valutato negativamente il tempo speso a scuola per studiare l’attualità o il funzionamento del governo. Tuttavia, la storia è una materia di studio molto importante, tanto che si potrebbe argomentare che lo studio della tradizione è una vera e propria sotto-specie di educazione civica. Inoltre la mia osservazione delle scuole inglesi indica che, nonostante l’educazione civica non appaia nel curriculum, la politica e il funzionamento delle istituzioni possono essere oggetti di discussione in molte materie, come inglese, geografia o religione. Comunque, in confronto agli Stati Uniti, in Inghilterra relativamente poco si fa per instillare negli studenti sentimenti di patriottismo. Naturalmente ci sono notevoli differenze fra tipi di scuole diversi. Considerando che gli insegnanti danno per scontato che i ragazzi della scuola privata e della scuola accademica siano i futuri leader del Paese, gli istituti privati sono più propensi a impartire corsi di educazione civica e a fornire occasioni di confronto informale sulla politica. D’altra parte all’interno del sistema scolastico statale, in cui le pressioni esterne degli esami sono minori, è possibile che si affrontino questioni legate all’attualità. Nonostante ciò negli istituti professionali ai ragazzi
viene insegnato in modo sottile ad accettar di non avere in futuro ruoli partecipativi nella politica. In sintesi, il sistema educativo inglese rappresenta sia un’opportunità di mobilità sociale sia un modo per riaffermare la divisione di classe. All’interno di ogni classe sociale, ma soprattutto nella classe media, i ragazzi non selezionati nelle scuole accademiche sono meno inclini a esprimere l’orgoglio verso le istituzioni politiche o la storia inglesi e si dimostrano in generale meno interessati alla politica. Il principio di selezione precoce dei ragazzi, basato su una misurazione delle competenze individuali, contribuisce alla loro elaborazione di uno scarso senso dell’efficacia politica.
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▶ Tratto da: P. Abramson, The Dif-
ferential Political Socialization of English Secondary School Students, in “Sociology of Education”, Vol. 40, n. 3, 1967.
APPROFONDIRE
•
G. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, New Jersey, 1963.
•
B. Bernstein, Some Sociological Determinants of Perception: An Enquiry into Sub-Cultural Differences, in “British Journal of Sociology”, IX, ii, 1958.
•
H. Eckstein, Division and Cohesion in Democracy: A Study of Norway, Princeton University Press, New Jersey, 1966.
•
R. Turner, Sponsored and Contest Mobility and the School System, Free Press, New York, 1961.
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R. Wilkinson, The Prefects: British Leadership and the Public School Tradition, Oxford University Press, Londra, 1964.
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SCUOLA
DSA: la voce dei ragazzi
Come qualsiasi altro disturbo specifico dell’apprendimento, anche la dislessia si può manifestare in molti modi e con diversi livelli di gravità. Ogni ragazzo con DSA ha quindi una storia propria, diversa dalle altre. Ci raccontano la loro Vittoria e Filippo, due combattivi giovani dislessici.
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iamo due ragazzi dislessici di 18 e 19 anni con due esperienze piuttosto differenti. Ci chiamiamo Vittoria e Filippo, veniamo entrambi da un liceo scientifico e, dopo molte difficoltà, siamo arrivati in fondo al nostro percorso scolastico. Abbiamo deciso di raccontare la nostra esperienza perché crediamo sia utile conoscere la diretta esperienza di chi, come noi, ha vissuto sulla propria pelle l’essere un alunno DSA nella scuola italiana d’oggi. Per farlo, abbiamo scelto di raccontare l’uno l’esperienza dell’altro. L’esperienza di Filippo Filippo seppe di essere dislessico quando frequentava la terza elementare. Se ne accorse la sua insegnate d’italiano, poiché vedeva che il bambino aveva difficoltà nel leggere e nello scrivere, facendo gli errori tipici di chi ha un DSA, come l’inversione di particolari lettere (p-b, f-v, m-n, b-d), omissioni o lettura di una parola per un’altra con la medesima iniziale. La famiglia, quindi, decise di portarlo da una logopedista, che lo ha seguito fino alla terza media, facendogli eseguire esercizi volti a migliorare la coordinazione motoria, dettati mirati a migliorare l’ortografia e specifici esercizi di lettura: da parole cor-
▶ Vittoria Hayun, Filippo Gerli
Take_a_picture_with_a_proud_dyslexic, manifestazione a New York, 2011. La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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SCUOLA te ad altre sempre più lunghe e complesse, fino a “stringhe” di lettere prive di significato che lo costringevano a leggere esattamente quello che c’era scritto, senza tirare ad indovinare. Alla scuola primaria Filippo non aveva ancora ben capito cosa significasse essere dislessico, ma con il tempo, a mano a mano che il divario nei confronti dei suoi compagni aumentava, iniziò a porsi domande e a non capire perché lui era più lento in tutto e si affaticava di più rispetto agli altri. In seguito ha imparato a capire che cosa significhi essere dislessico, e, improvvisamente, ha sentito che la differenza tra lui e i coetanei era diventata una voragine. A quel punto, come molto spesso accade ai bambini dislessici, ha cominciato a sentirsi diverso cercando in ogni modo un segnale che confermasse il contrario. Il rapporto con i suoi compagni è sempre stato buono, poiché fino all’inizio della prima liceo ha cercato in ogni modo di nascondere, oltre che a se stesso, anche a loro questa sua caratteristica. L’argomento dislessia era tabù, e tutte le volte che saltava fuori, anche in famiglia, Filippo provava un senso di vergogna incredibile, che lo portava a chiudersi in se stesso, deviando la conversazione fino a rifiutare il rapporto con gli altri. Una volta entrato al liceo le cose si sono complicate: il carico di studio era maggiore e sempre più spesso si ritrovava a studiare anche di sera oltre che durante il giorno. Il primo anno comunque, dopo tanta fatica, si concluse senza debiti, anche se a quel punto i suoi genitori lo sollecitarono a farsi certificare. E così, nonostante non ne avesse alcuna intenzione, a causa del suo orgoglio, dovette iniziare il percorso certificazione ufficiale: ASL, équipe,
esami e prove. Questo è stato per Filippo un momento cruciale. Vedere scritto nero su bianco la propria condizione di dislessico gli ha fatto prendere coscienza delle sue caratteristiche, e ciò lo ha aiutato ad accettare meglio le sue difficoltà. Decise così di parlarne apertamente ai compagni di classe (come mai aveva fatto in precedenza) e a tutti gli insegnanti, ottenendo da tutti (fortunatamente per lui) immediata e totale comprensione, senza che tale confessione gli procurasse alcun genere di disagio. Un aiuto fondamentale è arrivato dall’insegnate d’inglese, comune a me e a Filippo, che ci ha messo in contatto l’uno con l’altra, pur essendo in classi diverse, e ci ha sempre spronati ad andare avanti senza abbatterci mai, nemmeno di fronte a cattivi risultati. Io e Filippo ci siamo così messi al lavoro per diffondere l’informazione sulla dislessia e, più in generale, per far conoscere il problema. Nei momenti più difficili ci siamo spalleggiati a vicenda e aiutati come potevamo. Una volta trovato il metodo di studio più adatto, Filippo ha concluso bene la quinta liceo scientifico e ha superato l’esame di maturità con un ottimo risultato (95/100), usando gli strumenti compensativi previsti dalla legge n. 170 Maggiori difficoltà ha avuto invece nell’impatto con l’università. Il suo desiderio di iscriversi a medicina si è scontrato con la barrie-
T-Shirt dell’orgoglio dislessico.
ra di quei test d’ammissione che Filippo non esita a definire «tremendi». Le domande a risposta multipla, che si presentavano con una forma testuale complessa, lo hanno messo in grave difficoltà nonostante avesse studiato buona parte dell’estate. Così Filippo ha dovuto ripiegare sulla scelta di iscriversi a farmacia, dove ha incontrato – anche qui – difficoltà d’ordine didattico e burocratico. Infatti, la facoltà di Scienze farmaceutiche applicate di Firenze (frequentata da Filippo) non riconosce nel proprio statuto l’uso di strumenti compensativi per discenti con DSA e, quindi, gli è stato detto di prendere contatto con ogni singolo docente, per addivenire a un PDP, ossia un piano di studio personalizzato. Per il momento, Filippo non se l’è sentita di affrontare faccia a faccia, come matricola, docenti che neppure conosce per nome. Pertanto, mettendo a frutto la caparbietà che lo contraddistingue, si impegna con grande intensità nella preparazione degli esami della prima sessione. Intanto, conserva nel cassetto il sogno di diventare medico e di potere, anche con la propria esperienza personale, aiutare gli altri a superare ogni genere di difficoltà, fisica e psicologica. Un grande “in bocca al lupo”, Filippo: te lo meriti davvero. La storia di Vittoria Vittoria ha scoperto d’essere dislessica all’età di 15 anni, in piena adolescenza, mentre frequentava la seconda liceo scientifico. I dubbi, in verità, erano sorti in lei e in famiglia molti anni prima. Alla scuola elementare, quando leggeva o scriveva, i genitori notavano una forte difficoltà, anche nel confronto con i coetanei. Dei suoi temi veniva spesso elogiato il contenuto, ma l’ortografia rima-
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SCUOLA | DSA: la voce dei ragazzi
Successi dislessici La dislessia non ha impedito a molti personaggi famosi, del passato e del presente, di raggiungere l’eccellenza nella loro professione. Fra i pittori, ad esempio, Pablo Picasso superò la quinta elementare con difficoltà, e forse non per caso inaugurò il lettering pittorico inglobando nelle sue composizioni cubiste lettere isolate, fluttuanti e senza senso. La lista include quasi ogni tipo di professione, dai geniali inventori, come Thomas Edison, Albert Einstein o Walt Disney, sino agli scrittori come Gustave Flaubert, Agatha Christie, Edgar Allan Poe, Ernest Hemingway e Victor Hugo. Oggi, molti dislessici di successo hanno pubblicamente raccontato la loro esperienza, da Steven Spielberg a Jack Nicholson, da Bill Gates a Tom Cruise. Nel 2002, la rivista americana di cultura economica “Fortune” ha pubblicato una lista di grandi imprenditori dislessici, chiedendosi se il loro successo sia stato ottenuto nonostante i loro specifici disturbi oppure grazie a essi.
neva molto carente. Per riuscire a imparare quando ci vuole e non ci vuole la h, nell’ha verbo o nell’a preposizione, ha dovuto costruirsi un suo personale ragionamento senza potersi affidare a un automatismo come accade agli altri bambini. In quarta elementare, la madre di Vittoria si era decisa a parlare con le maestre dei suoi dubbi, ma queste la rispedirono a casa dicendole che la figlia non era affatto dislessica, solo pigra, piuttosto, distratta e un po’ svogliata, mentre lei era una madre eccessivamente ansiosa. Questa è una reazione piuttosto frequente da parte degli insegnanti, tanto che tutti i ragazzi dislessici con cui siamo in contatto l’hanno sperimentata su di sé, prima o poi. Invece, in tutti i convegni a cui partecipiamo viene ripetuto con insistenza che il bambino con un disturbo dell’apprendimento non è né malato né diverso. Presenta un difetto neurobiologico che crea in lui questa particolare “caratteristica”, i cui limiti possono essere recuperati anche nei casi di disturbo grave, con gli ausili giusti, una diagnosi e una certificazione precoci, tali da aiutarlo fin da subito ad accettare il problema rendendosi conto di non essere affatto “scemo” come dicono i compagni. Un bambino con un disturbo anche lieve, invece, se non riconosciuto in tempo, può incappare in problemi psicologici anche gravi e sviluppare
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una forte insicurezza. Tornando a Vittoria, quando si è avventurata alle medie i problemi si sono evidenziati in maniera più massiccia. Mentre prima riusciva comunque a ottenere giudizi tra il buono e il distinto, talvolta anche qualche ottimo, e non aveva mai preso in pagella neanche un sufficiente e un insufficiente, con l’arrivo alle medie la situazione era precipitata. La docente di lingua inglese pretendeva da lei tantissimo, soprattutto nello scritto, senza rendersi conto di quanto mettesse così in difficoltà Veronica, con se stessa e i suoi compagni. Spesso, nei compiti scritti, pur avendo studiato tantissimo, prendeva l’insufficienza perché invertiva sillabe o vocali. Vittoria ha quindi imparato a memoria come si scrivevano le parole, con il risultato che ora ha il terrore ad aprire bocca in inglese perché è consapevole della sua pessima pronuncia. Le si è formato una sorta di blocco, che sta cercando di superare con molta fatica, grazie all’aiuto di alcuni amici madrelingua. Mi ha raccontato che qualche volta era costretta a leggere qualche piccolo brano ad alta voce in classe e si ricorda dei compagni che ridevano e sghignazzavano per come lei leggeva. Un giorno, durante un’interrogazione in italiano su Dante, per la quale si era preparata a fondo, senza però riuscire a leggere in modo fluido il testo, anche se aveva preso un voto sufficiente, tornata al banco si sentì male a causa dello stress. Gli insegnanti volevano rimandarla a casa convinti che fosse influenza, ma lei si rifiutò perché sapeva bene che l’influenza non c’entrava niente. E così Vittoria passò interi pomeriggi in lacrime, perché non riusciva a memorizzare le poesie o perché vedeva gli altri molto più
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SCUOLA bravi e sognava che un giorno anche lei sarebbe diventata la prima della classe in qualcosa: quella a cui i compagni chiedono i compiti o che gli insegnanti mandano in giro per la scuola, tanto è brava. Alla fine delle medie, Vittoria era indecisa nella scelta della scuola superiore fra tre possibilità: liceo classico, liceo scientifico, istituto alberghiero. Gli insegnati le dissero che non era in grado di frequentare un liceo. Quindi si stava arrendendo, ma i genitori e l’insegnante di storia e geografia delle elementari le dissero di non fidarsi e di scegliere quello che le sembrava più adatto. E poiché il suo sogno di sempre era quello di indossare il camice del medico, decise per lo scientifico. All’inizio del primo anno, però, ebbe non poche difficoltà ritrovandosi a fine trimestre con ben cinque materie insufficienti, costretta talvolta anche a nascondere i brutti voti ai genitori. Ad aprile, finalmente, la professoressa d’inglese si accorse delle sue difficoltà e le comunicò i suoi sospetti. A questo punto, quando Vittoria riferì alla madre ciò che aveva detto l’insegnante, iniziò immediatamente l’iter consueto: fu prima precertificata da un neuropsichiatra della ASL e poi, a luglio, in prossimità del suo compleanno, ufficialmente certificata. Da questo momento in poi, se le cose migliorarono dal punto di vista del profitto, peggiorarono, e non poco, nel rapporto con i compagni di classe. Fino ad allora Vittoria era stata considerata da loro una “sfigata”; ora invece, all’improvviso, la vedevano in condizione di “privilegiata”perché poteva usufruire degli aiuti compensativi previsti dalla legge n. 170. Così, invece di sostenerla ed aiutarla nelle sue difficoltà, iniziarono a prenderla in giro con battute poco gradevoli, realizzando perfi-
no cori “da stadio” sulla dislessia. In conseguenza di ciò e a seguito di una forte influenza, Vittoria ha iniziato a non riprendersi. Ci fu un periodo in cui veniva portata con una certa regolarità al pronto soccorso, in cui le veniva diagnosticata la difficoltà del suo corpo a riprendersi del tutto, quasi un auto-rifiuto. Alla fine, grazie anche al sostegno di nuovi amici, Vittoria riuscì ad arrivare in fondo alla seconda liceo senza debiti. In terza, tuttavia, le difficoltà, seppur un po’ diminuite, non erano certo cessate. Come strumento d’autodifesa Vittoria decise quindi di buttarsi nella politica scolastica attiva, per
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potere relazionarsi con amici all’interno della scuola, più grandi di lei, in modo da sentirsi un po’ protetta. Iniziò così il suo impegno all’interno del Consiglio scolastico provinciale. Poi, alla fine della terza, l’insegnante d’inglese le disse di venire a conoscermi, in quanto anche io ero dislessico. Ricordo che quel giorno un po’ timorosa, accompagnata da un’amica e un conoscente comune a far da tramite, si è affacciata alla porta della VC e abbiamo iniziato così il nostro percorso d’auto-aiuto. Nonostante l’antipatia iniziale, oggi siamo una “squadra” e abbiamo ottenuto tanti successi, tra cui l’organizzazione di un convegno cittadino sui DSA, al quale hanno parteci-
pato più di un migliaio di alunni e insegnanti, e la fondazione di un’associazione di giovani dislessici chiamata Pillole di parole. Ora Vittoria è in V e si prepara ad affrontare il tanto temuto esame di Stato. Si può fare anche così A conclusione di questa testimonianza vorremmo dire che sicuramente non è un percorso facile quello del ragazzo DSA nella scuola italiana, ma è fattibile. Si può fare; non bisogna buttarsi giù, ma darsi obbiettivi precisi e realizzabili, facendosi forza per raggiungerli. Non importa quanto ci vorrà, ma l’obbiettivo va raggiunto. È molto importante che un ragazzo dislessico si appassioni alla lettura, ma non deve essere il risultato di un obbligo. Deve contare di più l’amore per il libro, il gusto per l’odore che questo ha, la soddisfazione del finirlo. È importante l’uso delle mappe concettuali che però ognuno può usare in maniera differente. Sono importanti gli strumenti compensativi e dispensativi, quando sono accettati naturalmente e senza “sensi di colpa” sia dagli insegnanti sia dal ragazzo stesso. È importante non essere mai mortificati, ma anzi spronati a dare il meglio di sé, entro i limiti massimi delle proprie possibilità. Ma soprattutto è importante il diritto allo studio, garantito anche dall’articolo 34 della Costituzione, di cui, come cittadini italiani, siamo fieri.
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▶ Vittoria Hayun e Filippo Gerli
hanno frequentato il Liceo scientifico Castelnuovo di Firenze. Sono stati attivi promotori della “Giornata sulla dislessia”, primo convegno sul tema organizzato da ragazzi, tenutosi a Firenze il 6 giugno 2012.
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Capovolgere l’insegnamento?
Spesso l’idea di flipped Classroom è illustrata con la foto capovolta di una classe.
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Il flipped learning, ossia l’insegnamento capovolto, e il flipped Classroom model stanno rivoluzionando, soprattutto negli USA, il sistema scolastico. ▶ Ugo Avalle
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l flipped learning consiste in una modalità di insegnamento, supportata da tecnologie, in cui si invertono i tempi e i modi di lavoro sia dei docenti sia degli alunni. Le origini del Flipped Class Movement possono farsi risalire ai primi anni del 2000, con le esperienze di inverted classroom nell’insegnamento delle scienze economiche. Nel 2007 Jon Bergmann ed Aaron Sams iniziarono a registrare, distribuire e usare secondo questa metodologia le loro lezioni di chimica alla Woodland Park High School in Woodland pubblicando le loro lezioni on-line per gli studenti che non erano presenti in classe. A seguito di questa iniziativa altri insegnanti hanno seguito il loro esempio e hanno iniziato a
usare video on-line e podcast per tutti gli studenti. Sempre in questo istituto si è tenuto nel corso del 2011 la prima Flipped Class Conference ed è prossima la seconda edizione. Nel corso del 2009 nel distretto scolastico di Byron vicino a Rochester nel Minnesota, le scuole si trovarono a fronteggiare una gravissima crisi economica che indusse alcuni docenti di matematica a svolgere la loro funzione senza far uso dei libri di testo (che non potevano essere acquistati) e di costruire risorse on-line. Fu un’innovazione sorprendente anche se quegli insegnanti non avevano sentito parlare ancora di flipped learning. È sulla base di tale esperienza che sono stati compilati i seguenti 10 punti:
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SCUOLA 1. Gli studenti possono procedere al loro passo. 2. Fare i compiti in classe dà all’insegnante l’esatta percezione delle difficoltà degli studenti e dei diversi stili di apprendimento. 3. Gli insegnanti possono adattare e aggiornare il curricolo e fornirlo agli studenti 24 ore al giorno sette giorni la settimana. 4. Gli studenti possono usufruire delle competenze e degli stili di insegnamento di più insegnanti della stessa disciplina. 5. Gli insegnanti migliorano la loro professionalità osservando i video dei colleghi e imparando gli uni dagli altri. 6. Il tempo in classe è usato in modo più efficace e creativo rispetto allo schema tradizionale. 7. I genitori hanno una “finestra” sui corsi. 8. I risultati degli studenti migliorano, e cresce l’interesse e l’impegno verso la matematica di livello superiore. 9. Le teorie dell’apprendimento sostengono questi nuovi approcci. 10. L’uso della tecnologia è flessibile e appropriato per l’apprendimento del XXI secolo. A fronte dell’insegnante che “fa lezione”, che presenta dei contenuti sui quali gli alunni devono esercitarsi a casa, si ha l’insegnante che sceglie, fissa i contenuti che gli alunni studiano a casa, si scambiano le loro impressioni in rete e poi, in classe, chiedono chiarimenti all’insegnante: “capovolto” risulta, pertanto, il normale schema di lavoro. L’alunno studia a casa guardando dei video, consultando i materiali messi in rete dall’insegnante, adoperandoli più volte fino a quando i concetti non sono sufficientemente chiari.
Studiare a casa, riflettere a scuola Grazie a Internet le risorse vengono messe a disposizione degli studenti che possono studiarli o, a seconda del tipo di materiali, impiegarli anche in maniera attiva e cooperativa. Gli studenti visualizzano i video creati anche dai loro insegnanti, le risorse multimediali, i libri o e-book (che siano in grado di trattare adeguatamente ed esaustivamente i contenuti), discutono su di essi attraverso forum e in classe approfondiscono i contenuti sotto la guida esperta dell’insegnante. Anche i genitori possono seguire i video prodotti ed essere partecipi del processo educativo e contribuire a rafforzare l’apprendimento a casa. A seguito di questo nuovo approccio al processo di insegnamento-apprendimento, la titolarità e la responsabilità dell’apprendimento passano dall’insegnante all’allievo. La lezione frontale non
va demonizzata poiché continua, in alcuni casi, a essere uno strumento prezioso per gli insegnanti; per mezzo della flipped classroom si sposta questo strumento in un differente momento rispetto alla tradizionale lezione in aula. Avviene un “trasferimento” (in genere per mezzo di tecnologie come il podcasting o lo screencasting), di contenuti al di fuori dell’aula al fine di avere maggior tempo a disposizione in classe per interagire con gli alunni. L’insegnante troverà (almeno dal punto di vista teorico) un gruppo di studenti già preparato al quale proporre esercitazioni, compiti, attività di approfondimento ecc. Tutto questo cambia sia il ruolo del docente – che da esperto disciplinare e artefice della trasmissione dei contenuti diviene guida, sostegno alla costruzione della conoscenza negli allievi – sia il ruolo dello studente.
EDMODO
Un’interessante iniziativa da segnalare è TEDed, la sezione educativa di TED (Tecnologie Educative Distribuite), che propone risorse appositamente pensate per la flipped classroom. Un prodotto simile è Edmodo, pensato per creare una comunità fra docenti, alunni, genitori e realizzare percorsi di apprendimento aggregando risorse e gestendo processi di interazione e di valutazione in modo semplice ed efficace.
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SCUOLA | Capovolgere l’insegnamento? cative per l’apprendimento, come i processi di elaborazione personale, il confronto, la discussione e la negoziazione con gli altri. In tal modo il tempo-docente viene utilizzato per la fase di lavoro
La copertina della rivista Forbes dedicata a Salman Khan, novembre 2012.
È poco utile dedicare il tempo che si trascorre a scuola a interventi che consistono nella trasmissione dei contenuti delle singole discipline, mentre diviene costruttivo utilizzarlo per attività più signifi-
Il dibattito sull’inefficienza dell’educazione Nel 2006 Salman Khan, analista finanziario, iniziò a pubblicare su YouTube video-lezioni di matematica per i suoi cugini che stavano in un’altra città degli Stati Uniti. Fu così che lasciò il lavoro per aprire un’organizzazione no profit la Kahn Academy, che pubblica videolezioni gratuite. Sul dibattito suscitato dal tema delle flipped classroom è interessante anche il documento di Kathleen P. Fulton, 10 Reasons to flip, nella prestigiosa rivista americana “Phi Delta Kappan”, ottobre 2012, in Atti del seminario residenziale dell’AD: Il fascino indiscreto dell’innovazione, Lecce, 29 agosto -1 settembre 2012.
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probabilmente più critica: l’esemplificazione delle attività, i chiarimenti, il supporto alla comprensione individuale. L’insegnante valuta continuamente il lavoro dei singoli e dei gruppi, premia la creatività più dell’apprendimento mnemonico, evita l’isolamento degli alunni demotivati o meno capaci e valorizza le capacità delle eccellenze: in una parola personalizza l’apprendimento. Come afferma Graziano Cecchinato, ricercatore dell’Università di Padova che assieme Giovanni Bonaiuti dell’Università di Cagliari sta approfondendo questo modello, «Con la flipped classroom si possono facilmente individualizzare i percorsi di studio con una maggiore flessibilità nei tempi, costituendo gruppi di lavoro che possano meglio stimolare i partecipanti, affrontando anche materiali e argomenti diversi». Questa nuova proposta metodologico-didattica ha dato origine a un dibattito tra favorevoli e contrari: i primi ritengono che occorra chiarire bene gli aspetti qualificanti della nuova proposta e affermano che una flipped classroom non va confusa con un video on-line o un insegnamento a distanza. I secondi ritengono che vi sia dispersività, complessità nella realizzazione, tempi lunghi, dubbi sui risultati; che sia una delle tante forme che può assumere il blended learning. La ricerca su questa metodologia sta sviluppandosi anche in Italia, ma è ancora presto per dire se questo modello sia davvero efficace e a quali condizioni.
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Ugo Avalle è pedagogista-formatore; docente presso l’Università di Torino. È esperto di problemi legati al disagio e alla devianza. È autore di testi specialistici e di scienze umane (Pearson, Zanichelli, Mondadori e Unicopli).
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Per un nuovo modo di studiar letteratura Le competenze dell’italiano a scuola: il progetto “Compìta”.
▶ Natascia Tonelli
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l 2000 e il 2006 segnano una svolta ideologica radicale per l’educazione scolastica e per la formazione in Europa: il Consiglio di Lisbona prima e il Parlamento e Consiglio europei poi individuano nella scuola delle competenze il modello educativo comunitario e, enunciando le competenze chiave di cittadinanza, le raccomandano quali obiettivi per garantire gli aspetti fondamentali della vita di ogni persona: il suo capitale culturale, il suo capitale sociale e il suo capitale umano. È immediatamente intuitivo il potenziale che in questo quadro possono venire ad assumere lingua e letteratura, risorse prioritarie e patrimonio basilare per il raggiungimento e l’allenamento di almeno la metà delle otto competenze di cittadinanza: dalla «comunicazione nella madrelingua»; all’«imparare ad imparare»; alle «competenze sociali e civiche»; alla «consapevolezza ed espressione culturale». In Italia la riforma della scuola superiore del 2008, per quanto riguarda la disciplina Italiano (Lingua e letteratura italiana), ha fatto proprie le indicazioni europee, in modo più consapevole e coerente all’interno delle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali, con atteggiamento più incerto e ambiguo, anche nelle formulazioni, nelle Indicazioni nazionali per i licei. Ad un profilo d’uscita che prevede per gli istituti una reale declinazione di competenze da conseguire attraverso l’italiano, la riforma oppone, sul fronte dei
licei, una faticosa e incongrua coabitazione fra un canone di autori da trasmettere secondo una tradizione storicistica inveterata e un lessico rinnovato e allusivo (ma non di sostanza) alla prospettiva scolastica richiesta dall’Europa, e più o meno perseguita a seconda dei Paesi. Le competenze prese sul serio Ma l’evoluzione del sistema scolastico verso una modalità educativa per competenze «è difficile, poiché esige trasformazioni importanti dei programmi, della didattica, della valutazione, del funzionamento delle classi e degli edifici», come afferma il sociologo ginevrino Philippe Perrenoud: una vera e propria rivoluzione, di fatto, nei confronti della quale nessuna componente sociale coinvolta si trova a oggi veramente attrezzata. È soprattutto con le metodologie didattiche e con la selezione necessaria delle opere e dunque delle conoscenze disciplinari funzionali alla formazione e all’allenamento delle competenze che uno degli attori principali di questo cambiamento, l’insegnante di italiano, si trova a dover fare i conti: ha davanti a sé, stando ai programmi, un percorso più individuato, ma tutto da “reinventare”, se opera nei tecnici e professionali, più accidentato e per niente chiaro se lavora nei licei, dove l’insegnamento della letteratura, della storia della letteratura, è richiesto in sé, per il suo intrinseco e ineludibile portato di
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SCUOLA | Per un nuovo modo di studiar letteratura conoscenza, e il “valore d’uso” del letterario, la sua “mobilizzazione in situazione”, funzionale a un apprendimento di e per competenze, non viene realmente considerata. Il tempo lungo dell’esistenza D’altra parte, l’insegnante è ben consapevole che risiede «nella educazione alle emozioni e nella creazione dei legami interpersonali e sociali uno dei compiti fondamentali della letteratura. Un nuovo umanesimo comporta anche un nuovo modo di “fare letteratura”, un modo che faccia rientrare nella scuola il “tempo lungo” e non sempre lineare dell’esistenza. Se è nel tempo lungo che avvengono i processi di apprendimento, in cui sedimentano le capacità di dire, di scrivere, di scegliere, bisogna che l’insegnante d’Italiano sappia curvare lo studio
del canone a vantaggio di un insegnamento produttivo sul piano delle competenze comunicative, emotive e sociali» (dal documento progettuale di “Compìta”). Il quadro qui solo abbozzato genera una serie di considerazioni teorico-pratiche e di problemi concreti che ci hanno spinto a dar vita ad un progetto di sperimentazione attiva nelle ultime classi di una cinquantina di scuole superiori di ogni ordine su tutto il territorio nazionale, una ricerca-azione che si interroghi sia sulla specificità disciplinare e sul suo apporto nel formare competenze chiave, sia sull’esistenza e sulla possibile definizione di una competenza “letteraria” vera e propria, raggiungibile e valutabile all’interno del curricolo scolastico. Promosso da un gruppo di italianisti di scuola e università, e
sostenuto dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur, il progetto pluriennale “Compìta” (capofila Università di Bari) ha preso avvio con quest’anno scolastico, dopo una lunga fase di riflessione ed elaborazione: è in “Compìta”, le competenze dell’italiano (un prossimo Quaderno a mia cura per la collana di questa rivista) che ne verranno proposti i presupposti teorici, gli obiettivi, le metodologie operative e i primi risultati con l’ambizione di fornire un iniziale strumento di orientamento per gli insegnanti di italiano del secondo biennio e dell’ultimo anno della scuola secondaria superiore.
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▶ Natascia Tonelli è docente alla Università di Siena e presidente della sezione didattica dell’ADI.
I QUADERNI DELLA RICERCA
Agili monografie pensate come contributo autorevole al dibattito culturale e pedagogico italiano. I temi affrontati sono quelli di più stringente attualità per gli operatori della scuola: la didattica disciplinare e la sua declinazione per competenze; la rivoluzione digitale e le nuove sfide che essa comporta; i bisogni educativi “normali” e quelli “speciali”; la diversità e l’inclusione; i luoghi dell’apprendere: la scuola e non solo. Gli autori sono studiosi, esperti, accademici, formatori, insegnanti. Spesso tutte queste cose assieme.
Chiedi copia dei Quaderni all’agente Loescher della tua zona
oppure scarica il PDF dal sito www.laricerca.loescher.it
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Il portfolio come strumento di lavoro Valutazione e autovalutazione devono procedere di pari passo con l’insegnamento e l’apprendimento. Il portfolio può dare una mano.
▶ Valeria Zagami
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on il termine portfolio si è inteso designare, all’origine, la raccolta (cartella, portafoglio) personale delle opere di un artista. Raccolta particolarmente significativa, perché testimonianza “solida” dell’evoluzione e della direzione intrapresa dall’elaborazione pratica e teorica dell’artista stesso. Passato, nel corso degli ultimi anni, dall’ambito artistico a quello scolastico, il termine portfolio ha permesso di realizzare e utilizzare un nuovo strumento di lavoro a coloro che operano a scuola. La necessità di raccogliere prove, progetti, bozze, momenti positivi di avanzamento di un lavoro e tutte le criticità insite nell’evoluzione di un progetto, fanno del portfolio uno strumento operativo che, se ben utilizzato, supporta e guida il processo di apprendimento e l’iter complesso che lo accompagna. Se il portfolio è definito come la documentazione ragionata delle proprie performance, è necessario riflettere sul concetto di performance, sul lavoro didattico orientato alla conquista di una competenza, e su come sia possibile registrare un esito pratico positivo di un lavoro, o di un artefatto didattico. Che cosa supporta la performance? Che cosa sorregge il processo di apprendimento? E come il portfolio può essere veramente un valido aiuto al compito che il docente è chiamato a svolgere con gli alunni?
Il portfolio delle competenze, introdotto nel contesto delle politiche educative dalla legge 53 del 2003, moltiplica i dubbi e le domande. Le Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Primaria offrono una chiave di lettura esplicativa interessante del portfolio. Esse evidenziano infatti il compito principale e di servizio che è chiamato a compiere nei confronti degli alunni, uno strumento che consiste ‹‹nel far scoprire e apprezzare sempre meglio le capacità potenziali personali››. Il concetto di portfolio così definito trae spunto e contribuisce in modo significativo alla visione promulgata dalla cosiddetta «riforma Morin». Ricordiamo infatti che la riflessione epistemologica e culturale del teorico è orientata su due fronti particolari: la riforma dell’insegnamento e la riforma del pensiero. Se il percorso formativo fosse ripensato seguendo un’impostazione didattica più costruttiva e interattiva, la funzione trasmissiva e riproduttiva del sapere affidata alla scuola sarebbe messa in discussione a favore di una impostazione orientata alla costruzione attiva del sapere. Ponendo la querelle in questi termini, il focus della riflessione si sposta dal prodotto finito al processo attivato per realizzarlo, un processo che è in grado di ridefinire i termini di una visione di sistema diventata obsoleta.
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SCUOLA | Il portfolio come strumento di lavoro Strumenti work in progress Per delineare il profilo di uno studente, il portfolio rappresenta un valido aiuto, infatti la sua costruzione in itinere consente all’alunno di documentare, analizzare, autovalutare e osservare i progressi effettuati durante un arco temporale stabilito. Assecondando il concetto di un cammino sempre mutevole e mai fisso, pronto a cambiare direzione in fieri per migliorare i propri risultati. In questo modo si dà vita al fenomeno che viene definito dalla letteratura di riferimento come «biografia di un lavoro, di un apprendimento, e di una competenza». Alla base di questa prospettiva c’è l’idea di registrare un percorso per documentare attraverso il dato sensibile lo svolgimento di un percorso scolastico. Una raccolta intesa come work in progress, che evidenzia i momenti critici e significativi che sono presenti durante la realizzazione di un lavoro o di un progetto. La raccolta dei documenti avviene assecondando l’idea di continuità e non il criterio di selezione, in linea con la consapevolezza che si sta osservando lo sviluppo di un processo senza il quale il momento significativo – cioè la performance – non sarebbe possibile. Come sostiene Gardner, il dossier potrebbe essere chiamato con il nome di process-folio, mettendo in evidenza proprio il concetto di continuità ed escludendo la selezione sistematica dalla pratica di raccolta dei lavori. All’interno della raccolta devono essere inseriti passaggi che sono considerati cruciali per testimoniare la crescita e il progresso che hanno condotto a quei particolari risultati, includendo certamente anche le criticità, ecco perché il termine indicato da Gardner sintetizza e rispecchia la natura work La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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in progress di questo strumento. Gli attori protagonisti dell’ambiente scolastico godono dei benefici di una prassi articolata che facilita i momenti decisionali di entrambi, fornendo informazioni preziose su come procede il progetto di insegnamento e il processo di apprendimento. Una visione di sistema che orienta la pratica didattica del docente insieme ai processi di apprendimento degli allievi. La scelta di coinvolgere lo studente nella selezione dei materiali da inserire nella documentazione personale è coerente con la volontà di aiutare l’alunno a sviluppare la capacità di riflettere su se stesso, orientando il pensiero all’autovalutazione. Lo studente che manifesta un atteggiamento autocritico e riflessivo è in grado di porre l’attenzione sul proprio apprendimento e di osservare le relative zone d’ombra. La presenza del docente/ tutor lo aiuta a superare una fase autoreferenziale, nella quale grazie alla capacità di autovalutarsi individua delle problematicità a cui non sa ancora porre rimedio con strategie già note. Chiedere aiuto e sostegno al docente/tutor significa attribuirgli l’onore e l’onere di una figura autorevole che lo guida nella ricerca di strategie opportune, di strade da percorrere per ottenere risultati migliori. Incidere sull’autostima, sulle capacità attributive e motivazionali dell’alunno significa aiutarlo a riflettere sul proprio apprendimento per gestire e giudicare i progressi personali. Un percorso, questo, reso noto dalla raccolta di documenti che costituiscono il nostro process-folio, il quale, così organizzato, è un documento significativo, in grado di rappresentare un valido aiuto per la realizzazione del profilo, sempre dinamico e mutevole, di uno studente.
La pratica di assessment Il portfolio utilizzato come strumento di assessment ha l’obiettivo di stimolare, in colui che apprende, saperi e abilità strategiche di autovalutazione, autogestione ed automonitoraggio del processo di apprendimento. Come sostiene Varisco, docente di Teorie e tecniche della valutazione presso l’Università di Padova e autrice di diversi lavori sulle pratiche di assessment, la dimensione valutativa non può essere ritenuta successiva ai processi di apprendimento-insegnamento, ma va considerata come pervasiva e complementare, continua e intrinseca ai processi stessi. Moss, studioso esperto della materia, presenta una nuova prospettiva sulla valutazione, quando afferma che ‹‹l’assessment non finisce con il feedback temporaneo e che una categorizzazione degli effetti al limite temporale diventa un elemento sfumato quando l’assessment viene integrato nel processo di apprendimento-insegnamento››. Studenti e insegnanti hanno la possibilità di vedere e rivedere la performance, la revisione in itinere ancorata a compiti pratici e autentici non deve assumere il significato di un giudizio colpevolizzante, ma di un’opportunità. Comprendere che la pratica di revisione è parte integrante dell’attività didattica e del processo di apprendimento spingerà docenti ed alunni ad utilizzarla per ottenere i massimi risultati. Il feedback rilasciato sulla performance rappresenta una spia luminosa che guida i processi di insegnamento-apprendimento, dimostrando di “saper fare” in questo momento per migliorare ancora, ottenendo risultati più gratificanti nella performance successiva. Un sistema di assessment innovativo è caratterizzato da quattro
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Risposta a scelta (scelta multipla, vero/falso, corrispondenza ecc.) Risposta flessibile (risposta breve, completamento, etichettatura, diagramma, ecc.)
Conoscenza procedurale
Descrivere un processo (esperimento di laboratorio, operazione con una macchina, costruzione di flowchart, osservazione diretta, “mostra il tuo lavoro”, “racconta i passaggi eseguiti”, ecc.)
Performance
Dimostrazioni (costruire una gabbia, riparare una macchina, sostenere un dibattito, recitare un poema, comporre una canzone, guidare una discussione, competere in un evento, creare una scultura, ecc.)
Target di apprendimento Acquisizione di contenuto
Mappa concettuale
Conoscenza procedurale
Protocolli di pensiero ad alta voce, interviste
Cambiamento cognitivo
Portfolio
Fonte: Cizek, Learning, Achievement, and assessment: Constructs at a Crossroad. In Phye, Hanbook of Classroom Assessment. Learning, Adjustment, and Achievement, Academic Press, San Diego (CA). elementi principali: 1. una completa demistificazione di standard (normativi vs criteriali) e compiti tradizionali (artificiosi vs autentici); 2. molteplici opportunità di accompagnamento di feedback per apprendere e padroneggiare compiti complessi; 3. progressivi report in cui le performance correnti vengono continuamente valutate; 4. conoscenza di come sta facendo ciò che deve fare. Gli studi più recenti sulla valutazione di apprendimenti e competenze condividono una visione di assessment centrato su chi apprende, rivolto al perseguimento di abilità di autovalutazione e autoriflessione negli studenti. Un sistema di assessment multidimensionale è in grado di integrare strumenti di valutazione innovativi a strumenti tradizionali. Come sostengono diversi autori del calibro di Bell e Burkhardt, curricolo e valutazione sono strettamente connessi. Le ricerche condotte sul campo dai due studiosi han-
no contribuito a sviluppare una nuova concezione di riferimento definita come «valutazione bilanciata», che si fonda su due principi teorici di riferimento: il «curricolo bilanciato» e la «validità curricolare». Per il curriculum bilanciato ciascun pacchetto di assessment consiste di un set di compiti di peso e stile diversi che, presi insieme, riflettono gli obiettivi curriculari in modo bilanciato. Per la validità curriculare i compiti stessi rappresentano autentiche attività di apprendimento di alto valore educativo; in questo modo il tempo impiegato per il loro svolgimento è un beneficio reale e non una perdita per gli apprendimenti degli studenti. Forme di assessment di performance sono caratterizzate da un dinamismo intrinseco e possono considerarsi una valida alternativa al compito tradizionale. Sono in grado di rendere abile lo studente a mostrare che cosa conosce, rendendo espliciti e visibili tutti gli obiettivi che ha raggiunto e palesando quelli che ancora deve
conquistare. Il feedback a disposizione degli alunni rappresenta una parte integrante del processo di apprendimento, e costituisce l’attività principale che consente all’alunno di avere chiaro cosa deve fare per raggiungere l’obiettivo di riferimento. Gli approcci d’assessment In questa pagina riportiamo in tabella una tassonomia che sintetizza gli approcci all’assessment sviluppati nel tempo. La tassonomia di riferimento distingue in due gruppi separati il target di successo dal target di apprendimento, elencando in corrispondenza l’attività predisposta ad osservare l’acquisizione di un contenuto, di una conoscenza procedurale, di un cambiamento cognitivo e di una performance. Il performance assessment è praticabile in particolare in attività di sperimentazione e ricerca, favorisce un apprendimento significativo e sviluppa interesse nei confronti dei pari. Alle forme tradizionali di una
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SCUOLA | Il portfolio come strumento di lavoro valutazione principalmente eterogestita si accostano modalità valutative che integrano l’analisi, la valutazione e il monitoraggio delle pratiche di insegnamento-apprendimento, per avere una comprensione profonda delle ragioni e dei processi in atto che generano le performance di studenti distribuite nel tempo. L’attenzione si concentra su colui che apprende con l’obiettivo, lo ribadiamo ancora una volta, di facilitare un apprendimento sociocognitivo e metacognitivo, in grado di potenziare conoscenze e abilità strategiche di autovalutazione, di automonitoraggio e autogestione dei processi di apprendimento. I ricercatori statunitensi, canadesi, australiani ed europei propongono un sistema di assessment misto, integrato e pluralistico che mette in discussione pratiche valutative di apprendimenti e competenze consolidate nel tempo ma non per questa ragione efficaci. Un sistema di assessment veramente significativo fa riferimento a compiti non artificiosi e formali ma reali, riscontrabili in contesti specifici e situazioni realistiche. Valutare il dinamismo Legare la pratica valutativa a compiti e contesti realistici motiva chi apprende, che percepisce tali momenti come ulteriori tasselli del processo di apprendimento legati agli obiettivi educativi prefissati, non considerati più come una forma di assessment punitiva e slegata dall’intero processo educativo. La visione di assessment descritta è strettamente legata al concetto di sviluppo prossimale di Vygotskij. L’enfasi posta sul concetto di cambiamento potenziale dell’individuo si basa sulla concezione di una valutazione dinamica, che si oppone ad una misurazione di tipo statico. Una valutazione La ricerca | N. 2 Nuova Serie. Marzo 2013 |
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di tipo dinamico non sottostima l’abilità di apprendimento di studenti che in un dominio particolare hanno dimostrato di comportarsi in modo inadeguato. Ma considera la performance come parte integrante del processo intrapreso, nella quale innescare momenti di apprendimento reale che permetteranno all’alunno di raggiungere gli obiettivi prefissati. Pensare ad un sistema dinamico significa integrare l’assessment nel processo di insegnamento/apprendimento facendo della pratica valutativa un momento di apprendimento. Il portfolio è uno strumento di assessment rilevante se considerato in una prospettiva dinamica. Bisogna interpretarlo come una raccolta sistematica condotta lungo un arco temporale preciso, utilizzando criteri di scelta stabiliti e condivisi, finalizzata alla facilitazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Come sostiene Varisco, non si può restringere la valutazione al giudizio di un prodotto finito emesso alla richiesta di uno specifico compito assegnato. L’assessment per essere veramente significativo deve osservare, monitorare e registrare un processo che avviene in fieri e che non può essere considerato come separato dall’apprendimento: «l’insegnante non deve limitarsi a valutare i soli “prodotti” dello sviluppo prossimale o attuale dei suoi allievi di fronte allo specifico compito assegnato, ma creare le condizioni per rendere trasparente le loro condizioni di sviluppo prossimo, favorendo l’esplicitazione di un processo sociale, sempre presente, ma troppo spesso sommerso».
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Valeria Zagami è laureata in Teoria della comunicazione e ricerca applicata ai media presso l’Università La sapienza.
APPROFONDIRE
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A. Ajello, Apprendimento e competenza: un nodo attuale, in “Suola & Città›”, 2000.
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Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002. P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969.
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J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari, 1988. A. Calvani, M. Varisco, Costruire e decostruire significati, Cleup, Padova, 1995.
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G. Cizek, Learning, Achievement, and assessment: Constructs at a Crossroad, Academic Press, San Diego (CA), 1997.
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F. Gambi, Le pedagogie del Novecento, Laterza, Bari, 2008. E. Gardner, The Assessment in Context: The alternative to Standardized Testing, in R. Gifford, M. O’Connor, Changing Assessment. Alternative Wiews of Aptitude, Achievement and Instruction, Kluwer Academic, Boston, 1992.
•
E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.
•
M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Rcs-La Nuova Italia, Milano, 2004.
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D. Plummer, La mia autostima. Attività di sviluppo per una buona immagine di sé, Erickson, Trento, 2002.
•
L. Tuffanelli, Il Portfolio delle competenze, Edizioni Erickson, Trento, 2005.
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S. Turkle, Il secondo io, Frassinelli, Milano, 1985. M. Varisco, Metodi e pratiche della valutazione. Tradizione, attualità e nuove prospettive, Guerini, Milano, 2000.
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B. Varisco, Portfolio valutare gli apprendimenti e le competenze, Carrocci, Roma, 2004.
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SCUOLA
Docenti atipici Lo strano caso delle classi di concorso per discipline di insegnamento: dalla certezza delle cattedre alle classi di concorso “atipiche”.
▶ Fulvio Allegramente
Ugo Pierri, Il Matto dei tarocchi, 1987, Ugo Pierri ©.
L
a nostra breve storia principia nel 1998 con il decreto del Ministro della pubblica istruzione 30 gennaio 1998, n. 39: il decreto definiva le classi di concorso come ora le conosciamo e in base alle quali migliaia di docenti in questi quattordici anni hanno sviluppato la loro carriera (graduatorie di istituto per i docenti immessi in ruolo, graduatorie per le supplenze e le assunzioni in ruolo destinate ai precari). Parlare di classi di concorso è un po’ come parlare di anatomia e fisiologia in medicina: come siamo fatti, come f u n z i o n i a m o, come ci concepiamo sul piano culturale: ogni classe di concorso si collega all’Università (lauree), all’amministrazione (abilitazioni) e alla didattica (cosa si intende per “disciplina’’, cosa si chiede a un o una docente). Nell’alternarsi delle legislature si è giunti al governo guidato da Silvio Berlusconi (sedicesima legislatura, iniziata il 29 aprile 2008). L’atto fondamentale che ha segnato profondamente la scuola italiana nell’ultimo decennio è contenuto nell’articolo 64, Disposizioni in materia di organizzazio-
ne scolastica, della legge 133 del 6 agosto 2008 (conversione in legge del decreto legge 112 del 25 giugno 2008). Con questo atto il governo Berlusconi (ministri Tremonti e Gelmini) poneva le basi per il riordino del “sistema-scuola”. Una scuola in attesa Ecco alcuni punti interessati dall’articolo 64: razionalizzazione/ridimensionamento della rete scolastica, revisione delle dotazioni organiche del personale docente ed A.T.A., riordino degli ordinamenti della scuola secondaria superiore, ridefinizione dei centri per l’istruzione degli adulti, ridefinizione dei curricoli nei diversi ordini di scuola e infine (comma 4 lettera a) «razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso, per una maggiore flessibilità nell’impiego dei docenti». Da allora, dal 2008, il mondo della scuola è “in attesa che …”. Infatti in questi il governo che aveva emanato la legge 133 non ha saputo dare seguito al provvedimento di razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso. Eppure è un provvedimento fondamentale non solo per l’organizzazione del personale, per il suo reclutamento, ma proprio per dare un segnale di innovazione culturale alla vasta operazione di riordino del sistema scolastico così da non farla ap-
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SCUOLA | Docenti atipici parire una operazione prevalentemente “contabile”. Il governo Monti, nell’ultimo anno, non ha dato seguito positivo all’esigenza e quindi nelle circolari per l’elaborazione degli organici di diritto e di fatto per l’a.s. 2012/2013 ha così esordito: «NOTA MIUR 29.03.2012, prot. n. 2320. Oggetto: attuali classi di concorso su cui confluiscono le discipline relative ai primi tre anni di corso degli istituti di secondo grado interessati al riordino. Anche per l’a.s. 2012/13 in assenza del regolamento relativo alla revisione delle classi di concorso, previsto dall’art. 64 della legge n. 133 del 2008 si rende necessario in sede di costituzione degli organici e per le conseguenti operazioni di mobilità, far riferimento alle attuali classi di concorso, opportunamente integrate e modificate con le discipline e gli ambiti disciplinari relativi agli ordinamenti del primo, secondo e terzo anno di corso degli istituti di secondo grado […]». Quindi: il regolamento mancava e continua a mancare, ma la vita della scuola e di chi ci lavora va avanti pur in assenza del regolamento tanto atteso e/o paventato. E così sono nate anche definizioni altrimenti impensabili come quella delle “classi di concorso atipiche”.
Ugo Pierri, Pinocchio - La fata turchina, 1999, Ugo Pierri ©
La strategia del rattoppo Cosa sono? Lo si capisce da questo passo tratto dalla circolare n. 25 del 29 marzo 2012: «Con nota a parte viene trasmesso l’elenco delle attuali classi di concorso su cui confluiscono le discipline relative al primo, secondo e terzo anno di corso degli istituti di II grado interessati al riordino. Gli insegnamenti che confluiscono in più classi di concorso del vecchio
Con qualche fatica degli operatori e qualche diatriba interna alle singole scuole su cosa considerare “atipico”, su come costituire le cattedre e, di conseguenza, determinare quale docente sia soprannumerario, il sistema ha continuato a vivere e ad erogare il servizio pubblico dell’istruzione. Che la situazione non sia però limpidissima lo testimonia, ad esempio, una opportuna circolare dell’USR
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ordinamento devono essere considerati “atipici”». Correttamente il legislatore, riordinando la scuola secondaria superiore nel 2010 con i D.P.R. 87 – 88 – 89, si poneva il problema di riorganizzare gli insegnamenti, rivedendo le classi di concorso. Ma alla prima operazione non ha fatto seguito la seconda, generando problemi non indifferenti.
del Piemonte (la 309 del 5 giugno 2012) che individua ben due casistiche specifiche (chiamate A e B) contenenti al loro interno tre ulteriori differenziazioni (A1 etc.). Nel frattempo il ministero bandiva e organizzava un nuovo concorso per reclutare dei nuovi docenti [Decreto del Direttore Generale n. 82 del 24 settembre 2012 - Indizione dei concorsi a posti e cattedre, per titoli ed esami, finalizzati al reclutamento del personale docente nelle scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado] e non poteva fare altro che utilizzare le classi di concorso attualmente ancora vigenti. Si ripropone dunque lo schema già altre volte riproposto nella storia della scuola italiana: alcune norme regolatrici del sistema cambiano (si presuppone con valide motivazioni non solo economiche ma anche culturali) però altre parti del sistema non sono adeguate al cambiamento e quindi si deve ricorrere ad aggiustamenti che rischiano di divenire consuetudini “in attesa che” l’aggiornamento del sistema sia compiuto. Eccoci all’autunno 2012 con la “Bozza” che dovrebbe porre fine alla questione [Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca - Ordinamento delle classi di concorso per la scuola secondaria di primo e secondo grado - Decreto Ministeriale Bozza, 8.11.12]. Ma sappiamo tutti come sono andate le cose: il ministro propone e il parlamento dispone. Non ci resta che restare in attesa della prossima legislatura.
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▶ Fulvio Allegramente è dirigen-
te scolastico dell’istituto di istruzione secondaria Ettore Majorana di Torino.
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Macramè: il filo del racconto. Per la scuola ad alta leggibilità
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