La ricerca 3 - L’altra scuola

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La ricerca DOSSIER Come cambia la genitorialità

SCUOLA

© J. Springer Collection/Corbis

Istruzione degli adulti Blended learning Volontariato Insegnare italiano agli stranieri Drop-out Insegnare in carcere Insegnare al lavoro Homeschooling Emergency nelle scuole



EDITORIALE

In questo numero Chi va a scuola, chi non ci va, chi ne avrebbe voglia e chi proprio non può farne a meno. Teoria e prassi di un’“altra scuola”. Nel mezzo, figli sempre più protetti e “genitori elicottero” che li osservano, li guidano, li controllano, rendendoli spesso insicuri...

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bbiamo cominciato a pensare a questo numero per dare voce alle esperienze didattiche ed editoriali che trovano spazio nei cataloghi che la Casa editrice dedica all’italiano per stranieri e all’istruzione degli adulti. A stretto giro, però, l’alterità della quale la scuola si può fare portatrice ci è balzata agli occhi in tutta la sua prepotente ricchezza, tanto che abbiamo faticato molto a contenere gli interventi che avremmo voluto inserire. La chiave delle nostre scelte ha dato valore a orientamenti teorici e a esperienze dirette che potessero portare a testimonianza l’efficacia dell’inclusione e della motivazione a sostegno della varietà e del successo scolastico, soprattutto inteso come lotta alla dispersione e all’abbandono. Abbiamo incontrato persone di valore, caparbie, di cuore, molto preparate. Per darvene conto – in apertura e in chiusura del numero – due voci autorevoli: il pensiero di don Ciotti, attraverso l’intervista a Michele Gagliardo, responsabile del Piano Giovani del Gruppo Abele, e le parole di Gino Strada. «L’altra scuola è nella mente e nei cuori di molti; è inclusiva, prima di tutto pubblica, è attenta, luogo di spazio collettivo che contemporaneamente porta avanti dialogicamente istruzione e formazione, e prepara a diventare cittadini consapevoli e partecipi» (Michele Gagliardo). La prima parte della rivista presenta alcuni dei protagonisti dell’altra scuola e ne delinea caratteristiche e specificità dal punto di vista teorico: gli apprendenti adulti, i drop out, gli studenti stranieri, gli studenti stranieri adulti, chi studia in situazioni logisticamente e esistenzialmente complicate, quali il carcere, per esempio.

Gli autori degli articoli sono a loro volta protagonisti dell’altra scuola, quella che cresce anche grazie a loro, adulti “vivi”, che con slancio critico, attento e costruttivo affiancano gli insegnanti o insegnano loro stessi, portando modelli nuovi, sperimentazione di soluzioni inedite, abitudine al confronto e alla risoluzione di problemi inaspettati che spesso toccano contemporaneamente la dimensione sociale e affettiva dello stare a scuola. La seconda parte – speculare alla prima – racconta di esperienze dirette e di ricadute pratiche. Presenta in più occasioni l’intraprendenza del volontariato di qualità attraverso la costituzione di una rete di scuole migranti, dell’allargamento dell’esperienza di studio degli adulti attraverso le nuove tecnologie e il blended learning, le specificità necessarie per interagire con le abitudini di scuola di mondi lontani, cinesi o arabi, per esempio. Chiude la seconda parte una serie di articoli sulla scuola che si allontana fisicamente dall’esperienza in aula e ci racconta, al tempo stesso, di luoghi geograficamente lontani da noi: un’esperienza di studio della lingua seconda sul posto di lavoro, la tradizione dell’homeschooling negli Stati Uniti, l’insegnamento in Paesi culturalmente lontani dal modello europeo. Il Dossier tratta del rapporto genitori-figli, racconta delle caratteristiche della “genitorialità intensiva”, che mette a rischio la creatività, l’indipendenza e lo spirito di iniziativa: caratteristiche che invece l’altra scuola promuove a gran voce. Sosteniamo con convinzione l’altra scuola perché fa leva sulla parte attiva del percorso di apprendimento dei suoi studenti, spesso in difficoltà. Li costringe a scelte difficili e a grandi sforzi, ma li guida, in cambio, verso relazioni più mature e significative con l’ambiente sociale e relazionale del quale hanno diritto di entrare a far parte con piena coscienza e coinvolgimento.

▶ Laura Cavaleri

redazione di Loescher editore 3

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La ricerca Nel prossimo numero Periodico quadrimestrale Anno 2, Numero 3 Nuova Serie, maggio 2013 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012

Le scuole di eccellenza Le scuole che conosciamo di meno perché meno comuni, spesso portatrici di eccellenza o di modelli alternativi. Le loro buone pratiche e i modelli di insegnamento e apprendimento che fanno leva sulla motivazione dei loro studenti. Le integrazioni ai corsi, le attenzioni non solo ai contenuti di studio, ma anche alla creazione di condizioni che favoriscano la crescita di giovani uomini e donne istruiti, di persone maggiormente consapevoli e disponibili al confronto e all’assunzione di responsabilità. Il liceo di Duino: uno dei nove collegi del mondo unito; i progetti di Change the Course e del Club di Roma: imparare a pensare per analizzare i cambiamenti della società contemporanea; licei sportivi; scuole bilingui; scuole i cui spazi favoriscono lo studio e le esperienze di apprendimento e di scoperta; licei musicali; accademie di teatro; progetti che lavorano sulla scoperta della propria intelligenza emotiva. Studenti che spiegano a studenti; flipped classroom, cooperative learning, rinforzo del metodo di studio e delle strategie di apprendimento. Infine, i modelli fuori Italia: le scuole nordeuropee, quelle di modello anglosassone, le scuole in Est Europa.

Editore

Loescher Editore

Direttore responsabile Martina Pasotti

Direttore editoriale Ubaldo Nicola

Redazione

Laura Cavaleri, Manuela Iannotta, Sandro Invidia, Elena de Leo Alessandra Nesti, Francesca Nicola, Martina Pasotti.

Grafica e impaginazione Michele Magnani

Pubblicità interna e di copertina Visual Grafika - Torino

Stampa

Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

I diritti dei bambini L’Assemblea Generale dell’ONU ha stilato nel 1989 la Convenzione sui Diritti del Bambino, che ha messo in evidenza le condizioni, a volte devastanti, dell’infanzia nel mondo. Nel 2003 i rappresentanti di quaranta Nazioni hanno cercato di superare le differenze culturali e politiche per articolare norme morali universali per il trattamento dei più piccoli. Il dibattito attorno alla definizione di infanzia si conferma cruciale anche nelle questioni relative alle politiche di intervento minorile, oggi caratterizzate da una visione non sempre lineare dell’infanzia. Da una parte emerge la figura del bambino come persona senza diritti e oppressa dagli adulti. Dall’altra, però, le stesse politiche di promozione dei diritti infantili mettono l’accento sull’importanza di considerare i minori come soggetti attivi di diritti e autori del proprio destino.

Distribuzione

I 3 fascicoli dell’Anno 2 sono gratuiti, pertanto distribuiti esclusivamente in forma di omaggio. Per informazioni e contatti: laricerca@loescher.it.

Autori di questo numero

Daniela Aigotti, Federico Batini, Gaia Bernstein, Lucia Bonato, Alessandro Borri, Enrico Cerasuolo, Alice Dente, Giuseppe Ferraro, Michele Gagliardo, Andrea Ghezzi, Simone Giusti, Matilde Grünhage-Monetti, Knud Illeris, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Paola Nobili, Gaia Pieraccioni, Emilio Porcaro, Maurizio Quilici, Meredith Small, Gino Strada, Consuelo Surian, Alessio Surian, Zvi Triger, Edward Tronick, Augusto Venanzetti.

© Loescher Editore

via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it

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La redazione è lieta di ricevere le vostre proposte e suggerimenti. Scrivete a: laricerca@loescher.it

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Sommario

SAPERI |L’altra scuola

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L’altra scuola di don Ciotti Michele Gagliardo L’apprendimento degli adulti Knud Illeris Drop-out: storia di un rovesciamento Federico Batini Dare a ognuno una seconda possibilità Gaia Pieraccioni Alfabetizzare adulti immigrati Alessandro Borri Il carcere: lo spazio della differenza Paola Nobili

DOSSIER |Come cambia la genitorialità

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L’invasione dei genitori elicottero Francesca Nicola Quando il bambino è il re della casa Gaia Bernstein, Zvi Triger La sindrome di alienazione genitoriale Maurizio Quilici Educazione occidentale ed etnopediatria Meredith Small Le tre R dei bambini olandesi Sara Harkness Come è cambiata la genitorialità Ubaldo Nicola Il pediatra e la genitorialità portoricana Edward Tronick

La riforma dell’istruzione degli adulti Emilio Porcaro Corsi di diploma a elevata accessibilità Simone Giusti Le scuole volontarie di italiano Andrea Ghezzi L’alfabetizzazione di Paulo Freire Consuelo Surian, Alessio Surian Insegnare italiano agli stranieri adulti Daniela Aigotti L’integrazione linguistica degli stranieri Augusto Venanzetti Insegnare italiano ai cinesi adulti Alice Dente Filosofare dentro Giuseppe Ferraro Apprendere il tedesco, in fonderia Matilde Grünhage-Monetti Insegnare al Cairo, tra i veli Lucia Bonato La scuola in casa Francesca Nicola Quando Peter sognava di studiare Enrico Cerasuolo Cittadinanza consapevole e cultura di pace Gino Strada

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SAPERI

L’altra scuola di don Ciotti È la scuola che molte persone hanno nei cuori e nelle menti. È la scuola che c’è e che non si vede: fatta di uomini e donne che si spendono ogni giorno,nel silenzio, per restituire dignità e futuro alle persone.

Don Ciotti, ragazziblog.azionecattolica.it.

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na scuola inclusiva, più attenta alle nuove forme di apprendimento e alle nuove culture, orientata a istruire ed educare per formare i cittadini di domani, in cui vengano investite le risorse necessarie per supportare il difficile lavoro degli insegnanti e dare risposte ai ragazzi che portano nella scuola la complessità del

loro crescere. È l’altra scuola cui pensa Michele Gagliardo, responsabile del Piano Giovani del Gruppo Abele, che abbiamo incontrato per parlare di giovani, dipendenze, “scuoline erranti” e anche di don Luigi Ciotti. D: Che cos’è secondo lei “L’altra scuola”? R: È quella che non è adesso, e che molte persone hanno nelle loro menti e nei loro cuori. Penso a una scuola che sia inclusiva, attenta ai singoli e ai sistemi collettivi. Una scuola pubblica, per tutti e non

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SAPERI di classe; più attenta negli stili di insegnamento alle nuove culture con le quali convive (e non mi riferisco soltanto agli stranieri). Penso a una scuola che scelga di riaprire uno spazio collettivo nel quale istruzione ed educazione si incontrano e dialogano continuamente tra loro, per restituire senso e significato all’esperienza della formazione, per preparare i ragazzi a diventare cittadini in possesso di conoscenze, principi e competenze civili. Ma l’altra scuola è anche la scuola che c’è e non si vede, o non vuole essere vista; fatta di uomini e donne che si spendono ogni giorno, nel silenzio e nel non riconoscimento sociale, per restituire dignità e futuro alle persone grazie al valore straordinario dell’essere inseriti nei sistemi di conoscenza, produzione e scambio dei saperi. Una scuola che cerca di “andare verso” ogni soggetto in crescita, partendo dalla sua storia, dai suoi limiti e sofferenze, dal patrimonio di relazioni, dalle passioni e desideri, dai suoi saperi e competenze, per dar valore a questi elementi, consolidarli e orientarli verso il crescere civile. Una scuola che si assume il compito prioritario dell’educare nella direzione della crescita dei cittadini, che accetta la sfida della complessità e della ricerca, che sceglie di realizzare veri e propri patti educativi locali. C’è un patrimonio enorme, anche in mezzo a tante difficoltà, che accanto a una chiara idea di cambiamento deve essere riconosciuto e sostenuto nel suo tentativo di radicarsi e costituirsi come prassi. D: I giovani sono da sempre al centro del vostro impegno. Ma dagli anni Sessanta sono mutate le problematiche legate ai giovani ed è cambiata la composizione stessa del mondo giovanile, a Torino e in Italia. Chi sono i giovani che oggi incontrate? R: Negli anni Sessanta esistevano i giovani, oggi la giovinezza ha smesso di essere un’età della vita diventando una condizione, spesso ritenuta propria anche da chi giovane non è più, ma continua ad atteggiarsi come tale. Qui c’è già un’enorme differenza. Saltano i processi di identificazione; crollano la mobilità sociale e la partecipazione; la relazione tra genitori e figli da educativa si trasforma sempre più in affettiva; crolla l’esperienza del conflitto familiare e conseguentemente anche quello sociale; si abbassano i livelli di sopportazione della sofferenza, del rapporto con l’opposizione e tante altre caratteristiche che hanno ovvi risvolti sull’oggi e sul domani di questi giovani. Nello specifico, non è facile rispondere a questa domanda, perché sono molte le variabili da considerare e generalizzare non è semplice. Sicuramente per cercare di capire cosa ci sia dentro le vite di queste persone non basta cercarle e incontrarle nella scuola;

così si vedrebbe solo una parte di ciò che sono e, per alcuni, forse anche la meno significativa. I giovani attraversano luoghi diversi e fanno esperienze eterogenee, sviluppando e mostrando parti di sé molto diverse; per questo, siamo alla continua ricerca di spazi e strumenti per dare vita a una relazione che riesca ad andare oltre l’occasione che fornisce la scuola, incontrandoli nel territorio, nei luoghi della loro quotidianità o nella rete. I ragazzi finiscono per esprimere ciò che colgono dal mondo e dagli adulti accanto a loro. Da una parte mostrano disillusione, competizione e chiusura nel privato, impegnati nel tentativo d’arrangiarsi nel difficile compito di crescere. Dall’altra sono come la cenere dopo un bellissimo falò ormai spento, cenere dove puoi trovare, smuovendola, anche a distanza di tempo, ancora molti carboni ardenti. Fuori di metafora, si potrebbe dire che assorbono la crisi del mondo e degli adulti, che gradatamente spegne e addormenta i desideri, ma contemporaneamente se incontrano adulti “vivi” si riaccendono, esprimendo uno slancio critico, attento e costruttivo verso un futuro migliore. Infine, non si può tacere della sofferenza profonda che si incontra in queste storie; una sofferenza qualitativamente e quantitativamente significativa. Un dolore spesso profondo, che si manifesta in forme differenti, espressione di un malessere sociale diffuso che interferisce negativamente con i processi di vita di queste persone. Relativamente a questo aspetto, la scuola, derubata delle necessarie risorse, fatica a dare risposte: noi cerchiamo d’aiutare attraverso presenze educative nelle scuole, al fine di riattivare pratiche d’ascolto e di cura ai confini fra la dimensione formale intenzionale e quella informale. D: Come li raggiungete? R: Solitamente, sono gli adulti a chiedere un intervento: insegnanti, dirigenti scolastici, associazioni di genitori o genitori singoli. In percentuale più bassa siamo ricercati dagli studenti che ci chiedono una mano, spesso all’interno dei percorsi partecipativi d’autogestione o d’occupazione degli spazi scolastici. L’oggetto della domanda, della richiesta di aiuto, in assenza di reciproca conoscenza, è sempre un contenuto, un tema che, secondo gli adulti che ci contattano, risulta importante affrontare in classe. Siamo cercati, ad esempio, in seguito a fatti critici avvenuti a scuola, a situazioni di consumo o forme differenti di dipendenza, per trattare temi e contenuti connessi all’educazione alla cittadinanza. Così il patto è da costruire, ogni giorno: l’incontro con gli studenti non è affatto scontato e deve realizzarsi con molta cura, ridefinendo con loro la 7

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SAPERI | L’altra scuola di don Ciotti domanda espressa, costruendo con delicatezza e rispetto lo spazio della relazione, andando alla ricerca dei punti di congiunzione tra le questioni in gioco, la vita di ciascuno e delle persone con le quali egli è in relazione. La risoluzione dei problemi, ossia la crescita delle persone, non avviene soltanto trasmettendo con precisione scientifica informazioni e contenuti, anche se i saperi sono importanti, ma mettendosi insieme al lavoro, alla ricerca; costruendo conoscenza. Non conta guardarsi gli uni con gli altri, come se ci si trovasse in un luogo neutro, serve guardare insieme il mondo e le cose che in esso accadono, da prospettive diverse, per apprendere dalla vita qualcosa di utile per la vita. Con i più piccoli, i bambini delle scuole primarie, l’aggancio avviene più o meno allo stesso modo; tranne per quelli che partecipano al progetto della “Scuolina Errante”: in questa situazione li andiamo a cercare noi. D: Che cos’è la “Scuolina Errante”? R: È un laboratorio che abbiamo pensato per i bambini e i preadolescenti rom dell’insediamento spontaneo di Lungo Stura Lazio a Torino, nato quattro anni fa con l’obiettivo di avvicinarli alla scuola facilitando l’ingresso dei più piccoli alle primarie. Un educatore e una mediatrice culturale, supportati da alcuni insegnanti volontari, vanno al campo tutte le settimane proponendo attività didattiche finalizzate alla creazione delle piccole competenze sociali necessarie ad apprezzare e sostenere l’esperienza scolastica. Inizialmente si era pensato di intervenire con i bambini in età prescolare e con le loro famiglie per costruire i presupposti per l’iscrizione a scuola. Poi, la domanda di partecipazione al nostro laboratorio è notevolmente cresciuta e ora lavoriamo con una trentina di persone, dai 5 ai 16 anni, suddivise in tre gruppi più o meno omogenei per tipo d’obiettivo formativo. Lavoriamo in rete con le scuole del territorio, che ospiteranno le bambine e i bambini neo iscritti, e con il Comune di Torino; collaborazioni indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo dell’iscrizione, prima, e della tenuta scolastica, poi. Ciò che facciamo è molto apprezzato da una buona parte delle persone del campo, addirittura ci sono mamme che chiedono d’essere aiutate a imparare l’italiano, a leggere e scrivere. Da metà dell’anno scorso, la sede della nostra scuola è la baracca dove si svolgono le funzioni religiose: uno spazio prezioso, quasi un’isola di bellezza in mezzo a tanto degrado. Questo gesto compiuto dalla comunità che vive lì è un segno straordinario di riconoscimento del valore dell’umile lavoro che svolgiamo. La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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Questi bambini hanno un’eccezionale voglia di conoscere e imparare. È una bellissima esperienza, da portare avanti, però, con estrema gradualità e con un approccio che non può non considerare la situazione complessiva nella quale quelle persone si trovano a vivere, o meglio: a sopravvivere. Per rendere possibile la partecipazione alla vita scolastica di quelle bambine e bambini è indispensabile cercare di rimuovere le situazioni che innalzano la soglia di accesso. Cose spesso banali – per chi ha la fortuna di crescere in un luogo normale – per loro non lo sono per nulla. L’essere in ordine, puliti e ben sistemati; andare e tornare da scuola; iniziare a frequentare luoghi di socializzazione dove ci sono i futuri compagni di scuola; fare i compiti ecc. Su queste cose c’è un continuo lavoro da fare, per pensare a soluzioni nuove e più adeguate ai cambiamenti continui del campo. Certamente la precarietà nella quale vivono quelle persone è un fattore di incertezza molto alto. Ma, comunque, questo è per noi un bell’esempio di scuola! D: Voi mettete a disposizione delle scuole i vostri educatori. Com’è il dialogo con gli insegnanti? R: Sì. Crediamo che un modo per sostenere, oggi, la funzione educativa della scuola sia affiancare al difficile lavoro degli insegnanti la figura di un educatore. I ragazzi portano nella scuola la complessità del loro crescere, le fatiche dell’entrare in relazione con un mondo che non fa loro spazio, che ha smesso di occuparsi di loro. I saperi e le competenze di un insegnante rischiano di non essere più sufficienti, da soli, per lavorare con singoli e gruppi che, in modi e forme differenti, esprimono la fatica di vivere. Per questo motivo, per cercare di aprire spazi naturali di ascolto e di lavoro educativo, si è pensato alla presenza di educatori nella scuola. Sono figure che non si sostituiscono agli adulti già presenti a scuola, ma che si affiancano al loro lavoro, cercando di sfruttare le opportunità offerte dall’esercizio d’un ruolo differente. Si incontrano le ragazze e i ragazzi nei momenti e nei luoghi informali della scuola; si raccolgono le loro difficoltà, le domande a partire dalle quali si cerca, sempre in collaborazione con i docenti e i genitori, di dare vita a percorsi utili per lavorare sulle questioni incontrate. Esperienze come queste, con molta umiltà, andrebbero diffuse e sostenute maggiormente, in quanto aiutano la scuola a recuperare spazi significativi dentro la vita degli studenti e tracce di collaborazione con i genitori, cose assolutamente non scontate. D: Tornando a parlare dei giovani che riuscite a raggiungere. Fanno domande? E di che tipo? R: Le domande ci sono e sono tante. Nelle loro te8

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SAPERI ste e nei loro cuori c’è un lavorìo straordinario che rischia di non essere colto, un po’ perché tendono a non volerlo mostrare subito (probabilmente fanno bene, sono cose preziose che è giusto consegnare all’interno di relazioni di fiducia), un po’ perché non trovano attorno a loro adulti con i quali avviare un percorso. Così, per arrivare alla relazione, a volte si passa attraverso la provocazione, l’essere messi alla prova. Ma quando scatta lo spazio dell’incontro si apre un mondo di possibilità. Le domande nelle quali ci si imbatte sono espressione dei bisogni evolutivi dei ragazzi, oppure sono le cose a loro care, delle quali non riescono a parlare con altri adulti, perché spesso faticano a trovare persone credibili capaci di stare al loro fianco. Sono le domande esistenziali di chi guarda al proprio futuro, questioni legate alle relazioni con gli adulti o con gli amici: timori e paure, amori e passioni, ma anche violenze e abbandoni dei quali purtroppo molti di loro sono vittime innocenti. D: Su quali temi lavorate con le scuole? Su quali temi trovate i giovani più reattivi? R: Credo che la vita non si possa costruire per temi o affrontando temi; quello che cerchiamo di fare è utilizzare alcuni temi come catalizzatori di un processo di discussione e di apprendimento dalla vita e sulla vita. Le cose sulle quali ci si concentra di più in termini di proposte sono: i consumi, affrontati nella loro componente culturale e nelle loro multiformi espressioni; le dipendenze; il rapporto con le tecnologie; l’affettività e la sessualità; le relazioni tra pari e con gli adulti; i conflitti; la costruzione della città e dei cittadini; i rapporti Nord e Sud del mondo; città e periferie; il lavoro sociale. Rivisti nel loro essere temi generatori, è difficile identificare quali destano più interesse: azzardando una risposta, si potrebbe dire che sui temi dell’affettività e della sessualità si lavora spesso, perché non sempre vengono affrontati con altri adulti. La questione delle tecnologie è un altro aspetto verso il quale c’è molto interesse, perché permette d’approfondire cosa significa vivere e crescere in un ambiente tecnologico. Per i più grandi, uno dei temi più interessanti è il ragionamento sul modello di sviluppo che ci porta ad affrontare insieme le dimensioni dell’illegalità, della corruzione, delle mafie e della costruzione delle disuguaglianze. È come se le cose di cui ci si occupa costituissero una relazione tra il mondo interno e il mondo esterno dei ragazzi; sembra che cerchino di strutturare il loro essere a partire da una scoperta del mondo con uno sguardo sempre più civile.

Le iniziative del gruppo Libera, galleria fotografica di www.libera.it. 9

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SAPERI| L’altra scuola di don Ciotti D: Quali le diversità alla quale la scuola non è preparata? Come proponete di affrontarle? R: La domanda è complessa, non si può rispondere in poche righe senza correre il rischio di essere superficiali. Ciò che si sta vivendo è molto faticoso, le traiettorie di vita si fanno complesse, articolate, ingarbugliate e ricche di soggettività. Ragionare su ciò che qui è richiesto, significa assumere il fatto che la scuola oggi si trova impreparata di fronte alla diversità nel suo esprimersi multiforme. Ma ciò che rende molto difficile vivere con attenzione e profondità la differenza è vivere in una cultura che spinge all’identicità, a mettere le persone nelle condizioni di sentirsi uniche quando invece si è uguali agli altri, che non offre strumenti per crescere facendo esperienza dello snodo educativo dello stare al confine tra identicità e differenza. D: L’incontro più significativo con uno studente, una classe… R: Eravamo a Polistena, un paese della Calabria, nella Piana di Gioia Tauro. Ci trovavamo lì per discutere in una assemblea di studenti delle secondarie di secondo grado, sul diritto al divertimento. Non potrò mai dimenticarmi cosa disse una ragazza, con molto coraggio ma altrettanta tristezza. Dopo un’ora di lavoro, alzò la mano e disse: «Non posso parlare del diritto al divertimento fino a quando gli adulti non ci aiuteranno ad avere qualche prospettiva per il futuro, perché se penso al mio futuro qui, mi viene da piangere, mi sento morire e penso solo ad andarmene via». Per me non ci sono parole che possano commentare questo grido di dolore, di disperazione. Non ci sono parole per giustificare le scelte e gli interessi della politica. Noi abbiamo cercato insieme le parole per trasformare quel grido in un progetto: ma è poco, per questi giovani serve molto di più. D: Oggi si sta diffondendo un altro tipo di dipendenza: quella dal computer. È una dipendenza molto presente? Come vincerla? R: Devo dire che noi adulti abbiamo sviluppato una competenza e un’abitudine a trasformare tutto in problema e a occuparci delle cose solo se ci si presentano in quella forma. Il tema delle tecnologie è proprio emblematico. Avvicinarsi alle questioni con un simile approccio, da un lato, non permette di realizzare uno spazio aperto e libero d’incontro con le persone, che vengono viste attraverso quel preciso dispositivo; dall’altro, il tema stesso è affrontato solo da un punto di vista che ovviamente è il meno positivo. Certo, trovarsi a disposizione un potenziale tecnologico d’enorme possibilità e vivere questa condizione in una società dei consumi rende maggiormenLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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te possibile la trasformazione di questa relazione in una forma di dipendenza. Il problema non sta nello strumento tecnologico specifico, ma, appunto, nella predisposizione al legame di dipendenze che il contesto nel quale si vive permette o ostacola. Gli orientamenti culturali (“sono se posseggo”), le tendenze sociali (passare dall’etica del lavoro all’estetica del consumo), le fatiche nell’esperienza della relazione con l’altro e con se stessi, la debolezza educativa dei genitori e molte altre cose possono contare molto. Accanto a ciò, la lettura patologica del rapporto con le tecnologie rende più difficile guardare a questo fenomeno pensando a come possa non solo produrre dipendenza, ma determinare gli aspetti complessivi della vita delle persone: come crescono, conoscono, apprendono, si relazionano e stanno insieme; come amano, soffrono e così via. Vedere le cose da questa angolazione offre una straordinaria possibilità di conoscenza e uno spazio significativo d’incontro con i giovani. È questo, dunque, l’approccio che tentiamo sempre su questi temi. D: Come riesce una figura carismatica quale don Ciotti ad attirare attorno a sé anche le giovani generazioni? R: Don Luigi ha una posizione che ti scuote; ha le idee chiare e una grande forza, e riesce a trasmetterla non solo attraverso le parole, arrivando al cuore e alla mente. È una persona che non si limita a guardare alle cose del mondo in senso critico; prende posizione e fa precise proposte; ti chiede di uscire dal tuo mondo. Lo fa con forza, ma con grande rispetto, cosa che permette alle persone di scegliere liberamente. Dimostra un’attenzione profonda per le persone che incontra, e riesce a trasmetterla restituendo agli altri speranza, possibilità e valore. È questa forza che lui ha, il suo carisma. Poi, cosa non scontata, prova a fare quello che dice, cerca spazi d’intervento nel mondo. E lo fa in nome di precisi princìpi che cerca di raggiungere (giustizia, uguaglianza, legalità, tutela del bene comune, attenzione agli ultimi) senza essere ideologico: per questo riesce a stare più vicino alle persone.

Michele Gagliardo, responsabile del Piano Giovani del gruppo Abele, è autore insieme a Francesca Rispoli e Mario Schermi di Crescere il giusto. Elementi di educazione civile, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.

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Rembrandt, Autoritratto, 1658, Metropolitan Museum of Art, wikipedia.org.

L’apprendimento degli adulti

Le modalità di apprendimento degli adulti sono diverse da quelle dei bambini; la loro educazione deve quindi basarsi su premesse differenti.

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to (Erikson, 1968). La stabilità costituiva sia norma sia ideale per gli adulti e possibili modifiche erano connesse a crolli non voluti e a debolezza. Tuttavia, dagli anni Settanta in poi, le cose cominciarono ad andare diversamente. I mutamenti nel mondo circostante si facevano più frequenti; l’ideale di stabilità venne integrato da una maggiore flessibilità; gli adulti sentivano il bisogno di poter cambiare, pratica che implica sia il rifiuto di ciò che si è precedentemente acquisito, sia il coinvolgimento nell’imparare cose nuove. Così, a poco a poco, l’apprendimento degli adulti divenne una questione importante. Nelle industrie e nel commercio, l’interesse per l’apprendimento degli adulti era connesso essenzialmente al movimento di sviluppo delle risorse umane (Swanson, Holton, 2001), che nella pratica sembrava essere realizzato secondo il cosiddetto “effetto Matteo” («così, a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha», Vangelo di Matteo, 13.12): il principio per cui coloro che già hanno imparato molto ottengono anche le

ino aagli anni Settanta, nei Paesi industrializzati esisteva la convinzione che l’apprendimento in età adulta avesse la natura di aggiornamento, o riguardasse argomenti minori o nuove materie. L’età dell’apprendimento importante e organizzato, magari con alcune eccezioni, finiva quando si portava a termine un percorso di formazione e/o si otteneva un impiego a tempo indeterminato. Ad esempio, i grandi nomi della psicologia della personalità lanciarono, negli anni Cinquanta e Sessanta, gli ideali e i concetti di “personalità matura” (Allport, 1961) e di “persona pienamente funzionante” (Rogers, 1961), vale a dire la persona adulta che avesse raggiunto un certo livello di completezza e non avesse bisogno di ulteriore apprendimento o di sviluppo. La giovinezza coincideva con l’età dello sviluppo dell’identità, mentre l’età adulta era quella della stabilizzazione di ciò che era già stato acquisi-

▶ Knud Illeris 11

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Louisa Anne Beresford, Marchesa di Waterford (1818-91), La lezione di scrittura, 1880, acquerello su carta, Lancashire, Bolton Museum and Art Gallery.

migliori opportunità per imparare ulteriormente, sia nella loro pratica sia attraverso ulteriori attività educative. Il che, come effetto collaterale, conduce inevitabilmente a un maggiore squilibrio sociale. Come tendenza alternativa, relativamente all’apprendimento degli adulti, emersero tuttavia movimenti sociali che cercarono effettivamente di coinvolgere analfabeti, poveri e oppressi, in una combinazione d’apprendimento elementare e presa di coscienza personale spesso legata a finalità politiche. Il più diffuso di questi è stato, senza dubbio, quello avviato dal brasiliano Paulo Freire, che unì all’insegnamento di lettura e scrittura i cosiddetti “temi generatori”. Il suo libro sulla pedagogia degli oppressi è stato tradotto in un gran numero di lingue e venduto in più di 700 000 copie (Freire, 1970). Un altro movimento simile, sebbene non costituisca esempio altrettanto conosciuto a livello internazionale, fu avviato dai corsi dei sindacati tedeschi, nei quali il sociologo Oskar Negt propose l’“apprendimento esemplare”, molto simile ai temi generatori di Freire (Negt, 1968). Anche l’idea di “apprendimento trasformativo”, introdotta negli Stati Uniti nel 1978 da Jack Mezirow, è stata fortemente ispirata dal movimento di liberazione delle donne (Mezirow, 1978, 1991, 2006). Nel 1972, da qualche parte in mezzo a queste due correnti, le Nazioni Unite introdussero, nel famoso rapporto intitolato Imparare a essere (Faure et al., 1972), lo slogan del Lifelong Learning (l’apprendiLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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mento permanente), che ha rapidamente assunto una posizione centrale nella politica internazionale ed è stato adottato da molti Paesi, anche se il suo impatto maggiore l’ha avuto proprio come slogan, più di quanto sia stato effettivamente realizzato in coerenti modalità d’apprendimento per gente comune. Adulti e bambini A proposito della teoria dell’apprendimento, l’americano Malcolm Knowles sosteneva con forza la diversità tra le modalità di apprendimento degli adulti e quelle dei bambini, e quindi che l’incremento dell’educazione degli adulti avrebbe dovuto essere accompagnata parimenti da una crescita dell’interesse per l’analisi e la comprensione di ciò che la caratterizza, per organizzarla poi di conseguenza. Egli propose il termine di andragogia per indicare l’educazione degli adulti e come controaltare alla pedagogia dei bambini (Knowles, 1970). Questo però sollevò una vera e propria bufera di opposizioni da parte di teorici dell’apprendimento e di studiosi di didattica, i quali sostenevano che l’apprendimento fosse uguale per tutti e che non avrebbero certamente lasciato che il nascente settore dell’istruzione per adulti venisse soffocato dal «pantano andragogico» (Davonport, 1993 [1987], Hartree, 1984). Più recentemente, l’inglese Alan Rogers ha cautamente affermato che «non c’è niente di distintivo nel tipo di apprendimento intrapreso da adulti» (Rogers, 2003, p. 7). 12

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SAPERI La questione, tuttavia, ha bisogno di un chiarimento più puntuale se si vogliono evitare sterili discussioni incentrate su sottostanti lotte di potere. Per la tradizionale psicologia dell’apprendimento non esistono differenze derivanti dall’età, perché l’apprendimento è stato studiato come un fenomeno comune, di cui i ricercatori si sono sforzati d’individuare le caratteristiche di base. Per questo motivo la ricerca ha spesso riguardato animali ed esseri umani ricreando in laboratorio situazioni ora semplici, ora più costruite. Per i ricercatori, poi, l’apprendimento degli adulti come funzione psicologica era fondamentalmente della stessa natura di quello dei bambini. Questo, comunque, dipende da quale definizione di apprendimento si accetta. Se lo si definisce solo ed esclusivamente come funzione psicologica interna dell’acquisizione di nuove conoscenze, competenze ed eventualmente atteggiamenti, come la psicologia di apprendimento tradizionale tende a fare, è in qualche modo possibile affermare che, indipendentemente dalle condizioni concrete (quali le differenze di età o di status sociale), i processi siano fondamentalmente gli stessi. Ma quando la dimensione emotiva e l’interazione sociale sono comprese fra gli elementi necessari e integrati dell’apprendimento, il quadro cambia. In realtà, la maggior parte dei moderni teorici dell’apprendimento ha accolto questo assunto, alcuni arrivando persino a considerare l’apprendimento principalmente o meramente un processo sociale (Lave, Wenger, 1991, Gergen, 1994). Per quanto riguarda l’età, è evidente che la natura delle nostre relazioni con l’ambiente sociale e relazionale cambia notevolmente durante il corso della vita: dalla totale dipendenza del neonato, agli sforzi per l’indipendenza del giovane, per giungere infine a un diverso tipo di dipendenza dell’anziano. Questi mutamenti influenzano fortemente il carattere di entrambe le dimensioni dell’apprendimento, sociale ed emotiva. Prima di prendere in analisi ciò che è caratteristico dell’apprendimento negli adulti, devo dunque iniziare con l’annotare alcune caratteristiche di base di quello dei bambini.

e dell’ambiente circostante. In secondo luogo, ripone la massima fiducia negli adulti, il cui comportamento è la principale fonte d’apprendimento per un bambino, che non ha la possibilità di valutare o selezionare cosa sperimentare. Il bambino deve, ad esempio, imparare la lingua che parlano gli adulti che lo circondano e mettere in pratica la cultura che gli trasmettono. Lungo tutta l’infanzia, ciò che il bambino cattura dell’ambiente che lo circonda è fondamentalmente privo di censura e caratterizzato dalla massima fiducia, come sforzo illimitato e indiscriminato di sfruttare le opportunità che gli si presentano. Certamente la società è diventata gradualmente sempre più complessa e i ragazzini più grandi ricevono una gran quantità di stimoli dai loro compagni e dai mass media ben oltre i confini del loro ambiente. Ma è ancora l’approccio aperto e fiducioso a dover essere riconosciuto come il punto di partenza. L’adulto e l’apprendimento L’apprendimento durante la maggiore età si colloca all’opposto. Adulto è l’individuo capace e intenzionato ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Formalmente, la società ascrive tale maturità ai diciottenni. In realtà, si tratta di un processo graduale che procede lungo l’intero corso della giovinezza, e che può facilmente continuare nei vent’anni o risultare incompleto, posto che la formazione di un’identità relativamente stabile sia scelta come criterio per il suo completamento a livello mentale. Imparare da adulti significa anche, in linea di principio, assumersi la responsabilità del proprio apprendimento, vale a dire smistare più o meno consapevolmente le informazioni e decidere quello che si vuole imparare. Dopo tutto, nella complessa società di oggi, il volume di ciò che può essere imparato supera di gran lunga la capacità di apprendimento di ogni singolo individuo. Quindi una selezione d’ingresso deve essere necessariamente fatta dall’apprendente adulto. A differenza di quello senza censure e fiducioso dei bambini, l’apprendimento degli adulti è fondamentalmente selettivo e auto-diretto. In breve, l’adulto: 1. impara quello che vuole imparare e ciò che è significativo per lui; 2. attinge dalle risorse che ha già incamerato nel corso del suo apprendimento; 3. si assume la responsabilità di ciò che impara (se questo gli è concesso); 4. non è particolarmente incline a imparare qualcosa per cui non prova interesse, o in cui non scorge un significato o uno scopo. Lo imparerà in modo

L’apprendimento infantile Si potrebbe descrivere l’apprendimento durante l’infanzia come una continua spedizione di conquista del mondo. A tal proposito, due sono le importanti caratteristiche collegate all’apprendimento, in special modo per il bambino. In primo luogo, il suo imparare è totalizzante e senza censure. Impara da tutto ciò che è alla sua portata, si getta in tutto; i suoi limiti sono solo quelli dello sviluppo biologico 13

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SAPERI| L’apprendimento degli adulti parziale, con una mancanza di motivazione che con molta probabilità lo porterà a dimenticare. Ciò indica che gli incentivi dell’apprendimento, ad esempio le opzioni educative degli adulti, consciamente o inconsciamente sono accolti da scetticismo e da considerazioni quali: «Perché vogliono che impari questa cosa? A cosa mi serve? Come s’inserisce nelle mie prospettive di vita?». L’apprendimento nel corso della giovinezza può essere visto come una transizione, in cui la modalità senza censure dell’infanzia viene gradualmente sostituita dalla formazione selettiva caratteristica dell’età adulta, e l’identità si sviluppa come una sorta di scala o parametro di questa selettività.

hanno il controllo della situazione. Pertanto sono molto ambivalenti e la parola d’ordine “formazione permanente” può in tali situazioni diventare molto ambigua. La realtà sembra molto diversa dalle buone intenzioni di organizzazioni come l’UNESCO, l’OCSE, l’UE o la Banca Mondiale. L’educazione degli adulti nel mondo d’oggi è solitamente ben lontana dai progetti d’emancipazione delle scuole superiori popolari o di progresso pubblico, in relazione alle quali era stata originariamente lanciata l’idea della formazione permanente. Quindi non solo il contenuto, ma anche la situazione dell’apprendimento, i messaggi e l’influenza in essa contenuti saranno spesso accolti da atteggiamenti di scetticismo, per essere sempre assunti e filtrati attraverso la propria esperienza individuale, sia che siano trasmessi in forma di conversazione, guida, lusinga e pressione, sia per costrizione. Se è vero che le possibilità d’apprendimento andrebbero curvate in una direzione positiva, la comunicazione e le influenze devono essere convincenti su questa base; vale a dire che gli adulti devono accettarle psicologicamente, essere in grado di comprenderne il significato in relazione a se stessi (Illeris, 1998, 2003, 2006).

Dover “tornare a scuola” In realtà, non sono solo ricercatori, amministratori e insegnanti ad avere tradizionalmente avuto l’idea che l’apprendimento sia principalmente collegato a infanzia e giovinezza. Quest’interpretazione è molto diffusa anche tra gli studenti adulti. Se per qualche ragione devono impegnarsi in corsi di formazione ordinari, li si sente sovente dire d’esser dovuti “tornare a scuola” o frasi simili, non certamente portatrici di un’accezione positiva. Vivono la situazione come se fossero costretti a ritornare a un tipo artificiale d’infanzia, qualcosa di degradante o umiliante: “tornare a scuola” significa non essere abbastanza bravi per le attività in cui si è coinvolti. Nelle società democratiche gli adulti sono considerati persone che possono e devono assumersi la responsabilità di se stesse, di ciò che fanno e dicono. Allo stesso tempo, però, sono soggetti a una moltitudine di rischi e situazioni che non possono controllare. Nell’apprendimento come nell’educazione, quasi chiunque può sperimentare, all’improvviso e senza averne alcuna responsabilità, che le proprie qualifiche sono diventate inutili e non possono più essere spendibili sul mercato del lavoro. Ciò può accadere, ad esempio, se i proprietari o gli stakeholder del proprio posto di lavoro decidono il trasferimento in un altro Paese, in cui la manodopera costa meno, o se una nuova direzione intraprende una riorganizzazione che rende inutili alcuni dipartimenti e persone. Ma possono esservi anche motivi personali: un cattivo rapporto con i superiori; scarsa concentrazione causata da problemi in casa; troppi giorni persi per malattia ecc. Un numero considerevole di studenti, a volte la maggioranza, partecipa ai corsi per adulti non perché vuole farlo, ma perché è tenuto a farlo, per qualche motivo al di là del suo controllo. Ciò che è fondamentale, infatti, è che questi studenti adulti non La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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L’apprendimento astratto Mentre la questione del carattere specifico dell’educazione degli adulti è stata trascurata dalla tradizionale psicologia dell’apprendimento come dalla maggior parte della ricerca educativa, qualche discussione è avvenuta in ambito del Cognitivismo. La teoria dell’apprendimento cognitivo, proposta da Jean Piaget nel 1930 sulla base di ampi studi empirici, è incentrata sullo sviluppo delle possibilità d’apprendimento durante l’infanzia attraverso una serie di stadi e sotto-stadi cognitivi, il che implica l’esistenza di uno specifico percorso di sviluppo. Questo, però, termina quando il bambino raggiunge, a 11-13 anni, lo stadio “operatorio formale”, il che rende il pensiero logico-deduttivo una integrazione delle forme d’apprendimento acquisite nelle fasi precedenti (Flavell, 1963). Ad ogni modo, la teoria di Piaget di quest’argomento è stata messa in discussione da più parti. Da un lato, è stato rilevato che non tutti gli adulti sono in grado di pensare in modo formalmente operativo nel senso della definizione di Piaget. La ricerca empirica dimostra che nell’Inghilterra del 1980 si trattava di meno del 30% della popolazione adulta, ma allo stesso tempo conferma come all’inizio della pubertà abbia luogo uno sviluppo decisivo dell’apprendimento in termini astratti, cosicché, alla fine, ciò giustifica la distinzione di una nuova 14

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Louisa Anne Beresford, Marchesa di Waterford (1818-91), La lezione di scrittura, 1880, acquerello su carta, Lancashire, Bolton Museum and Art Gallery.

fase (Shayer, Adey, 1981). Dall’altro lato, è stato affermato che, in un momento successivo, possono svilupparsi capacità cognitive significativamente nuove, estese al di là dell’operatorio formale (Commons, 1984). Stephen Brookfield, ricercatore americano sull’educazione degli adulti, ha riassunto questa critica evidenziando quattro facoltà dell’apprendimento che si sviluppano solo nell’età adulta: 1. la capacità di pensiero dialettico; 2. la capacità di applicare la logica pratica; 3. la capacità di capire come si può conoscere ciò che si conosce (meta-cognizione); 4. la capacità di riflessione critica (Brookfield, 2000). Una recente ricerca neurologica sembrerebbe indirettamente sostenere le affermazioni di Brookfields. È stato verificato che i centri cerebrali del lobo frontale che svolgono funzioni come la pianificazione razionale, la definizione delle priorità e il prendere decisioni fondate, non maturano fino alla tarda adolescenza (Gogtay, 2004) o addirittura più tardi. Questa scoperta sembra fornire chiarimenti sulle differenze tra la capacità del pensiero logico formale e pensiero/apprendimento logico pratico, nonché tra

cognizione ordinaria e meta-cognizione nell’adolescenza e nella prima età adulta. Ad ogni modo, dobbiamo concludere che durante la pubertà e la giovinezza avviene un processo fisiologico e neurologico di maturazione che rende possibili nuove forme d’apprendimento astratto e rigoroso. Di conseguenza, l’individuo acquisisce la capacità di operare in modo indipendente dal contesto, con sistemi concettuali coerenti, un comportamento equilibrato e mirato (se tale potenziale sia poi effettivamente applicato è un’altra questione). La determinazione degli adolescenti a scoprire come le cose sono strutturate e a utilizzare tale comprensione in relazione alla loro situazione potrebbero essere viste come un ponte per lo sviluppo cognitivo e rappresentare la differenza tra le modalità d’apprendimento dei bambini e quelle degli adulti. Gli elementi che differenziano l’apprendimento degli adulti da quello dell’infanzia sono dunque il desiderio d’indipendenza e quello di capire come loro stessi e il loro ambiente funzionano. Lungo tutta la giovinezza, l’individuo si farà sempre più carico del proprio processo di apprendimento come del non-apprendimento, farà scelte e rifiuti, capirà con che cosa ha a che fare, i propri ruoli e le proprie possibilità. 15

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SAPERI| L’apprendimento degli adulti Tutto ciò però è stato complicato dal dualismo tipico della tarda modernità tra, da un lato, un accesso apparentemente illimitato alle informazioni e, dall’altro, la pressione indiretta del controllo di genitori, insegnanti, culture giovanili, mass media. La transizione da bambino ad adulto è quindi diventata, nel campo dell’apprendimento, un processo ambiguo e complicato, dai contorni sfumati e dalle condizioni poco chiare.

e oltre, ed è pregresso rispetto alle situazioni in cui opera, la resistenza è provocata da elementi insiti alla situazione e ai contenuti dell’apprendimento, considerati inaccettabili dal discente. Ci possono essere molte ragioni per la resistenza nell’apprendimento, alcune delle quali inconsce o addirittura ancorate a lontane esperienze traumatiche dell’infanzia, mentre altre sono certamente consapevoli, ad esempio possono avere a che fare con convinzioni politiche, morali o religiose. Per gli educatori è importante rendersi conto che le situazioni di resistenza nell’apprendimento sono anche, contemporaneamente, situazioni in cui gli studenti sono molto “eccitati” e sensibili. Molto spesso, quando si chiede a un adulto quando ha imparato qualcosa d’importante dal punto di vista personale, riferisce di situazioni di resistenza all’apprendimento. Pertanto, in tali situazioni, gli studenti non dovrebbero essere trascurati, ma l’insegnante dovrebbe cercare la possibilità di un colloquio personale, in cui con calma aiutare lo studente a capire i motivi di tale reazione, qual è la posta in gioco e che conseguenze possono eventualmente essere tratte.

Barriere dell’apprendimento Oltre a questo, nella complessa società moderna, la quantità di cose che è possibile imparare supera di gran lunga quello che ogni persona è in grado di gestire, non solo per il contenuto dell’apprendimento, ma anche per le possibilità di atteggiamenti, modi di comunicazione, modelli di azione, stili di vita ecc. La selezione diventa una necessità che in linea di principio gli adulti vorrebbero attuare in prima persona, assumendosene la responsabilità. Così, il loro desiderio d’imparare e di assumersi la responsabilità del proprio apprendimento sono fortemente modificati, in primo luogo, dall’impatto delle loro esperienze scolastiche, in secondo luogo, dall’inevitabile selezione che si sviluppa in quel sistema difensivo di tipo semi-automatico, che è stato descritto come «la coscienza di tutti i giorni» (Illeris, 2004, 2007). Il suo funzionamento passa attraverso lo sviluppo di pre-interpretazioni generali all’interno di alcune aree tematiche. Quando ci s’imbatte in influenze esterne all’interno di una determinata area, queste pre-interpretazioni vengono attivate, in ​​ modo che se gli elementi delle influenze non corrispondono sono respinti o distorti per farli accordare. In entrambi i casi il risultato non è un nuovo apprendimento, ma il consolidamento di conoscenze già esistenti. Questa è una delle ragioni per cui gli adulti sono spesso riluttanti nei confronti di tutto ciò che gli altri vogliono far loro imparare o che essi stessi non sentono il bisogno di imparare. Consapevolmente o inconsapevolmente vogliono decidere per se stessi. Ma, al tempo stesso, è più facile lasciare che siano gli altri a decidere, per vedere cosa succede e mantenere il diritto di protestare, fare resistenza o abbandonare, se non si è soddisfatti. In sintesi, l’atteggiamento è molto spesso ambiguo e contraddittorio. Tuttavia i meccanismi di difesa nell’apprendimento (influenti e molto frequenti) non devono essere confusi con la resistenza nell’apprendimento, un tipo molto più attivo e di solito anche consapevole di barriera. Laddove il sistema “difensivo” d’apprendimento è costruito gradualmente durante la giovinezza La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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L’apprendimento trasformativo Per l’apprendimento degli adulti è quindi importante riconoscere se sia o no soggettivamente significativo. Pertanto è essenziale capire anche che il contesto risiede nel percorso esistenziale dello studente e nei suoi progetti. L’essenza del percorso di vita risulta nella costruzione d’una identità, vale a dire un’istanza mentale centrale contenente la comprensione di chi si è, chi si vuole essere e di come si ha l’idea di essere percepiti dagli altri. Il concetto d’identità, in origine una costruzione prevalentemente psicologica, nel corso degli ultimi decenni è stato ulteriormente elaborato da alcuni importanti sociologi, come il tedesco Ulrich Beck (1997 [1986]), Anthony Giddens (1991) e il polacco-britannico Zygmunt Bauman (2000). L’idea centrale che ne è derivata, a mio avviso, è che nell’età della «modernità liquida», secondo la definizione di Bauman, per dar conto della continua evoluzione del mondo dobbiamo sviluppare identità da un lato stabili, in modo da consentirci un’esperienza coerente di noi stessi, dall’altro flessibili al punto da permettere di trasformarci in concomitanza di cambiamenti vitali. In questa prospettiva il concetto di Jack Mezirow di “apprendimento trasformativo” acquista un nuovo significato: può essere visto come il tipo di apprendimento degli adulti che ha a che fare con le trasformazioni dell’identità. Per quanto riguarda quest’ultima, è bene non sot16

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Rembrandt Harmensz. van Rijn (1606-69), La lezione di anatomia del Dottor Tulp, 1632, olio su tela, Mauritshuis, The Hague.

tovalutare nemmeno il ruolo dei progetti di vita nell’ambito della formazione degli adulti. Di solito sono progetti relativamente stabili e a lungo termine, ad esempio creare ed essere parte di una famiglia, o trovare un lavoro soddisfacente dal punto di vista personale e finanziario, o ancora dedicarsi nel tempo libero a un hobby, a un progetto che procuri soddisfazione o relativo a un credo, di natura religiosa o politica. Incorporati nella storia, nel presente e nelle prospettive della persona, questi progetti sono strettamente correlati all’identità. Su questa base organizziamo le nostre difese, in modo che lascino passare ciò che è importante per i nostri progetti e respingano il resto. Lo stesso presupposto vale per le modalità in cui, come nucleo centrale delle nostre difese, sviluppiamo meccanismi di difesa che fungono da contromossa alle influenze che potrebbero minacciare l’esperienza di chi siamo e di chi vorremmo essere. Tali questioni includono in sé le premesse fondamentali, dal punto di vista degli studenti, dell’apprendimento degli adulti: indicano come assolutamente

fondamentale la motivazione iniziale, che è poi il modo in cui considerano il corso di studi rispetto ai loro progetti di vita. In alcuni casi, l’apprendimento in età adulta può portare a un’importante crescita personale, se vi si arriva motivati e il programma di studio è all’altezza delle aspettative. Tuttavia, una percentuale abbastanza considerevole dei partecipanti s’impegna in modo positivo in attività formative solo a patto che queste si configurino come una sfida che “li trasforma” fin all’inizio o lungo il percorso. Molto spesso, quindi, si impegnano solo superficialmente e non imparano molto, il che porta alla dispersione di risorse umane e finanziarie.

▶ Knud Illeris è esperto di lifelong learning. Professore presso la Roskilde University, in Danimarca, insegna Educational Research. Ha pubblicato più di settanta libri e ottocento articoli sul tema dell’istruzione ed educazione degli adulti.

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SAPERI| L’apprendimento degli adulti APPROFONDIRE

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Rembrandt, Autoritratto, 1658, Metropolitan Museum of Art, wikipedia.org.

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Foto di classe, Inghilterra 1900. Foto Victorian Traditions / Shutterstock.com.

Drop-out: storia di un rovesciamento

I ragazzi che a sedici anni scelgono di interrompere il percorso di istruzione sono a volte denominati drop-out: coloro che sono “spinti fuori”.

L’

obbligo di istruzione in Italia dura fino ai 16 anni; si tratta di un termine con connotazione anagrafica (il compimento dei sedici anni). Dai 16 anni si passa al diritto/dovere all’istruzione e formazione, che termina con il conseguimento di una qualifica di secondo livello EQF (European Qualification Framework). In questo secondo caso, dunque, non è il compimento dei diciotto anni, ma il conseguimento di un titolo (attraverso un contratto di apprendista minorenne, mediante un percorso di qualifica nella formazione professionale o tramite il compimento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado) a determinarne l’assolvimento. Il decreto ministeriale del 22 agosto 2007 (e le successive linee guida del 27 dicembre dello stesso anno) ha introdotto come primo obiettivo dei percorsi di istruzione il conseguimento di sedici competenze di base riunite in quattro assi culturali. Si tratta, pertanto, di obiettivi di apprendimento espressi in termini

di competenze. Teoricamente, quelle competenze dovrebbero essere raggiunte dall’intera popolazione giovanile italiana entro i sedici anni, ma di fatto ci troviamo in una situazione molto particolare. I ragazzi che escono dal sistema di istruzione vengono “certificati” dalla scuola di provenienza in relazione al possesso o al non possesso delle competenze (o di alcune di esse) con relativa stima del loro livello (base, intermedio, avanzato). In caso di esito positivo relativamente a una o più competenze, coloro che si sono trovati fuori dai sistemi, in vacanza dell’applicazione della legge, possono essere certificati anche dai centri per l’impiego. I ragazzi che a sedici anni scelgono di interrompere il percorso di istruzione sono comunemente denominati, con un’espressione tanto infelice quanto veritiera, drop-out (coloro che sono “spinti fuori”, “cacciati fuori”, “lasciati andare”). Le scelte possibili sono: proseguire il percorso di istruzione sino al conseguimento di un diploma, inserirsi nel mondo del lavoro con un contratto di apprendista minore, oppure scegliere un percorso di formazione professionale. Molti di loro “scelgono” un percorso di for-

▶ Federico Batini 19

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SAPERI| Drop-out: storia di un rovesciamento Asse dei linguaggi Prevede come primo obiettivo la padronanza della lingua italiana, come capacità di gestire la comunicazione orale, leggere, comprendere e interpretare testi di vario tipo e di produrre lavori scritti con molteplici finalità. Riguarda inoltre la conoscenza di almeno una lingua straniera; la capacità di fruire del patrimonio artistico e letterario; l’utilizzo delle tecnologie della comunicazione. Questo asse prevede il conseguimento di sei competenze di base a conclusione dell’obbligo di istruzione: padroneggiare gli strumenti espressivi e argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti; leggere, comprendere e interpretare testi scritti di vario tipo; produrre testi adeguati a differenti scopi comunicativi; utilizzare una lingua straniera per i principali scopi comunicativi e operativi; utilizzare gli strumenti fondamentali per la fruizione consapevole del patrimonio artistico e letterario; utilizzare e produrre testi multimediali. Asse matematico Riguarda la capacità di utilizzare le tecniche e le procedure del calcolo aritmetico e algebrico, di confrontare e analizzare figure geometriche, di individuare e risolvere problemi e d’analizzare dati e inJan van Scorel, Ritratto di un giovane scolaro, 1531, wikipedia.org. terpretarli, sviluppando deduzioni e ragionamenti. Le competenze di base a conclusione dell’obbligo dell’istruzione sono, in questo caso, quattro: utilizzare le tecniche e le procedure del calcolo aritmetico ed algebrico, rappresentandole anche sotto forma grafica; confrontare e analizzare figure geometriche, riconoscendo invarianti e relazioni; individuare le strategie appropriate per la soluzione di problemi; analizzare dati e interpretarli sviluppando deduzioni e ragionamenti sugli stessi anche con l’ausilio di rappresentazioni grafiche, usando consapevolmente gli strumenti di calcolo e le potenzialità offerte da applicazioni specifiche di tipo informatico. Asse scientifico-tecnologico Riguarda metodi, concetti e atteggiamenti indispensabili osservare e comprendere sia il mondo naturale sia quello delle attività umane, contribuendo al loro sviluppo nel rispetto dell’ambiente e della persona. In questo campo assumono particolare rilievo l’esperienza e l’attività di laboratorio. Le competenze obiettivo sono quattro e cioè: osservare, descrivere e analizzare fenomeni appartenenti alla realtà naturale e artificiale, riconoscendo nelle loro varie forme i concetti di sistema e di complessità; analizzare qualitativamente e quantitativamente fenomeni legati alle trasformazioni di energia a partire dall’esperienza; essere consapevole delle potenzialità delle tecnologie rispetto al contesto culturale e sociale in cui vengono applicate. Asse storico-sociale Riguarda la capacità di percepire gli eventi storici a livello locale, nazionale, europeo e mondiale, cogliendone le connessioni con i fenomeni sociali ed economici; l’esercizio della partecipazione responsabile alla vita sociale nel rispetto dei valori dell’inclusione e dell’integrazione. Le competenze obiettivo dell’ultimo asse, a conclusione dell’obbligo, sono: comprendere il cambiamento e la diversità dei tempi storici in una dimensione diacronica, attraverso il confronto tra epoche, e in una dimensione sincronica, attraverso il confronto tra aree geografiche e culturali; collocare l’esperienza personale in un sistema di regole fondato sul riconoscimento dei diritti garantiti dalla Costituzione a tutela della persona, della collettività e dell’ambiente; orientarsi nel tessuto produttivo del territorio. Maggiori informazioni sul sito www.pratika.net.

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SAPERI mazione professionale tra i pochi proposti in ambito provinciale o regionale (con una “scelta”, dunque, limitata a pochi profili o a figure professionali, come sono definite dall’Accordo Stato-Regioni). Per il ragazzo o la ragazza che si inserisce senza possedere alcuna competenza nelle Regioni in cui sono previsti percorsi di recupero delle medesime competenze di base, non si presenta alcun problema. I problemi si pongono, invece, laddove vi sia una certificazione parziale delle sedici competenze di base. Quale processo è stato seguito per la loro rilevazione? Chi lo ha verificato? Tra scuole ed enti che gestiscono la “messa a livello”, c’è simmetria di procedure? Vi sono sistemi di valutazione simili? C’è un riferimento comune? Purtroppo la risposta è “no” a ognuna di queste domande. Lasciando alla scuola l’onere e l’onore della certificazione, tutti questi problemi rimangono aperti e dovranno essere risolti quanto prima. Poniamo, ad esempio, che Giovanna arrivi a un percorso di “recupero delle competenze di base” con tre competenze certificate dalla scuola di provenienza (trascuriamo, per il momento, il livello di padronanza che le è stato attribuito). Come ha fatto l’istituto ad assegnarle una padronanza perlomeno sufficiente di queste competenze? Il decreto del Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini (il numero 9 del 2010) che istituisce il modello di certificato (si tratta, né più né meno, di una declaratoria) non dice nulla a proposito della modalità per rilevare queste competenze prima di certificarle. Molto spesso, dunque, Giovanna avrà ricevuto una valutazione che è stata trasferita tout-court dalla valutazione sommativa relativa alle discipline a una valutazione per competenze. Se Giovanna aveva la sufficienza in italiano, avrà, molto probabilmente, certificate positivamente la maggior parte delle competenze dell’asse linguistico. La didattica sarà stata improntata, con altissima probabilità, su contenuti e nozioni, la valutazione ne avrà verificato il fissaggio, e la certificazione, infine, attesterà le competenze di Giovanna.

esperienza formativa e la ritengono inutile, o peggio, dannosa. Come nota a margine, occorrerebbe riflettere sul fatto che alcuni ragazzi/e eccellenti (per risultati e valutazioni conseguiti) nei percorsi di istruzione formale, la pensano esattamente allo stesso modo riguardo alla loro esperienza nel sistema di istruzione. Altri credono di essere loro stessi “il problema”, per una serie di motivi diversamente combinati tra loro. Alcuni si annoiano e manifestano atteggiamenti fatalisti e rinunciatari: «Che palle, tanto tutta questa roba non serve a niente». Hanno ragione se il tempo speso, non per loro volontà, non ha restituito loro nulla (non importa che sia vero o no: conta ciò che sentono, avvertono, percepiscono; nessuno può mettere in dubbio le emozioni, sensazioni e convinzioni di un’altra persona circa le sue esperienze). Altri ancora ritengono, semplicemente, che non sia “roba” per loro, che non sono in grado di ricavarne alcunché, né possono farci nulla: si tratta di incompatibilità, di inadeguatezza e basta. Non sono pochi quelli che sono proprio convinti di non essere intelligenti (e fanno un’enorme confusione tra l’essere intelligenti e il possedere nozioni e conoscenze: qualcuno avrà istillato loro quest’assurda concezione di intelligenza, no?). Per alcuni sono cose che hanno un’utilità, ma non nel loro caso, in quanto si percepiscono appartenenti a un altro mondo. Pochissimi sono sereni rispetto all’esperienza di istruzione compiuta, anzi, incompiuta, visto che hanno interrotto la scuola secondaria di secondo grado, che pure la legge li obbliga a iniziare. Alcuni sapevano già che avrebbero interrotto l’esperienza scolastica, spesso sono loro i più sereni. Molti sono stati “aiutati” a smettere da conflitti, da incomprensioni, da un ambiente scolastico che non ha fatto nulla per loro, lasciandoli annaspare nella massa indistinta dei tanti che affollano le ultime due classi delle superiori (in seconda ci sono arrivati in pochi, e alcuni hanno appena terminato le scuole secondarie di primo grado, con permanenze di cinque anni anziché tre). Frasi come «Le ore sono di cinquanta minuti», «C’era da fare il programma», «Sono così tanti», «D’altronde non abbiamo i mezzi», «I colleghi remano contro», frasi che abbiamo sentito, magari detto, sono gli indizi che la «colpa» raramente sta da una parte sola, nel fallimento di una relazione educativa. E quando è davvero così, allora vuol dire che la «colpa» è solo dell’adulto. Spesso i retroterra familiari parlano di disagio economico, sociale, culturale. A volte, conoscendo le storie di questi ragazzi, pensi che sia un miracolo il solo fatto che siano ancora in piedi. Complessivamente avvalora quanto disse della scuola, con felice seppur terribile metafora, don Milani, e cioè che «è come un

I drop-out I drop-out sono ragazzi e ragazze che, nella quasi totalità dei casi, hanno un rapporto difficile e complesso con il concetto stesso di “stare in aula”. Lo stare in aula ha comunque rappresentato una delle occupazioni che ha impegnato più tempo nella loro vita; qui hanno intessuto e rotto relazioni, hanno sperimentato emozioni diverse, hanno avuto conflitti forti; i loro percorsi formativi sono stati, quasi sempre, accidentati, conflittuali, svilenti, non valorizzanti. Alcuni hanno un’opinione negativa della loro intera 21

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SAPERI| Drop-out: storia di un rovesciamento ospedale che cura i sani e respinge i malati». Non sono pochi, però, coloro che di fronte a un’occasione reale di apprendimento “diverso”, centrato su di loro, aprono le porte e fioriscono, come testimoniano le esperienze più felici nella formazione professionale. Se non si approfitta di tali aperture, consentendo di sperimentare il successo formativo, si compie un delitto.

Sosteneva infatti che avrebbe saputo riprodurre la mappa del terreno circostante visto da ogni singola finestra dell’aula fin nei minimi dettagli grafici, ma che mai, nemmeno in un miliardo di anni, avrebbe saputo mettersi a spiegare che cosa succedeva nella classe intorno a lui.» (Tristan Egolf, Il signore della fattoria, Frassinelli, Milano, 2005).

▶ Federico Batini è professore aggregato di Metodologia della ricerca in educazione e pedagogia sperimentale e consulenza pedagogica all’Università di Perugia, dove è ricercatore confermato. Si occupa di approccio narrativo, competenze, identità sessuale, formazione insegnanti, orientatori. Ha fondato e dirige Pratika (www.pratika.net), Nausika (www.narrazioni.it) e Thélème (www.theleme.it). Dirige la rivista “Lifelong Lifewide Learning” (rivista.edaforum. it). È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche. Blog: federicobatini.wordpress.com. Contatti: federico.batini@unipg.it.

Storia di un rovesciamento Normalmente i drop-out sono definiti in negativo, attraverso ciò che non sanno, non fanno, non hanno avuto l’occasione di completare. In questa particolarissima situazione, tuttavia, si inserisce un rovesciamento. Sono proprio le sperimentazioni, i percorsi di recupero, le didattiche sperimentate con i dropout a proporre un modello per il percorso classico di istruzione. Negli ultimi anni la produzione normativa comunitaria, nazionale e delle diverse Regioni, ha infatti insistito moltissimo sulle competenze. Questo spostamento di baricentro determina la “fine” dei “programmi” come stella polare dei processi di insegnamento per riproporre la centralità dell’apprendimento e dei soggetti. Insegnare per competenze significa ricordare che l’insegnamento non è un’operazione da “intellettuali”, ma un’azione che deve porsi a servizio dell’apprendimento, vero focus e centro di un sistema di istruzione e formazione. Nessun contenuto, nozione, conoscenza o programma può essere al centro: al centro ci stanno i ragazzi, le ragazze e i loro obiettivi di apprendimento declinati in termini di competenze da sviluppare. Il contributo fornito dai percorsi rivolti ai drop-out per consentire loro di sviluppare le competenze di base e le competenze di cittadinanza, in tempi eccessivamente contratti, ha permesso la ricerca, la sperimentazione e la verifica di didattiche e percorsi innovativi. Per una volta un rovesciamento che pare caricarsi anche di una felice ironia, i drop-out hanno molto da insegnarci. Chi non teme questa utenza lavora in sua compagnia con enorme soddisfazione vedendo fiorire una nuova percezione di sé, in seguito al cambiamento delle pratiche didattiche, del vocabolario, delle modalità di valutazione (che debbono essere “descolarizzati”). Un ragazzo o una ragazza abituati a percepirsi come inadatti, inadeguati rispetto alle esperienze di apprendimento, quando sperimentano il successo formativo recuperano un’immagine migliore di sé, mobilitano le proprie risorse, crescono… «Il commento generale di John sui suoi undici anni alla Holborn (dalle elementari alle superiori) si limitava quasi esclusivamente a un’unica frase generica.

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APPROFONDIRE

A.A.V.V., Competenze ed educazione degli adulti, numero monografico di “Focus on Lifelong, Lifewide Learning”, n. 10, 2008, Transeuropa, Massa Carrara (on-line reperibile nel sito: rivista.edaforum.it).

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F. Batini (a cura di), Apprendere è un diritto, ETS, Pisa, 2006. F. Batini, G. Del Sarto, M. Perchiazzi, Raccontare le competenze, Transeuropa, Massa, 2007; 2008. F. Batini, M. Gadotti, P. Mayo, P. Reggio, A. Surian, (a cura di F. Batini e A. Surian), Competenze e diritto all’apprendimento, Transeuropa, Massa, 2008.

F. Batini, S. Giusti, L’orientamento narrativo a scuola. Lavorare con le competenze per l’orientamento dalla scuola dell’infanzia all’educazione degli adulti, Erickson, Trento, 2008.

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F. Batini, Storie, futuro e controllo, Liguori, Napoli, 2011. F. Batini, S. Cini, A. Paolini, Le sedici competenze di base, Pensa, Lecce, 2011 (Guida per insegnanti).

F. Batini (a cura di), FLFL, Diario di bordo per l’acquisizione delle sedici competenze di base, Pensa, Lecce, 2011 (Libro di testo con le attività da compilare per allievi).

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F. Batini (a cura di), Verso le competenze chiave, Pensa Multimedia, Lecce, 2012. F. Batini, Insegnare per competenze, Loescher, Torino, 2013. P. Brunello, A. Capone, T. Carrozzino, D. Giovannini, S. Giusti, F. Ferretti, Valutare le competenze nel sistema scolastico, Pensa Multimedia, Lecce, 2011.

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Dare a ognuno una seconda possibilità L’“altra scuola” è quella di chi non vuole arrendersi alla evidenza dei numeri e delle difficoltà quotidiane, continuando a interrogarsi sulle molteplici cause che portano tanti giovani, italiani e stranieri, all’abbandono.

Clandestini immigrati in un centro di detenzione, wikipedia.org, fotografia di Georgios Giannopoulos.

L’

altra scuola è quella che in una società democratica non costruisce solo alfabeti ma anche processi di cittadinanza per tutti. È la scuola che al tempo stesso non nasconde a se stessa d’essere ancora inadeguata a costruire un futuro possibile a un numero crescente di allievi che vi entrano con il fardello pesante di un vissuto difficile. È fatta d’insegnanti che ogni giorno, varcandone la soglia, hanno ben chiaro che il fallimento di questi loro studenti è anche il fallimento di tutta una società, e che abbandonandoli danneggia il loro e il proprio futuro, producendo impoverimento culturale e fenomeni sempre più ampi di marginalizzazione e conflittualità latente. Ma l’altra scuola è anche quella di chi non vuole arrendersi all’evidenza dei numeri e delle difficoltà quotidiane, continuando a interrogarsi sulle molteplici cause che portano tanti giovani, italiani e stranieri, all’abbandono e costringono altri, per lo più adolescenti di recente immigrazione, a rinunciare allo sviluppo dei percorsi di istruzione formale inter-

rotti nel Paese d’origine. È la scuola che, dopo aver fatto le domande, tenta di dare ancora una volta risposte concrete, per trattenere fra le sue mura le fasce più deboli dei futuri cittadini italiani, per nascita o per adozione, abbandonando le pratiche emergenziali (dettate talvolta dal buon cuore o dai sensi di colpa, altre volte dall’approssimazione) non di rado qualitativamente scadenti, dispersive e poco efficaci. A fronte di risorse economiche e professionali sempre più limitate e davanti a dati che ci indicano criticità strutturali, è infatti ormai necessario indirizzarsi verso interventi flessibili, ma al tempo stesso coesi e protratti nel tempo: progetti che si sviluppino in parallelo sul piano organizzativo, educativo e didattico, possibilmente in sinergia con altre agenzie del territorio, per tentare di trattenere nella rete educativa i tanti pesci fuor d’acqua che passano per le nostre scuole, rispondendo in modo adeguato ai loro bisogni e a quelli delle loro famiglie. Una parola in meno, un calcio in più dalla vita I fili di cui è intessuta l’intricata rete delle cause che concorrono all’insuccesso scolastico sono numerosi e da tempo oggetto di studi in ambito socioeconomi-

▶ Gaia Pieraccioni 23

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co, sociologico e psicopedagogico. Alcuni ci portano a considerare le caratteristiche specifiche del singolo studente (motivazione, autostima, orientamento verso uno scopo ecc.), altri sono connessi allo stato socioeconomico, al contesto familiare e culturale (coesione familiare; attese, valori e atteggiamenti verso l’insegnamento-apprendimento) o alla scuola stessa (aspettative e motivazione degli insegnanti, stili di insegnamento, relazioni tra pari). Per gli studenti stranieri si aggiungono fattori specifici, fra i quali l’appartenenza etnica e culturale, e soprattutto l’esperienza migratoria, sulla quale ritornerò più avanti. Tra questi fattori resta prioritaria la scarsa competenza linguistica necessaria ad affrontare i compiti comunicativi ad alta richiesta cognitiva tipici del contesto scolastico. In altre parole, manca la lingua per pensare e studiare, e questa è la principale causa dei fallimenti scolastici di italiani e stranieri, come ricerche condotte a livello europeo e italiano sembrano ormai da qualche tempo confermare. Tutti, pur con alcune differenze relative a tempi e modalità di acquisizione, devono apprendere le medesime competenze per dominare la lingua usata, definire e trasmettere i processi cognitivi necessari a interpretare, comunicare e negoziare il significato dei contenuti disciplinari. Ne consegue che gli interventi d’educazione linguistica volti al rafforzamento di questo tipo di competenze e delle abilità di studio a esse connesse, proponendo modelli didattici trasversali a tutte le discipline e destinati a tutti gli studenti, dovrebbero acquistare maggiore centralità fra le azioni antidispersione disposte dalle scuole, in particolare in quelle dove si concentra un maggior numero di studenti vulnerabili. I primi risultati forniti da progetti che rispondono a tali caratteristiche incoraggiano a proseguire in questa direzione per tentare di ridurre sul medio periodo gli effetti particolarmente dannosi che la deprivazione linguistico-cognitiva può avere sul presente e sul futuro di molti alunni italiani e stranieri. Non basta insegnare la lingua Se la lingua è una conditio sine qua non d’assoluta priorità per tutti, resta tuttavia ancora necessario dedicare particolari attenzioni alle difficoltà degli alunni migranti, segnatamente degli adolescenti di recente immigrazione. Come è noto, e come constato quotidianamente nel mio lavoro, anche un buon intervento di supporto linguistico rischia infatti di non ottenere i risultati attesi se non teniamo nel dovuto conto la fatica enorme che questi ragazzi sostengono per uscire dall’esperienza di regressione e di ridefinizione identitaria rappresentata dal vivere al

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SAPERI contempo l’adolescenza e la migrazione. Come nota Tahar Ben Jelloun, questi minori sono una generazione involontaria, destinata a incassare i colpi, quasi sempre migranti per forza, con pochi diritti e tutele, una debole rete di supporto familiare e sociale; tutti elementi che possono trasformare un evento già di per sé complesso come la migrazione in un’esperienza traumatica e devastante. Da qui l’urgenza di rafforzare in questi studenti particolarmente vulnerabili la capacità di resilienza, ovvero la capacità di resistere, adattarsi, riuscire nelle situazioni avverse o a rischio. Compito alquanto arduo per tutti noi, adulti che li incontriamo nel quotidiano, perché qui non si tratta di mettere in campo virtuosismi didattici, bensì creare e coltivare relazioni educative e affettive significative, che mettano in gioco la nostra intelligenza intra e inter-personale, la capacità empatica, le nostre emozioni. «Stare qui è come salire su una montagna alta, però non vedo mai la cima. Sono stanco», ha scritto un giorno uno dei miei studenti. Nel tempo, vivendo a distanza ravvicinata la loro stanchezza, i loro successi e le loro sconfitte, quel paragone mi torna in mente come la sintesi più efficace del loro vissuto. Pochi sono quelli che hanno le energie per salire fino in cima e vincere la sfida; ancora troppi sono quelli che desistono quasi subito, prima di affrontare la salita, abbandonandosi alla depressione e alla passività. Poi ci sono quelli che tornano indietro a metà strada, talvolta trascinando con sé qualche compagno incontrato lungo la salita. Altri ancora si fermano a metà, e lì restano, in un limbo dal quale non hanno più la forza né d’avanzare né d’arretrare. L’altra scuola è quella che offre appigli per continuare a salire e che lascia intravedere la cima. Appigli che non sono fatti solo di attenzioni didattiche, ma di uno scaffolding relazionale ed emozionale che permetta a questi giovani di attivare gli strumenti di resilienza a loro disposizione, quelle risorse psico-affettive e socio-relazionali necessarie a passare il doppio guado dell’adolescenza e della migrazione, (ri)trovando il benessere psicologico indispensabile a intraprendere il cammino verso la realizzazione piena di sé. Nel poco tempo a disposizione per affrontare una sfida tanto alta e dalle mille sfaccettature, ai docenti e agli adulti di riferimento che in ambito scolastico ed extrascolastico entrano in contatto con questi adolescenti non basta affidarsi alla sensibilità e ai buoni propositi; è necessario investire tempo e risorse professionali per approfondire la conoscenza dei loro bisogni soggettivi e oggettivi, con l’aiuto prezioso di specialisti (sociologi, pedagogisti, etnopsichia-

Ecco le parole con le quali, nel corso degli anni, alcuni migranti adolescenti hanno raccontato sui banchi di scuola fatti, pensieri, sentimenti. La seconda possibilità La vita, che bella parola! (...) Nella mia vita lunga e tortuosa non ho mai apprezzato la vita, non mi sono mai impegnato nello studio e a realizzare i miei sogni e ideali fino a 16 anni. L’abbandono scolastico è una scelta illogica per le vite e per il proprio futuro. Quando abbandonai la scuola, mi mancava così tanto forse più per gli amici che per lo studio, ero solo, ho perso l’identità, avevo paura di incontrare le persone. Proprio nel momento più brutto della mia vita la mia mamma mi chiese se vuoi ricominciare, sì, dissi, voglio ricominciare, dopo tutto ognuno ha la seconda possibilità. Italiani, inglesi, cinesi, chissà quante persone mi hanno aiutato in questo percorso. Quante persone mi hanno incoraggiato! Per queste persone io prometto di non deluderle e di non deludere me stesso.

L’italiano L’italiano per me è difficile: lo studio da due anni, ma non capisco tanto; l’italiano è sconvolgente! La nostra vita è molto cambiata: siamo stanchi di studiare l’italiano, ma dovremo farlo per forza. La lingua italiana è bella ma anche difficile. Non so quanto tempo ci vuole per impararla, ora mi sento davvero stanca. Se avessi la bacchetta magica, che bello! Secondo me la lingua è molto importante per gli stranieri: dobbiamo impararla anche se è difficilissima. Studio ma non riesco a parlare tanto. A casa nessuno parla italiano con me e faccio la spesa nei negozi cinesi e dimentico le parole italiane che ho studiato. Quando parlo con gli italiani sono agitatissima. Ogni tanto penso: perché non sono nata in Italia? Allora tutto sarebbe più facile. Prima di venire in Italia pensavo di essere molto fortunata; i miei amici mi invidiavano, ma non sapevo che tanti problemi mi stavano aspettando… Il 10 luglio sono arrivata in Italia: è un giorno che non scorderò mai! Ero come una bambina appena nata, piena di curiosità e speranza. Dopo qualche giorno mio padre mi ha portato a cercare una scuola, ma che difficile entrare in una classe! Tutte le scuole erano occupate! Ero molto preoccupata.

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SAPERI| Dare a ognuno una seconda possibilità tri e psicologi). È necessaria una conoscenza oltre le generalizzazioni, i luoghi comuni e gli stereotipi, per non vedere solo sagome ma persone nella loro intimità e quotidianità; uno strumento affidabile per agire e sostare con maggiore consapevolezza nella relazione con loro, a volte assai faticosa. E ancora, a partire da elementi comuni che senz’altro connotano molte delle loro storie, è di fondamentale importanza riuscire a passare il muro di gomma creato dalla scarsa conoscenza linguistica, dai sentimenti di sfiducia e diffidenza verso gli adulti. Se la costruzione di una relazione educativa significativa e “unica” è (o sarebbe) auspicabile per interagire con ogni studente, anche il più privilegiato, per questi adolescenti migranti diventa assolutamente indispensabile al fine di preservarli (tenendo conto del loro specifico vissuto) da atteggiamenti rinunciatari e aggressivi o da forme di depressione più o meno conclamate, accompagnandoli con qualche successo nello sforzo enorme di (ri)costruzione di se stessi e dei fili che li legano alla famiglia, alla scuola, ai pari, alla società d’accoglienza.

Famiglia Mio padre lavora come muratore, mio padre sa scherzare, e però a un certo punto si va troppo allo scherzo e si arrabbia: a dire la verità lo prendo in giro qualche volta. Negli ultimi tempi mi sgrida sempre; non gli sta mai ferma quella bocca. Mio padre vorrebbe che io studiassi per fare qualcosa di bello nel futuro. A casa i miei genitori si lagnano perché non imparo ancora l’italiano. Mi dicono di studiare, così sono stanca; vorrei uscire ma non posso, perché i miei genitori hanno paura dei ragazzi così gioco al computer. E così i miei genitori si lagnano sempre più. Mi mancano le mie giornate in Cina (…) Non telefono ai miei amici in Cina perché ho paura di essere triste. In Italia sono successe tante cose che mi rendono nervosa (lo studio, la vita), ma non ho nessuno ora che mi consola. I miei genitori non mi capiscono, vogliono solo lavorare per i soldi. Forse sono troppo pessimista. Non voglio tornare nel mio Paese, non conosco più nessuno, non saprei cosa fare… qui sto sempre a casa, torno da scuola, mi preparo qualcosa da mangiare e poi guardo un po’ i cartoni, poi studio, magari dormo un po’.

In salita Molto è stato scritto in ambito psicopedagogico e sociologico sulle difficoltà che i giovani migranti incontrano nel ridefinire la propria identità fra due culture, in famiglia, a scuola, negli spazi della società d’accoglienza, talvolta ostili, quasi sempre poco decifrabili in termini culturali e relazionali. Accenno qui alle difficoltà più significative. Per prima arriva la fatica di abbandonare una parte importante di famiglia, nonni, zii e parenti che per anni li hanno accuditi, per (ri)entrare in un’altra parte quasi sconosciuta: i genitori, qualche fratello nato in Italia o che non vedono da anni. Devono reinventarsi un rapporto e colmare la distanza affettiva creata dal tempo e dalla lontananza, facendo anche i conti con la disillusione provocata dal constatare che i genitori spesso non rispondono all’immagine positiva che hanno elaborato nel loro immaginario durante gli anni di separazione. Genitori quasi sempre fragili, senza una rete sociale di sostegno, a loro volta provati dall’esperienza migratoria e dai sensi di colpa per aver imposto ai figli le loro scelte; per questo inadeguati a proporsi come modello identitario forte, incapaci di rendere trasparente e accettabile il nuovo mondo e di accompagnarli nell’impatto con una società d’accoglienza che i figli scoprono essere brutalmente diversa da quella che avevano sognato o che avevano loro raccontato. Da qui nasce l’ulteriore fatica di accettare e sostenere un rovesciamento di ruoli causato dalla perdita

Fra due sponde Io mi chiamo S, sono senegalese, sono in Italia da due anni. Ho 18 anni. A volte quando sono con gli italiani mi sento praticamente come un italiano. I miei amici italiani mi dicono sempre che io sono come un italiano, perché mi dicono anche che io vesto bene come gli italiani. Ma a volte quando sono con i senegalesi loro mi dicono sempre che io sono italiano, dicono che io mi vesto come un italiano. Ma assolutamente a me non interessa niente. Per me siamo tutti uguali, sia italiani sia senegalesi. La cosa diversa è solo la pelle. Ma a volte mio babbo mi dice che puoi stare con gli italiani ma non devi prendere i loro comportamenti. Io mi sento pakistano quando sto con un italiano o con qualcun altro, ma mi sento italiano quando sono nel mio Paese e la gente ti critica, perché ho vissuto in Italia. Ma io sono fiero di essere pakistano. Io sono cinese di Montemurlo. A dire la verità non mi sento né più cinese né più italiano. Gli italiani sono razzisti: dicono che quelli che hanno la pelle diversa sono negri. F. (filippino)

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SAPERI di autorevolezza dei genitori, senza prestigio sociale nella nuova società e spesso tornati infants, privi di parole per dire e per essere, e per questo bisognosi dell’aiuto dei figli, costretti, loro malgrado, a farsi ponte per gli adulti nelle relazioni sociali, grazie alla loro maggiore rapidità nell’acquisire la lingua necessaria alla comunicazione quotidiana. E ancora, la fatica di mediare fra le aspettative proprie e quelle dei genitori sul futuro. Genitori che propongono ai figli la rinuncia forte alla loro identità culturale, sperando così di aiutarli a inserirsi nella nuova società o che, al contrario, impongono con altrettanta radicalità di rimanervi ancorati, creando nei figli il senso di colpa di sentirsi o voler essere diversi: troppo stranieri o troppo italiani, comunque inadatti. Nel tentativo di non abbandonare modelli culturali che sentono appartenere al loro vissuto e a quello dei figli, in molti casi i genitori oscillano fra i due poli identitari, facendo scelte confuse, ambivalenti e contrastanti, ad esempio rispetto al percorso scolastico e professionale dei figli. E poi c’è la scuola: “una migrazione nella migrazione” così è stato definito l’impatto che gli alunni migranti e i loro genitori hanno con questo nuovo mondo, dove il processo di regressione si rende evidente, mentre affiorano il senso d’inadeguatezza e di autosvalutazione all’origine della frustrazione e della demotivazione con cui questi studenti si trovano a fare i conti. E a pagare i prezzi più alti di questa invisibilità e afasia temporanea, che troppo spesso si cronicizzano anche per la nostra inadeguatezza ad abbatterle in tempi ragionevoli, sono proprio le ragazze, e ancor di più i ragazzi, che nel Paese d’origine erano eccellenze, studenti motivati, desiderosi di imparare e andare oltre. A scuola i fronti aperti sono molteplici: non si tratta solo di imparare una nuova lingua, strumento principale per nascere una seconda volta, spesso senza avere la possibilità di seguire percorsi di apprendimento adeguati sul piano qualitativo e quantitativo. C’è anche la pressione dei tempi brevi della scuola, che chiede a questi studenti di mettersi in pari rapidamente nello studio. C’è la necessità di capire modelli organizzativi ed educativi sconosciuti, ma anche d’imparare a decodificare gli impliciti culturali che li informano (Quali regole devo seguire? Cosa devo imparare? In che modo? Come vengo valutato? Cosa si aspettano da me?) e d’adeguarsi a una nuova relazione educativa (Come devo comportarmi con l’insegnante? Cosa devo dire? Quando devo tacere? Dove e chi devo guardare?), per concludere con l’urgenza di intessere relazioni significative con i pari, fra accettazione e rifiuti, pregiudizi ed empatie.

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SAPERI| Dare a ognuno una seconda possibilità Le strategie comportamentali per rispondere a queste sfide sono diverse e si modificano nel tempo, variano con l’età, dipendono dalle risorse personali e familiari di ogni ragazzo, ma anche da chi trovano ad accoglierli a scuola e fuori dalla scuola.

ti hanno trovato l’altra scuola, dove hanno potuto creare relazioni significative con i pari e con alcuni adulti che li hanno accolti con intelligenza e sensibilità, senza chiedere loro di correre per essere uguali e senza farne degli eterni diversi; che hanno messo nel loro zaino gli strumenti giusti per dare un senso e una prospettiva alle loro fatiche, facendo in modo che mai si sentissero soli durante la salita.

Identità di passaggio Gli studiosi hanno definito alcune tipologie comportamentali più diffuse fra gli adolescenti migranti: nel corso del tempo i più ne sperimentano diverse, come abiti che provano a indossare per poi abbandonarli e sostituirli con altri, in una metamorfosi continua, alla ricerca di una via d’uscita adeguata dal tunnel della migrazione. Fra questi troviamo gli invisibili che ci dimentichiamo nell’ultimo banco e che si fanno dimenticare, sovrastati dal senso di non appartenenza e d’isolamento, che generano passività, rifiuto di imparare la lingua, chiusura e pessimismo. Ci sono poi quelli che indossano la tuta mimetica, che preferiscono un ruolo di dipendenza e di subalternità: si mimetizzano cercando d’annullare le proprie origini pur di non sentirsi esclusi e colmano l’insicurezza con l’identificazione totale nel gruppo dei pari, costi quel costi; per questo vivono la doppia appartenenza non come una risorsa ma un ostacolo, al pari di coloro che, con un atteggiamento solo apparentemente opposto, scelgono di chiudersi nella propria comunità, sviluppando forme più o meno forti di aggressività verso l’esterno. Ma ci sono anche i lottatori, quelli che ce la fanno, che individuano nella bilocazione identitaria una risorsa e sanno trasformarla in un punto di forza per gestire positivamente le differenze e le diverse sollecitazioni che vengono dall’accesso a più codici culturali, acquisendo così personalità più forti, fluide e autonome: sono giovani uomini e donne con identità ibride e sincretiche, più attrezzati di molti altri per vivere da cittadini globali in una società multiculturale, modelli positivi per i loro coetanei, italiani e stranieri. La forza di coloro che ce la fanno sta proprio nel saper appartenere a due mondi, senza sentirsi provvisori e senza rinunciare alla propria diversità, traendone stimoli positivi per progettarsi un futuro migliore. Perché alcuni ce la fanno a passare il guado? Sicuramente perché possiedono particolari risorse personali e perché da piccoli hanno probabilmente avuto la fortuna di trovare un rapporto affettivo stabile con un adulto; spesso alle spalle hanno genitori sufficientemente adeguati al loro ruolo, fiduciosi, ben inseriti e sostenuti dalla loro comunità e da quella d’accoglienza. Ma anche perché questi adolescenLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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▶ Gaia Pieraccioni è docente di italiano L2, coordinatrice didattica del CTP di Prato, formatrice del Laboratorio di Glottodidattica dell’Università di Parma e cultrice della materia in Didattica delle Lingue Moderne all’Università di Parma. APPROFONDIRE

AA.VV., Gli Alunni stranieri nel sistema scolastico italiano A.S. 2011/2012, Servizio Statistico Miur, Ottobre 2012.

S. Abedlmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2002.

M. Ambrosini, Italiani col trattino. Identità e integrazione tra i figli degli immigrati, in “Educazione Interculturale”, 2009, n. 1, pp.17-39.

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M. T. Bordogna (a cura di), Arrivare non basta, Franco Angeli, Milano, 2007.

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Alfabetizzare adulti immigrati Indicazioni didattiche utili nella gestione di apprendenti scarsamente o non scolarizzati all’interno delle classi di italiano L2.

Particolare della copertina di Piazza Grande, rivista degli immigrati di Bologna.

L

valori della cittadinanza e dell’integrazione. Tali dispositivi coinvolgono un numero sempre maggiore di apprendenti scarsamente o per nulla scolarizzati: alcuni non sanno leggere e scrivere nella lingua madre o hanno grosse difficoltà nella lettura e scrittura (Minuz, 2005); circa il 30% ha una scolarità inferiore ai cinque anni. Al di là del dibattito teorico sulla questione dell’analfabetismo (EFA, 2006; Minuz, 2005) qui si intende analfabeta, o meglio ancora non alfabetizzato, chi non è in grado di riconoscere e produrre i segni grafici della scrittura o possiede tali abilità in modo così debole da non potersene servire nella vita quotidiana. Rispetto all’acquisizione dell’italiano L2, bisogna distinguere fra due variabili sostanziali: la padronanza della scrittura in lingua madre e la conoscenza della lingua italiana (Minuz, 2005). Per quanto riguarda la prima si è soliti distinguere fra quattro profili: 1. prealfabeti: coloro che provengono da una situazione linguistica prevalentemente orale, senza un sistema di scrittura o acquisito solo recentemente; 2. analfabeti totali o strumentali: coloro che non leggono e scrivono ma provengono da una realtà in cui la lingua madre ha una forma scritta; 3. debolmente alfabetizzati: coloro che hanno qualche rudimento di letto-scrittura, insufficiente comunque a rispondere a richieste linguistiche e comunicative sempre più complesse in cui trovano spazio parole, immagini e simboli; 4. alfabetizzati in lingue non alfabetiche, cioè ap-

a recente legislazione sull’immigrazione ha introdotto per la prima volta una correlazione tra ingresso, permanenza in Italia e conoscenza della lingua italiana. La legge n. 94 del 15 luglio 2009, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, ha infatti indicato che per l’ottenimento della carta di soggiorno a lungo periodo lo straniero debba dimostrare il possesso di un livello A2 di conoscenza della lingua italiana, verificabile attraverso un test da sostenere presso un Centro Territoriale Permanente (in futuro Centro Provinciale di Istruzione per Adulti) o attraverso l’esibizione di titoli conseguiti in uno dei quattro enti certificatori (o da un soggetto con loro convenzionato) riconosciuti dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero dell’Istruzione. Per quanto riguarda la condizione degli immigrati, importante è anche l’“Accordo di integrazione” (DPR 14 settembre 2011, n. 179): un vero e proprio patto sottoscritto tra lo straniero che chiede di entrare in Italia e lo Stato italiano. La possibilità di ottenere il permesso di soggiorno è vincolata da una serie di adempimenti che lo straniero deve garantire entro due anni dalla firma dell’accordo: padronanza della lingua italiana a livello A2; conoscenza basilare della vita civile italiana; adempimento dell’obbligo d’istruzione per i figli minori; adesione alla Carta dei

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SAPERI| Alfabetizzare gli adulti immigrati prendenti alfabetizzati in una lingua madre che non utilizza l’alfabeto latino. Questi profili devono essere messi in relazione alla conoscenza della lingua italiana, in modo da suggerire interventi differenziati. Un conto è insegnare a leggere e scrivere ad apprendenti che hanno una buona competenza orale, altro a chi possiede già un alfabeto e può riutilizzare competenze maturate in L1 (capacità di astrazione, modellizzazione, riflessione metalinguistica e abilità integrate) nell’acquisizione di una lingua seconda. Altro ancora è avviare il passaggio fra oralità e scrittura.

betizzazione è ormai da più parti criticata. Minuz ha indicato una serie di approcci particolarmente funzionali ed efficaci nel processo di alfabetizzazione. Fondamentale è radicare l’alfabetizzazione nelle pratiche discorsive dell’apprendente legando la proposta formativa ai suoi bisogni e aspettative, raccolte in fase di accoglienza. Ciò avrà una ricaduta positiva sulla motivazione allo studio, ma anche sulla percezione dell’utilità e spendibilità di quello che viene appreso. È auspicabile dare priorità alla comunicazione orale, da un lato perché è il canale dominante per permettere all’apprendente di comunicare all’interno di una comunità, dall’altro perché è stato rilevato in numerosi studi come lo sviluppo d’un adeguato vocabolario sia utile in fase di apprendimento della letto-scrittura. Seguendo poi i suggerimenti dell’andragogia (Knowles, 2001), cioè della scienza che si occupa dell’educazione degli adulti, diventa imprescindibile e particolarmente efficace collegare l’insegnamento in aula all’esterno attraverso l’uso di testi tratti dalle situazioni più comuni, ma anche attraverso l’analisi di situazioni “critiche” portate in aula dagli apprendenti (Minuz, 2005).

Obiettivi di alfabetizzazione A lungo i corsi di alfabetizzazione sono stati intesi come momenti in cui privilegiare l’acquisizione di una tecnica, la letto-scrittura, e tale visione ha influenzato la produzione stessa dei materiali didattici, spesso veri e propri sillabari. Oggi, invece, è ormai invalsa la tendenza a considerare l’apprendimento alfabetico nell’ambito di una più generale competenza linguistico-comunicativa. Lo scopo è duplice. Da una parte insegnare la lingua italiana, conducendo l’apprendente a comunicare in lingua nelle più comuni situazioni di vita quotidiana. Dall’altra accompagnarlo alla letto-scrittura di parole, frasi e testi brevi ma frequenti e rilevanti, come indirizzi, insegne, orari, moduli, saluti, note ecc., alla compilazione di moduli amministrativi (scrittura funzionale) e infine all’utilizzo del calcolo di base, la cosiddetta numeracy. Ciò implica il far comprendere agli apprendenti la funzione comunicativa della parola scritta, mezzo espressivo tra gli altri, a partire da ambiti di lettura-scrittura noti e vicini all’apprendente. Si tratta di un lavoro molto complesso anche perché da più parti è stato sollevata la necessità di un approfondimento dei livelli iniziali (i cosiddetti stadi di analfabetismo), non previsti dal Quadro Comune Europeo (ad esempio, fra gli altri, Minuz, 2005). La pianificazione di un curricolo deve prevedere quindi lo sviluppo di una serie di competenze di prealfabetizzazione: che le parole scritte siano portatrici di significato, che i testi abbiano un inizio, uno svolgimento e una fine, che l’italiano debba essere letto da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. A queste competenze si devono affiancare poi quelle di alfabetizzazione vera e propria, che consistono nel discriminare in fonemi i segni grafici (competenza fonologica), nel costruire un repertorio lessicale significativo e nell’elaborazione sintattica induttiva che permette di ricavare «schemi di comportamento linguistico» (Minuz, 2005). Come si è già detto, la neutralità del processo di alfaLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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▶ Alessandro Borri è docente di Italiano presso il CTP “Caduti della Direttissima” di Catiglione dei Pepoli (Bo). È autore di materiali di lingua italiana per stranieri, di un manuale di storia per i corsi di Licenza media presso i CTP. Di prossima uscita un manuale di alfabetizzazione per i tipi di Loescher, con Fernanda Minuz. APPROFONDIRE

J.C. Beacco, M. De Ferrari, G. Lhote, C. Tagliante, Niveau a1.1 pour le français. Referentiel Dilf livre, Didier, Parigi, 2006.

Bundesamt für migration und flüchtlinge, Vorläufiges konzept für einen bundesweiten integrationskurs mit alphabetisierung, Norinberga, Bundesamt für migration und flüchtlinge, 2007 (reperibile sul sito www.bamf.de).

• • • •

EFA Global Mentoring report, Literacy for life, Unesco, Parigi, 2006. M. Knowles, Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Franco Angeli, Milano, 2001. F. Minuz, Italiano L2 e alfabetizzazione in età adulta, Carrocci, Roma, 2005. L. Rocca (a cura di), Percorsi per la certificazione linguistica in contesti di immigrazione, Guerra, Perugia, 2008.

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L’interno della sala di lettura di Sing Sing, New York. 1935. Photo by Imagno/Getty Images.

Il carcere: lo spazio della differenza I corsi scolastici in carcere attecchiscono con grande difficoltà perché la scuola rappresenta un corpo estraneo all’universo carcerario; quando riesce a incunearsi, deve sforzarsi di sopravvivere e mantenere la propria identità senza soccombere all’assimilazione.

«S

e provassi per un solo istante l’intensità del dolore emanato dal luogo ne sarei incenerito, distrutto». Le parole di Edoardo Albinati in Maggio selvaggio continuano a risuonarmi nella mente a ogni ingresso in carcere. Corridoi interminabili, soffitti scrostati gocciolanti umidità, pavimenti consumati dai passi. Nei locali della scuola

carceraria i murales colorano le pareti; sono realizzati dagli stessi detenuti, ma la mano che dipinge deve solo riprodurre, copiare. Si vedono balaustre affacciate sul mare, foreste tropicali lussureggianti, baie assolate, donne che contemplano l’orizzonte, addirittura una Sibilla michelangiolesca, eppure la tristezza non abbandona mai quei muri. Cosimo, studente al terzo anno del corso per geometri nel carcere fiorentino di Sollicciano, sostiene che quelle pareti hanno un’anima intrisa di sofferenza.

▶ Paola Nobili 31

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SAPERI| Il carcere: lo spazio della differenza

Carcerati della Surrey House of Correction, Gran Bretagna, intenti a scrivere. 1900. Foto Mary Evans Collection/Tips Images.

La scuola in carcere è una realtà poco conosciuta, che attraversa come un fiume carsico il cosiddetto “pianeta carcere”. I corsi scolastici attivati all’interno degli istituti penitenziari sono un fenomeno diffuso in modo irregolare, del quale non esiste un censimento completo. Stando alle rilevazioni del Ministero della Giustizia, nell’anno scolastico 2008-2009 i detenuti iscritti a corsi scolastici erano 3606 in tutta Italia, una quota di appena il 5,7% su un totale di 63 630 presenze effettive (al 30 giugno 2009). Il fatto che la scuola riesca a coinvolgere una fascia così esigua della popolazione detenuta pone l’accento sul ruolo marginale a cui i circuiti penitenziari relegano l’istruzione. Malgrado le norme dell’ordinamento penitenziario collochino l’istruzione tra gli elementi del trattamento (Legge n. 354 del 26 luglio 1975, art. 15), l’accesso alle opportunità offerte dai percorsi di istruzione è di fatto precluso a moltissimi detenuti e la scuola resta un privilegio di pochi. Sarebbe errato concludere che La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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i detenuti mostrino disinteresse verso la scuola, che anzi rappresenta in molti casi l’unica alternativa allo stillicidio di ore trascorse in celle sovraffollate. Si potrebbe piuttosto affermare che la scuola deve approfittare dei pochi interstizi disponibili, rassegnandosi a essere ospite spesso sgradito, correre sottotraccia per affiorare alla superficie nelle rare congiunture favorevoli alla crescita e allo sviluppo delle sue attività. I corsi scolastici in carcere attecchiscono con grande difficoltà perché la scuola rappresenta un corpo estraneo all’universo carcerario, per sua natura isolato e impermeabile; quando riesce a incunearsi, deve sforzarsi di sopravvivere e mantenere la propria identità senza soccombere all’assimilazione. La scuola vive perciò su un crinale, sospesa e in bilico: da una parte, essendo inclusa tra le attività trattamentali, deve inserirsi in un’istituzione totale come quella carceraria; dall’altra, però, si espone al rischio di diventare parte organica della struttura, trasformarsi in supplemento di sorveglianza o in occasione di mero 32

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SAPERI intrattenimento culturale. Per la scuola, mantenere un equilibrio salvaguardando la propria differenza è un obiettivo prioritario, perché, se si omologa al carcere, muore.

che per gli agenti sono sempre e solo “detenuti”; non è raro che un insegnante venga redarguito per aver usato questo pericoloso appellativo. Evidentemente non si tratta di una disputa terminologica, ma di una delle tante occasioni in cui la scuola entra in collisione con il carcere, nel tentativo di creare una condizione essenziale: l’assenza del pregiudizio e l’apertura di un essere umano verso un altro essere umano. Da parte dell’amministrazione penitenziaria tutto ciò suscita malumore; chi è addetto alla sorveglianza e alla custodia teme che gli onnipresenti dispositivi di controllo ne risultino affievoliti. È molto faticoso far comprendere che la scuola si serve di un altro linguaggio e che gli insegnanti svolgono una funzione istituzionalmente diversa da quella degli operatori dei sistemi penitenziario e giudiziario. La lotta per il riconoscimento del “diritto di cittadinanza” della scuola nel perimetro del carcere non conosce sosta. Naturalmente, lo sforzo per uscire dalla costrizione dei luoghi comuni e dei codici comportamentali sedimentati riguarda sia gli studenti che i docenti: i primi chiamati a mettersi in discussione e a sviluppare strumenti critici; i secondi alle prese con una revisione radicale dei propri metodi. Solo così un detenuto che entra in un’aula respirerà un’aria diversa, nonostante le sbarre e i cancelli e tutto il resto.

Ai detenuti cosa serve studiare? Ritenere che i corsi scolastici siano finalizzati al conseguimento di un titolo di studio o abbiano una valenza professionalizzante vorrebbe dire svilirne il ruolo. Certo, la scelta d’iscriversi a un corso può essere legata, almeno all’inizio, alla mancanza di alternative a 22 ore giornaliere di cella, stesi su una branda o in terra davanti alla televisione o storditi dagli psicofarmaci. Poi, però, qualcosa accade. Si comincia a percepire che “l’aria della scuola rende liberi”, che al di qua della porta chiusa di un’aula lo spazio del carcere si trasforma. Come in un arsenale delle apparizioni, si diventa personaggi di un altro racconto. Un’aula scolastica diventa un luogo fisico, mentale ed emotivo dove si cerca di ricreare uno spazio di libertà anche per quegli individui che ne sono privi. La scuola non può, ovviamente, incidere sulla carcerazione come condizione materiale e oggettiva, ma attraverso un’erosione lenta e laboriosa della fortezza che intrappola il cervello può combattere quella che un detenuto ha efficacemente definito la “carcerizzazione”, ossia una condizione soggettiva, psicologica di resa agli ingranaggi della detenzione. In carcere si parla solo di carcere, processi, avvocati, magistrati, appelli, ricorsi, sentenze, domandine. In un’aula no. Allenare la mente a concentrarsi su una poesia o su un calcolo è un modo per condividere insieme all’insegnante un’esperienza positiva di straniamento. «A scuola», ha scritto Giuseppe, «è stato un po’ rinascere. Ascoltare e dialogare hanno ripreso senso: un cuore che, grazie a impulsi esterni, riprende a battere in sintonia col mondo che vive». La scuola dunque è uno “spazio della differenza” rispetto alla staticità della realtà carceraria, ai ruoli cristallizzati e ai codici di comportamento che sembrano incastonati nei muri come fossili. Un individuo in carcere è un numero di matricola, il fascicolo processuale è il suo alter ego e il reato è l’ombra che lo segue ovunque; “dentro”, ogni tipo di relazione si modella su questi elementi. La gabbia non è soltanto quella dei cancelli e delle porte blindate, ma anche quella, invisibile ma non meno tenace, dei pregiudizi, dei canoni non scritti, delle regole di comportamento sottintese. In questo microcosmo che si nutre di rigidità e controllo, la scuola funziona se riesce a interrompere il circolo vizioso degli stereotipi. Una spia di questo diverso approccio è nel fatto che gli insegnanti continuino a chiamare “studenti” quelli

Guardarsi negli occhi In carcere sia i docenti che gli studenti sono chiamati a una sorta di “denudamento”, a uno scostamento dalle consuetudini. Se fossimo a teatro, avremmo un palcoscenico vuoto, senza scenografie né costumi, con un attore e uno spettatore: l’arte teatrale nella sua essenza. Allo stesso modo, la scuola in carcere è spoglia, vuota, scarnificata. L’insegnante deve compiere uno sforzo di sincerità: non può rifugiarsi dietro la maschera cui spesso il proprio ruolo lo costringe, né fare ricorso a un copione precostituito. Il significato “primordiale” del fare scuola va individuato nella possibilità di instaurare un rapporto in un ambiente disadorno, dove lo studente e il docente si guardano negli occhi e comunicano. L’esperienza didattica si costruisce a partire da questo rapporto così semplice e intenso. La disponibilità a mettersi in gioco sul piano della relazione è il requisito da cui dipendono la riuscita e l’esito di ogni percorso formativo. È fondamentale innanzitutto che i docenti considerino di avere davanti a sé persone, non esemplari di tipologie criminali; chiunque insegni in carcere sa che la curiosità, talvolta morbosa, verso i reati commessi dagli studenti uccide ogni germoglio di relazione, come un veleno potentissimo. Non si tratta di adottare accorgimenti o “trucchi del mestiere”, o 33

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SAPERI| Il carcere: lo spazio della differenza simulare una ritrosia pudibonda: si tratta di rispetto, riconoscimento della dignità, onestà nell’assunzione di un ruolo. Gli studenti hanno bisogno di sapere, sentire che nei nostri occhi non ci sono pregiudizi né etichette, ma una volontà schietta di dialogo. Solo così sarà possibile condividere un’esperienza attraverso i territori disciplinari propri di ciascun docente, apprendere le regole per viaggiare nei luoghi della matematica e del diritto, della letteratura e della storia, ogni tanto sconfinando, ogni tanto perdendosi. L’atteggiamento di disponibilità umana non deve far credere che gli insegnanti appartengano a una squadra di soccorso e consolazione sguinzagliata nei luoghi del patire. A chi insegna in carcere non è richiesto di essere una persona di buona volontà e buon cuore attenta alle sfortune altrui; né i docenti debbono essere visti come benefattori mossi da slancio filantropico. Accade fin troppo spesso che le attività in ambito carcerario siano affidate al volontariato e alla “supplenza” di soggetti non istituzionali, che sostituiscono i “diritti” con le “concessioni” e tramutano ciò che è meritevole di tutela giuridica in elemosina dovuta alla beneficenza.

gettamento a chi in quel momento è più forte. La consuetudine con il carcere porta, tra le altre cose, a interrogarsi su un paradosso: il luogo deputato alla rieducazione al rispetto della legalità è il regno dell’arbitrio, dell’incertezza delle regole, delle difformità macroscopiche di trattamento. Ci si potrebbe perfino chiedere se le opportunità di una vera “rieducazione” non risiedano proprio nella possibilità di mettere in crisi il surplus di regole e di uscire da schemi rigidi e coattivi. La dimensione di potere tipica delle relazioni carcerarie è estranea alla scuola. L’insegnante intraprende un’opera di persuasione, tesa a dimostrare che si può essere efficaci e convincenti anche senza l’uso della forza o la minaccia della sanzione; non ambisce a imporsi sugli studenti, ma a stimolarli, abituarli all’indipendenza delle opinioni, alla critica. È uno strano allenatore, che li accompagna in un percorso di formazione e insieme a loro compie un’esplorazione, un’avventura di conoscenza. Qualche anno fa Flavio, studente dell’Alta Sorveglianza, aveva scritto (in curiosa assonanza con le parole di Albinati): «Un osservatore che provasse per un solo istante l’intensità dell’emozione che un’aula così eterogenea emana resterebbe impietrito. Ci guardiamo in faccia, quasi non ci riconosciamo». Quasi non ci riconosciamo. Ogni tanto la scuola riesce ad accendere una luce nuova negli occhi degli studenti, e questo rende tutto diverso.

Il diritto di studiare, in carcere La scuola carceraria è un’enclave immersa in una struttura fortemente gerarchizzata innervata da relazioni di potere. I detenuti, “uomini di altri uomini”, una volta rinchiusi, devono abituarsi a pensare di dipendere totalmente dall’istituzione, perdendo del tutto la padronanza di sé, del proprio corpo, del proprio tempo, in una situazione di completo assog-

▶ Paola Nobili è docente di Diritto ed Economia; in-

segna nel carcere fiorentino di Sollicciano dal 2002.

Un prigioniero nella sua cella della prigione di Ansar a Gaza City, marzo 2013. Foto Xinhua-Eyevine Ltd/Tips Images. La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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L’invasione dei genitori elicottero

Nei Paesi anglofoni l’espressione helicopter parenting viene utilizzata oramai da decenni per descrivere quei genitori che ronzano perennemente sopra la testa e la vita dei propri figli. Una sorta di iper-presenza non solo fisica ma anche psicologica, che, avvisano gli esperti, rischia di produrre più danni che benefici.

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he nel mondo occidentale, e ora anche nei Paesi emergenti, si facciano meno figli è cosa risaputa. Molte le ragioni del calo demografico. Di certo essere genitori è diventato estremamente oneroso. Non si tratta solo di un impegno economico, ma anche di un iper-investimento di tempo, energie ed emozioni. Per riferirsi a questo modo di crescere i figli, in inglese si usa l’espressione colloquiale helicopter parents (“genitori elicottero”), a indicare quei papà e quelle mamme che, proprio come gli elicotteri, pattugliano i loro figli dall’alto, senza mai perderli di vista, cercando di provvedere ai bisogni e ai problemi dei piccoli, spesso ancor prima che si presentino. Una brava mamma, oggi, è impegnata in una costante stimolazione delle potenzialità cognitive e intellettuali del proprio figlio: lo porta al museo, lo iscrive e segue da vicino in un numero impressionante di attività extra scolastiche, legge tutta la letteratura che esiste sulle migliori strategie educative, fa perfino volontariato a scuola. Le cose non sembrano molto diverse per i padri, che come ci racconta Maurizio Quilici nell’articolo sull’alienazione parentale, rivendicano l’accesso a spazi

tradizionalmente riservati alle donne: papà affettuosi, che non hanno paura di mostrare i propri sentimenti e desiderosi di essere presenti in tutti gli aspetti della vita dei figli. Genitori o scienziati? Sono cambiamenti sociali e culturali di cui, da qualche anno, si occupa anche il mondo accademico. In particolare, presso l’Università di Kent, in Inghilterra, è stato fondato nel 2007 un Centro di ricerca di Parenting Culture Studies, ovvero di studi sulla cultura della genitorialità. Gli analisti che ne fanno parte, per lo più sociologi, hanno coniato un termine specifico, intensive parenting (“genitorialità intensiva”), e hanno stilato un manifesto di ricerca: al primo punto, capire meglio il processo di scientizzazione della genitorialità, ovvero il modo in cui questa relazione informale, tradizionalmente istintiva e intuitiva, è divenuta satura del vocabolario della scienza. Secondo obbiettivo, indagare i costi sociali e i pericoli di questa tendenza. Ridurre il genitore a oggetto passivo d’insegnamento da parte dell’esperto, sostengono, rischia di farci sprofondare sempre di più in quella che il filosofo Ivan Illich chiama “Disabling professions society” (Società del-

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Un esempio di papà che culla il suo bambino, wikipedia.org.

le professioni disabilitanti), una società nella quale l’emergere di alcune caste professionali, che a volte costruiscono un monopolio a partire da un lessico e da un insieme di procedure tecniche altamente specializzate e incomprensibili alla gente comune, fa sì che i cittadini vengano espropriati non solo delle possibilità di agire per il proprio bene, ma addirittura della stessa capacità di decidere che cosa sia bene. Nell’affidare la cura e il destino dell’educazione dei figli e del loro rapporto di coppia ai “professionisti del settore”, vi è il pericolo di una deresponsabiliz-

zazione che spinge il cittadino a estraniarsi dallo stesso compito di prendersi cura di se stesso. Paranoia genitoriale Un tema particolarmente approfondito da Frank Furedi, autore di un testo, Paranoid Parenting, diventato un punto di riferimento per chi si occupa di paternità e maternità oggi. La tesi del sociologo inglese è che la società contemporanea ha sviluppato un’ideologia schizofrenica sul ruolo e sulle responsabilità sociali dei genitori: da una parte il loro istinto naturale è, come abbiamo det-

to, esautorato dal sapere tecnico di esperti e di politici. Dall’altra i genitori vengono costantemente informati dall’opinione pubblica che il loro modo di educare non è solo importante, ma addirittura determinante in ogni dimensione della vita dei futuri cittadini. Il rischio, sottolinea Furedi, è che diventi egemonico un certo “determinismo educativo”, ovvero la tendenza a considerare tutti i problemi della società come il risultato di una cattiva genitorialità, trascurando le responsabilità politiche e collettive del disagio sociale. Ma i danni non sono solo

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DOSSIER| L’invasione dei genitori elicottero sociali. Molte le conseguenze psicologiche preoccupanti di una genitorialità intensiva, sia per i genitori che per i figli. La vita dei genitori elicottero è estremamente faticosa. Sono padri, ma soprattutto madri, ansiosi, consunti dall’essere costantemente in prima linea, senza tregua. Un’ansia che si riverbera anche su tutti coloro che mettono in pratica un’educazione diversa, per esempio i migranti o molti genitori con un background socio economico medio-basso. L’ansia della mamma chioccia L’antropologia ha dimostrato che non esiste un solo modo di concepire l’essere genitori. In molte culture, ad esempio, nella relazione fra adulti e bambini l’enfasi non è posta sull’emotività, quanto per esempio sul rispetto dell’autorità. Questo non significa che, in tali società, i genitori non siano affezionati ai figli. Non occorrerebbe del resto andare troppo lontano per imbattersi in stili genitoriali diversi da quello

attuale. Numerose ricerche storiche evidenziano come in Europa nei secoli passati, pur in presenza di un legame emotivo fra genitori e figli, questi ultimi fossero considerati in primo luogo una risorsa economica per i genitori, sia come forza lavoro che come assicurazione per la vecchiaia. Eppure la pressione sociale per un adeguamento degli stili di genitorialità al modello occidentale attuale è fortissima, e implica un altissimo costo psicologico per coloro che non vi si conformano. Tutto questo acquista maggiore importanza alla luce del fatto che diversi psicologi, educatori e filosofi hanno da tempo acceso i riflettori sui rischi di questo stile educativo per gli stessi bambini. Le madri elicottero sono esperte in atterraggi di emergenza, sono cioè in grado di alleviare sofferenze e frustrazioni ai propri bambini, anche quando sono già decisamente cresciutelli. Rendendo i loro figli “ragazzi per sempre”, impediscono loro di sbagliare, e quindi di acquisire una propria

autonomia. Sono le madri e i padri “sindacalisti” di cui si parla sempre più spesso sui giornali, pronti a difendere a priori il proprio pargolo e ad allearsi con lui in una crociata contro tutte le istituzioni contenitive, prime fra tutte la scuola. Mamme e mammi chioccia che, come sottolineato da Massimo Recalcati in Cosa Resta del Padre, rischiano di allevare ragazzi ansiosi e incapaci di accettare qualsiasi principio di autorità e dunque qualsiasi futura assunzione di responsabilità. Del resto, ci ricorda lo psicoanalista, Sartre diceva che se i genitori hanno dei progetti per i loro figli, i figli avranno dei destini quasi mai felici. La giovinezza dovrebbe essere l’epoca del fallimento, o diciamo il tempo in cui il fallimento è consentito. Non c’è formazione senza fallimento.

▶ Francesca Nicola è dottoranda in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

Un giovane padre abbraccia il figlio al ritorno da una missione, wikipedia.org. La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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Quando il bambino è il re della casa

La genitorialità intensiva: sempre più genitori vogliono assicurarsi di aver fatto il possibile affinché i figli, una volta adulti, non debbano rinunciare allo stile di vita in cui sono cresciuti.

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▶ Gaia Bernstein, Zvi Triger

ei primi anni Novanta, l’“effetto Mozart” ha travolto il Paese. Il ricercatore francese Alfred Tomatis, nel suo libro del 1991 dal titolo Pourquoi Mozart?, ha sostenuto che un bambino che ascolta la musica di questo autore può migliorare le capacità mentali e cognitive. Nel 1993, la prestigiosa rivista «Nature» ha pubblicato una ricerca a sostegno della tesi di Tomatis e l’anno successivo l’editorialista del «New York Times» Alex Ross ha scritto che la ricerca di Tomatis aveva determinato che «ascoltare Mozart rende effettivamente più intelligenti». Negli anni successivi diversi libri, come L’effetto Mozart per i bambini: risvegliare mente, salute e creatività del vostro bambino con la musica di Don Campbell, hanno contribuito a diffondere l’idea che i genitori dovrebbero fare di tutto per esporre i figli alla musica, al fine di migliorarne lo sviluppo. Ne è conseguita una moltitudine di prodotti commerciali: videocassette e DVD, quali Baby Mozart, parte della serie Baby Einstein, ma anche libri e CD di musica classica per bambini. Ricerche più recenti hanno dimostrato che, se è vero che esiste un effetto Mozart, esso si limita a portare benefici a breve termine, mentre altri studi hanno addirittura sostenuto che il fantomatico effetto altro non sarebbe che un mito. Alla fine, la Walt Disney Company ha offerto rimborsi per

tutti coloro che avevano acquistato i programmi Baby Einstein. Nonostante questo, però, dal 1990, molti genitori continuano ancora a fare sentire ai loro figli musica classica per assicurarsi che i piccoli sviluppino il loro “pieno potenziale”. Un CD ad ogni neonato È interessante notare che l’effetto Mozart ha anche avuto conseguenze politiche e legali. Nel 1998, Zell Miller, governatore della Georgia, si è impegnato a stanziare 105 000 dollari all’anno perché a ogni neonato dello Stato venisse dato un nastro o un CD di musica classica. Allo stesso modo, nel 1999, lo Stato della Florida ha approvato una legge che imponeva alle scuole statali e agli asili di riprodurre la musica classica ogni giorno. L’effetto Mozart non è un fenomeno isolato. Fa parte di una tendenza che riguarda il modo di educare i propri figli consolidatasi negli ultimi due decenni. A partire dalla metà degli anni Ottanta, infatti, i genitori sono sempre più coinvolti nella vita dei loro figli. I media e alcuni studiosi li hanno descritti come genitori “elicottero”, “alpha” o “centrati sui bisogni del bambino”, a indicare madri e padri che ritengono fondamentale acquisire una conoscenza sofisticata delle migliori pratiche pedagogiche a disposizione per seguire da vicino lo sviluppo dei figli.

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DOSSIER| Quando il bambino è il re della casa Questa partecipazione attiva e totalizzante alla vita dei propri pargoli non ha precedenti storici. L’attenzione debole dei genitori nell’antichità è aumentata nel corso dei secoli, ma sta di fatto che, ancora nella prima metà del XX secolo, l’allevare i figli non era ancora un’attività così intensa. Solo in molte culture della società contemporanea, come quella americana, l’attenzione per i figli ha assunto la forma di vigilanza continua. Molte le cause dell’insorgere di questa tendenza. Alcuni studiosi menzionano a proposito la diffusione delle teorie psicologiche dell’attaccamento, secondo le quali l’amore genitoriale è cruciale per un corretto sviluppo dei bambini. Ma questo stile genitoriale è forse anche il risultato dell’altissima competitività della società contemporanea. Sempre più genitori vogliono assicurarsi di aver fatto il possibile affinché i figli, una volta adulti, non debbano rinunciare allo stile di vita in cui sono cresciuti. Strategie genitoriali La genitorialità intensiva si avvale di tre strategie: una conoscenza sofisticata delle teorie sullo sviluppo infantile, un’incessante stimolazione dei talenti infantili e infine un monitoraggio costante dei piccoli. Si inizia in gravidanza, per continuare fino alla maturità inoltrata. La maggior parte delle donne in attesa ha accesso a un’impressionante quantità di informazioni su come evitare i potenziali rischi in gravidanza. Alcuni messaggi appaiono evidenti: evitare alcool, sigarette, pesce crudo o sostanze chimiche contenute nei coloranti per capelli. Altri sono più ambigui; alcune attività sono descritte come benefiLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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che ma pericolose allo stesso tempo. Ad esempio, l’esercizio fisico è importante, ma si deve evitarne l’eccesso. Una volta nato il bambino, la sua sicurezza e il suo monitoraggio diventano centrali. I genitori hanno a disposizione monitor che li avvisano se il bambino piange o, ancora più importante, se il bambino cessa di respirare. Coloro che assumono una bambinaia spesso dotano la propria casa di una Cam Nanny, una telecamera che controlla segretamente il comportamento della nutrice e avverte in caso di condotte disdicevoli. Inoltre, a differenza delle generazioni precedenti, i genitori si assicurano sempre più spesso che nel parco giochi i piccoli indossino abiti con gomme imbottite, usino gel igienizzante, in macchina siedano in appositi seggiolini e in bicicletta mettano sempre casco e ginocchiere. Durante gli anni dell’asilo e della scuola elementare, madri e padri partecipano regolarmente a un numero crescente di attività scolastiche, trovandosi coinvolti in attività che una volta erano sotto la discrezione e il controllo esclusivo dei maestri. Monitorano attivamente i progressi accademici dei loro figli. Studiano il regolamento didattico, contestano i voti assegnati dagli insegnanti, spesso fanno fare test da tutor privati da presentare poi polemicamente ai maestri. Per aumentare il loro potenziale di negoziazione fanno sempre più volontariato a scuola. Un istituto Montessori ha recentemente dovuto cancellare una gita perché troppi genitori si erano offerti come accompagnatori volontari. Dal momento che la scuola non poteva pagare il viaggio a un così grande numero di accompagnatori, e dal momento che nessun genitore ha

accettato di ritirarsi, è saltato il viaggio. Oltre al coinvolgimento diretto nelle attività dei loro figli, i genitori hanno altri modi per controllare le vite quotidiane dei figli; alcune scuole danno la possibilità di entrare nel sito web dell’istituto per verificare i voti e le frequenza dei piccoli studenti. I campi estivi sono costretti a istituire centralini per rispondere alle telefonate dei genitori. Si tratta di uno spostamento significativo dall’ideale culturale che stabiliva che è necessario dare ai propri figli tempo di qualità, all’idea che sia invece indispensabile unire qualità e quantità. Secondo un sondaggio recente, il 58% delle madri crede di essere più coinvolta nelle vite dei propri figli di quanto sia stata la loro madre. Nelle famiglie americane, insomma, il bambino oggi è il re. E rimane tale anche dopo aver lasciato casa per il college. Non pochi genitori chiamano i professori universitari per contestare il voto assegnato ai propri figli. Del resto, il sito della New York University offre una sezione specifica ai genitori degli studenti, ricca di dettagli e informazioni sulla vita degli studenti o e sui servizi per i genitori: il calendario accademico completo, la membership a una commissione universitaria di genitori, il registro dei voti degli studenti, informazioni sui servizi di mensa disponibili e una help-line genitoriale. Un lungo cordone ombelicale Le nostre tecnologie non sono casuali. I valori e le priorità della società in cui viviamo guidano la scelta di una sull’altra, il modo in cui sono concepite e utilizzate. I valori della genitorialità intensiva influenzano l’uso delle tecnologie da parte dei genitori, che ne fanno uno strumento per monitorare i bambini e per avere le

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DOSSIER conoscenze più aggiornate e più I genitori dei bambini più grandi efficaci per educarli. Ma, d’altro e degli adolescenti stanno iniziancanto, anche il contrario è vero. do a utilizzare il telefono cellulaL’uso delle moderne tecnologie re per controllare i loro figli non ha rafforzato la tendenza a essere solo attraverso la comunicazione genitori “elicottero”. Le madri e i orale, ma attraverso il sistema sapadri di oggi usano il telefono celtellitare GPS, la funzione che inlulare per esercitare una genitorialità a distanza, pur rimanendo lontani dai figli. La serra in cui sono allevati non ha più limiti geografici o temporali. Questi adulti si preoccupano di regolare la suoneria in modo che possano continuare a monitorare i loro figli anche mentre lavorano. Sono così convinti della necessità di rimanere in costante comunicazione con loro che, di recente, hanno citato in giudizio il Consiglio della Pubblica Istruzione di New York per una disposizione che vieta agli studenti di portare a scuola i telefoni cellulari. I genitori hanno Copertina della rivista Time, 21 maggio 2012. sostenuto che tale divieto colpisce la loro capacità di comunicare con i dica l’esatta posizione della perpropri figli nel loro cammino da e sona che ha con sé il telefonino. verso la scuola. Un’azienda ha di recente pubblicizzato i suoi servizi così: «Basta Il controllo telefonico perenne dare il telefono cellulare al vostro È una prassi consolidata dare ai bambino e accedere al nostro sito bambini che partono per i camweb per vedere la posizione esatpi estivi due telefoni cellulari, in ta in cui si trova. Se la sua posimodo che se un maestro dovesse zione cambia, sarete in grado di confiscarne uno, il piccolo possa tracciarne e vederne i movimenti utilizzare l’altro per rimanere in su una mappa». Alcune aziende contatto con mamma e papà. offrono una funzione aggiunti-

va, che permette di sapere se un bambino è in una macchina, a che velocità viaggia e di ricevere un’email di notifica a se il bambino non si presenta a scuola o in qualsiasi altro luogo predefinito. Il telefono cellulare gioca, infine, un ruolo importante nelle relazioni tra genitori e figli che vanno al college. Anche lì il controllo continua su base giornaliera, spesso un paio di volte al giorno. Molti studenti universitari riferiscono ai loro genitori ogni esperienza. Un professore di educazione alla Syracuse University riferisce di studenti che giustificano il ritardo in classe spiegando di non aver ricevuto quella mattina la consueta sveglia telefonica della mamma. Altri, in classe, chiamano i genitori per lamentarsi di un brutto voto. I più audaci chiedono ai figli di passare il telefono alla professoressa. I genitori che mettono in atto questo tipo di educazione sono animati dalla volontà di produrre un bambino sereno e pronto a rispondere alle esigenze di una società sempre più competitiva. Numerose ricerche mostrano che, da molti punti di vista, hanno ragione: i loro figli sono più preparati ad affrontare le istituzioni e sanno volgere le regole del mondo del lavoro in loro favore, mentre i bambini allevati diversamente tendono a mostrare un senso di costrizione

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DOSSIER| Quando il bambino è il re della casa nelle loro interazioni istituzionali. Altre ricerche hanno dimostrato gli effetti positivi della genitorialità intensiva sulla motivazione e sul successo accademico dei bambini, sul loro comportamento a scuola e sulla loro soddisfazione al college.

e le capacità necessarie per affrontare le sfide che la vita pone, ad esempio l’abilità di gestire il proprio tempo, o le strategie necessarie per negoziare i conflitti durante il gioco. Nel tempo libero, questi bambini sembrerebbero mostrare meno creatività, spontaneità, divertimento e spirito di iniziativa dei coetanei. Non solo tendono a essere meno indipendenti, ma anche meno attenti e premurosi

Proteggere i figli dalla realtà Allo stesso tempo, però, proprio quando la prima generazione di bambini di genitori “elicottero” ha raggiunto il college, nuove ricerche rivelano conseguenze negative. «Ogni autunno», riferisce un professore dell’Università della Virginia, «i genitori lasciano i loro ragazzi appena immatricolati. Ebbene, nel giro di due o tre giorni molti di questi hanno già consumato una quantità pericolosa di alcool e si sono messi in situazioni pericolose. Questi ragazzi sono stati controllati per così tanto tempo, che quando sono lasciati liberi impazziscono». I super-genitori percepiscono i figli, indipenNorman Rockwell, La stanchezza, 1952, wikipedia.org. dentemente dalla loro età, come vulnerabili e indifesi. Di conseguenza si impeverso i sentimenti altrui. Molti rignano in un costante monitoragtengono che l’età adulta inizi solo gio al fine di proteggerli. Mentre verso i trent’anni. Inoltre, rispetto in passato il lavoro del genitore alle generazioni precedenti, sono consisteva nell’esporre il bambipiù inclini a soffrire di bassa autono al mondo esterno, i genitori di stima, depressione, ansia e stress. oggi cercano al contrario di proAnche il continuo controllo teleteggerlo dalla realtà esterna. fonico non fa che infantilizzare i È quanto ribadisce un emergente giovani, mantenendoli in uno stasettore di studi che, oltre a fornito di costante dipendenza. re aneddoti interessanti, suggeriTutto ciò pone questa generasce che le attuali tendenze eduzione a rischio di fare scelte sbacative possono essere dannose gliate in materia di alcool, abuper i minori: non permettono ai so di droghe e relazioni sessuali. bambini di sviluppare un senso Anche la possibilità di trascinare di indipendenza, autosufficienza, conflitti irrisolti con i compaLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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gni di scuola e di comportarsi in modo disonesto dal punto di vista accademico aumentano. I docenti spesso osservano che nel loro tentativo di impedire ai figli di commettere errori, i genitori ne incoraggiano la perenne dipendenza, inibendone lo sviluppo autonomo. Lo psicoanalista Bruno Bettelheim spiega che il mondo interiore dei bambini si impoverisce senza sufficiente spazio mentale per giocare. Il gioco è un meccanismo centrale attraverso il quale i bambini fanno conoscenza del mondo circostante e sviluppano un senso di indipendenza e di separazione. La genitorialità intensiva implica, invece, una supervisione costante che di fatto limita notevolmente il gioco. Infine, anche se alcuni bambini possono essere ricettivi verso questo coinvolgimento degli adulti, altri possono semplicemente sentirsi soffocati. Una madre, direttore di un giornale, ha riferito che per risolvere la sua lotta interna fra l’esigenza di trascorrere del tempo con la figlia e la voglia di mantenere la carriera, ha deciso di lavorare di notte. La risposta della figlia è stata quella di trovarsi un lavoro di giorno.

Tratto da: G. Bernstein, Over-Parenting, in “UC Davis Law Review”, vol. 44, n. 4, 2011.

▶ Gaia Bernstein insegna Legge alla Seton Hall University, New Jersey. ▶ Zvi Triger insegna Legge all’Università Rishon Le Zion, Israele.

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La sindrome di alienazione genitoriale Psicologi e psichiatri sono divisi sulla realtà di questa sindrome. Intanto, magistrati, avvocati e periti si confrontano con i suoi presunti effetti.

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igliaia di persone ogni anno vivono la separazione. Ogni anno circa centomila bambini e ragazzi vedono i genitori allontanarsi l’uno dall’altro. Nel 2010 sono stati esattamente 103 478. E ogni anno le separazioni aumentano, ormai da molto tempo, al ritmo del 2-3%. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2010 sono state 88 191. Su mille matrimoni erano state 158 nel 1995,

Copertina del saggio di S. Vaccaro, Pas Presunta Sindrome di Alienazione Genitoriale, Edit, Fiume, 2011.

nel 2010 sono state 307, quasi una separazione ogni tre matrimoni, con un aumento percentuale di oltre il 68%. Diminuisce il numero delle nozze, aumenta quello delle separazioni. La separazione costituisce di solito un passaggio della propria esistenza molto doloroso, che incide profondamente sulla stima di sé, sul proprio senso di identità, sul modo di rapportarsi con gli altri, sulla relazione con i figli, sulla propria professione. Una tempesta che colpisce i sentimenti e spesso, assieme ai frequenti impulsi di vendetta e di rivalsa, innesca reazioni fisiche e psichiche negative: abulia, depressione, inappetenza, perdita di autostima, irritabilità, insonnia. A prescindere da chi abbia preso la decisione di separarsi (più frequentemente le donne, nella percentuale del 66,1% contro la percentuale maschile del 23,7%, secondo dati Istat riferiti al 2010), maschi e femmine soffrono la loro parte. E tuttavia in questa particolare circostanza – forse l’unica nei rapporti fra i due sessi e certo la prima storicamente – l’uomo costituisce la parte debole: costretto a lasciare la casa familiare (anche se, come spesso accade, ne è il proprietario) entro breve tempo, tenuto al (sacrosanto) obbligo di contribuire al mantenimento della prole e a volte anche a quello di versare un assegno alla ex moglie, soggetto al

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DOSSIER| La sindrome di alienazione genitoriale rischio, molto concreto, di perdere il rapporto con i figli, spesso ridotto a tornare in casa dei vecchi genitori perché impossibilitato a sostenere il peso di un affitto o di un mutuo. Sarà lei a restare in casa, sarà lei a rimanere con i figli e a deciderne, nel bene e nel male, gran parte della giornata, sarà lei, di solito, a ricevere un assegno dal suo ex che le permetta ove possibile, assieme ai figli, di mantenere il tenore di vita precedente. La donna gode, nella separazione, di un grande vantaggio: quello di essere madre, il che le conferisce un assiomatico privilegio. Difficilmente ella dovrà dimostrare di essere non solo madre ma una buona madre; quanta fatica dovrà fare invece l’uomo per dimostrare di essere un buon padre: premuroso, amorevole, capace di accudire e capire i figli anche se in tenera età. Naturalmente, anche gli uomini, nel momento della separazione, danno di solito il peggio di sé. So bene quanti padri scompaiono dopo essere usciti di casa, ignorando le disposizioni del giudice, quanti compiono acrobazie per apparire poveri in canna, quanti (che è la cosa peggiore) intendono la separazione come una riacquistata, giovanile libertà e dimenticano i propri doveri nei confronti dei figli, provocando in loro vuoti dolorosi e forse incolmabili. Per non parlare di quegli uomini che pretendono di riaffermare i loro diritti di padre e di marito con la sopraffazione, le minacce, la violenza. Metti il papà fuori di casa In forma molto sintetica, vediamo quali sono, per un padre, gli aspetti economici della separazione e quelli della relazione con i figli. Premesso che è ampiamente dimostrato come la sepaLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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razione della coppia si traduca, oggi più che mai, in un impoverimento per entrambi, il primo impatto economico (ma anche psicologico) della separazione per un uomo è piuttosto brutale. Con l’udienza presidenziale, nella quale il presidente del Tribunale adotta i cosiddetti “provvedimenti provvisori”, relativi sia all’aspetto economico che a quello della frequentazione dei figli, il padre dovrà lasciare la casa coniugale. I tempi sono a volte brevissimi: 30, 15 giorni, qualche volta ancora meno. Da pochi anni alcuni tribunali, come quello di Roma, sembrano concedere maggior respiro. Nulla conta il titolo di proprietà. L’abitazione nella quale vivevano i coniugi, infatti, viene assegnata al genitore “collocatario” o affidatario (nel caso di affidamento esclusivo), ossia quasi sempre alla madre. In nome dell’interesse dei figli, la giurisprudenza compatta ritiene che il diritto di proprietà debba cedere di fronte al superiore interesse del minore. È un principio giusto, che però consentiva, in concreto, situazioni abbastanza paradossali e non proprio eque nei riguardi dei padri. Così i promotori della Legge 54/2006, quella che ha introdotto l’affidamento condiviso e sancito il principio della bigenitorialità, pensarono di porre qualche limite al godimento della casa. «Il diritto al godimento della casa familiare – recita l’art. 2 della Legge (art. 155-quater c.c.) – viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio». Il senso di questa disposizione (come quello di molte altre della stessa legge) è stato però svuotato dalla interpretazione della Cassazione e della Corte Costituzionale. La prima con sentenza n. 9995 del

2008 e la seconda con sentenza n. 308 del 2008 hanno stabilito che l’automatismo previsto con grande chiarezza dalla legge non è accettabile: la decadenza dell’assegnazione non si concretizza al verificarsi dei casi elencati, ma resta subordinata «ad un giudizio di conformità dell’interesse del minore». Gli assegni del papà Il padre esce dunque dalla abitazione familiare, sulla quale spesso grava un mutuo a suo carico (può portare con sé gli effetti personali, non mobili, né quadri, spesso neppure libri) e deve trovare una soluzione abitativa. Difficilmente potrà acquistare una seconda casa, ma anche affittarne una non sarà facile. Perché c’è un secondo ostacolo: l’assegno di mantenimento, dovuto per la moglie se questa non lavora (sorvolo su altre forme di sostegno come l’“una tantum” o l’assegno alimentare) e per i figli. Anche se la ex moglie ha un reddito, il giudice può, “ove necessario”, stabilire un assegno “perequativo” a suo favore, con il fine di ristabilire un equilibrio fra i due redditi. Alcune associazioni forensi e studi legali e molte associazioni di padri separati sostengono che l’assegno viene praticamente sempre disposto. E del resto, per la Cassazione il fatto che i figli convivano prevalentemente con un genitore (quasi sempre la madre) giustifica un maggior onere di spese e quindi una sorta di automatismo dell’assegno da parte del genitore non convivente. L’affidamento condiviso – ha stabilito la Suprema Corte – «non può certo far venire meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire al mantenimento dei figli mediante la corresponsione di un assegno a favore del genitore con il quale

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DOSSIER gli stessi convivono». C’è poi un altro punto dolente, che è quello del “precedente tenore di vita”. L’assegno, infatti, ha la funzione di garantire all’ex coniuge e ai figli il “tenore di vita precedente”. Si tratta, a mio avviso, di un principio illogico e anacronistico. Se la separazione di per sé comporta un impoverimento di entrambi (e di conseguenza, per quanto doloroso sia, dei figli) e in particolare dell’uomo, come si può pretendere che questi debba garantire a moglie e figli il tenore di vita che c’era prima? Se, giustamente, si ritiene la separazione un diritto a prescindere da chi la chiede non è anche giusto che entrambi sopportino un abbassamento ine-

vitabile, fisiologico del tenore di vita? In tempi di crisi galoppante, non sarebbe ora di capire che le esigenze di padri e madri (e anche, diciamolo, dei figli) devono ridursi e che sarebbe opportuno rivedere l’automatismo di certi criteri economici? La giurisprudenza ha più volte ribadito che l’assegno è basato sulla disponibilità economica del genitore e non sulle esigenze effettive del minore. Siamo sicuri che questo principio sia giusto? E che non sia in qualche caso anti-pedagogico? A volte si è parlato di un obiettivo tendenziale. Come in quella sentenza di Cassazione dove si precisa che «la conservazione del precedente tenore di

vita da parte del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento coniugale e della prole costituisce un obiettivo solo tendenziale, perché non sempre la separazione ne consente la piena realizzazione, cosicché esso va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche del coniuge obbligato». Se queste sono alcune delle difficoltà economiche che un padre separato deve affrontare, c’è poi il versante – dolorosissimo – del rapporto con i figli. Premesso che la separazione è sempre un trauma, per la coppia e per i figli (ma anche che una buona separazione è preferibile a un cattivo matrimonio), essa potrà essere elaborata e superata o lasciare invece tracce indelebili sui minori a seconda di come i genitori vivono (e soprattutto fanno vivere ai figli) l’evento. Papà alienato, mamma alienante Dolore e disorientamento, ma anche riorganizzazione dei rapporti padre-figlio se la separazione avviene tra persone mature, civili, consapevoli. Ma se, come spesso accade, la separazione è conflittuale e la madre approfitta della sua obiettiva posizione di vantaggio per ostacolare la frequentazione dei figli con l’ex partner, per svilire la figura del padre, per strumentalizzare i figli in operazioni di schieramento e ricatto? Allora possono aprirsi scenari davvero terribili, che possono giungere all’orribile escamotage di accusare falsamente l’ex coniuge di abusi sessuali sui figli. L’effetto è drastico e immediato sul piano giudiziario, disastroso su quello umano: ricevuta una simile accusa (ma basta un sospetto adombrato) il giudice dovrà disporre immediati accertamenti. E mentre si avviano questi controlli (lunghi, delicati, forieri di

Poster del film Children of the Damned, Inghilterra, Metro Goldwin Mayer, 1964. 45

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DOSSIER| La sindrome di alienazione genitoriale

Manifesto di una campagna sul tema dell’alienazione parentale, wikipedia.org.

conseguenze immaginabili per il padre, ma anche per i figlio) non potrà che sospendere (o nella migliore delle ipotesi consentire “in modo protetto”, il che significa sotto il controllo di personale dei servizi sociali) ogni rapporto fra padre e figli. Il problema delle false denunce La percentuale di false denunce di abusi sessuali è molto elevata. Secondo l’AMI (Associazione Matrimonialisti Italliani), il 70% di esse «si esaurisce con provvedimenti di archiviazione, proscioglimento o assoluzione». La stessa percentuale, 70%, fu indicata dal La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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neuropsichiatra infantile Fabio Canziani durante un workshop internazionale promosso dal centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” di Erice. Un genitore animato da odio e rancore può arrivare alla PAS (Parental Alienation Syndrome). Individuata e descritta nel 1985 dallo psichiatra americano Richard A. Gardner, della Columbia University di New York, e tradotta in Italia da Guglielmo Gulotta e Isabella Buzzi, nel 1998, come Sindrome di Alienazione Genitoriale, essa consiste in un complesso quadro psicopatologico che può insorgere (o meglio,

essere indotto) in bambini e ragazzi coinvolti nella separazione dei genitori. La PAS si sostanzia in una campagna di denigrazione attuata dal figlio, su incitazione di un genitore (detto “alienante” o “indottrinante”) nei confronti dell’altro genitore (detto genitore “alienato” o genitore “bersaglio”) ed è più frequentemente posta in essere dalla madre, che ha maggiori possibilità di attuarla. Sulla PAS si è fatto un gran parlare in occasione dell’episodio del bimbo di Cittadella (Padova), prelevato a scuola dalla Polizia nel modo che tutti abbiamo visto, in esecuzione di un provvedimento giudiziario che lo affidava al padre dopo che era stata riscontrata una sindrome di alienazione genitoriale attuata dalla madre (di recente la Cassazione ha ribaltato la decisione e il bambino è stato nuovamente affidato alla madre). Psicologi e psichiatri sono divisi sulla effettiva realtà di questo quadro diagnostico e persino sulla sua denominazione. I cosiddetti “negazionisti” invocano il fatto che la PAS non ha finora trovato accoglienza nel DSM (Diagnostic Statistic Manual), la “Bibbia” americana che definisce i disturbi pschiatrici, ma sta di fatto che magistrati, avvocati e periti si trovano sempre più spesso a confrontarsi con sintomi e comportamenti che rispecchiano comunque il quadro che fu tracciato da Gardner. Comunque la si voglia chiamare, che si possa o meno definire “sindrome”, che abbia o no carattere di disturbo psichiatrico, a me pare che la sua realtà e la realtà drammatica delle sue conseguenze dovrebbero imporne lo studio e la ricerca delle possibili soluzioni.

▶ Maurizio Quilici è giornalista e presidente dell’Istituto degli Studi sulla Paternità.

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Educazione occidentale ed etnopediatria Non esiste il modo giusto di allevare i figli. Ovunque, lo stile educativo discende dalle aspettative culturali dei genitori e prepara i bambini all’ingresso in società. Erasmus Engert, Quattro bambini, Deutsches Historischen Museum, Berlino, wikipedia.org.

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▶ Meredith Small

urante uno dei suoi numerosi viaggi tra i gusii, nel Sud-Ovest del Kenya, l’antropologo Robert LeVine tentò un esperimento mostrando a un gruppo di madri una videocassetta di alcune donne americane della classe media con i loro bambini. Risultarono inorridite: perché quelle madri ignoravano le grida del piccolo durante il cambio del pannolino? Come mai la nonna non faceva nulla per calmare quello che gridava in grembo? Queste donne americane, conclusero, erano chiaramente madri incompetenti. La stessa critica, tuttavia, potrebbe essere rivolte dalle donne americane alle gusii. Quale madre metterebbe in braccio un neonato alla sorellina di appena sei anni aspettandosi che lo curi adeguatamente? Perché le donne gusii non dedicano più tempo a parlare con i loro bambini, in modo che

crescano intelligenti? In realtà, queste critiche reciproche potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Quando un padre abbraccia il neonato per non farlo piangere, una madre decide di nutrirlo seguendo una tabella dietetica invece di farlo mangiare quando ne ha voglia, o una coppia lo fa dormire nel letto matrimoniale, siamo sempre di fronte a scelte conseguenti da una pluralità di fattori: la cultura dei genitori, le tradizioni e l’esperienza individuale. Negli anni Cinquanta, per esempio, John Whiting e un team delle Università di Harvard, Yale e Cornell hanno lanciato un grande progetto di ricerca comparativa sulla condizione della prima infanzia in sei Paesi: Okinawa, Filippine, India del Nord, Kenya, Messico e New England. I risultati mostrano come le aspettative culturali dei genitori giochino un ruolo cen-

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DOSSIER| Educazione occidentale ed etnopediatria trale nello stabilire il loro modus operandi. E per converso, quanto lo stile educativo sia importante nel plasmare i bambini affinché diventino adulti ben integrati in una specifica società. Altre ricerche hanno pesato il ruolo delle tradizioni sociali e dell’ideologia politica. Negli Stati Uniti, per esempio, dove si dà grande valore all’individualismo, i genitori abbracciano solo saltuariamente i bambini e li mettono a dormire in stanze separate. Secondo i pediatri ciò forgerebbe la loro indipendenza e sicurezza. Ma i genitori giapponesi, per i quali bisogna mettere al primo posto l’integrazione sociale, sono molto più indulgenti: li tengono in braccio più spesso, non li lasciano mai piangere e li portano a dormire con sé. I genitori efe del Congo, invece, credono nell’importanza di una condivisione ancora maggiore: i loro bambini sono curati, presi in braccio, allattati e confortati da qualsiasi membro del gruppo, non solo dai genitori. In ogni caso, pur sottolineando la diversità degli approcci genitoriali, queste ricerche hanno sempre cercato di capire gli effetti a lungo termine di queste pratiche, verificando la loro funzionalità alla formazione della personalità adulta. L’Occidente come eccezione Recentemente però, un gruppo di antropologi dell’infanzia e di pediatri ha imboccato una direzione nuova: indagare come diversi stili di genitorialità influiscano sull’effettiva condizione biologica dei bambini. Invece di enfatizzare lo sviluppo della personalità adulta, questi ricercatori, che si definiscono etnopediatri, si focalizzano sulla realtà attuale del bambino, analizzandola dal punto di vista evoluzionistico. Rispetto alla prole degli altri La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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mammiferi, i cuccioli di primati sono dipendenti e vulnerabili. I piccoli delle scimmie stanno vicini al corpo della madre, si arrampicano sulla loro schiena e ottengono cibo ogni volta che lo desiderano. Sono protetti in questo modo per molti mesi, finché sviluppano capacità cognitive e motorie sufficienti a muoversi autonomamente. I pargoli umani sono ancora più vulnerabili: virtualmente indifesi appena nati, hanno bisogno di dodici mesi solo per imparare a camminare e molti anni per acquisire le adeguate competenze sociali. Data questa dipendenza, gli etno-pediatri cercano di definire quali siano le cure biologicamente necessarie ai bisogni fisici, cognitivi ed emotivi dei bambini. Danno per scontato che debbano esserci modi di trattarli più appropriati, in quanto frutto di un processo di adattamento. E in effetti, varie inchieste sui modi di essere genitori in diverse società hanno rivelato, al di là della variabilità, alcuni comportamenti in comune. È un fatto, ad esempio, che nella maggior parte delle società umane i bambini dormono nella stessa stanza dei genitori, spesso nello stesso letto. Per il resto del tempo, in genere, sono portati in braccio e coloro che se ne curano rispondono quasi sempre al loro pianto. Spesso le madri lo fanno offrendo loro il seno. Poiché anche la maggior parte dei cacciatori e raccoglitori seguono queste regole, sostengono gli etno-pediatri, si tratta probabilmente di un comportamento simile a quello dei nostri antenati. L’unica eccezione storica da loro riscontrata è l’Occidente industrializzato. Al di là di questi comportamenti in comune, il modo specifico con cui i genitori allevano i figli è però estremamente variabile. Le madri

dei kung san del Botswana portano con sé i neonati nelle spedizioni di raccolta, mentre gli ache del Paraguay, anch’essi cacciatori e raccoglitori, li lasciano al campo. Quando lavorano negli orti, le madri gusii lasciano i piccoli alle cure dei bambini più grandi, mentre le lavoratrici in Occidente si rivolgono ad adulti non parenti. Sonno, pianto e allattamento Queste scelte hanno conseguenze fisiologiche o comportamentali sui bambini, soprattutto per quanto riguarda l’allattamento, il pianto e il sonno. Che dormano a lato della madre o siano legati alla schiena, in quasi tutte le culture i bambini hanno in genere un accesso facile al seno della madre. È una frequenza spiegabile con la natura stessa del latte umano. Comparato con quello di altri animali, esso appare relativamente magro di grassi e proteine ma ricco di carboidrati. È biologicamente adatto ai bisogni del bambino che può cibarsene più volte al giorno. La maggior parte dei bambini occidentali sono invece nutriti diversamente. Almeno la metà sono allattati con il biberon mentre gli altri passano dal latte materno a quello artificiale dopo solo un mese. E la maggior parte, che siano allattati al seno o artificialmente, seguono orari specifici, con pause di ore da un pasto all’altro. Gli etno-pediatri, però, fanno notare come tale pratica non abbia alcun fondamento naturale. Anzi, i lunghi intervalli fra una poppata e l’altra rovinano la produzione di latte, rendendolo meno ricco di grassi e quindi meno soddisfacente. Forse, quindi, il pianto per il cibo e le difficoltà di svezzamento hanno origine proprio nelle aspettative non soddisfatte dei bambini. Anche il sonno è un problema

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Donna di Zanskar con il proprio piccolo, wikipedia.org.

non da poco per i genitori. In Occidente i bambini sono incoraggiati il prima possibile a dormire tutta la notte. E quando non lo fanno si meritano l’etichetta di bambini problematici. Ma i bambini sembrerebbero biologicamente predisposti a dormire piuttosto poco, e a svegliarsi molte volte durante la notte. E se dormire vicino a un adulto permette loro di nutrirsi più spesso, in Occidente ci si aspetta che dormano da soli. Una pratica che ha radici nelle leggi della Chiesa per proteggere contro il soffocamento dei neonati dovuto alla possibilità che siano schiacciati nel letto, spesso una copertura per l’infanticidio, una vera e propria preoccupazione nell’Europa dell’inizio del Medioevo.

Le usanze delle mamme gusii Le popolazioni contadine dell’Africa subsahariana hanno da tempo affrontato la dura realtà che molti bambini non riescono a sopravvivere e spesso muoiono di malattie gastrointestinali, malaria o altre infezioni. Nel 1970, quando ho vissuto tra i gusii in una piccola città nel sud-ovest del Kenya, la mortalità infantile in quella popolazione era certo in declino, ma ancora alta: circa 80 morti ogni mille nati durante i primi anni. Ci si aspetta che una donna gusii partorisca ogni due anni, dal momento del matrimonio fino alla menopausa, e la media delle donne sposate hanno circa dieci figli; uno dei tassi di fertilità più alti al mondo. Le madri che allattavano dormivano da sole con il neonato per quindici mesi per assicurarsi che fosse sano. Per un periodo che va dai primi tre mesi ai sei, stavano particolarmente attente a segni di malattia o di crescita lenta ed erano pronte ad accudire bambini piccoli o malati allattandoli più spesso. Le madri di quelli considerati più a rischio, inclusi i gemelli e i prematuri, affrontavano un rituale di segregazione per diverse settimane, stando con i neonati in una hut (una capanna) con un fuoco sempre acceso. Nei primi mesi li tenevano costantemente in braccio per non farli piangere. Dopo sei mesi, se il bambino stava crescendo normalmente, iniziavano ad affidarlo alle cure di altri bambini, dai sei ai dodici anni, per portare a termine compiti che aiutassero la famiglia. I padri non si occupavano dei neonati, non si trattava di un’attività maschile. Poiché erano così preoccupati per la sopravvivenza dei figli, i genitori gusii non cercavano esplicitamente di favorire il loro sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo. Non si trattava, però, di bisogni negati, perché fin dalla nascita i bambini gusii entravano in un ambiente interpersonale attivo e reattivo, prima con le madri e i bambini più grandi, e più tardi come membri del gruppo dei bambini.

Tratto da: R. LeVine, Child Care and Culture: Lessons from Africa, Cambridge University Press, Cambridge, 1994.

Tratto da: M. Small, Our Babies, Ourselves, Doubleday, New York, 1998.

▶ Meredith Small insegna Antropologia alla Cornell University di New York. APPROFONDIRE S. Harkness, Parents’ Cultural Belief Systems: Their Origins, Expressions, and Consequences, Guilford Press, New York, 1996.

R. LeVine, Child Care and Culture: Lessons from Africa, Cambridge University Press, Cambridge, 1994.

P. Stuart-Macadam, Breastfeeding: Biocultural Perspectives, Aldine de Gruyter, New York, 1995.

T. Thevenin, The Family Bed: An Age Old Concept in Childrearing, Avery Publishing Group, New York, 1987.

W. Trevathan, Human Birth: An Evolutionary Perspective, Aldine de Gruyter, New York, 1987. B. Whiting, Six Cultures: Studies of Child Rearing, John Wiley, New York, 1963.

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DOSSIER

Le tre R dei bambini olandesi Non iperstimolazione, ma pulizia, regolarità e soprattutto tanto riposo.

S

ei un visitatore americano che trascorre una mattinata in una casa borghese per osservare la routine di una madre olandese. La donna ha fatto in modo che arrivassi a​ lle otto per assistere al bagnetto mattutino, un’opportunità di giocosa interazione con il bambino. A metà mattina la madre gli dà il biberon, gli canta una ninna nanna e gioca per qualche minuto prima di metterlo nel box e intrattenerlo con un cellulare mentre lei, lì vicino, si occupa di alcune faccende. Circa mezz’ora dopo, il bambino comincia a esigere attenzioni. Lei lo guarda per un minuto, gli offre un giocattolo e si allontana. Il bambino ricomincia ad agitarsi. «Sembra annoiato e ha bisogno di attenzione», pensi. Ma la madre lo guarda simpaticamente e con voce rassicurante dice: «Oh, sei stanco?», e senza ulteriori indugi lo prende in braccio, lo porta al piano di sopra, lo infila nella sua culla e tira giù il tettuccio. Con tua sorpresa, si agita per solo pochi istanti, per poi tranquillizzarsi subito. La madre torna a guardarlo serena: «Ha bisogno di un sacco di sonno per crescere», spiega, «quando non fa il pisolino o non va a letto in tempo, si vede la differenza, non è così felice e giocoso». Nelle società occidentali possiamo trovare diversi modelli di sonno infantile che sembrano molto simili a quelli degli Stati Uniti. Facendo ricerca con sessanta famiglie della classe media di Leiden e Amsterdam, abbiamo scoperto le “tre R” del modo La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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olandese di crescere i bambini: rust, riposo, regelmaat, regolarità, e reinheid, pulizia. A sei mesi i bambini olandesi dormono più di quelli americani, un totale di quindici ore al giorno comparate alle tredici americane. Quando sono svegli in casa, sono lasciati più spesso tranquilli a giocare nei loro box o seggioloni. Una passeggiata ogni giorno nella carrozzina permette loro di guardare il paesaggio o di sonnecchiare pacificamente. Se la madre ha bisogno di andare fuori per un po’ senza il bambino, lo lascia da solo a letto per un breve periodo di tempo o esce durante il pisolino del bambino e chiede a un vicino di casa di controllarli con un “baby-phone”. Quanto dorme un olandese Per capire come le famiglie olandesi riescono a stabilire una tale routine di riposo fino a quando i bimbi hanno sei mesi, abbiamo fatto una seconda visita di ricerca nelle stesse famiglie-comunità. Abbiamo scoperto che già dalla seconda settimana, i bambini olandesi dormono più dei coetanei americani. Infatti, un dilemma per alcuni genitori olandesi era se svegliare il bambino dopo otto ore, come indicato dai servizi sanitari locali, o lasciarli dormire più a lungo. Il metodo principale per stabilire e mantenere questo modello era quello di creare un ambiente tranquillo, regolare, e riposante per il bambino per tutta la giornata. Lungi dal preoccuparsi di fornire “un’adeguata stimolazione,” queste madri stanno attente a evitare l’iperstimo-

lazione tipica, ad esempio, delle gite di famiglia, delle interruzioni nella regolarità del mangiare e del dormire, o in generale dell’avere troppe cose da guardare o ascoltare. Pochi genitori avevano problemi con il sonno dei bambini di notte. L’agenda dei pasti è strutturata seguendo le linee guida della clinica locale. Se un bambino continua a svegliarsi di notte, quando l’alimentazione non è più ritenuta necessaria, la madre o il padre gli danno un ciuccio e una pacca sulla schiena per aiutarlo a tornare a dormire. Molti aspetti della società olandese sostengono la regola delle tre R. Lo shopping è vicino a casa, e le famiglie hanno di solito vicini e parenti disponibili a dare una mano nel guardare i piccoli. Le dimensioni dei quartieri e una rete di piste ciclabili forniscono luoghi di gioco e un modo sicuro per i bambini di spostarsi da soli. I luoghi di lavoro sono generalmente vicino a casa, e ci sono molte modalità di lavoro flessibile o di part-time. Le tre R del tipico modo di allevare i figli in Olanda sono solo un aspetto di uno stile di vita tranquillo e senza fretta per la famiglia intera.

Tratto da: S. Harkness, Parents’ Cultural Belief Systems: Their Origins, Expressions, and Consequences, Guilford Press, New York, 1996.

Sara Harkness insegna alla School of Family Studies dell’University of Connecticut, Stati Uniti.

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DOSSIER

Come è cambiata la genitorialità Nell’antichità, l’altissimo livello della mortalità infantile, specie sino ai sette anni, imponeva ai genitori di non affezionarsi troppo ai neonati.

William Bouguereau, Charity, 1878, wikipedia.org.

I ▶ Ubaldo Nicola

l fatto che diventare madri e padri sia un evento naturale induce a volte a dimenticare i fondamenti culturali su cui si basa ogni variante storica della genitorialità. Può essere quindi utile ricordare come nell’antichità il ruolo dei genitori fosse molto diverso da come oggi lo intendiamo. La pittura vascolare greca, per esempio, non riporta alcuna immagine di un padre intento a gio-

care con i propri figli. E non a caso. A quel tempo si considerava indecoroso farlo, quasi fosse un atto lesivo della dignità di un cittadino adulto, e comunque contrario ai costumi tradizionali, che prevedevano una rigida separazione dei sessi inglobando i bambini, sino a sette anni, nel mondo femminile. Si è parlato a proposito di anaffettività genitoriale maschile, di un vero e proprio rifiuto della paternità, ma è difficile giudicare

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DOSSIER| Come è cambiata la genitorialità con criteri moderni una mentalità in cui la famiglia era ancora vissuta come un mero istituto procreativo e l’affettività dei maschi si esplicava in dimensioni prevalentemente sociali. La vice-famiglia Non che le madri greche, d’altra parte, fossero più accudenti; appena le condizioni economiche lo permettevano, usavano affidare la cura dei piccoli alle nutrici, passando con loro ben poco tempo, almeno secondo i nostri criteri. Lo storico Paul Veyne ha parlato a proposito di una «vice-famiglia», formata dalla balia, dalla nutrice e dal pedagogo, al quale spettava il compito di accompagnare il bambino a scuola, dopo i sette anni. Dobbiamo concludere che i greci non amassero i loro figli? Certamente no. Il fatto è che allora, e in realtà sino all’epoca moderna, affezionarsi a un neonato non era considerata cosa saggia, data la forte probabilità che non sarebbe riuscito a superare i pericoli dell’infanzia, caratterizzata da una spaventosa mortalità nei primi anni di vita. «Le società antiche, così come le società preindustriali ancora alla fine del XIX secolo, nutrivano speranze disperatamente scarse per quel che riguarda la durata della vita, e vedevano morire almeno un quinto dei bambini in tenerissima età. Tale dura legge era valida per tutte le classi sociali, dal momento che gli esempi più noti sono quelli di Cornelia, la madre dei Gracchi, che vide giungere all’età adulta solo tre dei dodici figli, e di Faustina, moglie di Marco Aurelio, che ebbe tredici figli di cui ben sette morirono prima della pubertà» (Néraudau, 1996). Prudentemente, quindi, per affezionarsi ai bambini si aspettava che avessero superato la fatidica soglia dei sette anni, oltre la quale La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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le malattie infantili diventavano meno mortali. Ma era anche la legge a favorire questo atteggiamento. Numa Pompilio aveva vietato di portare il lutto per la morte di un bambino che non avesse ancora tre anni. E comunque, il lutto per la loro morte doveva avere una durata, in mesi, pari agli anni che essi avevano vissuto, ma a partire dall’età di tre anni. Per i piccoli con meno di un anno, non era previsto alcun lutto; non erano neppure cremati, come ricordano sia Plinio il Vecchio nella Naturalis historia (VII, 72) sia Giovenale nelle Saturae (XV, 131). Plutarco, che perse una figlioletta di due anni, spiega alla moglie che non si fanno libagioni per i bambini di quell’età, che non si indugia presso il loro corpo e non si ricorre all’opera delle prefiche. Il problema del bambino cattivo Secondo la mentalità antica, una seconda buona ragione per non occuparsi dei bambini piccoli stava nella loro naturale cattiveria. Erano soprattutto i filosofi a sostenere questa tesi tanto lontana dalla nostra sensibilità: ancora incapaci di ragionare, i bambini non conoscono la virtù e quindi non possono comportarsi di conseguenza; confondono il bene con il loro personale benessere, diventando così prepotenti, insolenti e villani. Nascono per natura cattivi e tali permangono sino all’acquisizione della cultura. Solo i filosofi stoici dissentivano da tale teoria, non certo, però, a causa di una migliore osservazione del reale comportamento infantile. Come sempre sino all’epoca moderna, al fondo delle loro riflessioni sull’infanzia vi erano motivazioni di tipo ideologico. Sostenitori dell’intrinseca bontà del mondo, non potevano ammettere questa nascita nella negatività, postulando, pertanto, che

i bambini, pur nascendo buoni, fossero subito corrotti dalle nutrici, già a partire dai primi cruciali momenti, in particolare con l’uso dei bagni caldi, che indurrebbero nelle menti dei piccoli, come una specie di imprinting cognitivo, una deleteria associazione fra il bene e il piacevole. Questa mentalità cambiò radicalmente con l’avvento del cristianesimo? In parte sì. Sono numerosi i passi del Vangelo in cui Gesù apprezza l’esemplare innocenza dei piccoli, invitando gli adulti ad imitarla. «Furono presentati a lui dei bambini, affinché pregasse imponendo su di loro le mani; i discepoli però li sgridavano; ma Gesù disse: ‘Lasciate stare, non impedite che i bambini vengano a me; di tali, infatti, è il Regno dei cieli’» (Matteo, 19,13-14). Certamente il cristianesimo inaugura una nuova sensibilità, tuttavia troviamo nelle Confessioni di Agostino una spietata riproposizione del tema della cattiveria infantile. «Chi mi rammenterà il peccato della mia infanzia, se nessuno è innocente davanti a te, neppure il neonato che ha un giorno solo di vita sulla terra? Qual era dunque il mio peccato, allora? Forse l’avidità con cui boccheggiavo piangendo per il seno?». Dopo aver ricordato le tirannie compiute verso i genitori e gli sforzi per vendicarsi, per quanto possibile, di loro, picchiandoli, solo perché non obbedivano a degli ordini, il filosofo così conclude: «Dunque è nella debolezza del corpo infantile l’innocenza dei bambini, non nell’anima. Io ho visto e conosciuto bene un bambino geloso: non parlava ancora e già guardava livido, con occhi torvi il suo fratello di latte. Chi non le sa, queste cose? Le madri e le balie si vantano d’avere chissà quali rimedi: ma non la si può chiamare innocente questa insofferenza, questo

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DOSSIER Piccoli adulti Lo storico francese Philippe Ariès, nel suo saggio sulla storia della famiglia, L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime (1960), ha sostenuto una tesi fortemente controintuitiva: l’infanzia non è sempre esistita, ma è un prodotto culturale della modernità. Sino alla fine del Settecento, sino all’Emilio di Rousseau i bambini erano considerati dei piccoli adulti e quindi, argomenta lo storico, non si concedeva loro alcuna speciale protezione, diritto o responsabilità. Ne è una prova il fatto che bisogna aspettare la fine del Settecento per trovare la prima ricerca scientifica sulle malattie infantili. Nella storia dell’arte possiamo trovare numerose prove di questa visione “adultista” dei bambini. Nei ritratti familiari, in particolare, i piccoli indossano quasi sempre vestiti con la stessa foggia di quelli degli adulti, e persino i loro corpi, la postura, gli atteggiamenti e gli sguardi sembrano mancare di tutti i tratti che noi moderni associamo alla fanciullezza. Nell’immagine qui a fianco, l’unico modo per distinguere la signora Anne Hopton Pope dalle sue figlie sembra essere la statura. Per quanto accettata nella sostanza, la teoria di Philippe Ariès non ha mancato di suscitare alcune critiche. Si è fatto notare, ad esempio, che i bambini immortalati nelle opere d’arte del passato appartenevano sempre alle élites, le cui attitudini verso l’infanzia erano molto diverse da quelle della gente comune. Marcus Garrand, Lady Anne Hopton Pope con i suoi tre figli, 1596, National Portrait Gallery, Londra, wikipedia.org. 53

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DOSSIER| Come è cambiata la genitorialità

La pericolosità del seggiolino, manifesto di una campagna pubblicitaria per la sicurezza dei bambini, 2010.

La dubbia pericolosità del seggiolino Su Amazon, nella categoria Parenting and Families, sono presenti ben 35 000 titoli. L’estensione di questa industria culturale legata all’educazione infantile suggerisce che essere genitori, al giorno d’oggi, sia diventata un’esperienza sempre più complicata, in particolare per quanto riguarda la maternità, emotivamente impegnativa, centrata esclusivamente sul benessere del piccolo e sempre più basata sui consigli degli esperti; in breve plasmata da una forma di paranoia legata ai presunti rischi che i figli correrebbero. Veramente il seggiolino per bambini è pericoloso, e andrebbe quindi abolito, come vorrebbe far credere questo manifesto di una una campagna istituzionale spagnola per la sicurezza dei bambini? Eppure il suo uso è testimoniato già dall’antichità, e certo l’incidenza di cadute rovinose non è drammatica. Essere genitori, da una dimensione naturale dell’essere umano, si sta trasformando in una professione rischiosa, perché la posta in gioco non è la propria vita ma quella altrui, la sua sicurezza, il suo futuro.

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rifiuto di condividere con altri il latte per abbondante e ricco che fluisca alla fonte, e per bisognoso che altri sia di quell’aiuto, il solo alimento da cui trae la vita». In realtà, per Agostino la cattiveria infantile è la dimostrazione della persistenza del peccato originale nella storia dell’umanità: la colpa di Adamo, infatti, rivive in ogni individuo come una naturale tendenza alla negatività, sia verso Dio, nella forma della superbia, sia verso se stessi e gli altri, come un’innata predisposizione alla malvagità, quindi già presente in un bambino con un solo giorno di vita. In breve, la macroscopica enfatizzazione della corruzione morale del neonato serve al teologo per dimostrare la necessità della grazia, ossia dell’aiuto divino per la salvezza, cui l’uomo non può attingere con le sue sole forze. Si tratta quindi, ancora una volta, di una visione strumentale del bambino, più immaginato come modello per gli adulti che indagato nella sua realtà. Del resto, anche Agostino indica un’infantile qualità esemplarmente positiva: la disponibilità a credere, ad avere fede senza farsi impacciare, come spesso gli adulti, dai legami della razionalità. Per questo, anche per lui, come per Gesù, i bambini sono superiori ai sapienti, più vicini alla verità dei filosofi.

▶ Ubaldo Nicola APPROFONDIRE

J. Néraudau, Il bambino nella cultura romana, in E. Becchi (a cura di), Storia dell’infanzia. Dall’antichità al Seicento, Laterza, Roma-Bari, 1996.

P. Veyne, L’impero romano, in La vita privata. Dall’impero romano all’anno mille, Laterza, Bari, 1986.

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Il pediatra e la genitorialità portoricana L’apparente naturalità del lavoro genitoriale crea pregiudizi anche fra i pediatri: ad esempio che i bambini debbano stare sempre sotto controllo.

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Boston un pediatra sta provando un vago senso di inquietudine nell’intervistare una madre portoricana, che ha portato il suo bambino per un controllo. Quando lei è al lavoro, spiega la madre, i due figli maggiori, di età compresa tra sei e nove anni, si prendono cura dei due più piccoli, di due anni e tre mesi rispettivamente. Campanelli di allarme per i residenti: i bambini piccoli non possono essere sensibili ai bisogni di neonati e di altri piccoli. Eppure il bambino sta bene, ha un peso e un’altezza perfetti ed è prodigo di sorrisi. Il dottore fa alla madre domande specifiche: cosa mangia il bambino? L’appartamento è sicuro per un bambino di due anni? Le risposte sono rassicuranti, ma il dottore si spende comunque in una lezione sull’importanza della madre per lo sviluppo di un bambino normale. La madre tace, e il medico è ora convinto che qualcosa non vada. E in effetti qualcosa che non va c’è: l’idea che il medico ha di come si debbano curare i bambini. Egli aderisce a quello che io chiamo modello di genitorialità della «cura e del contatto continui», che richiede per l’appunto un alto livello di contatto, poppate frequenti, e la supervisione costante della madre. Secondo questo modello, una madre deve anche migliorare lo sviluppo cognitivo del piccolo con il gioco e le parole. Il pediatra è talmente immerso in questa formula che non ne è nemmeno consapevole, egli stesso

è stato allevato in questo modo. Ma presso l’Unità di Child Development dell’Ospedale infantile di Boston, che ho diretto, voglio che i pediatri abbandonino l’idea che ci sia un unico modo per crescere un bambino. Non farlo può interferire con la cura del paziente. I giapponesi svegliano i bambini Molti modelli di genitorialità sono validi. Tra gli efe mong del Congo, per esempio, un neonato è curato da più persone. I piccoli sono addirittura allattati da molte donne. Ma pochissimi passano il tempo a giocare con loro. Secondo gli efe il compito di un bambino è dormire. In Perù, i quechua fasciano i loro bambini in un sacchetto di coperte che la madre, o un bambino più grande, portano sulla schiena. All’interno del sacchetto, il bambino non può muoversi, e gli occhi sono coperti. I bambini quechua sono nutriti in modo superficiale ogni tre o quattro ore. Come spiegare ai pediatri meno esperti che, anche se tali pratiche non si adattano al modello del contatto e della cura continua, fanno sì lo stesso che i bambini crescano bene? I medici spesso vedono queste culture come esotiche, non rilevanti per il mondo industrializzato. Allora mi prodigo in esempi più vicini: i genitori olandesi lasciano i neonati a casa da soli per andare fare la spesa, a volte appuntando la camicetta del bambino al letto in modo da non farlo muovere; le madri giapponesi periodicamente svegliano i bambini dal sonno per

insegnare loro chi comanda. Le domande sono sempre le stesse. «Come può una madre lasciare il suo bambino da solo?» e «Perché mai un genitore dovrebbe voler svegliare un bambino che dorme?». I dati provenienti dagli studi di culture diverse indicano che le pratiche di allevamento dei figli variano e che questi diversi stili mirano a rendere il bambino un adulto culturalmente appropriato. Gli efe allevano futuri efe. I colleghi di Boston allevano futuri americani. Un medico che ha una vaga sensazione che qualcosa non va nel modo con cui qualcuno si prende cura del suo bambino deve in primo luogo esplorare i suoi presupposti, i “bisogni” che si basano esclusivamente sulla sua tradizione. Naturalmente deve assicurarsi che i bambini siano assistiti responsabilmente. So di aver aiutato i medici del mio ospedale ad ampliare le loro opinioni quando le loro lezioni sulla buona maternità sono sostituite da commenti tipo: «Che bambino stupendo! Non posso immaginare come questa mamma riesca a gestire sia il lavoro che altri tre bambini a casa!».

Tratto da: E. Tronick, The Neuro behavioral and Social-Emotional Development of Infants and Children, W. W. Norton & Company, New York, 2007.

Edward Tronick è professore presso i dipartimenti di Pediatria e Psichiatria della Harvard Medical School di Boston.

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SCUOLA

La riforma dell’istruzione degli adulti Tutte le importanti novità del nuovo regolamento dei Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti.

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▶ Emilio Porcaro La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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lla ricca stagione di riflessioni accademiche, pedagogiche e metodologiche (immediatamente precedente e successiva alla pubblicazione dell’ordinanza ministeriale 455 del 1997), è seguito, a partire dal 2006, un quinquennio durante il quale il dibattito sull’istruzione degli adulti si è concentrato su questioni burocratiche: il conferimento dell’autonomia al sistema educativo rivolto agli adulti, la creazione di strutture formative dedicate a tale pubblico e l’attestazione della conoscenza della lingua italiana da parte degli stranieri. Il lungo iter che riscrive il sistema nazionale di istruzione degli adulti si è concluso nell’autunno del 2012. Il 4 ottobre dello stesso anno, dopo aver acquisito i pareri del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, della Conferenza unificata, del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari competenti, il Consiglio dei Ministri ha definitivamente approvato lo schema di regolamento recante «Norme generali per la ridefinizione dell’assetto organizzativo e didattico dei Centri d’istruzione per gli adulti, ivi compresi i corsi serali […]». Il provvedimento è finalizzato a superare il “deficit formativo” della popolazione italiana che vede oltre 28 milioni di cittadini privi di un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado, mentre l’80% della popolazione adulta non possiede i requisiti sufficienti a garantire il pieno inserimento

nella società della conoscenza. Attualmente l’offerta formativa per adulti è erogata dai CTP, Centri Territoriali Permanenti (nell’anno scolastico 2012-2013 quelli attivi sono circa 542), e dai corsi serali per il conseguimento di un titolo di scuola superiore. Istituiti con l’ordinanza ministeriale 455 del 1997, i CTP sono strutture allocate presso istituzioni scolastiche di primo o secondo grado che erogano attività specifiche per gli adulti, con finalità anche di promozione e arricchimento delle conoscenze e competenze di base (alfabetizzazione funzionale). Con il nuovo assetto definito dal regolamento, il sistema di istruzione destinato agli adulti rimane sostanzialmente immutato e gli adulti che rientrano in formazione si trovano di fronte a due canali, proprio come accade oggi: i nuovi Centri per l’Istruzione degli Adulti (CPIA) e gli istituti tecnici, professionali e i licei artistici. Ai CPIA compete la realizzazione dei percorsi per il conseguimento del titolo conclusivo del primo ciclo di istruzione, per la certificazione attestante l’acquisizione delle competenze di base connesse all’obbligo di istruzione, e per i percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana per i cittadini stranieri. Gli istituti tecnici, professionali e i licei artistici continueranno a offrire percorsi d’istruzione finalizzati al conseguimento del diploma di scuola secondaria di secondo grado.

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SCUOLA CPIA

Istituti tecnici Destinatari

Adulti privi del titolo di licenza media e giovani che abbiano compiuto 16 anni. Ragazzi anche quindicenni purché in presenza di particolari condizioni e a seguito di accordi tra Regione e USR.

Adulti italiani e/o stranieri in possesso del titolo di licenza media. Giovani che abbiano compiuto 16 anni purché dimostrino di non poter frequentare il corso diurno.

Assetto didattico Percorsi di primo livello Primo periodo (A) Secondo periodo (B) Percorso di alfabetizzazione e apprendimento dell’italiano. (C)

Percorsi di secondo livello Primo periodo Secondo periodo Terzo periodo (D)

Offerta formativa e esito (A) Percorsi finalizzati al conseguimento del titolo (D) Percorsi per il conseguimento del diploma conclusivo del 1° ciclo di istruzione (diploma equi- di istruzione secondaria di 2° grado (istruzione tecnivalente alla ex licenza media). ca, professionale e artistica). (B) Percorsi finalizzati al conseguimento della certificazione per l’obbligo di istruzione (istruzione generale comune agli istituti tecnici e professionali). (C) Percorsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana (attestazione di conoscenza delle lingua italiana di livello A2).

Una nuova tipologia di scuola L’elemento di novità è rappresentato dal conferimento dell’autonomia ai Centri: i CPIA costituiscono, infatti, una tipologia di scuola autonoma dotata di un proprio assetto organizzativo e didattico, articolato in reti di servizio; dispongono di un proprio organico, di organi collegiali al pari delle altre istituzioni scolastiche, seppure adattati alla particolare utenza; sono organizzati in modo da stabilire uno stretto contatto con le autonomie locali, con il mondo del lavoro e delle professioni. Ai Centri possono iscriversi gli adulti, anche stranieri, che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, che non hanno assolto l’obbligo di istruzione o che non

sono in possesso del titolo conclusivo del primo ciclo di istruzione. I cittadini stranieri possono iscriversi ai percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana. A seguito di specifici accordi tra Regioni e Uffici Scolastici Regionali, e in presenza di particolari esigenze, possono iscriversi anche coloro che hanno compiuto il quindicesimo anno di età. Alle istituzioni scolastiche sede di corsi serali possono iscriversi gli adulti, anche stranieri, che sono in possesso del titolo di studio conclusivo del primo ciclo di istruzione, nonché coloro che hanno compiuto il sedicesimo anno di età e che, già in possesso del titolo di studio conclusivo del primo ciclo di istruzione, dimostrano di non poter frequentare

il corso diurno. In relazione alla specificità dell’utenza, i percorsi di istruzione degli adulti vengono riorganizzati in percorsi di primo livello, di secondo livello, di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana. Quelli di primo livello, erogati dai CPIA, sono articolati in due periodi didattici: il primo finalizzato al conseguimento del titolo conclusivo del primo ciclo di istruzione; il secondo al conseguimento della certificazione attestante l’acquisizione delle competenze di base connesse all’obbligo d’istruzione e relative alle attività comuni a tutti gli indirizzi degli istituti tecnici e professionali. I percorsi di secondo livello, erogati dagli istituti tecnici e professionali, sono articolati in tre

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SCUOLA| La riforma dell’istruzione degli adulti periodi didattici: il primo finalizzato all’acquisizione della certificazione necessaria per l’ammissione al secondo biennio con riferimento alle aree di indirizzo del primo biennio; il secondo al conseguimento della certificazione necessaria per l’ammissione all’ultimo anno con riferimento alle aree di indirizzo del secondo biennio; il terzo all’acquisizione del diploma di istruzione tecnica o professionale. Infine, i percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana sono erogati dai CPIA e vengono finalizzati al conseguimento di un titolo attestante una conoscenza della lingua non inferiore al livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue. I percorsi di primo livello relativi al primo periodo didattico (ossia ex licenza media) hanno un orario complessivo di 400 ore, destinato allo svolgimento di attività e a insegnamenti obbligatori relativi ai saperi e alle competenze attesi in esito ai percorsi della scuola secondaria di primo grado. In assenza della certificazione conclusiva della scuola primaria, l’orario complessivo può essere incrementato fino ad un massimo di ulteriori 200 ore, in relazione ai saperi e alle competenze possedute dallo studente. Tale quota può essere utilizzata anche ai fini dell’alfabetizzazione in lingua italiana degli adulti stranieri. I percorsi di primo livello relativi al secondo periodo didattico hanno un orario complessivo pari al 70% di quello previsto dai corrispondenti ordinamenti degli istituti tecnici o professionali per l’area di istruzione generale; i percorsi di secondo livello di primo, secondo e terzo periodo didattico, hanno un orario complessivo pari al 70% di quello previsto dai corrispondenti orLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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dinamenti degli istituti tecnici o professionali con riferimento all’area di istruzione generale e alle singole aree di indirizzo. Gli esami di Stato conclusivi La valutazione degli apprendimenti è definita a partire dal «Patto formativo individuale», stabilito con ciascun utente in modo d’accertare le competenze degli adulti in relazione ai risultati d’apprendimento attesi in esito a ciascun periodo didattico, con l’obiettivo di valorizzare le competenze comunque acquisite dalla persona in contesti formali, non formali e informali. Il primo periodo didattico dei percorsi di primo livello e il terzo periodo didattico dei percorsi di secondo livello si concludono con un esame di Stato, per il rilascio rispettivamente del titolo di studio conclusivo della scuola secondaria di primo grado e del titolo di studio conclusivo dei percorsi d’istruzione tecnica, professionale e artistica. L’esame di Stato conclusivo del primo ciclo d’istruzione risulta enormemente modificato e consiste in: 1. tre prove scritte, di cui la prima in italiano, la seconda in una delle lingue straniere indicate nel «Patto formativo individuale», la terza riguardante i risultati di apprendimento relativi all’asse matematico; 2. la prova scritta a carattere nazionale predisposta dall’Invalsi; 3. il colloquio pluridisciplinare. Anche gli organi collegiali subiscono un adattamento in ragione dell’utenza: il consiglio di classe è composto dai docenti del gruppo di livello e da tre studenti eletti dal relativo gruppo; la rappresentanza dei genitori nel consiglio di istituto e nella giunta esecutiva è sostituita con la rappresentanza degli studenti.

L’aspetto caratterizzante e maggiormente innovativo del regolamento riguarda le modalità per rendere sostenibili gli impegni orari e di frequenza degli adulti che rientrano in formazione attraverso: 1. il riconoscimento dei crediti formali, informali e non formali precedentemente acquisiti; 2. la personalizzazione del percorso di studio; 3. la fruizione a distanza di una parte del percorso; 4. la realizzazione di attività d’accoglienza e orientamento finalizzate alla predisposizione del Patto formativo individuale. Per quanto riguarda il riconoscimento dei crediti, il regolamento prevede che i Centri realizzino in maniera organica e con una visione sistemica accordi di rete con gli istituti tecnici e professionali finalizzati alla costituzione di apposite commissioni per il riconoscimento di saperi e competenze formali, informali e non formali e per la definizione del Patto formativo individuale. Sappiamo bene quanto sia difficoltoso il dialogo tra scuole di ordini diversi, ma è fondamentale incominciare a costruire relazioni partendo, forse, da quelle buone pratiche e sperimentazioni che in alcuni territori hanno dato vita a veri e propri sistemi territoriali. Mi riferisco in particolare all’esperienza della Commissione Valutazione Crediti (CO.VAL. CRE.) che dal 2004 opera in provincia di Bologna, riconosce crediti formali, informali e non formali, facilita il rientro in formazione di centinaia di persone ogni anno coinvolgendo, in un’ottica di sistema, tutti i CTP e tutti i serali del territorio. Una spinta per la costruzione di reti territoriali finalizzate al rico-

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Manifestazione contro la discriminazione scolastica degli stranieri, Bologna, 2012, wikipedia.org.

noscimento di crediti viene anche dalla recente legge di riforma del mercato del lavoro (Legge Fornero). In particolare nei commi da 51 a 68 dell’art. 4 si definiscono gli aspetti essenziali delle politiche in materia di apprendimento permanente da determinare a livello nazionale; si disciplina l’istituzione di reti territoriali di servizi d’istruzione, formazione e lavoro; si delega il governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali, con riferimento al sistema nazionale di certificazione delle competenze; si prevede un sistema pubblico nazionale di certificazione delle competenze basato su standard minimi di ser-

vizio omogenei su tutto il territorio nazionale, raccolti in repertori codificati a livello nazionale o regionale che fanno riferimento a un repertorio nazionale dei titoli d’istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali. La riorganizzazione del sistema d’istruzione degli adulti, attuata presso i CPIA e nei corsi serali funzionanti presso le istituzioni scolastiche d’istruzione secondaria, sarà tanto più efficace e in grado di rispondere in maniera attenta ai bisogni della popolazione adulta e dei lavoratori quanto più sarà sostenuta da una forte programmazione territoriale che, oltre alle scuole, veda coinvolti enti locali, comuni, province, regioni, imprese, associazioni datoriali e dei lavoratori, università. Le istituzioni scolastiche devono sfruttare tutte le po-

tenzialità offerte dall’autonomia ed essere capaci di creare reti per governare gli aspetti connessi alla flessibilità didattica, progettare e offrire nuove modalità di fruizione a distanza dei contenuti, certificare competenze tenendo conto delle esigenze del mercato del lavoro, reperire e quindi gestire fondi e risorse non necessariamente legati ai finanziamenti statali e ministeriali.

▶ Emilio Porcaro è dirigente sco-

lastico del CTP Besta di Bologna. Dal 1999 si occupa di istruzione degli adulti e dell’integrazione linguistica e sociale degli stranieri. Ha ricoperto incarichi di coordinamento, consulenza in progetti provinciali e nazionali.

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Corsi di diploma a elevata accessibilità Esperienze di blended learning per l’istruzione degli adulti.

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▶ Simone Giusti La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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uesta storia inizia durante l’anno scolastico 2004-2005, durante il quale il settore pubblica istruzione della Provincia di Grosseto svolge un’indagine finalizzata alla sperimentazione e attuazione di un percorso scolastico per conseguire un diploma superiore on-line. Dalla ricerca, pubblicata nel 2005 con il titolo Educazione degli adulti e diploma on-line, risulta che, su una popolazione di circa 115 0 00 grossetani tra 19 e 55 anni, la metà è in possesso del solo diploma di scuola media di primo grado, mentre oltre il 30% di questi ultimi si dichiara interessato a conseguire un diploma on-line. Particolarmente interessante è inoltre l’analisi della situazione nei territori decentrati, a proposito dei quali si legge che «la presenza o meno di una scuola superiore sul territorio comunale e la difficoltà di comunicazione con i centri principali della provincia, a cui sono soggetti gli abitanti dei comuni disagiati, sono fattori che influiscono molto sulla scolarizzazione della popolazione; infatti i titoli di studio superiori (laurea e diploma) sono mediamente più presenti tra gli abitanti dei comuni in cui è presente almeno una scuola superiore, mentre il grado di istruzione più basso (licenza scuola elementare) è più frequente nei comuni disagiati e senza scuola superiore». Dopo una fase di progettazione, quindi, durante l’anno scolastico 2006-2007 iniziano le attività

didattiche con il corso di qualifica e di diploma per operatore e tecnico qualificato in gestione informatica aziendale (rilasciato dall’Istituto professionale Luigi Einaudi di Grosseto, capofila dell’intervento). Le prime due aule decentrate, nelle quali sono erogate le lezioni per due giorni a settimana, si trovano a Cinigiano, sulle colline alle pendici del Monte Amiata, al centro di un’area agricola con 2737 abitanti (densità abitativa 16,7 abitanti per kmq), e a Monterotondo Marittimo, sulle Colline Metallifere, un piccolo comune di 1243 abitanti concentrati nel capoluogo. In entrambi i comuni si trova un CTP (Centro Territoriale Permanente) per l’educazione degli adulti. I docenti del CTP lavorano in collaborazione con quelli dell’istituto secondario capofila per integrare l’offerta formativa nelle materie di base. Per le attività di aula, le amministrazioni comunali mettono a disposizione un’aula multimediale e un tutor. Durante gli anni successivi aprono aule decentrate a Capalbio, Isola del Giglio, Roccastrada, Follonica, Caserma del Reggimento Savoia Cavalleria di Grosseto, Porto Ercole, Ribolla, Paganico. Sono inoltre attivate due aule nei comuni di Santa Fiora e Arcidosso, con l’Istituto professionale Balducci-Da Vinci e il CTP di Arcidosso. Alcune sedi sono poi chiuse a conclusione del ciclo triennale del corso, articolato in tre periodi didattici secondo il modello proposto poi dal regola-

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SCUOLA mento sui Centri per l’Istruzione degli Adulti (vedi articolo a p. 58). Grazie a questo progetto, attivato con le normative vigenti e con le risorse messe a disposizione da Stato, Regione, amministrazione provinciale e comuni, ad oggi sono stati rilasciati 123 diplomi di Stato e 190 diplomi di qualifica. Il sistema EDA Nell’agosto 2009 la giunta regionale della Toscana approva il Sistema regionale di educazione degli adulti. Dedicato principalmente alle strategie d’educazione non formale, questo documento prevede anche misure per accrescere la qualità dei programmi di istruzione degli adulti, la loro efficacia e adeguatezza rispetto ai modi d’apprendere in età adulta. In particolare, sostiene la Regione Toscana, «tenuto conto della necessità di rendere più flessibile l’offerta e d’estendere il numero dei partecipanti alle attività di istruzione finalizzate al conseguimento di titoli di studio (incluso il diploma di scuola media superiore), si tratta di attivare interventi che utilizzino nuovi modelli organizzativi e nuove tecnologie». A questo scopo, con il fine d’aumentare l’accessibilità del sistema dell’Istruzione degli Adulti (IDA), la Regione Toscana, si legge nel documento, «intende diffondere, in forma sperimentale, in altri contesti territoriali il modello didattico-organizzativo del progetto “Diploma on-line”, sperimentato con successo nella provincia di Grosseto, […] e rivolto a tutti gli adulti che per motivi diversi non erano in grado d’accedere alle risorse educative tradizionali, ma desideravano incrementare le competenze di base, trasversali e tecnico-professionali e acquisire un titolo di studio (qualifica professionale e diploma di Stato)».

Per validare il modello, dunque, il settore istruzione della Regione Toscana, nell’anno scolastico 2010-2011, avvia una sperimentazione nelle province di Grosseto, Siena e Arezzo, estesa dall’anno successivo all’intero territorio regionale. Questi progetti, cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo, hanno consentito di mettere a punto le procedure, i modelli organizzativi, i materiali didattici, le piattaforme per la gestione dei contenuti e la manualistica per la gestione delle attività didattiche. Per quanto ogni progetto abbia caratteristiche peculiari in base al contesto territoriale e, quindi, ai bisogni specifici e alle risorse disponibili, emergono alcuni elementi comuni. Per esempio, l’integrazione di risorse e modelli di sistemi della formazione professionale, dell’orientamento e dell’istruzione, oltre all’adozione del blended learning finalizzato a rendere i corsi compatibili con gli stili di vita e le risorse dei partecipanti potenziando l’efficacia dell’azione didattica grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Naturalmente, l’adozione di questo tipo di didattica consente di sviluppare, sia pure indirettamente, le competenze digitali dei docenti e degli alunni. Didattica ibrida Il blended learning, in italiano “apprendimento misto” o “ibrido”, descrive un processo di formazione caratterizzato da un mix di didattica tradizionale e didattica mediata dalle nuove tecnologie: un percorso potenziato grazie all’uso della tecnologia, sia on-line (aule virtuali, learning object, podcast ecc.) sia off-line (DVD ROM, file audio e video ecc.). Attraverso la combinazione opportunamente dosata di formazione tradizionale ed e-learning, è possibile migliorare l’accesso

all’apprendimento rendendolo più flessibile e stimolante senza tuttavia rinunciare, com’è nel caso dell’e-learning, alla ricchezza del contatto umano tipico della didattica tradizionale. Inoltre, grazie alla possibilità d’introdurre gradualmente e sempre parzialmente le nuove tecnologie, il blended learning offre l’opportunità di costruire un rapporto positivo con l’e-learning e, in generale, con le risorse offerte dall’industria dei contenuti e dall’utilizzo dei nuovi dispositivi mobili (come tablet e smartphone) che stanno modificando l’approccio alla lettura, alla fruizione di multimedia e alla comunicazione interpersonale. È da considerare poi che il blended learning applicato all’IDA rappresenta un’occasione straordinaria per introdurre in modo dolce le nuove tecnologie nei processi d’istruzione. In questo caso i docenti, che sarebbero “immigrati digitali”, per ricorrere a una metafora abusata, avrebbero a che fare con altri “immigrati digitali”, persone che probabilmente hanno un’esperienza delle nuove tecnologie simile alla loro. Altra cosa sarebbe usare le nuove tecnologie con “nativi digitali”, spesso meno alfabetizzati ma più avvezzi a manipolare schermi, socializzare on-line e vivere in un mondo interconnesso. L’esperienza di “Diplomarsi on-line”, e degli altri progetti che da esso hanno preso spunto, insegna che il blended learning può rappresentare più di un semplice risparmio di tempo rispetto alla scuola tradizionale. Infatti, può contribuire a cambiare la percezione della scuola, facendola apparire non tanto più facile, quanto più ricca, accogliente, utile ed efficiente, sia agli studenti sia ai docenti, i quali possono trarre benefici in termini di benessere, motivazione e riqualificazione

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SCUOLA| Corsi di diploma a elevata accessibilità professionale. Applicando il blended learning, i docenti del sistema dell’IDA sperimentano il ruolo che probabilmente si configura per loro nella scuola del futuro. Non più semplici “erogatori di lezioni” supportati da materiali didattici elaborati esclusivamente dall’industria editoriale (facilmente sostituibili da learning object multimediali e da corsi on-line), hanno la possibilità di riacquisire centralità nel processo d’apprendimento attraverso tre funzioni fondamentali: la gestione delle relazioni, dei contenuti (content management) e la valutazione delle competenze. La gestione delle relazioni con gli studenti e tra gli studenti è potenziata dall’utilizzo di aule virtuali che consentono di condividere profili personali, scambiarsi messaggi uno a uno (messaggeria o chat) o uno a molti (forum). Grazie a queste piattaforme, utilizzate ormai, anche se in maniera non uniforme, da gran parte delle università e delle scuole del mondo, il rapporto interpersonale anziché allentarsi si stringe, e da problema (come a volte si manifesta nei gruppi classe) diventa una risorsa. Dal rapporto interpersonale, d’altronde, scaturisce spesso la motivazione a terminare percorsi formativi lunghi e impegnativi come quelli dell’IDA. E dalla stessa fonte scaturiscono le energie per affrontare carriere impegnative come quelle degli insegnanti. La gestione dei contenuti è una necessità nuova, estranea alla scuola tradizionale, chiusa al mondo esterno o comunque dotata di potentissimi filtri. La scuola tradizionale gestisce i contenuti in modo semplice, attraverso l’adozione dei libri di testo: un rito annuale, con valore spesso pluriennale. Ogni giorno, poi, il singolo docente è chiamato a selezionare, tra i materiali La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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didattici adottati, le pagine da studiare e gli esercizi da svolgere. L’utilizzo delle nuove tecnologie e la connessione alla rete, invece, espongono studenti e docenti a un bombardamento di informazioni senza precedenti, ricchissimo e pressoché ingestibile anche dai più esperti. È in quest’ambito che nasce la necessità d’individuare metodi e tecnologie per la raccolta, gestione e pubblicazione di informazioni in formato digitale. Per questo occorre una piattaforma come Moodle, un LCMS (Learning Content Management System), che consente di creare, gestire e archiviare i materiali didattici, oltre che tracciare e memorizzare le interazioni fra tutti i partecipanti. Pertanto è fondamentale che il docente sia anche e-tutor, come previsto dal blended learning: in questo modo egli può posizionarsi virtualmente al centro dei flussi di informazione, fare da filtro, selezionarli e direzionarli in modo opportuno rispetto alle esigenze dei partecipanti, i quali non potrebbero, lasciati senza guida, orientarsi nel mare aperto del world wide web. La valutazione delle competenze, infine, è l’ultima delle funzioni destinate a rinvigorire il ruolo del docente. Nel blended learning, la valutazione può riacquisire il suo pieno valore formativo grazie alle numerose e continue occasioni di feedback offerte dagli strumenti dell’aula virtuale (forum, messaggi, compiti off-line e on-line), riservando alle attività in aula gli strumenti più complessi come esercitazioni, prove simulate e studio di casi, che gradualmente dovrebbero sostituire i tradizionali compiti in classe, adeguati a verificare la trasmissione di conoscenze ma poco adatti a una didattica centrata sulle competenze.

Verso un nuovo sistema dell’IDA La “Gazzetta Ufficiale” n. 47 del 25 febbraio 2013 ha finalmente pubblicato il regolamento per la riorganizzazione del sistema dell’IDA (vedi l’articolo di Emilio Porcaro a p. 58). Il documento prevede l’introduzione della didattica a distanza, che così appare per la prima volta negli ordinamenti scolastici del nostro Paese: «la fruizione a distanza di una parte del percorso previsto, di regola, per non più del 20% del corrispondente monte ore complessivo» (art. 4, comma 9, punto c). Ma è un’apertura che potrebbe mascherare una chiusura alle potenzialità del blended learning. Già il parlare di «fruizione a distanza» richiama una concezione tradizionale della didattica, precedente alla rivoluzione digitale che niente ha a che vedere con l’e-learning. E parlare di «corsi serali» fa pensare a un’epoca in cui gli adulti lavoravano solo di giorno e potevano andare a scuola di sera. In realtà, per mettere pienamente a frutto le risorse del blended learning, al fine di migliorare l’accessibilità dei percorsi formativi formali, sarebbe necessario focalizzare l’attenzione sui nuovi stili di vita degli adulti, che hanno sempre più difficoltà a pianificare il loro tempo nel lungo e medio periodo in modo omogeneo e rigido, mentre hanno più capacità di gestirlo in modo flessibile, acquisendo e organizzando le informazioni in modo autonomo.

Simone Giusti, formatore e consulente in didattica con approccio narrativo, è coordinatore del progetto “Diplomarsi on-line” e consulente scientifico di progetti di blended learning per l’istruzione degli adulti.

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Le scuole volontarie di italiano

Studenti alla scuola secondaria di Shimo la Tewa, Kenia, wikipedia.org.

Professionalità docente, insufficienza del materiale didattico adeguato, organizzazione e turn over degli studenti: i tanti problemi che accomunano la galassia delle scuole su base volontaria.

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▶ Andrea Ghezzi

insegnamento dell’italiano agli stranieri vede in Italia una pluralità di soggetti coinvolti, tra i quali una posizione importante è assunta dalle scuole sostenute da insegnanti volontari. È un insieme piuttosto refrattario a un’analisi complessiva: il numero delle scuole “volontarie” sul territorio nazionale è pressoché sconosciuto e la loro organizzazione presenta un’ampia gamma di variazioni, dal piccolo corso parrocchiale sino a quelli istituiti dal sindacato o da un gruppo di docenti in pensione che, uno o due pomeriggi alla settimana, chiedono in uso qualche aula a una scuola. La densità e il tipo di struttura delle scuole volontarie dipendono in gran parte dal livello di

presenza di stranieri sul territorio e dalle differenti attitudini organizzative che assume localmente il volontariato, sia esso laico o no, inserito all’interno di altre istituzioni oppure autonomo. Per questo è difficile descrivere in termini precisi il profilo delle scuole di italiano volontarie, nonostante, in tempi relativamente recenti, la costituzione di reti di scuole stia favorendo la definizione di alcuni elementi di comunanza. In maniera esattamente opposta alla fumosità della cornice che le contiene, la funzione svolta dalle scuole di italiano è nitidamente rivolta ad accompagnare nel percorso di integrazione nella società italiana, a livello non solo linguistico, un numero di stranieri talmente alto da farle diventare

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SCUOLA| Le scuole volontarie di italiano un’importante articolazione del sistema pubblico. Tale funzione si carica di una nuova urgenza alla luce degli ultimi interventi normativi, che vincolano al possesso di specifici requisiti di conoscenza linguistica il rilascio dei documenti di permanenza legale sul territorio italiano ai cittadini stranieri. Senza l’apporto dei corsi tenuti dai volontari, molti stranieri non saprebbero dove soddisfare il bisogno, reale e ora anche imposto, di apprendimento della lingua. E in molti casi, gli alunni di quei corsi sono le persone che rischiano di essere maggiormente penalizzate dalla nuova normativa: adulti lavoratori, con poco tempo e risorse da dedicare all’istruzione, spesso scarsamente scolarizzati e con una conoscenza della nostra lingua che raramente raggiunge il livello A2 del QCER. L’insegnante volontario La dimensione dell’insegnamento dell’italiano agli stranieri è attraversata da alcuni tratti specifici e punti di frizione. La prima cosa che balza agli occhi è la complicata conciliabilità dei termini insegnante e volontario. Infatti, il percorso che porta alla “nascita” dell’insegnante volontario non include obbligatoriamente una formazione specifica, anzi, nella maggior parte dei casi non la include proprio. Questo non significa che tali insegnanti siano persone inadatte alla professione, tutt’altro: una ricerca svolta qualche anno fa nella provincia di Bologna evidenziava come una larga maggioranza fosse composta da persone con un alto grado di istruzione, come docenti in pensione e giovani universitari. Tuttavia la peculiarità della didattica rivolta agli stranieri e l’intermittenza nella funzione di docente, o almeno la discontinuità La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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che caratterizza un’attività non professionale esercitata a seconda della disponibilità di tempo libero, mettono in evidenza la necessità di una robusta preparazione all’insegnamento. Per la verità, soprattutto negli ultimi anni, tale esigenza è stata recepita da una serie di iniziative di formazione che hanno visto promotrici le amministrazioni pubbliche e le reti di scuole. Inoltre ci sono almeno due elementi specifici e aggiuntivi di cui occorrerebbe tener conto nella formazione dei docenti. Il primo è che oggi, diversamente dal passato, i percorsi didattici dovrebbero avere come obiettivo minimo dotare gli stranieri delle capacità e competenze necessarie al superamento delle prove di conoscenza della lingua (come sancito dal decreto ministeriale del 4 giugno 2010) e, dal prossimo anno, di quella che sarà formulata a seguito dei primi Accordi di integrazione, siglati dalla scorsa primavera. Il secondo deriva dal fatto che il “servizio” offerto dalle scuole volontarie agli stranieri non è semplicemente l’insegnamento della lingua. Essendo strutture molto permeabili quanto a criteri (e tempi) di accesso, le scuole volontarie divengono inevitabilmente una fonte privilegiata di conoscenza e di orientamento sulla società di accoglienza. Tutta una serie di saperi, che spaziano dall’orizzonte vicino dell’utilità pratica a quello lontano dei modi di pensare, sono scambiati tra insegnanti e alunni, e tra alunni stessi, nella socialità di classe e di scuola. E accanto ai saperi vengono appresi gli habitus sociali che, nell’alveo protettivo della scuola, possono essere sperimentati senza la paura dell’errore. Perciò, la formazione dell’insegnante volontario dovrebbe abbracciare, oltre agli aspetti più propriamente

afferenti l’insegnamento della lingua, anche quelli di orientamento pratico e culturale. Un altro fattore che contribuisce ad appesantire la difficoltà dell’insegnamento in queste scuole è costituito dal materiale didattico. Testi e schede raramente sono tarati sull’utenza delle scuole e devono essere costantemente riadattati dall’insegnante o sostituiti da materiale autoprodotto. È una prassi dispendiosa, in termini di tempo, che riflette la scarsa attenzione del mondo editoriale per la combinazione data dai livelli elementari della lingua (compresi quelli di analfabeti e pre-A1) associati a parlanti stranieri, immigrati e adulti. Mondo editoriale che, proprio quando si rivolge all’insegnante volontario per le ragioni di cui si è detto, dovrebbe fare uno sforzo suppletivo nella predisposizione degli apparati di ausilio alla docenza (guide insegnanti ecc.). E non rimane senza effetti più ampi il fatto che l’insegnamento si basi, in buona parte, su materiali autoprodotti e che la cornice formativa sia, in alcuni casi, poco consistente. In un’ottica di sostenibilità del sistema dell’insegnamento volontario, ciò che viene penalizzata è la riproducibilità della figura dell’insegnante, il quale, quando decide di smettere, porta con sé un patrimonio di conoscenze e di esperienze didattiche che con difficoltà sono trasmesse a chi ne prende il posto. L’importanza delle reti di scuole Alcune interessanti esperienze di reti di scuole mostrano come sia possibile rafforzare il sistema dell’insegnamento volontario rendendolo più stabile e uniforme. Oltre a favorire lo scambio informativo, le reti facilitano il processo di integrazione delle scuole nel sistema istituzionale. Carolina

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SCUOLA Purificati della rete Scuolemigranti di Roma e del Lazio, che comprende oltre un centinaio di scuole, afferma che una parte importante dell’attività della rete è rivolta alla formazione, all’aggiornamento, alla discussione dei criteri di insegnamento e di valutazione, alla tenuta dei rapporti con altri soggetti pubblici. Solo attraverso la presenza di una rete, si è arrivati alla definizione di accordi con i CTP locali e con gli enti certificatori, al fine di rendere più efficace la preparazione degli esami di certificazione di livello A2 di conoscenza dell’italiano, e più economico il loro svolgimento. Poi c’è una serie di aspetti specifici che emergono dall’analisi delle pratiche e micropratiche della vita delle scuole volontarie. L’organizzazione di una scuola di italiano non può, infatti, prescinde-

re dalle particolarità dell’utenza a cui si rivolge. Come si è visto, il pubblico a cui si apre è costituito da quella fetta della popolazione rappresentata da stranieri immigrati, soprattutto lavoratori adulti, ma anche minori. Già nella fase di iscrizione, le varianti organizzative possono essere molte. In parecchie scuole sono gli stessi insegnanti a propagandare l’apertura dei corsi e costituire le classi. In realtà, secondo la mia esperienza, la notizia si diffonde soprattutto con il volantinaggio nei luoghi più frequentati dagli stranieri: stazioni, mercati, negozi di alimentari, call center. In alcune situazioni più fortunate, ai corsi viene data pubblicità anche sui siti Internet istituzionali e, a volte, tramite la pubblicazione di fascicoletti a larga tiratura e distribuzione gratuita. In realtà

accade poi spesso di scoprire che le informazioni sono più efficacemente diffuse tramite il passaparola all’interno delle reti familiari e amicali. Alcune scuole non pongono preclusioni a chi desidera iscriversi, altre richiedono l’esibizione dei documenti che comprovano la regolarità del soggiorno. Il giorno dell’iscrizione vengono formate le classi. È frequente che a questo scopo sia somministrato un test di ingresso prodotto dai docenti, in modo da costituire classi omogenee quanto ai livelli di conoscenza dell’italiano. Se questa è la norma, è pur vero che tale omogeneità può non essere il primo criterio di formazione dei gruppi di classe in quei rari casi in cui la didattica non sia impostata su contenuti prettamente linguistici, ma intenda affrontare argomenti d’altra natura (cultura locale, educazione civica, cucina ecc.), oppure quando gli insegnanti vogliano inserire alcuni alunni di livello più avanzato che possano facilitare l’apprendimento dei compagni. Altri criteri che indirizzano la composizione delle classi vertono, invece, su considerazioni di opportunità. Per esempio, almeno nelle scuole che ho frequentato, si tende a tenere separate le persone che provengono da gruppi nazionali in conflitto e, in alcuni casi, si attivano corsi solo femminili. Ogni lezione, una classe diversa Definite le classi, ai docenti non resta che confrontarsi con il maggiore problema di questi corsi: l’intermittente frequenza degli iscritti. È raro terminare il corso con lo stesso gruppo di alunni con cui lo si è iniziato; abbandoni e nuovi inserimenti tra una lezione e l’altra sono molto frequenti. Se i motivi che inducono gli stranieri ad abbandonare o a iscriversi

Don Milani fra i ragazzi della scuola di Barbiana, 1966, comune.calenzano.fi.it. 67

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Adulti analfabeti seguono una lezione con l’ausilio del programma educativo televisivo Telescuola, sulla Rete nazionale, 1961. Copyright: D. Leas/ Time Life Pictures/Getty Images.

in ritardo possono essere molti (un nuovo lavoro, problemi familiari, aspettative disattese, improvvise indisponibilità di tempo ecc.), le scuole, dal canto loro, tendono a elaborare strategie per disincentivare tali comportamenti. Spesso si prevede il rilascio di un attestato al termine del corso che viene rilasciato solamente a chi ha frequentato un certo numero di lezioni; altre volte è prevista l’“espulsione” per chi non avverte della successiva assenza; altre volte ancora si propone una sorta di deposito cauzionale a garanzia dell’assiduità. Quella della frequenza è la questione più frustrante dell’insegnamento volontario. Nel negoziato che coinvolge i reciproci impegni, prevalgono, naturalmente, le necessità di vita degli alunni, a tutto scapito, però, dell’efficacia didattica. Programmare diventa difficile e occorre che gli insegnanti siano disposti ogni volta a misurare i bisogni della nuova classe, riprendere argomenti già affrontati o includerne di nuovi non programmati. Il che non solo è una necessità prodotta dallo stato delle cose, ma costituisce anche la possibiliLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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tà di motivare maggiormente gli studenti alla frequenza e, in definitiva, identifica bene quella che è la cifra distintiva dell’insegnamento volontario: una duttilità e una capacità di stare in scena (o meglio, in cattedra) che si rinnovano a ogni lezione. Decifrare i contesti Il fatto di dover interpretare ogni volta il gruppo che ci si trova di fronte permette di alimentare la motivazione: un aspetto dell’apprendimento di questo tipo di studenti al quale si dovrebbe prestare maggiore attenzione. Si tratta, per l’insegnante, di una difficile calibratura tra insegnare cose nuove e non allontanarsi troppo dal perimetro esperienziale degli interlocutori. E, in aggiunta, della valutazione del grado in cui gli studenti desiderano contribuire con la propria esperienza alla lezione o di quanto, invece, preferiscano mantenere per sé; un aspetto, questo, da non sottovalutare. Come in ogni insegnamento di lingua L2, l’obiettivo dovrebbe essere aiutare lo studente a plasmare in maniera soddisfacente l’immersione in un ambiente linguistico poco conosciuto. Di fatto

una parte importante della lezione è normalmente dedicata al rafforzamento di quegli aspetti della lingua che consentono una più corretta decifrazione del contesto lavorativo, familiare e sociale in cui gli stranieri si muovono. In tal senso, a volte, è avvertita l’esigenza di distribuire le ore del corso in lezioni numerose e brevi, che si conciliano meglio con il mantenimento di una soglia di attenzione elevata e con una più ravvicinata relazione con le attività della vita quotidiana. Ed è proprio la maggiore attenzione per gli aspetti pratici della lingua e per la loro formalizzazione nelle indicazioni contenute nella recente normativa riferentesi all’Accordo di Integrazione e al D.M. 4/6/2010, che è destinata a fungere da bussola per la direzione che prenderà la futura organizzazione delle scuole di italiano.

Andrea Ghezzi è stato insegnante di Italiano dal 2003 al 2010 presso due scuole volontarie di Bologna. Dopo gli studi in Diritto e Antropologia, si è interessato di cultura maya e di etnolinguistica. Lavora come editore.

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L’alfabetizzazione di Paulo Freire

Il processo di alfabetizzazione come mezzo di emancipazione civile e politica per vivere nella società in modo responsabile e consapevole.

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Monumento a Paulo Freire, Brasila, wikipedia.org.

in dagli anni Sessanta del secolo scorso, l’avvocato ed educatore Paulo Freire propose un’idea di alfabetizzazione come padronanza cosciente, non puramente mnemonica, delle tecniche di lettura. A livello dei processi di apprendimento, ciò incoraggia un investimento diverso rispetto a una memorizzazione visiva e meccanica di frasi, parole e sillabe scollegata dal proprio vissuto, a favore di un atteggiamento creativo. In questa prospettiva la funzione primaria cui risponde l’educatore è dialogare con gli apprendenti analfabeti legando l’attenzione verso situazioni concrete all’utilizzo di strumenti per alfabetizzarsi. Questa, infatti, non deve essere imposta o calata dall’alto, ma attuata in prima persona dal soggetto analfabeta che apprende all’interno di un gruppo con analoghe motivazioni, sostenuto dall’educatore. Apprendere diviene così la risposta a domande rilevanti e generative, diventa il frutto di un’interazione docente-studente in cui l’apprendimento è reciproco: «Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano a vicenda in un contesto reale». Freire considera il dialogo l’aspetto essenziale di un processo educativo inteso come pratica

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SCUOLA| L’alfabetizzazione di Paulo Freire di libertà. Nella misura in cui si rappresentano aspetti esistenziali, pur rappresentando contesti complessi, risulta essenziale alle dinamiche d’apprendimento partire da situazioni semplici cercando una pluralità di possibilità di sguardi e di criteri d’analisi che permettano di decostruire e scomporre canoni precostituiti. L’educatore non è, quindi, sollecitato a proporre la propria lettura del mondo, ma a evidenziare come vi siano molteplici visioni del mondo, ricercando una tensione positiva fra interventi normativi e sollecitazioni libertarie: un educatore che opera con chi apprende, evitando dicotomie docente-apprendente. L’esclusione da molti ambiti della vita sociale si accompagna spesso alla condizione di persone analfabete: in una prospettiva freireana, una maggior conoscenza porta anche a nuovi orizzonti, a una rinnovata consapevolezza e a una visione critica del mondo. Il processo di alfabetizzazione è visto prevalentemente come un mezzo di emancipazione civile e politica per poter vivere in modo sempre più consapevole a livello sociale. Le parole generatrici Freire suggerisce di investire un tempo iniziale significativo che permetta agli educatori di avvicinare e conoscere i contesti in cui vive chi apprende. L’approccio all’alfabetizzazione proposto in Educaçáo como prática da libertade (pp. 111-114) può essere suddiviso in cinque tappe: 1. individuazione delle parole più usate nel linguaggio comune dei gruppi con cui si lavora; 2. identificazione delle parole generatrici considerando anche aspetti di ricchezza, e di difficoltà, fonetica, dando importanza al contenuto pratico La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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delle parole; 3. presentazioni di situazioni reali che appartengono al vissuto quotidiano del gruppo, tramite disegni e fotografie. Questo processo è chiamato di codificazione; 4. redazione di schede e canovacci che aiutino a sviluppare dialoghi in modo flessibile per non togliere immediatezza ai processi di apprendimento; 5. schede che presentano la scomposizione delle famiglie fonetiche corrispondenti alle parole generatrici. Una parola chiave per Freire è “reinventare”: anche il modo di realizzare queste cinque tappe sarà differente di volta in volta, perché diversi saranno il contesto di riferimento, i luoghi, le persone, il loro vissuto e le loro abitudini. Freire insiste sulla composizione scritta da parte degli apprendenti di propri testi, anche semplici, per stimolare creatività e fantasia. L’analfabeta è al centro del processo di apprendimento e deve farsi carico in prima persona del proprio apprendimento, non delegarlo a chi ha ruoli d’educatore. Uno degli aspetti più critici dell’alfabetizzazione, secondo l’approccio di Freire, è individuare le parole generatrici adeguate; se scelte erroneamente, infatti, portano a una diminuzione della motivazione. Prima di cominciare un corso di alfabetizzazione in L2, sarebbe utile effettuare una valutazione iniziale, se necessario con mediatori culturali, per avere una conoscenza di base delle persone: età, livello di istruzione, capacità di leggere nella propria lingua madre. Come minimo, bisogna proporre loro qualche breve frase da leggere e copiare per capire il grado di alfabetizzazione. Nel caso in cui la persona analfa-

beta non conosca alcuna parola nella lingua seconda, sarà indispensabile cominciare con l’insegnamento della lingua orale. Da un punto di vista operativo, abbiamo ritenuto che quest’approccio all’alfabetizzazione caratterizzato dall’uso di parole generatrici potesse essere valido anche per apprendere una lingua seconda. Ci si è interrogati su che tipo di caratteri insegnare: la scelta è stata insegnare a leggere e scrivere in stampatello, sia maiuscolo sia minuscolo, perché si è ritenuto importante apprendere entrambi i tipi di caratteri in cui ci si può confrontare con un testo scritto. Le attività e gli esercizi progettati devono necessariamente essere calibrati sugli apprendenti, le attività proposte devono essere stimolanti, semplici ma non banali. Si è cercato di presentare pochi testi scritti, incentivando la composizione di testi, ovvero di frasi, liberamente create e scritte dagli apprendenti stessi, come più volte suggerito da Freire, per favorire e stimolare la creatività. Tuttavia, il contesto di insegnamento di una lingua seconda è molto diverso da quello in cui si trova una comunità di analfabeti che apprende a leggere e a scrivere in lingua madre. L’esigua competenza orale nella lingua seconda non permette quel tipo di dialogo che facilita l’introspezione legata alle parole generatrici. Inoltre, non vi è un vissuto comune: spesso, infatti, nel gruppo che apprende, le persone provengono da Paesi diversi; interessi e quotidianità sono differenti da persona a persona. Ciò non vuol dire che non si possano trovare ambiti d’incontro, familiarità, interesse e necessità, in cui diventa possibile, tramite le parole generatrici, instaurare un dialogo, anche semplice, su

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SCUOLA cui la motivazione di tutti possa rimanere alta. L’approccio prevede una certa ripetizione nel pronunciare e scrivere le famiglie di sillabe prodotte dalla parola generatrice. In aula la ripetizione, soprattutto corale, garantisce maggiore adesione e concentrazione; inoltre, si è dimostrata utile anche per chi già conosceva abbastanza bene l’alfabeto latino, ma aveva una scarsissima conoscenza dell’italiano come lingua seconda e confondeva alcuni suoni e sillabe. Telefono, lavoro e documenti Il contesto di sperimentazione è stato quello del CTP Diego Valeri di Padova, nel quale sono stati segnalati alcuni studenti che, all’interno di un corso di livello A1, non erano alfabetizzati. Sulla base dell’intervista iniziale e del tipo di studenti si è deciso di costruire un’unità didattica costituita da quattro unità di apprendimento, centrata sul tema del lavoro. Le parole generatrici individuate sono state: telefono, lavoro, documento e colloquio. Ogni unità di apprendimento è strutturata secondo il modello gestaltico in fasi: si parte dalla fase di motivazione in cui chi apprende viene invitato a prestare attenzione a una sollecitazione pensata per suscitare interesse (un video, una canzone, delle immagini). In seguito si entra nello specifico dell’argomento trattato con la fase di globalità: si presenta una parola chiave e da questa si approfondisce lo studio delle sillabe. Si passa poi alla fase dell’analisi, in cui si scompongono e ricompongono le parole, se ne individuano di nuove, si svolgono attività di associazione parole-immagini. Si finisce con la sintesi e la riflessione, rielaborando quanto appreso con attività ludiche o composizione di brevi

frasi o altre tipologie di attività. Sono previste attività ludiche (cruciverba, gioco del Memory, gioco di Kim) che, favorendo diversi stili di apprendimento, permettono, in una modalità piacevole e rilassata, di ritornare in modo più duraturo su quanto appreso durante la lezione. È possibile trovare un esempio di queste unità d’apprendimento sul portale d’italiano della Loescher (www.loescher.it/italiano). I partecipanti hanno mostrato fin dall’inizio di aver capito che la didattica seguiva un corso diverso rispetto a quanto sperimentato precedentemente; hanno apprezzato i giochi e soprattutto il fatto di riuscire a ricordare meglio i termini su cui si lavora in classe. L’approccio utilizzato ci è sembrato particolarmente funzionale a far prendere dimestichezza con le parole, che invece prima non riuscivano a “legare”, limitandosi a leggere le singole sillabe. Inoltre, è risultato evidente che nelle ultime lezioni si mostravano positivamente “abituati” a questo approccio, proponendo e associando un numero maggiore di parole. Questa esperienza ha rafforzato in noi l’idea di Freire (ma anche di Lodi, Milani e Malaguzzi) riguardo all’importanza, per chi educa, di conoscere e d’inserirsi nel contesto del gruppo di chi apprende. Ciò riguarda la scelta delle parole generatrici, ma anche l’attenzione nei confronti di adulti che si possono sentire in imbarazzo se sollecitati a lavorare con figure, spesso riconducibili al mondo dell’infanzia, rispetto a fotografie. Riguarda anche la capacità d’interrogarsi su quale tipo di caratteri sia opportuno utilizzare e far conoscere. Nel nostro caso è stato proposto lo stampatello, sia maiuscolo sia minuscolo, per dare da subito l’opportunità di accedere alla maggior parte dei testi scritti,

anche i più semplici che utilizzano entrambi i caratteri. Riteniamo che, pur nelle difficoltà dettate dai tempi e dai modi in cui sono concepiti attualmente i corsi per immigrati nei CTP, sia possibile progettare un percorso di alfabetizzazione che possa essere il più vicino possibile alle loro esigenze e, pertanto, cerchi di calibrarsi di volta in volta rispetto ai discenti con cui ci relazioniamo. Per questo giudichiamo molto importante l’uso delle parole generatrici e l’attenzione nella scelta di quelle adeguate ai contesti e alle motivazioni di chi apprende, così com’è importante riuscire ad adattare le lezioni al momento, seguendo quanto gli studenti stessi propongono e traendo spunto dalle loro proposte. In questo modo, ponendo al centro del processo il gruppo degli apprendenti, si possono offrire maggiori e più durature opportunità educative, a partire da percorsi di memoria e di consapevolezza innestati nei vissuti quotidiani.

▶ Consuelo Surian è tirocinante

al CTP D. Valeri di Padova. Alessio Surian è ricercatore all’Università di Padova.

APPROFONDIRE

P. Freire, L’educazione come pratica di libertà, Mondadori, Milano, 1973.

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P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA, Torino, 2002. P. Freire, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino, 2004.

P. Freire, Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla “Pedagogia degli oppressi”, EGA, Torino, 2008.

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Insegnare italiano agli stranieri adulti Un’intervista a Daniela Aigotti, che da anni insegna italiano agli stranieri e opera anche nell’ambito di associazioni di volontariato come l’ASAI. Una testimonianza umana e personale, oltre che professionale.

▶ Daniela Aigotti La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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D: Che cos’è l’ASAI? R: L’Associazione Animazione Interculturale è un’iniziativa del volontariato torinese, nata nel 1995, rivolta soprattutto agli stranieri. Ogni giorno si organizzano attività rivolte ai bambini, ai ragazzi e agli adulti. Promuoviamo iniziative interculturali nei quartieri, coinvolgendo anche i cittadini in azioni concrete, dirette all’integrazione e alla convivenza positiva. Facciamo molta attenzione all’adolescenza e alle seconde generazioni, attraverso il loro coinvolgimento in attività aggregative, formazione, gioco e sport. Teniamo corsi di italiano, organizziamo dopo-scuola. L’ASAI è anche sede ogni anno di “Estate ragazzi”. Poi c’è lo Sportello lavoro, i progetti contro la dispersione scolastica, i laboratori, gli spettacoli... I volontari sono decine e decine. D: E lei che cosa fa? R: Io sono all’ASAI da più di 16 anni, è diventata parte della mia vita. Mi sono sempre occupata di insegnare italiano a stranieri adulti. Ho scritto vari libri di esercizi che usiamo nelle classi, seguo i nuovi volontari con iniziative di formazione: non ci si può improvvisare solo con la buona volontà! Più passano gli anni, più vediamo che anche nel volontariato ci vuole attenzione alla professionalità. Bisogna prepararsi, formarsi. D: Come sono le classi? R: Le classi di adulti? Di vari li-

velli, ma soprattutto bassi: principianti assoluti, livelli A1 e A2. Molti analfabeti totali. Ogni anno si cerca anche di formare una classe più avanzata, più o meno B1-B2. D: Il livello è molto cambiato nel tempo? R: Se parliamo di livello di conoscenza dell’italiano, nell’insieme direi di no, perché la maggioranza degli allievi continua – anno dopo anno – a essere costituita da persone arrivate da poco tempo, quindi bisognose di cominciare da zero o poco più. Per ora non si è esaurita questa spinta di nuovi arrivi. Forse sono un po’ cambiati i livelli scolastici di partenza: da una parte, questi anni di grandi arrivi dall’Est europeo ci hanno portato molti allievi diplomati, o addirittura laureati, mentre in passato a scuola avevamo soprattutto magrebini di bassa scolarità. Dall’altra, sono aumentati gli analfabeti totali, sia a causa di arrivi da Paesi in guerra, sia per il gran numero di ricongiungimenti familiari: molte donne, specialmente non giovanissime, non sono mai andate a scuola. D: E le sue classi, in particolare, come sono? R: Nel corso degli anni ho avuto classi di tutti i tipi: l’età generalmente va dai 20 ai 35 anni, ma ci sono spesso allievi più maturi. Le provenienze sono sempre state molteplici: in passato ci sono state ondate di marocchini, poi di

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SCUOLA rumeni; adesso a volte prevalgono i latino-americani, a volte i bengalesi o gli africani. Ho provato a fare il conto: ho avuto allievi di 64 nazionalità diverse (ma forse avrò dimenticato qualcuno). È il mondo che passa a Torino, e all’ASAI! Per alcuni anni ho anche avuto occasione di tenere corsi per sole donne: facendo italiano si parlava anche della famiglia, dei bambini, degli uomini, del matrimonio e di problemi ginecologici. Sono state esperienze molto interessanti, che ci univano molto. D: Che corsi preferisce dal punto di vista del livello? R: Preferirei tenerli tutti, se avessi sufficiente tempo libero a disposizione. Non posso dire di avere delle preferenze, perché ogni corso ha le sue peculiarità e le sue caratteristiche appassionanti. Certo, è una grande soddisfazione tenere un corso base nel quale gli allievi arrivano a settembre, senza dire una parola in italiano, e poi a maggio chiacchierano. Si vedono i progressi passo dopo passo, parola per parola, costruzione dopo costruzione, mentre la lingua si forma nella loro mente e sulle loro labbra. D: Che cosa ha imparato facendo questa attività? R: Ho imparato innanzitutto a non avere paura degli stranieri. Oggi forse sembra un po’ stupido dirlo. Eppure, quando ho iniziato – 16 anni fa – di stranieri non ne conoscevo; leggevo di loro sul giornale, li vedevo per strada, ma non avevo mai parlato con uno di loro. Ero diffidente, anche un po’ spaventata, in certe cose prevenuta. Il volontariato con gli stranieri non era così diffuso e comune come oggi. Com’è cambiata Torino in tre lustri! Quando ho iniziato, dovevo quasi giustificarmi con amici e conoscenti d’aver fatto questa scelta. Mi sembra incredibile, oggi, che

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qualcuno allora potesse dirmi: «Ma sei sicura? Non è mica pericoloso? Ma che gente è?». Ricordo addirittura una persona che, incontrandomi per strada dopo essere stata all’ASAI, non mi ha stretto la mano per timore che fossi sporca. Non penso proprio che oggi potrebbe capitare qualcosa del genere. Comunque, ho imparato a parlare con gli stranieri, a considerarli persone come tutte le altre, a desiderare di fare amicizia; ho imparato a capirli, a sentirli parte di tutti noi. Ho imparato che fare l’insegnante (forse con gli stranieri ancor di più?) è un lavoro meraviglioso e coinvolgente; ho conosciuto persone straordinarie. Ho anche imparato che

è inevitabile lasciarsi, che dopo aver percorso un tratto di strada insieme, non ci si vede più, se non con pochi di loro. Eppure si vorrebbe continuare ad avere notizie di tutti e non perdere nessuno. Mi mancano, quando non li vedo più, però sarebbe irreale continuare con tutti, oggi avrei una classe di centinaia di allievi! È naturale che sia così, bisogna imparare ad accettarlo. Infine ho imparato, ma forse è la prima e più importante esperienza, che dedicarsi come volontari a insegnare l’italiano è l’obiettivo. E per arrivarci non bastano l’esperienza didattica, le capacità professionali, l’acquisizione di tecniche e i corsi di formazione. Bisogna anche metterci il “voler

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SCUOLA| Insegnare italiano agli stranieri adulti bene”. Mi accorgo che, più passano gli anni, più voglio bene ai miei allievi. Proprio nel senso letterale dell’espressione: voglio il loro bene, e quindi cerco il loro bene, cerco di lavorare con cura, coscienza, fantasia, metodo e allegria. Questo per l’italiano, perché sicuramente imparare la lingua è un bene per tutti loro. Ma voglio il loro bene in generale, desidero stiano bene, abbiano fortuna, che la vita dia loro speranze; cerco di aiutarli nel cammino, di far sentire una vicinanza, un calore, dei sorrisi. Cerco di ascoltarli e capirli il più possibile; mi rallegro dei loro giorni positivi, dei successi, e mi rattristo con loro delle difficoltà e dei tanti dispiaceri. D: E che cosa ha insegnato? R: Soprattutto a comunicare. Ho tentato sempre di immedesimarmi in tutte le innumerevoli situazioni di vita quotidiana (alle quali corrisponde una situazione linguistica), per aiutare gli allievi ad affrontarle. Ho cercato di far passare dappertutto tanto lessico e anche una buona dose di grammatica, fermo restando, però, che la grammatica non è l’obiettivo: sottostà a tutto, non può essere ignorata, ma va imparata parlando, non studiando. Ho cercato di insegnare loro ad ascoltarsi a vicenda, sentire l’opinione di tutti e valorizzarla. D: Ha avuto qualche delusione? R: Anni fa credevo che la sincerità e la semplicità che derivano da ciò che è razionale potessero sempre guidare i miei comportamenti in classe. Io sono molto cartesiana, dice mio marito. Poi ho visto che non sempre è possibile seguire queste linee di chiarezza, franchezza e schematicità, anche se si è in buona fede. Ricordo questo episodio: durante una lezione arrivarono domande di chiarimento su alcuni modi di dire degli italiani. Di lì si passò alle paroLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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lacce; mi chiesero se certe parole erano o no parolacce, ognuno aveva esempi di parole sentite, delle quali il significato non era evidente. Tengo a precisare che tutti erano assolutamente sinceri e in buona fede. Allora pensai di dare delle spiegazioni chiare, specificando come certe parti del corpo riferite alla sfera sessuale abbiano più di un nome: nomi scientifici, nomi correnti “neutri”, nomi correnti volgari. Gli allievi erano interessati e incuriositi, molti dicevano: «Oh, finalmente capisco!». Credetti quindi di aver fatto una bella lezione, di cui tutta la classe fosse contenta. Rimasi molto mortificata, invece, quando a fine lezione un ragazzo tunisino venne da me per rimproverarmi a tu per tu, per dirmi che certi discorsi una donna non li fa e che lo avevo deluso. Anch’io ero delusa. Però ho imparato a essere più prudente, a non credere che tutti possano apprezzare la semplicità e la tranquillità nell’esprimersi senza farsi problemi. D: C’è qualcosa che non rifarebbe? R: Quello che ho fatto all’inizio

della mia esperienza all’ASAI: iniziare le prime lezioni (o forse la prima, addirittura) insegnando gli articoli a persone praticamente mute, perché appena arrivate nel nostro Paese. Invece di affrontare prima di tutto i problemi comunicativi, di cercare di rompere il muro del silenzio, mi sono messa a fare grammatica, e persino un argomento ostico, solo perché le nostre grammatiche iniziano con l’articolo. Lo racconto sempre nei corsi di didattica dell’L2 agli insegnanti: che incredibile errore! Ma l’avevo fatto in buona fede, per inesperienza. D: E una gratificazione? R: Le gratificazioni sono continue, infinite, ma ne racconto due. La prima l’ho avuta quando un’allieva polacca mi ha detto: «Tu insegni a tutti, e a ciascuno». È stato il più bel complimento che abbia potuto ricevere come insegnante. E l’altra, quando un marocchino mi ha detto: «Dopo tanti anni che sono qui, tu sei la prima persona italiana che mi stringe la mano». D: Un allievo che non dimenticherà? R: Ce ne sono decine che non po-

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SCUOLA trò dimenticare. Di ognuno ho un ricordo affettuoso. Non dimentico il marocchino Aissam, ragazzino dolce, espansivo, che desiderava sempre farmi dei regali. Era entusiasta della scuola e prendeva appunti accuratissimi. Aveva dei bei quaderni, che erano il suo orgoglio (e anche il mio). Aveva anche un quaderno segreto su cui scriveva poesie in arabo o in francese, cercando poi di tradurle in italiano; quando proprio capì che ci volevamo bene, mi fece leggere queste poesie delicate e struggenti sulla sua vita. Un giorno prestò i quaderni di appunti a una ragazza marocchina, che poi sparì. Aissam era disperato. Avevamo il telefono della ragazza, ma Aissam non volle telefonare, perché non era possibile che lui telefonasse a una ragazza sposata. Telefonai io, ma non ricordo se i quaderni tornarono indietro. Non dimentico la polacca Malgorzata, perdutamente triste per il fatto di trovarsi a Torino. Fu conquistata da un fiore e da un biglietto che diceva: «Ma sei proprio sicura di non avere amici qui?». Mi abbracciò e si affezionò a me in modo commovente. Non dimentico il marocchino Abdellatif, dallo sguardo serio, cupo, quasi torvo dietro gli occhiali da intellettuale. Eppure aveva un raro sorriso molto bello. Un giorno mi diede furtivamente una lettera, che ancora conservo. La lettera raccontava qualcosa di gravissimo e terminava con questa frase: «Questo lo sanno solo Allah e lei». Seguirono molti discorsi, ma anche colloqui fatti di una specie di silenziosa solidarietà; quello che per lui era importante, era di non essere giudicato. Spero che quella storia terribile sia finita bene. Mi sentivo onorata di essere stata avvicinata in qualche modo ad Allah... E poi il giapponese Masaki, ragazzo intelligentissimo, pieno di

tenacia e voglia di studiare. Incredibile la volta in cui cercai di spiegargli il cristianesimo: reagì in modo educato, curioso, sorridente, ma di sicuro non capì assolutamente nulla. Ormai sono dieci anni che mi scrive dal Giappone ed è la prima persona a cui ho pensato dopo lo tsunami. Non dimentico la cinese Maria, che decise di studiare l’italiano a 70 anni suonati e venne a scuola da me per tre anni. Non imparava niente, ma era di un’allegria contagiosa ed era fedele a ogni lezione. Era affettuosissima, si attaccava a me in tutto, si ingegnava di capire che cosa desiderassi. E neppure i giovanissimi bengalesi Masud e Ismail (zio e nipote, nonostante fossero coetanei), giunti in Italia dopo uno di quei viaggi di cui talvolta parlano i giornali, 18 mesi di peregrinazioni con ogni mezzo di trasporto, e soprattutto a piedi, per arrivare dal Bangladesh a Torino. Hanno trascorso tre anni di scuola con me, sempre gioiosi, rispettosi, affettuosi, allegri. E le incredibili cene a casa loro, con mio marito, a fine anno scolastico. Partendo da una lingua lontanissima dalla nostra, hanno imparato un brutto italiano ma pratico, solido, adatto alle loro esigenze. E poi, tanti altri: una schiera di persone che, pur attraversando dolori, paure, sofferenze, morte, venivano a scuola. La dolce algerina Lina, affranta per la morte del marito, a causa di un incidente

sul lavoro, vergognosamente camuffato dai padroni; Frank, centroafricano, scappato da una rivoluzione di cui qui non si parla, al quale avevano ucciso 600 pecore, tutta la sua ricchezza; l’albanese Sose, silenziosa e dolente vedova, un figlio morto su un gommone, un altro paralizzato al CTO; la nigeriana Benedicta, che non ha mai voluto aprir bocca, schiacciata forse per sempre dal peso delle sue vicende; l’indiano Shamal, mite indù vittima di persecuzioni islamiste. E anche altri che, invece, hanno lasciato una scia di ricordi allegri, divertenti: il nigeriano Jonathan, che arrivava sempre a scuola in ritardo perché doveva cucinare la peperonata per colazione; il bengalese Joy, che cantava con una delle più belle voci che abbia mai sentito; la somala Habiba, anziana analfabeta, che voleva imparare a scrivere in stampatello e non riusciva ad appoggiarsi al tavolo, impacciata da una sorprendente stratificazione di veli, manti e mantelli. Ricordo i dolci marocchini, gli antipasti peruviani, le spezie tunisine... D: Progetti per il futuro? R: Continuare!

Daniela Aigotti insegna italiano agli stranieri, tiene corsi di formazione didattica per gli insegnanti e scrive libri di esercizi di italiano L2.

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L’integrazione linguistica degli stranieri L’esperienza di Scuolemigranti: più di 100 associazioni volontarie.

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▶ Augusto Venanzetti La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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l tema non è di quelli che conquistano grandi spazi nella comunicazione, sia televisiva che cartacea. Gli immigrati di solito assurgono agli onori della cronaca solo se danno fuoco a un centro di identificazione, se qualche disperato commette qualche reato o annega durante una traversata con le famigerate carrette del mare. Sul processo di inclusione sociale, sull’assetto normativo e procedurale con il quale pretendiamo che si inseriscano nella società italiana, è difficile attirare l’attenzione dei media, come pure delle rappresentanze istituzionali e politiche. Eppure è un terreno sconfinato, che va dalle assurde modalità di accesso al più volte negato esercizio dei diritti, dalla carente formazione professionale all’inesistente politica alloggiativa, dal lavoro nero e dalle condizioni di sfruttamento delle tante Rosarno alle elevate bocciature degli alunni stranieri nelle scuole dell’obbligo, tralasciando le mille difficoltà burocratiche e procedurali che gli immigrati incontrano quotidianamente nel loro accidentato processo di inserimento nella società italiana. In questo quadro va considerata l’integrazione linguistica (intrecciata a provvedimenti più complessi come l’Accordo di integrazione, sul quale non ci soffermiamo). Come noto, nel giugno 2010 e nel novembre 2011, il governo ha varato due decreti che stabiliscono il requi-

sito obbligatorio della conoscenza dell’italiano per il rilascio dei titoli di soggiorno (permesso e carta per lungosoggiornanti); entrambi i decreti scaturiscono da un più ampio piano di intervento varato nel 2008, noto come “Pacchetto sicurezza”. Il guaio è che l’obbligo di conoscenza della lingua (a differenza di tutti i Paesi europei) non è stato accompagnato da alcuna forma di sostegno né finanziario né di risorse umane, sebbene la crescita di domande per i corsi fosse ben prevedibile. I soggetti preposti al rilascio delle attestazioni – i CTP (Centri Territoriali Permanenti, per lo più scuole medie ed elementari) – sono stati lasciati nelle medesime condizioni ante decreti, con le note carenze di risorse e di personale. Succede così che, almeno nel Lazio e in particolare nell’area urbana della capitale, le scuole pubbliche riescano a inserire nei corsi gratuiti di italiano circa 8000 persone all’anno, su domanda potenziale attualmente stimata in 30-35 000 unità. A questa carenza sopperiscono il circuito del volontariato e quello del privato sociale, che si fanno carico, come è avvenuto nell’ultimo anno, della formazione di circa 11 500 studenti: grosso modo il 60% dell’offerta formativa globale messa in campo tra CTP e volontariato. E si rimane ancora abbondantemente sotto la stima della domanda potenziale: tanti immigrati, per motivi di orari e

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SCUOLA di logistica, non riescono ad accedere ai corsi gratuiti e il rischio è che, per ottemperare agli obblighi dei provvedimenti, siano costretti a rifluire in scuole private i cui corsi sono offerti a prezzi scandalosamente alti. Dal marzo 2009 è attiva la rete Scuolemigranti, oggi composta da 102 associazioni di volontariato e del privato sociale che, a Roma e nel Lazio, operano nel campo dell’integrazione linguistica: corsi rigorosamente gratuiti d’italiano per adulti migranti, soprattutto di livello A1 e A2, ma anche superiori. Contando sull’esperienza di numerose associazioni operative da molto tempo, alcune dalla metà degli anni Ottanta, la rete realizza sinergie, azioni comuni, scambi di materiale didattico, produzione di iniziative formative, in una realtà che registra un’elevata dinamicità nel ricambio di volontari. Lo scopo principale, però, rimane parlare con una voce sola a istituzioni, enti e rappresentanze sociali. Per questo, a differenza di tante iniziative che di rado hanno lunga vita, la nostra rete si è dotata fin dall’inizio di una struttura organizzativa solida: un’assemblea che almeno otto volte l’anno riunisce i rappresentanti dei soggetti collegati; un coordinatore eletto su base annuale; un comitato scientifico con personalità prestigiose nel mondo dell’istruzione per adulti; gruppi stabili di lavoro su formazione, comunicazione e organizzazione. Dalle suore ai centri sociali Importante è anche il sostegno offerto dal CESV (Centro Servizi per il Volontariato) del Lazio: la dotazione è molto contenuta, ma coadiuvata da disponibilità di vario genere: sale per riunioni, supporto amministrativo-legale, strumentazioni ecc.

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SCUOLA| L’integrazione linguistica degli stranieri Il successo della rete sta certamenlizzazione interculturale: laborate nella volontà che i singoli sogtori letterari, teatrali, musicali e getti collegati hanno espresso nel di espressione figurativa; percorsi corso dell’esperienza, confermanche favoriscono la comunicaziodo l’esigenza concreta di svilupne, l’autonarrazione, i racconti pare contatti, analizzare i provvedi viaggio, il recupero identitario. dimenti in materia d’integrazione Queste pratiche diffuse sono prolinguistica e valutarne gli effetti, dare corso a sperimentazioni, qualificare sempre più i volontari-docenti della rete con azioni formative mirate. La trasversalità dei componenti è assoluta, con soggetti di diversa ispirazione politica e religiosa. Ne fanno parte tutte le grandi rappresentanze cattoliche, ma anche quelle delle Chiese protestanti e il Centro islamico di Roma; fra le numerose associazioni laiche ci sono emanazioni di formazioni politiche. Partecipa anche il circuito delle biblioteche del comune di Roma e l’UPTER, l’Università popolare di Roma. InCopertina della rivista Scuole migranti, Roma, 2011. somma, un ventaglio che va dalle suore missionarie ai babilmente il marchio di fabbricentri sociali, soggetti che hanno ca delle associazioni della rete, e, trovato nella solidarietà e nell’inassieme alla flessibilità di giorni e serimento della popolazione imorari per lo svolgimento dei cormigrata un comune terreno di si, sono alla base del successo di impegno e di lavoro. iscrizioni che si registra da anni. Strumenti della rete sono: un sito Gli strumenti in rete (www.scuolemigranti.it) che in Proprio il lavoro di rete ha messo soli quattro anni ha già superato in risalto una caratteristica delle 120 000 contatti e che riporta noassociazioni aderenti: l’approccio tizie, segnalazioni di eventi, dodi accoglienza e di finalizzazione cumentazioni, materiali didattici, all’inclusione sociale connaturato tutta l’offerta formativa di corsi al percorso didattico di insegnadi italiano ripartita per territori. mento della lingua. Oltre a caratC’è poi una newsletter inviata ai terizzare i corsi con gli obiettivi di volontari-docenti delle associafavorire l’uso dei servizi di base, zioni, con elementi connessi alla la ricerca di lavoro, l’esercizio dei vita della rete. Infine, di recente diritti fondamentali, da sempre uscita, una rivista on-line semsi producono iniziative di sociapre rivolta ai volontari: una sorLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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ta di “quaderni della formazione” che stanno riscuotendo un buon successo e si prestano a utilizzi di vario genere. Tutto questo è svolto con precarietà di mezzi, sedi e strumenti, contando solo sulla straordinaria energia della società civile: i fondi di finanziamento, ormai quasi solo europei, coprono meno del 10% dell’attività. Nell’ambito dei rapporti sviluppati con le istituzioni, il mondo dell’istruzione per adulti, il circuito delle scuole pubbliche, le università e le comunità straniere, Scuolemigranti ha più volte denunciato questo stato di cose. Ne è scaturito un importante accordo con l’ufficio scolastico regionale del Lazio: un sistema di protocolli d’intesa tra singoli CTP e singole associazioni, finalizzati a validare i corsi svolti presso associazioni di volontariato. Un accertamento finale delle competenze consente poi ai CTP di rilasciare l’attestazione di conoscenza della lingua italiana, utile per l’ottenimento dei titoli di soggiorno. È un’esperienza unica sul territorio nazionale.

▶ Augusto Venanzetti è il coordi-

natore della Rete Scuolemigranti. La Rete conta oggi 106 associazioni del volontariato e del terzo settore che operano sul territorio della Regione Lazio. Assicurano l’insegnamento gratuito dell’italiano alla popolazione immigrata con una forte finalizzazione all’inclusione sociale e mettono in campo azioni di intercultura, recupero identitario, socializzazione, esercizio dei diritti fondamentali.

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Insegnare italiano ai cinesi adulti

Per avere successo, l’insegnamento dell’italiano L2 a cinesi adulti non può prescindere dal rispetto dei loro stili di apprendimento.

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▶ Alice Dente

econdo il 21° Rapporto del Dossier Statistico Immigrazione 2011 (Caritas/Migrantes), il numero dei cittadini cinesi che risiedono stabilmente in Italia ha raggiunto le 209 934 unità, ponendo la Cina al quarto posto tra le prime cinque collettività straniere presenti sul territorio italiano per numero di residenti. E questo trend è destinato ad aumentare nei prossimi anni. A conferma della solidità e stanzialità della comunità cinese, vi sono anche i dati provenienti dal Ministero dell’Istruzione che mostrano un’alta presenza di alunni cinesi nelle scuole dell’obbligo italiane: il 4,6% sul totale degli alunni stranieri. Per chi emigra, il primo strumento d’integrazione è senza dubbio la conoscenza della lingua del Paese d’arrivo e per questo motivo dovremmo aspettarci un numero elevato di apprendenti cinesi adulti nei corsi di italiano come Lingua Seconda. Purtroppo non è così: nella maggior parte delle realtà dove si insegna gratuitamente (o quasi) l’italiano L2 a migranti, come ad esempio nei CTP (Centri Territoriali Permanenti) o nelle scuole di volontariato, le percentuali cambiano radicalmente e appare evidente la quasi totale assenza di alunni sinofoni. A una prima lettura, la ragione di questo disinteresse nei confronti della lingua italiana sembra risiedere nel fatto che i migranti cinesi (gli studenti universitari meritano un discorso a parte) preferiscono investire il proprio tempo e le proprie risorse nel campo lavorativo, escludendo in

genere ogni altro interesse, incluso lo studio dell’italiano, considerato un’attività non strettamente necessaria. Ciò è possibile grazie alla fitta rete di legami esistenti all’interno della comunità cinese, che permettono di accogliere e sostenere economicamente il migrante al suo arrivo in Italia, mediando il rapporto con l’ambiente circostante e garantendogli una prima collocazione nel mercato del lavoro. Questo particolare sistema migratorio protegge così il nuovo arrivato esonerandolo per lungo tempo dal dover imparare una nuova lingua e dal conoscere una nuova cultura. Possono così passare diversi anni prima che un cittadino cinese decida finalmente di studiare l’italiano in maniera sistematica e, soprattutto, di farlo non come autodidatta, ma seguendo un corso scolastico. Anche in questo caso, però, nelle classi di italiano L2 si registra un’alta incidenza di abbandoni da parte di alunni sinofoni entro il primo mese di corso. È necessario domandarsi, quindi, se vi siano altre cause meno evidenti, oltre alla mancanza di tempo libero e all’evidente distanza linguistica tra l’italiano e il cinese, che rendono così ostico lo studio dell’italiano da parte di un apprendente cinese. Il peso della cultura confuciana Se si vuole favorire l’apprendimento dell’italiano tra adulti cinesi e ottenere dei buoni risultati in classe senza perdere nessuno durante il percorso di studio, è necessario che il docente di L2 prenda in seria considerazione al-

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SCUOLA| Insegnare italiano ai cinesi adulti cuni fattori socioculturali propri della Cina, ragionando in primo luogo sul rapporto tra docente e studente e sullo stile di apprendimento degli alunni cinesi. Per poter capire a fondo come riflettono e come apprendono gli allievi cinesi, dobbiamo volgere lo sguardo all’antica Cina e al suo sistema scolastico, fondato ancora oggi sugli insegnamenti del filosofo Confucio, vissuto tra il 551 e il 479 a.C., secondo il quale tutti gli individui possono essere educati e cancellare ogni disparità sociale raggiungendo il successo economico esclusivamente attraverso lo sforzo, la determinazione e la costanza nello studio. Questo pensiero filosofico si traduce ancora oggi nelle scuole cinesi in un metodo di studio basato sulla memorizzazione e sulla ripetizione sistematica di una materia, principalmente attraverso attività di lettura e ascolto in classe. Al contrario del modello di apprendimento occidentale, la produzione orale è molto limitata e non sono previsti momenti di discussione tra studenti o con l’insegnante né percorsi di maturazione individuale: tutte le attività che comportano la creatività e l’interazione fra compagni sono, infatti, una rara eccezione. Il rapporto tra docente e studente in Cina è fortemente gerarchico e autoritario: l’insegnante detiene la conoscenza e la trasmette allo studente, il quale accetta passivamente tutto ciò che gli viene proposto, senza porre domande o esprimere un proprio giudizio, se non espressamente interpellato. Per lo studente cinese, abituato fin dall’infanzia a un modello di apprendimento frontale, dove l’insegnante assume un ruolo dominante e il sapere viene trasmesso in maniera rigida e schematica, può essere alquanto traumatico ritrovarsi in una classe dove l’apLa ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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proccio più utilizzato è quello comunicativo-funzionale, dove lo spirito di intraprendenza e di creatività è di fondamentale importanza nel processo di apprendimento della lingua. Agli occhi del docente occidentale, che tende a premiare in classe lo studente che si “lancia” e comunica nonostante alcune inesattezze grammaticali, l’apprendente cinese può erroneamente apparire passivo, distaccato e poco socievole con il gruppo-classe. Rispettare il rifiuto di esporsi Lo studente sinofono necessita, dunque, di maggior tempo per assimilare e comprendere il nuovo metodo di studio e le dinamiche della classe, sforzandosi di utilizzare tecniche a lui non congeniali e di cui non capirà l’utilità nell’immediato. L’insegnante, conscio dell’impegno dello studente, ha il dovere di sostenerlo e seguirlo con attenzione nelle prime settimane di corso, senza costringerlo a esporsi in plenum o a partecipare a giochi di gruppo, in particolare nelle attività orali o dove si richiede una certa autonomia. Nel programmare attività per lo sviluppo della produzione orale, si consiglia pertanto di procedere per tappe, scegliendo inizialmente attività estremamente guidate, ad esempio esercizi di tipo strutturale basati sull’imitazione e ripetizione di un modello, per poi passare a produzioni orali maggiormente strutturate (ad esempio i role-taking). In generale, nella fase di adattamento è preferibile far svolgere questo tipo di esercizi a piccoli gruppi di 2/3 persone, evitando così la plenaria che potrebbe scatenare nell’apprendente cinese ansia e paura di commettere errori in pubblico perdendo la faccia. Inoltre, ogni volta che si decide

di svolgere in classe un’attività di tipo ludico, per renderla più accettabile agli occhi di un orientale, si dovrebbe sempre esplicitare il suo scopo didattico, spiegando esattamente quali benefici linguistici lo studente trarrà da quel tipo di esperienza. Infine, vista la notevole distanza tipologica tra la lingua cinese e l’italiano, è bene che il docente sostenga continuamente l’apprendente sinofono nel processo di elaborazione e comprensione delle nostre strutture grammaticali, sintattiche e morfologiche, più di quanto non lo faccia con altre tipologie di allievi. Un prezioso consiglio è quello di programmare in classe momenti dedicati alla “riflessione grammaticale”, in cui mettere a fuoco ed esplicitare di volta in volta, attraverso schemi riconoscibili, gli aspetti strutturali e morfologici della lingua italiana più difficili, rassicurando così lo studente cinese che li potrà assimilare e sistematizzare attraverso il metodo a lui più familiare, ossia quello della memorizzazione.

▶ Alice Dente è sinologa, mediatrice culturale e insegnante di Italiano L2 presso le biblioteche del comune di Roma. Per Loescher ha pubblicato nel 2012 con Katia Franzese e Wang Jin il manuale Io sono Wang Lin. La lingua italiana per cinesi.

APPROFONDIRE E. Banfi (a cura di), Italiano/L2 di cinesi. Percorsi acquisizionali, Franco Angeli, Milano, 2003.

B. D’Annunzio, Lo studente di origine cinese, Guerra Edizioni, Perugia, 2009.

S. Rastelli (a cura di), Italiano di Cinesi, Italiano per Cinesi, Guerra Edizioni, Perugia, 2010.

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Filosofare dentro

Se la filosofia si occupa di questioni estreme, è sui luoghi estremi che bisogna andare per sentire cosa ha da dire.

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n carcere si entra con quel buio dentro. Lo senti scendere al fondo. Le manette ai polsi, la mano sulla testa della guardia che ti mette in macchina, il cancello fuori della città, su strade di campagna. Sono così i luoghi fuori della legge. Ho pensato spesso all’uomo di campagna del racconto di Kafka Davanti alla legge. È inquietante. Non riuscivo a venirne a capo. Alla fine, dopo tutta una vita passata ad aspettare, quell’uomo muore davanti alla “porta della legge”, appena dopo che il guardiano, tanto terribile nell’aspetto, gli ha svelato che quella porta era riservata solo a lui, e che per questo, in tanti anni, nessun altro aveva chiesto d’entrare. Il racconto finisce così, lasciando il lettore davanti a quella stessa porta, a quella scena. Forse, l’uomo di campagna non aveva fatto quello che sempre la legge chiede al suo cospetto. Dire il proprio nome e cognome, declinare le proprie generalità. Kafka, invece, si chiamava K. Nei suoi racconti, su quel punto fermava il suo nome di famiglia, inciampando egli stesso in quel nome, rinunciando a far parte della sua continuazione. In questi giorni mi trovo a riflettere ancora davanti a quella porta e alla scena che vede quell’uomo di

Achille Beltrame, illustrazione per “La Domenica del Corriere”, 1903. Lezione di igiene ai carcerati. Foto Scala, Firenze.

▶ Giuseppe Ferraro

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SCUOLA| Filosofare dentro campagna venire in città. Da fuori. Penso alla porta della legge dietro la quale sei recluso. Ci ragiono e penso: il carcere è fuori città, posto là da dove veniva l’uomo di campagna. Lui restò fuori della legge, davanti a una porta aperta. Ogni detenuto è fuori della legge. La porta è chiusa, lui è dall’altra parte, chiuso dentro la legge che lo tiene fuori da se stessa, in campagna, fuori città. Sono anni che tengo corsi di filosofia in carcere. Nemmeno più riesco a fare il conto di quelli passati, certo superano il decennio, saranno quindici. Cominciò quando mi posi quella domanda. Mi chiesi se continuare, smettere o tenere in modo diverso il mio insegnamento in università. È una domanda che viene a tutti di porre sul cammino della propria vita, come diceva il poeta. Per chi fa filosofia è però una domanda che ti cammina a fianco, fin quando un giorno ti salta davanti come il nano di Zarathustra. Puoi evitarla, continuando a camminare tenendola a fianco o puoi affrontarla, rispondere, dire a quel nano le cose come stanno dentro di te e quindi superarla, cambiare strada, farne un’altra. Ecco, quel giorno mi chiesi se continuare a fare filosofia nel modo in cui la si fa nell’accademia, continuando a insegnarne la storia, la teoria, le monografie e tutto quanto costruisce un potere che nasce dal sapere, da uno studio che riflette la società nelle sue stratificazioni. Scuole in luoghi d’eccezione La domanda si complicava in un rimando ulteriore sul senso e la portata della filosofia, la sua valenza e funzione, per dirla in schema. Fu allora che mi dissi che, se la filosofia si occupa di questioni estreme, è sui luoghi estremi che bisogna andare per sentire cosa ha da dire e se tace, meglio lasciarla La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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come un giocattolo rotto e metterla in soffitta come i libri sugli scaffali. Allora è cominciato quel cammino verso i luoghi estremi, ai confini della città. Presto ho capito che questi confini non sono quelli segnati dai cartelli stradali; sono quelli interni, stanno dentro la città. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando invece si smorza in un grido o resta attonita, la città finisce. Un termine che può stare anche nelle case e che per certo è nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole del disagio, nelle periferie senza sole, nei quartieri del buon Dio della città di De André. Sono i luoghi d’eccezione. Così ho chiamato anche le scuole che si dicono “a rischio”, quelle dove non si riesce a tenere l’ordine curricolare. Anche nelle carceri quell’ordine è negato, non solo per i trasferimenti, che si chiamano “traduzioni” dei detenuti. La cosa mi sconvolge sempre a pronunciarla. Un uomo che viene tradotto, passa da un carcere a un altro, da un luogo a un altro, da una lingua a un’altra che però è sempre la stessa, muta. Poi però ho capito che su quella linea dove a un estremo c’è la scuola normale e all’altro la scuola d’eccellenza ne corre un’altra che la scompiglia, la scuola d’eccezione dove solo si possono fare cose non d’eccellenza, ma eccezionali. Ecco quindi, comincio da qui. Facciamo cose eccezionali in carcere, così come nelle scuole del disagio tenendo corsi di filosofia con i bambini, con la gente, genitori, famiglie e non più, occupati e disperati. Quando mi chiedono come facciamo filosofia in carcere, rispondo immediato: ci tocchiamo. Ovviamente c’è sempre quel pensiero che si precipita sull’equivoco, affamato di normalità che si alimenta del suo male. Ci

tocchiamo, sì. Toccare. Lo spiego ai bambini: i nostri sensi sono tutti concentrati sulla faccia, solo il tatto riguarda tutto il corpo. Se c’è un organo per ogni senso, per il tatto è tutto il corpo. Per un bambino, a scuola, il momento più difficile è quando gli spiegano la distinzione tra nomi astratti e concreti. Le maestre ripetono che sono concreti i nomi delle cose che si possono toccare, mentre sono astratte le cose che non si toccano. Ma un bambino tocca tutto. Ce n’è uno che quel giorno perde il cielo. Ce n’è un altro che deve andare a casa dei nonni, dove non si tocca nulla. Parlare di ciò che ci tocca Poi, a quella distinzione se ne aggiunge un’altra. Le cose certe e quelle vere. Le prime si toccano, le cose vere invece ti toccano. Le sentiamo dentro, anche nella forma del diritto che ci spetta, ma prima ancora, e sempre, per quel che sentiamo risuonare in noi stessi. Lo spagnolo ripete che “toccare” è far risuonare. Ed è bello pensare al corpo proprio come ciò che un incontro, una parola, un gesto, una conoscenza, uno sguardo, un libro o un apprendimento fanno risuonare. Allora si può dire di ascoltare veramente, si comprende che è questo che facciamo quando insegniamo veramente. E sempre, chi apprende veramente viene toccato da ciò che sente dire dall’altro. Educare la voce, è questo poi alla fine che facciamo nel nostro fare scuola. Educare la voce interiore, esercitarsi in un dialogo interiore, sentire dentro se stessi quel che un altro dice, e non per empatia, ma per sun patein, per un sentire che è comune, accomuna e ci rende somiglianti gli agli altri nell’animo. Come si legge già nel Peri hermeneias di Aristotele, dove la capacità di farsi capire parlando

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definisce anche i confini della città. Confini di voce. Ecco quindi cosa facciamo nel corso di filosofia in carcere. Ci tocchiamo, diciamo cose che ci toccano, vere, se la verità è far risuonare dentro se stessi quello che la vita rappresenta nell’innocenza di un divenire sottratto alla storia di contrarietà, guerre, rancori e risentimenti. Facciamo filosofia facendo scuola dei sentimenti. C’è sempre chi prende la parola, la prima volta, nel gruppo, e ti interroga, quando entri in carcere. Che cosa sei venuto a fare? Se non sei uno psicologo che mi serve per raccontare patologie mai avute, se non sei un avvocato, che mi deve fare uscire da qui, se non sei un magistrato che vuole le prove e il pentimento giudiziario, se non sei una guardia, se non sei l’educatore, cosa sei venuto a fare? Chi fa filosofia è abituato a sentire la domanda. Un confronto fra studenti Ci sono giorni che porto i miei studenti in carcere. Ed è una gioia per tutti, un sentirsi vivi. È una gioia per i ragazzi sentirsi “normali” come gli altri su altre strade, incrociarle e chiedersi dei perché. Con i detenuti dell’ergastolo ostativo, del fine pena mai, si prova a essere quel che non si è stati. Si prova a ripensare se stessi, i legami. I sentimenti. Sono passaggi sensibili. Parlare così di Parmenide e spiegare come quella verità figurata come eukuklike, ben in cerchio, significava anche la costruzione d’una città. Parmenide scrisse in versi, non perché non sapesse di prosa, ma perché il verso fa memoria, si tiene a mente nella risonanza delle sue battute. Si può ripetere anche senza studio. E Parmenide aveva allora la responsabilità di governare Elea, la città che ancora cor-

risponde al suo nome. Parliamo allora di legalità e di legami. Diciamo che la legalità è fatta di legami. Diciamo che le regole sono relazioni che sostengono e attivano. Che bisogna pensare a una nuova figura invece del collaboratore di giustizia: al collaboratore sociale di giustizia, a chi, con la sua formazione dentro il carcere, si è fatto capace di sentimenti e legami da trasmettere a chi si trova a un passo davanti alla porta della legge e deve pronunciare il proprio nome facendo risuonare la propria identità, la propria scelta di vita dentro la città, dando parola alla voce e dando voce alla parola. Lo ripeto spesso, di voce ci si somiglia. I figli hanno la voce dei genitori. Gli amanti si ritrovano con gli stessi toni, gli amici tengono discorsi che dialogano, la verità è circolare quando si sta bene insieme, passa per la voce di ognuno, prende parola in comune. Ricordo l’esito di un nostro incontro che rese da allora ogni altro incontro tale nella sua conclusione. Il modulo, per dirla in termini scolastici, era “educare la voce”: convenimmo che non bisogna essere “d’accordo” in quello che si dice, bisogna essere invece “in accordo”. Essere d’accordo mette a tacere ogni riserva e dubbio. Essere in accordo è un risuonare di voci differenti che s’inseguono perseguendo un fine comune. Sono così i dialoghi. Non hanno una conclusione. Quelli di Platone non finiscono, terminano dandosi appuntamento, per continuare a parlare di quel che ci tocca come vero.

▶ Giuseppe Ferraro è docente di Filosofia Morale alla Università Federico II di Napoli.

Achille Beltrame, illustrazione per “La Domenica del Corriere”, 1903. Lezione di igiene ai carcerati. Foto Scala, Firenze.

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Apprendere il tedesco, in fonderia Perché non insegnare la L2 dove viene usata, sul posto di lavoro?

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rastornata dal rumore e dal caldo cerco di rimanere vicina al direttore del personale, per capire quello che dice. Nello stesso tempo sto attenta a non oltrepassare la linea gialla. Qui, in fonderia, il termometro di uno dei giganteschi forni fusori segna 771 gradi. Un operaio controlla la temperatura sul display. Attenzione! Un veicolo ci viene incontro. Ha sul davanti una siviera colma di alluminio fuso che viene trasportato al luogo di colata. Dalle apposite forme usciranno cerchioni per auto. Uno di questi, adesso, è sospeso in aria: trasportato dal braccio di un robot verso il “forno” dove sarà raffreddato. Il dottor A. ci sta mostrando una parte dello stabilimento della ditta B. che produce cerchioni di alluminio d’alta qualità e ci spiega i processi di produzione, per farci conoscere le mansioni degli operai che hanno partecipato al primo corso di tedesco per i dipendenti. «Pensate», dice, «che una volta gli operai facevano tutto a mano: oggi la produzione è completamente automatizzata e robotizzata». In effetti, tranne l’autista alla guida del veicolo con la siviera, tutti gli altri operai sono impegnati ai monitor o in operazioni di controllo. «Il loro compito principale è di individuare eventuali errori nella produzione, marcare le fallature, ad esempio una crepa nel cerchione dovuta a uno sbalzo di temperatura, e protocollare l’informazione nel

▶ Matilde Grünhage-Monetti

Il lavoro in fonderia, vetrata del Museo storico di Lüdenschen, fotografia di Stevek, wikipedia.org. La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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SCUOLA relativo formulario. Una volta gli operai facevano i pezzi e il Meister (capo operaio) li controllava e protocollava. Oggi i macchinari hanno praticamente sostituito gli uomini, ma controllare tocca ancora a loro. Per questo hanno bisogno di sapere il tedesco». Continuiamo la visita. In questa parte dello stabilimento c’è meno rumore. Noto un angolo con un tavolo in cui un paio di persone possono intrattenersi. Il dottor A. mi fa notare un libretto aperto. «È il registro dei pezzi difettosi: quando l’addetto all’audit della BMW viene in visita, non vuole parlare solo con noi dell’amministrazione. Viene qui in fabbrica, si rivolge a un operaio qualsiasi e gli chiede: «Che cosa fa lei se un pezzo è difettoso?». E l’operatore deve essere in grado di spiegargli la procedura che segue. Il registro era stato inizialmente scritto per i capo-operai. Ma oggi tutti devono essere in grado di usarlo». Con un certo orgoglio il capo del personale parla della clientela internazionale della ditta, che esporta un prodotto di alta qualità in tutto il mondo. Le attività di controllo, sia dei prodotti sia dei processi, sono un punto nevralgico della gestione della qualità. «Se qualcosa non funziona, l’operatore deve essere in grado di individuare il tipo di guasto, chiamare il tecnico giusto, che sia l’elettricista o il meccanico, e spiegargli l’accaduto. Il meccanico ci mette un quarto d’ora ad arrivare. Se poi si rende conto di non poter far nulla perché si tratta di un guasto elettrico, passa un altro quarto d’ora perché arrivi l’elettricista. Prima che il macchinario sia riparato e la produzione possa riprendere passa ancora dell’altro tempo: tutto questo costa!». La visita allo stabilimento è finita. Ora siamo seduti nell’ufficio del direttore del personale. Il dottor

A. racconta la sua carriera: nato in Turchia, padre emigrato in uno dei centri industriali tedeschi, laurea in sociologia ed esperienza di lavoro sia in Turchia sia in Germania. «Mi considero un mediatore fra i dipendenti d’origine straniera e i colleghi e dirigenti tedeschi». In virtù della sua posizione, ha già introdotto consuetudini nuove. Oggi in azienda si festeggiano non solo Natale e Pasqua, ma anche le ricorrenze di altre religioni e alla fine del Ramadan si fanno gli auguri ai colleghi musulmani. «Un clima di rispetto e riconoscimento reciproco è importante quando si lavora assieme». Un’azienda innovativa Anche le pratiche quotidiane, come le forme di congedo e saluto al cambio di turno, contribuiscono a creare un’atmosfera di collegialità e appartenenza. «Ora è uso che il capo-turno congedi i suoi uomini (in effetti nella produzione lavorano solo uomini) con una stretta di mano. Il nuovo arrivato saluta i suoi nella stessa maniera». Fra pochi giorni ci sarà la distribuzione degli attestati di frequenza al corso di tedesco. Per questo, la dirigenza e il consiglio aziendale hanno convocato i dipendenti: tutti devono vedere che l’azienda riconosce l’impegno e lo sforzo dei singoli. I partecipanti riceveranno il loro “diploma” e un mazzo di fiori, «così anche le mogli o le amiche avranno un piccolo riconoscimento». Il dottor A. è consapevole dell’importanza del supporto della famiglia per il successo del corso. Si sente chiaramente a suo agio nell’attuale posizione. La sua formazione ed esperienza di vita ne fanno un esperto d’organizzazione aziendale. Allo stesso tempo, conosce i problemi legati all’immigrazione. In modo molto effi-

cace, racconta i cambiamenti radicali avvenuti negli ultimi anni in seguito allo sviluppo dell’azienda da impresa familiare che era, a multinazionale. La trasformazione non è stata facile. La nuova azienda ha dovuto darsi un profilo innovativo, specializzandosi nella produzione d’un prodotto d’alta qualità. «Pensate che possiamo produrre cerchioni per auto in 150 sfumature diverse di grigio!». Dei 500 dipendenti complessivi dello stabilimento di S. (nome della città), gli operai di origine straniera sono l’89% nella fonderia, 78% nel reparto di lavorazione meccanica e 84% in quello di superficie/verniciatura. L’età media è 43 anni. Numerosi operai appartengono ancora alla prima generazione di immigrati, i cosiddetti Gastarbeiter, e la maggior parte di loro è giunta in Germania tramite “ricongiungimento familiare” per figli. «Molti dipendenti lavorano qui da 20 anni. Sanno fare il loro lavoro benissimo, ma non sanno il tedesco sufficientemente bene da poter comunicare la loro vastissima esperienza ai più giovani o ai nuovi. Per via dell’andamento dello sviluppo demografico è difficile per una media impresa come la nostra trovare operai specializzati sul mercato. L’unica alternativa è perciò qualificare i propri dipendenti! Migliorare la conoscenza della lingua tedesca è il primo passo, la formazione professionale quello successivo: così ci ha suggerito il consulente aziendale». Il dottor A. sottolinea che si tratta di sviluppi graduali, anche se i primi successi si possono già osservare. Il primo corso di tedesco rivolto esclusivamente ai dipendenti della ditta B. si è concluso da poco. La comunicazione ora funziona meglio. I lavoratori hanno più fiducia in se stessi. «Il vantaggio per

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SCUOLA| Apprendere il tedesco in fonderia l’azienda è che i colleghi adesso sono più flessibili». Non si tratta di eliminare o ridurre dei deficit ma sviluppare competenze. Il corso di tedesco è interpretato come un contributo allo sviluppo delle competenze necessarie nel mondo del lavoro d’oggi, che vede il passaggio da un sistema fordista-taylorista di produzione e organizzazione della società a un modello postfordista/postaylorista (Boutet, 2001; Baethge, Baethge-Kinsky, 2004). La visita allo stabilimento e la conversazione con il direttore delle risorse umane mostrano le nuove pratiche comunicative che l’organizzazione del lavoro (lean management, certificazione, gestione della qualità ecc.), le tecnologie moderne e i regolamenti sovranazionali (di sicurezza, di igiene ecc.) hanno determinato. La comunicazione sta diventando

parte integrante della più generale capacità professionale in tutti i settori e in tutte le posizioni gerarchiche. In Francia questa dinamica è riconosciuta dalla legge (la 391 del 2004). Nei segmenti meno qualificati della produzione e dei servizi le richieste sottese a questo cambiamento creano disagio fra i dipendenti meno qualificati e fra quelli d’origine straniera. La risposta pedagogica ai rischi d’esclusione è una formazione linguistica che parta dall’analisi del posto di lavoro, e non da considerazioni semplicemente linguistiche, tenga conto delle condizioni sia strutturali sia sociali e abbia il fine di contribuire all’inclusione dei destinatari nel posto di lavoro e nella società.

▶ Matilde Grünhage-Monetti ha

lavorato per più di 20 anni come ricercatrice presso l’Istituto Te-

desco per la Formazione degli Adulti - Centro della Comunità Scientifica Leibniz per la Formazione lungo l’arco della vita. Per il Centro Europeo di Lingue Moderne del Consiglio d’Europa di Graz coordina il progetto-rete LanguageforWork (2012-2015). APPROFONDIRE

M. Baethge, V. Baethge-Kinsky, Der ungleiche Kampf um das lebenslange Lernen, Waxmann, Münster, 2004.

J. Boutet, La part langagière du travail: bilan et évolution, in “Langage et societé”, n. 98, 2001, pp. 17-42.

M. Grünhage-Monetti, Warum Deutsch nicht dort fördern, wo es gebraucht wird? Am Arbeitsplatz, in Ch. Efing (Hrsg.), Ausbildungsvorbereitung im Deutschunterricht der Sekundarstufe I, Frankfurt am Main, 2013, pp. 191-215.

Operai si avviano al lavoro, vetrata del Museo storico di Lüdenschen, fotografia di Stevek, wikipedia.org. La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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John Frederick Lewis, Scuola araba, 1870, Metropolitan Museum of Art, wikipedia.org.

Insegnare al Cairo, tra i veli

«Complice la “primavera araba” e la mia fiducia nell’entusiasmo che fa miracoli, ho lanciato la mia sfida alla conquista dei miei giovani studenti e dei loro cervelli».

A ▶ Lucia Bonato

ogni inizio semestre, all’apertura dei nuovi corsi, le solite rimostranze: parla troppo in fretta, troppe cose in ogni lezione, troppo ampio il discorso per riuscire a focalizzare il tema. Il tema incriminato era, appunto, una panoramica introduttiva del Novecento. I veli in questo caso non sono la solita metafora di una condizione femminile che il modello europeo vorrebbe veder liberata: vivendo qui, è facile capire quanto

il nostro punto di vista occidentale includa una presunzione di verità assoluta non spendibile dappertutto. No, in questo caso il velo è una metafora che evoca filtri molto più profondi che vanno ben oltre le frontiere dell’universo femminile. Insegnare in Paesi culturalmente lontani dal modello europeo, nel mio caso l’Egitto, insegnare non solo la lingua ma anche contenuti culturali e tecnici, è una faccenda tremendamente delicata, una sfida stimolante che richie-

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SCUOLA| Insegnare al Cairo, tra i veli de l’attività febbrile e solidale di al posto dei libri – spesso tropquasi tutte le intelligenze reperpo costosi, troppo corposi, troptoriate da Gardner: cinestesica, po complessi – per semplificare perché l’arabo non è proprio faforma e contenuto soprattutto ai cile e la mia inclinazione per il mimo e il teatro compensa a meraviglia aggiungendo un sano divertimento. Musicale, perché spesso canto osservazioni o risposte, spaziando da Battisti a Beethoven. Interpersonale, perché i filtri affettivi dei miei studenti sono costantemente all’erta. Intrapersonale, perché anche i miei lo sono e devo controllare le mie reazioni. Naturalistico-ambientale, perché con aule smisurate e soffitti a 10 metri, pale dei ventilatori in azione, sirene e clacson a fare da sfondo alle lezioni pomeridiane, devo sapermi orientare con scioltezza nello spazio alla ricerca di un microfono e dell’attenzione dei 50-70 studenti presenti. Infine intelligenza esistenziale che insegna la prudenza in qualunque tipo di esternazione, dal capire alla prima occhiata se l’interlocutore è maschio adulto a cui si possa stringere la mano o se la rifiuterà perché il suo credo gli impone La profesoressa Lucia Bonato fra le sue allieve, fotografia dell’autore. di non toccare le donne, al valutare attentamente i film da proporre perché alla priprimi anni e per non spaventare ma scena sensuale o di nudo dinegli anni successivi. screto, parte delle ragazze si alza e se ne va. Che fare? Un contesto non incoraggiante Vediamo il contesto: dipartimenIl sistema incoraggia gli studi unito di italianistica o di italiano versitari su larga scala con costi (opero in due università), 4 ore di iscrizione irrisori e con indicadi lezione alla settimana per ogni zioni restrittive per gli strumenti materia, dispense e power point di lavoro, in termini di numero La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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e costo dei testi per ogni disciplina. La motivazione è il primo scoglio da affrontare: il voto di maturità condiziona l’accesso alle varie facoltà che stabiliscono un punteggio minimo per l’accettazione delle iscrizioni. Inutile dire che i cervelli migliori stanno alla larga dagli studi umanistici, e che i settori linguistico e umanistici sono ampiamente femminilizzati. La scelta della lingua è determinata da fattori obiettivi (LS studiata alle superiori) e soggettivi (gusti personali, aspettative professionali, incentivi e stereotipi legati alla lingua e al Paese in cui è parlata), ma anche da fattori sociali, in quanto la laurea è elemento di prestigio da spendere nelle scelte di vita (una specie di dote matrimoniale) più che nelle scelte professionali, dal momento che la presenza femminile nel mondo del lavoro è relativamente bassa. Il contesto di apprendimento non incoraggia l’eccellenza, né stimola la ricerca o la lettura, per lo più legate alle indicazioni di studio e strettamente finalizzate al superamento degli esami. L’editoria locale per l’apprendimento delle lingue, anche dell’arabo per stranieri, propone manuali fitti di fraseologia appena contestualizzata,

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SCUOLA seguita da lunghe teorie di vocaché. Il perché soprattutto è una liano di Cultura. Certo, ci sono boli da memorizzare. Il metodo domanda difficile: è difficile guicose delle mie passate esperienze di studio generalmente adottato dare a capire le relazioni di causa all’estero difficilmente importanella scuola è di tipo “coranico” ed effetto e a metterle in ordine, bili in queste università, come le (questa mia lezioni di cucina definizioo i laboratori di ne di solimaschere e cuto riscuote cito per allestire mormorii di un carnevale tutdisapprovato veneziano, ma zione per la con un coup de mescolanza théâtre sono riudi sacro e scita a far passare profano avl’idea che i libri vertita come sono pane per la vagamente mente e shwaya blasfema), shwaya, piano cioè si studia piano, ho visto a memoria risbocciare qua e petendo senlà entusiasmi e za sbagliare passioni, chi per una parola. I Caronte, chi per prerequisiti Ulisse, Machiae le attitudivelli o Leonardo, ni sviluppate che mi vengo“Libri, pane per la mente”: Lucia Bonato regge un afas el’ eis, la griglia di palma cui si appoggia il pane per la vendita, qui usata per presentare i libri della biblioteca. Fotografia dell’autore. nel corso deno snocciolati gli studi sein conversazioni condari poggiano su un retroterra a creare mappe mentali e seguire fuori aula lasciandomi totalmente culturale modesto e un ambienun ordine logico nell’esposizione di stucco. te poco stimolante. L’approccio orale e scritta. Il fattore umano mi è di grande glottodidattico di tipo formaliaiuto: l’interazione asimmetrica stico separa minuziosamente le Dante al Cairo, con Ulisse (con gli studenti) dopo due anni competenze da acquisire: 4 ore Integro l’arte e la musica alle mie vissuti in questa realtà presenta di fonetica, 4 di grammatica, 4 di lezioni di letteratura; ho propoaspetti molto piacevoli e gratificonversazione, 4 di scrittura. Siasto laboratori di formazione per canti; gli studenti sono sensibili mo lontani anni luce dalla centragli insegnanti locali; sfrutto ogni all’attenzione individualizzata, lità dello studente e dalla priorità occasione per portare l’apprenal coinvolgimento nell’apprendicomunicativa. dimento fuori dall’aula univermento, a tecniche e strategie di Ma lo studio dell’italiano qui in sitaria; stimolo uno sguardo più insegnamento più coinvolgenti, Egitto offre grandi prospettive attento sulla realtà con concorsi ma soprattutto sono fieri di scoper le centinaia di corsi attivati fotografici; guido le ricerche di prirsi capaci di andare più in là, nelle scuole e le migliaia di stumateriali e informazioni in rete; per raggiungere quel +1 che ogni denti iscritti. Perciò, complice la personalizzo l’attenzione e le rigiorno richiedo. “primavera araba” e la mia fiducia chieste nei confronti dei singoli; ▶ Lucia Bonato, docente di frannell’entusiasmo che fa miracoli, incoraggio la lettura e la scrittura, cese a Torino, ha insegnato italiaho lanciato la mia sfida alla conpratiche abbastanza sconosciute. no all’Università de San Carlos quista dei miei giovani studenti Quando ho scoperto in rete il prede Guatemala ed è ora al Cairo, e dei loro cervelli. Ho cercato di mio di lettura di Dante promosso come lettrice MAE presso le Unirendere più efficaci i corsi con dall’Accademia della Crusca con versità del Cairo e Al-Azhar. l’innesto di strategie metacognitiLoescher editore mi è sembrave, invitando a porsi domande e ta un’occasione da non perdere, trasformando ogni argomento in così come il concorso di scrittura un chi-cosa-come-quando-perteatrale lanciato dall’Istituto Ita-

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Jean-Baptiste Siméon Chardin, Lettura, 1740, wikipedia.org.

La scuola in casa

L’homeschooling, il sistema che permette ai ragazzi di studiare a casa propria, gode negli Stati Uniti di una lunga tradizione.

Q ▶ Francesca Nicola La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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uando si parla di homeschooling, ovvero della scelta di educare a casa i propri figli, una domanda sorge spontanea: «ma la scuola non è obbligatoria?». Ebbene no. La Costituzione italiana,

infatti, sancisce l’obbligatorietà dell’istruzione, non della scuola. L’articolo 34 recita che: «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni (adesso elevati a 10) è obbligatoria e gratuita». Sempre la Costituzione (articolo

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SCUOLA 30) stabilisce inoltre che l’educazione rientra tra i doveri attribuiti ai genitori e non allo Stato. È dunque legalmente possibile occuparsi in prima persona dell’istruzione dei figli, senza demandarla all’istituzione scolastica. Un numero piccolo ma crescente di genitori nel nostro Paese sta approfittando di questa possibilità. L’iter burocratico è relativamente semplice: basta inviare ogni anno una lettera al dirigente dell’istituto di zona dichiarando di volersi occupare personalmente dell’educazione dei propri figli e autocertificare la disponibilità tecnica ed economica per provvedervi. Anche se il Ministero dell’Istruzione non li ha censiti, si stima che in Italia vi siano circa 200 bambini soggetti a “educazione parentale” (questa l’espressione usata). Un numero ben lontano dai 2 milioni degli Stati Uniti, dai 20 000 dell’Inghilterra oppure dai 30 000 della Francia, ma che attesta comunque una tendenza in crescita. Come dobbiamo considerare questo fenomeno? Difficile ridurlo solo allo scimmiottamento di un’usanza americana. Occorre infatti ricordare che nel moderno Occidente le prime scuole pubbliche, nate negli Stati tedeschi di Gotha e Thuringia, risalgono solo ai primi anni del XVI secolo. Ma anche dopo, fino almeno al XVIII secolo, arruolare insegnanti professionisti, sia come tutor sia in un ambiente accademico formale, era un’opzione disponibile solo per una piccola élite. Così, fino a tempi relativamente recenti, la maggior parte delle persone istruite ha avuto come insegnanti i membri della famiglia, gli amici di famiglia o chiunque avesse conoscenze utili. Basta poi dare uno sguardo alle decine di siti e blog italiani di genitori-educatori che si scambiano

consigli e materiale didattico, per capire come dietro alla loro scelta vi siano quasi sempre una profonda insoddisfazione verso la scuola dell’obbligo, noiosa, standardizzata e distratta verso le inclinazioni del bambino, e un’idea precisa di quale debba essere la missione educativa di cui i genitori devono farsi carico: non tanto trasmettere contenuti, quanto incoraggiare una passione per l’apprendimento che duri tutta la vita. Le scuole in cucina Negli Stati Uniti l’homeschooling è stata per molto tempo una pratica limitata alle famiglie geograficamente isolate: i pionieri di una volta, ma anche, oggi, le comunità rurali e le famiglie in continuo spostamento, per esempio militari e missionari. Diminuita drasticamente alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo, un periodo particolarmente attraversato dalla cultura della scuola dell’obbligo come strumento di emancipazione delle masse, l’istruzione a casa è riemersa negli ultimi decenni come un’opzione popolare fra tutti i genitori che, pur vivendo vicino a scuole sia pubbliche che private, desiderano offrire ai propri ragazzi un’alternativa valida a entrambe. A motivarli, quindi, vi è sempre meno un vincolo pratico e sempre più il rifiuto dell’idea che i figli vengano educati soltanto come lo Stato reputa corretto. Si tratta per lo più di genitori cristiani, che contestano la natura secolare delle scuole. I mormoni che organizzano le kitchen school (scuole in cucina) per i bambini del vicinato dai cinque ai sette anni; gli avventisti del Settimo Giorno o gli amish, che spesso tolgono i figli da scuola dopo gli otto anni. È un fenomeno difficile da censire, poiché molte famiglie non si registrano o non acquistano alcun pacchetto di studi e al-

cun curriculum preconfezionato per l’istruzione domestica. I pochi studi disponibili indicano che la tipica famiglia dedita all’homeschooling è caucasica, formata da due genitori protestanti, con un buon reddito, un alto livello d’istruzione, una media di due bambini scolarizzati in casa e un terzo in età prescolare. Il compito di istruirli è in genere affidato alla madre, che si avvale delle risorse offerte sia dal web (CD-ROM e corsi scaricati a pagamento da Internet) sia dalla comunità: altri genitori, la chiesa, la scuola e la biblioteca locale. In questo tipo di famiglia, l’educazione religiosa è la motivazione principale ma quasi mai l’unica. Oltre al desiderio di trasmettere ai propri figli valori cristiani, vi è la preoccupazione verso un ambiente scolastico percepito come pericoloso e l’insoddisfazione nei confronti della scuola pubblica. Sono preoccupazioni condivise anche, all’estremo opposto, da alcune famiglie particolarmente progressiste e libertarie, che si rifiutano di affidare l’educazione dei bambini a una didattica imposta da terzi. Per loro l’homeschooling non ha nulla a che fare con la religione, è piuttosto il frutto dell’adozione di un preciso stile genitoriale. Alcuni studiosi lo hanno chiamato intensive parenting, a indicare la tendenza sempre più diffusa a vivere il proprio essere genitori in maniera intensiva, sia in termini emotivi sia dal punto di vista della quantità di tempo e di risorse economiche investite nella relazione con i figli. Lo spiega bene la storica Dana Mack, che nel suo libro Assault on Parenthood, descrive l’homeschooling come un esempio di “controcultura familista”: una nuova visione della vita familiare secondo la quale la quantità di tempo speso in fami-

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SCUOLA| La scuola in casa glia con i figli è una condizione necessaria per il loro benessere, cosa che pone gli obblighi del genitore prima della realizzazione di sé e del guadagno economico. Molti genitori che istruiscono i figli in casa sottolineano il piacere di imparare insieme a loro e descrivono l’importanza che tutta la famiglia si senta coinvolta in un progetto educativo condiviso. Le forme dell’homeschooling Le famiglie che educano i figli a casa utilizzano una grande varietà di metodi e materiali, a seconda delle risorse economiche e delle filosofie educative adottate: si va dalla la formazione classica al metodo di Charlotte Mason e Montessori, dalla teoria delle intelligenze multiple, all’unschooling, dal metodo Waldorf a quello di Thomas Jefferson. Non è raro che lo studente sperimenti più di un approccio prima di trovare quello più adatto alle proprie inclinazioni, o che genitori decidano di disegnare un metodo “a misura del proprio figlio” assemblando più caratteristiche delle varie filosofie educative. Un sistema fra i più comunemente adottati è il cosiddetto unit studies, traducibile in italiano con “studi in unità”: consiste nell’incorporare diverse materie, come arte, storia, matematica, scienze e geografia attorno un singolo tema, per esempio l’acqua, gli animali, la schiavitù americana, l’antica Roma e così via. Un metodo particolarmente attraente perché consente di tenere assieme bambini di età diverse, proponendo loro un argomento declinabile in maniera personale da ogni bambino a seconda della sua età. Molto diffusi sono poi gli all-in-one curricula, veri e propri pacchetti completi acquistabili on-line o in forma cartacea, contenenti tutto il materiale necessario per l’intero anno, spesso gli La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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Studio individuale a casa, 1958, USA. Photo by Francis Miller//Time Life Pictures/Getty Images

stessi libri di testo delle scuole tradizionali. La popolarità di questo sistema deriva dal permettere una facile transizione nel sistema scolastico ufficiale, poiché i compiti proposti agli studenti sono molto simili a quelli impartiti nelle scuole pubbliche e private. Vi sono, infine, genitori che abbracciano un metodo più radicale, comunemente conosciuto come “apprendimento naturale”, secondo il quale è giusto che i bam-

bini perseguano la conoscenza in base ai loro specifici interessi e seguendo il loro spontaneo ritmo di apprendimento. In quest’ottica, i genitori non fanno molto affidamento sui libri di testo e non trascorrono molto tempo a “insegnare”. Cercano piuttosto di condividere il più possibile con i figli le loro attività quotidiane, considerate esse stesse come occasioni pratiche di apprendimento. In Growing Without Schooling

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SCUOLA (“Crescere senza scuola”), del 1977, lo scrittore John Holt ha definito la scuola come la più autoritaria e pericolosa fra le invenzioni umane, una forma di schiavitù in cui la maggior parte dei bambini sono portati a sentirsi nient’altro che produttori e consumatori, spettatori e fans. Ricordando che l’apprendimento non è il prodotto dell’insegnamento ma dell’attività di coloro che apprendono, questo ex insegnante disilluso è divenuto uno dei teorici più conosciuti dell’istruzione domestica. Polemiche e critiche L’homeschooling non è esente da critiche. Negli Stati Uniti, la National Education Association, il sindacato di tutti coloro che lavorano a scuola, ne sottolinea da anni i rischi: la mancanza di socializzazione con i coetanei di diverse etnie e religioni, il potenziale sviluppo di un individualismo solitario e di estremismi religiosi, la possibilità di indurre la nascita di società parallele che non rientrano nelle norme di cittadinanza e di comunità. Aspetti negativi ribaditi nel 2002 dal politologo e professore alla Stanford University Rob Reich: in The Civic Perils of Home-schooling (“I pericoli civici dell’homeschooling”), egli ha sottolineato la tendenza dell’istruzione casalinga a fornire agli studenti un punto di vista unilaterale, quello dei genitori, e a ridurre il loro impegno civile nella comunità. Dal canto loro, i genitori educatori rispondono facendo notare l’artificialità di una socializzazione organizzata per classi di età: nessun adulto sceglierebbe liberamente di trascorrere otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, solo con coetanei. I bambini educati a casa si incontrano con persone di età diversa e quindi

portatori di prospettive differenti. Questo, sostengono, dà loro un maggiore livello d’equilibrio, esperienza e maturità che hanno profondi riflessi anche sul rendimento scolastico. Fanno notare, inoltre, come l’efficienza didattica dell’homeschooling consenta ai loro ragazzi di passare più tempo nella comunità rispetto ai coetanei. Poiché non c’è bisogno di stare in fila, perdere un’ora nella ricreazione o attendere il più lento dei compagni di classe, il tempo rimanente può essere impiegato in interessi come musica, volontariato e sport. Che l’educazione parentale sia un metodo fruttuoso dal punto di vista didattico pare del resto incontestabile. Numerosi studi confermano che i bambini così educati ottengono punteggi più alti nei test nazionali. Un dato confermato, ad esempio, dall’evidenza che il 27% degli studenti accettati dall’Università di Stanford si sono preparati a casa loro. Vi è poi la spinosa questione del controllo dell’homeschooling. Negli Stati Uniti la scuola parentale, ormai legale in tutto il Paese, viene gestita in maniera diversa dall´autorità scolastica a seconda dello Stato. Se nel Texas le norme sono quasi inesistenti, lo Stato di New York impone una lista specifica di argomenti obbligatori, tra i quali l’educazione sessuale, e obbliga i genitori a consegnare al sovrintendente della scuola locale relazioni trimestrali dettagliate. In Italia invece il controllo è davvero minimo. La possibilità di richiedere esami intermedi al termine dell’anno scolastico è infatti una facoltà, non un obbligo. L’esame, poi, è legato al raggiungimento di “obiettivi di apprendimento”, quindi non vincolato ad alcun specifico programma. Tanti dunque gli aspetti positivi, anche se un limite pare difficil-

mente risolvibile: questa scelta sembra essere preclusa alla maggior parte delle famiglie. I genitori che optano per la scuola informale si accollano, infatti, un compito oneroso e dispendioso. Hanno un livello di istruzione elevato e un reddito medio-alto, tale da consentire alle mamme o ai papà di non lavorare per dedicarsi completamente alla missione educativa dei pargoli. Una scelta per tanti, ma non per tutti.

▶ Francesca Nicola è dottoranda

in Antropologia all’Università Bicocca di Milano. APPROFONDIRE

• •

J. M. Bach, La scuola fa male, Sperling & Kupfer, Milano, 2010. E. Balsamo, Libertà e amore. L’approccio montessoriano per un’educazione secondo natura, Il Leone Verde, Torino, 2010.

P. Freire, Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2004.

T. Hodgkinson, Oziando si impara. Educare i figli a essere autonomi e conquistare la serenità, Milano, Rizzoli, 2009.

I. Illich, Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis, Milano, 2010

• • •

A. S. Neill, I ragazzi felici di Summerhill, Red, Milano. 2004. J. Krishnamurti, Lettere alle scuole, Astrolabio Editore, Roma, 1983.

F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Elèuthera, Milano, 2004.

G. Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta, EMI, Bologna, 2009.

Siti Internet:

educazioneparentale.org; educazionelibertaria.org; controscuola.it; nheri.org.

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Peter e Gordon; in alto: Peter all’epoca in cui fu girato il film, fotografie dell’autore.

Quando Peter sognava di studiare La storia di un incontro, di un documentario e di un sogno realizzato.

A ▶ Enrico Cerasuolo La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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vete mai sentito parlare dell’AMREF? È l’African Medical and Research Foundation, ONG che da più di cinquant’anni lavora nell’Africa orientale per contribuire al miglioramento della salute attraverso il coinvolgimento attivo e il rafforzamento delle comunità, del personale locale e dei sistemi sanitari. Il 97% del personale dell’AMREF è africano. Forse avete visto il Pinocchio nero di Marco Baliani, a teatro o in

un documentario. Era un progetto di AMREF. Oppure vi ricordate che, tanto tempo fa, Giobbe Covatta in televisione diceva: «Basta poco, che ce vo’?». Era una delle prime campagne d’informazione dell’AMREF e l’aveva realizzata mio zio, Guido Cerasuolo. Io stavo imparando il mestiere di regista da lui e gli facevo da assistente. L’Africa la vedevo in sala di montaggio. Molti anni dopo, nel maggio 2005, Guido m’ha telefonato per chiedermi se volevo partire

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SCUOLA per Nairobi, due settimane dopo. Stava producendo un progetto di video partecipativo, finanziato dal National Geographic Channel, chiamato African Spelling Book, l’abbecedario africano. Nel corso di due mesi un gruppo di ragazzi e ragazze degli slum, coordinati da Angelo Loy e Giulio Cederna, avrebbero avuto l’opportunità di scrivere delle storie, filmarle e farle diventare 20 piccoli film. Avrei dovuto documentare il progetto, ma potevo anche cercare una storia da raccontare, sul modello di Essere e avere di Nicholas Philibert. Era un modo molto strano per me di affrontare un progetto. Sono abituato a lunghe ricerche prima di girare un documentario, mentre in questo caso dovevo partire e immergermi in una situazione che non conoscevo direttamente. Oltretutto i fondi erano limitati, per cui potevo portare con me un fonico e un assistente, ma avrei dovuto operare io stesso anche da operatore, cosa che di solito non faccio. Ho accettato. La vita dei ragazzi di strada L’impatto con la realtà urbana di una megalopoli africana è violento: la gente si stringe nelle sterminate baraccopoli dove mancano acqua e spazio. All’ultimo posto nella scala sociale degli slum ci sono i ragazzi di strada. Sono tantissimi, vivono in branco per farsi coraggio, dormono in quelle che chiamano basi, un luogo qualsiasi che possa offrire un minimo riparo. Vivono di woi, vale a dire raccolgono nella spazzatura plastica e metallo, che rivendono a peso. Con i pochi soldi che guadagnano, mangiano e si comprano la colla. La sniffano tutto il giorno, le bottigliette appese al labbro. La colla li aiuta a sopportare e dimenticare. Poche ragazze vivono sulla strada; è troppo pericoloso,

le loro sofferenze sono nascoste nelle baracche. Uscire da questa situazione non è facile, serve una possibilità, che solo un’altra scuola può offrire. African Spelling Book è stata una possibilità per 60 di loro. A cosa serve imparare a raccontare (o a recitare, come nel caso di Pinocchio nero) per degli adolescenti sottoposti fin da piccoli alla violenza in tutte le sue forme? Serve per ritrovare fiducia in se stessi, sentire di non essere la spazzatura che raccolgono per vivere, ma persone cui è permesso sognare anche solo una vita normale. Due mesi con Peter Kamau Fin dal primo giorno in Kenya ho cercato di capire come raccontare questa esperienza. Ho scelto Peter Kamau, il più piccolo e uno dei più problematici del gruppo. Ma, ripensandoci, è Peter che ha deciso di farsi scegliere, perché aveva bisogno di attenzione e ha capito subito che essere protagonista di un documentario avrebbe potuto aiutarlo. La comunicazione però non era facile, non solo per la lingua ma anche per la distanza tra le nostre culture. Allora ho scelto un tramite, Samuel, l’assistente sociale che ha trovato Peter sulla strada e gli ha proposto di partecipare al progetto. Attraverso Samuel ho capito come e perché funziona l’azione di AMREF negli slum: quelli che cercano d’aiutare i ragazzi a uscire dalla strada sono stati anche loro da piccoli ragazzi di strada. Lo definiscono role model: è l’unico modo per capirsi e la prova per i più giovani che ce la si può fare. Col tempo ho capito che lo stesso Samuel, quand’era come Peter, fu aiutato a uscire dalla strada da John Muiruri, che oggi dirige i progetti di AMREF negli slum di Nairobi e che a sua volta ha avuto un’infanzia simi-

le. Con Samuel e John abbiamo piano piano scoperto parti della storia di Peter e dei suoi due anni e mezzo sulla strada. Soprattutto, col tempo, si è chiarito il suo sogno: tornare a scuola. Come dice Samuel, andare a scuola dovrebbe essere una cosa normale, per i ragazzi di Nairobi invece è una conquista. Nel film ho raccontato il percorso del cambiamento di un tredicenne vecchio per esperienze e bambino per emotività, i due mesi che ho passato con lui e con gli altri, senza illudermi di averlo capito né di avergli cambiato la vita. Peter sa cambiarsela da solo, basta che qualcuno gliene offra la possibilità. Pochi mesi fa Angelo Loy, che continua a realizzare meravigliosi progetti partecipativi con i ragazzi di Nairobi, mi ha spedito una fotografia, senza alcun messaggio. Parla da sola: Peter è grande adesso, al suo fianco c’è Gordon, il volontario dell’AMREF che l’ha accompagnato a scuola in quel suo primo giorno in cui c’ero anch’io. Dietro di loro si vede una stanza con dei libri. L’altra foto invece è Peter prima di tutto quello che vi ho raccontato.

▶ Enrico Cerasuolo è presidente

di Zenit Arti Audiovisive, Torino, casa di produzione indipendente, a partire dalla sua fondazione, nel 1992. Autore e regista di documentari, tra cui L’enigma del sonno (2004), Checosamanca (2006), Il sogno di Peter (2007), I pirati dello spazio (2007), Il volto nascosto della paura (2008), Andante ma non troppo - 150 anni di storia d’Italia (2011), Ultima chiamata (2013). Per Loescher si occupa da molti anni del settore video, sviluppando un format di video educativi che integra il linguaggio documentaristico con la didattica.

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Cittadinanza consapevole e cultura di pace La pace ha bisogno di cultura, ha bisogno di un pensiero, ha bisogno di solidità, di studio e di ricerca. Intervista a Gino Strada.

Gino Strada, Foto Emergency.

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▶ Gino Strada La ricerca | N. 3 Nuova Serie. Maggio 2013 |

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n occasione della pubblicazione del memoir Pappagalli verdi nella collana Loescher “Macramè”, abbiamo intervistato il suo autore, il chirurgo e attivista Gino Strada, che ci ha parlato del significato di cittadinanza consapevole e di cultura di pace. D: Le capita spesso in Italia di incontrare studenti nelle scuole? Che cosa le viene domandato? R: Non è che succeda ormai tanto spesso, ultimamente: anche se farlo mi piace molto, purtroppo non riesco a trovare il tempo di andare in giro per le scuole come un tempo. Gli studenti non fanno tantissime domande – il che non è male, intendiamoci. Non si spingono al di là di quelle solite: «Cosa l’ha spinta a fare questo lavoro?», oppure azzardano qualche domanda un po’ più tecnica,

ad esempio quando si parla di mine anti-uomo… Trovo che i ragazzi abbiano molto spesso una reazione che non è quella di far domande, ma di stare zitti, di essere in silenzio, ed è un silenzio che credo importante, perché vuol dire che dei messaggi stanno penetrando, che le persone stanno pensando, che restano sgomente, forse, di fronte al racconto della realtà della guerra. D: E gli insegnanti? Come reagiscono alla presenza di Emergency nelle scuole? R: Emergency fa molti interventi in realtà nelle scuole, e credo che nei diciannove anni della nostra storia siamo intervenuti, dietro richiesta, in più di diecimila scuole nel nostro Paese. Quindi vuol dire che, in generale, c’è tra gli insegnanti una certa sensibili-

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SCUOLA tà. E questo è un bene perché la scuola, il lavoro degli insegnanti, è molto simile a quello dei medici. Si cura il corpo e si cura la mente. Purtroppo anche la scuola vive le stesse tragedie che sta vivendo la sanità: è stata tolta dalla scuola l’educazione civica che dovrebbe essere in assoluto la materia più importante di insegnamento… Perché se non si riesce a insegnare a dei giovani, a dei ragazzi, come essere dei buoni cittadini, credo sia abbastanza irrilevante se parlano un buono o un ottimo inglese. Se la caveranno comunque nella vita, quale che sia il loro livello di inglese. Ma se la caveranno male se non sanno cosa vuol dire essere cittadini. D: L’impegno di Emergency nelle scuole è un bell’esempio di educazione alla cosiddetta “cittadinanza attiva”. Che cos’è, per lei? R: Io non ho molta familiarità col termine “cittadinanza attiva”, direi “cittadinanza consapevole”, informata, cosciente. A me fa paura quando i ragazzi italiani crescono senza aver mai letto la Costituzione del loro Paese, senza aver letto la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, senza conoscere il Manifesto di Russell-Einstein, senza conoscere quelle pietre miliari del pensiero che sono fondamentali se si vuole vivere in una comunità. Senza questo si rischia che la società diventi una giungla, non più una comunità. D: Quanto è importante e come si deve esplicare la relazione tra scuola e mondo del volontariato? R: Credo che i modi siano tanti: passaparola, non tenersi per sé messaggi, ma anche elaborare,

prendere spunto dalle esperienze di volontariato per capire e approfondire una serie di problemi. So che questo lavoro di “didattica”, come possiamo chiamarlo, è stato fatto da molti insegnanti, fortunatamente, e credo che molti ragazzi ne abbiano trovato giovamento. D: Qual è, secondo lei, l’insegnamento più grande che bisognerebbe dare ai ragazzi? R: Quello di capire che visto che

abbiamo scelto di vivere in un modo associato, il rispetto e la considerazione per l’altro sono un ingrediente insostituibile. Senza, il castello non sta in piedi. Ma se lo si ha, allora, si riesce a capire anche il significato di parole come tolleranza, solidarietà, amicizia, stare insieme. Sono tutti valori positivi, al contrario dell’essere egoisti, indifferenti, volgari, violenti... D: Cosa deve e può fare la scuola per diffondere una cultura di pace? R: Non ho ovviamente una risposta perché non vivo all’interno della scuola da molti, molti anni. Però si chiama non a caso “cultura di pace”: la pace ha bisogno di cultura, ha bisogno di un pensie-

ro, ha bisogno di solidità, di studio, di ricerca. Tutte le volte che una classe con il suo insegnante si mette a lavorare su questi temi, io credo che ne escano esperienze che fanno maturare molto i ragazzi. D: Un’ultima domanda: nel 2014 Emergency celebra 20 anni di attività. Quali sono le ragioni del suo successo e della sua crescita? R: Credo stiano nell’essere sempre stata un’organizzazione che ha fatto cose in un modo professionale e trasparente, e che ha utilizzato al meglio le risorse che molti cittadini hanno messo a disposizione, perché si vive di donazione di cittadini. L’apprezzamento per la qualità del lavoro di Emergency è sicuramente una delle condizioni fondamentali che hanno favorito la crescita dell’organizzazione. L’altra (oltre al fare) credo che sia stata anche il cercare di dire le cose che si vedono, di non tacere gli orrori della guerra, di non tacere le barbarie che si incontrano ogni giorno… perché la pratica sociale di Emergency è quella che ha sviluppato in noi una serie di riflessioni, di idee, ed è quella che poi ci ha consentito anche di proporle agli altri, di cercare di farle pubbliche. Fino a qualche anno fa, fino a vent’anni fa, io non avevo mai sentito parlare della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. E allora sono dei piccoli passi culturali che qualche seme lo buttano, e poi molti di questi semi marciranno, qualcun altro invece no, metterà radici.

Gino Strada è un chirurgo e attivista italiano, fondatore, assieme alla moglie Teresa Sarti, dell’ONG italiana Emergency.

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Le narrative Loescher Macramè: il filo del racconto. Per la scuola ad alta leggibilità

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3a edizione

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LINGUA GRECA con CD-ROM per Windows e nuova Guida all’uso del vocabolario e Lessico di base V este grafica rinnovata con l’uso del secondo colore Aggiornamento e ampliamento del corpus Sistematica revisione di alcune fonti d’autore istrutturazione di un consistente numero di R lemmi relativi alle cosiddette “preposizioni improprie” evisione delle indicazioni enciclopediche R presenti nei nomi propri E lenco degli Autori e opere ampliato e aggiornato nelle indicazioni bibliografiche

Appendice a colori con tavole illustrate dedicate a temi di civiltà, complete di glossari che definiscono i concetti-chiave relativi a ciascun argomento. Carte geografiche. Guida all’uso dotata di un ricco eserciziario operativo, diviso per ambiti grammaticali e lessicali per un graduale approccio all’uso del vocabolario. Lessico di base di 3000 lemmi fondamentali per i principianti.

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