La ricerca 4 - Contro il digitale

Page 1

La ricerca Ottobre 2013 Anno 2 - n. 4 Nuova Serie | 6 euro

Contro il digitale DOSSIER Cosa significa “nativo digitale”?

Cultura classica Bullismo Interazione in L2 Classi differenziali Organi collegiali

772 2 8 2 2 8 3 0 0 6 9

ISSN 2282-2836

1 3004

RI05

© Underwood & Underwood/Corbis

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 4 anno 2013

SCUOLA

cover_LaRicerca_4_ottobre2013.indd 1

30/09/13 17:24


Il tutor online per l’analisi e la traduzione del testo latino La versione 2.0 è un’esclusiva Loescher

CICERO per l’insegnante L ’insegnante sceglie la versione e la assegna agli studenti attraverso la classe virtuale CICERO riporta per ogni studente gli ambiti di competenza rilevati CICERO impara dal docente e riduce il suo lavoro

CICERO per lo studente CICERO segue passo passo nella traduzione e adatta il livello delle domande alle conoscenze dello studente rilevate su ogni competenza www.cicerolatintutor.it

il “metodo”

Il tutor online di italiano per l’analisi e la comprensione del testo

EUGENIO per l’insegnante L ’insegnante sceglie il testo e lo assegna attraverso la classe virtuale EUGENIO, dopo che lo studente ha lavorato, riporta al docente gli ambiti di competenza rilevati

EUGENIO per lo studente E UGENIO chiede allo studente di confrontarsi direttamente con il testo e lo segue in un’analisi attiva, portandolo a cercare e riconoscere di volta in volta nel testo gli elementi segnalati www.eugeniotutoritaliano.it

ADV_LaRicerca_IIdicop_Cicero_Eugenio.indd 1

06/02/13 15:17


EDITORIALE

In tempi digitali Accelerazioni e frenate scandiscono il cammino della scuola 2.0. Il dibattito sul digitale prosegue ampio e vivace. È il momento di fare il punto della situazione e porsi qualche interrogativo.

«E

se facessimo un numero contro il digitale?» Siamo su un treno che sta per arrivare a destinazione: quanto tempo avrò per rispondere? Guardo l’ora. Sullo smartphone, ovviamente. L’orologio non lo porto da anni, sostituito all’inizio da una cipolla con tanto di catenella e poi dal primo cellulare. Intanto, fra la rotondità della cipolla e la spigolosità del telefono mobile, ho appreso che il tempo della lancetta è quello analogico, divisibile all’infinito in infinite parti, mentre il tempo del display è quello digitale, definito per sempre dall’inesorabile scatto tra un numero e il seguente. Dopo, certo, ho scoperto che il digitale è molto altro: una buona porzione di vita personale, fatta di posta, musica, foto, e una fetta fors’anche maggiore di vita professionale, laddove l’impegno sul digitale è ricerca sul prodotto, legge di mercato, disposizione ministeriale. È così che nella redazione dell’editore scolastico alle pile di bozze si sono affiancati CD e poi DVD e poi ancora eterei link che rimandano a impalpabili prodotti digitali. Oggetti immateriali che vivono su computer, LIM e tablet, ma che vengono strapazzati con la medesima acribia di lavorazione destinata alle sudate carte. Chiedendosi sempre se tutto funziona, se il prodotto finito sarà fruibile dall’utente, gradito all’insegnante e utile per lo studente. Perché poi libri e strumenti educativi digitali finiscono tra le mani e sotto gli occhi degli studenti e da lì devono trasmettere qualcosa, si auspica molto, nella testa degli stessi. E allora, se tra un esercizio interattivo e l’altro ci fermiamo un momento, guardando anche ciò che succede oltre confine, bisognerà anzitutto verificare se l’uso didattico dei media digitali migliora i livelli di apprendimento. Ché questo

▶ Chiara Romerio

redazione di Loescher Editore

RICERCA5_9_ultimo.indd 3

è un punto cruciale della questione, tanto quanto è sfuggente e ancora poco misurato. Dobbiamo farlo per loro, per i “nativi digitali” – sempre che poi siano veramente tali, visto che non tutti la pensano così. Questa è filosofia, diranno alcuni. Se torniamo alla prassi dovremo allora indagare le difficoltà degli attori che si muovono sul palcoscenico dell’era scolastica digitale. Bisogna quindi sentire i pareri di genitori, insegnanti, formatori, pedagogisti, istituzioni e far parlare i dati e le cifre che tanta parte hanno quando si devono far quadrare i piani di innovazione con i budget. Se poi guardiamo anche oltre l’editoria scolastica, i numeri che parlano sono quelli sugli e-book e le voci da sentire sono quelle di chi i libri digitali li scrive e li pubblica. Non lo facciamo per ribadire che i libri ci piacciono solo quando sentiamo l’odore della carta: non vogliamo sentirci dire che siamo roba da museo. Che poi, a ben vedere, il digitale è entrato pure nei musei. Perché l’evoluzione digital si occupa anche della conservazione dei saperi e dei documenti da trasmettere alle generazioni future: vale nelle biblioteche e negli archivi, anche qui non senza criticità. Del resto Robert Darnton, che dirige la National Digital Public Library (inaugurata nell’aprile di quest’anno e che oggi vanta 4,5 milioni di items digitali), ha fatto notare che la carta sopravvive per secoli, mentre il formato digitale deperisce e richiede elevati costi di manutenzione. Come dire, c’è sempre l’altro lato della medaglia. E noi vogliamo vederlo. Senza partigianeria e opinioni precostituite, ma con curiosità e spirito critico vogliamo indagare i lati oscuri del digitale per far funzionare in maniera ottimale i lati luminosi, a vantaggio del maggior numero possibile dei tanti soggetti coinvolti nella rivoluzione scolastica digitale, in primis gli studenti. In questo senso bisogna fare una ricerca. Quindi sì, facciamo un numero contro il digitale. È ora.

30/09/13 16.11


La ricerca Nel prossimo numero Periodico quadrimestrale Anno 2, Numero 4 Nuova Serie, ottobre 2013 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480

Editore

Loescher Editore

Direttore responsabile Martina Pasotti

Direttore editoriale Ubaldo Nicola

Redazione

Laura Cavaleri, Elena de Leo, Manuela Iannotta, Sandro Invidia, Emanuela Mazzucchetti, Alessandra Nesti, Francesca Nicola, Chiara Romerio

Grafica e impaginazione Michele Magnani

Pubblicità interna e di copertina Visual Grafika - Torino

Stampa

Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

Distribuzione

Per informazioni sulle modalità di distribuzione scrivere a: laricerca@loescher.it

Autori di questo numero Fulvio Allegramente, Ugo Avalle, Vittorio Bo, Roberto Casati, Grazia De Michele, Davide Guarneri, Marco Guastavigna, Michael Feldstein, Roberto Grassi, Franco Montanari, Elena Nuzzo, Carmela Palumbo, Domenico Pantaleo, Alberto Parola, Stefano Pederiva, Andrea Perin, Simonetta Pillon, Marc Prensky, Matt Richtel, Marco Ricucci, Gino Roncaglia, Francesco Scrima, Gian Paolo Terravecchia, Gabriele Toccafondi, Alessandro Zaccuri

© Loescher Editore

via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (on-line)

Tratteremo prossimamente il tema delle scuole d’eccellenza annunciato per questo numero, che dedichiamo invece al digitale in considerazione dell’attualità del dibattito sulla scuola 2.0 in concomitanza con la ripresa dell’anno scolastico. Una ripresa che, in fatto di digitale, si apre con la firma da parte del ministro Carrozza dei Decreti Legge del 12 e del 27 settembre che pongono un freno alla spinta sul digitale, precedentemente dettata dal Decreto Crescita 2.0 del 18 ottobre 2012 e sancita dal Decreto Profumo del 26 marzo 2013. Educazione alla cittadinanza e diritti Come portare a scuola e dentro ai libri l’attenzione alla pratica quotidiana di una cittadinanza attiva di valore? Progetti e sperimentazioni; esperti a scuola e lavori di gruppo tra pari; diritto allo studio e lotta contro la dispersione; educazione al rispetto di genere, alla legalità, all’affettività e alla valorizzazione delle proprie emozioni, alla conservazione del mondo che ci circonda. Lavorare a scuola sul “saper essere” per imparare a vivere rifiutando gli stereotipi, sostenendo consapevoli chi – per pregiudizio nei confronti della propria razza, della propria provenienza, del proprio handicap o dei propri orientamenti – fatica ogni giorno a scuola e fuori scuola. I diritti dei bambini L’Assemblea Generale dell’ONU ha stilato nel 1989 la Convenzione sui Diritti del Bambino, che ha messo in evidenza le condizioni, a volte devastanti, dell’infanzia nel mondo. Nel 2003 i rappresentanti di quaranta Nazioni hanno cercato di superare le differenze culturali e politiche per articolare norme morali universali per il trattamento dei più piccoli. Il dibattito attorno alla definizione di infanzia si conferma cruciale anche nelle questioni relative alle politiche di intervento minorile, oggi caratterizzate da una visione non sempre lineare dell’infanzia. Da una parte emerge la figura del bambino come persona senza diritti e oppressa dagli adulti. Dall’altra, però, le stesse politiche di promozione dei diritti infantili mettono l’accento sull’importanza di considerare i minori come soggetti attivi di diritti. La redazione è lieta di ricevere le vostre proposte e suggerimenti. Scrivete a: laricerca@loescher.it

La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 4

30/09/13 16.11


Sommario SAPERI |Contro il digitale

DOSSIER |Cosa significa “nativo digitale”

6 10 14 18 22 26 32 35 38 42 45 47 49 52

56 61 67 72

L’anticolonialista digitale Roberto Casati Quali piattaforme per la scuola digitale? Gino Roncaglia L’istruzione digitale in Italia e negli USA Michael Feldstein I nuovi media e l’educazione alla scelta Alberto Parola Perché l’innovazione è in difficoltà Marco Guastavigna Sì al digitale, ma per migliorare la scuola Domenico Pantaleo, Francesco Scrima Andare avanti con la scuola digitale Gabriele Toccafondi Visto dalla parte dei genitori Davide Guarneri Il rapporto dei bambini con il digitale Stefano Pederiva Oltre la scolastica: il mercato degli e-book Simonetta Pillon L’e-book e lo scrittore Alessandro Zaccuri Un editore fra carta e digitale Vittorio Bo Quando il digitale entra nel museo Andrea Perin Gli archivi digitali in rete Roberto Grassi

RICERCA5_9_ultimo.indd 5

Nativi digitali e immigrati digitali Marc Prensky La mente nuova dei nativi digitali Marc Prensky L’enigma dei punteggi stagnanti Matt Richtel Il dibattito italiano sui nativi digitali Gian Paolo Terravecchia

SCUOLA

78 82 84 88 92 95

Le Olimpiadi di cultura classica Carmela Palumbo Crisi di un Liceo o di un sistema? Franco Montanari Fenomenologia del bullismo Ugo Avalle Interagire per imparare le lingue Elena Nuzzo Le classi differenziali nel dopoguerra torinese Grazia De Michele Quarant’anni di organi collegiali Fulvio Allegramente

30/09/13 16.11


SAPERI

Interno della Monkseaton High School, Whitley Bay, Tyne and Wear, Inghilterra, www.monkseaton.org.uk.

L’introduzione delle tecnologie digitali cambia radicalmente gli spazi dell’educazione, trasforma il concetto di classe e il suo arredamento, modifica la socialità fra gli studenti e il rapporto fra loro e il docente. Ne è un esempio la Monkseaton High School in Inghilterra, pensata già dall’architettura come un luogo di ricerca collettiva (si vedano altre immagini alle pagine 19, 34 e 48). La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 6

6

30/09/13 16.12


SAPERI

L’anticolonialista digitale Ci sono gli entusiasti sostenitori dell’introduzione del digitale a scuola e ci sono le voci fuori dal coro. Tra queste, la prima che abbiamo voluto sentire è quella di Roberto Casati, autore del recente saggio Contro il colonialismo digitale.

N

on è un luddista né un apocalittico del digitale. Roberto Casati è un filosofo del linguaggio e un ricercatore del CNRS di Parigi che affronta il tema della digitalizzazione a scuola e va dritto al cuore del problema chiedendosi se è davvero utile sostituire i libri di carta con quelli digitali. A suo parere, infatti, l’introduzione del digitale è una questione da valutare e rinegoziare caso per caso. Diversamente non ci si sottrae alle dinamiche di una colonizzazione a tappeto da parte del digitale.

passaggio va negoziato di caso in caso. Il libro di carta, ad esempio, presenta dei vantaggi cognitivi che riguardano la gestione della memoria e dell’attenzione. Non tutti i libri, da questo punto di vista, sono sullo stesso piano. Wikipedia e i libri di cucina hanno tratto vantaggio dalla migrazione on-line: nessuno vuole stamparsi otto milioni di pagine di Wikipedia e tenersi in casa informazioni che non gli serviranno mai. Il saggio invece è una “tecnologia” diversa che favorisce il riesame cosciente dell’argomentazione. Quando si legge un saggio bisogna essere messi nella condizione di riesaminare continuamente quello che è stato detto e vagliarlo alla luce delle nuove informazioni che man mano vengono date. Ciò avviene al meglio quando il materiale è organizzato in una struttura completamente lineare come quella del libro cartaceo. Questo non è solo un modo per immagazzinare dei dati, è un modo per riesaminare le argomentazioni. Questo tipo di design, il libro cartaceo, andrebbe preservato.

D: Professor Casati, che cosa intende per “colonialismo digitale”? R: Il colonialismo digitale è un’ideologia secondo cui dal semplice fatto che una qualche attività umana possa migrare verso il digitale ne segue che essa debba migrare verso il digitale. Dalla possibilità viene fatta seguire la necessità normativa: si può, quindi si deve. Ma a mio parere sarebbe importante capire che il digitale è una modalità, un insieme di strutture informazionali a nostra disposizione, e che non tutto può e deve migrare verso il digitale. Ciò non significa opporsi al digitale di per sé: significa piuttosto avviare una riflessione circa l’implementazione della digitalizzazione. Un esempio di qualcosa da non digitalizzare è il voto. Digitalizzarlo è contro la democrazia, perché lo rende controllabile e manipolabile, e ne mette il meccanismo al di là della capacità di comprensione dei cittadini. Non c’è soluzione ingegneristica che tenga: i coloni digitali diranno che troveranno una soluzione al problema, ma il problema si crea proprio con la loro pretesa di digitalizzare il voto. Invece il libro e la scuola sono zone di mezzo, terra di confine. Non penso che non si debba passare al digitale in questi ambiti: dico solo che tale

D: Il suo libro Contro il colonialismo digitale mostra una certa verve polemica. Perché le è parso importante affrontare il tema della digitalizzazione? R: La digitalizzazione procede a grande velocità, viene considerata un valore in sé e c’è scarso dibattito pubblico su di essa. I policy makers trovano molto utile poter misurare velocemente qualsiasi cosa: è facile, ad esempio, nel caso della scuola sostituire la difficilissima misurabilità dei risultati scolastici o della crescita morale e spirituale degli studenti con la misura del numero di connessioni Internet per regione o col numero di tablet distribuiti agli studenti per provincia. Mi sembra importante invece che le persone siano messe nella condizione di rinegoziare in ogni singolo caso l’introduzione del digitale. Vi sono delle pratiche in cui la transazione fisica e non elettronica è un elemento di garanzia. In molti casi prima di passare all’elettronico vorrei che venissero discussi i costi di

▶ Roberto Casati ▶ Intervista di Gian Paolo Terravecchia 7

RICERCA5_9_ultimo.indd 7

30/09/13 16.12


SAPERI| L’anticolonialista digitale ciò che si perde. Quello che si guadagna viene continuamente vantato, ma non c’è mai una discussione su quello che si perde. Ciò viene nascosto dalla retorica della smaterializzazione, della velocità, del costo più basso. Si pensi ai costi dell’archiviazione elettronica: è vero che spostare elettroni costa meno che spostare atomi, però il design globale della situazione che si sta producendo non è così economico, soprattutto ora che tutti si stanno spostando su cloud. I costi di accesso sono altissimi: Google da solo usa un decimillesimo di tutta l’energia del mondo. Sembra poco, ma in realtà è tantissimo, ed è solo un decimo dei costi energetici di accesso. Si ritiene che il libro di carta sia antiecologico rispetto a quello elettronico, ma si deve pensare anche che quello di carta immagazzina carbonio che poi sottrae all’atmosfera per tutta la sua vita, che può durare anche secoli.

D: Uno dei punti forti della nozione di “nativo digitale” sembra essere la capacità che essa ha di spiegare il disagio dei meno giovani verso le tecnologie. Lei che rifiuta tale nozione, come spiega questo disagio? R: Secondo me il disagio è finito. L’era del disagio è terminata dai tempi in cui non si deve più guardare il manuale per capire la tecnologia. Mia madre sa usare lo smartphone, eppure ha ottant’anni e non aveva mai utilizzato un computer in vita sua. Recentemente le è stato regalato un tablet e lo usa benissimo. Siamo entrati nell’era del design totale. Questa è la ragione per cui i nativi digitali non esistono o, per dirla in altro modo, lo siamo tutti. L’argomento è chiuso appena uno si guarda in giro e vede i nonni digitali. D: Colpisce che non si siano dimostrati effetti positivi dell’utilizzo di strumenti educativi digitali sui livelli di apprendimento. Che cosa emerge dagli studi?

Il progetto di classe del futuro sviluppato dalla Diwa Learning Systems,una compagnia asiatica di educational publishing industry con sede nelle Filippine, http://www.diwa.ph.

Dopo la lavagna, sono spariti i banchi, sostituiti da un’indecifrabile mobilia la cui apparente funzione sembra essere il porre lo studente nell’impossibilità fisica di leggere un libro, scrivere o semplicemente appoggiare una penna da qualche parte. In questo spazio, la figura del “compagno di banco” è destinata a sparire, sostituita da momenti di aggregazione fluidi e temporanei favoriti dalla disponibilità di sedie munite di rotelle, appositamente pensate per favorire la mobilità degli studenti.

La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 8

8

30/09/13 16.12


SAPERI R: Alcuni studi cominciano a essere pubblicati. Raccomando le ricerche di Marco Gui dell’Università di Milano Bicocca che sta facendo un lavoro molto serio sull’unica grande inchiesta disponibile, la PISA OCSE 2011. Considerando il risultato scolastico in funzione delle nuove tecnologie, i dati mostrano una curva a U invertita. Ciò significa che i risultati scolastici migliorano con un utilizzo molto modico delle nuove tecnologie. In seguito calano: col crescere dell’uso delle tecnologie, i risultati si abbassano al punto di scendere sotto i livelli di coloro che non utilizzano le tecnologie. Questo è un dato interessante che richiede di essere interpretato. Faccio l’ipotesi che l’uso massiccio delle tecnologie nelle scuole tenda ad avere un effetto distraente sui discenti. Tale ipotesi, del resto, sembra confermata da uno studio condotto dal Dipartimento francese di Les Landes allo scopo di verificare i risultati di un’iniziativa che assegnava un computer a ogni studente. L’esito è stato che le tecnologie sono distraenti. C’è poi uno studio di Helene Hembrooke e Geri Gay: hanno diviso una classe in due gruppi, fornendo ad alcuni studenti il libero accesso alle tecnologie informatiche durante la lezione, vietandolo agli altri. Subito dopo hanno svolto a sorpresa un test e i primi hanno fatto peggio. Certamente bisogna fare ricerca, perché questi risultati sono molto limitati. Non si può però accettare di spendere in maniera totalmente acritica tutte le risorse che vengono investite negli strumenti digitali. Come si fa ricerca per l’introduzione di una nuova medicina sul mercato o per l’introduzione di un sistema di sicurezza sulle auto, così bisogna fare anche per la scuola. Va applicato, insomma, il principio di precauzione.

esso abbia valore, deve anche dimostrarlo. Ad esempio, se il design del libro tende a scimmiottare un sito web, è molto difficile poi far passare la tesi che il manuale cartaceo abbia un suo valore. Di questo abbiamo parlato anche con il filosofo Achille Varzi. Ad esempio, i manuali di logica in circolazione vanno dal semplice al complesso, sembra ovvio. In realtà ci sono dei vantaggi nell’insegnare la logica dal complesso al semplice, dai risultati metalogici all’indietro verso i fondamenti. Oltretutto, impostando al rovescio, si potrebbe dire in quaranta pagine ciò che prima si diceva in trecento, lasciando il resto agli approfondimenti. Mi parrebbe interessante fare manuali al rovescio che portano direttamente al cuore dei problemi. Un’altra cosa importante che andrebbe fatta, su un altro fronte, è proporre un approccio da ricerca su tali questioni. Mettere intorno al tavolo soltanto gli industriali, i sindacati, i genitori, gli insegnanti non basta: bisogna metterci anche la ricerca. La tentazione sempre maggiore è quella di utilizzare degli indicatori semplici: quanti computer per studente, quante LIM per scuola e così via. Per capire a fondo la situazione servono invece indicatori più sensibili e intelligenti. Per svilupparli però serve la ricerca: bisogna inventare e programmare. C’è infine una considerazione più generale, se si vuole di tipo umanistico, sul significato dell’istruzione e su cosa vuol dire tenere per almeno dieci anni degli studenti in una classe e cosa vuol dire farli crescere in questo ambiente. È una responsabilità che abbiamo: sono studenti della scuola dell’obbligo, hanno una libertà molto vincolata e non è giusto dare meno che il meglio ai ragazzi e alle ragazze che si trovano in questa condizione. E non dimentichiamo che la scuola deve essere esemplare: formare buoni cittadini non è solo formare persone in grado di usare l’ultimo tipo di tecnologia, ma persone in grado di adattarsi, guardare avanti, dotate di anticorpi per le situazioni impreviste che il futuro ci riserva.

D: Il Decreto Crescita (ottobre 2012) segna l’introduzione di strumenti integrativi digitali per i libri scolastici. Nel decreto firmato dal ministro Profumo (marzo 2013), si prevede l’adozione di libri in versione digitale o mista a partire dal 2014-15. L’attuale ministro Carrozza ha posto un freno al decreto, ritenendo che l’accelerazione impressa fosse eccessiva. Come si può impiegare il tempo “in più” che il ministro ha reso disponibile? R: Mettiamola così: il Decreto Crescita ci mette una pressione virtuosa per ripensare certi aspetti della didattica. È una sfida, ma è una sfida interessante. Non è affatto detto che la scuola debba stare seduta sui manuali di carta e non fare niente. Le idee ora in circolazione sono abbastanza povere, pensiamo a quella della digitalizzazione in blocco dell’intero testo. Invece il manuale cartaceo potrebbe essere ripensato seriamente. Se il difensore del libro di carta pensa che

▶ Roberto Casati è direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique all’Institut Nicod di Parigi. Collabora al Domenicale del “Sole 24 Ore” ed è autore di numerosi saggi, tra cui Buchi e altre superficialità (con Achille Varzi, Garzanti 1996) e La scoperta dell’ombra (Mondadori 2001). Nel 2013 ha pubblicato per Laterza il saggio Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere. ▶

Gian Paolo Terravecchia è cultore della materia all’Università di Padova e docente di filosofia al Convitto Nazionale Paolo Diacono di Udine.

9

RICERCA5_9_ultimo.indd 9

30/09/13 16.12


SAPERI

Quali piattaforme per la scuola digitale? Nel dibattito sul digitale le piattaforme di fruizione dei libri di testo e dei contenuti di apprendimento fanno la parte della cenerentola. E senza requisiti di “interoperabilità” finiscono per diventare una babele di strumenti incapaci di dialogare tra loro.

N

el discutere di libri di testo digitali e – più in generale – dell’uso in ambito scolastico di contenuti di apprendimento digitali, c’è un aspetto che sembra essere spesso del tutto ignorato, o discusso senza una reale percezione del suo rilievo e della sua portata: quello delle piattaforme di fruizione. Eppure, come cercherò di mostrare, una corretta considerazione di natura, caratteristiche, funzionalità delle piattaforme di fruizione costituisce un indispensabile prerequisito per definire politiche di innovazione didattica serie, realistiche e sostenibili. Sappiamo tutti che, quando si parla di contenuti digitali, le dimensioni da considerare – quelle che contribuiscono a definire le caratteristiche dell’esperienza di fruizione dei contenuti – sono essenzialmente tre1. La prima è quella legata agli stessi contenuti informativi, alla loro tipologia, alla loro organizzazione (è in base a questa considerazione che distinguiamo, ad esempio, un contenuto lineare da uno organizzato in forma ipertestuale, o un libro di testo multimediale da un libro di testo solo testuale, e che distinguiamo queste ultime due tipologie da un learning object o comunque da una risorsa di apprendimento granulare e di minore complessità). La seconda è quella legata ai dispositivi di fruizione (e dunque alle caratteristiche dell’hardware utilizzato, alle sue potenzialità, alle sue modalità d’uso; è in base a questa considerazione che distinguiamo, ad esempio, un pc da tavolo da un tablet, ma anche la fruizione lean forward propria di dispositivi come i pc da tavolo da quella lean back possibile nel caso del tablet2. La terza è quella legata alle piattaforme di fruizione e alle loro funzionalità software (è in base a questa considerazione che possiamo ad esempio interrogarci sulle modalità per inserire annotazioni o sottoli-

neature all’interno di un libro di testo digitale, o su come si tenga traccia del progresso fatto dall’utente nella lettura). È chiaro che nel progettare esperienze concrete – e ancor più politiche generali – legate all’uso di contenuti di apprendimento digitali, occorre considerare attentamente tutte e tre queste dimensioni. Non si tratta solo di scegliere un libro di testo digitale, o una specifica collezione di learning object, o l’uso di determinate tipologie di risorse di rete: si deve anche capire quali dispositivi dovranno essere utilizzati per fruirne (pc, LIM, netbook, tablet? Con quali caratteristiche?), e quali piattaforme e funzionalità software sono disponibili per garantire l’accesso a quei contenuti (l’accesso avviene in locale oppure on-line? Si utilizza un programma composto da moduli diversi, una app, un browser? La piattaforma può essere usata anche per accedere ad altri contenuti dello stesso tipo, magari provenienti da fonti diverse? E cosa consente di fare?). Indubbiamente, le tre dimensioni che abbiamo ricordato si influenzano a vicenda: alcuni aspetti della piattaforma dipenderanno dalla natura dei contenuti ai quali la piattaforma stessa è dedicata e dalle possibilità dell’hardware sul quale è implementata, e alcune scelte relative alla tipologia e all’organizzazione dei contenuti saranno legate a loro volta alle funzionalità offerte dalla piattaforma e alla tipologia dei dispositivi utilizzati. Così, per fare solo un esempio, un e-book multimediale sarà di norma pensato per la fruizione attraverso un tablet e non attraverso un dispositivo a inchiostro elettronico, che – almeno allo stato attuale di evoluzione di questa tecnologia – non consente la riproduzione fluida di filmati e animazioni, e nella maggior parte dei casi è limitato alla riproduzione in scala di grigi, senza la possibilità di visualizzazione dei colori. E indubbiamente queste stesse tre dimensioni convergono poi in una esperienza unitaria: la fruizione di questo o di quel contenuto, attraverso questo o quel dispositivo e utiliz-

▶ Gino Roncaglia La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 10

10

30/09/13 16.12


SAPERI zando questa o quella piattaforma. Ma se vogliamo definire o descrivere delle politiche – o anche solo degli esempi – di uso di contenuti di apprendimento digitali nell’ambito di concrete situazioni formative, non possiamo fare a meno di indicare di quali contenuti si tratti e come siano organizzati, su quali dispositivi vengano fruiti e utilizzando quale tipologia di piattaforma software.

si e relativamente a tipologie diverse di contenuti. Le convenzioni usate per evidenziare un passaggio, suggerire un rimando, proporre un esercizio interattivo potranno essere anch’esse radicalmente diverse. E così via. Il risultato rischia di essere la produzione di una babele di strumenti totalmente incapaci di dialogare fra loro (o, come si dice tecnicamente, non interoperabili), che non sarebbe affatto banale usare in modo ragionevolmente uniforme e coordinato. Eppure, leggendo le riflessioni e le indicazioni più diffuse – comprese quelle ministeriali – sull’uso di risorse di apprendimento digitali, si cercherebbe invano una discussione di questo problema. Di fatto, editori diversi sono oggi impegnati – con investimenti finanziari enormi – nello sviluppo di piattaforme proprietarie diverse, che fanno un po’ tutte le stesse cose, ma le fanno in modi diversi e senza dialogare fra loro. Si tratta di una scelta irrazionale, che sposta l’attenzione degli editori dalla produzione, selezione, organizzazione, validazione, distribuzione di contenuti di qualità – che dovrebbe rappresentare il loro mestiere specifico – alla creazione di software, trasformando almeno in parte la concorrenza sui con-

La babele delle piattaforme Quelle svolte finora possono sembrare considerazioni di buon senso e non particolarmente originali. Ma è sorprendente vedere quanto spesso vengano disattese, e – più in particolare – quanto spesso venga ignorata la dimensione costituita dalla piattaforma software. Così, ad esempio, si parla molto di uso dei tablet nella didattica, e si parla molto delle tipologie di contenuti di apprendimento utilizzabili su tablet. Ma spesso – anche in documenti che dovrebbero fornire linee di indirizzo e indicazioni sulle politiche da seguire – non si parla affatto di piattaforme, dando apparentemente per scontato che i fornitori di contenuti da un lato, i fornitori di hardware dall’altro si occupino del problema: i fornitori di contenuti, “impacchettando” i contenuti all’interno di un programma che ne consenta la fruizione, i fornitori di hardware, fornendo – preinstallato – un sistema operativo che consenta a quel programma di funzionare. Si tratta tuttavia di una impostazione radicalmente sbagliata. Per rendercene conto, basterà riflettere per un attimo sulla tanto dibattuta questione dei libri di testo digitali. Siamo tutti interessati, credo, a mantenere la “bibliodiversità” del sistema dell’editoria scolastica e semmai a moltiplicare i soggetti in grado di produrre contenuti di apprendimento di qualità. Possiamo dunque supporre che in una classe, per lo studio di materie diverse (e a volte anche di una stessa materia), siano in molti casi utilizzati e-book di testo e contenuti di apprendimento di origine diversa, realizzati da editori diversi, e in qualche caso magari autoprodotti3. Ma è davvero ipotizzabile che gli studenti di quella classe siano costretti a utilizzare – per poter fruire di quei libri di testo e di quei contenuti – cinque o sei piattaforme diverse, prodotte da editori diversi, ciascuna delle quali dotata di funzionalità specifiche e probabilmente anche di implementazioni specifiche di molte fra le funzionalità comuni? È facile, ad esempio, prevedere che tutte quelle piattaforme consentiranno di annotare un contenuto… ma lo faranno magari in modi diversissimi. Molte consentiranno di aggiungere risorse integrative, ma anche in questo caso potrebbero farlo in modi diver-

La TEAL (Technology Enabled Active Learning) Classroom al MIT, Boston, www.educause.edu.

La pianta di un’aula a tecnologia multimediale sperimentata al MIT, il Massachusetts Institute of Technology di Boston. Gli studenti lavorano in gruppi di tre e si confrontano con altri due gruppi attorno allo stesso tavolo. Il sistema permette di coinvolgere contemporaneamente ben 117 studenti, sparsi attorno a 13 tavoli. Al centro vi è la postazione dell’insegnante che controlla la diffusione delle informazioni attraverso i numerosi video collocati sulle pareti. 11

RICERCA5_9_ultimo.indd 11

30/09/13 16.12


SAPERI| Quali piattaforme per la scuola digitale? tenuti in concorrenza sulle tecnologie; una scelta che tende a emarginare le realtà editoriali indipendenti e più deboli (non in grado di affrontare le ingenti spese necessarie per restare al passo dei concorrenti più ricchi rispetto allo sviluppo delle piattaforme di fruizione); una scelta che aumenta esponenzialmente i costi dei contenuti prodotti (rendendo in molti casi i contenuti digitali assai più cari di quelli tradizionali); una scelta che indebolisce, e indebolisce gravemente, l’efficacia didattica dei contenuti prodotti, la cui fruizione richiede una fase iniziale di familiarizzazione con ambienti software diversi e spesso non particolarmente intuitivi; una scelta infine che frena lo sviluppo di molte fra le caratteristiche avanzate e innovative che potrebbero essere implementate in una piattaforma, e non lo sono perché nessun singolo editore può permettersi – da solo – i necessari investimenti.

del docente sulla personalizzazione dei percorsi di apprendimento, comunicazioni dal docente a uno o più studenti e viceversa, comunicazioni dalla scuola agli studenti e così via); dovrebbe consentire non solo la creazione ma anche la gestione condivisa di annotazioni su tutti i contenuti di apprendimento; dovrebbe offrire funzioni di diario, quaderno e agenda, nonché funzioni di social reading e di condivisione di contenuti su social network; dovrebbe essere aperta all’inclusione di contenuti di apprendimento di tipologia diversa e provenienti da fonti diverse (distinguendo in particolare e-book di testo e risorse integrative), e permettere di collegarli in lesson plan e timeline; dovrebbe offrire funzioni avanzate di ricerca trasversale su diverse tipologie di contenuti; dovrebbe essere capace di raccogliere e aggregare flussi (feed) di notizie selezionate in base alla fonte e/o in base a parole chiave; dovrebbe consentire il tracciamento di alcune delle attività dei discenti e dovrebbe potersi interfacciare con i registri elettronici dei docenti, e così via. Si tratta in sostanza di creare un vero e proprio sistema operativo per l’apprendimento, che possa essere largamente condiviso e consentire l’accesso a un vasto spettro di contenuti, non di costruire la piattaforma proprietaria di questo o di quell’editore. Chi deve svolgere questo lavoro, e come? Se sembra difficilmente ipotizzabile l’imposizione dall’alto di “piattaforme uniche”, occorrerebbe tuttavia quantomeno prevedere a livello ministeriale la definizione di requisiti di interoperabilità assai stringenti. Ad

Tutto ciò che una piattaforma dovrebbe fare In particolare, la questione delle funzionalità delle piattaforme rappresenta un tema molto rilevante. Una buona piattaforma di fruizione, infatti, non dovrebbe limitarsi a consentire di sfogliare un e-book e magari di annotarlo o di costruire qualche link da una risorsa all’altra. L’insieme delle funzioni che potrebbero essere affidate a una piattaforma di fruizione è assai più ampio: una buona piattaforma dovrebbe ad esempio permettere di gestire anche l’interazione scuola-docente-studenti-famiglie (assegnazione di compiti, visualizzazione di risultati, indicazioni

La Active Learning Classroom del CIT (Centre for Instructional Technology) presso l’Università Nazionale di Singapore, blog.nus.edu. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 12

12

30/09/13 16.12


SAPERI esempio, prevedere che le piattaforme debbano basarsi su architetture aperte e non proprietarie; debbano essere in grado di accettare testi e contenuti di qualunque provenienza – editoriale e non – almeno nei formati ePub3, HTML5, TXT, ODT e PDF, nonché nei principali formati video e audio; debbano offrire strumenti comuni di annotazione per tutti questi formati (con possibilità di esportazione e importazione delle annotazioni); debbano offrire strumenti di embedding e aggregazione per i feed RSS (che potrebbero essere utilizzati come “lingua franca” per molte tipologie di comunicazione) e così via. Gli editori – abituati a una concorrenza a tutto campo – sembrano oggi in troppi casi incapaci di riconoscere la necessità di convergere verso soluzioni condivise e interoperabili, o almeno incapaci di muoversi concretamente in questa direzione. Ma in un contesto che preveda esplicitamente requisiti di interoperabilità del tipo di quelli appena ipotizzati, potrebbero essere spinti a una maggiore collaborazione, magari demandando a soggetti terzi con competenze specifiche la realizzazione delle piattaforme di fruizione, in modo da tornare a concentrarsi sui contenuti. Credo che muoversi in questa direzione rappresenterebbe un vantaggio per tutti.

perché non sia rilevante (anche in sede di uso didattico), ma perché riguarda la sfera giuridico-normativa più che quella strettamente legata al design delle situazioni di fruizione dei contenuti. Ciò non toglie, naturalmente, che considerazioni legate al DRM influenzino alcune delle funzionalità offerte dalle piattaforme di fruizione. 2. Sulla distinzione tra fruizione lean forward e lean back si veda il mio La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 14-18. 3. Ho discusso e argomentato altrove le ragioni per cui – mentre riconosco e difendo il grande interesse potenziale di singoli contenuti di apprendimento autoprodotti o disponibili come risorse in rete (auspicabilmente risorse aperte: Open Educational Resources, OER) – credo invece che la funzione di filo conduttore complesso e articolato e di punto di riferimento per le attività didattiche svolta dal libro di testo (sia esso cartaceo o digitale) richieda un processo di produzione, selezione, validazione legato a competenze specificamente editoriali, e una forma di autorialità forte e qualificata. Cfr. Gino Roncaglia, Come cambiano gli strumenti della didattica, in “La vita scolastica”, anno 67, n. 10, giugno 2013, numero speciale Scuol@ 3.0, pp. 11-14.

▶ Gino Roncaglia insegna informatica applicata alle

discipline umanistiche presso l’Università degli Studi della Tuscia, dove dirige anche il master in primo livello in e-learning e un corso di perfezionamento sul futuro del libro. Tra le sue pubblicazioni recenti, il libro La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza 2010).

NOTE: 1. Una quarta dimensione, quella costituita dal tipo di licenze che proteggono i contenuti e ne regolamentano la possibilità di copia e di redistribuzione (Digital Rights Management – DRM), non ci interessa direttamente in questa sede: non

Le nuove tecnologie sembrano quasi sempre determinare la scomparsa della classe, la cui unità è spezzettata in numerosi piccoli gruppi autonomi con una composizione numerica, mai superiore alle otto o nove unità, appositamente pensata per favorire l’interscambio e la partecipazione personale. Ovviamente tutti i gruppi possono condividere con gli altri i loro risultati facendoli confluire sulla lavagna centrale, usata anche dall’insegnante, al centro della sala, per coordinare il lavoro comune.

13

RICERCA5_9_ultimo.indd 13

30/09/13 16.12


SAPERI

L’istruzione digitale in Italia e negli USA L’uso del digitale nell’istruzione ha tanti volti. Michael Feldstein, esperto di educational technology, ne conosce parecchi. Il suo è uno sguardo privilegiato sugli States, con qualche incursione nel panorama italiano.

I

n una vita precedente è stato un insegnante di scuola media e superiore: così si legge in fondo al suo profilo on-line. Oggi Michael Feldstein è un consulente, un esperto di strumenti educativi digitali e di e-learning, che lavora con scuole, case editrici, fornitori di prodotti digitali e istituzioni che operano nel campo dell’istruzione. In mezzo, tra la vita precedente e questa, una serie di esperienze professionali lo portano dal mondo delle piattaforme di apprendimento on-line all’Academic Enterprise Solutions di Oracle fino al Cengage Learning, società che offre soluzioni altamente specializzate per l’apprendimento. Autore di un blog, e-Literate, dedicato a “What we are learning about on-line learning… on-line” e comunicatore instancabile, ben lontano dall’immagine di un guru che dispensa enigmatiche pillole di saggezza, di recente Feldstein ha svolto attività di consulenza anche in Italia. Con il suo ventaglio di conoscenze e con la sua esperienza nel nostro Paese, ci aiuta a passare in rassegna alcuni punti nodali dell’avvento e del futuro del digitale nel mondo dell’istruzione.

e secondary schools (NdR: equivalente a scuole elementari, medie e superiori) perché la maggior parte di esse non può assumere consulenti. Di solito, quindi, aiutiamo le primary e secondary schools in maniera indiretta, ovvero lavorando con i fornitori affinché offrano prodotti migliori e con i legislatori affinché elaborino politiche migliori. A livello di università, aiutiamo i nostri clienti a prendere decisioni relative all’acquisto di prodotti tecnologici e a definire le strategie di sviluppo dell’insegnamento on-line. D: Tra gli insegnanti qual è l’atteggiamento prevalente nei confronti delle nuove tecnologie? R: Il panorama è molto vario. L’età media dei nostri insegnanti è più bassa rispetto all’Italia e l’utilizzo di smartphone e tablet è più diffuso, perciò nel complesso c’è più apertura. Tuttavia ci sono ancora moltissimi insegnanti che non hanno confidenza con le nuove tecnologie. D: Parliamo delle aziende che lavorano nel campo dell’istruzione, in particolare delle case editrici di scolastica. Il mercato sta cambiando rapidamente: come aiutate le aziende del settore e gli editori di scolastica? Quali sono le loro difficoltà principali? R: È una fase molto difficile per chi fornisce prodotti destinati all’istruzione. Tutti pensano che la tecnologia cambierà l’istruzione, ma non siamo ancora arrivati a questo punto. Quindi per le aziende è difficile capire a quali prodotti dare la precedenza o a quale velocità andare. Oltretutto per gli editori di scolastica è particolarmente difficile progettare bene i prodotti digitali. Questa attività richiede un rapporto con il cliente completamente diverso da quello consueto, nonché alcune abilità nuove. I clienti della mia società spesso arrivano da noi senza sapere nemmeno da che parte cominciare. Noi iniziamo aiutandoli a trovare le modalità che permettano loro di costruirsi delle competenze e di conoscere il mercato correndo il minor rischio possibile. Con i clienti che possiedono già certe abilità e hanno maggior esperienza, rivediamo le loro strategie e li aiutiamo a trovare il modo migliore per crescere stando al passo con le evoluzioni del mercato.

D: L’introduzione degli strumenti educativi digitali nelle scuole italiane si scontra con alcune difficoltà “pratiche” come la scarsa dotazione tecnologica delle classi. Qual è la situazione negli Stati Uniti? R: Le principali difficoltà delle scuole negli Stati Uniti sono molto simili a quelle delle scuole italiane. Infatti non tutti gli studenti possiedono device digitali, la maggior parte delle classi non ha a disposizione strumenti tecnologici o una buona connessione alla rete e molti insegnanti non hanno confidenza con le nuove tecnologie. Negli Stati Uniti siamo più avanti che in Italia nell’affrontare questi problemi, ma non siamo tanto avanti da poterli considerare risolti. D: Lei è un esperto di strumenti educativi digitali. In qualità di consulente, come aiuta le scuole? R: La mia società non lavora molto con le primary

▶ Michael Feldstein ▶ Intervista a cura della redazione La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 14

14

30/09/13 16.12


SAPERI insegnanti, studenti e genitori. E le case editrici si trovano nella posizione migliore per garantirlo.

D: Come vede il futuro a breve termine delle case editrici, diciamo nei prossimi cinque anni? R: Penso che le case editrici di scolastica abbiano davanti a sé un futuro luminoso nella misura in cui saranno in grado di sviluppare le abilità necessarie a realizzare ottimi prodotti digitali. Le case editrici possiedono una conoscenza profonda dei contenuti e del mercato e hanno un rapporto molto forte con i loro clienti, rapporto che possono ulteriormente rafforzare. Ma il primo ostacolo che devono affrontare consiste nel capire che per gli insegnanti e per gli studenti devono risolvere problemi diversi rispetto a quelli che erano abituati a risolvere con i libri cartacei. Il contenuto in sé diventerà sempre più difficile da monetizzare. Tuttavia gli editori possono aiutare gli insegnanti a lavorare meglio, per esempio offrendo loro la possibilità di tenere traccia dei progressi degli studenti e suggerendo attività di recupero che utilizzino sia i contenuti sia le funzionalità dei software. Questo avrà un valore molto rilevante per

D: Che rapporto c’è fra contenuto e design nei libri digitali? Il design modifica il contenuto? R: Nei libri digitali il design incide moltissimo sul contenuto, molto più che nei libri cartacei. Per lo studente lavorare con un libro di testo non è un processo strettamente lineare. Lo studente può leggere, sfogliare, saltare da un punto all’altro, ripassare ed esercitarsi. Questo è il motivo per cui nei libri scolastici è così importante l’aspetto grafico. Nell’ambiente digitale, dove il contenuto può muoversi ed essere interattivo e dove le dimensioni e le proporzioni dello schermo possono cambiare moltissimo, il design diventa ancora più importante. In linea di massima per gli studenti non è molto comodo usare i libri solo per qualche minuto per studiare in auto o sull’autobus mentre si va a scuola. Ma con i device digitali gli studenti e gli insegnanti possono fare delle piccole

Il Learning Support Service a disposizione degli studenti della School of International Letters and Cultures presso la State University in Arizona, https://asunews.asu.edu.

Nella scuola digitalizzata, la classe si trasforma in gruppo di ricerca; il docente può anche non essere presente, almeno in forma fisica, sostituito dalla “finestra sul mondo” costituita dallo schermo. 15

RICERCA5_9_ultimo.indd 15

30/09/13 16.12


SAPERI| L’istruzione digitale in Italia e negli USA “incursioni” nel contenuto perché è molto più facile farlo con uno smartphone o un tablet che con un libro voluminoso e pesante. Questo modifica sia il design sia il contenuto.

diffondendo soprattutto perché a livello di primary e secondary schools stanno aumentando le scuole virtuali di on-line learning e a livello di formazione postsecondaria (NdR: in genere non comprende l’istruzione universitaria) stanno crescendo i corsi on-line. Non vedo molti segnali che questo trend sia in rapida crescita in Italia. Le piattaforme LMS possono essere utili in contesti scolastici più tradizionali in quanto permettono di condividere documenti con gli studenti, continuare on-line le discussioni iniziate in classe, tenere informati i genitori, ma usare le piattaforme LMS per questi scopi può richiedere molto lavoro e una spesa consistente.

D: Uno dei principali vantaggi dei prodotti digitali è il fatto che siano user friendly. Nell’ambito dell’istruzione non si corre il rischio che ciò semplifichi troppo il processo di apprendimento o che lo studio si trasformi in intrattenimento? R: Non sono sicuro che gli insegnanti e gli studenti siano d’accordo sul fatto che un computer o uno smartphone siano più facili da usare di un libro. La tecnologia può essere difficile da utilizzare se non è concepita in modo ottimale. Il vero pericolo con i computer è che stiamo cominciando a pensare che possano sostituire gli insegnanti. I policy makers sono tentati di pensarlo quando le risorse per pagare gli stipendi degli insegnanti sono ridotte. In tal caso iniziamo a trasformare la nostra concezione di istruzione per adattarla a ciò che il computer sa fare bene: il che ovviamente è diverso da ciò che un insegnante sa fare bene. Questo tipo di tentazione al momento è più pericolosa negli Stati Uniti che in Italia, ma è una questione da tenere sott’occhio.

D: Negli Stati Uniti si stanno diffondendo i MOOC e recentemente in e-Literate, il blog su cui Lei scrive, si è discusso se i MOOC siano o meno una disruptive innovation. Lo sono? R: Penso che nessuno conosca la risposta. I MOOC sono stati molto utili nella formazione postsecondaria perché ci hanno costretto a mettere in discussione alcuni assunti sull’istruzione. È possibile insegnare in un unico corso a 160 000 studenti – numero registrato dal primo corso di robotica di Sebastun Thrun e Peter Norvig – e farlo bene? Gli studenti partecipano alla lezione e completano il lavoro se non ricevono un voto su quanto hanno fatto? Si può offrire gratuitamente un’istruzione di alto livello? Queste sono domande importanti e stimolanti che non era-

D: Si diffonderanno anche in Italia piattaforme LMS come ad esempio Moodle? R: Negli Stati Uniti le piattaforme LMS si stanno

Molti siti Internet dedicati alla scuola del futuro sembrano dare per certo il declassamento del docente, ridotto al più modesto rango di e-tutor. Il nuovo professore ha perso la sua millenaria centralità; ora è descritto come un “facilitatore”, un “accompagnatore”. Di fatto, fisicamente, non sta più davanti agli studenti ma alle loro spalle, in funzione di rinforzo, pronto a intervenire, ma solo quando per qualche motivo si interrompe il processo di autoapprendimento individuale dal computer. Un professore al lavoro nel CCI (Center for Classroom Innovation ) del Department of Education, Atlanta, Georgia, http://www.gadoe.org. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 16

16

30/09/13 16.12


SAPERI

no oggetto di discussione prima che si diffondessero i MOOC. Credo che si debba rispondere almeno ad alcune di tali domande prima di poter capire se in qualche modo i MOOC possono sostituire in determinate circostanze l’istruzione tradizionale.

LMS (Learning Management System): piattaforma applicativa che nell’ambito dell’e-learning permette di erogare corsi on-line; gestisce gli utenti e le statistiche, non i contenuti. Un esempio di LMS è Moodle.

MOOC (Massive Open Online Course): corso on-line che nell’ambito della formazione a distanza viene erogato gratuitamente ed è pensato per un grande numero di utenti che accedono ai contenuti solo attraverso Internet. Un esempio di MOOC è l’aula on-line di Coursera.

D: Che effetto hanno i Big Data sull’istruzione? R: Mettiamola così: dal punto di vista di un editore di scolastica in che modo vorreste sapere quali capitoli e esercizi dei vostri libri vengono assegnati dagli insegnanti, quali parti di testo vengono lette davvero dagli studenti, quali parti vengono rilette in preparazione di una verifica e quali parti aiutano veramente gli studenti a ottenere dei buoni risultati nelle verifiche? I Big Data possono offrire una risposta a questo tipo di domande.

Big Data: il concetto indica grandi aggregazioni di dati che possono essere impiegati per analisi e statistiche. “Grandi” per volume e per varietà, i Big Data si raccolgono facilmente grazie all’utilizzo diffuso del web.

ti del prodotto senza un evidente ritorno in fatto di qualità. I video ne sono un esempio. I rappresentanti commerciali di aziende concorrenti amano vantare «quanti video offre l’edizione di quest’anno». Che relazione c’è tra il numero di video e i risultati di apprendimento? Nessuna. Dall’altro lato le aziende tendono a spendere troppo poco per certi aspetti del prodotto come incorporare le esigenze dei clienti in fatto di design (customer design input) e provare il prodotto con gli utenti (user testing). Tutto è dominato dalle scadenze, così accade spesso che i prodotti vengano buttati sul mercato senza essere pronti.

D: I Big Data migliorano l’insegnamento? R: Dipende dagli insegnanti. I Big Data (e in generale la learning analytics, che concerne la raccolta e analisi di dati sulle attività di apprendimento) possono fornire agli insegnanti molte indicazioni su ciò che funziona e ciò che non funziona. L’insegnamento può essere una professione molto solitaria, nel senso che l’insegnante è l’unico “professionista” nella sua classe e non ha molte occasioni né molto tempo per condividere con i colleghi quanto ha imparato e per conoscere ciò che i colleghi hanno scoperto. I Big Data evidenziano dei trend fra molti studenti in molti corsi e suggeriscono nuove prassi per insegnare meglio. Ma sono di aiuto solo se gli insegnanti sono interessati a utilizzarli.

D: Qual è la principale sfida nell’ambito dell’istruzione per i policy makers? R: Capire che cosa funziona. I policy makers sentono messaggi confusi e contraddittori riguardo ciò che la tecnologia può fare per l’istruzione e riguardo i suoi limiti. Questo è il motivo per cui, ad esempio, nelle prime versioni dell’Agenda Digitale italiana è stata posta grande enfasi sull’incremento dell’interattività e sui video e nel contempo sull’abbassamento dei costi. La tecnologia può aiutare a migliorare i risultati di apprendimento e può anche ridurre i costi, ma è molto difficile che le due cose avvengano simultaneamente. I policy makers devono avere un’idea realistica di ciò che si può fare con la tecnologia e di quale tipo di formazione e di strumenti aiutano gli insegnanti a utilizzare concretamente la tecnologia in classe. Questo è difficile.

D: Come valutate i risultati di apprendimento determinati dall’uso di prodotti digitali? R: La verità nuda e cruda è che raramente valutiamo l’effetto di qualsiasi prodotto sui livelli di apprendimento, in parte perché farlo è difficile e costoso. Voi come valutate l’effetto di un libro cartaceo sui risultati di apprendimento? Di fatto può essere più facile compiere tale valutazione con certi prodotti digitali poiché si può vedere ciò che gli studenti hanno fatto davvero con questi prodotti e quali punteggi hanno ottenuto. Ma ci sono numerosi fattori che influenzano i risultati di apprendimento, molti dei quali non hanno nulla a che fare con il prodotto e rimangono invisibili per chi ha creato il prodotto.

▶ Michael Feldstein è formatore ed esperto di stru-

menti educativi digitali. Insieme a Phil Hill ha fondato la società di consulenza MindWires. Senior Program Manager di MindTap (Cengage Learning), ha lavorato presso SUNY Learning Network e Oracle. Scrive sul blog e-Literate.

D: Qual è il rapporto tra i costi di produzione e la qualità del prodotto finito? R: Non c’è un rapporto semplice e diretto tra il costo e la qualità dei prodotti educativi digitali. Da un lato i fornitori tendono a spendere troppo per certi aspet17

RICERCA5_9_ultimo.indd 17

30/09/13 16.12


SAPERI

I nuovi media e l’educazione alla scelta Luoghi magici o ambienti ricchi di insidie, i nuovi media sono un mondo in cui i giovani rischiano di smarrirsi. La comunicazione cambia e le tecnologie digitali riconfigurano le relazioni fra insegnanti e studenti. Il ruolo della media education tra nuove forme di inconsapevolezza e disagio.

P

arlare di nuovi media, oggi, significa avventurarsi in un mondo di una complessità decisamente difficile da gestire, anche solo a livello mentale: pensare di conoscerli a fondo utilizzando gran parte delle loro funzioni risulta oltremodo complicato. Tuttavia, una delle capacità più determinanti è legata alla motivazione di mettersi in gioco con una buona dose di curiosità. I nuovi media, in special modo i social network e i videogame, possono trasformarsi in luoghi magici oppure in ambienti ricchi di insidie. La cronaca ci offre ormai una drammatica sequenza di episodi che, in qualche modo, si tramutano in vere e proprie tragedie. Spesso, però, sono i medesimi professionisti della comunicazione a utilizzare gli stessi media in modo strumentale. Di conseguenza le famiglie e il mondo della scuola cercano di controllare la situazione con occhio guardingo senza possibilità di venirne a capo. Sostenere che «i ragazzi non hanno voglia di partecipare» significa cadere in un equivoco davvero imbarazzante. L’impegno è un investimento di energie nella direzione di un orizzonte personale o comune che, talvolta, si mostra offuscato dalle nebbie dell’incertezza e dell’indeterminatezza. Teniamo presente che i nostri ragazzi, figli, allievi, sportivi e così via, di paesaggi ne vedono molti (affacciati perennemente alla finestra del grande ipertesto multimediale) e quindi pare non esserci un problema di opportunità bensì di valutazione consapevole di ciò che si presenta al loro sguardo. L’attrattiva degli ambienti digitali non può e non deve rappresentare un problema: la questione sta nella capacità di scegliere, nella consapevolezza del gesto, nella responsabilità di ciò che potrebbe accadere. Consideriamo anche il fatto che molti di questi paesaggi “stilizzati” non è dato sapere se siano rappresentazioni più o meno fedeli di realtà, vaghe vero-

simiglianze o pure e semplici invenzioni. Pensando a Facebook, il dubbio è di rigore: con chi sto parlando? Che cosa mi vuole dire il mio interlocutore? Che contributo posso dare a questo gruppo? Che ruolo occupo? Come mi vedono? Tutto ciò che accade quali legami presenta con la realtà? E così via. Il sistema categoriale di giudizio è pertanto costantemente messo alla prova: gli adulti faticano a riconoscere i ragazzi come vittime di una sorta di sindrome di Stendhal nei confronti del mondo, un misto di fascinazione, inettitudine e disorientamento valoriale. L’impegno e anche la partecipazione potrebbero aver subito un blocco in relazione a uno stato che i ragazzi vivono combinando senza soluzione di continuità la loro quotidianità fatta di ambienti reali (famiglia, scuola, gruppi sportivi e religiosi) e luoghi costituiti da mescolanze di realtà, verosimiglianza e finzione (il mondo dei media, soprattutto tv, web, cinema, fumetti e videogiochi, intrecciato alle loro esperienze personali). Dunque non si tratterebbe di mancanza di propensione alla partecipazione bensì di difficoltà a percepire direzione e traiettoria. Sono molte le domande da porsi Insegnanti e genitori, talvolta in prima linea, talaltra arroccati nelle retrovie, da tempo si sono accorti che qualcosa occorre pur fare per aiutare questa generazione a orientarsi in questo enorme sottobosco di opportunità e pericoli. Noi pensiamo che nell’attuale fase storica, per svolgere al meglio il ruolo di affiancamento ai ragazzi, manchino tre elementi di base, che consistono nel trasmettere loro la capacità progettuale, la comprensione del presente e, di conseguenza, nel suggerire una o più traiettorie verso le quali dirigere il proprio percorso di vita. Il risultato dell’assenza di questi elementi potrebbe portare, dunque, al disinvestimento, al desiderio di stabilità (per far fronte all’instabilità di ciò che li circonda), all’individualismo e alla passività: appunto, una sorta di smarrimento misto a confusione, sconcerto e turbamento.

▶ Alberto Parola La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 18

18

30/09/13 16.12


SAPERI A questo punto, sarebbero molti gli aspetti da analizzare poiché davvero i nuovi media pongono in gioco il nostro sé in tutti i suoi elementi costitutivi, cognitivi, emotivi e sociali con soluzioni e composizioni nuove e sorprendenti: occorre domandarsi se i ragazzi sono in grado di interpretare correttamente queste realtà, se riescono a cogliere le sfumature di una comunicazione autentica, fatta di voci e di corpi, se il loro stile cognitivo di approccio alla conoscenza si è spostato davvero verso quello visivo o se stanno incominciando a imparare diversamente, se il desiderio di connessione permanente invoca e determina un confuso intreccio tra vantaggi emotivi e limiti cognitivi, favorendo lo sviluppo di conoscenze e competenze, ma influendo negativamente sull’autenticità dei vissuti. E, ancora, se le abilità di base si esprimono una per volta, su un singolo livello, mentre le competenze devono fare i conti con la gestione complessa di strumenti, codici, livelli e rappresentazioni, se le “distanze” e le “presenze” perdono i significati originari e ne acquistano altri, costruiti su un rapporto ponderale sempre diverso tra pensieri, intenzioni, motivazioni, emozioni e sensazioni, e così via. Queste sono solo alcune delle domande che oggi possiamo porci, ma in effetti potrebbero essere molte di più.

efficace per questi “nuovi mondi” e livelli di realtà e pseudorealtà che si intersecano creativamente. Se consideriamo che la comunicazione si è rapidamente complessificata ed è costituita sostanzialmente da incontri a distanza, sincroni e asincroni, e in presenza con differenti strumenti e modalità distinte (testuali e audiovisive), possiamo dunque sostenere che davvero qualcosa sia cambiato anche da un punto di vista dell’approccio cognitivo ed emotivo alla comunicazione. Una comunicazione in presenza si risolve in una quantità enorme di segnali non verbali, e tra questi quelli prossemici, legati alla gestione dello spazio. A distanza tutto cambia poiché taluni di questi segnali (gestuali, vocali e legati all’immagine esteriore) resistono proprio grazie alla presenza delle immagini digitali (statiche o in movimento), ma vengono consapevolmente (e in parte inconsapevolmente) alterate e contaminate in base ai destinatari e all’idea che si ha di sé. In altre pubblicazioni, quali Il destinatario immaginario (2008), abbiamo pensato di formulare il concetto di “riconfigurazione prossemica” della relazione con l’altro. Ciò accade (o può accadere) negli ambienti informali quali Facebook, ma anche nei contesti educativi e formativi formali, come la scuola: noi siamo convinti del fatto che gradatamente le nuove tecnologie digitali stiano riconfigurando, appunto, le relazioni anche tra insegnanti e studenti e i medesimi spazi all’interno della scuola divengono, auspicabilmente, più flessibili e si arricchiscono di spazi fisici e mentali anche fuori dalle mura degli istituti. In taluni casi, e soprattutto quando l’insegnante comincia a sentire la fatica dopo una lunga carriera e gli allievi mostrano poco feeling con le materie insegnate, investendo poca o nessuna energia, in sostanza ritirando

La prossemica a distanza della rete Tali quesiti ci portano a pensare alla vita dei ragazzi come a un videogame nel quale realtà e rappresentazione non si distinguono più. Gli adulti non sono in grado di svolgere correttamente il loro ruolo di educatori poiché sono i primi a rifiutare la complessità e la combinazione dei livelli, mentre intuiscono il disagio a cui non sanno assegnare un nome, perché attingono al glossario della loro esperienza, ormai poco

Tutti i nuovi edifici scolastici costruiti in Danimarca prevedono aule senza pareti divisorie in muratura (ma in vetro e removibili) e molti spazi aperti organizzati per la ricerca individuale. Lo scopo è anche stimolare i professori ad andare oltre la tradizionale lezione cattedratica. Interno della Monkseaton High School, Whitley Bay, Tyne and Wear, Inghilterra, www.monkseaton.org.uk. 19

RICERCA5_9_ultimo.indd 19

30/09/13 16.12


SAPERI| I nuovi media e l’educazione alla scelta interessi e passioni, allora possiamo asserire che, in quel momento, la scuola stessa diventi un «non luogo» (Augé 1992), quasi una sorta di «supermercato della conoscenza» (certamente non della competenza) nel quale gli individui si incontrano ma non comunicano. A noi piace pensare che la scuola, oggi, possa rilanciare l’idea di talento divenendo, anche un po’ utopicamente, a seconda delle opportunità, una “impresa sociale” e/o una “casa editrice” (mutuandone alcuni aspetti), un ambiente ricco di stimoli in cui insegnanti e ragazzi collaborano per contribuire attivamente alla cultura del proprio territorio comunicando, tuttavia, con tutto il resto del mondo, i loro punti di vista e le loro passioni. Da un punto di vista educativo, uno degli obiettivi più rilevanti è quello di trasformare l’inconsapevolezza dei soggetti in formazione (a livello cognitivo e metacognitivo, ma anche emotivo, come dicevamo poc’anzi) in capacità riflessiva, maggior attenzione e senso critico. Queste sono le finalità più importanti della media education, un campo di studio, di ricerche e di esperienze che considera i media come una risorsa fondamentale per la formazione di giovani e adulti: ciò aprirebbe loro nuove possibilità di «vedere il mondo» e di «saper stare al mondo», un’opportunità concessa dai nuovi strumenti digitali che tuttavia, per converso, possono contribuire a generare nuove forme di inconsapevolezza e un disagio sempre più confuso e sospeso (Parola 2008). Se pensiamo che i contatti basati sulle tecnologie siano “freddi” e le relazioni edificate sui cinque sensi presentino “temperature” molto più elevate, evidentemente crediamo vi siano due differenti paesaggi e microclimi, uno gelido e strutturato (senz’anima) e uno tropicale, fondato sul calore del corpo e della mente (in cui si gioca tutta la vitalità degli individui). In verità la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare ed è troppo semplicistico ridurre a due ambienti in opposizione il rapporto tra distanze e presenze. La “temperatura” di una relazione, invece, si può “misurare” anche in altri modi, ad esempio con la creatività, la qualità dei messaggi, la capacità immaginativa, il potere delle attese, delle aspettative e della condivisione, solo per citare alcuni aspetti della comunicazione che si tende a trascurare. L’ambiente digitale non è semplicemente circoscrivibile a un uso passivo del computer (e degli smartphone), bensì è composto da una serie di elementi creativi e interattivi che lasciano intravvedere qualcosa di più che non un freddo e rapido invio di messaggi sconnessi e grammaticalmente scorretti. Il digitale è dunque un luogo in cui si gioca comunque La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 20

gran parte della natura umana, compresi i sentimenti, gli affetti, i vissuti e l’intelligenza degli individui. Sarebbe riduttivo pensare che esso limiti le relazioni tra le persone: senza ombra di dubbio è un’opportunità straordinaria, un territorio che in ogni caso consente incontri in presenza, pur sapendo che se i soggetti che lo abitano solitamente decidono, più o meno consapevolmente, di vivere “regioni” e “ragioni” della mente che travalicano quelle più naturali, fatte di corpi veri, allora potremo cominciare a dubitare dell’autenticità dei rapporti, nonché dell’organizzazione e gestione della quotidianità dei ragazzi. Seduzione ed empatia nella rete Per tale motivo i concetti di seduzione ed empatia ci aiutano a introdurre una riflessione che per motivi di spazio non potremo approfondire ma che, in ogni caso, ci consente di aprire la strada a un sintetico ragionamento e porre l’attenzione su un cambiamento che è naturalmente in atto, ma non necessariamente sfavorevole e dannoso. Le cronache relative al mondo della scuola ci restituiscono ciclicamente notizie legate alla produzione di video di alunni disabili e contenenti scene a sfondo sessuale ripresi con i cellulari e fatti circolare liberamente sul web, sino a giungere addirittura a suicidi indotti all’interno dei social media. Questo è ciò che emerge dai quotidiani e dai telegiornali, mentre fa sempre molta fatica a rendersi visibile la grande quantità di comunicazione funzionale ed empatica che scorre all’interno dei nuovi ambienti digitali, utile per far comprendere a fondo le potenzialità di questi mezzi. Il concetto di seduzione è talvolta concepito in modo negativo (pedofilia, tentativo di inganno, rapporti non o poco autentici e così via), mentre quello di empatia è sempre immaginato come molto distante dalle attività che si svolgono on-line. Per semplificare, immaginiamo il concetto di seduzione in alternanza, più che in opposizione, su una linea continua, a quello di empatia: estrapolando parte dei loro significati (e ipersemplificando), il primo può essere espresso con “attrarre a sé”, il secondo con “andare verso” e “sentire insieme”. I due aspetti presuppongono rispettivamente un desiderio di contatto e la coltivazione di un tentativo funzionale alla relazione, il secondo la propensione a una dualità emozionale. I social network, ad esempio, dispongono di strumenti di comunicazione predisposti a provocare e stimolare reazioni che gli individui, in questi anni, hanno dimostrato di saper utilizzare allo scopo di sviluppare approcci seduttivi ed empatici degni di studi e ricerche, fondati sullo scambio, la condivisione, la produzione di messaggi che, al di là del 20

30/09/13 16.12


SAPERI “mare retorico” orientato in parte all’espressione autentica, in parte al desiderio estetico di “esserci”, spesso tendono ad amplificare e rinnovare le sei funzioni della comunicazione di Roman Jacobson (referenziale, emotiva, conativa, fàtica, poetica e metalinguistica; Jacobson 1963): queste ultime sono strettamente riferibili alle competenze in relazione ai linguaggi cui la media education tiene in particolar modo. Tali funzioni, messe in gioco nel mondo digitale, contribuiscono a riconfigurare le modalità di sedurre (portare a sé in un’ottica partecipativa) e di essere in empatia con altri individui (coinvolgendo altri individui e condividendo con essi propensioni e curiosità). Potremmo sostenere che tali messaggi rappresentino un preludio a una relazione che può anche divenire significativa proprio perché mette in gioco i contorni identitari dei soggetti e può aprire a infinite possibilità. L’altra faccia della medaglia, la partita persa, è la tendenza a trasformare i destinatari dei loro messaggi in individui ideali, cioè semplici “persone-schermo” utili solo per costruire, in parte attraverso uno sterile esercizio di stile, la parte illusoria e narcisistica della loro personalità, mettendo in campo elementi esibizionistici (non solo in senso sessuale, bensì anche in riferimento all’emozione della curiosità in generale) che innescano dinamiche visionarie, corrotte e viziose (Parola e Ranieri 2010).

tivo necessario, che la strategia di ricerca educativa più congeniale, cioè la ricerca-azione, rappresenta la via regia all’attività scientifica all’interno del mondo scolastico (accompagnata comunque da altre strategie, ad esempio la sperimentale e l’interpretativa) ci si rende conto immediatamente del forte bisogno di formazione da parte degli insegnanti. Occorre tuttavia partire in parallelo con l’idea di incrementare la rete di collaborazioni formali e informali sul territorio, rinforzare il legame tra ricerca e produzione, condividendo con enti locali, produttori e società civile una cultura della qualità (di tutti i contesti che fanno comunicazione e educazione) sostenuta dalla ricerca e da nuovi strumenti di valutazione. Già da molto tempo sono stati studiati metodologie e strumenti utili per diffondere la cultura della media education: per far sì che siano davvero efficaci abbiamo bisogno che l’alleanza tra scuola, ricerca e famiglie si realizzi concretamente.

▶ Alberto Parola è docente di Pedagogia sperimenta-

le presso il dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino. I suoi principali interessi scientifici includono le metodologie della ricerca educativa, la media literacy e le tecnologie dell’educazione. È psicologo del lavoro e delle organizzazioni. Di recente ha pubblicato Media, linguaggi, creatività (Erickson 2013). È vicepresidente di MED (Associazione italiana per la Media Education) e codirettore della rivista scientifica “Media education: studi, ricerche, buone pratiche”.

Il ruolo dei nuovi educatori La media education può rappresentare per loro un valido approccio, al fine di entrare gradatamente dentro la complessità comunicazionale e educativa dei “luoghi digitali”, prendendo contatto con l’inevitabile evoluzione di una modalità differente di approcciare all’altro da sé. I media non sono solo veicolo di divertimento, leggerezza e cultura o un semplice supporto didattico, bensì divengono oggetto di studio, strumenti di scrittura e contesti formativi (Parola, Robasto, Trinchero 2011). La scuola non si può sottrarre al cambiamento ed è certamente in grado di cominciare a strutturare percorsi basati sull’asse dei linguaggi: infatti, le otto competenze chiave di Lisbona possono essere sviluppate con un intreccio continuo con gli altri tre assi culturali (matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale) e non prese di volta in volta singolarmente. Inoltre, diviene improrogabile un glossario che definisca le differenti competenze: disciplinari, trasversali, sociali e mediali (Ceretti, Felini, Giannatelli 2006), solo per citare le più diffuse e dibattute. Infine, se pensiamo che leggere e scrivere hanno assunto negli ultimi due decenni significati nuovi, che la verticalità si presenta sempre più come un obiet-

APPROFONDIRE

• • • •

M. Augé, Non-lieux, Seuil, Parigi, 1992 ; trad. it. Non-luoghi, Elèuthera, Milano, 1996. F. Ceretti, D. Felini, R. Giannatelli, Primi passi nella media education, Erickson, Trento, 2006. R. Jacobson, Essais de Linguistique Générale, Editions de Minuit, Paris, 1963.

• • •

A. Parola, Il destinatario immaginario. Distanze e presenze della comunicazione mediata, in “In-Formazione”, n. 3, Falzea, Reggio Calabria, 2008, pp. 13-17.

A. Parola, M. Ranieri, Media education in action, FUP, Firenze, 2010. A. Parola, Regia educativa, Aracne, Roma, 2012. A. Parola, D. Robasto, R. Trinchero, Osservare la Tv per produrre format di qualità, Rapporto di Ricerca Corecom Piemonte, 2011.

A. Parola, A. Rosa, R. Giannatelli, Media, linguaggi, creatività, Erickson, Trento, 2012.

21

RICERCA5_9_ultimo.indd 21

30/09/13 16.12


SAPERI

Perché l’innovazione è in difficoltà È coerente con l’interesse generale pensare che la totalità degli insegnanti introduca nella mediazione didattica strumenti digitali e processi di cui non è padrona? Se sperimentare è possibile, andare a regime non lo è: per i docenti ci vuole un coinvolgimento consapevole e convinto.

A

luglio il ministro Carrozza ha annunciato l’intenzione di sospendere l’obbligo di adottare libri in versione digitale. Questa scelta, messa in pratica nel Decreto Istruzione di settembre, pone fine, almeno per un certo periodo, alla sequenza di annunci e ritrattazioni, accelerazioni e frenate, iniziata con la legge finanziaria del 2008, che assegnava agli “e-book di testo prossimi venturi” una doppia valenza: risparmi per le famiglie e riduzione del peso degli zainetti; motivazione, quest’ultima, che – pur avendo grande e immediata risonanza mediale – ha poi perso visibilità, fino a essere del tutto o quasi dimenticata. La dichiarazione di luglio di Carrozza – e un improvvido e compiaciuto commento dell’AIE riportato da Repubblica.it1 – hanno immediatamente alimentato la polemica, in particolare le posizioni di coloro che assegnano all’ingresso delle tecnologie digitali nella didattica una valenza di innovazione metodologica certa e imprescindibile e di conseguenza connotano in modo altrettanto preconcetto e deterministico l’impiego delle strumentazioni tradizionali (libri in versione a stampa, carta e penna e – tutt’altro che ultime – lavagne di ardesia e gesso) di inverecondo conservatorismo e ignobile passatismo: caratteristiche fatalmente destinate a compromettere le capacità di apprendimento e il futuro sociale e professionale dei giovani del nostro Paese.

volta prescritti come obbligatori la scorsa estate, ai tempi della spending review, e prontamente rientrati nell’area dell’opzionale, con una nota del ministero dell’ottobre scorso2. La piena sostituzione della documentazione cartacea dei risultati di apprendimento degli allievi e delle motivazioni dei voti assegnati con equivalenti digitali aventi pieno valore legale è probabilmente e provvidenzialmente parsa a chi doveva mettere in atto il progetto impresa davvero affrettata e rischiosa. La questione, infatti, non è semplice come gli entusiasti del digitale e della modernità sembravano sostenere. Non solo e non tanto per la mancanza in molte scuole di dispositivi quantitativamente e qualitativamente adeguati – pc, tablet, reti di istituto, punti di accesso e così via. Ma anche – e soprattutto – perché le applicazioni attualmente utilizzate a titolo sperimentale in alcune scuole interessate a velocizzare la comunicazione con le famiglie non danno alcuna reale garanzia in merito ad autenticità, integrità, non ripudiabilità, archiviazione corretta ed effettiva producibilità in giudizio nei casi di contenzioso di quanto vanno via via determinando su supporto elettronico; tanto è vero che le soluzioni adottate sono tuttora la stampa su carta, il timbro e la firma autografa dei responsabili delle procedure da documentare, che prevedono anche registrazione, giustificazione, computo e contestazione delle assenze e dei ritardi degli studenti e vari altri aspetti della vita scolastica, considerata e descritta dal punto di vista della pubblica amministrazione.

Registri elettronici e pagelle on-line Gli irriducibili avversari della carta sembrano invece – per lo meno in questo periodo – essere assai meno interessati a un’altra possibile mutazione del profilo professionale docente, relativa non al versante pedagogico, ma a organizzazione, gestione, comunicazione e relazioni con le famiglie. Stiamo parlando del trasferimento della valutazione sul supporto digitale, di registri elettronici e pagelle on-line, a loro

A due velocità Le imbarazzanti vicende degli alias digitali dei libri scolastici, dei registri e delle pagelle che abbiamo rapidamente riassunto hanno in comune qualcosa di più del coinvolgimento nella vita quotidiana di insegnanti, studenti e famiglie. Da un punto di vista generale, infatti, esse propongono all’opinione pubblica e alle comunità educative un problema molto importante: può essere coerente con il principio dell’in-

▶ Marco Guastavigna La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 22

22

30/09/13 16.12


SAPERI teresse generale, che dovrebbe informare le politiche scolastiche e l’agire responsabile delle imprese, proporsi che la totalità degli insegnanti introduca nella mediazione didattica e nel complesso delle proprie prestazioni strumenti e processi di cui non è padrona sul piano culturale e cognitivo, prima ancora che operativo? Più concretamente e semplicemente: vi sono vantaggi per gli apprendimenti e per la comunicazione così evidenti e certi da giustificare le accelerazioni che si sono determinate costantemente negli ultimi lustri e sono state vissute da molti come forzature nella direzione della subalternità, dell’alienazione professionale? Il secondo quesito non trova al momento risposte affermative sufficientemente autorevoli, circostanziate e disinteressate. Per non parlare di casi paradossali, come il progetto istituzionale “Editoria digitale scolastica”3, che si proponeva di realizzare materiali esemplificativi mediante il confronto e la sinergia tra unità scolastiche selezionate e editori; esso ha invece prodotto risultati tuttora privi di trasparenza culturale. Al momento, insomma, non si può non convenire sul fatto che, se sperimentare in situazioni specifiche e limitate è certamente possibile, appare viceversa impossibile andare a regime. Per praticare innovazioni che coinvolgano l’intero sistema, occorrerebbero infatti la soluzione del problema delle risorse economiche e – soprattutto – un coinvolgimento consapevole e convinto di tutti coloro che sono, o potrebbero essere, interessati: potenzialmente l’intera popolazione studentesca, il personale docente e non, tutte le famiglie, ogni altro soggetto sociale coinvolto in un costante e fattivo dialogo con la scuola. Un capitolo a parte riguarderebbe poi la considera-

zione degli aspetti logistici e materiali conseguenti alle condizioni degli edifici. Del resto, il rapporto OCSE “Review of the Italian Strategy for Digital Schools”4, in merito al Piano Nazionale per la Scuola Digitale, presentato al MIUR il 6 marzo 2013, è molto chiaro: così non va. L’OCSE e il Piano Nazionale per la Scuola Digitale Risalente al 2007 e fiore all’occhiello istituzionale, il PNSD – messo sotto la lente nel rapporto internazionale commissionato dal nostro ministero – ha compreso fino a ora la diffusione delle lavagne interattive multimediali in tutte le scuole e tre sperimentazioni affidate a istituti pilota, selezionati con bandi: la già citata Editoria digitale scolastica e i progetti Cl@sse 2.0 e Scuol@ 2.0. Il report OCSE sottolinea in primo luogo che, da un punto di vista puramente quantitativo, le tecnologie digitali sono penetrate nella nostra scuola in misura davvero limitata. La primaria, ad esempio, ha 6 computer ogni 100 scolari (contro una media europea di 16), una percentuale identica a quella del 2006. Le aule in possesso di lavagne multimediali si attesterebbero al 16%: ai ritmi di incremento attuale, per raggiungere il livello del Regno Unito (80%) sarebbero quindi necessari – secondo i ricercatori OCSE – altri 15 anni. I finanziamenti erogati sono giudicati esigui rispetto a scopi e necessità: a partire dal 2007 sono infatti stati stanziati in tutto 120 milioni di euro, ossia meno dello 0,1% della spesa pubblica in istruzione e meno di 5 euro pro capite sull’insieme degli studenti. Nei momenti di polemica più feroce, molti commentatori improvvisati si accaniscono contro una Nelle nuove scuole danesi, considerate le più belle del mondo, la disponibilità di apparecchiature digitali quasi sempre si accompagna alla presenza di spazi estremamente confortevoli appositamente progettati per la ricerca individuale o più semplicemente per il relax.

Un interno dell’Ørestad College (l’equivalente danese del liceo), Copenaghen, Danimarca, http://navisen.dk. 23

RICERCA5_9_ultimo.indd 23

30/09/13 16.12


SAPERI | Perché l’innovazione è in difficoltà presunta inerzia degli insegnanti. Il rapporto propone invece una prospettiva diversa: le richieste di partecipazione ai piani di diffusione e ai bandi di scuola non hanno coinvolto tutti, come è noto, ma non possono essere annoverati tra le cause del gap tra l’Italia e altri Paesi europei. I docenti che vorrebbero essere coinvolti sono molti e hanno aspettative elevate. Poiché è davvero impensabile che il problema delle risorse sia facilmente risolvibile considerando la crisi economica, il rapporto suggerisce di utilizzare finanziamenti integrativi, mediante il coinvolgimento di enti locali e soggetti privati.

attività didattica, per definire percorsi riproponibili a tutta l’istruzione italiana. I ricercatori OCSE arrivano alla conclusione, apparentemente paradossale, di consigliare al MIUR la massima concentrazione sulla seconda iniziativa, nella quale far confluire tutte le risorse, abbandonando la prima. Anche se destinata a coinvolgere un numero limitato di unità scolastiche, solo la logica dell’estensione globale può, a giudizio dei ricercatori OCSE, produrre esiti e soluzioni in grado di andare davvero a regime, di produrre una verifica attendibile dell’efficacia di prototipi di libri di testo e di strumenti di valutazione digitali, di modalità di aggiornamento, di forme di organizzazione scolastica e così via. Una Scuola 2.0, infatti, può creare le condizioni per cui tutti partecipino in modo significativo al progetto, usino in modo costante e integrato le tecnologie, crescano professionalmente interagendo tra pari, facciano esperienza, collaborino, formulino ipotesi, si confrontino. La logica delle Classi 2.0 rischia invece separatezza, ambienti a rischio di autoreferenza, nel disinteresse del resto del contesto professionale. Si suggerisce anche di creare una rete di Scuole 2.0 e di garantire in ciascuna di esse un efficace sistema di documentazione e informazione, accessibile a esperti esterni: gli istituti pilota vanno infatti considerati veri luoghi di ricerca, da finanziare e monitorare come tali, con iniziative universitarie di indagine scientifica e analisi del PNSD.

Il rapporto OCSE sulla politica dei bandi 2.0 Il report non si limita a evidenziare il ritardo quantitativo, ma entra nel merito degli aspetti qualitativi. Suggerisce, ad esempio, di estendere il piano di diffusione a pc e proiettori, meno costosi delle lavagne interattive, e quindi più facilmente acquisibili da un numero maggiore di classi. La critica qui si fa davvero radicale: i progetti del ministero non sembrano in grado di coinvolgere tutti proprio per il modo in cui sono concepiti, dal momento che sono rarissime le occasioni di investimento su scuole intere. Come forse molti lettori sanno, ai vincitori del bando Cl@sse 2.0 è assegnata una somma forfettaria per una certa classe, mentre a quelli di Scuol@ 2.0 vengono fornite risorse destinate all’innovazione dell’intero istituto. Il rapporto sottolinea rispetto a questa circostanza una contraddizione che va risolta. La finalità dei due diversi progetti, infatti, è la medesima: la sperimentazione delle tecnologie digitali in ciascuna

Il rapporto OCSE su formazione e editoria Il report riserva alcune considerazioni anche all’erogazione della formazione e alla disponibilità di risorse didattiche digitali convincenti, dal momento che l’intenzione delle politiche scolastiche in proposito è quella di allargare l’impiego delle tecnologie digitali anche oltre la parte dei docenti più motivata e meglio preparata dal punto di vista metodologico. Nel caso delle lavagne interattive, il modello adottato fino a ora prevedeva una formazione obbligatoria di tre insegnanti per scuola; il rapporto propone di estendere il diritto a tutti: ogni istituto recupererebbe libertà di iniziativa e probabilmente anche la motivazione e le modalità per finanziare in proprio sia la partecipazione di singoli docenti a occasioni di aggiornamento esterne sia l’assunzione di esperti per la formazione di tutto il proprio personale. Nel caso degli strumenti didattici si suggerisce al MIUR di puntare a creare rapidamente un archivio nazionale, sulla base delle attuali realizzazioni su Internet di INDIRE; qualora fosse necessario, si potrà pensare anche alla traduzione di materiali di provenienza estera che si siano rivelati efficaci.

Studenti dell’Ørestad College, Copenaghen, Danimarca, http://navisen.dk. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 24

24

30/09/13 16.12


SAPERI Parallelamente, il ministero potrà proseguire a stimolare gli editori a produrre contenuti digitali efficaci. Quest’ultimo tema è particolarmente rilevante, sia perché il rapporto suggerisce anche di organizzare e valorizzare una piattaforma virtuale di scambio di contenuti ed esperienze, sia perché, mentre scriviamo, non sono ancora stati resi pubblici gli esiti delle ispezioni ministeriali sulla vicenda delle “Pillole del Sapere”, sulle quali sembra siano in corso anche indagini della magistratura. È urgente, insomma, che le istituzioni preposte all’innovazione recuperino credibilità culturale e deontologica.

Rapporto MOTUS

L’attività didattica quotidiana nel rapporto MOTUS Il rapporto OCSE raccomanda al ministero di allineare programmi di studio e valutazioni al nuovo contesto didattico, pubblicando linee guida con obiettivi di apprendimento specifici per ogni materia, correlati all’uso delle TIC, e di sviluppare strumenti espliciti di valutazione delle competenze digitali. Suggerisce, insomma, di uscire dalla genericità e di definire un profilo concreto per le attività e le pratiche didattiche quotidiane. Un interessante spaccato in proposito è contenuto nel rapporto MOTUS (Monitoring Tablet Utilization in School), recentemente pubblicato dal Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano5. Condotto su un campione di 8 scuole, il progetto di ricerca, coordinato dal professor Pier Cesare Rivoltella, verteva sull’uso del tablet nella scuola superiore di secondo grado e prevedeva, oltre al monitoraggio vero e proprio, anche un percorso di formazione e attività di accompagnamento degli insegnanti da parte di esperti durante il corso dell’anno scolastico. Dal nostro punto di vista sono particolarmente interessanti alcune risultanze del confronto tra il questionario iniziale, rivolto a studenti, famiglie e insegnante per indagarne usi effettivi e aspettative prima della sperimentazione, e quello finale, destinato solo ai docenti, per «rilevare cambiamenti nelle pratiche, elementi critici e rilievi positivi per quanto riguarda la loro esperienza diretta con il tablet». Sul fronte didattico, i professori inizialmente «pensano che la tecnologia necessiti di un cambiamento della cornice metodologica (quasi l’83% è completamente o molto d’accordo)» sia di un «rinforzo positivo in relazione alla motivazione (non è demotivante per l’80% circa), al rendimento (abbastanza d’accordo il 37,6% e molto d’accordo il 20,4%) e all’integrazione degli studenti stranieri (più del 62% degli insegnanti concorda su questo punto) e diversamente abili (ab-

Scrivere, disegnare e proporre esercizi, utilizzare software applicativi

17,71%

Proiettare documenti o materiali per la lezione

24,57%

Realizzare percorsi didattici interattivi (giochi interattivi, learning object, creazione di sequenze)

10,29%

Registrare le lezioni

4,00%

Navigare in rete per la ricerca di informazioni

29,14%

Comunicare in rete (forum, chat, instant messaging)

14,29%

bastanza d’accordo il 50,6%)». Infine e soprattutto, è opinione diffusa che «la tecnologia – in generale – non sostituisce gli strumenti didattici più tradizionali, ma va inserita in un contesto integrato (per il 70,2% non li sostituisce)». In tabella riproduciamo ciò che gli insegnanti di MOTUS dichiarano di aver realizzato nel questionario finale, che in generale mette in evidenza, a giudizio del gruppo di ricerca, come «spesso nell’utilizzo di un nuovo strumento si seguano logiche precedentemente sperimentate, quanto meno nella scelta delle attività» e appare quindi confermare la nostra idea secondo cui i docenti hanno necessità culturale e deontologica di condurre attività che governano in pieno e di cui comprendono il senso e il vantaggio operativo e cognitivo per gli allievi.

NOTE: 1. Cfr. Stop ai libri digitali a scuola, in http://www.repubblica.it. 2. MIUR, Prot. AOODPPR Reg. Uff. n. 1682/ U, in http:// www.istruzione.it. 3. Progetto “Editoria digitale scolastica”, in http://www.scuola-digitale.it. 4. Rapporto OCSE “Review of the Italian Strategy for Digital Schools”, in http://www.oecd.org. 5. Rapporto MOTUS, in http://www.cremit.it. Dal medesimo sito è possibile accedere alle registrazioni video della presentazione pubblica dei risultati della sperimentazione.

Marco Guastavigna è insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

25

RICERCA5_9_ultimo.indd 25

30/09/13 16.12


SAPERI

Sì al digitale, ma per migliorare la scuola Gli insegnanti e l’Agenda Digitale. Criticità e prospettive in un’intervista al segretario generale di FLC CGIL Domenico Pantaleo e al segretario generale di CISL Scuola Francesco Scrima.

L

e potenzialità e i rischi dell’innovazione digitale nelle scuole italiane, le misure necessarie che devono accompagnare l’integrazione delle tecnologie informatiche nella didattica: da un piano di investimenti certi nell’istruzione a un’azione adeguata di formazione degli insegnanti. Agenda Digitale, ritardi rispetto agli altri Paesi europei. E auspici. Abbiamo parlato di tutto questo con il segretario generale di FLC CGIL, Domenico Pantaleo, e il segretario generale di CISL Scuola, Francesco Scrima. Due leader dei principali sindacati italiani, che abbiamo intervistato per conoscere la loro posizione sulla scuola digitale.

meno è la teoria, ma il riscontro in termini di realtà non è da darsi per scontato. D: Chi compra, chi fornisce le LIM e i tablet? Pantaleo: Le scuole acquistano direttamente dal mercato i dispositivi tecnologici. Io ritengo che l’autonomia delle scuole consista anche nella valutazione degli acquisti, ma rimane il problema delle ristrettezze finanziarie. Scrima: Gli acquisti avvengono in parte attraverso procedure coordinate dal ministero, ma molto spesso sono soggetti operanti sul territorio a supportare le esigenze delle scuole. In molti casi, ad esempio, sono state le fondazioni bancarie a destinare risorse in tal senso. Tuttavia si tenga conto, come già accennato, che oggi la dotazione su cui puntare è quella delle tecnologie di uso individuale, rivolte appunto a un utilizzo personale e personalizzato. Difficile che possa essere la scuola a farsi carico di una dotazione generalizzata per tutti gli studenti, specie considerando le crescenti difficoltà di bilancio con cui le scuole sono costrette da tempo a fare i conti.

D: La scuola italiana ha imboccato la strada dell’innovazione digitale. Ma qual è la dotazione effettiva di pc e tablet nelle scuole del nostro Paese, oggi? I dispositivi portatili sono presenti in numero sufficiente? Pantaleo: Assolutamente no, le dotazioni sono del tutto insufficienti. Le scuole completamente attrezzate per la didattica multimediale in Italia sono solo 14. La dotazione complessiva di pc è di 1 ogni 15 studenti alla scuola primaria, 1 ogni 11 alle medie, 1 ogni 8 alle superiori. Si spendono per la digitalizzazione solo 5 euro per studente. Scrima: Non è semplice procedere a un censimento accurato dei dispositivi in dotazione alle scuole, anche perché si tratta di materiale di natura diversa che può andare dalla LIM ai tradizionali pc, fino alle tecnologie più aggiornate che stanno mutando anche l’approccio alla didattica multimediale. Se fino a ieri, ad esempio, il centro dell’innovazione era l’aula di informatica, attrezzata per ospitare a rotazione le classi, oggi ci si orienta sempre più verso una multimedialità diffusa, che non ha più bisogno di aule dedicate, ma fa leva sull’utilizzo di strumenti di uso individuale come smartphone, iPod e iPad, a disposizione di un numero crescente di alunni. Questa al-

D: Come hanno reagito i docenti al Piano Nazionale per la Scuola Digitale promosso dal MIUR? Pantaleo: Con un misto di scetticismo e di interesse. Scetticismo, perché nella scuola italiana ben altre sono le priorità: negli ultimi anni, infatti, sono stati tagliati 8 miliardi di euro, chi opera a scuola vive situazioni di disagio, aumenta il numero di alunni per classe, sono stati bloccati salari e contratti, molti edifici scolastici necessitano di urgenti interventi di manutenzione, servono nuovi edifici scolastici. Inserire le tecnologie in un contesto scolastico tale può suscitare scetticismi. D’altro canto, c’è interesse dei docenti verso la tecnologia per due motivi: può contribuire a migliorare la qualità degli apprendimenti, ma certamente non può farlo da sola; inoltre, grazie all’utilizzo del digitale, la scuola può maggiormente sintonizzarsi con quello che i ragazzi praticano fuori dalle aule. Le tecnologie informatiche sono semplici strumenti e da sole non possono migliorare la quali-

▶ Domenico Pantaleo, Francesco Scrima ▶ Intervista a cura della redazione La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 26

26

30/09/13 16.12


SAPERI tà della scuola; possono essere una opportunità per rendere gli apprendimenti più attrattivi e meno tradizionali. Per migliorare la scuola è necessario cambiare programmi, organizzazione e didattica. Bisogna investire prioritariamente in sicurezza degli edifici e laboratori. Le tecnologie informatiche devono essere inserite in un progetto complessivo di cambiamento. Scrima: I docenti sanno bene quanto sia importante non perdere il passo con processi di innovazione tecnologica destinati a mutare profondamente anche i processi di insegnamento e apprendimento. Modi e tempi con cui le informazioni e le conoscenze vengono acquisite e poste in circolazione sono oggi ben diversi da quelli di una cultura prevalentemente affidata alla tradizione orale e al supporto cartaceo. La dimensione del web produce, poi, un cambiamento assai più profondo e radicale di quello indotto dai tradizionali strumenti di comunicazione di massa. I docenti sono dunque consapevoli di questi processi di innovazione digitale, hanno una grande disponibilità al cambiamento, ma nel contempo una forte preoccupazione di non ricevere adeguati supporti al riguardo.

D: L’integrazione delle tecnologie nella didattica comporta un ripensamento e una metamorfosi della figura e del ruolo dell’insegnante. I docenti come stanno affrontando questo processo di cambiamento? Pantaleo: Rimettendosi in discussione e riscoprendo nuove motivazioni nello svolgimento della propria funzione. Capiscono che le loro professionalità devono essere adeguate ai tempi, tuttavia non vengono aiutati in questo processo di adeguamento culturale: non c’è un piano di formazione, mancano le risorse, sono scarsi gli stimoli e le opportunità per la ricerca didattica; a volte sono addirittura costretti a pagarsi i corsi di aggiornamento. Bisogna incentivare la formazione culturale, oltre che professionale. Una formazione che sia funzionale al nuovo modo di fare didattica, alla nuova offerta formativa e a una scuola sempre più aperta al mondo. È necessario prevedere meno ore di lezioni frontali e più ore laboratoriali in una scuola che deve educare prima di tutto alla cittadinanza e non essere piegata ai bisogni esclusivi delle imprese. L’eccessivo uso di tecnologie senza che esse siano collegate a un nuovo concetto di istruzione (istruzione che non sia solo meccanica trasmissione

A mio figlio piace leggere, un’immagine dal blog Shaking the tree, http://suzysu.wordpress.com. 27

RICERCA5_9_ultimo.indd 27

30/09/13 16.12


SAPERI | Sì al digitale, ma per migliorare la scuola di saperi, ma favorisca lo sviluppo di intelligenze, i docenti, che ci mettono molto del loro, bensì la di senso critico e di capacità relazionali) può avere mancanza di finanziamenti in cui è caduta la scuola effetti opposti a quelli desiderati. Non deve esserci e di cui non si intravede una via di uscita. Possiamo assuefazione agli strumenti informatici; anche nel dirlo anche attraverso la relazione dell’OCSE (marzo padroneggiarli, la libertà e la creatività non devono 2013) sulla situazione digitale nelle scuole italiane. mai venir meno. Secondo l’OCSE il Piano, lanciato dal MIUR, «utiScrima: Senza dubbio il digitale nella scuola, per la lizza le sue modestissime risorse finanziarie […] che sua forza comunicativa e per la sua valenza sociale, hanno limitato l’efficacia delle sue diverse iniziative. rappresenta un’occasione È soprattutto a causa per ripensare la figura del della mancanza di risordocente oggi e, in parse, più che di una scarsa ticolare, la relazione fra domanda da parte delle scuola e le trasformazioscuole e degli insegnanni, o meglio, le accelerati, che la presenza delle zioni sociali. dotazioni tecnologiche Occorre superare la framnelle classi è ancora mentazione per integrare molto bassa». l’uso delle tecnologie in nuovi quadri di riferiD: E come vivono il fatmento che passano neto che i bambini e i racessariamente dalla progazzi ai quali insegnano fessionalità del docente. siano i cosiddetti nativi Senza investimento sui digitali? docenti, l’innovazione Pantaleo: Lo vivono con digitale rischia di essere grande interesse, peruna delle tante proposte ché si rendono conto da assorbire passivamenche oggi sono necessari te, senza incidere, però, un livello e una qualità sui processi di insegnadell’istruzione complemento/apprendimento. tamente differenti: i doNon è un problema da centi devono introiettaaffrontare superficialre i saperi di chi hanno mente, come l’introdudavanti a sé. Bisogna zione di nuovi strumenti privilegiare lo scambio per effetti speciali, ma di reciproco di saperi tra innovazione della didatdocenti e alunni. Oggi il A mio figlio piace leggere, un’immagine dal blog Shaking the tree, http://suzysu.wordpress.com. tica che deve passare dai docente non è più solo docenti e dai processi di colui che impartisce la accompagnamento e di formazione continua. Anche lezione, deve tener conto anche delle idee e delle le nuove Indicazioni nazionali inseriscono le nuove aspirazioni di cui gli studenti sono portatori. I ragazzi tecnologie nell’impianto complessivo dei traguardi hanno bisogno di essere ascoltati. È necessario sintodelle competenze, assumendole come strumento nizzarsi con i nativi digitali. Ciò è importante anche cognitivo e relazionale importante e valorizzandone per far sì che i ragazzi abbiano una differente visioil loro ruolo all’interno della didattica, in linea con ne della scuola. Io penso, infatti, che la scuola debba le esperienze del Piano Nazionale per la Scuola Diessere più inclusiva e interessante, in sintonia con i gitale. Si dà innanzitutto particolare attenzione alle tempi, e tornare a essere la condizione necessaria per competenze digitali, declinate come il «saper utilizuna maggiore mobilità sociale e uguaglianza. In Italia zare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie abbiamo il 40% di disoccupazione giovanile e una della società dell’informazione per il lavoro, il tempo precarietà dilagante: la scuola deve essere l’opporlibero e la comunicazione». tunità strategica per cambiare i contenuti del lavoro, Diciamolo chiaramente e senza equivoci: l’interesse per innalzare la qualità del fare impresa, per affermae la disponibilità dei docenti è maggiore della dispore la sostenibilità sociale e ambientale dei territori e, nibilità finanziaria del MIUR. Il problema non sono soprattutto, per rendere esigibile la democrazia. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 28

28

30/09/13 16.12


SAPERI Scrima: La generazione dei “nativi digitali” non è un fenomeno su cui esprimere valutazioni o punti di vista, è una realtà con la quale occorre misurarsi, perché è la realtà del nostro tempo e una scuola non può consentirsi di vivere fuori della realtà. I docenti italiani lo sanno, sanno che ciò comporta la necessità di aggiornarsi, anche se non va dimenticato che vivendo essi stessi in una realtà sempre più “digitalizzata”, è chiaro che vi siano coinvolti in modo tale da adattarvisi in una maniera che potremmo definire abbastanza “naturale”. Non saranno nativi, insomma, ma credo che la dimensione del digitale stia comunque entrando in buona parte nelle loro vite e ne abbiano in molti casi sufficiente dimestichezza.

docente operare con modalità trasmissive e agire per lezioni frontali e successive verifiche. Il problema, qui detto in estrema sintesi, attraversa tutti gli ordini scolastici e si fa particolarmente urgente nella scuola superiore. L’introduzione in una scuola di una classe digitale non può prescindere da un’adeguata azione di formazione e soprattutto di accompagnamento che, prendendo presto le distanze da un inevitabile addestramento tecnico all’uso di hardware e software decisamente nuovi per molti (specie sul lato docente), sia fortemente incentrata sugli aspetti pedagogici e didattici delle modalità di lavoro che prevedano l’impiego delle tecnologie. Quindi, sì, sono certamente utili i corsi di aggiornamento professionale.

D: Il corpo docenti viene formato all’uso del digiD: Quanto sono pretale in classe? Questi parati i docenti italiani corsi di aggiornamento all’utilizzo delle nuove professionale sono utili? tecnologie didattiche Pantaleo: A mio avvirispetto ai colleghi euso sono molto utili, ma ropei? devono essere collegati Pantaleo: C’è qualche più strettamente a prodiversità e ci sono alcugetti didattici e per farne debolezze. Nei Paesi lo ci vogliono le risorse del Nord Europa questi che sono insufficienti da processi si sono svilupanni. La formazione, poi, pati da anni, ma io non dovrebbe essere intesa in drammatizzerei. È vero A mio figlio piace leggere, un’immagine dal blog Shaking the tree, http://suzysu.wordpress.com. senso lato, cioè dovrebbe che abbiamo una classervire ai docenti per arse di docenti tra le più ricchire le competenze professionali (competenze vecchie d’Europa, però nei prossimi anni avremo un tecnologiche), per essere all’altezza della mutazioforte ricambio generazionale, e questo determinerà ne in senso multiculturale della scuola e per riuscire sicuramente maggiore propensione all’innovazione sempre di più a collegare con il territorio ciò che si a partire dai linguaggi. Avremo docenti giovani più insegna nelle scuole. In Italia si investe molto meno predisposti alle nuove tecnologie. In media i nostri in formazione dei docenti rispetto alla media euroinsegnanti sono in grado di favorire questo salto di pea. La rete può essere una straordinaria opportunità qualità, se messi nelle condizioni ottimali. per mettere in relazione i tanti saperi che si svilupScrima: È evidente che esiste un ritardo rispetto alla pano fuori e dentro i luoghi della conoscenza. Ma situazione di altri Paesi, i quali sull’istruzione in geneanche utilizzando le nuove tecnologie, bisogna semrale, e sui processi di innovazione, mantengono un’atpre garantire la libertà d’insegnamento e la valoriztenzione più alta di quanto non accada da noi. Inevizazione delle tante professionalità e competenze che tabile che sia forte la preoccupazione dei docenti di agiscono nelle scuole autonome. essere ancora una volta lasciati in balìa dei problemi, Scrima: L’attività della classe digitale non può funziosenza i necessari supporti strumentali e formativi. Si nare su uno schema di lavoro tradizionale che vede il fa presto a lanciare messaggi innovativi, e il ritorno 29

RICERCA5_9_ultimo.indd 29

30/09/13 16.12


SAPERI | Sì al digitale, ma per migliorare la scuola di immagine è assicurato per chi se ne fa promotore; un po’ più complicato il compito di chi i messaggi li deve tradurre operativamente sul campo, nella dimensione quotidiana e concreta del proprio lavoro, con le strutture e i mezzi di cui la scuola italiana dispone e che sono sotto gli occhi di tutti.

in condizione di dominarle senza esserne dominata. Più le nuove tecnologie entrano nel vissuto della scuola, più questo processo di controllo e dominio potrà essere favorito. Altra dimensione da considerare, al di là delle implicazioni di carattere formativo che sono ovviamente di primaria importanza, è quella del miglioramento D: Fino a ora abbiamo parlato degli insegnanti, ma che l’innovazione può portare ai processi organizqual è la vostra posiziozativi, così come alle ne sulla rivoluzione digirelazioni tra la scuola e tale nelle scuole? Pollice il suo contesto, a partialto o verso? re da quelle con la sua Pantaleo: Sono dell’iutenza più diretta, che è dea che le cose vadano quella delle famiglie. fatte in modo graduaTutto ciò ha comunque le, tenendo conto delle un presupposto fondadifferenze che esistono mentale: che la rivolutra le scuole del Nord zione digitale non sia un e del Sud e all’interno semplice slogan a effetdelle stesse regioni, in to, ma un processo aderelazione alle dotazioni guatamente sostenuto effettive di tecnologie e dalle necessarie azioni di infrastrutture formae dagli indispensabili intive. Ci sono scuole che vestimenti. Ne va della cadono a pezzi, genitori sua credibilità, prima che nel weekend vanno a ancora che della sua efimbiancare le pareti delficacia. le aule dei loro figli e le Dobbiamo comunque famiglie pagano per gariaffermare un principio rantire i servizi primari. costitutivo della scuola Ci vuole un sano realiche resta tale nel mosmo, e non deve passare mento in cui si crea una l’idea che la scuola sia un relazione autentica fra semplice fattore di costo. docente e studente, che Inoltre, è bene manteè (e sarà) sempre insonere salda l’idea di una stituibile. Qualunque A mio figlio piace leggere, un’immagine dal blog Shaking the tree, http://suzysu.wordpress.com. scuola che sia comunità. strumento, e in particoL’utilizzo delle tecnololare le dotazioni tecnogie non deve mai essere interpretata come una spinta logiche, possono supportare e a volte qualificare tale al rinchiudersi nell’individualismo e in mondi virtuarelazione, ma non sostituirla. Così è anche per il libro li. La realtà non deve essere mai sostituita da mondi e la sua presenza naturale nella scuola che resterà artificiali, perché, soprattutto nella scuola, conta il nel tempo, pur essendo supportata e qualificata dalla rapporto educativo. presenza di altri strumenti. Scrima: Per quanto detto prima, il pollice verso sarebbe un atteggiamento senza senso e drammaticaD: Come valutate lo stop all’obbligo di adozione mente perdente anche rispetto alla preoccupazio(previsto dall’Agenda Digitale) di libri scolastici dine, sacrosanta, di chi teme che le nuove tecnologie gitali o ibridi? producano effetti di condizionamento e dipendenza, Pantaleo: Noi lo avevamo previsto perché le scuoa scapito di un corretto e positivo processo di svile non dispongono di tecnologie sufficienti per un luppo della personalità. La scuola non ha il compito passaggio di tale complessità. Gli stessi editori handi esorcizzare il nuovo, al contrario ha il dovere di no dichiarato di non essere pronti. Ma l’altro grosso misurarsi con esso; nel caso delle nuove tecnologie di problema è anche la disponibilità economica delle comunicazione, deve tendere a mettere ogni persona famiglie nel dotarsi di supporti informatici; è evidenLa ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 30

30

30/09/13 16.12


SAPERI te come in una situazione di crisi e tagli non si possa dotare ogni bambino e ragazzo di un tablet o un computer. Il caro libri è un problema serio in questo Paese, è una voce che agisce negativamente sul bilancio delle famiglie, ma le soluzioni devono realmente garantire un risparmio e la possibilità per tutti di accedere alle fonti del sapere. I libri restano un punto di riferimento certo e stabile; non vorrei che anche le fonti del sapere diventino virtuali. Bisogna evitare che, alla fine, possa accedere ai testi digitali solo chi ha le condizioni economiche per farlo. In molte realtà si è già passati agli e-book. Si valutino i punti di forza e le criticità per cercare di estendere le esperienze più virtuose, ma si eviti assolutamente di fare questa operazione con la solita approssimazione italiana scaricando i costi sulle famiglie. Serve, perciò, una vera cabina di regia aperta al contributo delle autonomie scolastiche, alle forze sociali, alle associazioni e agli studenti, che valorizzi le esperienze dal basso perché non può mai esserci un modello unico nel portare avanti l’Agenda Digitale. Tuttavia spesso sono le tecnocrazie e gli interessi economici di pochi a prevalere su quelli generali. Scrima: Rispondo con una battuta: si tratta di un’elementare presa d’atto che esiste un principio di realtà. Ho appena detto che la scuola digitale non può essere uno slogan di cui riempirsi la bocca, ma un percorso impegnativo e complesso. La tempistica del passaggio ai testi digitali era evidentemente poco credibile.

una media del 48% in altri Paesi dell’OCSE». Come dicevamo prima, o la scuola diviene una priorità per il Paese, e ritorna a essere luogo di interesse e investimento, o qualunque agenda e azione di innovazione diviene un’impresa impossibile. Nel suo dossier, l’OCSE ricorda che sulle dotazioni multimediali e sulle TIC il Piano Nazionale per la Scuola Digitale «ha stanziato 30 milioni di euro all’anno per 4 anni, ossia meno dello 0,1% della spesa pubblica per l’istruzione (ovvero meno di 5 euro per studente di scuola primaria e secondaria all’anno)». Viste le attuali restrizioni di bilancio e le considerazioni verso la scuola, è già importante presidiare i finanziamenti, non farsi rubare gli investimenti promessi. Ma diciamo tutto ciò con rammarico e citando l’OCSE per evidenziare che in altri Paesi non sta avvenendo questo, anzi la scuola è al centro dell’attenzione e degli investimenti per uscire dalla crisi con reali prospettive di sviluppo. D: Relativamente a queste tematiche, quali sono le vostre richieste al ministero? Che cosa vi aspettate o auspicate dal nuovo ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza? Pantaleo: Auspichiamo che vi siano scelte chiare e cambiamenti rispetto al passato. Ho ascoltato con interesse le dichiarazioni del nuovo ministro all’Istruzione Maria Chiara Carrozza, ma la questione, ora, è passare ai fatti, indicando alcuni punti prioritari su cui indirizzare le scelte politiche dei prossimi anni. Occorre un cambio di passo rispetto alle scelte disastrose degli ultimi anni, a partire da una spesa per l’istruzione che sia almeno pari alla media europea. Scrima: Prima di aspettarci qualcosa dal ministro, bisognerebbe aver chiaro che cosa ci si può attendere da un governo la cui esistenza sembra essere messa ogni momento in discussione. La politica italiana non sta dando in questi giorni una grandissima prova di responsabilità e di consapevolezza di quali siano le vere urgenze e le vere priorità del Paese. Continua paurosamente e pericolosamente a interessarsi solo di se stessa. La scuola avrebbe bisogno di essere assunta come tema centrale nelle scelte di governo: se manca questo passaggio, tutto il resto, compreso il tema dell’innovazione digitale, diventa fatalmente privo di prospettive.

D: La scuola italiana è in ritardo con i tempi di attuazione dell’Agenda Digitale rispetto agli altri Paesi europei. Quanto, secondo voi, è urgente tale allineamento e, soprattutto, è fattibile allo stato attuale portare a termine il piano dell’Agenda Digitale? Pantaleo: L’Agenda Digitale è un’indicazione di carattere europeo e riveste, senza dubbio, una notevole importanza. Tuttavia oggi il nostro Paese ha bisogno di risorse sicure e di un monitoraggio continuo sui possibili avanzamenti e sui nodi che bisogna affrontare. Invece, paradossalmente, si continua a tagliare risorse sulla banda larga e perfino sui collegamenti Internet delle scuole. Tutti sanno che siamo agli ultimi posti in Europa per dotazioni tecnologiche e bisogna superare quel divario costruendo esperienze che consentano una migliore qualità dell’offerta formativa garantendo una seria programmazione in termini di risorse. Scrima: L’OCSE stesso sottolinea il ritardo dell’Italia nelle dotazioni multimediali e l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) nella scuola: «nel 2011 solo il 30% degli studenti italiani di terza media utilizzava le TIC come strumento di apprendimento durante le lezioni di scienze, rispetto a

▶ Domenico Pantaleo è dal 2008 segretario generale del sindacato FLC CGIL.

▶ Francesco Scrima è stato riconfermato segretario

generale di CISL Scuola nel maggio 2013.

31

RICERCA5_9_ultimo.indd 31

30/09/13 16.12


SAPERI

Andare avanti con la scuola digitale Classi e scuola 2.0, setting nuovi, cooperative e collaborative learning, dematerializzazione dell’amministrazione scolastica, servizi on-line nei contatti scuola-famiglia: a che punto siamo? Considerazioni dal ministero dell’Istruzione sul processo di innovazione tecnologica nell’assetto didattico e amministrativo della scuola.

P

er la sua responsabilità nell’educazione delle nuove generazioni e per la sua stessa natura, il sistema d’istruzione ha il dovere di proiettarsi verso il futuro, con coraggio ed entusiasmo, coniugando la spinta che proviene dall’innovazione tecnologica con la sua missione, la formazione dell’uomo e del cittadino. La tecnologia può apportare il suo valido sostegno a questa azione, tanto che sono in molti a considerarla una sorta di amplificatore e potenziatore delle capacità di apprendimento e delle possibilità della mente umana. Tuttavia, il progresso tecnologico rischia di fallire il compito se resta fine a se stesso e se non è supportato dalla consapevolezza degli insegnanti sulla necessità di sviluppare la propria professionalità puntando su competenze digitali funzionali all’innovazione didattica e a migliorare l’efficacia degli ambienti di apprendimento. Purtroppo procediamo con insostenibile lentezza, tentando affannosamente di colmare un gap tra il nostro e gli altri stati membri dell’UE: il corredo tecnologico che pian piano va ad arricchire le aule di molte scuole della nostra penisola, rischia di trasformarsi in un mero accessorio, se non sarà accompagnato da una riflessione e da un atteggiamento di convinta apertura verso le straordinarie potenzialità che la scuola digitale offre agli insegnanti, agli studenti e alle famiglie. Per questa ragione ciò che più occorre in questa fase, al fine di rendere concreti gli interventi normativi già in vigore ma non ancora applicati, è avviare un’azione di governo forte e coesa per accelerare su alcune azioni strategiche e dare supporto all’amministrazione centrale per l’avvio del processo di innovazione dell’intero sistema di istruzione, tenendo conto del contesto in cui si muovono le scuole e dei problemi emersi, al fine di mettere a punto un processo di digi-

talizzazione che non sia vissuto dai diretti interessati come un’imposizione o una sovrastruttura. Per poter preparare un piano di interventi con step ben definiti, siamo partiti da una ricognizione di quanto già fatto e programmato; abbiamo ascoltato i diretti interessati perché non vogliamo interloquire con il sistema solo attraverso atti amministrativi. Ad esempio, per quanto riguarda l’editoria scolastica digitale, non basta mettere mano a un decreto “contestato” (l’ormai famoso decreto 209 del 26 marzo 2013), che in effetti richiede delle modifiche, ma prima di tutto occorre cambiare la mentalità che sottende al passaggio al digitale. Un decreto troppo frettoloso È chiaro, infatti, che il decreto che stabiliva obbligatorietà dell’adozione dei libri su formato digitale da qui a un anno, con conseguente ribasso del loro costo di copertina, doveva essere rivisto, soprattutto se si considera il contesto scolastico italiano in cui, in non pochi casi, non si ha neppure il collegamento per l’accesso a Internet da ogni aula. Ma quello che non è affatto chiaro o scontato è capire se il nostro Paese creda o meno alla possibilità che i ragazzi possano studiare efficacemente attraverso un tablet, uno smartphone o un pc e che questa sia un’opportunità per tutti, tanto per i più bravi, quanto per coloro che vivono lo studio con più difficoltà, tanto da meritare gli investimenti necessari e tradurli in percorsi didattici di maggiore qualità. Eppure tutti convergono nel dire basta a zaini pesantissimi o libri da ricomprare costantemente perché cambia l’impaginazione. Meno scontata la condivisione dell’obiettivo finale: quello che ci vuole è una diminuzione del costo dei libri a vantaggio di esercizi interattivi aggiornabili con una semplice richiesta on-line, e ancora applicazioni multi-piattaforma per implementarli e migliorarli costantemente. Libri digitali veri, insomma, e non formati pdf o simili di sola lettura, o ancor peggio obsoleti CD o DVD, allegati

▶ Gabriele Toccafondi La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 32

32

30/09/13 16.12


SAPERI in fondo al libro di carta. Possiamo concordare che occorre arrivare a questo anche nel nostro Paese? Io penso e spero di sì. Ma molta strada c’è da fare e non inizia certo solo con un decreto che fa marcia indietro. Infatti, non voglio dare l’impressione di sottovalutare il lavoro già svolto, che, anzi, va valorizzato, ampliato e consolidato. Esaminiamo le azioni del Piano Nazionale per la Scuola Digitale. 1. Azione LIM in Classe Si tratta di un primo step allo scopo di innescare un processo graduale di innovazione didattica attraverso l’introduzione di nuovi linguaggi nella pratica educativa. L’azione prevede una diffusione capillare della lavagna interattiva multimediale nella didattica quotidiana del gruppo classe. 2. Azione Cl@ssi 2.0 In genere dopo l’inserimento delle LIM e il loro utilizzo si evidenzia la necessità di dotare gli studenti e i docenti di propri device al fine di integrarli tra loro ed eventualmente con la LIM, di adottare contenuti digitali e di trasformare l’ambiente classe tradizionale attraverso nuovi arredi, che garantiscano un nuovo modo di approcciarsi Fonte: dati dell’Osservatorio tecnologico permanente, MIUR 2012 (campione: 85,2% delle scuole). allo studio favorendo, per esempio, il cooperative e collaborative learning. Questa azione, quindi, si propone di realizche consentano un apprendimento distribuito e fozare ambienti di apprendimento, valorizzando la cacalizzato sullo studente. pacità progettuale del consiglio di classe, prevedendo nell’attività scolastica quotidiana un utilizzo costante Il MIUR e la dematerializzazione e diffuso di tecnologie e linguaggi che gli studenti già L’innovazione tecnologica non coinvolge la scuola usano abitualmente nelle relazioni personali e sociali. solo per le ricadute nell’attività didattica, bensì anche 3. Azione Scuol@ 2.0 per il processo di “dematerializzazione della pubbliL’obiettivo è modificare l’ambiente di apprendimenca amministrazione” che, in particolare, nel settore to, ove per ambiente non si intende più esclusivadella scuola riguarda le iscrizioni on-line, la pagella mente l’aula, ma l’istituzione scolastica nella sua inin formato elettronico, i registri on-line, l’invio delle terezza, innovandone non solo l’assetto didattico, ma comunicazioni agli alunni e alle famiglie in formato anche quello strutturale e organizzativo. A tal fine si elettronico. Lo scorso 7 agosto, nella VII Commissioconiugano le potenzialità dell’autonomia scolastica e ne del Senato, ho risposto a un’interrogazione in cui delle TIC, attraverso la realizzazione di nuovi setting, si chiedeva, per le istituzioni scolastiche, la proroga nuove metodologie, nuovi tempi e spazi scolastici di un anno per gli adempimenti connessi ai processi 33

RICERCA5_9_ultimo.indd 33

30/09/13 16.12


SAPERI | Andare avanti con la scuola digitale di dematerializzazione. È stata l’occasione per illustrare gli strumenti che il MIUR ha adottato in tal senso, che riassumo in questo contesto. Come è noto, con il decreto legge n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 135 del 2012, è stato dato impulso al processo di dematerializzazione nel settore dell’istruzione attraverso una serie di previsioni che riguardano sia l’amministrazione e le sue articolazioni territoriali, sia le istituzioni scolastiche. I commi da 27 a 32 dell’art. 7 del sopra citato decreto legge individuano una serie di interventi che si inquadrano in un percorso di cambiamento graduale a partire dall’anno scolastico 2012/2013, senza comunque stabilire termini perentori per la loro messa a regime.

elettronica ordinaria e certificata, la firma digitale e l’albo on-line. In considerazione di questi elementi e dell’esigenza di rapida attuazione del processo di dematerializzazione, l’amministrazione non ritiene di doversi attivare per un, peraltro difficile, intervento normativo di proroga. In particolare, il ministero ha messo a disposizione un applicativo per le iscrizioni on-line via Internet e ha erogato alle scuole nel mese di dicembre 2012 una somma complessiva di 40 milioni di euro, ripartita in base al numero delle classi, per il processo di dematerializzazione. Pur nella consapevolezza che gli investimenti necessari per completare i processi di cui stiamo discutendo sono rilevanti, le somme assegnate, unitamente alle dotazioni di cui le scuole già dispongono e alle sinergie intercorrenti tra le stesse e gli enti locali, costituiscono un primo significativo supporto, soprattutto in quelle realtà che risultano ancora all’inizio del percorso d’innovazione delineato dal decreto. Ricordiamo, in proposito, che il comma 32 dell’articolo 7 prevede che il processo deve avvenire senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. In tale contesto, tenuto conto delle finalità della norma in termini sia di efficienza che di economicità, il ministero sta considerando possibili soluzioni per la messa a punto di strumenti applicativi, organizzativi e gestionali dedicati a tale scopo. A tal fine è già stato avviato uno specifico monitoraggio su tutto il territorio nazionale attraverso l’Osservatorio tecnologico, strumento integrato nel sistema informatico dell’istruzione (SIDI), che permette di realizzare rilevazioni periodiche sulla presenza di dotazioni multimediali per la didattica, di infrastrutture di rete e della connettività Internet e, per quanto riguarda in particolare i processi di dematerializzazione, sulla disponibilità di servizi on-line di comunicazione scuola-famiglia (assenze e ritardi, certificati, comunicazioni generiche, prenotazioni colloqui, voti e pagelle) e sulle modalità di erogazione degli stessi (SMS, posta elettronica, PEC, sezione dedicata sul sito o portale web, social network). È un percorso complesso rispetto al quale assicuro il massimo impegno per offrire concreti supporti operativi alle scuole. Nel frattempo si sta provvedendo a mettere a punto un’agenda per la digitalizzazione delle scuole che sarà presto comunicata dallo stesso ministro.

La dematerializzazione in atto Si osserva al riguardo che, nel settore scolastico, diversi ambiti di attività e procedure risultano già dematerializzati o in via di dematerializzazione, anche grazie all’utilizzo di strumenti che variano dal registro elettronico alla gestione integrata della segreteria scolastica e della comunicazione alle famiglie. Il ministero ha reso disponibili una serie di servizi, quali il portale SIDI, il protocollo informatico, la posta

▶ Gabriele Toccafondi è sottosegretario al ministe-

ro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca con delega all’Agenda Digitale e al Piano Nazionale per la Scuola Digitale.

La biblioteca della Monkseaton High School, Whitley Bay, Inghilterra, www.monkseaton.org.uk. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 34

34

30/09/13 16.12


SAPERI

Visto dalla parte dei genitori L’introduzione del digitale a scuola pone le famiglie di fronte a questioni pratiche ed economiche, come la spesa per la dotazione tecnologica dei figli. Dal punto di vista educativo, una riflessione sui media digitali è per i genitori un’occasione per orientare i giovani a un uso responsabile delle nuove tecnologie e della crossmedialità.

L’

uso della scrittura risale, pare, già al IV millennio a.C. ma, ancora ai tempi di Platone, nato intorno al 428 a.C., rappresentava una novità. Platone nel Fedro narra la storia di Thamus, un re dell’alto Egitto, e del suo dialogo con il dio Theuth, inventore e autore di grandi innovazioni, tra cui la scrittura. Il dio Theuth iniziò a lodare l’invenzione della scrittura esaltandone la capacità di tramandare la conoscenza e la sapienza e definendola «farmaco della lunga memoria». Il re Thamus considerava invece la scrittura come la tomba della memoria umana e la fonte della dimenticanza, poiché le persone avrebbero iniziato a fidarsi solo di ciò che è scritto senza guardare dentro di sé, sminuendo l’esperienza dei vecchi, dei maestri e dei saggi. Secondo Thamus (cioè Platone), la scrittura avrebbe portato non la sapienza, bensì una conoscenza senza insegnamento che a lungo andare avrebbe creato soltanto portatori di opinioni e non sapienti. Oggi sappiamo che i discepoli di Platone si affidarono proprio alla scrittura per tramandarci quanto insegnato dal maestro. Ho voluto partire da un racconto antico per sottolineare una costante nella storia della comunicazione: in ogni momento di cambiamento tecnologico gli uomini si dividono in contrari e favorevoli. Accadde così per Platone sulla scrittura, ai tempi di Gutenberg sulla carta stampata, e pare che accada anche ai giorni nostri per l’ambiente digitale e gli strumenti a esso connessi (pc, tablet, smartphone e così via). Fermarsi a due opposti schieramenti serve certo a poco, soprattutto perché indietro non si torna: lo insegna la storia. Inoltre le categorie di economicità, facilità, utilità (e altre ancora) convincono sempre più, conquistando nuovi terreni al digitale. Dunque anche la

scuola, più prima che poi, dovrà farci pienamente i conti. Fosse solo perché i ragazzi sono molto più avanti e la tecnologia parla la lingua della loro vita quotidiana, fatta di podcast, iPod, strumenti touch. L’uso della tecnologia nella didattica è, senza dubbio, una continuità tra momento dell’apprendimento e tempo libero. Chi paga i costi dell’Agenda Digitale? D’altra parte, come genitore che tenta di osservare i ragazzi con sguardo educativo, non posso non riflettere oltre i due schieramenti, non per dover scegliere, quasi un nuovo dibattito fra apocalittici e integrati (erano gli anni Sessanta, con il saggio di Umberto Eco!), quanto chiedendomi in che misura il digitale trasforma il nostro vivere, le relazioni, la vita della classe, gli stili cognitivi. Se la direzione è comunque certa, dunque, mi pare manchi ancora, almeno nella scuola (e forse in qualche Palazzo) la piena consapevolezza di quali connessioni e cambiamenti siano necessari nelle nostre aule e, soprattutto, nella testa e nell’agire degli adulti: educatori, genitori, insegnanti. In altre parole, per dirla con un’espressione estremamente descrittiva utilizzata da uno studente con cui ho parlato di questi temi, «per fare un libro digitale non basta mettere in pdf le pagine cartacee»: un libro digitale non è utilizzabile come uno cartaceo, leggendo in classe una pagina, rinviando allo studio di altre, assegnando gli esercizi posti a fine capitolo. Le questioni da considerare afferiscono, a mio parere, almeno a due grandi ordini di argomenti: le scelte pratiche e organizzative (potremmo dire la tecnologia dell’educazione e della didattica) e le scelte educative, che implicano riflessione sull’uso consapevole dei dispositivi e sulla relazione fra le persone che li utilizzano. Dal punto di vista pratico e operativo, per ora, come genitori, scorgiamo qualche problema

▶ Davide Guarneri 35

RICERCA5_9_ultimo.indd 35

30/09/13 16.12


SAPERI | Visto dalla parte dei genitori all’orizzonte. In Italia ancora poche scuole sono coperte da connessione Internet veloce e la dimestichezza con l’ambiente digitale è scarsa. Una ricerca dell’Unione Europea (ottobre 2011, e la situazione si sarà di poco evoluta) dice che circa il 5% delle scuole italiane ha una connessione veloce (ADSL e sistemi cavo-modem) ed è disponibile un pc ogni 47 studenti (media europea uno ogni 24). In Italia la percentuale di insegnanti che sa usare un pc giunge al 60%, mentre quella di chi conosce e utilizza Internet nella didattica è del 33%. Lo studio europeo dimostra anche che l’uso della rete è sostanzialmente finalizzato alla fruizione della posta elettronica, anche se la metà delle scuole si è già creata un sito Internet. Il 55% degli insegnanti europei ha effettuato corsi d’aggiornamento specifici. Riflettere sull’ambiente digitale Non ci pare che sia in vista, per l’Italia, un piano ampio di aggiornamento e formazione per gli insegnanti e le dinamiche della spending review rendono improbabile il reperimento di risorse aggiuntive: eppure, a nostro parere, proprio dalla formazione dei docenti bisognerebbe partire. Le ristrettezze economiche pare, nel contempo, che rallentino anche la diffusione della banda larga per tutti i cittadini (e le scuole), obiettivo fissato dall’Agenda Digitale. Dunque, scatta così il cortocircuito: poiché la tecnologia non supporta il digitale nella scuola, le scuole non partono e si rallenta la necessità di avere tecnologie adeguate. Sempre rimanendo al piano pratico e organizzativo, altre semplici considerazioni. La prima: è riduttivo concentrare, circa gli e-book in particolare, il dibattito all’introduzione di un tablet per ogni studente (retroilluminato o meno) alternativo all’e-reader. Si tratta di supporti oggi ancora innovativi, domani forse superati da altre ulteriori tecnologie. La riflessione, ripeto, è sull’ambiente digitale in sé da introdurre nella scuola. Se, ad esempio, i tablet sono connessi alla rete, sappiamo gestire a scuola la possibilità per ogni studente di accedervi, a ogni ora? La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 36

Interni della Ravenswood School For Girls, Gordon, New South Wales, Australia.

Accanto alle classi tradizionali, l’architettura di questo nuovo liceo australiano prevede sale piccole e tecnologicamente attrezzate per le ricerche di gruppo. La scala interna, molto più larga del necessario, diventa un luogo di socializzazione.

36

30/09/13 16.12


SAPERI La seconda considerazione è squisitamente di ordine economico. Il supporto tecnologico per gli e-book può costare all’incirca fra i 200 e i 300 euro. A ciò si deve aggiungere il costo dei libri, che, anche in formato digitale, comunque comprende spese di produzione (redazione, diritto d’autore eccetera). La tecnologia invecchia precocemente e si deve supporre che l’acquisto del supporto venga ripetuto nel corso degli anni scolastici. Pensiamo che l’innovazione e la piena attuazione dell’Agenda Digitale in Italia debbano essere completamente a spese delle famiglie? Si può aprire un confronto creativo su sistemi di comodato d’uso, ma anche su detrazioni fiscali per l’acquisto?

a un libro stampato; non è nemmeno detto che le tecnologie rendano più “facile” lo studio, anche perché possono costringere a un ragionamento rigoroso, a diversi e differenti processi di pensiero. Molte esperienze (prevalentemente non italiane) stanno, invece, mostrando l’utilità delle tecnologie all’interno di specifiche metodologie e strategie didattiche per l’apprendimento della matematica, per le competenze linguistiche, per la flessibilità cognitiva. Resta, nel mio riflettere, ancora una domanda: può l’uso della tecnologia digitale, in ambiente scolastico e non, interferire in alcun modo nella dinamica del processo cognitivo e nelle stesse relazioni educative? Si realizza una sorta di “mente sociale”, estesa, quasi una rete di pensieri e di pensiero? Su questo gli scienziati stanno lavorando, e non mi addentro nella complessità degli studi che riguardano i cosiddetti “neoapprendimenti”. Oltre tutto ciò, mi piacerebbe emergesse il primato della relazione. Ciò significa che la differenza la fanno ancora gli insegnanti: non è lo strumento che realizza la didattica, ma al contrario la didattica che sceglie e utilizza lo strumento più efficace. E dietro lo strumento restano la competenza, la professionalità e la passione dell’insegnante. La differenza la fanno anche gli studenti, con la loro motivazione, la loro creatività, il loro nuotare come pesci nell’acqua dei nuovi media: gli studenti non si pongono la domanda sulle tecnologie, perché ci sono nati dentro. Per noi adulti, anche un dibattito sul tablet sia occasione per riflettere sull’educazione a un uso responsabile di ogni mezzo e sul significato dell’essere connessi ventiquattro ore su ventiquattro, anche sottraendo tempo al silenzio pensoso. «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole». Le parole antiche di Qoelet, risalenti al 250 a.C., offrano una saggia pausa nel correre delle nostre connettività. Il rinvio voluto dal ministro Carrozza per l’introduzione completa del digitale nella scuola non sia un’occasione sprecata che si traduce in italico ritardo, ma, appunto, riflessione che orienta e rende ragionevoli ed efficaci le azioni. Il Consiglio dei ministri svoltosi in data 9 settembre 2013 ha introdotto alcune misure che potrebbero andare nella giusta direzione, quali il sostegno al comodato d’uso scolastico, e incentivi alla formazione dei docenti. Attendiamo la concretizzazione.

Neoapprendimenti e mente sociale Veniamo ora al secondo ordine di approfondimento, quello relativo agli aspetti più squisitamente didattici e educativi. La consapevolezza educativa sa che i media non sono solo strumenti (quindi controllabili), ma sono ormai un ambiente nel quale ci si muove e sono tutti interconnessi fra loro (si utilizza l’espressione “crossmedialità”). I media di oggi sono tessuto connettivo e insieme visibilità continua, disponibilità di ogni informazione. Che cosa significa, ad esempio, “istruire” all’epoca della massima disponibilità di ogni notizia? La scuola e gli educatori non possono certo rifiutare questo mondo, etichettandolo come “virtuale”, quindi non esistente. Peraltro, tutto il mondo “fuori” dalla scuola utilizza ampiamente le tecnologie, e non farlo a scuola marcherebbe ancora più la distanza dalla vita vera. Sarebbe davvero, la scuola, una realtà virtuale! Ciò detto, bisogna riconoscere che, probabilmente, sull’uso della tecnologia nella scuola è cresciuta anche molta demagogia superficiale: una certa visione quasi magica della tecnologia le attribuirebbe il potere e la forza di innovare e migliorare la didattica. Usare le tecnologie a scuola sarebbe solo un normale processo di adattamento di strumenti, se fosse privo di riflessività, di domande, di ricerca. Come rendere più efficace l’insegnamento, anche grazie alla tecnologia? Può l’uso di un libro digitale, o di una LIM, modificare una certa didattica convenzionale, di tipo solo trasmissivo? Poiché è evidente che con una LIM o con un tablet si può riproporre una pessima didattica, quale pedagogia e quale epistemologia meglio incontrano e valorizzano le tecnologie, orientandole davvero a promuovere la motivazione, l’apprendimento e la formazione? Non ci sono ancora evidenze scientifiche per le quali un tablet produca maggiore apprendimento rispetto

Davide Guarneri è presidente nazionale della A.Ge. (Associazione Italiana Genitori, www.age.it).

37

RICERCA5_9_ultimo.indd 37

30/09/13 16.12


SAPERI

Il rapporto dei bambini con il digitale Nella nostra indagine sul digitale abbiamo voluto sentire anche una voce nettamente critica nei confronti dell’uso degli strumenti tecnologici in ambito educativo. Quando pedagogia non fa rima con tecnologia: l’approccio steineriano.

Q

uali attese abbiamo nei confronti degli uomini di domani quando ne seguiamo il processo educativo? Certamente che abbiano un buon patrimonio culturale, ma anche attenzione e sensibilità sociali, che sappiano stabilire delle priorità fra l’essenziale e il secondario, che siano in grado di prendere delle decisioni e di assumersi delle responsabilità, che sappiano districarsi con fantasia e creatività in situazioni difficili e impreviste. In sintesi, ci attendiamo che abbiano maturato le necessarie capacità di pensiero, di sentimento e di volontà per affrontare le sfide della vita. Per l’educatore ciò significa aiutare i ragazzi a sviluppare correttamente queste tre qualità. Rispetto a tale compito, come va valutata la problematica legata al rapporto del bambino con il mondo della tecnica, in particolare quella digitale, sia nell’uso personale sia in quello scolastico? Seguendo gli orientamenti che provengono dalla pedagogia steineriana (cfr. Carlgren e Klingborg 1992), farò alcune riflessioni su questa problematica considerando non i contenuti trasmessi dalla tecnologia, bensì il mezzo tecnico come tale.

tre momenti della vita animica: dapprima il bambino è un essere in continua attività di movimento e di volontà, poi emerge la vita di sentimento con la conquista di una tipica dimensione ritmica e infine si arriva alla capacità di pensiero e di astrazione. Questi momenti maturano in modo ciclico, dall’arco più piccolo della conquista della posizione eretta e della capacità di camminare, della capacità di articolare il respiro imparando a parlare e della prima coscienza della propria identità, a un arco più grande segnato da due cesure date dalla seconda dentizione e dalla maturazione sessuale. Prima della seconda dentizione il bambino manifesta la sua vita volitiva nella capacità di imitazione: dal punto di vista educativo ciò significa che il criterio pedagogico adeguato è l’esempio (devo fare con il bambino, essere attore insieme a lui). Con la seconda dentizione emerge con più forza la capacità rappresentativa: il bambino vive una fase simbolica che per l’educatore significa trasmettergli tutto sotto forma di immagini. Con la pubertà, matura la capacità di astrazione e quindi nasce la possibilità di un confronto a livello di pensiero e di capacità di giudizio. Il bambino, che prima è “attore”, gradualmente diviene “spettatore” e guarda il mondo non più con lo sguardo magico né con quello simbolico dell’artista, bensì con lo sguardo dello scienziato. Questa sintesi assai schematica dell’orientamento steineriano consente di accostarci alla problematica legata alla tecnica con un occhio attento agli aspetti qualitativi. La forma basilare dello sviluppo tecnologico è data dall’attrezzo semplice, come l’ascia, il martello, la tenaglia, la falce e così via. In questi attrezzi non abbiamo forse una proiezione della struttura e della funzione dei nostri arti? Il loro uso non richiede un’attivazione del nostro sistema di movimento e quindi anche metabolico? Siamo davanti al corrispettivo della prima fase evolutiva del bambino. Educativamente giochi e attività svolti con questi attrezzi semplici corrispondono in modo ottimale alle

L’orientamento educativo steineriano La pedagogia steineriana, nata in Germania alla fine della prima guerra mondiale con Rudolf Steiner (1861-1925) e oggi ampiamente diffusa in tutto il mondo con un migliaio di scuole, prende le mosse da un’articolata immagine dello sviluppo del bambino, che viene considerato nella sua dimensione biologica (corpo), in quella affettiva ed emotiva (anima) e in quella morale e biografica (spirito). I nessi fra queste tre dimensioni, elaborati da Steiner a partire dal 1917, costituiscono il fondamento delle scelte pedagogiche. Lo sviluppo del bambino procede per tappe successive durante le quali si differenziano i

▶ Stefano Pederiva La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 38

38

30/09/13 16.12


SAPERI sue esigenze. In altre parole lo sviluppo storico della tecnica riflette lo sviluppo del bambino. Con il computer e la tecnica elettronica non abbiamo poi la proiezione sul piano della macchina del funzionamento del nostro cervello? Il computer svolge a enorme velocità operazioni che una volta erano prerogativa dell’attività di pensiero, come calcoli complessi e memorizzazioni gigantesche. La tecnica digitale corrisponde alla terza fase evolutiva del ragazzo: l’età in cui l’uso della tecnica digitale può essere introdotto in termini più ampi. Con l’attrezzo semplice siamo “attori”, con il video diventiamo “spettatori”.

La tecnologia deve essere adeguata all’età Arriviamo così a constatare come l’osservazione di uno sviluppo del bambino che evidenzi per ogni età delle specificità precise consenta di valutare la relazione fra una certa età e il tipo di tecnologia adeguata per quell’età. Se si pensa alla motocicletta e all’automobile l’osservazione è ovvia, se non superflua: non affidiamo questi veicoli a un bambino di cinque o di dieci anni, pur essendo potenzialmente in grado di guidarli. Per la tecnica digitale sembra invece che la domanda relativa all’età adeguata per il suo uso non venga affatto sollevata, in quanto non si evidenziano dei danni in termini immediati. Manfred Spitzer, uno

La scuola elementare St. Raphael’s di Dublino ha vinto lo scorso anno il Digital Schools’ Award messo in palio dalle autorità irlandesi per l’introduzione di una tecnologia digitale appositamente pensata per la prima infanzia. È evidente lo sforzo di impedire che l’uso del computer vada a scapito della socializzazione fra gli alunni, un fattore educativo imprescindibile nel ciclo elementare di studi. Proprio a questo scopo i dirigenti della St. Raphael’s hanno progettato questa doppia postazione, corredandola con un apposito divanetto a due posti. Si tratta certamente di una sperimentazione di grande interesse. Tuttavia, guardando questa fotografia che pubblicizza il progetto, viene spontanea un’osservazione: in un computer c’è un solo mouse e quindi solo uno dei due bambini ha il potere di scegliere, l’altro è destinato a osservare e suggerire. Una postazione informatica alla St. Raphael’s Primary School di Dublino. 39

RICERCA5_9_ultimo.indd 39

30/09/13 16.12


SAPERI | Il rapporto dei bambini con il digitale specialista del settore, in Vorsicht Bildschirm! (2005) scrive: «Le nazioni industriali dell’Occidente hanno da tempo riconosciuto la necessità di statuire e di rispettare delle regole per la protezione dell’ambiente: l’effetto serra e le micropolveri portano a delle conseguenze complesse e a lungo termine, non per questo però da trascurare, sull’ambiente e sulla qualità della nostra vita. Nell’ottica del medico e dello specialista delle scienze neurofisiologiche, le ricadute degli schermi dei mezzi di comunicazione non sono meno drammatiche. I numeri parlano una loro lingua […]. Perché dunque un libro sullo schermo, scritto da un medico e neurofisiologo? Gli schermi sono fonte di malattia, hanno effetti sfavorevoli sul rendimento scolastico e inducono a una maggior disposizione alla violenza. Le conseguenze ricadono su tutti noi ed è giunto il momento di agire. Non dobbiamo più stare a guardare!». Se poi si considera lo sviluppo delle qualità dell’anima si può constatare che quando siamo davanti al monitor la nostra vita di movimento, e quindi anche di volontà, non ha modo di estrinsecarsi: infatti non

abbiamo davanti a noi un mondo reale che stimola e attiva la nostra vita percettiva, bensì un mondo virtuale, evanescente, preconfezionato. Si potrebbe obiettare che l’occhio è in continua attività, le dita si muovono sui tasti e così via. È vero, ma sono attività unilaterali: per l’occhio manca ad esempio la terza dimensione, la profondità, mentre le dita sono vincolate ai tasti. Chi si diventa davanti al video Perciò, in sintesi, si può dire che il video paralizza la volontà: davanti al video non siamo “attori”, se non nella capacità combinatoria intellettuale, quanto piuttosto “spettatori” di un mondo predeterminato dai programmatori. Se vogliamo includere nel processo educativo, oltre alla sfera cognitiva, anche quella affettiva e volitiva, cioè la maturazione sociale e l’assunzione di responsabilità, le elementari riflessioni fatte sino a qui aprono vaste problematiche nelle scelte degli strumenti tecnologici a livello educativo. Va poi ricordato un secondo aspetto fondamentale: più il bambino è piccolo più ha bisogno nella sua

Il piacere di sfogliare un libro illustrato, shutterstock.com. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 40

40

30/09/13 16.12


SAPERI formazione della presenza umana intorno a sé. Nella prima età, proprio perché è un essere che imita, se non c’è la presenza di uomini da poter imitare non arriva a conquistarsi le facoltà che qualificano l’uomo, la posizione eretta, la parola e il pensiero. Si pensi ad esempio ai bambini-lupo. In modo paradigmatico si può dire che tutto il tempo che il bambino passa davanti al video, di qualsiasi natura esso sia, è sottratto alla sua formazione di uomo. Dalla macchina non può imparare le specificità che fanno dell’uomo un uomo né raccogliere reali esperienze sensoriali. Questa riflessione che vale primariamente per il bambino piccolo, in quale misura è valida anche in età scolare nel rapporto fra insegnante e allievo? Chi è attivo nell’insegnamento ha delle risposte molto chiare al riguardo se non subisce interferenze estranee al processo educativo, quali le pressioni sociali ed economiche. Il contatto diretto fra bambino e adulto resta un fattore educativo di primaria importanza. Rispetto alle fasi di sviluppo qui ripercorse possiamo ricordare le due soglie che articolano in tre momenti la vita fino alla maggiore età. La prima soglia è data dall’acquisizione da parte dei bambini della capacità di vivere in immagini le proprie esperienze, capacità che fino ai sei-sette anni non ha ancora raggiunto una piena maturità. Queste immagini nascono nell’interiorità dell’anima grazie alle forze evocative della fantasia e dell’immaginazione, ovvero le capacità con la quale lavora ogni artista. Se il bambino sta davanti allo schermo, le immagini gli si presentano davanti agli occhi da fuori, fatte e finite, “preconfezionate”, paralizzando la fantasia e l’immaginazione. Il video è stato definito un “ladro di attenzione”. La vera fantasia non va confusa con la capacità combinatoria: la prima ha in sé germi di vita creativa, si sviluppa come una pianta vivente dal seme, la seconda lavora con le immagini come un caleidoscopio che riflette e combina, ma non ha nulla di creativo. Se quindi vogliamo educare degli uomini capaci di affrontare con fantasia le situazioni imprevedibili e con capacità creative le sfide della vita, l’uso dello schermo va dosato oculatamente.

sta una realtà “magica”, per cui schiacciando un tasto sul video appaiono le immagini più disparate, sorte “per incanto”, come dal nulla. Il video ha una forza suggestiva tale da indurre anche dipendenza. Per un uso consapevole e quindi responsabile delle tecnica digitale è indispensabile conoscere almeno le leggi generali su cui questa tecnica si è sviluppata. Possiamo riassumere così le riflessioni fatte sinora: l’uso della tecnica digitale nella prima infanzia paralizza la volontà ed è del tutto fuori luogo, ma le conseguenze negative emergono spesso solo in anni successivi. Nell’età scolare, all’incirca fino alla pubertà, il video sottrae ai ragazzi la fantasia e la creatività, causando un impoverimento non privo di conseguenze poco positive. Nell’età successiva il rapporto con la tecnica digitale è al giusto posto, ma solo una reale comprensione dei suoi principi di funzionamento ne consente un uso responsabile che metta al riparo da fenomeni di dipendenza. Queste riflessioni generali consentono anche di far emergere alcuni spunti educativi per bilanciare gli effetti problematici di un uso dello strumento tecnico poco conforme all’età. Nell’età scolare ogni attività artistica (pittura, musica, teatro) che stimoli la fantasia e l’immaginazione rappresenta un’importante fonte di riequilibrio. Per i ragazzi più grandi uno studio del funzionamento del computer e delle ricadute sul piano individuale e sociale del suo utilizzo può fare da contrappeso al fascino di questo strumento che spesso conduce a una sorta di dipendenza. Se dunque vogliamo educare degli uomini capaci di gestire al meglio non solo la sfera cognitiva, ma anche la sfera emotiva e sociale della loro vita, andrà posta grande attenzione nella scelta che porta a voler usare nell’ambito educativo lo strumento digitale.

▶ Stefano Pederiva è laureato in Farmacia. Ha inse-

gnato nella scuola Waldorf di Milano ed è stato attivo nel movimento pedagogico steineriano promuovendo convegni e collane pedagogiche. Insegna nei seminari di formazione in pedagogia steineriana. Per molti anni è stato responsabile della distribuzione dei farmaci antroposofici in Italia.

Combattere la videodipendenza Una seconda soglia si ha con la conquista della capacità di astrazione, con la quale si passa da un mondo popolato di immagini e di rappresentazioni a un mondo di idee e di concetti. Solo con la pubertà questa capacità raggiunge una certa maturità. Di essa si ha bisogno per arrivare a comprendere i principi sui quali si fonda l’informatica, per esempio il sistema binario. Se manca questa comprensione il video re-

APPROFONDIRE

F. Carlgren, A. Klingborg, Educare alla libertà. La pedagogia di Rudolf Steiner nelle scuole Waldorf, Filadelfia Editore, Milano, 1992.

M. Spitzer, Vorsicht Bildschirm! Elektronische Medien, Gehirnentwickulng, Gesundheit und Gesellschaft, Klett, Stoccarda, 2005.

41

RICERCA5_9_ultimo.indd 41

30/09/13 16.12


SAPERI

Oltre la scolastica: il mercato degli e-book Come vanno i libri elettronici nel mercato non scolastico? Stando alle cifre del 2013 diffuse dall’Ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori, ci sono segnali che il passaggio al digitale è avviato, anche se con una lentezza maggiore rispetto alle previsioni o ad altri Paesi.

I

dati mostrano piuttosto chiaramente che solo a partire dal 2011 in Italia si sono concretizzate alcune premesse indispensabili per la nascita di un mercato del libro elettronico: la diffusione degli e-book reader (i dispositivi mobili specifici che consentono la lettura di e-book) e dei tablet (che tra le tante funzionalità consentono anche la lettura digitale), insieme alla conversione in formato digitale di una parte consistente dei cataloghi delle maggiori case editrici e alla pubblicazione di un numero consistente di novità editoriali contemporaneamente in formato cartaceo e digitale. Questo passaggio, seppur tardivo rispetto ai Paesi anglosassoni, è stato rapido: in poco più di due anni l’offerta di libri disponibili in formato elettronico è quasi decuplicata (dai circa 7.500 della fine 2010 ai più di 60 000 del maggio di quest’anno) e l’offerta di novità editoriali pubblicate contemporaneamente nei due formati (digitale e cartaceo) è arrivata al 44,6%. Analizzando i dati relativi al numero di dispositivi e alla spesa per l’acquisto degli stessi si può sostenere (ipotizzando un prezzo medio di 150 euro per un e-book reader) che alla fine del 2012 i dispositivi per la lettura di libri elettronici (e-reader più tablet) disponibili in Italia superassero 3 500 000 unità (addirittura 12 000 000 comprendendo anche gli smartphone). Se si tiene conto che un’indagine ISTAT del 2012 ha censito come lettori poco meno di 26 milioni di individui (e di questi solo 6 milioni e mezzo nel corso dell’anno avevano letto più di quattro libri), si può facilmente concludere che i dispositivi in circolazione mettevano in condizioni di leggere un libro elettronico su dispositivo mobile l’equivalente del 14% dei lettori italiani (o del 6% della popolazione tota-

le), ci si può quindi ragionevolmente aspettare per il 2013 un ulteriore incremento significativo della quota di lettori di e-book (attestata al 3,1% nel 2012). Il caso del successo francese Alla conferenza internazionale Editech, tenutasi a Milano il 20 giugno 2013, un dato interessante è emerso da un’indagine svolta dall’Associazione editori francesi: la Francia ha visto triplicare i lettori di e-book nell’ultimo anno arrivando a rappresentare il 15%. Pare inoltre che nella maggioranza dei casi si tratti di lettori “forti” (il 69% avrebbe infatti letto un libro di carta nell’ultimo mese) e che il 27% abbia dichiarato di leggere di più da quando legge in digitale. Interessante notare che la quota di mercato stimata degli e-book sul mercato del libro francese nel 2012 è stata, come in Italia, dell’1,8% e i lettori di libri elettronici erano stimati intorno al 5% contro il 3,1% degli italiani. Nonostante la quota assoluta di fatturato degli e-book sia ancora decisamente modesta, i dati relativi alla crescita del mercato (+89%), dei lettori (+45,5%) e degli acquirenti (+63,1%), sono chiari segnali del fatto che, anche se con una lentezza maggiore rispetto alle previsioni o ad altri Paesi, il passaggio al digitale anche nel nostro Paese è ormai avviato e in molti si attendono di vedere nel corso dei prossimi anni l’“impennata” nella curva di crescita che ha contraddistinto l’andamento delle vendite negli anni passati nel Regno Unito e negli Stati Uniti.

▶ Simonetta Pillon è laureata in Storia Contemporanea e da oltre 27 anni lavora nel settore editoriale. Dal 2007 è direttore generale di Informazioni Editoriali, società leader in Italia nella gestione di basi dati bibliografiche e nella fornitura di servizi informativi per i professionisti del libro.

▶ Simonetta Pillon La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 42

42

30/09/13 16.12


SAPERI Le cifre dell’Ufficio studi AIE a giugno 2013* L’offerta di titoli e-book Dicembre 2009: 1619 (0,2% dei titoli in commercio) Dicembre 2010: 7559 Dicembre 2011: 19 884 Maggio 2012: 31 416 (4,4% dei titoli in commercio) Settembre 2012: 38 000 Maggio 2013: 60 589 (8,3% dei titoli in commercio)

Lettura di e-book (>14 anni, 52,2 milioni di persone) 2010 (Q4): 1,3% 2011: 2,3% (1,1 milioni;+59,2%) 2012: 3,1% (1,6 milioni; +45,5%) Acquisto di e-book (>14 anni, 52,2 milioni di persone) 2010 (Q4): 0,7% 2011: 1,1% (567mila; +55,3%) 2012: 1,8% (925mila; +63,1%)

Incidenza mensile dei titoli in e-book sulle novità in formato cartaceo Gennaio 2012: 29,1% Dicembre 2012: 35,1% Marzo 2013: 44,6%

Lettura per genere Donne: 51,7% leggono almeno un libro (12 mesi precedenti) 38,5% leggono un e-book Uomini: 48,3% leggono almeno un libro (12 mesi precedenti) 61,5% leggono almeno un e-book

Marchi editoriali con produzione e-book Maggio 2013: 1978

Numero di device venduti in Italia Pc desktop

Notebook

Cellulari

Smartphone

Tablet

2010

2 031 000

5 395 000

17 100 000

4 000 000

428 570

2011

1 680 000

4 520 000

18 300 000

5 300 000

858 000

2012

1 531 000

3 811 000

15 900 000

8 600 000

2 052 000

2012/10

-24,6%

-29,4%

-7,0%

+115,0%

+379,0%

Composizione del catalogo complessivo di e-book (quota per editore)

Spesa per acquisto di dispositivi mobili di lettura Smartphone

Tablet

E-reader

Gruppo Mondadori

12,3%

2010

1 250 000 000

210 000 000

16 000 000

Gruppo RCS

12,2%

2011

1 670 000 000

472 000 000

103 000 000

Gruppo GeMS

9,8%

2012

2 320 000 000

798 000 000

120 000 000

Feltrinelli

3,5%

2012/10

+85,6%

+280,0%

+650,0%

Gruppo Giunti

2,7%

Newton Compton

2,1%

Altri editori

57,4%

* Fonte: Ufficio studi AIE su dati Assinform, GfK, IE-Informazioni Editoriali (e-Kitab), Nielsen, Publishers’ Association UK.

43

RICERCA5_9_ultimo.indd 43

30/09/13 16.12


SAPERI | Oltre la scolastica: il mercato degli e-book Prezzo medio degli e-book E-book

Al netto dell’IVA

Libri

Al netto dell’IVA

Maggio 2011 (*IVA 20%)

11,18

9,32

18,34

17,63

Maggio 2012 (*IVA 21%)

11,07

9,15

18,60

17,88

Maggio 2013 (*IVA 21%)

10,44

8,63

18,00

17,31

2013/11

-6,6%

-7,4%

-1,9%

-1,9%

Stima del mercato e-book in Italia Dicembre 2010

0,1% del mercato trade

Dicembre 2011

0,9% del mercato trade

Dicembre 2012

1,8% del mercato trade* (+88,9%)

* Il fatto che il principale operatore di mercato in questo settore non fornisce alcun tipo di dato ne rende difficile la stima, che oscilla – a seconda delle valutazioni degli operatori – tra l’1,8% e il 2,1% del mercato trade.

Il mercato degli e-book in altri Paesi Valore mercato (p+e)* Titoli (carta) (all’anno) Nuovi Titoli / mille di abitanti E-book titoli Market share e-book (**)

Lettori

USA 27,2 Mld $

UK 3,200 Mld £

Germania 9,601 Mld €

Francia 4,587 Mld €

Spagna 2,772 Mld €

Italia 3,200 Mld €

149.800

96.237

81.268

80.000

66.390

0,939

2,459

1,138

1,243

1,700

1,118

1,0 Ml (Amazon) 25%

1,0 Ml (ca.)

80.000 Epub; 115,000 Pdf (ca) 2,4%

100.000 (ca)

10.000

60.589

1% (stima)

Prezzo non regolamentato

Prezzo non regolamentato Iva 0% libri e-book 20%

Prezzo fisso Iva 7% libri 19% e-book

1,8% (stima) 56,8 Ml € Prezzo fisso Iva 7% libri, 7% e-book

1,8% dei canali trade; 23,8 Ml € Prezzo fisso Iva: 4% libri, 21% e-book

1,6 Ml di lettori possiede un e-reader

70% libri 5,0% lettori libri digitali

72% libri 11% audiolibri 21% e-book

12,9%

Prezzo fisso Iva 4% libri, 21% e-book 63,0% libri 11,7% lettura digitale; 6,6% solo su e-reader

46,0% libri 3,1% e-book

Fonti: Stati Uniti e Regno Unito: The Global e-book Market (2012, O’Reilly); Pew Research Center Germania: Börsenverein (Publishers and Booksellers’ Association – 2012) Francia: Baromètre des usages du livre numérique (marzo 2012); Economie du Livre – chiffres-clés (2011-2012) Spagna: Hábitos de lectura y compra de libros (2012); Comercio Interior del Libro en España (2011) * libri stampati e e-book ** Iva in Lussemburgo: 3% libri; 15% e-book

La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 44

44

30/09/13 16.12


SAPERI

L’e-book e lo scrittore Un saggio nato per la carta che diventa e-book nel 2000, agli albori del digitale italiano. Dieci anni dopo, una novella concepita per la lettura digitale. Nel mezzo rimane l’impossibilità di inserire una pagina bianca, nell’attesa di una rivoluzione che non è ancora avvenuta.

D

a qualche parte, nei recessi di un portatile in disuso, dovrebbero ancora esserci le tracce del mio primo libro apparso in edizione elettronica. Era il 2000, qualcosa non era successo e qualcos’altro invece sì. L’atto mancato era il famigerato Millennium Bug, che secondo i catastrofisti di fine XX secolo avrebbe reso inservibile il patrimonio digitale fin lì accumulato. Previsione errata, come sappiamo, e rinnovata fiducia nel progresso informatico, che in quel momento aveva in Bill Gates il suo principale propagandista. Non a caso sempre nel 2000, e per l’esattezza l’8 agosto, Microsoft lanciava Reader, il programma che permetteva di leggere libri elettronici direttamente sul computer. Ed è a questo punto che la macrostoria dei new media si intreccia con il mio modesto destino di autore. Il libro si intitolava Citazioni pericolose, era stato pubblicato da Fazi e, per essere un saggio, non se la stava neppure cavando male. Era un tentativo di spiegare come mai nel cinema di quegli anni – e in molta narrativa popolare, da Stephen King in giù – accadesse sempre più spesso che la letteratura rivestisse un ruolo tanto minaccioso. Se ricordate le sanguinarie sciarade del serial killer in Seven avete capito di che cosa stiamo parlando. Era, in un certo senso, un libro sui libri, il che lo rendeva particolarmente adatto all’esperimento che l’editore aveva in mente: cercare una strada italiana per l’e-book. Quello che succede nel 2000 è, in breve, che Citazioni pericolose viene reso disponibile anche in formato digitale. Io stesso installo Microsoft Reader e scarico il testo che, secondo le politiche distributive dell’epoca, può risiedere su un numero molto limitato di apparecchi. Per qualche ora mi soffermo ad apprezzare la nitidezza dei caratteri, la pulizia dell’impaginato, la comodità di effettuare ricerche rapide ed efficaci.

Ricordo di aver pensato con una punta di rammarico alla fatica impiegata nella redazione dell’indice analitico, ma era stata una constatazione passeggera. Come passeggera, in quel momento, sembrava l’infatuazione per l’e-book. Anche perché i dispositivi “dedicati” erano ancora merce rara e qualcuno sosteneva, in tutta serietà, che il display di un palmare fosse un supporto di lettura più che sufficiente. La materia ha continuato a interessarmi, anche dal punto di vista professionale (come giornalista mi occupo spesso di scenari editoriali). Ma fino al 2010 non mi ha più riguardato in maniera immediata. Nel frattempo la tecnologia si era perfezionata, Amazon e il suo Kindle avevano reso abbordabile l’acquisto di un e-reader, nei Paesi di lingua inglese gli e-book avevano iniziato a conquistare quote di mercato sempre più sostanziose. E in Italia? In Italia era nata BookRepublic, una piattaforma indipendente che non solo distribuisce in digitale il catalogo di diversi editori, ma ha anche creato una sua sigla, 40k, destinata alla pubblicazione di inediti. Me ne parlò Giuseppe Granieri, uno dei più ascoltati media guru nostrani, allora impegnato a reclutare autori per il progetto. Mi invitò a partecipare e io accettai, spinto anzitutto dal desiderio di mettermi alla prova sulla misura – che mi ha sempre affascinato – della novella. A 40k non si accontentavano di un racconto, né erano interessati a narrazioni troppo estese. Ritenevano, giustamente, che il lettore digitale fosse attratto da una lunghezza intermedia, la stessa che in seguito è stata adottata dai Kindle Singles. A stampa equivale a un testo fra le 40 e le 60 cartelle: è quella che gli anglosassoni chiamano novelette. Oltre alle caratteristiche del formato, ero attratto dalla prospettiva di scrivere un racconto destinato direttamente alla diffusione digitale. Sia pure con una certa lentezza, anche in Italia si stava diffondendo la prassi di proporre in e-book le novità editoriali, come se all’hardcover venisse affiancata una

▶ Alessandro Zaccuri 45

RICERCA5_9_ultimo.indd 45

30/09/13 16.12


SAPERI | L’e-book e lo scrittore a una geografia surreale, che può richiamare di volta in volta le geometrie di Escher o le fantasmagorie dell’Arcimboldi. Scrivere Il Deposito è stata per me un’esperienza molto istruttiva, e non soltanto perché mi ha insegnato a diffidare delle classifiche (per un paio di giorni il mio titolo fu il best seller di BookRepublic e questo probabilmente aiuta a definire quali fossero in quel momento le dimensioni del fenomeno). Lavorando alla mia novelette digitale ho avuto l’opportunità di intuire come, allo stato attuale, l’e-book non presenti per uno scrittore alcuna reale differenza rispetto alla pubblicazione su carta. A voler essere onesti, bisognerebbe semmai ammettere che certi espedienti tranquillamente praticabili per via tradizionale (inserire una pagina bianca come cesura nel racconto, per esempio) sono pressoché improponibili in sede digitale. Pur sapendo che il suo testo diventerà un e-book, insomma, uno scrittore lavora sempre allo stesso modo. Ci troviamo in una fase simile agli esordi del cinema, quando in buona sostanza ci si limitava a stupire gli spettatori con una sorta di teatro filmato. Poi, per tentativi ed errori, il cinema è diventato cinema, e cioè qualcosa di completamente diverso rispetto al teatro. In letteratura un balzo del genere non si è ancora verificato, nonostante se ne discuta da oltre vent’anni. In gran parte dimenticato anche dagli addetti ai lavori, il dibattito sull’ipertesto ha segnato in modo determinante l’inizio degli anni Novanta. Non producendo capolavori, d’accordo, ma incidendo con forza sulla mentalità degli autori. Adesso la riflessione si è spostata sulla cosiddetta enanched literature, la “letteratura arricchita” (di immagini, suoni, filmati, animazioni eccetera) di cui si possono apprezzare solo sporadici esperimenti. Fino a quando l’e-book non troverà il suo Ejzenstejn, o magari il suo Meliès, sarà essenzialmente un ottimo sistema per mettere al sicuro il catalogo o, in alternativa, per sostituire le venerande plaquette in termini di raffinatezza e curiosità. Non male, se si considera che gli scrittori amano le plaquette, ma sotto sotto è al catalogo che puntano.

sottospecie di tascabile virtuale (forse un tascabile troppo costoso, ma questo sarebbe un altro discorso). Contemporaneamente si affacciava la convinzione del libro elettronico inteso come terra promessa del self publishing, risorsa non disprezzabile in assoluto e tuttavia meno significativa rispetto alla sfida di un’editoria digital first, con tutte le caratteristiche di rischio d’impresa, distribuzione e ufficio stampa fin lì esclusive del cartaceo. Nacque così Il Deposito, una novella che, come già era stato per Citazioni pericolose, si poteva leggere come un libro sui libri. O, se preferite, come un e-book sugli e-book. Nella mia storia si immagina infatti che, in un futuro non troppo lontano, i volumi tradizionali siano considerati poco igienici e, di conseguenza, ammassati in enormi magazzini solo in parte accessibili al pubblico. I libri non sono proibiti, anzi – nonostante la conclamata vittoria degli e-book – ciascun cittadino può possederne una certa quantità, che però dev’essere custodita in una particolare libreria, progettata in modo da prevenire il contagio derivante da acari e polveri. Nel “Deposito”, si capisce, la situazione è completamente diversa: tomi e opuscoli si affastellano gli uni sugli altri, dando luogo La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 46

▶ Alessandro Zaccuri è autore di saggi e romanzi. Tra questi ultimi ricordiamo Milano, la città di nessuno (L’Ancora del Mediterraneo, 2003, premio Biella 2004), Il signor figlio (Mondadori, 2007, premio Selezione Campiello) e Dopo il miracolo (Mondadori, 2012, premi Basilicata e Frignano). Scrive sul quotidiano “Avvenire”.

46

30/09/13 16.12


SAPERI

Un editore fra carta e digitale Produzione editoriale e pubblicazione di e-book. Ne parliamo con Vittorio Bo, presidente e fondatore di Codice Edizioni, casa editrice specializzata nel settore scientifico e particolarmente attenta alle nuove tecnologie e ai new media. Nonché una delle prime in Italia a pubblicare libri in formato digitale.

N

ata dieci anni fa, Codice Edizioni è una casa editrice specializzata in saggistica e nel settore scientifico. La sua proposta editoriale, che dedica una particolare attenzione a Internet e alle nuove tecnologie, si è guadagnata la fedeltà di un pubblico medio alto proponendo fin dall’esordio titoli coraggiosi come La struttura della teoria dell’evoluzione di Stephen Jay Gould. A Codice fanno capo anche riviste come “Oxygen”, il magazine di Enel. Il motore di questa riuscita avventura editoriale è Vittorio Bo, che ha fondato Codice dopo aver lasciato il posto di amministratore delegato e direttore generale di Giulio Einaudi Editore. Unitamente alla casa editrice Bo ha fondato Codice. Idee per la cultura, una factory che fa impresa producendo cultura: il che si traduce in eventi culturali e di divulgazione come il Festival della Scienza, mostre di arte e scienza, workshop e laboratori didattici. A Bo, imprenditore attento alla possibilità di vivere la cultura come un’azione produttiva, abbiamo chiesto il punto di vista di un editore che oltre al cartaceo offre un’ampia proposta di titoli in digitale.

R: Tendenzialmente vorremmo mettere tutti i nostri titoli in formato digitale, per mantenere costante e viva l’offerta anche di titoli che nel tempo possono diminuire il volume di vendita ma non la loro attualità e importanza. Ovviamente bisogna risolvere le questioni legate ai costi e alle royalties, che non sempre rendono conveniente l’operazione. Più in generale, cerchiamo il più possibile di stimolare l’attenzione verso i titoli in formato digitale, con iniziative e e-book pass pensati insieme a BookRepublic, il nostro distributore: in Italia il mercato degli e-book è ancora giovane e permette di “sperimentare”. D: Codice Edizioni ha conquistato un pubblico fedele di lettori grazie a titoli di argomento scientifico e tecnologico. Un pubblico che si interessa alle nuove tecnologie è anche un pubblico orientato alla lettura su dispositivi elettronici? R: Assolutamente sì. L’interesse di lettori orientati e attenti alle dinamiche della trasformazione in corso è molto evidente nei dati di venduto dei nostri titoli in e-book di argomento “digitale”. Un titolo che è andato molto bene in e-book, pur conservando un’ottima media di venduto anche in cartaceo, è L’ingenuità della rete di Evgenij Morozov.

D: Codice Edizioni vanta un catalogo di 250 titoli di cui un centinaio in formato digitale. Quando e perché avete deciso di pubblicare e-book? R: Siamo stati tra i primi editori italiani a farlo. Considero il digitale non solo un formato innovativo e aggiuntivo all’analogico, ma anche una sfida per nuovi modelli di produzione editoriale. Stiamo lavorando anche sull’“evoluzione” digitale delle nostre riviste.

D: Con un e-reader o un tablet in funzione tra le mani, l’e-book può apparire un prodotto piuttosto “semplice”. Quali sono le difficoltà che si possono incontrare nel raggiungere o mantenere gli standard di funzionalità del prodotto? R: Mi sembra che dal punto di vista del prodotto il passaggio al digitale nel formato della cosiddetta “usabilità” di lettura sia già abbastanza consolidato. Diverso invece è quanto possa evolvere il libro grazie alla dimensione estremamente aperta del digitale, che consente strutture linguistiche e iconiche davvero nuove e ancora poco esplorate.

D: Come vengono scelti i titoli che proponete in digitale? Prevedete di aumentare l’offerta di e-book?

▶ Vittorio Bo ▶ Intervista a cura della redazione 47

RICERCA5_9_ultimo.indd 47

30/09/13 16.12


SAPERI | L’editore cartaceo e digitale D: L’e-book viene spesso percepito come un prodotto che “deve costare poco”: niente carta, niente stampa, niente distribuzione. Un’opinione comune da sfatare? R: Certamente l’e-book fa saltare passaggi tradizionali e costosi della filiera editoriale classica, ma non è detto che nell’evoluzione del mercato questi non debbano essere sostituiti da maggiori interventi sul fronte del marketing e della personalizzazione del rapporto con il cliente/lettore. In ogni caso, noi abbiamo una politica di prezzo attenta e cerchiamo di non superare mai la soglia dei 9,99 euro.

poter riesaminare continuamente l’argomentazione e che per far ciò deve disporre di materiale organizzato in una struttura del tutto lineare, come avviene solo nel libro cartaceo. Lei ritiene che ci siano generi più o meno adatti alla lettura in formato digitale? R: Per l’editoria scolastica certamente il digitale rappresenta una grande opportunità per la possibilità di aggiornamenti continui ed economici, l’integrazione di linguaggi funzionali alla didattica e la maneggevolezza dei device. Per l’editoria trade dipende molto dalle abitudini e dalle personali esigenze dei singoli lettori/utilizzatori.

D: Parliamo di redditività. In che misura a un editore conviene pubblicare e-book? R: Oggi certamente la redditività in sé è bassa e il ricavo da e-book rappresenta una porzione complementare e aggiuntiva, nel nostro mercato domestico in particolare. È un mercato in crescita lenta ma costante, benché ancora piccolo. Nonostante nell’ultimo anno sia raddoppiata l’offerta di titoli in digitale, in Italia il loro mercato rappresenta circa il 2%.

D: Fra i molti titoli del vostro catalogo dedicati a “tecnologia e media” ci sono voci, come quella di Frank Schirrmacher, che rilevano alcune criticità nell’era digitale e nelle nuove tecnologie. Quali sono gli aspetti problematici su cui mettono l’accento i vostri autori? R: Sono aspetti che non sono solo legati al tema del libro: la frammentarietà dei contenuti, la dispersione del livello di attenzione e concentrazione, la “dipendenza” digitale, la “tirannia” digitale come la definisce John Freeman.

D: Considerando la filiera dell’editoria nel contesto italiano, se la curva di vendita degli e-book cresce chi ne fa le spese? R: Certamente per primi i librai, soprattutto i piccoli e gli indipendenti. E questo non è affatto un bene.

D: Nella lettera che ha scritto ai lettori per i dieci anni di Codice Edizioni afferma che «la dimensione materiale del libro non è sostituibile». A parlare non è solo la persona, che dichiaratamente fa parte di coloro che i libri amano «toccarli, annusarli, guardarli», ma anche l’imprenditore. Ci può spiegare come intende il rapporto tra libri cartacei e digitali e come lo immagina in futuro? R: Penso a un futuro di forte complementarietà e potenziale crescita di funzionalità, dove il cartaceo rimarrà non tanto e solo per un aspetto affettivo e simbolico, quanto per un processo di recupero – già molto evidente negli Stati Uniti – della sua estetica funzionale e valoriale. Cartaceo e digitale saranno compagni competitivi nel segno della singolarità e della qualità.

D: Codice Edizioni è specializzata in saggistica. Roberto Casati, autore di Contro il colonialismo digitale, che abbiamo intervistato per questo numero della “Ricerca”, sostiene che chi legge un saggio deve

▶ Vittorio Bo è presidente e fondatore di Codice. Idee per la cultura e di Codice Edizioni. Dal 2003 dirige il Festival della Scienza. Nel 1976 ha fondato la casa editrice Il melangolo, dal 1990 al 2001 è stato amministratore delegato e direttore generale di Giulio Einaudi Editore. Ha insegnato in diverse università italiane.

Interno della Monkseaton High School, Whitley Bay, Inghilterra, www.monkseaton.org.uk. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 48

48

30/09/13 16.12


SAPERI

Quando il digitale entra nel museo

Una sala del Museo Laboratorio della Mente ospitato nell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, allestito con il contributo di Studio Azzurro, www.museodellamente.it.

La tecnologia digitale può essere una grande risorsa per i musei. A patto che si accompagni a una progettazione dei contenuti che sia davvero adeguata alle esigenze del pubblico.

D

a quando qualche decennio fa è stato inventato il tempo libero, per i musei niente è stato più come prima. I numeri dei visitatori sono ovviamente aumentati, grazie al sostanziale afflusso di turisti, scuole e pensionati, ma è emersa sempre di più la consapevolezza che lo scopo di “studio” e “educazione” secondo la definizione dell’ICOM (International Council of Museums1), sarebbero stati sempre più condizionati dal “diletto”. Insomma, è convinzione sempre più diffusa soprattutto tra gli amministratori pubblici che, per competere con cinema, concerti, teatro, shopping e parchi a tema, non basta più solo fornire la conoscenza di arte e cultura, ma bisogna anche far divertire il visitatore.

Il problema esiste e non va sottovalutato: molti musei sono ancora noiose raccolte tassonomiche di opere, invasive per la quantità dell’offerta e assai stringate per la capacità comunicativa, con un apparato informativo rigido, pedante e tecnicistico, più spesso concepito per rispondere alle aspettative dei colleghi e raramente progettato per svolgere un compito di efficace divulgazione culturale (in Italia spesso confusa con la volgarizzazione). Non di rado insomma, sono luoghi concepiti per quelle figure di cultori della materia, già dotati di un proprio apparato di conoscenza, che una volta costituiva la gran parte dei visitatori e ora solamente una piccola frazione. A fronte dei molti interventi anche strutturali che hanno interessato i musei negli ultimi decenni (servizi al visitatore, bookshop, allestimento eccetera), non di meno viene a volte cercata la soluzione più facile,

▶ Andrea Perin 49

RICERCA5_9_ultimo.indd 49

30/09/13 16.12


SAPERI quasi una scorciatoia: inserire nel museo la “nuova tecnologia” che, magicamente, sarà in grado di attirare i “giovani” (categoria sempre più ambita e spesso fumosa nella sua definizione) e “svecchiare” l’istituzione museo.

mente sull’uso di strumenti portatili come il tablet e lo smartphone e quali ricettori di informazioni, potrebbe rappresentare un enorme cambiamento soprattutto nel campo della comunicazione al pubblico: nei musei non esiste un solo pubblico, ma tantissimi, diversi per grado di preparazione e cultura, per interesse, per strumenti a disposizione, ma anche banalmente per età, classe sociale, provenienza geografica (con differenze non solo linguistiche ma anche culturali di base). Se l’audioguida ha rappresentato uno dei primi strumenti per moltiplicare le informazioni al visitatore senza intervenire sull’allestimento, le nuove tecnologie digitali potrebbero moltiplicare e diversificare l’informazione creando un’offerta potenzialmente infinita, di facile aggiornamento e con margini di autonomia e interattività. Con il QrCode (codice a barre bidimensionale impiegato per memorizzare informazioni leggibili con dispositivi di tipo mobile) è possibile scaricare un breve testo di approfondimento relativo a una singola opera o una situazione puntuale, e in prospettiva sono disponili dispositivi come NFC (connettività

Dall’audioguida allo smartphone Se anni fa sembrava un dovere la creazione di postazioni informatiche all’interno del percorso, la tecnologia multimediale, sulla scorta delle realizzazioni compiute inizialmente da Studio Azzurro2, accende ancora oggi l’entusiasmo degli amministratori. Ma oltre che nelle istallazioni squisitamente artistiche, la tecnologia multimediale ha cambiato profondamente alcune tipologie di musei come ad esempio quelli storici3, nei quali è stata superata l’esposizione di cimeli a favore di allestimenti con testimonianze filmate, impensabili con le tecnologie precedenti. I risultati non sono stati gli stessi nei musei dove hanno accompagnato l’esposizione di opere reali, entrando a volte in competizione con queste4. L’utilizzo della tecnologia digitale, basato sostanzial-

Una sala del Museo Laboratorio della Mente ospitato nell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, allestito con il contributo di Studio Azzurro, www.museodellamente.it. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 50

50

30/09/13 16.12


SAPERI wireless bidirezionale a corto raggio) e Realtà Aumentata (arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente su dispositivi mobili, come uno smartphone, o di visione, ascolto e manipolazione, come ad esempio occhiali, auricolari e guanti).

manutenzione, non sempre facilmente ottenibile con i rigidi bilanci degli enti pubblici e le risorse limitate: cosa c’è di più triste nei musei delle vecchie postazioni web con computer che si possono ormai scambiare per oggetti da esposizione? Oppure di proiettori per il multimediale con la lampadina fulminata e i grandi schermi ormai inutili? La tecnologia digitale, e le non immaginabili possibilità future, può essere una grande risorsa per i musei a patto di non confondere il mezzo con il fine: qualsiasi tecnologia, per se stessa, non rappresenta alcun vantaggio se non è accompagnata da una progettazione dei contenuti che sia in armonia con gli strumenti a disposizione.

Limiti e vantaggi delle app Sempre più sviluppate sono le app dedicate a smartphone e tablet, solitamente destinate in prevalenza a giochi e servizi vari, ma che stanno registrando una veloce espansione nel campo dei beni culturali. Non sempre però i risultati sono proporzionali alle potenzialità a disposizione: al di là della qualità della progettazione digitale, gran parte delle realizzazioni testimoniano che spesso esiste una distanza tra le esigenze del committente (l’istituzione stessa, cui spetta la realizzazione del contenuto e la stesura dei testi) e del progettista, con quelle dell’utente: spesso il contenuto ricalca gli stessi testi pedanti e tecnicisti usati negli ormai superati pannelli didattici e, a dispetto delle grandi possibilità nella diversificazione dei messaggi, ci si comporta come se il pubblico fosse indifferenziato. Solo in poche situazioni si propongono percorsi diversi a seconda dell’interesse5, oppure si differenzia il messaggio a seconda dello strumento: su smartphone e tablet le app possono avere scopi diversi, rispettivamente informativo ed esperienziale. Troppo spesso inoltre le app vengono concepite come fossero un sito web. I vantaggi potenziali nella costruzione dell’informazione non è scontato che vengano utilizzati dai visitatori per il solo fatto che esistono e sono a disposizione: non solo perché smartphone e tablet non sono ancora così diffusi (pensiamo al pubblico scolare o a quello dei pensionati, che non di rado costituiscono una fetta più che rilevante di pubblico) e a volte le app hanno un costo che ne frena l’utilizzo, ma soprattutto perché se non è riconoscibile subito un vantaggio reale non si concretizza neppure il motivo a collegarsi. Non va dimenticato che il museo espone opere reali e se la tecnologia digitale sommerge di informazioni quanto si dovrebbe osservare fornisce al museo un pessimo servizio. Vi sono anche considerazioni critiche sull’uso dei dispositivi mobili in museo che allungherebbe enormemente il tempo del percorso di visita (persone ferme a guardare il proprio tablet invece che le opere) o addirittura impedirebbe di socializzare. Senza contare l’obsolescenza delle tecnologie, la cui durata è ormai spesso di pochi anni, e l’importanza di un loro costante aggiornamento e

NOTE: 1. “Il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”, Statuto dell’ICOM, articolo 2. 2. Gruppo di artisti fondato nel 1982, il cui ambito di ricerca si esprime con i linguaggi delle nuove tecnologie. 3. Ad esempio: “Museo Audiovisivo della Resistenza delle province di Massa Carrara e La Spezia” a Fosdinovo (MS), inaugurato nel 2000; “Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà” a Torino, inaugurato nel 2003. 4. Nel “Museo Martinitt e Stelline” di Milano inaugurato nel 2009, ad esempio, nella sala dedicata alla quadreria l’unica tela reale tende a scomparire rispetto riproduzioni digitali degli altri quadri, brillanti di bit, che vengono proiettate alle pareti. 5. La app Guggenhein BILBAO presenta ad esempio diversi percorsi (Express visit, A day at the Museum, Architecture, Family tour, Collections) oltre alla possibilità di personalizzare la visita (My visit).

Andrea Perin è architetto museografo, si occupa della progettazione di allestimenti di esposizioni temporanee e permanenti di antropologia, archeologia e arte (www.studioandreaperin.it). È autore di articoli su riviste specializzate e volumi di museografia, si interessa a tempo perso dei significati della cucina. Nel 2013 partecipa alla fondazione dell’Associazione Passages, il cui scopo è promuovere e sostenere lo studio, la tutela e la valorizzazione del patrimonio – e della sua processualità – in un’ottica di ampliamento, sostenibilità e diffusione della sua conoscenza, gestione e fruizione.

51

RICERCA5_9_ultimo.indd 51

30/09/13 16.12


SAPERI

Gli archivi digitali in rete La riproduzione digitale dei documenti storici e la loro pubblicazione in rete garantisce la tutela e la valorizzazione degli archivi a beneficio di specialisti, appassionati, pubbliche amministrazioni e studenti. Ma in Italia siamo ancora indietro, anche se stanno calando gli oneri di allestimento e manutenzione delle banche dati e migliorano le interfacce di interrogazione e presentazione.

C

rescono con geometrica rapidità le pubblicazioni on-line di oggetti culturali. O meglio: le riproduzioni digitali di oggetti culturali. È praticamente impossibile dar conto di tutto quanto avviene nella rete. Dai grandi progetti pubblici sovranazionali come Europeana a quelli di iniziativa privata come Google Book o Art Project, sempre di Google, da quelli promossi a livello statale su iniziativa governativa come Gallica, la digital library francese, a quelli sorti nell’ambito di singoli istituti di conservazione più o meno grandi e più o meno prestigiosi. Possiamo accedere, con relativa facilità, a una mole imponente di riproduzioni digitali del patrimonio culturale: opere d’arte, fotografie, libri, periodici, filmati d’epoca, spartiti musicali, manoscritti, e, naturalmente, documentazione archivistica.

divulgazione ampiamente presenti sui grandi portali culturali sopra ricordati o sui siti di musei, archivi e biblioteche; talora si giovano di “effetti speciali” ma possono essere realizzate anche a basso costo e con strumenti relativamente semplici. In ambito archivistico, un percorso o una mostra virtuale, di tipo elementare, può essere realizzato anche a costo zero con hosting e uso di CMS gratuiti, basta disporre di immagini significative oltre, va da sé, a testi che siano semplici e curati. Di ben altra natura sono i sistemi del primo tipo, quelli cioè che pubblicano raccolte sistematiche quali ad esempio fondi librari, collezioni museali, complessi documentari, archivi fotografici e così via. Queste realizzazioni, che sono spesso il risultato di campagne di digitalizzazione di lunga durata e di forte impegno economico, sono orientate a un pubblico che intende effettuare qualsivoglia genere di ricerca, non necessariamente di tipo professionale. Come detto sopra, si appoggiano su cataloghi, inventari o altri sistemi di descrizione normalizzati la cui esistenza si misura, in molti casi, in diversi decenni; richiedono soluzioni notevolmente complesse, sia in termini di hardware sia di software, e ovviamente assai onerose. Stiamo insomma parlando di infrastrutture informative di lungo periodo. Nei siti delle grandi istituzioni culturali questi due tipi di pubblicazione, quella del singolo oggetto in un contesto testuale e quella della collezione organica collegata al catalogo, convivono stabilmente: la prima, che ha spesso l’onore del posizionamento più attrattivo in home page, si nutre spesso dei contenuti forniti dalla seconda. In questo panorama, che a livello mondiale si fa sempre più generoso di informazioni ma anche più

Le risorse culturali in rete Molto grossolanamente, possiamo affermare che sono due le principali modalità attraverso cui la rete ci presenta queste risorse: da un lato abbiamo le digitalizzazioni sistematiche di intere collezioni collegate a cataloghi, inventari o comunque in qualche modo indicizzate; dall’altro troviamo riproduzioni di singoli oggetti inseriti, come testimonianze eccellenti, all’interno di contesti più ampi prevalentemente testuali o ipertestuali. In questa seconda categoria rientrano le mostre virtuali, i percorsi o gli approfondimenti tematici, i sussidi didattici per pubblici anche scolastici e così via. Si tratta di produzioni volte alla promozione e alla

▶ Roberto Grassi La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 52

52

30/09/13 16.12


SAPERI complicato e talora disorientante, non si può proprio affermare che l’Italia si sia conquistata un ruolo di avanguardia. Anzi. Soprattutto per ciò che riguarda quelle che abbiamo chiamato le “infrastrutture di lungo periodo” scontiamo, rispetto ad altri Paesi avanzati, un gap considerevole. Tale condizione di arretratezza è particolarmente avvertita per gli archivi storici la cui presenza in rete, almeno per quanto riguarda le riproduzioni digitali, si può ancora considerare, tutto sommato, marginale. Non mancano progetti di un qualche interesse ma, nell’insieme, la possibilità di accedere on-line a fonti storiche resta molto limitata.

le serie documentarie più esposte al rischio di degrado, per la fragilità dei supporti o per la frequente consultazione, venivano riprodotte su microfilm; gli utenti potevano consultare attraverso gli appositi lettori i duplicati dei documenti su pellicola senza dover muovere gli originali dai depositi. Si trattava dunque di un’azione finalizzata sostanzialmente alla tutela del patrimonio. A questa azione di tutela se ne affiancava, in verità piuttosto raramente, una di valorizzazione e promozione volta ad agevolare la ricerca storica: venivano effettuate copie di grandi archivi o specifici nuclei documentari di interesse generale conservati in sedi situate all’estero o difficilmente raggiungibili. Penso ad esempio alla microfilmatura dei documenti delle dominazioni spagnola e austriaca sullo Stato di Milano conservati negli archivi di Simancas e Vienna, realizzata alla fine degli anni Settanta. Ma, tolti pochi casi isolati, la riproduzione di archivi ha per lun-

La digitalizzazione degli archivi storici La riproduzione di documenti in ambito archivistico è un’attività praticata da lungo tempo. Già negli anni Sessanta e Settanta, quindi ben prima che Internet vedesse la luce, nei grandi istituti di conservazione

Il Maker Space della NYSCI, New York Hall of Science. 53

RICERCA5_9_ultimo.indd 53

30/09/13 16.12


SAPERI | Gli archivi digitali in rete go tempo assolto a un compito di salvaguardia e di buona conservazione. La diffusione delle tecnologie ha cambiato radicalmente la prospettiva. La duplicazione digitale consente di preservare gli originali, la sua pubblicazione li rende accessibili ovunque. Tutela e valorizzazione possono essere due risultati di una medesima azione, con vantaggi strategici di tutta evidenza.

lano. L’istituto pubblica un eccellente “Atlante dei catasti storici e delle carte topografiche della Lombardia”. Quella della cartografia storica appare quanto mai scelta opportuna perché è questo un tipo di fonte caratterizzata da requisiti che la rendono particolarmente adatta alla riproduzione digitale. Il bello della topografia Innanzitutto sono documenti fragili ma assai consultati e dunque esposti a rischio di deterioramento. In secondo luogo vengono utilizzati da una molteplicità di utenti per le più diverse ragioni di ricerca. È superfluo ricordare che, di un determinato territorio, il catasto ci racconta l’economia, il paesaggio, ma anche la demografia, la composizione sociale, ampi stralci della cultura materiale e così via. È un documento frequentato da storici di professione ma anche da appassionati e cultori di patrie memorie; può essere utilizzato per iniziative didattiche nelle scuole ma è indispensabile per tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di pianificazione territoriale, in primis le amministrazioni locali. Insomma, sia sotto il profilo delle necessità di tutela sia sotto quello delle potenzialità di valorizzazione, la cartografia appare una fonte a cui accordare priorità. I non molti casi citati, e altri che per brevità ho omesso, rappresentano, come è evidente, poco più che esperienze simboliche. Le quantità di materiale sino a oggi digitalizzato costituiscono una percentuale irrisoria di quello conservato, una goccia nel mare magnum dei nostri depositi archivistici. Una nota di relativo ottimismo deriva dalla considerazione che gli oneri di allestimento e manutenzione dei sistemi risultano costantemente in calo in ragione di diversi fattori tra cui la diminuzione dei costi di acquisizione e di stoccaggio delle risorse digitali. Il che, unito al miglioramento delle interfacce di interrogazione e presentazione, fa ben sperare; il pubblico appare in crescita, come peraltro testimoniato dalle statistiche del traffico sui siti. In ogni caso il cammino per rendere disponibile in rete il grande patrimonio degli archivi storici italiani, o almeno una sua parte significativa, appare ancora lungo e tutt’altro che scontato.

L’importanza della descrizione Vi è tuttavia una precondizione perché le campagne di digitalizzazione risultino efficaci: e cioè che la riproduzione sia associata a una compiuta descrizione dell’oggetto analogico da cui deriva. In altri termini: non ha senso produrre duplicati da esporre in rete senza prima aver descritto, o meglio inventariato, i complessi documentari. Ed è su questo fronte, quello appunto della descrizione, che la comunità professionale si è impegnata da quando le tecnologie, nei lontani anni Novanta, hanno fatto il loro ingresso nella cassetta degli attrezzi dell’archivista. Non è il caso di soffermarsi su questo processo, le cui implicazioni sono state in qualche modo epocali sia per gli operatori sia per gli utenti: basti dire che l’esito di quasi due decenni di attività è stata la costituzione di sistemi, più o meno complessi, di banche dati di descrizione archivistica. In Italia, circa tre anni or sono, queste banche dati sono confluite nel SAN, il Sistema Archivistico Nazionale, sorto su iniziativa delle Direzione Generale per gli archivi e la adesione di alcune Regioni. Il SAN funziona sostanzialmente da collettore e da raccordo delle risorse prodotte da altri sistemi. Si tratta però pressoché esclusivamente di un enorme catalogo di descrizioni archivistiche, certamente utili ai fini della ricerca ma non sostitutive del documento. In altri termini: l’utente ricercatore che consulta il SAN, una volta identificato il materiale di interesse, deve recarsi nell’istituto che lo conserva e accedere ai documenti originali. All’interno di un quadro tutto sommato poco confortante, vi sono, come sopra accennato, alcuni progetti eccellenti i cui risultati prefigurano quello che potrà essere il futuro degli archivi sul web. Penso ad esempio ai fondi “Diplomatico” e “Mediceo avanti il principato” dell’Archivio di Stato di Firenze, oppure al progetto DIVENIRE dell’Archivio di Stato di Venezia o ancora ai registri anagrafici presenti all’interno di “Antenati, gli archivi per la ricerca anagrafica”, un portale tematico collegato al SAN. Non è questa evidentemente la sede per dar conto di ciascuno di essi, ma è significativo ricordare brevemente almeno il caso dell’Archivio di Stato di MiLa ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 54

▶ Roberto Grassi è funzionario della Direzione Ge-

nerale Culture di Regione Lombardia, dove si occupa di programmazione nel settore dei beni culturali. È autore di saggi di ambito archivistico e di narrativa storica. Ha insegnato al corso di laurea in Scienze dei Beni culturali presso l’Università di Pavia.

54

30/09/13 16.12


SAPERI

55

RICERCA5_9_ultimo.indd 55

30/09/13 16.12


DOSSIER

Digital babies, poster da www.listofimages.com.

Nativi digitali e immigrati digitali La distinzione fra nativi e immigrati digitali è ormai d’uso quasi comune. Ma qual è il suo senso? È una generica notazione di indubbie differenze generazionali, oppure una teoria con implicazioni profonde e discutibili? Pubblichiamo, per la prima volta in italiano, i due articoli di Marc Prensky che nel 2001 diedero origine a questa fortunata formulazione.

M ▶ Marc Prensky La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 56

i pare sorprendente che nel tumultuoso dibattito odierno sul declino dell’istruzione negli Stati Uniti si ignori la causa fondamentale del problema. I nostri studenti sono cambiati radicalmente; non sono più le persone per cui il sistema educativo è stato pensato. Oggi, i ragazzi non sono solo cambiati rispetto al passato, né hanno semplicemente mutato il modo di parlare, vestirsi o agghindarsi, come era succes-

so nelle generazioni passate. Si è verificata davvero una grande trasformazione. La si potrebbe definire una “singolarità” tale da cambiare le cose in maniera così profonda da rendere impossibile tornare indietro: si tratta dell’arrivo e della rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del ventesimo secolo. Gli studenti di oggi, dall’asilo al college, rappresentano le prime generazioni cresciute con queste nuove tecnologie. Hanno speso la

56

30/09/13 16.12


DOSSIER loro vita usando computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari e tutti gli altri gadget dell’era digitale. In media, oggi, i neolaureati hanno impiegato meno di 5000 ore a leggere, ma più di 10 000 a giocare ai videogame (per non parlare delle 20 000 passate alla tv). Giochi per computer, e-mail, Internet, telefoni cellulari e instant messaging sono parte integrante della loro vita. Cervelli di nuova generazione È ormai chiaro che, come prodotto di questo ambiente tecnologico onnipresente, gli studenti oggi pensano ed elaborano le informazioni in modo diverso dai loro predecessori. E queste differenze vanno ben oltre e sono più profonde di quanto la maggior parte degli educatori sospetti. «Diversi tipi di esperienze portano a strutture cerebrali diverse», dice il dottor Bruce D. Berry del Baylor College of Medicine. Per via del modo in cui sono cresciuti, è molto probabile che i cervelli dei nostri studenti si siano fisicamente modificati e siano diversi dai nostri. Che ciò sia comprovato oppure no, possiamo dire con certezza che anche i loro modelli cognitivi sono cambiati. Ne parlerò a breve. Come dovremmo chiamare questi “nuovi” studenti? Alcuni si riferiscono a loro come la generazione N (da Net, Rete), o generazione D (come Digital, digitale). Ma la designazione più utile che ho trovato è digital natives (nativi digitali). Oggi i nostri studenti sono tutti “madrelingua” del linguaggio digitale dei computer, videogiochi e Internet. E quindi chi siamo noi? Quelli di noi che non sono nati nel mondo digitale, ma ad un certo punto della loro vita sono rimasti affascinati e hanno adottato molti o

quasi tutti gli aspetti della nuova tecnologia, sono e saranno sempre, in confronto ai nativi, immigrati digitali. L’importanza della distinzione è la seguente: anche se gli immigrati digitali imparano, proprio come gli immigrati, alcuni sicuramente meglio di altri, a adattarsi all’ambiente, in qualche misura mantengono sempre il loro “accento”, cioè un piede nel passato. L’accento dell’immigrato digitale è visibile, ad esempio, nel ricorrere a Internet non prioritariamente per la ricerca di informazioni, ma solo in un secondo tempo, o nel leggere il manuale di un programma piuttosto che dare per scontato che il programma stesso ci insegnerà ad usarlo. Gli adulti oggi hanno sperimentato la “socializzazione” diversamente dai figli, e stanno imparando una nuova lingua. E un linguaggio appreso tardi, dicono gli scienziati, finisce in un’altra parte del cervello. Ci sono centinaia di esempi dell’accento degli immigrati digitali. Ad esempio: stampare un’email (o chiedere alla segretaria di farlo, un accento ancora più marcato); sentire la necessità di stampare un documento scritto sul computer per modificarlo (piuttosto che modificarlo direttamente a schermo); invitare persone nel proprio ufficio per vedere un sito web interessante (piuttosto che mandare semplicemente la URL). Sono sicuro che chiunque è in grado di pensare a uno o due esempi senza molto sforzo. Ecco il mio preferito. Telefonata: «Hai ricevuto la mia email?». Gli immigrati digitali possono, e dovrebbero, ridere di se stessi e del proprio “accento”. Ma non è solo una battuta. È una questione cruciale, perché il più grande problema educativo attuale è che gli insegnanti immigrati digitali, che parlano una

lingua obsoleta (quella dell’era pre-digitale), hanno problemi a insegnare a una popolazione che parla un idioma completamente nuovo. Spesso i ragazzi non riescono a capire ciò che dicono gli immigrati. Ad esempio, che cosa significa “comporre” un numero telefonico? Lo studente multi-task Affinché questa prospettiva appaia nella sua urgenza, e non sembri una mera descrizione, vorrei evidenziare alcuni problemi. I nativi digitali sono abituati a ricevere informazioni in modo veramente veloce. Amano gestire i processi in maniera parallela e multi-task. Preferiscono la grafica al testo, piuttosto che il contrario, e l’accesso random (come accade nell’ipertesto). Sono più produttivi quando si collegano alla rete. Fanno progressi attraverso la gratificazione immediata e ricompense frequenti. Apprezzano più i giochi del lavoro “serio”. Tutto questo vi suona familiare? Ma gli immigrati digitali in genere apprezzano ben poco queste nuove abilità che i nativi hanno acquisito e perfezionato in anni di interazione e di pratica. Sono capacità quasi totalmente estranee agli immigrati digitali, che hanno a loro volta imparato, e quindi scelto di insegnare, lentamente, passo dopo passo, una cosa alla volta, individualmente, e soprattutto con uno stile serio. «I miei studenti proprio non _____ come una volta», protestano gli immigrati digitali. «Non riesco a farli ____ o ____. Non apprezzano _____ o _____» (Riempite voi gli spazi vuoti, ci sono un’infinità di scelte possibili). Gli immigrati digitali non credono che i loro studenti possano apprendere con successo mentre guardano la tv o ascoltano la musica, perché loro non potrebbero

57

RICERCA5_9_ultimo.indd 57

30/09/13 16.12


DOSSIER|Nativi digitali e immigrati digitali

Schermata da Reader Rabbit, videogame di intrattenimento educativo prodotto dalla The Learning Company, 1986, screwattack.com.

farlo. Non hanno sviluppato questa abilità costantemente durante i loro anni formativi. Gli immigrati digitali pensano che l’apprendimento non possa (o non dovrebbe) essere divertente. E perché dovrebbero? Non hanno speso i loro anni formativi imparando con Sesame Street. Purtroppo per i nostri insegnanti immigrati digitali, i ragazzi seduti in aula sono cresciuti con la velocità dei videogiochi e di MTV. Sono abituati all’istantaneità dell’ipertesto, della musica scaricata, dei telefoni in tasca, della biblioteca sui computer portatili, dei messaggi e delle chat. Sono stati collegati in rete per la maggior parte o per tutta la loro vita. Hanno poca pazienza per le lezioni, per la logica step-by-step, e per l’istruzione tell-test. Gli insegnanti immigrati digitali presuppongono che gli studenti siano sempre gli stessi e che i metodi validi per loro, quando erano a loro volta studenti, funzionino ancora. Ma quest’ipotesi non è più valida. Gli studenti di oggi sono diversi. «Www.hungry.com», ha detto uno studente dell’asilo a pranzo. «Ogni volta che vado a La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 58

scuola devo spegnere tutto», si lamenta uno studente di liceo. Ma i nativi digitali non riescono a prestare attenzione, o scelgono di non farlo? Dal loro punto di vista, spesso gli insegnanti rendono l’educazione qualcosa a cui non vale la pena dedicare attenzione al paragone con qualsiasi altro tipo di esperienza; e poi li accusano di non stare attenti! In ogni caso saranno sempre meno attenti. «Mi sono iscritto a una scuola di alto livello, in cui tutti i professori venivano dal MIT», dice un ex studente, «ma tutto quello che facevano era leggere i libri di testo. Ho chiuso». Nella vertiginosa bolla occupazionale creata da Internet sino a pochi mesi fa (quando abbondavano le possibilità di lavoro, soprattutto nelle aree in cui la scuola offre scarso aiuto), questa era una possibilità reale. Ma coloro che hanno smesso di andare a scuola per seguire la rete ora ci stanno ritornando. Ancora una volta, dovranno confrontarsi con la distanza che li separa dagli immigrati e avranno ancora più difficoltà, date le loro esperienze recenti. Ciò renderà

sempre più difficile insegnare loro, e a tutti i nativi già presenti nell’istituzione, in maniera tradizionale. I nativi dovrebbero imparare i vecchi metodi, o gli educatori immigrati adattarsi ai nuovi? Purtroppo, non importa quanto gli immigrati lo desiderino, è altamente improbabile che i nativi tornino indietro. Prima di tutto, perché, forse, questo ritorno è addirittura impossibile: i loro cervelli potrebbero già essere diversi dai nostri. Inoltre, quest’ipotesi andrebbe contro tutto ciò che sappiamo della migrazione culturale. I bambini nati in ogni nuova cultura imparano la nuova lingua con facilità e resistono con forza a quella vecchia. Gli immigrati adulti intelligenti accettano questo dato di fatto; sanno di conoscere molto poco il mondo nuovo e sfruttano i loro figli per imparare e integrarsi. Quelli meno furbi (o meno flessibili) passano la maggior parte del loro tempo rimpiangendo le buone cose del “vecchio mondo”. Che cosa fare allora? Quindi, a meno che non vogliamo semplicemente rinunciare a educare i nativi digitali, aspettando che crescano e che si educhino da soli, faremmo meglio ad affrontare questo problema. E se siamo disposti a farlo, allora dobbiamo riconsiderare sia la nostra metodologia sia i nostri contenuti. In primo luogo la metodologia. Gli insegnanti devono imparare a comunicare nella lingua e nello stile degli studenti. Questo non vuol dire cambiare il significato di ciò che è importante o dei modi corretti di pensare. Significa andar più veloce, meno passo dopo passo, più in parallelo e con un accesso più random. Gli educatori si chiedono: «Come facciamo a insegnare la logica in questo modo?». Anche se non è

58

30/09/13 16.12


DOSSIER immediatamente chiaro, abbiamo bisogno di capirlo. In secondo luogo, i nostri contenuti. Mi sembra che, oltre l’unicità del digitale, ci siano ora due tipi di contenuti: quelli “futuri” e quelli “ereditati”. Questi ultimi comprendono la lettura, la scrittura, l’aritmetica, il pensiero logico, la comprensione degli scritti e delle idee del passato e così via; contenuti ben presenti nel curriculum tradizionale. Naturalmente sono ancora importanti, ma appartengono a un’altra epoca. Alcuni (come il pensiero logico) continueranno a essere centrali, altri (come forse la geometria euclidea) lo saranno sempre meno, come è successo con il latino e il greco. I contenuti del “futuro” sono tecnologici e digitali, e questo non dovrebbe sorprenderci. Non includono solo il software, l’hardware, la robotica, le nanotecnologie, la genomica e così via, ma anche l’etica, la politica, la sociologia, le lingue e altre aree correlate. Questi contenuti “futuri” sono estremamente interessanti per gli studenti di oggi. Ma quanti immigrati digitali sono disposti a insegnarli? Una volta, qualcuno mi ha suggerito che i bambini dovrebbero usare a scuola solo i computer che hanno loro stessi costruito. Un’idea brillante, molto fattibile dal punto di vista delle capacità degli studenti. Ma chi è in grado di insegnarla? Come educatori, abbiamo bisogno di pensare a come trasmettere sia i contenuti classici sia quelli del futuro nella lingua dei nativi digitali. I primi prevedono un considerevole sforzo di traduzione e un cambio di metodologia; i secondi coinvolgono tutto quanto vi è in più nel nuovo tipo di pensiero. Non mi è chiaro che cosa sia più difficile, se “imparare cose nuove” o “imparare nuovi modi di

Schermata da Reader Rabbit, videogame di intrattenimento educativo prodotto dalla The Learning Company, 1986, screwattack.com.

fare cose già fatte”, ma sospetto che sia la seconda. Dobbiamo quindi inventare qualcosa, ma non necessariamente da zero. L’opera di adattamento al linguaggio dei nativi è già iniziata con successo. La mia opzione preferita è inventare giochi didattici per computer, anche per i contenuti più difficili. Dopo tutto, è un linguaggio assolutamente familiare alla maggior parte dei nativi. Vuoi fare l’ingegnere? Gioca! Non molto tempo fa, un gruppo di professori si è presentato nella mia azienda con il nuovo software CAD (computer-aided design), sviluppato per gli ingegneri meccanici. È talmente superiore a ciò che vi è in circolazione che davano per scontata l’immediata adozione da parte di tutti gli ingegneri. Invece, hanno incontrato molta resistenza a causa della difficoltà d’uso del prodotto: il softwarel contiene centinaia di nuovi pulsanti, opzioni e approcci. I promotori hanno allora avuto una brillante idea. Osservando che gli utenti di software CAD erano ingegneri quasi esclusivamente di sesso maschile tra i 20

e i 30 anni, si sono detti: «Perché non trasformare l’apprendimento del software in un videogioco?». Per loro quindi, abbiamo inventato un videogame nello stile “sparatutto” del gioco Doom e Quake, e lo abbiamo chiamato La cospirazione di Monkey Wrench. Il giocatore è un agente segreto intergalattico che deve salvare una stazione spaziale da un attacco del malvagio dottor Monkey Wrench. L’unico modo per sconfiggerlo è utilizzare il software CAD, che lo studente deve impiegare per costruire strumenti, aggiustare armi e disinnescare trappole esplosive. C’è un’ora di tempo, più 30 task, che possono richiedere da 15 minuti a diverse ore ciascuno, a seconda del livello di esperienza. Monkey Wrench è stato un successo fenomenale per stimolare i giovani interessati a conoscere il software CAD. È ampiamente utilizzato dagli studenti di ingegneria di tutto il mondo, con oltre un milione di copie stampate in diverse lingue. Ma mentre è stato facile per il mio staff di nativi digitali inventare il gioco, creare il contenuto si è rivelato più difficile per i profes-

59

RICERCA5_9_ultimo.indd 59

30/09/13 16.12


DOSSIER|Nativi digitali e immigrati digitali sori, i quali erano abituati a corsi di insegnamento che iniziavano con: “Lezione 1: l’interfaccia”. Abbiamo chiesto loro di ideare una serie di compiti graduati in cui erano comprese le abilità che gli studenti dovevano imparare. I professori hanno fatto un video di 5-10 minuti per illustrare i concetti chiave del software; abbiamo chiesto loro di ridurli a meno di 30 secondi. I professori hanno insistito che bisognava fare tutti i compiti in ordine; noi abbiamo chiesto di consentire l’accesso random. Loro volevano un ritmo lento accademico; noi volevamo velocità e urgenza (abbiamo persino assunto uno sceneggiatore di Hollywood). Loro volevano istruzioni scritte; noi volevamo film per il computer. Loro volevano il linguaggio pedagogico tradizionale, fatto di “obiettivi di apprendimento”, “padronanza” e così via (ad esempio: “in questo esercizio si impara…”); il nostro obiettivo era eliminare completamente qualsiasi espressione che sapesse vagamente di educazione. Alla fine, i professori ce l’hanno fatta brillantemente, ma a causa del grande cambiamento di mentalità che abbiamo chiesto loro ci hanno messo il doppio del tempo. Una volta che hanno familiarizzato con l’approccio di lavoro, però, la nuova metodologia è diventata il loro modello per più di un insegnamento e la loro velocità di sviluppo è molto aumentata. È forte l’esigenza di simili cambiamenti in tutte le materie, a tutti i livelli. Sebbene la maggior parte dei tentativi di “intrattenimento educativo” fino ad oggi abbiano sostanzialmente fallito sia dal punto di vista educativo sia da quello dell’intrattenimento, possiamo fare e prevedo che faremo molto meglio. In matematica, per esempio, il dibattito non deve riguardare l’utilizzo di calcolatrici La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 60

e computer, una realtà ormai acquisita dai nativi, ma come usarli per veicolare i contenuti davvero utili, dalle competenze chiave alle tabelline. Dovremmo concentrarci sulla “matematica del futuro”: approssimazione numerica, statistica, pensiero binario. Per quanto riguarda la geografia, materia importantissima ma sempre più ignorata, non vi è alcuna ragione per cui una generazione capace di memorizzare più di 100 personaggi Pokémon con tutte le loro caratteristiche, la storia e la loro evoluzione, non possa imparare i nomi, le popolazioni, le capitali e le relazioni di tutte le 101 [sic] nazioni nel mondo. Dipende solo da come ciò viene presentato. A scuola dagli studenti Abbiamo bisogno di inventare metodi digitalizzati per tutte le materie, a tutti i livelli, usando come guida i nostri studenti. Il processo è già iniziato. Conosco professori universitari che hanno inventato videogiochi per materie di insegnamento che vanno dalla matematica all’ingegneria e all’inquisizione spagnola. Dobbiamo pubblicizzare e diffondere i loro successi. Un’obiezione frequente degli educatori immigrati è: «Questo approccio è ottimo per certe cose, ma non per la mia materia». Sciocchezze. Questa è solo una razionalizzazione, una mancanza di immaginazione. Nei miei discorsi includo “esperimenti mentali” in cui invito gli insegnanti a suggerire un argomento o un tema; poi mi cimento sul momento a inventare un gioco o un metodo digitale per insegnarlo. Filosofia classica? Basta creare un gioco in cui i filosofi dibattono e gli studenti devono scegliere che cosa ciascun pensatore direbbe. L’Olocausto? Perché non creare una simulazione in cui gli studenti giocano alla conferenza di

Wannsee, o sperimentano l’orrore dei campi di concentramento, invece di far vedere loro film come Schindler List. È solo stupido (e pigro) da parte degli educatori, per non parlare di quanto sia inefficace, presumere che (nonostante le loro tradizioni) il modo di insegnare tipico degli immigrati sia l’unico valido e che il “linguaggio” dei nativi non sia altrettanto capace di abbracciare qualsiasi idea. Quindi, se gli educatori vogliono davvero raggiungere i nativi digitali, vale a dire tutti i loro studenti, dovranno cambiare. È giunto il momento che smettano di brontolare e, come recita il motto della Nike così familiare alla generazione digitale, si dicano: Just do it! Fallo e basta. Alla lunga avranno successo, ma ce la faranno molto prima se gli amministratori li supporteranno.

M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants Part I, in “On the Horizon” (MCB University Press), vol. 9, n. 5, ottobre 2001. Traduzione di Francesca Nicola.

Marc Prensky è uno scrittore e imprenditore americano. Sul suo sito (marcprensky.com) si definisce un «visionario pratico; conferenziere acclamato a livello internazionale, consulente e designer nelle aree critiche dell’educazione e dell’apprendimento». Dirige la Games2Train, un’azienda DGBL (Digital Game-Based Learning), produttrice di videogame educativi. Il suo testo il più importante è Digital Learning Game-Based, McGraw-Hill, New York, 2001. Per l’evoluzione del suo pensiero si veda: H. Sapiens digitale: dagli immigrati digitali e nativi digitali alla saggezza digitale, in “TD-Tecnologie Didattiche,” n. 50, 2010, pp. 17-24, rintracciabile in rete digitando il titolo in un motore di ricerca.

60

30/09/13 16.12


DOSSIER

A sinistra il Digital Eye Glass di Steve Mann (1978-1980); a destra il GoogleGlass (2013), dalla mostra 35 anni di Augmented Reality Vision, http://wearcam.org/arvis.htm.

La mente nuova dei nativi digitali «I bambini oggi socializzano in modo diverso dai genitori. I numeri sono schiaccianti: oltre 10 000 ore a giocare con i videogiochi, oltre 10 000 ore a parlare al cellulare; oltre 20 000 ore a guardare la tv (di cui un’alta percentuale impiegata nel guardare la tv veloce stile MTV); oltre 200 000 e-mail e messaggi telefonici; oltre 500 000 spot visti. Tutto questo prima che lascino il college. E, forse, 5000 ore spese a leggere un libro. Questi sono i nativi digitali, gli studenti di oggi» (Marc Prensky).

P ▶ Marc Prensky

resento in questo articolo le prove di quanto ho sostenuto in Digital Natives, Digital Immigrants Part I. Provengono dalla neurobiologia, dalla psicologia sociale e da studi condotti su bambini esperti in giochi educativi. Anche se la stragrande maggioranza degli educatori contemporanei è cresciuta pensando che il

cervello umano, soprattutto dopo i 3 anni, non cambia fisicamente in base agli stimoli esterni, le ricerche neurobiologiche più recenti dimostrano che tale visione è sbagliata. Non vi sono più dubbi che stimolazioni di vario genere cambino le strutture del cervello influendo sul modo in cui le persone pensano e che tali trasformazioni vada-

61

RICERCA5_9_ultimo.indd 61

30/09/13 16.12


DOSSIER|La mente nuova dei nativi digitali no avanti per tutta la vita. Il cervello è, in una misura che nell’era dei baby boomers non è stata del tutto capita, per gran parte plastico. Può essere, ed è, costantemente riorganizzato. Anche se il termine popolare rewired, ricablato, è un po’ fuorviante, l’idea generale è giusta. Il cervello cambia e si organizza in modo diverso in base agli input che riceve. La vecchia concezione di un numero fisso di cellule cerebrali, una ad una morenti, è stata soppiantata dall’ipotesi che il nostro approvvigionamento di neuro-cellule sia permanente. Il cervello si riorganizza continuamente, sia da bambini sia nella vita adulta, un fenomeno tecnicamente noto come neuroplasticità. Uno dei pionieri in questo campo della neurologia ha scoperto che, dopo appena due settimane, i topi in ambienti «a stimolazione potenziata» mostrano cambiamenti neuronali rispetto a quelli in ambienti «impoveriti»: le aree sensoriali del loro cervello diventano più spesse. Le modifiche presentano una crescita costante, suggerendo che il cervello mantenga inalterata la sua plasticità

per tutta la vita1. Numerosi altri esperimenti corroborano queste conclusioni. I cervelli di alcuni furetti sono stati fisicamente ricablati, facendo passare input dagli occhi ai nervi uditivi e viceversa: i loro cervelli si sono modificati per accogliere le nuove stimolazioni2. Alcuni esperimenti di imaging mostrano che quando le persone non vedenti imparano il braille, le aree “visive” del loro cervello si illuminano. Allo stesso modo, i sordi usano la corteccia uditiva per leggere i segni3. Le scansioni del cervello di persone che per alcune settimane esercitano le loro dita in una complicata sequenza mostrano un’attivazione della corteccia motoria superiore rispetto a quando si esibiscono in sequenze che non hanno mai praticato4. Alcuni giapponesi hanno imparato a “riprogrammare” i loro circuiti neuronali per distinguere il suono “ra” da “la”, un’abilità che “dimenticano” subito dopo la nascita, perché la loro lingua non lo richiede5. Altri ricercatori hanno scoperto che una seconda lingua imparata nel corso della vita è

Schermata da Super Solvers: Gizmos and Gadgets, videogame scientifico prodotto dalla The Learning Company, 1993, screwattack.com. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 62

elaborata in una parte del cervello diversa da quella in cui lavora la lingua madre6. Corsi intensivi di educazione alla lettura con studenti dai 10 anni in su sembrano aver creato cambiamenti chimici duraturi in settori chiave dei loro cervelli7. Le analisi attraverso risonanza magnetica del cervello dei musicisti mostrano che il volume del loro cervelletto è del 5% superiore alla media, una crescita attribuita a adattamenti nella struttura dell’organo derivanti dalla formazione musicale8. Siamo solo all’inizio della comprensione e dell’applicazione delle ricerche sulla plasticità cerebrale. L’obiettivo è che si radichi definitivamente un’educazione basata sulle neuroscienze9. La malleabilità del cervello Anche la psicologia sociale offre evidenze che i nostri modelli di pensiero cambiano in conseguenza delle esperienze. Fino a poco tempo fa, i filosofi occidentali e gli psicologi davano per scontato che gli stessi processi fondamentali siano alla base di tutto il pensiero umano: mentre le differenze culturali possono influenzare ciò che le persone pensano, le strategie e i processi di pensiero, incluso il ragionamento logico e la lettura degli eventi in termini lineari di causa-effetto, sarebbero gli stessi per tutti. Ma anche questa è un’idea sbagliata. Infatti, le ricerche degli psicologi sociali10 mostrano che persone cresciute in diverse culture non si limitano a pensare cose diverse, ma pensano diversamente. L’ambiente e la cultura in cui sono allevate influenzano e determinano anche i loro processi cognitivi. «Eravamo soliti pensare che tutti usassero le categorie allo stesso modo, che la logica giocasse lo stesso tipo di ruolo nella com-

62

30/09/13 16.12


DOSSIER prensione della vita quotidiana da parte di ciascuno; che la memoria, la percezione, l’applicazione di regole e così via fossero le stesse», dice qualcuno. «Ma stiamo ora pensando che gli stessi processi cognitivi siano molto più malleabili di quanto la psicologia ufficiale abbia assunto in passato»11. Ora sappiamo che i cervelli si sviluppano in modo diverso a seconda delle esperienze e che persone sottoposte a input diversi dalla cultura che li circonda pensano diversamente. Anche se non abbiamo ancora osservato direttamente il cervello dei nativi digitali per vedere se è anatomicamente diverso (come sembra essere quello dei musicisti) le prove indirette sono estremamente forti. Tuttavia, i cervelli e i modelli di pensiero non si modificano durante la notte. Uno dei principali risultati della ricerca sulla plasticità del cervello è che questo organo non si riorganizza casualmente, facilmente o arbitrariamente. «La ristrutturazione cerebrale avviene solo quando l’animale presta attenzione all’input sensoriale e a compiti specifici»12. «Richiede un lavoro molto duro»13. Per ottenere i primi risultati di un biofeedback necessitano almeno cinquanta sessioni. I programmi usati per analizzare le modificazioni cerebrali prodotte dalla lettura implicano che gli studenti spendano 100 minuti al giorno, cinque giorni alla settimana, per 5-10 settimane per realizzare le modificazioni desiderate, perché «ci vuole un’attenzione perfettamente a fuoco per ricablare il cervello»14. Diverse ore al giorno, cinque giorni alla settimana, un’attenzione acuta, vi ricorda qualcosa? Oh, sì, i videogiochi! È esattamente ciò che hanno fatto i ragazzi da quando è arrivato Pong nel 1974: hanno regolato o programmato il

cervello sulla velocità, l’interattività e le altre caratteristiche del gioco, allo stesso modo in cui i cervelli dei baby boomers sono stati riprogrammati dalla televisione, e in cui il cervello dell’uomo alfabetizzato è stato modificato dalla lingua scritta e della lettura, riqualificandosi per funzionare in modo lineare15. «La lettura non avviene spontaneamente, è una lotta terribile». «Leggere richiede una neurologia diversa rispetto alle altre attività del cervello come la lingua parlata»16. Cervelli adattati alla lettura Uno dei principali obiettivi delle scuole per centinaia di anni, da quando la lettura è diventata un fenomeno di massa, è stata la modifica del nostro cervello. Anche in questo caso, la formazione ha richiesto diverse ore al giorno, cinque giorni alla settimana, e la massima attenzione. Ovviamente proprio quando abbiamo capito (più o meno) come adattare il cervello alla lettura, è nato il bisogno di cambiarlo nuovamente per via della tv. E ora, i nostri bambini stanno ristrutturando il loro cervello in modi

ancora più nuovi, molti dei quali antitetici rispetto ai nostri vecchi modi di pensare. I ragazzi cresciuti con il computer «pensano in modo diverso da noi; sviluppano menti ipertestuali; saltano da una cosa all’altra. È come se le loro strutture cognitive fossero parallele, non sequenziali»17. «I processi di pensiero lineari dominanti nei sistemi educativi attuali possono effettivamente ritardare l’apprendimento dei cervelli sviluppati attraverso il gioco e il web-surfing»18. Alcuni hanno ipotizzato che, quando sono al computer, gli adolescenti usino parti del cervello differenti rispetto agli adulti. Ora ne sappiamo di più: i loro cervelli sono quasi certamente diversi, e queste differenze, secondo la maggior parte degli osservatori, sono una questione di quantità non di qualità. Per esempio, a seguito di esperienze ripetute, particolari aree del loro cervello diventano più grandi e più sviluppate delle altre. Le abilità cognitive potenziate dall’esposizione ripetuta ai videogiochi e altri media digitali includono: lettura di immagini visive come rappresentazioni del-

Schermata da Super Solvers: Gizmos and Gadgets, videogame scientifico prodotto dalla The Learning Company, 1993, screwattack.com. 63

RICERCA5_9_ultimo.indd 63

30/09/13 16.12


DOSSIER|La mente nuova dei nativi digitali e cosa avessero capito, i punteggi erano esattamente gli stessi. «Questo ci ha portato a concludere che i bambini di cinque anni nel gruppo con i giocattoli ascoltavano in maniera abbastanza strategica, distribuendo l’attenzione tra i giocattoli e la tv in modo da seguire solo quella che per loro era la parte più informativa del programma»22.

Schermata da Where in the World Is Carmen Sandiego?, videogame geografico, The Learning Company, 1987, screwattack.com.

lo spazio tridimensionale (competenza rappresentativa); abilità multidimensionali visuo-spaziali; mappe mentali; “origami mentali” (cioè la capacità di immaginare diverse pieghe senza però doverle fare praticamente); “scoperte induttive” (cioè osservazioni e ipotesi per capire le regole di una rappresentazione dinamica); “distribuzione attenzionale” (fare attenzione a più cose contemporaneamente) e infine capacità di rispondere più velocemente a stimoli attesi e inattesi19. Sono abilità cognitive forse non nuove, ma certo lo è la loro intensità e il modo in cui si combinano fra loro. Abbiamo una nuova generazione con una diversa miscela di capacità mentali rispetto ai predecessori: i nativi digitali. I tempi di attenzione Sentiamo gli insegnanti lamentarsi spesso dei tempi di attenzione dei nativi digitali; ormai è un luogo comune dire che hanno la capacità di attenzione di un moscerino. Ma è proprio così? «Certo che hanno tempi di attenzione brevi; brevi per i vecchi modi di apprendimento», dice un La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 64

professore20. Ma i loro tempi di attenzione non sono brevi per i giochi, per esempio, o per qualsiasi altra cosa li interessi realmente. Come risultato delle loro esperienze, i nativi digitali bramano l’interattività e una risposta immediata alle loro azioni. La scuola tradizionale offre molto poco di tutto ciò: uno studio ha dimostrato che in classe gli studenti arrivano a fare una domanda ogni dieci ore21. Quindi, in generale, non è che i nativi digitali non riescano a prestare attenzione; scelgono di non farlo. Una ricerca fatta per Sesame Street rivela che i bambini in realtà non guardano la televisione in modo continuativo, ma a tratti. Sono in sintonia quel tanto che basta per capire l’essenziale e per essere sicuri di coglierne il senso. In un importante esperimento, alla metà dei bambini è stato mostrato un programma in una stanza piena di giocattoli. Come previsto, il gruppo con i giocattoli si è distratto e ha guardato lo spettacolo solo il 47% del tempo rispetto all’87% del gruppo senza giocattoli. Ma quando ai piccoli è stato chiesto cosa ricordassero

Che cosa abbiamo perso? Eppure, sentiamo spesso gli insegnanti dire che sono aumentati i problemi nella lettura e nella capacità di pensare. Che dire? Qualcosa è andato perso nel processo di “riprogrammazione” dei nativi digitali? Un’importante capacità che sembra essere stata colpita è la riflessione. È ciò che ci permette, secondo molti teorici, di generalizzare, perché ci fornisce i “modelli mentali” dalla nostra esperienza. Si tratta, per molti versi, del processo di “apprendere dall’esperienza”. Nel nostro mondo ad alta velocità ci sono sempre meno tempo e occasioni di riflessione. Una delle sfide e delle opportunità più interessanti dell’insegnare ai nativi digitali sta proprio nell’inventare nuovi modi per includere la riflessione e il pensiero critico nel processo di apprendimento (sia incorporati nell’istruzione sia attraverso un processo di debriefing condotto dagli insegnanti). Ma ciò va fatto nella madrelingua digitale. È un settore in cui possiamo e dobbiamo fare di più. I nativi digitali abituati alla velocità, al multitasking, all’accesso random, alla grafica, al mondo attivo, collegato, divertente, fantasioso e rapido dei loro videogiochi, di MTV e di Internet, sono annoiati dalla maggior parte della formazione attuale. Ancora peggio, le nuove abilità derivate dalla tec-

64

30/09/13 16.12


DOSSIER nologia dotate di un sicuro valore educativo (elaborazione parallela, consapevolezza grafica, accesso random) sono quasi totalmente ignorate dagli educatori. Le differenze cognitive dei nativi digitali richiedono nuovi approcci educativi che meglio si accordino al loro modo di essere. Ed è abbastanza interessante che fra gli strumenti in grado di soddisfare le mutevoli esigenze di apprendimento dei nativi digitali vi siano i videogiochi per computer, che i ragazzi oggi amano così tanto. Per questo l’apprendimento digitale basato su di essi comincia a prosperare. Ma i videogiochi funzionano? Naturalmente molti criticano i giochi educativi, e in effetti c’è molto da criticare. Ma, se non producono i risultati sperati, non è perché sono giochi o perché il concetto di apprendimento basato su di essi sia difettoso; è perché sono stati mal progettati. È evidente che giochi ben progettati producono apprendimento, anche molto, e allo stesso tempo tengono i ragazzi impegnati. Anche se alcuni educatori si riferiscono ai giochi come “zuccherini”, dandone una connotazione fortemente negativa, e spesso ghignando, essi sono un grande aiuto per i nativi digitali. Dopotutto si tratta di uno strumento a loro familiare e assai gradito. La scuola elementare, togliendo vacanze, pranzo e tempi morti, in realtà consiste in circa tre ore di insegnamento al giorno. Quindi, supponendo per esempio che i giochi educativi siano solo il 50% del programma di studio, facendo giocare i bambini per sei ore nel corso di un fine settimana, bisognerebbe aggiunge effettivamente una sola ora di scuola alla settimana! Sei ore è molto meno di quanto un nativo digitale tipicamente

trascorre durante il fine settimana davanti alla tv o ai videogiochi. Il trucco, però, è rendere i giochi abbastanza convincenti. Devono essere veri, non solo belli; devono combinare gioco e contenuti. Lo sostengono i numeri. Lightspan partnership, che ha creato i giochi della PlayStation per potenziare il curriculum scolastico, ha condotto studi in oltre 400 distretti scolastici sull’efficacia dei propri prodotti. Secondo i risultati, gli studenti che usano i videogiochi mostrano un aumento del vocabolario e del linguaggio rispettivamente del 24% e 25% rispetto al gruppo di controllo, mentre nei problemi di matematica e negli algoritmi realizzano punteggi superiori del 51% e del 30%23. Click Health, che produce giochi per aiutare i bambini a gestire da soli i problemi di salute, ha commissionato studi clinici finanziati dai National Institutes of Health. Nel caso del diabete, i bambini che usano i loro giochi (a confronto con un gruppo di controllo impegnato con i flipper) mostrano benefici misurabili in termini di autoefficacia, comunicazione con i genitori e cura di sé. Ancora più importante, le visite mediche urgenti per i problemi legati al diabete sono diminuite del 77% nel gruppo di trattamento24. Alcuni programmi fondati sul gioco elaborati per l’apprendimento rapido da parte di bambini con difficoltà nella lettura, sviluppati da 60 professionisti indipendenti in 35 città americane e canadesi, hanno concordemente verificato sostanziali miglioramenti nel 90% dei bambini25. La storia è sempre la stessa. Per apprendere servono tempo e pratica. Ma ai bambini non piace fare pratica. I giochi catturano la loro attenzione e fanno in modo che dedichino molto tempo a opera-

zioni che insegnano loro qualcosa. L’esercito americano, che deve educare ogni anno 250 000 ragazzi di 18 anni, è un grande sostenitore dei giochi educativi. Sa che è esattamente ciò che i giovani volontari si aspettano: «Se non facessimo così, non vorrebbero mai entrare nel nostro ambiente»26. D’altronde, lo sanno per esperienza: «Lo abbiamo visto più e più volte nei nostri simulatori di missioni aeree». I trainer del Dipartimento della Difesa, di mentalità pratica, sono perplessi dal fatto che gli educatori dicano: «Non sappiamo se la tecnologia educativa funziona, abbiamo bisogno di più studi». «Sappiamo che funziona», rispondono, «vogliamo solo continuare ad usarla»27. In conclusione, i neurobiologi e gli psicologi sociali oggi pensano che il cervello possa cambiare, e cambi di fatto, con nuovi input. E gli educatori impegnati in missioni educative cruciali, come insegnare ai portatori di handicap e ai militari, già usano videogiochi e computer come metodi efficaci per raggiungere i nativi digitali. Ma la maggior parte dell’establishment tradizionale sembra non abbia fretta di seguire l’esempio. Eppure questi insegnanti sanno che qualcosa non va, perché non raggiungono i loro studenti come in passato. Così, si trovano ad affrontare una scelta importante. Da un lato, possono scegliere di ignorare i loro occhi, le loro orecchie e le loro intuizioni, facendo finta che il divario fra immigrati e nativi digitali non sia un problema. Continueranno a utilizzare i loro metodi tradizionali, improvvisamente meno efficaci, fino alla pensione; poi i nativi digitali prenderanno il loro posto. Oppure possono scegliere di accettare d’essere diventati immigrati in un nuovo mondo, e rivol-

65

RICERCA5_9_ultimo.indd 65

30/09/13 16.12


DOSSIER|La mente nuova dei nativi digitali

Schermata da Where in the World Is Carmen Sandiego?, videogame geografico, The Learning Company, 1987, screwattack.com.

gersi alla propria creatività, agli studenti e agli amministratori che si mostrano interessati per comunicare la loro conoscenza e la loro saggezza, ancora preziose, nel linguaggio del nuovo mondo. Il percorso che alla fine sceglieranno e l’educazione che daranno ai loro studenti nativi digitali dipendono molto da noi.

NOTE 1. Renate Numella Caine, Geoffrey Caine, Making Connections: Teaching and the Human Brain, Addison-Wesley, 1991, p. 31. 2. Mriganka Sur, “Nature”, 20 aprile 2000. 3. Sandra Blakeslee, “New York Times”, 24 aprile 2000. 4. Leslie Ungerlieder, National Institutes of Health. 5. James McLelland, Università di Pittsburgh. 6. “Inferential Focus Briefing”, 30 settembre 1997. 7. Virginia Berninger, Università di Washington, in “American Journal of Neuroradiology,” maggio 2000. 8. Mark Jude Tramano di Harvard. Citato in “USA Today”, 10 dicembre 1998. 9. “Newsweek”, 1 gennaio 2000. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 66

10. Ad esempio il neuropsicologo sovietico Alexandr Romanovich Luria (1902-1977), autore di The Human Brain and Psychological Processes (1963); più recentemente, Richard Nisbett dell’Università del Michigan. 11. Erica Goode, How Culture Molds Habits of Thought, “New York Times”, 8 agosto 2000. 12. John T. Bruer, The Myth of the First Three Years, The Free Press, 1999, p. 155. 13. G. Ried Lyon, neuropsicologo che dirige una ricerca sulla lettura finanziata dai National Institutes of Health, citato da Frank D. Roylance, Intensive Teaching Changes Brain, “SunSpot, Maryland’s Online Community”, 27 maggio 2000. 14. “Time”, 5 luglio 1999. 15. Kathleen Baynes, neurologo ricercatore alla Università della California Davis, citato da Robert Lee Hotz, In Art of Language, the Brain Matters, “Los Angeles Times”, 18 ottobre 1998. 16. Michael S. Gazzaniga, neuroscienziato al Dartmouth College, citato da Robert Lee Hotz, In Art of Language, the Brain Matters, “Los Angeles Times”, 18 ottobre 1998. 17. William D. Winn, direttore del Learning Center, Human Interface Technology Laboratory, Università di Washington, citato da Peter Moore,

Inferential Focus Briefing (vedi 18). 18. Peter Moore, Inferential Focus Briefing, 30 settembre 1997. 19. Patricia Marks Greenfield, Mind and Media. The Effects of Television, Video Games and Computers, Harvard University Press, 1984. 20. Edward Westhead, professore di biochimica (in pensione), Università del Massachusetts. 21. Michael Parmentier, direttore dell’Office of Readiness and Training, Dipartimento della Difesa, Pentagono, conversazione privata. 22. Elizabeth Lorch, psicologa all’Amherst College, citata da Malcolm Gladwell, The Tipping Point: How Little Things Can Make a Big Difference, Little Brown & Company, 2000, p. 101. 23. Evaluation of Lightspan. Research Results from 403 schools and over 14 580 students, febbraio 2000, CD ROM. 24. Debra A. Lieberman, Health Education Video Games for Children and Adolescents: Theory, Design and Research Findings, ricerca presentata al congresso della International Communications Association, Gerusalemme, 1998. 25. Scientific Learning Corporation, National Field Trial Results. Vedi anche: Merzenich e altri, Temporal Processing Deficits of Language-Learning Impaired Children Ameliorated by Training, ed anche: Tallal, Language Comprehension in Language Learning Impaired Children Improved with Acoustically Modified Speech, in “Science”, vol. 271, 5 gennaio 1996, pp. 27-28 e 77-84. 26. Michael Parmentier (vedi 21), conversazione privata. 27. Don Johnson, Office of Readiness and Training, Dipartimento della Difesa, Pentagono, conversazione privata.

M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, Part II. Do They Really Think Differently?, in “On the Horizon“, MBC University Press, vol. 9, n. 6, dicembre 2001. Traduzione di Francesca Nicola.

▶ Marc Prensky

66

30/09/13 16.12


DOSSIER

L’enigma dei punteggi stagnanti Nel decennale della nascita dei nativi digitali, il “New York Times” visita Kyrene, un distretto scolastico all’avanguardia nella digitalizzazione, tanto che la National School Boards Association lo cita come esempio. Ma in questa scuola del futuro i risultati dei test finali non sono migliorati e, nonostante il grande entusiasmo, le prove dell’efficacia dei nuovi metodi continuano a scarseggiare.

A

▶ Matt Richtel

my Furman, insegnante di inglese di seconda media, si aggira tra i 31 studenti seduti nei banchi o raccolti in piccoli gruppi sul pavimento. Stanno studiando Come vi piace di Shakespeare, ma in modo non tradizionale. Siamo in un’aula super tecnologica e i ragazzi sono chini sui portatili, alcuni intenti a creare blog e pagine Facebook assumendo l’identità dei personaggi di Shakespeare. Uno compila un elenco di canzoni e sceglie un brano dal rapper Kanye West per esprimere le emozioni che, a suo parere, si agitano nel cuore di Silvius, il personaggio malato d’amore della commedia. La classe, come tutte quelle del distretto scolastico di Kyrene, incarna il futuro utopico dell’istruzione, attrezzata com’è di computer, grandi schermi interattivi e software per esercitarsi su tutti gli argomenti. In seguito a un’iniziativa elettorale del 2005, il distretto ha investito 33 milioni di dollari in queste tecnologie. A Kyrene, la spinta alla digitalizzazione si propone di andare oltre l’uso di gadget; intende trasformare la natura stessa della classe, facendo dell’insegnante una guida piuttosto che un docente, una figura che si sposta tra studenti che imparano seguendo il proprio ritmo naturale su dispositivi con-

nessi a Internet. «Questa è una classe dinamica», dice la professoressa Furman. «Spero davvero che funzioni». La speranza e l’entusiasmo sono alle stelle a Kyrene. Ma lo stesso non si può dire dei punteggi nei test: dal 2005, infatti, i risultati in lettura e matematica non sono cambiati, mentre sono migliorati in tutto lo Stato. Sappiamo che i punteggi dei test possono oscillare per molte ragioni. Ma per alcuni esperti, qualcosa non sta funzionando, a Kyrene e nel resto del Paese. Le scuole stanno spendendo miliardi per la tecnologia, mentre tagliano i bilanci e licenziano gli insegnanti, ma ci sono poche prove che ciò migliori la capacità di apprendimento degli studenti. È un enigma che mette in discussione un importante movimento educativo. Pro e contro, ma senza prove Secondo i fautori dell’aggiornamento tecnologico, fra i quali spiccano educatori, titani della Silicon Valley e politici della Casa Bianca, i dispositivi digitali consentono agli studenti di imparare secondo il loro ritmo naturale e apprendere le competenze necessarie nel mondo contemporaneo, e agli educatori di ottenere l’attenzione di una generazione

67

RICERCA5_9_ultimo.indd 67

30/09/13 16.12


DOSSIER|L’enigma dei punteggi stagnanti svezzata con i gadget tecnologici. Affermano anche che i test standardizzati non colgono l’ampiezza delle competenze che i computer aiutano a sviluppare. Ma anche loro sono costretti ad ammettere che per ora non c’è un’alternativa migliore per misurare il valore educativo di questi costosi investimenti tecnologici. «I dati sono piuttosto deboli. Siamo in difficoltà quando riceviamo richieste di fornire dati convincenti», dice Tom Vander Ark, ex direttore esecutivo del settore educativo della Bill and Melinda Gates Foundation e ora imprenditore di alcune compagnie di tecnologia educativa. Quando si tratta di mostrare i risultati, aggiunge, «o parli o stai zitto». Eppure, subito dopo, afferma che un cambiamento di portata storica sta inevitabilmente arrivando nelle aule: «È una delle tre o quattro cose più importanti che stanno accadendo oggi nel mondo». I critici della tecnologia in classe rispondono che, in assenza di prove, le scuole sono mosse da una fede cieca o comunque da un’enfasi eccessiva sulle competenze digitali, inclusi PowerPoint

e gli strumenti multimediali, a spese dell’insegnamento delle conoscenze di base in matematica, lettura e scrittura. A loro avviso, i sostenitori della tecnologia ragionano al contrario: prima insistono per l’aggiornamento tecnologico e poi si pongono le domande. La spinta alla spesa per l’informatica avviene mentre le scuole devono affrontare scelte finanziarie difficili. In Kyrene, per esempio, anche se i finanziamenti per la tecnologia educativa sono aumentati, il resto del bilancio distrettuale è stato ridotto, il che ha portato ad avere classi più numerose e meno ore di musica, arte e educazione fisica. Il distretto sostiene la sua reputazione, e quindi il suo futuro, puntando sulla tecnologia. Kyrene, che offre i suoi servizi a 18 000 studenti dalla materna alla terza media, per lo più nelle città di Tempe, Phoenix e Chandler, usa le lezioni centrate sull’informatica per attirare bambini da tutta la regione, rafforzando l’arruolamento degli studenti fino a ora in calo. Più studenti, più dollari da parte dello Stato. La posizione dei dirigenti distrettuali è che la

Schermata da The Oregon Trail, videogame per l’insegnamento della storia, Educational Computing Consortium, 1971, screwattack.com. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 68

tecnologia ha ispirato gli studenti e li ha aiutati a crescere, ma che non c’è un buon modo per quantificare i risultati, il che li mette in una posizione difficile. «Il mio istinto dice che abbiamo avuto un aumento dei rendimenti scolastici», dichiara David K. Schauer, il sovrintendente locale, «ma dobbiamo avere un po’ di dati e purtroppo non ne abbiamo». La percezione di un’urgenza La pressione per aumentare la tecnologia in classe anche in mancanza di prove della sua validità ha radici profonde. Nel 1997, un comitato scientifico e tecnologico creato dal presidente Clinton puntò i riflettori sulla necessità di dotare le scuole di apparecchiature all’avanguardia. Secondo i suoi membri (educatori come Charles M. Vest, presidente del MIT, e dirigenti aziendali come John A. Young, amministratore di Hewlett-Packard), se tale spesa non fosse stata aumentata di miliardi di dollari, la competitività americana nel suo complesso ne avrebbe sofferto. Per sostenere tale conclusione, i commissari citavano i successi di alcune scuole che avevano aumentato i punteggi dei test e diminuito i tassi di abbandono in concomitanza all’introduzione dei computer. Pur riconoscendo che tali dati erano insufficienti e poco probanti, invitavano però le scuole a investire ugualmente in informatica: «Gli studiosi che hanno partecipato alla commissione raccomandano che la diffusione della tecnologia nelle scuole americane non sia rimandata in attesa del completamento delle ricerche». Kyrene ha agito sulla spinta di questa urgenza, quando, nel novembre 2005, ha chiesto agli elettori una spesa iniziale di 46,3 milioni dollari per computer

68

30/09/13 16.12


DOSSIER portatili, proiettori, dispositivi di networking e altre tecnologie per insegnanti e amministratori. Prima di allora, il distretto aveva dato a 300 insegnanti di scuola elementare cinque computer portatili ciascuno. «Gli studenti e i docenti li hanno usati con grande entusiasmo», ricorda Mark Share, 64 anni, direttore del distretto di tecnologia ed ex insegnante del Bronx: «Se sappiamo che qualcosa funziona, perché aspettare?», aveva dichiarato ad “Arizona Republic” un mese prima del voto. In breve, la campagna del distretto si è basata non sulla promessa che i punteggi dei test sarebbero aumentati, ma sull’idea che la tecnologia rappresenti il futuro. Il provvedimento è passato con una maggioranza schiacciante, i contribuenti hanno pagato in media 75 dollari all’anno in tasse, ma le prove di un aumento della produttività degli studenti chieste dalla commissione Clinton non sono arrivate, nonostante l’impegno dei ricercatori. Le difficoltà della ricerca Molti studi hanno concluso che la tecnologia ha aiutato determinate classi, scuole o distretti. I ricercatori della University of Southern Maine, ad esempio, hanno verificato che gli studenti di terza media hanno migliorato il punteggio nelle prove scritte dopo che, nel 2002, sono stati dati loro computer portatili, e che le prestazioni in matematica in seconda e terza media sono migliorate dopo che gli insegnanti avevano seguito un corso di aggiornamento sull’uso del computer nella didattica. Il problema riguarda la possibilità di trarre conclusioni generali da questi casi. Ad esempio, nella ricerca sulle performance matematiche nel Maine, è difficile separare l’effetto specifico dei computer da quello della formazione do-

cente. Sarebbero necessarie verifiche su larga scala e per periodi prolungati, ma sono misurazioni estremamente difficili: classi e scuole sono diverse l’una dall’altra e la tecnologia cambia molto rapidamente. D’altro canto, gli studi più circostanziati producono spesso risultati contrastanti. Alcuni dimostrano che i punteggi di matematica aumentano tra gli studenti che utilizzano i software didattici, mentre altri sostengono che invece scendono. Le analisi che riassumono questi studi, non a caso, non offrono mai una risposta certa e univoca sull’efficacia e quindi sulla necessità di grandi investimenti tecnologici. «Forse, più che una panacea di tutti i mali, i programmi per computer possono semplicemente amplificare quello che avviene, nel bene e nel male», afferma Bryan Goodwin, portavoce del Mid-continent Research for Education and Learning, un gruppo apartitico che ha condotto una ricerca in questo settore. «I buoni insegnanti», dice, «fanno buon uso del computer, mentre i cattivi maestri no, finendo per distrarsi

e per distrarre gli studenti con la tecnologia». Da parte sua, Karen Cator, direttore dell’ufficio tecnologie didattiche del Dipartimento dell’Educazione degli Stati Uniti, sostiene che i punteggi dei test standard non sono affatto una misura adatta per calcolare il valore della tecnologia nelle scuole. Secondo Ms. Cator, ex dirigente della Apple, sarebbero necessari strumenti di misura migliori, ma, nel frattempo, le scuole sanno ciò di cui gli studenti hanno bisogno. «Anche nei casi in cui abbiamo avuto una massiccia implementazione della tecnologia e i punteggi sono rimasti gli stessi, la cosa mi sembra ugualmente fantastica», afferma. «I punteggi sono uguali, ma bisogna guardare anche a tutte le altre cose che gli studenti hanno imparato: usare Internet per la ricerca, organizzare il loro lavoro, gestire gli strumenti di scrittura professionale e collaborare con gli altri». Infine, secondo Randy Yerrick, preside associato di tecnologie didattiche presso l’Università di Buffalo, i migliori usi del computer sono quelli che non hanno un buon equivalente digitale.

Schermata da The Oregon Trail, videogame per l’insegnamento della storia, Educational Computing Consortium, 1971, screwattack.com. 69

RICERCA5_9_ultimo.indd 69

30/09/13 16.12


DOSSIER|L’enigma dei punteggi stagnanti Suggerisce, ad esempio, di utilizzare i sensori digitali nelle classi di scienze per aiutare a osservare i cambiamenti chimici o fisici, o di utilizzare strumenti multimediali per raggiungere i disabili. E il professor Cuban, a Stanford, sostiene che mantenere i bambini impegnati richiede un contesto di continue novità, cosa che non può essere sostenuta con i videogiochi. Il risultato è che a Kyrene la gente non sa come interpretare il fatto che i punteggi non sono aumentati. Il fattore entusiasmo «Comincio con le penne e le matite», dice Ms. Furman, 41 anni, una donna bassa e frizzante che divora romanzi per adolescenti per rimanere aggiornata sui gusti degli studenti. All’inizio dell’anno, cerca di ispirare i suoi studenti a imparare a scrivere, un compito che, dice, diventa sempre più difficile quando entrano nella scuola media. Nel 2009, in una classe, ha chiesto di disegnare un cuore su un pezzo di carta. All’interno, ha proposto di scrivere i nomi delle cose e delle persone care. Una ragazza ha iniziato a piangere, poi un altro, e tutti hanno iniziato a condividere le loro storie. Ms. Furman dubita che questo sarebbe successo usando i computer: «C’è una connessione tra la mano sulla carta e le parole. È qualcosa di intimo». Tuttavia sostiene anche che i computer hanno un ruolo importante nell’aiutare gli studenti a buttare giù idee più facilmente, modificare il loro lavoro in modo da vedere subito i cambiamenti e condividere tutto ciò con la classe. Lei stessa usa una telecamera per documenti per visualizzare la pagina di uno studente nella parte anteriore dell’aula, affinché tutta la classe possa analizzarlo. Riconosce anche che gli strumenti creativi e La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 70

di editing, permettendo miglioramenti rapidi nella scrittura, ripagano gli investimenti iniziali favorendo un lavoro qualitativamente migliore. Altri insegnanti dicono che la tecnologia è l’unico modo per insegnare qualcosa a questa generazione. «Sono bombardati ventiquattr’ore al giorno dai media, quindi si aspettano questo», dice Sharon Smith, 44 anni, insegnante di studi sociali. Ha appena svolto una lezione sulla guerra civile in un modo inimmaginabile solo pochi anni fa. A luci spente, una schermata nella parte anteriore dell’aula poneva una domanda: «Jefferson Davis fu comandante dell’esercito dell’Unione: vero o falso?». I suoi 30 studenti avevano un pulsante senza fili in cui selezionavano le loro risposte. Pochi secondi dopo, un grafico a torta era apparso sullo schermo: il 23% aveva risposto “vero”, il 70% “falso” e il 6% non lo sapeva. Gli studenti hanno fischiato e gridato, reagendo al sondaggio istantaneo e Ms. Smith li ha quindi coinvolti in una conversazione sulle risposte date. L’entusiasmo di questa classe fa balzare agli occhi un argomento chiave dell’investimento tecnologico: il coinvolgimento degli studenti. È un punto cruciale per il National Education Technology Plan rilasciato dalla Casa Bianca lo scorso anno, che prevede una profonda «trasformazione rivoluzionaria» delle scuole. Il piano si propone di fare il punto sulla tecnologia didattica, per «attivare, motivare e ispirare» tutti gli studenti. Istruzione o distrazione? Ci sono momenti a Kyrene in cui la tecnologia sembra permettere agli studenti di dimenticarsi per un attimo che il loro lavoro è imparare: lasciati al computer per

svolgere un compito, si mettono a giocare, suggerendo, come alcuni ricercatori hanno scoperto, che i computer possono distrarre piuttosto che istruire. I 23 bambini dell’asilo nella classe di Ms. Christy Asta sono suddivisi in piccoli gruppi, un approccio diffuso a Kyrene. Una manciata di loro stanno seduti alla scrivania, altri davanti al computer a scrivere relazioni. Xavier Diaz, sei anni, è seduto tranquillamente vicino al suo portatile Dell, e gioca ad Alien Addition, un videogioco di matematica. Controlla una pulsantiera in basso allo schermo che spara a navicelle spaziali cadenti dal cielo. All’interno di ogni navicella c’è una coppia di numeri. L’obiettivo dovrebbe essere sparare solo all’astronave che contiene la somma dei numeri all’interno del baccello, ma Xavier spara semplicemente a ogni bersaglio che vede. Più e più volte. Periodicamente, il gioco gli manda un messaggio: «Prova ancora». E lui ci riprova. «Anche se non gioca nel modo giusto, lo aiuta a pensare più velocemente», dice l’insegnante. Si china accanto a lui: «Sei più uno fa sette. Clicca qui. Vedi, gli hai sparato». Forse sorprendentemente, dato il modo in cui tendono a gravitare attorno ai gadget, gli studenti più piccoli di Kyrene sembrano divisi sulla questione se preferiscono studiare sui computer o con metodi tradizionali. In una classe, Konray Yuan e Marisa Guisto, entrambi di sette anni, toccano a turno le lettere su un tabellone interattivo. Stanno applicandosi a un gioco di ortografia e cooperano nello scrivere la parola cool. Entrambe devono trovare le lettere in una griglia disordinata, toccandole nel giusto ordine. Marisa dice che non v’è differenza tra questo tipo di apprendimento e quello su carta. Konray, invece,

70

30/09/13 16.12


DOSSIER

Schermata da The Oregon Trail, videogame per l’insegnamento della storia, Educational Computing Consortium, 1971, screwattack.com.

preferisce la carta perché, dice, permette di avere del credito extra per la buona calligrafia. Gli studenti più grandi, però, sono più decisi nelle loro preferenze tecnologiche. Una studentessa di Ms. Furman, Julia Schroder, si è particolarmente divertita a creare un blog su Come vi piace. In un’altra classe, Julia e altri compagni hanno usato una videocamera per filmare una scenetta sul discorso in 14 punti di Woodrow Wilson durante la Prima Guerra Mondiale, un approccio che la ragazza dice di preferire rispetto al parlare direttamente alla classe. «Sarei molto scoraggiata se dovessi fare un discorso dal vivo», dice, «sarebbe snervante». I dubbi degli insegnanti Anche se a Kyrene gli studenti hanno sempre più accesso ai computer, bisogna dire che hanno sempre meno accesso agli insegnanti. A causa dei tagli sul bilancio, infatti il numero di studenti nelle classi di Kyrene è aumentato, cosa che peraltro avviene in molti altri luoghi. Ad esempio, le classi di seconda media come

quella di Ms. Furman, che prima avevano da 29 a 31 studenti, oggi arrivano a 31 e anche 33. Secondo il professor Cuban di Stanford, la ricerca mostra chiaramente come le prestazioni degli studenti migliorano in modo significativo quando le classi sono di circa 15 studenti, mentre peggiori quando sono sopra i 30. Ricorda anche che classi più grandi possono frustrare gli insegnanti, rendendo difficile attrarre e mantenere quelli di talento. A Kyrene, il sovraffollamento delle classi riflette i tagli alla spesa corrente; il budget operativo è sceso quest’anno a 95 milioni di dollari dai 106 del 2008. Il distretto non può utilizzare il denaro stanziato per la tecnologia per pagare altre cose. E gli insegnanti, che guadagnano dai 33000 a 57000 dollari all’anno, non hanno un aumento dal 2008. «Molti hanno un secondo lavoro, alcuni in ristoranti e nella vendita al dettaglio», si lamenta Erin Kirchoff, presidente della Kyrene Education Association, l’associazione dei maestri. Ma nel distretto i soldi sono pochi anche per altre cose. Molti inse-

gnanti affermano di portare regolarmente a scuola materiale di loro proprietà, come il cartoncino colorato. «Abbiamo Smart Boards in ogni classe, ma mancano i soldi per carta carbone, matite e disinfettante per le mani», dice Nicole Cates, copresidente della Parent Teacher Organization a Kyrene de la Colina, una scuola elementare, «e non vai certo a comprare un vestito nuovo se non hai neppure soldi per la cena». Ciò detto, tuttavia, lo stesso Nicole desidera fortemente che le sue figlie, una in quarta elementare e una in prima, imparino a usare la tecnologia, come PowerPoint e diversi giochi educativi. Del resto, per i sostenitori delle aule ad alta tecnologia, la compressione delle risorse è un’opportunità. Sono convinti che le scuole in crisi finanziaria cercheranno il modo più efficace per farcela, creando così un impulso a ripensare del tutto l’educazione. «Speriamo che la crisi fiscale non migliori troppo presto. Rallenterebbe la riforma», arriva addirittura a sostenere Tom Watkins, ex sovrintendente delle scuole del Michigan e attualmente consulente per compagnie che fanno affari nel settore dell’istruzione. Chiaramente, la spinta alla tecnologia avvantaggia un gruppo particolare: le compagnie tecnologiche.

M. Richtel, Grading The Digital School. In Classroom of Future, Stagnant Scores, in “The New York Times”, 3 settembre 2011. Traduzione di Francesca Nicola.

▶ Matt Richtel è scrittore e reporter del “The New York Times” dal 2000. È stato vincitore del premio Pulitzer. Si interessa di tecnologie e del loro impatto sui comportamenti sociali e sui processi mentali.

71

RICERCA5_9_ultimo.indd 71

30/09/13 16.12


DOSSIER

Il dibattito italiano sui nativi digitali Anche da noi attorno alle tesi di Prensky è nata una discussione vivace. Da una parte vi è l’entusiasmo degli innovatori, per i quali i cambiamenti sono urgenti e improcrastinabili; dall’altra vi sono le riserve di chi vede nella rivoluzione digitale una “bolla educativa” destinata a sgonfiarsi.

L

a nozione di digital native, coniata nel 2001 da Mark Prensky, ha suscitato negli Stati Uniti un vivace dibattito. In Italia Paolo Ferri, docente all’Università degli Studi Milano Bicocca, sulla scia di Prensky, si è fatto paladino della nozione di “nativo digitale”: non si è limitato a presentarla e discuterla. Il suo Nativi digitali, infatti, costituisce oggi la più impegnata, organica e meditata presentazione e riproposizione del manifesto di Prensky. Di recente, Roberto Casati, direttore del CNRS all’Institut Nicod di Parigi, ha pubblicato Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere che critica severamente le tesi di Ferri. Presenterò, in estrema sintesi, le due posizioni in campo e, nella terza parte, cercherò di riflettere su cosa c’è in gioco.

▶ Gian Paolo Terravecchia La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 72

A favore dei nativi Il libro Nativi digitali è lo sviluppo fondativo di ciò che Paolo Ferri ha svolto in libri precedenti, come ad esempio: La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008) e, scritto con altri, Digital learning. La dieta mediale degli universitari italiani (2010). In Nativi digitali, egli riprende esplicitamente da Prensky la nozione di “nativo digitale”. Adattando il discorso al caso italiano, Ferri individua nel 1996 l’anno di svolta, quello in cui sarebbe avvenuto il cambio

radicale che avrebbe dato vita alla generazione digitale. Ferri giustifica questa scelta per il fatto che a quell’epoca cominciò la navigazione Internet via browser (Netscape Navigator e Internet Explorer). A suo avviso il modo di essere on-line dei nativi digitali può essere così riassunto: «Gioco, simulazione, performance, appropriazione, multitasking, conoscenza distribuita, intelligenza collettiva, giudizio critico, navigazione transmediale, networking, negoziazione: sono queste le caratteristiche specifiche delle nuove forme di appropriazione comunicativa dei media digitali che vengono sviluppate dai bambini e dai preadolescenti (ma anche dai teenager) del nuovo millennio» (p. 56). Per ridurre il digital divide intergenerazionale bisognerebbe, secondo l’autore, come primo passo prendere atto della nuova cultura dei nativi e delle loro «nuove dimensioni di approccio alla conoscenza» (p. 59). Ferri cerca di legare il discorso di Prensky alla proposta di Antonio M. Battro e Percival J. Denham i quali, per parte propria con una certa cautela, propongono la nozione di intelligenza digitale. Egli, infatti, sintetizzando il proprio pensiero, scrive: «La nostra opinione, in proposito, è piuttosto radicale: i nativi digitali esistono e la loro differenza specifica è l’intelligenza digitale» (p. 80).

72

30/09/13 16.12


DOSSIER Ferri in tal modo cerca esplicitamente di espandere il lavoro di Howard Gardner, che aveva lanciato l’idea di una pluralità di forme di intelligenza, come l’intelligenza logico-matematica, l’intelligenza linguistica, l’intelligenza spaziale, aggiungendone un’altra: quella digitale appunto. Ecco, nel suo nucleo, l’impianto teorico del libro. Esso costituisce, però, solo una parte del discorso di Ferri, che prosegue mostrando cosa ne deriva sul piano pratico. A suo giudizio, gli insegnanti, immigrati digitali, dovrebbero aggiornarsi, diventare abilitati digitalmente, imparare nuovi ruoli come quello di e-tutor e e-mentor (p. 110). Il loro ruolo si trasformerà, scrive, da quello di «“signore dell’aula” che dispensa “pillole di conoscenza” accuratamente preparate in anni di esperienza, a progettista didattico, allenatore, coach o tutor di un team di giovani talenti» (p. 172). Gli ambienti scolastici si dovrebbero trasformare per consentire agli studenti di svolgere attività su Internet (con aule cablate, con la possibilità di collegamenti wireless ecc.). Quanto agli editori, in maniera molto chiara Ferri scrive: «Le imprese editoriali analogiche, e cioè i content provider gutenberghiani e massmediali, dovranno occuparsi di ristrutturare la loro offerta di contenuti e il loro modello di business, secondo le nuove regole del capitalismo digitale» (pp. 131132). Insomma, egli prefigura un cambiamento radicale circa il mondo della scuola a tutti i livelli. Contro il colonialismo digitale Roberto Casati sostiene che non ci sono dati sperimentali che supportano le tesi di Ferri sulle nozioni di nativo digitale e intelligenza digitale. Quanto alla prima, egli ritiene che sia ambigua. In inglese, native speaker significa

Schermata da Math Blaster, videogame per l’insegnamento della matematica, Agenzia Davidson, 1987, screwattack.com.

“madrelingua”: in effetti, la competenza linguistica normalmente si acquisisce nei primi anni di vita, mentre altre competenze si sviluppano più tardi. Perché allora non parlare di “lettori nativi” o di “nativi letterari”, riguardo ai bambini che imparano a leggere a partire dai quattro o cinque anni? Una tale competenza, come è noto, si può acquisire anche tardi nella vita. Perché allora si deve concludere che i cosiddetti “nativi digitali” siano come i madrelingua e non che siano come i “nativi letterari”, cioè semplicemente gente che sviluppa presto un’abilità che potrebbe acquisire altrettanto bene anche in seguito? Mancano dati per suffragare la posizione di Ferri, mentre a Casati la seconda conclusione sembra «l’ipotesi più semplice» (p. 60). Per smontare il ragionamento di Ferri, Casati attacca anche la nozione di intelligenza digitale. Non c’è nulla di simile, sostiene, così come non c’è un’intelligenza specifica della gastronomia o del ciclismo. Ferri, del resto, presenta una serie di criteri per riconoscere il darsi di un’intelligenza specificamente digitale.

Casati, però, ritiene che gli argomenti forniti non siano convincenti. A titolo di esempio, discute il primo criterio che riguarda la possibilità di fornire «una prova obbiettiva». Da un lato, egli osserva, Ferri riconosce che i dati che abbiamo non sono interpretabili, dall’altro, però, li interpreta come prove che il cervello verrebbe modificato dall’uso delle tecnologie digitali (p. 61). Casati, assumendo il ragionamento di Ferri, ne mette così in risalto l’insostenibilità: anche se il fatto di stare in una stanza bianca influisse sul cervello dei bambini che vi restassero per cinque anni, non ne concluderemmo che c’è un’intelligenza albina. Insomma, anche ammesso che il cervello sia modificato dal digitale, non segue che esista un’intelligenza digitale. Anche un altro criterio su cui Ferri fonda le proprie conclusioni, cioè il darsi di sottodomini in cui si articolerebbe l’intelligenza digitale, non supera l’esame di Casati. Tali sottodomini, secondo Ferri, consisterebbero, ad esempio, nel minimizzare la quantità delle informazioni necessarie a prendere decisioni e nell’esplora-

73

RICERCA5_9_ultimo.indd 73

30/09/13 16.12


DOSSIER|Il dibattito italiano sui nativi digitali

La vallata dell’eterna primavera, schermata da World of Warcraft, Blizzard, 2012, techhive.com.

re la struttura delle informazioni disponibili nell’ambiente per attivare decisioni rapide. Questi «meccanismi», secondo Ferri, rendono i nativi molto bravi nell’esplorare ambienti digitali come Tomb Raider e War of Worldcraft (p. 85, ma immagino che Ferri si riferisse a World of Warcraft). Ad ogni modo, Casati rileva che si tratta della ben nota capacità di esplorare un ambiente, capacità che viene poi semplicemente estesa agli ambienti digitali. Non serve insomma ipotizzare alcuna nuova forma di intelligenza. In conclusione, Casati ritiene che l’intelligenza digitale di cui parla Ferri, altro non sia che «la capacità di prendere decisioni contestuali con l’aiuto della memoria e del linguaggio» (p. 63), tutto qui. Fra le critiche che Casati rivolge a Ferri vi è anche quella di confondere l’accesso all’informazione con l’accesso alla conoscenza. I cosiddetti “nativi digitali” non hanno maggiore conoscenza disponibile, solo un maggiore accesso alle informazioni. Questo non li differenzia, né li rende di per sé più evoluti. Le giovani generazioni potranno avere un accesso facilitato alle informazioni, La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 74

ma non di per sé alla conoscenza. Accedere al teorema di Pitagora, non è ancora leggerne il testo e, leggerlo non è ancora capire il teorema, né saperlo dimostrare a propria volta. Inoltre, Casati nota che, sempre di più, le tecnologie per essere user-friendly diventano accessibili a tutti, così che non serve una particolare intelligenza specifica per usarle. Del resto, fosse altrimenti, le grandi aziende produttrici dovrebbero rinunciare ai forti proventi delle vendite ai cosiddetti “immigrati digitali”. Che cosa c’è in gioco Da un lato, il libro di Ferri non è un testo di ricerca. Non soppesa col dovuto distacco i pro e i contro di una nozione, piuttosto costituisce un’operazione di militanza culturale, tesa a giustificare una forte spinta verso la completa digitalizzazione della scuola. Dall’altro lato, la critica di Casati è volta a mostrare l’inconsistenza delle ragioni offerte da Ferri. Quello che è in gioco, a mio parere, non è affatto un dibattito accademico. Il punto, alla fine, è l’eterno quesito: “che cosa significa educare?” o, più operativamente: “come educare le prossime

generazioni?”. Sarà a partire dalle risposte a questi quesiti che si valuteranno l’opportunità, i modi e l’urgenza dell’introduzione delle tecnologie digitali. Esaminiamo ora le posizioni di Prensky e Ferri su due delicate questioni che riguardano, rispettivamente, il fine dell’educazione e il rapporto docente-discente. Si può intuire quale sia la preoccupazione educativa di Prensky dal seguente passo: «Il più grande problema educativo attuale è che gli insegnanti immigrati digitali, che parlano una lingua obsoleta (quella dell’era pre-digitale), hanno problemi a insegnare a una popolazione che parla un idioma completamente nuovo» (si veda il suo articolo in questo Dossier). Un tale giudizio, durissimo, va inquadrato nell’impianto argomentativo di Prensky-Ferri: vi è una differenza antropologica tra nativi e immigrati digitali. La soluzione, secondo gli autori, sarebbe allora di mettere i nativi a contatto col loro ambiente naturale: la tecnologia. In tal modo tutto si risolverebbe. Accedendo liberamente al sapere, i nativi potrebbero sviluppare ancora meglio la propria intelligenza. Essendo poi naturalmente collaborativi, come sostiene Ferri, insegnerebbero ai loro professori-dinosauro l’uso delle tecnologie. L’ingenuità di questa impostazione è palese. Ciò che va rimarcato, però, è che, pur toccando un nervo scoperto, cioè l’urgenza di migliorare l’offerta educativa, la soluzione tecno-entusiasta non affronta il punto nodale. Le macchine sono strumenti, non possono diventare il fine, né costituiscono sempre e comunque il mezzo migliore. Gino Roncaglia, ad esempio, nel suo La quarta rivoluzione mostra brillantemente che il libro cartaceo è un modo per interfacciarsi

74

30/09/13 16.12


DOSSIER al testo che in certi casi conserva ancora vantaggi su altre modalità, come quelle digitali. Bisognerebbe cominciare col chiedersi verso dove guidare le nuove generazioni; le considerazioni sui mezzi più adatti vengono dopo, non possono costituire il fine dell’azione educativa. L’impianto retorico adottato da Ferri permette invece di rovesciare il rapporto mezzi-fini. Passasse la sua impostazione, a scuola resterebbe la didattica, ma verrebbe meno l’azione educativa. Non si educa l’uomo a usare la macchina, lo si addestra o al massimo lo si forma. Anzi, se è vero quello che sostiene Ferri, non servirebbe nemmeno addestrarlo, perché è così digitalmente avanti, da poter imparare dalle macchine o dai pari. Nell’attività scolastica attuale gli allievi hanno invece la possibilità di interiorizzare le figure dei loro maestri nelle discipline offerte dal corso di studi scelto. Questo non è surrogabile né dalle macchine, né dal gruppo dei pari. Che poi capiti che quei maestri abbiano perso la fiducia in se stessi, o non abbiano avuto più stimoli a migliorarsi, è una miseria del nostro sistema socio-economico-istituzionale, che non solo non sarà ovviata dall’introduzione del digitale, ma anzi sarà esasperata. Un altro punto problematico nell’impostazione educativa di Prensky e Ferri si ritrova in un passo del primo: «Gli insegnanti devono imparare a comunicare nella lingua e nello stile degli studenti». La tesi è ripresa da Ferri: i nativi digitali si trovano «di fronte a insegnanti che parlano una lingua con “accento” talmente differente dal loro da farla sembrare un’altra lingua» (p. 173). Negli insegnanti, scrive, la «mancanza di “agilità” e di “intelligenza tecnologica” va di pari passo con una forte dose di diffidenza» (p. 173). L’argomento, nel suo comples-

Schermata da Math Blaster, videogame per l’insegnamento della matematica, Agenzia Davidson, 1987, screwattack.com.

so, è che siccome i nativi digitali usano gli strumenti digitali, per poter restare in contatto con loro, bisogna adeguarsi. Va riconosciuto che c’è del vero: il fatto di avvertirsi irriducibili estranei rende più difficile la comunicazione e, a maggior ragione, la comunicazione educativa. In questo senso, una certa attenzione agli interessi e alle forme di vita degli studenti è utile per svolgere meglio il proprio lavoro. Ciò che c’è di sbagliato nel discorso di Prensky è però la sua radicale unidirezionalità: egli non dice che è utile una certa attenzione a, dice che si deve comunicare nella lingua e nello stile di. Un educatore che corra dietro alle mode degli educandi, non pare avere chiaro il proprio ruolo, che invece consiste nello spingere gli studenti verso ciò che egli insegna. Altrimenti, un insegnante di inglese con in classe figli di emigrati africani dovrebbe indossare vestiti tribali e insegnare lo Jive, l’inglese afro-americano vernacolare. Perché un tale insegnante sarebbe ridicolo? Perché non avrebbe capito che educare non è adeguarsi allo stile di vita degli allievi, bensì guidare questi ultimi a qualcosa di altro

da se stesso e da loro. Ho un’idea autoritaria dell’insegnamento? A me, piuttosto, pare che Prensky e Ferri abbiano una concezione che mortifica l’insegnante.

▶ Gian Paolo Terravecchia è cul-

tore della materia all’Università di Padova e docente di filosofia al Convitto P. Diacono (UD).

APPROFONDIRE A.M. Battro, P.J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, Ledizioni, Milano, 2010.

R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari, 2013.

N. Cavalli, P. Ferri, A. Mangiatordi, A. Pozzali, F. Scenini, Digital learning. La dieta mediale degli universitari italiani, Ledizioni, Milano, 2010.

P. Ferri, La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione, Bruno Mondadori, Milano, 2008.

• •

P. Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2011. G. Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, Roma-Bari, 2010.

75

RICERCA5_9_ultimo.indd 75

30/09/13 16.12


La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 76

76

30/09/13 16.12


77

RICERCA5_9_ultimo.indd 77

30/09/13 16.12


SCUOLA

Le Olimpiadi di cultura classica Carmela Palumbo commenta l’iniziativa offrendo occasione di riflettere anche sul valore dell’insegnamento delle lingue classiche oggi, in un contesto educativo che avverte con preoccupazione, soprattutto nelle fasi riformatrici, segnali di minaccia contro l’opportunità di mantenere vivo un ambito disciplinare radicato nella tradizione scolastica italiana.

P

er il secondo anno, dopo Venezia, si sono svolte le Olimpiadi nazionali di Lingue e civiltà classiche a Napoli, che ha ospitato giovani liceali provenienti da tutta la penisola, accomunati dalla passione per il mondo antico e da una competenza traduttivo-linguistica saggiata da numerosi certamina di livello locale. La Direzione generale per gli ordinamenti e l’autonomia scolastica del MIUR, nella persona della dottoressa Carmela Palumbo, ha promosso questa iniziativa, istituendo il Comitato istituzionale dei Garanti per la cultura classica, formato da professori universitari, e il Comitato tecnico operativo nazionale, costituto da docenti liceali. Il sito Internet approntato per le Olimpiadi dimostra non solo la meticolosa macchina organizzatrice dal livello periferico a quello centrale, ma anche lo spirito che anima questa gara, avvertibile fin dalla lettura delle parole di Seneca poste in esergo: perché non si è veramente padroni di nessun bene se non è condiviso. Le Olimpiadi nazionali di Lingue e civiltà classiche raccolgono le numerose voci di una parte del mondo della scuola che vede minacciato l’insegnamento di que-

▶ Carmela Palumbo La ricostruzione dei colori originali di una kore greca, Museo Archeologico Nazionale, Atene, www.wikipedia.org. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 78

Intervista di Marco Ricucci

78

30/09/13 16.12


SCUOLA ste discipline da molteplici cause concomitanti. Testimonianza di questa preoccupazione condivisa anche dalle istituzioni sono i convegni internazionali tenutisi nel solo 2012, in Italia (Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco in Italia e nel mondo Torino-Ivrea,12-14 aprile 2012; Lingue antiche e moderne dai licei all’università a Udine, 23-24 maggio 2012), ma anche all’estero come ad esempio in Francia (Langues anciennes et mondes modernes, refonder l’enseignement du latin et du grec a Parigi, 31 gennaio e 1 febbraio 2012). La questione è posta con lucidità dal professor Luciano Canfora: «Perché le epoche che hanno visto esplodere e sviluppare rivolgimenti profondi, quando hanno posto mano agli ordinamenti scolastici hanno quasi sempre preso di mira, come relitto del passato, lo studio del latino e del greco?». Più diretto è il professor Franco Montanari, che così “giustifica” i motivi di una profonda rielaborazione del suo dizionario di lingua greca rinnovato e fruibile anche mediante le più moderne tecnologie: «Un’ultima valutazione sul perché una simile impresa sia stata compiuta proprio in Italia: il motivo di fondo è chiaramente la scuola. Nonostante il liceo classico sia stato deformato, anziché riformato (come sarebbe stato necessario), lo studio delle lingue classiche nella scuola italiana ha ancora un valore di eccellenza che si porta dietro lo stretto legame con l’università e la condivisione con essa di strumenti per lo studio e la traduzione. Un patrimonio di cui dobbiamo essere orgogliosi, che ci viene invidiato e che dovremmo cercare di conservare e valorizzare un po’ meglio». L’intervista alla dottoressa Carmela Palumbo contribuisce al

dibattito sempre vivo sull’insegnamento delle lingue classiche nel terzo millennio, nella scuola italiana. D: Come è nata l’idea delle Olimpiadi che raccoglie i migliori studenti dalle scuole italiane? R: Due anni fa ho riscontrato una mancanza da colmare, nell’ottica della promozione delle eccellenze nel campo scolastico: mentre c’erano competizioni di matematica, di informatica, di italiano, di chimica e di astronomia nel campo scientifico, apprezzate dalle scuole e ormai consolidate, c’era la totale assenza di una competizione a livello nazionale per quanto riguardava le lingue classiche e la cultura classica. Esistono tantissimi certamina di latino e greco sparsi in tutto il territorio nazionale a livello locale. Essendo evidente il forte squilibrio a favore delle discipline scientifiche, lo scorso anno è stato il primo anno delle Olimpiadi di italiano. Ma c’era anche un meta-obiettivo, più ambizioso e più ampio, quello di creare una comunità di docenti di greco e latino, dai quali è sempre venuto un grido di allarme, un senso di isolamento, come se si sentissero una specie in via di estinzione, per così dire. Abbiamo chiamato anche un comitato di “esperti” come garanti della nostra azione, per promuovere iniziative di sensibilizzazione e di formazione per i docenti, che negli ultimi tempi sentono le proprie discipline “accerchiate” da altre del curricolo scolastico. L’idea di fondo di tutto questo lavoro, naturalmente, era quella dell’importanza di queste discipline.

gnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo”. La prossima domanda è un po’ provocatoria: latino perché? latino per chi? Questo è il titolo di un seminario organizzato dall’Associazione TreLLE nel maggio 2008 che lei stessa ha menzionato. Dopo due edizioni delle Olimpiadi, come si sentirebbe di rispondere a questa domanda? R: Risponderei con un dato: quando argomentiamo e portiamo avanti una tesi, dobbiamo recuperare un senso di concretezza. Da un nostro sondaggio nell’ambito della scuola del primo ciclo, abbiamo scoperto che il 25% delle scuole medie al terzo anno organizza, spontaneamente, corsi di latino. Sappiamo, infatti, che il latino da qualche decennio non è più né obbligatorio nel curricolo né facoltativo al terzo anno. Da questo dato che ci ha incuriosito, abbiamo interrogato le scuole sul perché: tutte hanno risposto sottolineando la necessità di consolidare la competenza della riflessione metalinguistica grazie al latino, per migliorare quella italiana. Se giustamente il ministro Gelmini nel 2004 lanciò l’allarme sulle carenze degli studenti italiani nelle cosiddette scienze dure, attivando anche il progetto “Lauree scientifiche”, è pur vero che anche per la lingua italiana c’è questo allarme. Allora, per il recupero dello studio rigoroso della grammatica italiana, il latino viene considerato un forte alleato dagli stessi docenti; ma poi ci sono anche altre motivazioni, oltre quella linguistica. E le scuole medie hanno attivato questi corsi in totale autonomia, senza che ci fosse una direttiva o indicazione ministeriale.

D: Nell’aprile 2012 a Torino si è tenuto il convegno internazionale dal titolo “Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’inse-

D: Questo significa che i docenti, quando credono veramente in qualcosa, si danno da fare con il cuore. A proposito di dati, dando

79

RICERCA5_9_ultimo.indd 79

30/09/13 16.12


SCUOLA| Le Olimpiadi di cultura classica un’occhiata a quelli ufficiali del MIUR risalenti al 2011/2012, mi ha incuriosito il fatto che le più alte percentuali di iscritti al liceo classico in Italia sono nel Lazio e, a seguire, nelle regioni meridionali, mentre l’ultima regione è il Friuli-Venezia-Giulia, una regione che conosce bene, essendo stata provveditrice agli studi a Udine. Come possiamo interpretare questo dato per il nostro Paese? R: Questo dato, che si riferisce all’orientamento delle iscrizioni nella scuola secondaria di secondo grado, rispecchia il tessuto sociale, economico e famigliare del nostro Paese, che è molto diversificato da Nord a Sud. Mentre al Sud c’è una consolidata tradizione degli studi liceali, al Nord l’attrattività e il livello qualitativo dell’offerta formativa degli istituti tecnici e professionali è molto alta: le famiglie, anche con un buon substrato socio-economico, non vedono questo tipo di istruzione come una scelta di serie B, ma come alternativa valida agli studi liceali. C’è peraltro una tradizione di istituti tecnici molto “blasonati”: possiamo ricordare, ad esempio, il “Malignani” di Udine, oppure il “Mazzotto” di Vicenza che si collega alla realtà tessile del territorio, e molti altri ancora che dimostrano una tradizione di alto livello formativo che è strettamente connesso al tessuto produttivo locale. Al Sud la situazione è differente: sappiamo che qui il tessuto produttivo e industriale è più fragile e problematico; le famiglie, pertanto, possono non trovare un’offerta formativa forte che possa immettere direttamente nel mercato del lavoro e ritengono una valida alternativa il percorso liceale: forse questo è, dal mio punto di vista, un effetto riflesso. Il Lazio, poi, è un caso particolare: c’è una forte presenza del settore La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 80

terziario dove è fortemente inserito il ceto medio che tradizionalmente vede per i propri figli nel liceo lo sbocco ideale degli studi secondari. Se poi andiamo a vedere il profilo qualitativo dell’i-

Kore greca, Museo Archeologico Nazionale, Atene.

struzione liceale tra Nord, Centro e Sud del Paese, dagli esiti delle prove Invalsi e anche dagli esiti delle stesse Olimpiadi, possiamo fare altri tipi di considerazioni… D: A proposito di Olimpiadi, c’è stata a Napoli una “tavola rotonda” dove si sono incontrati i ragazzi che hanno partecipato alla

competizione e i Garanti, cioè i professori universitari che hanno scelto di dedicare la propria vita allo studio del mondo antico: insomma, un incontro che vedeva da una parte i giovani che vivono nel terzo millennio, sono perennemente connessi, vivono nel villaggio globale e devono sapere tante lingue, e dall’altra i “saggi”, i phylakes, cioè i guardiani, della cultura classica, come direbbe Platone. Qual è stata la sua impressione personale e qual è stata anche la sua riflessione in quanto rappresentante dell’Istituzione? R: La “tavola rotonda” è stata un incontro entusiasmante tra i giovani e i Garanti, che si sono presentati con semplicità e freschezza, raccontando anche aneddoti personali, perfino intriganti, sulle motivazioni che li hanno condotti a questa vera e propria scelta di vita, cioè di dedicarsi alla cultura classica. Sono stati simpaticissimi, ma anche pregnanti e significativi. È stato bellissimo questo incontro tra i Garanti e i giovani, che, dotati delle loro apparecchiature – chi aveva l’iPhone, chi aveva l’iPad – facevano domande, chiedevano autografi, facevano foto… D: Qualcuno avrà messo anche le foto su Facebook… R: Può essere… C’è stato anche Montanari… Eravamo un po’ tutti invidiosi, perché è stato la star delle giornate: è stato “assalito” ogni giorno dagli studenti che gli chiedevano autografi… il suo vocabolario era dappertutto. È stato bellissimo vedere la freschezza dei ragazzi, ma anche quella dei Garanti che offrivano valori e insegnamenti così blasonati e antichi. D: C’è qualcosa di queste Olimpiadi che l’ha colpita in maniera particolare e che vorrebbe valorizzare maggiormente per la terza edizione?

80

30/09/13 16.12


SCUOLA R: Intanto, dal punto di vista della Direzione degli Ordinamenti, mi ha colpita la grande partecipazione e la grande considerazione delle scuole verso questa competizione che, pur essendo giovane, si è accreditata da subito presso le istituzioni scolastiche. Mi ha colpito poi il livello molto alto dei vincitori: si tratta di ragazzi già molto bravi che, arrivando all’ultima fase, hanno già vinto competizioni sui loro territori. I Garanti e i docenti che hanno corretto le prove hanno rilevato che il livello, rispetto allo scorso anno, si è notevolmente elevato: abbiamo trovato, dunque, ragazzi bravissimi, preparatissimi. Addirittura lo studente che ha vinto la seconda edizione, per la sezione di latino, ha fatto una traduzione da Lucrezio talmente ben fatta, anche da punto di vista linguistico, che si stava pensando di pubblicarla su una rivista specializzata: il professor Polara, infatti, è rimasto particolarmente colpito della qualità della traduzione. Vorremmo, per il prossimo anno, inserire un’ulteriore sezione – c’è la sezione che riguarda la traduzione dal greco, dal latino e quella forse più perigliosa, in quanto “lontana” dai programmi scolastici, cioè di civiltà classica – vorremmo ampliare le Olimpiadi con una sezione che possa raggiungere gli studenti che sono innamorati della classicità, ma sotto un altro profilo, non strettamente linguistico, ma artistico-storico-filosofico. Sarebbe dunque interessante aggiungere una sezione che possa valorizzare quelle eccellenze che riguardano sempre il mondo antico, ma si manifestano in altre espressioni come nella storia dell’arte e nella filosofia. Ci piacerebbe realizzare anche questa sezione! Infine, mi ha colpito anche il fatto che, tra i vinci-

tori, per il latino, ci sono studenti del liceo scientifico: al di là di quel che si può pensare, il liceo scientifico ha ancora livelli del latino apprezzabili. È stata una bella scoperta! Il latino raggiunge una vasta platea, poiché gli studenti dello scientifico sono più numerosi del classico. D: Per concludere, il nostro Paese sta attraversando un momento di crisi e talvolta di poca speranza. Qual è il messaggio che può recepire chi, essendo esterno al mondo della scuola, sente parlare dell’entusiasmo e della voglia di fare dei giovani che partecipano alle Olimpiadi, quasi che le lingue antiche ritrovassero linfa vitale nei giovani... C’è per l’Italia un senso più generale di una iniziativa del genere che possa contribuire a disegnare un futuro con intelligenza antica, per usare il titolo del convegno torinese? R: Vorrei rubare una riflessione al professor Canfora… mi permetto di fare questo. La domanda era perché studiare queste discipline, perché interessarsi. Lui ha risposto: «Perché i classici si sono posti domande di valore e di fondo che molto spesso sono le medesime con cui abbiamo a che fare ai nostri tempi». Allora io credo che, proprio in un periodo di crisi, come questo che stiamo affrontando, in cui molte famiglie con tutta probabilità e in maniera del tutto comprensibile stanno scegliendo per i propri figli un percorso che possa dare più garanzie occupazionali, bisognerebbe puntare su studi fortemente formativi, capaci di sviluppare spirito critico ma anche la creatività, che non va intesa solo come espressione di libertà: creatività è saper affrontare i problemi immaginando soluzioni nuove. E se vogliamo uscire dalla crisi, abbiamo bisogno di studenti che

siano in grado di sviluppare un pensiero nuovo, divergente: mi sembra che la vitalità e la riflessione che vengono dal mondo classico siano impareggiabili. Per affrontare problemi grandi abbiamo, insomma, bisogno di un pensiero nuovo, che si alimenta da studi classici e non solo dalla tecnologia. Anzi la tecnologia stessa dovrebbe affondare le proprie radici nei valori perenni.

▶ Carmela Palumbo, laureata in Giurisprudenza, è dal 2010 direttore generale per gli ordinamenti scolastici e per l’autonomia scolastica presso il ministero dell’Istruzione. Ha promosso il convegno internazionale “Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del Latino e del Greco Antico in Italia e nel mondo” (aprile 2012, Torino-Ivrea) e ha presieduto le prime due edizioni delle Olimpiadi di Lingue e Civiltà Classiche. ▶

Marco Ricucci è laureato in Lettere antiche presso l’Università di Milano e dottorando in Didattica delle lingue classiche presso l’Università di Udine.

APPROFONDIRE

• •

Il sito ufficiale dell’iniziativa è www.olimpiadiclassiche.it. L. Canfora, Prolusione, in L. Canfora, U. Cardinale (a cura di), Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, Il Mulino, Bologna, 2013.

F. Montanari, Parola per parola. Storia dei dizionari del greco antico, in L. Canfora, U. Cardinale (a cura di), Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, Il Mulino, Bologna, 2013.

81

RICERCA5_9_ultimo.indd 81

30/09/13 16.12


SCUOLA

Crisi di un Liceo o di un sistema? Il calo sensibile delle iscrizioni al Liceo Classico si inserisce in un più ampio contesto generale di paura e sfiducia nel futuro da parte della società, di politiche educative di scarso respiro e orientate al breve periodo, di una concezione riduttiva della formazione che preclude ai giovani la possibilità di affermarsi con passione nei campi di loro interesse, tutto a danno del merito e dell’eccellenza.

Q

▶ Franco Montanari La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 82

uando penso alle due edizioni delle Olimpiadi delle Lingue e Civiltà Classiche (Venezia 2012 e Napoli 2013), ciò che in primo luogo e con più forza mi si impone alla mente è l’idea di entusiasmo, di partecipazione profondamente sentita, di passione calorosa da parte sia dei concorrenti sia dei loro accompagnatori. Il tifo da stadio, l’orgoglio dei vincitori e dei loro amici e parenti, l’impegno profuso per partecipare e per qualificarsi sono stati letteralmente commoventi. Chiunque lo può constatare autopticamente guardando il video all’indirizzo http://www.olimpiadiclassiche.it/ video2013.php e sul sito www. olimpiadiclassiche.it. Non esito a dire che è stata un’esperienza esaltante, che rimane indelebile nella memoria e ha dato a tutte le persone coinvolte momenti di vera e profonda gioia. Purtroppo, pochi mesi dopo, sui giornali compaiono servizi sulla crisi del Liceo Classico, il crollo delle iscrizioni, la cultura classica che non attira più nessuno e non serve più. Benché gli articoli giornalistici mostrino talvolta elementi di evidente superficialità, resta un dato innegabile: le iscri-

zioni al Liceo Classico dall’anno scolastico 2007/08 all’anno scolastico 2013/14 sono passate dal 10,2 al 6,1%. Premiare il merito? In primo luogo bisognerebbe inquadrare il dato in un contesto generale, che parla del venire meno dell’interesse per tutto quanto è formazione dell’uomo e del cittadino, cultura, pensiero critico, gusto per la conoscenza in quanto tale, per la consapevolezza di se stessi e del proprio agire nella vita e nel mondo. Di tutto ciò, a quanto pare, importa soltanto a un numero sempre più piccolo di persone, a una minoranza sempre più esile: non mi pare positivo, ma evidentemente per molti va bene. Il resto della popolazione, e non certo solo quella di condizioni economiche disagiate, si chiede in primo luogo fino a quando dovrà mantenere i propri figli e a quale età essi avranno un lavoro stabile, si chiede insomma qual è la strada per avere soldi in tasca al più presto. In verità bisognerebbe chiedersi se è giusto e utile favorire un simile atteggiamento oppure è meglio e doveroso contrastarlo.

82

30/09/13 16.12


SCUOLA Questo sarebbe il compito di una (prima ho citato il periodo dal classe dirigente degna di tal nome 2007/08 al 2013/14) e al cone magari dotata di buona cultutempo la favorisce in un circolo ra, ma la classe dirigente attuale vizioso mortale. Le famiglie hanè per lo più di altro tipo: in essa no preso decisamente il modello non sono più maggioranza coloro della politica: investire a brevische vengono da buoni studi e oggi in Parlamento è più facile trovare un buzzurro che alza un cappio o un piatto di mortadella piuttosto che un raffinato intellettuale che cita Sofocle o Cicerone (possibilmente senza sciocchezze da Internet). Il messaggio socio-politico prevalente è: non prendete la strada che L’incontro di alcuni candidati con il professor Montanari, www.olimpiadiclassiche.it. vi piace, prendete quella che vi porta presto a un lavoro sicuro; se poi vi piace simo termine. Un politico che anche, tanto meglio, ma questo imposti un’azione di anni viene non è essenziale. Ti piacerebbe inesorabilmente punito dall’estudiare matematica? Lascia perlettorato, per cui deve ragionare dere e fai bioingegneria; ti piacesull’immediato. Allo stesso modo rebbe studiare letteratura greca o le famiglie non pensano più a inlatina? Per carità, vai piuttosto a vestire a lungo termine sui figli: occuparti di idraulica. se anche ne hanno la possibiliCosì, invece di un matematico tà economica, sono frenate dalla ben motivato e dunque potenpaura, non sanno o non vogliono zialmente buono avremo un inguardare a tempi lunghi (oppure gegnere idraulico poco motivato percepiti come tali); la scuola non e quindi certamente mediocre. Il deve impegnare troppo e la forbello è che i grandi pensatori delmazione deve durare il minimo la politica e dell’economia proindispensabile, per lasciare al più clamano la selezione per merito: presto il posto a un lavoro redsarebbe questa la selezione per ditizio. Così è chiaro che la formerito? Non sanno che diventemazione culturale e intellettuale ranno eccellenti nel loro campo ha cessato di essere un fattore di quelli che lo avranno scelto e permobilità sociale: un altro effetto seguito con passione, che saranno oltremodo dannoso. andati dove li porta il cuore? Non La crisi del Liceo Classico (che capiscono che propongono un deve ripensare se stesso, e può modello esiziale per una società e farlo) e della formazione umaniuna economia? stica in generale rientra in questo quadro economico-sociale, Progettare sui tempi lunghi se ne alimenta e ne alimenta gli È una tendenza al ribasso i cui aspetti peggiori. Una società che danni si vedono già molto bene non investe più abbastanza nella e si sconteranno a lungo: una creazione di una classe dirigente tendenza che è figlia della crisi dotata della migliore formazione

è una società condannata alla decadenza, anche economica. Ne risente tutto, non solo la qualità della vita sociale, ma anche la capacità del sistema produttivo di innovare e competere: per la competizione globale ci vuole una formazione molto seria, che richiede tempi lunghi e non deve essere facile. Il periodo scolastico deve essere utilizzato al meglio in questo senso, non volare via nel minor tempo possibile e con la minore fatica possibile. Se vogliamo che il sistema formativo selezioni davvero i migliori, le forze più valide della società devono essere indirizzate a una formazione di lungo respiro e non superficiale: l’alternativa è uscire magari dalla crisi acuta, ma per entrare in una stabile decadenza. Ovviamente, in attesa del prossimo Rinascimento.

Franco Montanari è professore ordinario di Letteratura greca presso l’Università di Genova e membro del Comitato Istituzionale dei Garanti per la promozione della cultura classica.

IL DIBATTITO ON-LINE Un interessante dibattito sul calo delle iscrizioni al Liceo Classico si è svolto sulle pagine on-line della “Ricerca”. La discussione è stata avviata il 5 settembre 2013 dal professor Mauro Reali con il suo intervento La “crisi” del Liceo Classico, che prendeva spunto da un articolo comparso a fine agosto sull’“Espresso”. Il dibattito è on-line sul sito www.laricerca.loescher.it.

83

RICERCA5_9_ultimo.indd 83

30/09/13 16.12


SCUOLA

Fenomenologia del bullismo Il bullismo rappresenta, innanzitutto, un problema di assenza dei valori sociali condivisi su cui si basa il vivere civile ed è strettamente connesso ai modelli educativi genitoriali. Un’analisi del fenomeno nella sua complessità e nella sua estensione alla sfera digitale.

I

l bullismo (la cui definizione si richiama all’inglese bullying che significa “usare prepotenza”) è un fenomeno presente nella società da sempre. Nel corso di quest’ultimo decennio ha acquisito nuove connotazioni e altrettante sfaccettature, motivi per i quali è diventato tema di studi, ricerche e interventi normativi. In Italia, il termine “bullismo” è stato coniato di recente e ha avuto nel corso degli anni definizioni diverse che ne hanno evidenziato sempre più il suo aspetto negativo. Nel 1993, il dizionario Zingarelli definiva in questo modo il termine bullo: «prepotente, bellimbusto, che si mette in mostra con spavalderia»; sul Devoto-Oli il bullo è un «teppista, sfrontato», ma anche «in senso non cattivo, bellimbusto, che si rende ridicolo per la vistosità e l’eccentricità dell’abbigliamento». Sull’Oxford Dictionary del 1990 bully denota una «persona che usa la propria forza o potere per intimorire o danneggiare una persona più debole».

▶ Ugo Avalle La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 84

Gli studi in Italia e all’estero Uno tra i primi studiosi del bullismo è il norvegese Dan Olweus che analizzò le reazioni da parte dell’opinione pubblica a seguito del suicidio di due bambini oppressi dalle continue sopraffazioni dei loro compagni di scuola. Egli formulò in questi termini una prima definizione di bullismo: «uno

studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno dei compagni». In Australia le ricerche di Ken Rigby e Phillip T. Slee, in Inghilterra quelle di Irene Whitney e Peter K. Smith hanno evidenziato una serie di variabili comuni a tutti i comportamenti “da bullo”, quali la percentuale degli alunni di scuola primaria che aveva subito prepotenze che arrivava al 27% e nelle scuole medie raggiungeva il 10%. Nonostante l’incidenza del fenomeno variasse tra le varie scuole coinvolte nella rilevazione, gli studiosi riscontrarono che nella scuola primaria la percentuale delle vittime non era inferiore al 19% e quella delle vittime alla secondaria di primo grado non scendeva al di sotto dell’8%. Le età in cui si verificavano con maggiore frequenza le manifestazioni di bullismo erano comprese tra i 7 e i 13-14 anni. Nel corso dei primi anni Novanta, un gruppo di ricercatori coordinati dalla professoressa Ada Fonzi (dell’Università di Firenze) elaborò la prima indagine nazionale sul fenomeno del bullismo a scuola rivelando una realtà inattesa e inquietante. Gli studi di Marini e Mameli (1999) confermarono, inoltre, l’elevata presenza del bullismo nelle scuole italiane

84

30/09/13 16.12


SCUOLA

Cyberbullismo e senso di colpa, notizie.it/fabriziopillotto.

riscontrando, in linea di massima, un’incidenza superiore a quella rilevata negli altri Paesi europei. Dai numerosi studi fino a ora effettuati per analizzare questo fenomeno risulta che il bullismo rappresenta, innanzitutto, un problema di assenza dei valori sociali condivisi su cui si basa il vivere civile. Al soggetto in giovanissima età appare normale agire in maniera aggressiva, perché è il comportamento che vede assunto dalle persone con le quali si confronta quotidianamente. Tra le cause possibili del bullismo meritano attenzione i modelli educativi adottati dai genitori; a tale proposito, alcuni studi effettuati nel 2001 hanno evidenziato come il comportamento tipico del bullo sarebbe l’espressione di un disagio sociale derivante da violenze subite o da modelli familiari aggressivi o dall’opinione avuta dalla famiglia verso gli atteggiamenti di debolezza, come per esempio, i sentimenti di em-

patia o di compassione. È ormai risaputo che, se i genitori fanno ricorso eccessivo alle punizioni fisiche, il loro figlio sarà indotto a credere che la violenza sia l’unico modo di relazionarsi con il prossimo al fine di far rispettare le proprie regole. Lo stesso discorso vale per quei genitori che concedono una eccessiva libertà ai propri figli, che non sono al corrente di quello che essi fanno; per quei genitori che non hanno saputo o voluto pronunciare i «“no” che aiutano a crescere» (secondo la nota affermazione di Asha Phillips). I profondi cambiamenti sociali che hanno caratterizzato la scuola e la famiglia nel corso di quest’ultimo decennio hanno rivestito un ruolo fondamentale nell’influenzare le caratteristiche della personalità e del comportamento dei bambini, per i quali il bullismo potrebbe rappresentare anche un mezzo per aumentare la propria visibilità e soddisfare il bisogno di attenzione.

Una definizione articolata Le considerazioni sopra riportate trovano conferma nella definizione che del bullismo è stata proposta dall’Ufficio scolastico regionale del Piemonte con Circolare regionale n. 48, Prot. n. 2126/P/ C27, dell’11 febbraio 2008: A. Si considera bullismo quella forma di prevaricazione che presenta le seguenti tre caratteristiche necessariamente compresenti: 1. l’intenzionalità: il comportamento aggressivo viene messo in atto volontariamente e consapevolmente; 2. la reiterazione e la sistematicità: tale comportamento viene messo in atto più volte e si ripete nel tempo; 3. lo squilibrio di potere: tra le parti coinvolte (il bullo e la vittima) c’è differenza di potere, dovuta alla forza fisica, all’età o al numero (quando le aggressioni sono di gruppo). La vittima, in ogni caso, ha difficoltà a difendersi e

85

RICERCA5_9_ultimo.indd 85

30/09/13 16.12


SCUOLA| Fenomenologia del bullismo sperimenta un forte senso di impotenza. B. Le forme fondamentali che il bullismo può assumere: 1. diretto fisico: comportamenti che utilizzano la forza fisica per nuocere all’altro. In questa categoria sono presenti comportamenti come picchiare, spingere, fare cadere e atti diretti non soltanto alla vittima ma anche a oggetti di proprietà di quest’ultima; 2. diretto verbale: comportamenti che utilizzano la parola per arrecare danno alla vittima. Ad esempio insulti, minacce, prese in giro insistenti e reiterate; 3. indiretto/relazionale: comportamenti non direttamente rivolti alla vittima ma che la danneggiano nell’ambito della relazione con gli altri [...]. 4. cyberbullismo: forme di prevaricazione attuate tramite il telefono cellulare (SMS minacciosi o derisori, riprese di immagini imbarazzanti successivamente diffusi su Internet), la posta elettronica, i servizi di messaggeria istantanea e le varie risorse che il web mette a disposizione. La situazione in Italia Il bullismo colpisce con maggiore insistenza l’opinione pubblica italiana a partire dal 2007 anno in cui nel liceo “Steiner” di Torino un gruppo di alunni aggredisce fisicamente un proprio compagno disabile, tra l’indifferenza e lo scherno del resto della classe. La diffusione in rete di un video relativo a tale episodio provoca disappunto, sorpresa da parte della pubblica opinione che prende atto della grave situazione venutasi a creare soprattutto tra una buona parte dei giovani. Il governo dell’epoca istituì una commissione ministeriale di esperti con La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 86

l’obiettivo di delineare le strategie adatte a prevenire e a fronteggiare episodi di bullismo a scuola. Di lì a breve vennero predisposti in ogni regione degli “osservatori sul bullismo” con l’obiettivo di attivare a livello locale una serie di percorsi e strategie di contrasto del fenomeno crescente. L’attenzione dei media crebbe continuamente determinando una certa confusione sul significato attribuito al fenomeno del bullismo, talvolta scambiato per episodi di microcriminalità, oppure per qualsivoglia comportamento aggressivo messo in atto da minori. Il 5 febbraio 2007, l’allora ministro della Pubblica Istruzione Fioroni emanò la Direttiva ministeriale n. 16, “Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo”, in cui vennero previsti una serie di interventi strutturali di carattere locale e nazionale. Gianluca Nicoletti, in un articolo pubblicato su “La Stampa” del 25 maggio 2013, parla di «incommensurabile sofferenza» che provoca «in un adolescente la pressione mirata, continua e condivisa da parte di un gruppo di bulli. [...] Oggi la generazione dei nativi digitali si trova a dover fare i conti anche con un riverbero consistente di tale attività demolitrice [...]». Il bullismo in rete L’intervento del giornalista Nicoletti si amplia fino a comprendere anche uno degli aspetti più ambigui e, nel contempo, pericolosi del bullismo: quello legato alla rete e a Internet. «È quasi la metà dei nostri adolescenti, secondo la Società italiana di pediatria, che ha avuto a che fare con cyberbulli, persecutori via web che sono spesso portati ad abbandonare, parzialmente o totalmente, quelle

inibizioni o restrizioni sociali che potrebbero attenuare le loro azioni nella realtà concreta […]. Di conseguenza, s’ipotizza che sul banco degli imputati possa salire anche un social network». In effetti, quando Google Italia diffuse il video dell’alunno disabile maltrattato dai compagni, venne denunciata dalla Onlus “Vividown” con l’accusa di «concorso omissivo in diffamazione aggravata a mezzo Internet». I responsabili si appellarono al decreto legislativo 70/2003 sul commercio elettronico, che non impone l’obbligo di sorveglianza preventiva per i motori di ricerca. Anche il caso di una ragazza quattordicenne di Novara, suicidatasi poiché non più in grado di far fronte alla situazione che si era creata a seguito delle immagini messe in rete da alcuni suoi coetanei, è caduto preda della rete. Ai tempi dell’indagine di Olweus il cyberbullismo e quello omofobico non si erano ancora manifestati, eppure le caratteristiche del fenomeno sono state ben evidenziate già allora secondo la descrizione che egli ne aveva dato, individuando una serie di figure-tipo che ruotano attorno a quella del responsabile principale degli atti in sé: oltre al bullo (anonimo, nel caso della ragazza di Novara), sono riconoscibili la spalla, il gregario, la vittima, il difensore della vittima, lo spettatore. Nel caso del cyberbullismo, l’anonimato consente al bullo (o ai bulli) di essere più ingiurioso e offensivo poiché gli garantisce la tranquillità di essere difficilmente scoperto e punito. Secondo la definizione di uno dei più importanti studiosi di bullismo, Peter K. Smith (2008), per cyberbullismo si intende una forma di prevaricazione volontaria e ripetuta, attuata attraverso un testo elettronico, rivolta contro un

86

30/09/13 16.12


SCUOLA singolo o un gruppo, con l’obiettivo di ferire e mettere a disagio la vittima di tale comportamento al punto che essa non riesce a difendersi; si ricordano a questo proposito i messaggi ingiuriosi e volgari inviati per mezzo di Twitter. Questa tipologia in evoluzione comporta l’assenza di contatto diretto tra la vittima e il bullo: questi spesso riesce a rimanere nell’anonimato, può “colpire” in qualsiasi momento, anche più persone contemporaneamente e la vittima si sente più frustrata poiché incontra maggiore difficoltà nel sottrarsi alle prepotenze. La maggior parte degli studiosi di questo fenomeno ritiene che sia una nuova manifestazione del bullismo tradizionale e, a conferma di questa ipotesi, alcune ricerche evidenziano la tendenza significativa da parte di chi mette in atto il bullismo tradizionale di utilizzare con maggiore frequenza anche il cyberbullismo. Lo “stato dell’arte” Secondo Luisa Piarulli, nell’essere umano «non esiste un’energia vitale buona e un’energia vitale cattiva, ma un’unica energia vitale che può essere volta alla costruzione o alla distruzione [...]». Nell’immaginario collettivo, a fronte dell’emergere di questo, come di altri fenomeni di devianza o di disagio giovanile, sembra che l’unica risposta possibile sia quella di interventi o di contenimento o di tipo terapeutico. Quasi il bullismo fosse una sorta di patologia individuale e/o sociale dimenticando che esso non è una malattia ma, semplicemente un «progetto relazionale e un modo di costruzione di sé inadeguato e, quindi, disumanizzante». L’autrice trova una “giustificazione pedagogica” al bullismo e lo inserisce all’interno di un modo del tutto particolare di intendere

la relazione educativa. Secondo le testimonianze di alcuni giovani tratte dal “Gazzettino” (6 dicembre 2009), non esiste giustificazione alcuna circa l’esistenza del fenomeno oppure è un fenomeno banale di cui non vale la pena parlare. Gabriele frequenta la prima all’Istituto “Einaudi” e spiega: «Ormai siamo maturati, a scuola non ci sono atti di bullismo. In autobus c’è sempre tanto caos, ma non accade niente di grave». «Io non ho mai visto nulla di strano». Oppure secondo le parole di Luana: «Alcune persone che conosco mi hanno parlato di prepotenze rivolte ai ragazzi di prima, ma niente di grave», si affretta a precisare. Stefano sostiene che «soprannomi, scherzi e battute ci sono sempre, ma sono solo giochi. Non c’è mai uno preso di mira, mai un gruppo contro una persona, piuttosto tutti contro tutti. In altre scuole sento che accadono cose più gravi, ma non da noi. Siamo molto controllati e, non si sa come, i professori sono sempre al corrente di tutto!». Pare che il bullismo si riduca a rappresentare una “fase” passeggera, un “momento” caratteristico di una certa età della persona, che, con il trascorrere degli anni, dimentica o sdrammatizza molto in quanto ha superato quegli atteggiamenti che caratterizzano l’età giovanile e deve fronteggiare altre preoccupazioni; anzi, tende quasi a ricordare con piacere certe “bravate” commesse da giovane. «Il Pm Cascone condivide l’dea del bullismo come “ragazzata”: “Sì, è vero, gli ha portato via il telefonino ma, suvvia, era uno scherzo”. Oppure: “La prendeva in giro ma sono cose che succedono tra ragazzine di quell’età... Signor giudice, ma voi magistrati, con tutti i reati che ci sono in giro, proprio di queste cose vi dovete occupare?”. Ciro Cascone, magi-

strato al Tribunale dei minori, si è sentito ripetere parecchie volte queste parole; e lui, da Pm che fa anche lezione nelle scuole, non finisce mai di ripetere: “cari ragazzi, il bullismo non esiste: esistono i reati”. Come dire, il bullismo è una summa di reati. Ingiuria, diffamazione, furto, violenza sessuale, minaccia. Non è per colpa di un generico bullismo che a 14 anni si finisce in Tribunale. Ma per questi reati ben precisi, perché a 14 anni si è acquistata la responsabilità penale, cioè si diventa soggetti alla pena. Tradotto, si va a processo, si viene condannati e ci si rovina la vita. La platea di giovanotti e ragazze sgrana gli occhi, c’è da giurarci» (da “Il Giornale”, 12 aprile, 2012).

Ugo Avalle è pedagogista-formatore, docente presso l’Università di Torino. È esperto di problemi legati al disagio e alla devianza. È autore di testi specialistici e di scienze umane (Pearson, Zanichelli, Mondadori e Unicopli).

APPROFONDIRE

• •

F. Marini, C. Mameli, Il bullismo nelle scuole, Carocci, Roma, 1999. D. Olweus, Bullying at school: What we know and what we can do, Blackwell Publishing, Oxford, 1993.

L. Piarulli, P. Damiani, Il bullismo non esiste?, La Rondine, Catanzaro, 2010.

K. Rigby, Addressing Bullying in Schools: Theory and Practice, in “Trends and Issues in Crime and Criminal Justice”, n. 259, giugno 2003, Australian Institute of Criminology.

R. Slonje, P. K. Smith, Cyberbullying: Another main type of bullying?, in “Scandinavian Journal of Psychology”, n. 49, 2008, pp. 147154.

87

RICERCA5_9_ultimo.indd 87

30/09/13 16.12


SCUOLA

Interagire per imparare le lingue Il processo di negoziazione che si instaura, in modo spontaneo e spesso anche inconsapevole, fra parlanti nativi e non nativi in contesti reali di interazione favorisce il successo della comunicazione e stimola riflessioni sulle strutture logico-sintattiche della lingua obiettivo di apprendimento.

Un fotogramma dal film La legge è legge, con Totò e Fernandel, 1958.

A

l ristorante cinese. Cliente: Eeeh… tu capire me parlare italiano? Cameriera: Senta, può smettere di parlare come Tarzan, signore: io in Italia ci sono nata.

▶ Elena Nuzzo La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 88

Questo scambio di battute, tratto dall’episodio Vendetta cinese della serie televisiva L’ispettore Coliandro, sfrutta a fini comici una stra-

tegia che viene spesso adottata dai parlanti nativi di una lingua quando si rivolgono a un parlante non nativo, o presunto tale. Si tratta del cosiddetto foreigner talk, una varietà linguistica semplificata che di solito presenta un eloquio più lento rispetto a quello abituale, un’articolazione più chiara, un volume più alto, una sintassi limitata a frasi bre-

88

30/09/13 16.12


SCUOLA vi e semplici e un lessico di base privo di espressioni idiomatiche e gergali (sulle caratteristiche del foreigner talk si veda, ad esempio, Bettoni 2001). Sebbene l’uso del foreigner talk abbia risvolti talvolta ridicoli o addirittura offensivi, soprattutto quando raggiunge gli eccessi grammaticalmente poco accettabili che vediamo esemplificati nello scambio riportato in apertura, la sua importanza nel processo di apprendimento delle lingue è cruciale. La negoziazione dell’input È stato proprio a partire dall’osservazione di questo fenomeno (Ferguson 1971) che si è cominciato a vedere l’input orale – ossia la base per la costruzione del sistema linguistico dell’apprendente, costituita da tutto ciò che viene ascoltato nella lingua-obiettivo – come un materiale dinamico, che il parlante tende a modificare secondo quella che ritiene sia la capacità di comprensione dell’interlocutore. Ma l’input non è solo modificabile in modo unilaterale: è anche negoziabile. Se nel corso di uno scambio verbale si verificano intoppi o dubbi di comprensione, entrambi i partecipanti sono indotti a chiedere chiarimenti o a produrre spontaneamente riformulazioni, autocorrezioni, ripetizioni eccetera. E anche quando la conversazione procede senza ostacoli può succedere che il parlante nativo riprenda un’espressione del non nativo riformulandola in modo più appropriato, senza che ciò venga avvertito come un intervento correttivo. Vediamo un primo esempio (tratto da Nuzzo 2007): PNN: Eh so che tu lavori vicino alla casa alla casa della padrona… del mio appartamento… eh

non lo so si tu le può portare il… el… el impegno no. PN: L’assegno? PNN: El assegno el assegno per pagare l’affitto? Ed eccone un secondo (ancora da Nuzzo). PN: Ieri ho hai ho visto che hai fatto questa festa e vicino allo stereo c’erano alcuni miei cd a cui sono affezionato ch’erano un po’ in disordine. PNN: Oh… ah sì ? PN: Sì. PNN: Sì, abbiamo ascoltato un po’ di di tui eh cd perché sono troppo buoni e… PN: Son belli. PNN: Sì, e spero che non ti ti fa fastidio. PN: No, infatti non mi dà fastidio semplicemente se la prossima volta li mettete a posto poi dopo che li avete sentiti. Nel primo caso l’esitazione della parlante non nativa (PNN) spinge l’interlocutrice nativa (PN) a fornire un suggerimento (l’assegno?); nel secondo, invece, il parlante nativo “corregge” due volte, con delle riformulazioni probabilmente quasi inconsapevoli, le scelte lessicali della sua interlocutrice non nativa, anche se non ci sono stati veri e propri ostacoli alla comprensione. L’utilità del baby talk Questi fenomeni di negoziazione sono molto frequenti nelle conversazioni tra parlanti più e meno esperti di una lingua, incluse quelle che coinvolgono i bambini e gli adulti che li accudiscono. Oltre a modificare il proprio input in modo da renderlo più comprensibile, ricorrendo al cosiddetto motherese o baby talk, l’adulto sostiene l’acquisizione linguistica del bambino collaborando interattivamente

alla costruzione dei significati. La trascrizione che segue, ripresa da Brandi e Salvadori (2004), esemplifica un tipico processo di negoziazione tra mamma (M) e bambino (B): le olofrasi prodotte da B vengono riformulate da M come enunciati più complessi. M: Andiamo! B: Bimbi. M: Sì, andiamo al giardino dai bimbi. B: Palla. M: Sì, portiamo la palla. Al di là delle differenze tra apprendimento della prima e della seconda lingua, in tutte le situazioni osservate i riaggiustamenti prodotti o suggeriti dal parlante più esperto offrono al meno esperto l’opportunità di notare la mancata coincidenza tra la forma prodotta e quella attesa, fornendo al tempo stesso un “buon modello” che risponde immediatamente alle esigenze espressive dell’apprendente. In altre parole, l’apprendente di fronte alla reazione dell’interlocutore più esperto è indotto a capire che il proprio pensiero avrebbe potuto essere espresso meglio e a confrontare subito la propria produzione verbale con quella, verosimilmente più appropriata, proposta dal parlante esperto. Dunque il lavoro di negoziazione che caratterizza l’interazione nativo-non nativo, oltre a favorire il successo della comunicazione rendendo più comprensibili parti di input che non lo erano, ha delle ricadute positive sull’acquisizione della lingua straniera. Questo non significa ovviamente che comprensione e acquisizione siano la stessa cosa: la comprensione si riferisce a un singolo evento, mentre l’acquisizione riguarda uno stato permanente. Significa piuttosto che la negoziazione induce

89

RICERCA5_9_ultimo.indd 89

30/09/13 16.12


SCUOLA| Interagire per imparare le lingue l’apprendente a notare strutture della lingua-obiettivo sulle quali magari non avrebbe fermato l’attenzione se le avesse solo sentite, insieme a molte altre, all’interno dell’input. Da quanto abbiamo visto finora risulta che la sola esposizione al modello positivo fornito dall’input non è sufficiente per l’acquisizione della seconda lingua: occorre anche l’evidenza negativa costituita dal feedback del parlante più esperto. Ma c’è un altro aspetto dell’interazione che la rende così preziosa per l’apprendimento delle lingue, e cioè la necessità di produrre output. Quando cerchiamo di capire l’input che riceviamo, spesso possiamo affidarci anche solo a indizi semantici, interpretando il significato delle frasi senza fare necessariamente ricorso a conoscenze morfosintattiche. Lingue senza grammatica Ad esempio, se sentiamo in un discorso le parole gatto, mangia e pesce, indipendentemente dall’ordine e dalla forma in cui compaiono probabilmente interpretiamo l’enunciato come Il gatto mangia il pesce. Se invece dobbiamo produrre lingua – e nel corso di un’interazione siamo obbligati a farlo – la situazione cambia, perché per cercare di rendere il più possibile comprensibile il nostro output siamo spinti a “grammaticalizzare” le parole. Secondo la studiosa che per prima ha indagato l’importanza dell’output nell’acquisizione (Swain 1985), la fase di produzione orale può forzare l’apprendente a passare da una processazione semantica a una sintattica della lingua-obiettivo. Usare la L2 per dire qualcosa, quindi, non serve solo a mettere in pratica conoscenze linguistiche già acquisite, ma anche a “forzare” la propria La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 90

competenza linguistica al fine di rendere comprensibile quello che esce dalla nostra bocca. Insomma, in base a quanto brevemente riportato a proposito del ruolo dell’interazione orale nell’apprendimento delle lingue straniere (rimandando a Mackey 2013 per la più recente panoramica degli studi sull’argomento), possiamo concludere che il luogo comune secondo cui il modo migliore per imparare una lingua è andare nel posto in cui è parlata può ritenersi supportato dai risultati della ricerca scientifica. Ciò vale naturalmente a patto che,

una volta che ci si trovi nel Paese della lingua-obiettivo, si abbia l’opportunità di interagire ampiamente e variamente con altri parlanti di quella lingua. Del resto, è esperienza comune che molte delle persone straniere che vivono in Italia imparano a usare efficacemente l’italiano senza frequentare corsi di lingua. Invece, i ragazzi che studiano a scuola le lingue straniere spesso raggiungono una capacità comunicativa del tutto insoddisfacente. Le ragioni di questa differenza apparentemente paradossale sono varie. In primo luogo, gli stranieri

Fotogrammi dal film Totò, Peppino e la malafemmina, 1956. È la scena del celebre “Noio volevam... volevàn savuar”. 90

30/09/13 16.13


SCUOLA che apprendono la lingua senza il supporto dell’insegnamento di solito sono ampiamente esposti all’input (sul lavoro, nella vita quotidiana eccetera), mentre a scuola l’esposizione si riduce a un numero limitato di ore. In secondo luogo, gli apprendenti cosiddetti spontanei sono altamente motivati, perché hanno bisogno di comunicare per sopravvivere, mentre a scuola la motivazione è fittizia, cioè deve essere costruita dall’insegnante. In terzo luogo (ed è ciò che qui ci interessa maggiormente), chi apprende spontaneamente in genere usa la lingua-obiettivo per interagire in diversi contesti e con vari interlocutori più esperti: questi, come abbiamo visto, tendono a essere piuttosto collaborativi nel modificare e negoziare l’input. A scuola, invece, il contesto comunicativo è quasi sempre quello della lezione, durante la quale l’alunno interagisce per lo più con l’insegnante dicendo cose che nella maggior parte dei casi sono già note all’interlocutore e pertanto raramente oggetto di negoziazione. Didattica centrata sul compito Ma anche nella classe di lingua straniera è possibile cercare di riprodurre, almeno in parte, quanto avviene nelle interazioni comuni. Per fare ciò, occorre innanzitutto che i due interlocutori – alunno e insegnante, o alunno e alunno – abbiano davvero “qualcosa da comunicare”. Le attività didattiche dovrebbero quindi essere concepite come compiti per svolgere i quali uno studente necessiti realmente di scambiare informazioni con un altro studente o con l’insegnante (Ellis 2003). È questa la prospettiva della didattica centrata sul compito (Rizzardi, Barsi 2005), secondo cui, durante una lezione

basata su attività di tipo comunicativo con obiettivi extralinguistici, l’attenzione degli studenti viene incidentalmente spostata su caratteristiche del codice linguistico, ma solo quando gli studenti stessi ne sentono l’esigenza. Vediamo, per concludere, un esempio di questo approccio didattico: si tratta di un brevissimo estratto da una sequenza (riportata in Swain, Lapkin 2002) che vede coinvolte due studentesse di francese impegnate in un’attività di ricostruzione collaborativa, dapprima orale e poi scritta, di una storia per immagini. Ogni studentessa può vedere solo la metà delle immagini, quindi il loro obiettivo comunicativo è reale: per ricostruirla e poi scriverla ciascuna ha bisogno delle informazioni che solo l’altra possiede. A un certo punto le ragazze sono in difficoltà con il verbo riflessivo se souvenir. S1: Elle se souvient, non, elle souvient qu’elle a un… une pratique de chorale, alors elle se lève. S1: Tout à coup. S2: Elle ssse. S1: Elle souvient. S2: Se souvient ou souvient? […] S1: Je pense pas que c’est se souvient. S2: Oh, souvient… souvient. La negoziazione porta le due studentesse alla conclusione errata (scelgono la forma non riflessiva), ma le induce comunque a riflettere sulla lingua con un’attenzione che difficilmente una spiegazione dell’insegnante sui riflessivi avrebbe potuto suscitare.

Elena Nuzzo è ricercatrice in Didattica delle lingue moderne presso il Dipartimento di lingue, letterature e culture straniere dell’Università Roma Tre. I

suoi principali interessi di ricerca sono la pragmatica interlinguistica e interculturale, l’acquisizione dell’italiano L2 nel quadro della teoria della processabilità e la didattica per task. APPROFONDIRE

• •

C. Bettoni, Imparare un’altra lingua, Laterza, Roma-Bari, 2001. L. Brandi, B. Salvadori, Dal suono alla parola, Firenze University Press, Firenze, 2004.

R. Ellis, Task-based Language Learning and Teaching, Oxford University Press, Oxford, 2003.

A. A. Ferguson, Absence of copula and the notion of simplicity: A study of Normal Speech, Baby talk, Foreigner talk, and Pidgins, in D. Hymes (ed.), Pidginization and creolization of languages: Proceedings of a conference held at the University of the West Indies, Mona, Jamaica, April 1968, Cambridge University Press, Londra, 1971, pp. 141-50.

A. Mackey, Input, Interaction and Corrective Feedback in L2 Learning, Oxford Applied Linguistics, Oxford, 2013.

E. Nuzzo, Imparare a fare cose con le parole in italiano L2. Richieste, proteste, scuse in italiano lingua seconda, Guerra Edizioni, Perugia, 2007.

M. C. Rizzardi, M. Barsi, Metodi in classe per insegnare la lingua straniera. Teorie, applicazioni e materiali, LED, Milano, 2005.

M. Swain, Communicative competence: Some roles of comprehensible input and comprehensible output in its development, in S. Gass, C. Madden (eds.), Input in Second Language Acquisition, Newbury House, Rowley, MA, 1985, pp. 235-53.

M. Swain, S. Lapkin, Talking it through: Two French immersion learners’ response to reformulation, in “International Journal of Educational Research”, 37/3-4, 2002, pp. 285-304.

91

RICERCA5_9_ultimo.indd 91

30/09/13 16.13


SCUOLA

Le classi differenziali nel dopoguerra torinese Le classi differenziali hanno costituito un esempio delle manifestazioni razziste nei confronti degli immigrati meridionali e dei loro figli, che hanno fondamenti storici nel difficile rapporto fra Nord e Sud Italia; segno di un’ideologia della segregazione dei “diversi” che non ha mancato di riproporsi anche in tempi più recenti.

S

▶ Grazia De Michele La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 92

ul finire degli anni Ottanta del Novecento, gli italiani si sono scoperti improvvisamente razzisti. La presenza dei migranti stranieri nella penisola ha portato la questione alla ribalta, quasi come se fossero stati i nuovi arrivati a portare il razzismo con sé. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per spiegare il fenomeno, la cui causa precipua è stata, ed è tutt’ora, individuata nella sua presunta novità. L’adagio è quasi sempre lo stesso: l’Italia, da Paese di emigrazione si sarebbe trasformata all’improvviso in un Paese di immigrazione. Il razzismo nei confronti dei migranti sarebbe stato dunque un portato “naturale” dell’impreparazione e dell’inesperienza nella gestione di una situazione totalmente nuova. Una tesi del genere, per quanto diffusa, non è accettabile. Non solo perché la storia del razzismo italiano è lunga e complessa – e il razzismo coloniale ne costituisce solo un capitolo, per quanto tra i più amari – ma anche perché, nel dopoguerra, l’Italia si era già trovata di fronte a una “emergenza migratoria”. Le migrazioni interne, verificatesi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento, furono quantitativamente imponenti e fecero da

cartina di tornasole dello stato dei rapporti tra il Nord e il Sud del Paese. È opportuno ricordare che a spostarsi verso il cosiddetto triangolo industriale non furono solo i meridionali. Gli spostamenti dalla campagna verso le città interessarono tutte le regioni. Tuttavia, l’arrivo dei meridionali nelle città industriali del Nord-Ovest venne rappresentato e percepito come foriero di problemi. Un secolo dopo l’Unità, i meridionali e, più in generale il Sud, continuavano a essere considerati irrimediabilmente diversi rispetto al resto del Paese. E per diversi si intendeva inferiori. Il termine “razza”, bandito a seguito degli orrori della seconda guerra mondiale, non veniva più utilizzato. Non per questo, però, era scomparso il razzismo, che, prima che una parola o un’idea, è un rapporto sociale. La costruzione del meridionale In un saggio pubblicato recentemente, la storica Enrica Capussotti ha sottolineato come uno dei tratti salienti del razzismo italiano consista proprio nella “razzizzazione” degli abitanti del Sud. Il processo di costruzione dei meridionali come “naturalmente” e irrimediabilmente “altri”, cominciò – spiega Capussotti

92

30/09/13 16.13


SCUOLA – già all’indomani dell’Unità. Alle nuove classi dirigenti, il cui punto di riferimento era un’Europa considerata “civile” e “moderna”, il Meridione si presentò come una palla al piede, da piegare ai propri intenti anche con l’uso della forza. La guerra al brigantaggio costituì una tappa fondamentale di questo processo. L’impiego dell’esercito e l’adozione di misure repressive vennero giustificati proprio con la presunta barbarie delle popolazioni meridionali, inferiorizzate e animalizzate nella rappresentazione che ne fornivano politici e militari. Quando, nel secondo dopoguerra, migliaia di abitanti del Sud si trasferirono nelle città del Nord-Ovest, il campionario di stereotipi razzisti sedimentatisi nel corso di un secolo trovò nuova linfa. I giornali fecero da cassa di risonanza. Capussotti ha analizzato il caso di Torino, dove i due principali quotidiani locali, “La Stampa” e la “Gazzetta del Popolo”, offrirono un’immagine dei meridionali che rifletteva e, al tempo stesso, alimentava l’insofferenza con cui erano stati accolti, mentre le condizioni di sfruttamento in cui le donne e gli uomini del Sud erano costretti a lavorare nel capoluogo piemontese venivano taciute. Non erano i soli adulti, tuttavia, a dover fronteggiare una realtà osti-

le. Ai bambini non venne riservato un trattamento migliore. La loro presenza nelle scuole elementari di Torino divenne un vero e proprio dramma per gli insegnanti. Gli alunni meridionali erano additati come meno preparati e capaci rispetto ai loro coetanei torinesi, a causa di un gap culturale sostanzialmente incolmabile. Un atteggiamento che non può che definirsi razzista. Non bisogna, tuttavia, cadere nell’errore di credere che il razzismo, come un’epidemia, si fosse diffuso all’improvviso tra i maestri di Torino. È importante, anzi, analizzare il contesto in cui questi ultimi si trovavano a operare. La scuola italiana degli anni Cinquanta e Sessanta non era molto dissimile da quella di epoca fascista. Alle elementari, gli insegnanti erano sottoposti a un regime quasi poliziesco di controllo da parte di direttori e ispettori. La loro valutazione avveniva, però, per via indiretta: durante le frequenti visite in classe da parte dei direttori didattici, erano gli alunni a essere interrogati per verificare se l’insegnante stesse o meno svolgendo un buon lavoro. Costretti a lavorare in una condizione di forte stress, molti, per giustificarsi di fronte a giudizi poco lusinghieri espressi dal direttore-duce, facevano leva su quan-

to nessuno avrebbe mai messo in discussione: l’inferiorità culturale dei bambini meridionali e la loro conseguente impossibilità di “rendere” quanto gli altri. Le classi degli immigrati Percepiti come un peso, molti di questi bambini finirono, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, nelle cosiddette classi differenziali. Istituite ai primi del Novecento per allievi “anormali”, le differenziali si moltiplicarono nel dopoguerra, in concomitanza con la scolarizzazione di massa. Per la prima volta, i figli di chi non era mai andato a scuola avevano la possibilità di accedere all’istruzione. In assenza di riforme adeguate, tuttavia, il sistema li ricacciava. Le classi differenziali non esistevano infatti soltanto a Torino. Erano diffuse in tutta Italia. A Torino, però, e in altre città del triangolo industriale, diventarono le “classi degli immigrati”. La storia delle classi differenziali e della segregazione che in esse trovarono i figli dei migranti meridionali è stata purtroppo consegnata al silenzio. È sembrata riemergere, sebbene non in maniera esplicita, solo nel 2008 quando la Camera dei Deputati approvò la mozione sulle classi separate per i figli dei migranti stranieri, cui primo firmatario era il leghista Ro-

Il dibattito sull’istituzione di percorsi didattici particolari per i bambini svantaggiati era iniziato già alla fine dell’Ottocento. Il problema si poneva in particolare per le classi prime, dove la media dei bocciati sfiorava addirittura i due terzi degli alunni. A Torino, la prima “classe speciale per fanciulli deficienti” fu inaugurata nel 1900. Quando si parla di “classi differenziali” si allude però agli anni Sessanta. Era un percorso elementare riservato ai “soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche”; poteva durare anche un decennio ed essere frequentato sino ai 21 anni. Bambini disabili a scuola negli anni Sessanta, Museo Torino, www.museotorino.it. 93

RICERCA5_9_ultimo.indd 93

30/09/13 16.13


SCUOLA| Le classi differenziali nel dopoguerra torinese

Manifestazione contro le scuole differenziali, 2006, flickr.com/FabianaGeomaggio, 2008.

berto Cota. In quella occasione alcuni politici e giornalisti si scagliarono contro il provvedimento. Walter Veltroni, per esempio, dichiarò: «Da italiano è intollerabile la mozione che è passata ieri in Parlamento sull’istituzione delle classi differenziali. Avremmo tollerato quando eravamo noi gli emigranti che i nostri figli finissero in classi differenziali?» (“la Repubblica”, 15 ottobre 2008). Veltroni fa esplicito riferimento al fenomeno del passato senza però spiegare cosa fosse e cosa abbia rappresentato nella storia italiana. Induce a una riflessione, tuttavia, che, oggi come allora, in presenza di sollecitazioni indotte da trasformazioni sociali legate ai fenoLa ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 94

meni migratori, in parte comparabili a quelli di oltre 50 anni fa, si continuino a preferire misure improntate alla separazione e alla segregazione anziché programmare investimenti sulle strutture e sull’organizzazione della scuola e sugli insegnanti. Un approccio difficilmente modificabile in mancanza di una rielaborazione critica del passato razzista del nostro Paese.

Grazia De Michele ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università inglese di Reading con una tesi dal titolo At the gates of civilization. Southern Children in Turin Primary Schools, 1950s-1970s.

APPROFONDIRE

E. Capussotti, Migrazioni interne, razzismo e inclusione differenziale nel secondo dopoguerra a Torino, in A. Curcio, M. Mellino, La razza al lavoro, Manifesto Libri, Roma, 2012, pp. 141-61.

A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.

• • •

A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005. P. Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino, 1997. La voce “Colonialismo Italiano” del progetto Museo Virtuale delle Intolleranze e degli Stermini curata da Silvana Palma (www.istoreto.it/amis/ric.asp?id=7).

94

30/09/13 16.13


SCUOLA

Quarant’anni di organi collegiali L’elezione degli organi collegiali è da tempo in attesa di un adeguamento legislativo che vada al passo con le riforme e i cambiamenti della scuola. Un perseverante stato di incompiutezza sembra spesso fermare in un eterno presente il sistema istruzione.

I

▶ Fulvio Allegramente

l sistema Italia, notoriamente complesso e complicato, presenta al suo interno aspetti fortemente contrastanti: fra eccellenze e degrado, fra spinte riformistiche e tenaci conservazioni, fra passati che sembrano non passare mai e ipotesi di futuro quasi mai realizzate pienamente. Il mondo dell’istruzione non fa eccezione e mostra le caratteristiche del sistema di cui fa parte. Infatti, i ritardi di cui soffre ormai quasi cronicamente sono gravami pesanti che bloccano il presente e pregiudicano uno sviluppo che in base al presente ci si potrebbe attendere. Ciò che non arriva e, al contempo, ciò che non passa crea un argine a ciò che dovrebbe essere, qui e ora, e a ciò che potrebbe essere in un futuro vicino. Insomma, il sistema istruzione così come il sistema Italia vive in continua e inesausta transizione; il che impedisce un sistema di valutazione efficace – e il tema della valutazione è divenuto centrale nel dibattito sulla scuola – così da non permettere mai agli osservatori di capire con certezza cosa del presente meriti essere mantenuto e rafforzato e cosa invece meriti essere messo da parte. Come si manifesta questa transizione, questa incompiutezza sistemica? Attraverso ritardi più o meno grandi nella realizzazione di quanto pure il legislatore o gli

operatori avevano in qualche misura prefigurato. Analizziamo ora a titolo di esempio un caso emblematico che, per diversi aspetti, è da considerarsi cruciale nel regolare la vita della scuola sia a livello organizzativo generale sia a livello di pratica quotidiana in classe: quello degli organi collegiali interni alle singole istituzioni scolastiche. Un lungo percorso di riforme Gli organi collegiali risalgono al 1974 (i celeberrimi decreti delegati dal numero 416 al numero 420). Essi furono istituiti ai sensi del DPR 416 e costituirono una fondamentale svolta nel modo di pensare la scuola. Quei decreti delegati erano il compimento della prima fase (quella post-bellica) di adeguamento delle strutture statali italiane alle esigenze costituzionali di democrazia e partecipazione. Allora videro la luce anche altre riforme che incisero profondamente nel delineare il profilo della scuola pubblica statale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni: la riforma della scuola media unificata (1962), la scuola materna statale (1968), il tempo pieno (1971), l’integrazione dei disabili (1977), i programmi rinnovati della scuola del primo ciclo (1990), la legge sulla disabilità (1992). Il decreto legislativo 297/1994

95

RICERCA5_9_ultimo.indd 95

30/09/13 16.13


SCUOLA | Quarant’anni di organi collegiali (meglio noto come il Testo unico della scuola) raccoglie al suo interno le molteplici norme varate dal legislatore, tutte con valenza differente, improntate al riformismo del sistema istruzione in senso appunto democratico e partecipativo. Negli anni Novanta dello scorso secolo sono stati quindi introdotti elementi importanti di ulteriore riforma del sistema istruzione, di segno però differente rispetto al passato: si tratta di elementi di mutamento in direzione da un lato localistica (se non di federalismo si può parlare di decentramento amministrativo) e dall’altro autonomistica (sulla base del principio di sussidiarietà). Ecco così avviata la stagione dell’autonomia con alcuni testi legislativi rimasti fondamentali anche nel presente: il DPR 275 del 1999 e il suo correlato decreto interministeriale 44 del 2001 che rego-

la l’autonomia scolastica nel suo aspetto educativo didattico e di ricerca (con i POF, piani dell’offerta formativa) e nell’aspetto di gestione economica (con il programma annuale). Successivamente sono state prodotte altre norme importanti, in vero già tracciate negli anni Novanta, come la privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego (DL 165 del 2001) con ulteriori specificazioni negli ultimi anni (principalmente il decreto legislativo 150 del 2009, ma anche tutta una serie di misure disseminate in leggi finanziarie e in altri provvedimenti). E altre innovazioni come la riforma degli esami di Stato (1998), quella dell’ordinamento scolastico (2003) in genere e nelle sue varie articolazioni (primo ciclo nel 2004 e secondo nel 2010). Inoltre, tutto il processo degli anni a cavallo dei due secoli ha

introdotto modifiche fondamentali nella definizione di rapporti e di figure istituzionali: ad esempio, il preside pre-autonomia è ben diverso dal dirigente scolastico della scuola dell’autonomia, dotato di più poteri che però deve conciliare con organi collegiali nati in un altro clima culturale; lo stesso si deve dire del segretario divenuto direttore dei servizi generali e amministrativi con un profilo professionale diverso dal precedente. I programmi sono stati sostituiti dalle indicazioni nazionali (e non si tratta di mere modifiche contenutistiche ma di una diversa impostazione della didattica), fino alla didattica per e alla certificazione delle competenze e alla massiccia introduzione delle TIC. Infine, la RSU nelle singole scuole (a partire dal 1998) è un organismo collegiale sconosciuto all’epoca dei decreti delegati, così

Raduno di ex maturandi nel 1974, www.buchserhigh.org. La ricerca | N. 4 Nuova Serie. Ottobre 2013 |

RICERCA5_9_ultimo.indd 96

96

30/09/13 16.13


SCUOLA come la contrattazione interna per il contratto integrativo di istituto è un’attività di cui non vi era traccia negli anni Settanta. Un tentativo di rinnovamento Accanto a questa evoluzione del sistema, è mutato più volte anche il clima culturale, la partecipazione ha cambiato forma, i bisogni di studenti e famiglie si sono moltiplicati e parcellizzati; non sono morte le ideologie, come frettolosamente e superficialmente spesso si dice, semplicemente hanno mutato di segno. Il legislatore non è mai stato ignaro della necessità di adeguare i decreti delegati del 1974 alla nuova realtà vissuta quotidianamente nelle scuole e tuttavia negli ultimi tredici anni non ha saputo dare risposta a un’esigenza universalmente sentita. Da qui il ripetersi di elezioni degli organi collegiali convocate con circolari che ogni anno recitano nell’incipit una vera e propria formula di rito. Riportiamo di seguito quella che si è ripetuta tal quale anche nell’anno scolastico successivo (con circolare MIUR 73.2012): «Non essendo ancora intervenute modifiche a livello legislativo degli organi collegiali a livello di istituzione scolastica, anche per l’anno scolastico 2011-12, si confermano le istruzioni già impartite nei precedenti anni riguardanti le elezioni di tali organismi» (circolare MIUR 78.2011). Nella scorsa legislatura, apertasi con un’amplissima maggioranza di centro-destra nelle due Camere, si era pensato di dare una

risposta organica al problema del rinnovamento degli organi collegiali interni con il disegno di legge chiamato “Aprea” dal cognome della relatrice1. Tale DDL fu variamente contrastato dall’op-

posizione in Parlamento e nella società (sindacati, studenti, una parte degli specialisti del settore), poi dimenticato nelle vicissitudini politiche degli ultimi anni (crisi della maggioranza di centro-destra e passaggio dal governo Berlusconi al governo Monti nel novembre 2011). Nello scorso ottobre 2012, il decreto “Aprea”, mutilato di parti importanti, mutato e, secondo alcuni, radicalmente trasformato, è tornato alla ribalta e in sede legislativa la Camera dei Deputati ha “persino” raggiunto l’approvazione di un testo condiviso fra le forze che sostenevano il dimissionario governo Monti. Quest’ultima versione ha comunque dato origine a un movimento di pro-

testa studentesco che ha vivacizzato l’autunno, e ha registrato l’ennesima divisione delle forze sindacali, alcune favorevoli, altre contrarie al decreto. La crisi del governo Monti, la necessità per il Senato di approvare misure più urgenti e più attese dalla comunità internazionale e dai mercati (il patto di stabilità o finanziaria d’autunno, fra tutte) hanno fatto tramontare definitivamente l’ipotesi che l’anno scolastico potesse iniziare con gli organi collegiali della scuola rinnovati. Sono trascorsi altri anni – gli ennesimi – fra discussioni, proteste, attese… Ma i problemi reali restano immutati se non aggravati dall’assenza di risposte. C’è quasi da scommettere che la prossima circolare del MIUR che indirà le elezioni degli organi collegiali per l’anno scolastico 2013-14 avrà lo stesso incipit delle ultime due. “Alla prossima!” si dicono gli amici quando si lasciano alla fine della serata.

NOTE: 1. Il titolo del provvedimento “Aprea” recita “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche statali” (Testo unificato C. 953 Aprea, C. 806, 808 e C. 813 Angela Napoli, C. 1199 Frassinetti, C. 1262 De Torre, C. 1468 De Pasquale, C. 1710 Cota, C. 4202 Carlucci, C. 4896 Capitanio Santolini e C. 5075 Di Pietro).

▶ Fulvio Allegramente è dirigente scolastico dell’istituto di istruzione secondaria “Ettore Majorana” di Torino.

97

RICERCA5_9_ultimo.indd 97

30/09/13 16.13


Le narrative Loescher «Libri di classe»

«Dietro le quinte della scrittura»

→ I titoli proposti spaziano tra i generi e tra gli argomenti: dai temi dell’integrazione e della memoria ai problemi dell’adolescenza e della cronaca; dalla società alla storia, dalla dimensione privata a quella pubblica. → Impaginazione e carattere del testo sono pensati anche per chi ha problemi di lettura. → I materiali didattici si strutturano soprattutto attraverso percorsi di approfondimento interdisciplinari, con consigli di lettura, di visione di film, di ascolto.

→ Romanzi inediti realizzati da giovani professionisti della scrittura. → Vicende moderne e avvincenti ispirate a classici intramontabili. → Una particolare cura delle tecniche narrative che rendono appassionante e ben strutturato un testo. → Grande attenzione agli aspetti stilistici e linguistici. → Dopo lo “spettacolo” della narrazione, il lettore entra dietro le quinte del romanzo, per scomporlo, analizzarlo e rimontarlo in una prospettiva diversa.

Risorse on-line: www.loescher.it/ilfilodelracconto

novità

Helga Schneider Lasciami andare, madre

Jacopo Masini Il ragazzo mutante

Paola Mordiglia Emma

«La viva voce dei classici»

Gino Strada Pappagalli verdi

→ Il volume cartaceo è introdotto e commentato. → La lettura del testo è affidata ad attori di prestigio. → Nel CD MP3 sono presenti interventi del curatore, che introduce l’argomento e agevola la comprensione. → Libro e CD sono interdipendenti; collaborano allo stesso progetto interpretativo.

«Giovani per giovani» → I titoli di questa collana sono opera di ragazzi che scrivono ai loro coetanei. Dalla scuola per la scuola, le opere di Prime penne abbattono ogni stereotipo e stimolano a una lettura attiva. → Opere prime di ragazzi tra i 12 e i 18 anni. → Nessun apparato o nota: il testo è restituito in tutta la sua genuinità. → Nessun vincolo all’ispirazione: a tema libero, la collana ospita tutto ciò che piace ai giovani. Lorenzo Nguyen Ba Un’altra isola

RICERCA5_9_ultimo.indd 98

Giulia Belotti Il sogno di un’estate

Henry James Il giro di vite a cura di Emanuele Trevi, letto da Sonia Bergamasco con la partecipazione di Fabrizio Gifuni

Giovanni Boccaccio Il Decameron a cura di Riccardo Bruscagli, letto da Ottavia Piccolo e Vittorio Viviani

30/09/13 16.13


LA SCUOLA DIGITALE LOESCHER LA NOSTRA OFFERTA DEI LIBRI MISTI

LM

LEM

LEIM

Libro Misto Cartaceo

libro elettronico misto

libro elettronico interattivo misto

scuolabook.it

loescher.it

libreria

T

È il libro in versione cartacea. Si acquista in libreria.

Si integra con le risorse online.

È la versione integrale elettronica del Libro Misto cartaceo, scaricabile in pdf e non stampabile.

È la versione integrale elettronica interattiva del Libro Misto cartaceo, scaricabile e non stampabile.

Si acquista online sul sito www.scuolabook.it.

Si acquista online sul sito www.loescher.it.

Multipiattaforma.

Totalmente personalizzabile. Interattivo. Multimediale.

Sincronizzabile.

Multipiattaforma.

Si integra con le risorse online.

Sincronizzabile.

Parzialmente personalizzabile.

Si integra con le risorse online.

VAI SUL SITO LOESCHER PER I DETTAGLI: www.loescher.it

lsc_laricerca_IIIcop.indd 1

23/04/13 14:11


3a edizione

novità

VOCABOLARIO DELLA

LINGUA GRECA

con CD-ROM per Windows e nuova Guida all’uso del vocabolario e Lessico di base V este grafica rinnovata con l’uso del secondo colore Aggiornamento e ampliamento del corpus Sistematica revisione di alcune fonti d’autore istrutturazione di un consistente numero di R lemmi relativi alle cosiddette “preposizioni improprie” evisione delle indicazioni enciclopediche R presenti nei nomi propri E lenco degli Autori e opere ampliato e aggiornato nelle indicazioni bibliografiche

Appendice a colori con tavole illustrate dedicate a temi di civiltà, complete di glossari che definiscono i concetti-chiave relativi a ciascun argomento. Carte geografiche. Guida all’uso dotata di un ricco eserciziario operativo, diviso per ambiti grammaticali e lessicali per un graduale approccio all’uso del vocabolario. Lessico di base di 3000 lemmi fondamentali per i principianti.

www.loescher.it/dizionari

Loescher Editore S.r.l. Via Vittorio Amedeo II, 18 - 10121 Torino Tel. +39 011 56 54 111 • Fax +39 011 56 25 822 www.loescher.it • mail@loescher.it

ADV_LaRicerca_GI_04/2013_210x285.indd 1

VOCABOLARIO + GUIDA + CD-ROM PER WINDOWS Cod. 3364 ISBN: 9788820133641 pp. 2752 + pp. 224 VOCABOLARIO + GUIDA Cod. 3365 ISBN: 9788820133658 pp. 2752 + pp. 224

04/10/13 14:56


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.