La ricerca 5 - Educare alla cittadinanza

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la rIcerca ONlINe

Rivista e contenitore per dire, fare, condividere cultura

Marzo 2014 Anno 2 Nuova Serie – 6 Euro  www.laricerca.loescher.it

RI06 - © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS - Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 5 anno 2014

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all’ottobre 2012 La ricerca si affaccia alla rete aprendo una finestra online: il sito nasce per ampliare le prospettive, arricchire il dibattito, captare e rilanciare nuovi argomenti, nuovi discorsi. In contatto diretto e quotidiano scambio con i suoi lettori.

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SAPERI

Educare alla cittadinanza DOSSIER

I diritti dei bambini

La ricerca

N°5

SCUOLA

Scuole e archivi in rete Antimafia e educazione alla legalità Sostenibilità e limiti dello sviluppo Sport e integrazione

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@LaRicercaOnline

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altriNoi

I VIDeOcOrSI

PreMI Per l'eDUcaZIONe alla cITTaDINaNZa

Victor Rambaldi

Facciamo un film Videocorso di scrittura creativa per il cinema

Antonio Se

rra, Daniel

Facciam un fume o tto e Raineri

Videocorso di e di tecnica scrittura creativa di disegno per il fum etto

A scuola con gli altri per imparare

www.facciamounfilm.loescher.it

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www.facciamounfumetto.loescher.it

oescher Editore, in collaborazione con il Gruppo Abele, vuole dare la possibilità agli studenti della scuola secondaria di I e di II grado di far sentire la propria voce sul significato della cittadinanza attiva, attraverso il progetto concreto di quattro premi. I ragazzi dovranno lavorare sul tema del dialogo e della convivenza con l’altro - tema che, dal dibattito sulle classi multietniche fino al fenomeno del bullismo, si fa ogni giorno sempre più attuale, soprattutto fra le mura scolastiche. Gli studenti possono cimentarsi nei premi di:

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FACCIAMO UN FILM di Victor Rambaldi Videocorso di scrittura creativa per il cinema Un approccio pratico alla tecnica della scrittura per il cinema, adatto sia per attività laboratoriali da svolgersi con la guida del docente, sia per lo studio individuale. Uno strumento per acquisire le regole per scrivere una sceneggiatura e avvicinarsi con maggiore consapevolezza al linguaggio cinematografico.

giornalismo fumetto scrittura creativa cinema

FACCIAMO UN FUMETTO di Antonio Serra, Daniele Raineri Videocorso di scrittura creativa e di tecnica di disegno per il fumetto Un doppio approccio al tema del fumetto: spunti e attività legate al linguaggio visivo e alle tecniche di scrittura creativa per la sceneggiatura di una storia a fumetti e un tutorial di disegno che propone passo passo le fasi per disegnare personaggi e ambientazioni.

Regolamento completo

www.loescher.it/altrinoi I premi di fumetto, cinema e giornalismo si appoggiano ai nuovi videocorsi della Casa editrice.

A SCUOLA DI GIORNALISMO di Scribacchini Videocorso di giornalismo Muovere i primi passi nel giornalismo imparandone le regole e gli strumenti, esplorandone le potenzialità, approfondendo cenni storici e sviluppi futuri.

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Le persone come fini

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editoriale

a filosofa americana Martha Nussbaum individua nel semplice, disarmante interrogativo «cosa può fare ed essere ciascuna persona?» il vero punto di partenza per ogni riflessione sulla qualità della vita e per una teorizzazione di una «giustizia sociale di base». Ciò può avvenire solo considerando «ogni persona come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio, bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno». Un criterio di giudizio e di valore che,se applicato al sistema d’istruzione,diventa una prospettiva illuminante per valutare stato di salute,finalità e potenziale della scuola – in ultima analisi coincidenti con quelli della società che la esprime. Tra gli obiettivi che il mondo si è dato per garantire entro il 2015 un’istruzione di base di qualità obbligatoria e universale ci sono l’attenzione ai soggetti svantaggiati, alle minoranze etniche, all’accesso equo ai programmi e alla formazione lungo tutto l’arco di vita, all’eliminazione delle disparità di genere. Ci siamo chiesti che punteggio dare all’Italia del 2014 e abbiamo interrogato i suoi attori in un dialogo, complesso, che intreccia diritto allo studio, educazione alla cittadinanza, rispetto e inclusione delle differenze. Abbiamo incontrato un’idea di scuola che va oltre la semplice istruzione e che aspira a dare agli studenti le categorie fondamentali del vivere civile. Nelle esperienze di chi lavora con i minori che delinquono, in nome di un principio “riparativo” della giustizia, ma anche di chi (attraverso progetti concreti di convivenza nel territorio, di recupero e lettura attiva del passato, di attenzione all’ambiente) educa all’adesione ai princìpi che regolano lo Stato, e quindi all’essere cittadini consapevoli, liberi, aperti al confronto con la diversità (lo straniero, l’omosessuale, il non conforme) riconoscendovisi senza perdersi. Scrive Francesco De Renzo che «il concetto di cittadinanza non è più vincolato alla nazionalità, ma è direttamente collegato alla possibilità di partecipazione attiva alla vita sociale e culturale»: l’idea dell’educazione linguistica può essere efficacemente letta come esemplificazione delle istanze proposte in questo numero. Ci è parso dunque pertinente e opportuno dedicare il dossier ai diritti dei bambini e alla loro cittadinanza all’interno delle politiche internazionali, fra il tradizionale paternalismo e assistenzialismo e la necessità La scuola e l’educazione alla di considerarli titolari di diritti e degni d’ascolto. La questione cittadinanza: saper essere, saper fare. riguarda tanto i decisori politici quanto, nel quotidiano, gli opeLe idee, i progetti, le istanze e le proposte ratori dei servizi sociali, e solleva questioni etiche complesse e di questo numero. di stringente attualità laddove, in molte parti del mondo, il fenomeno dei bambini soldato o il diffuso lavoro minorile richiedono un ripensamento dei termini della questione e del pensiero comune e occidentale sull’infanzia. L’educazione alla cittadinanza, dunque, sembrerebbe assumere all’interno del sistema d’istruzione il significato ultimo di lavoro sul “saper essere”, sì, ma anche sul “saper fare”: nell’ottica di Nussbaum, una promozione attiva nei soggetti discenti delle proprie capacità e del loro ruolo sul pianeta e all’interno delle relazioni umane. Una sorta di principio di fraternità civile e di assunzione di responsabilità personali e sociali, di agency e di consapevolezza. E come l’attuale situazione economica mondiale richiede di rivedere la tradizionale opposizione naturale tra mercato e società, analogamente la scuola e le agenzie formative non possono permettersi di essere luoghi e momenti altri, avulsi dalla realtà e impermeabili al mondo esterno: solo aprendosi alla sua complessità e accettando la diversità, facendosi occasione e opportunità di inclusione, di recupero, di dialogo, possono davvero svolgere con coscienza il loro mandato educativo.

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Alessandra Nesti, redazione La ricerca

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La ricerca Periodico quadrimestrale Anno 2, Numero 5 Nuova Serie, Marzo 2014 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 - iscrizione al ROC n. 1480 4

Editore Loescher Editore Direttore responsabile Martina Pasotti Direttore editoriale Ubaldo Nicola Redazione Laura Cavaleri, Elena de Leo, Manuela Iannotta, Sandro Invidia, Emanuela Mazzucchetti, Alessandra Nesti, Francesca Nicola, Chiara Romerio Grafica e impaginazione Leftloft - Milano/New York Pubblicità interna e di copertina Visual Grafika - Torino Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

La ricerca / N. 5 Nuova Serie. Marzo 2014

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero Federico Batini, Eyal Ben-Ariv, Enrico Cerasuolo, Francesco De Renzo, Francesco Diana, Michele Gagliardo, Esther Goh, Salvatore Inguì, Cécile Kyenge, Stefano Milano, Ilaria Moroni, Francesca Nicola, Serenella Pesarin, Gilda Pescara, Elena Piastra, Giovanni Proiettis, Marco Ricucci, Team Spiders, Gabriele Toccafondi, Cinzia Venturoli, Giovanni Zoppoli. © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (on-line)

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Nel prossimo numero Il CLIL L’acronimo, tradotto, significa “apprendimento integrato di lingua e contenuto” (Content and Language Integrated Learning). L’idea che sta alla base di questa metodologia è quella dell’immersione linguistica: imparo meglio una seconda lingua se la uso per apprendere e comunicare contenuti reali, quali sono tra gli altri le discipline non linguistiche, ovvero materie di studio come matematica e scienze, geografia, storia – solo per fare qualche esempio. La lingua, ça va sans dire, è soprattutto quella dell’impero: l’inglese di Cambridge e di Oxford, di Boston e Palo Alto, ma anche di Tokyo e Shangai, di Stoccolma e Seul. E il CLIL in questa lingua da un po’ di tempo è un obbligo di legge per le scuole italiane. Compito dei dirigenti scolastici assicurarne l’attuazione nell’ultimo anno dei licei e degli istituti tecnici. Ma abbiamo docenti abilitati a far questo? E corsi abilitanti? E scuole attrezzate? E siamo tutti convinti che sia utile e necessario? In modo particolare: che cosa dicono gli interessati (docenti di inglese e disciplinaristi, studenti, genitori, dirigenti scolastici)? Tenteremo di investigare al meglio tutti gli aspetti della questione, pro e contro, vantaggi e svantaggi, spaziando dagli adempimenti burocratico-amministrativi, ai programmi; dalla visione del mondo sottesa alla metodologia CLIL, all’excursus panoramico internazionale, fino alla ricerca di somiglianze e differenze nel ricorso all’utilizzo delle lingue franche. Le lingue franche Da Babilonia, dove nessuno capiva la lingua degli altri, sino alla Pentecoste, quando per carisma divino tutti comprendevano il linguaggio degli apostoli, non si può dire che le Scritture non si siano occupate dei problemi posti dal plurilinguismo. Come del resto il pensiero filosofico, se solo si mettono in fila i tentativi ricorrenti di andare oltre Babele costruendo una lingua perfetta a tutti comprensibile. Sono speculazioni che iniziano nel Medioevo (la lingua degli angeli) per giungere sino all’invito di Umberto Eco (La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, 1993), per il quale oggi si potrebbe non solo costruire, come già innummerevoli volte nel passato, una LIA (International Auxiliar Language), ma anche disseminarla realmente a livello planetario, quando tutte le televisioni del mondo trasmettessero nella stessa lingua. Cercheremo di capire, in breve, perché quella delle lingue franche sia una storia segnata da continui fallimenti, sia quando si è cercato di calare dall’alto una lingua costruita (come nel caso dell’esperanto) sia quando si è tentato di stabilizzare nel tempo e nello spazio una lingua naturale, come nel caso del greco, del latino e forse oggi dell’inglese. La redazione è lieta di ricevere le vostre proposte e suggerimenti. Scrivete a: laricerca@loescher.it

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Sommario Educare alla cittadinanza

saperi

scuola

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Sfidare i talebani per andare a scuola

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A scuola di cittadinanza... in rete

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A scuola per crescere: riconoscersi persone

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Sentieri erranti di antimafia

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La responsabilità secondo don Peppe

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Un Mammut a Scampia

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Per non dimenticare: una rete degli archivi

Francesca Nicola

Michele Gagliardo

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Tutti a scuola di democrazia

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Educazione linguistica e cittadinanza

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Educazione alla legalità. I minori del penale

Cécile Kyenge

Francesco De Renzo

Serenella Pesarin

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Cittadinanza e Costituzione nella scuola italiana Gabriele Toccafondi

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Per una pedagogia dell’identità sessuale Federico Batini

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Gilda Pescara

Salvatore Inguì

Francesco Diana

Giovanni Zoppoli

Ilaria Moroni e Cinzia Venturoli

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Educazione ambientale: l’ultima chiamata Enrico Cerasuolo

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A scuola di sostenibilità

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Quando lo sport diventa integrazione

Elena Piastra

Team Spiders

I diritti dei bambini

dossier

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I diritti dei bambini presi sul serio

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Ripensare i bambini come agenti attivi

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Comprendere i bambini soldato

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Il lavoro infantile: problema o risorsa?

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David: studente e guardiano di lama

Francesca Nicola Esther Goh

Eyal Ben-Ariv

Giovanni Proiettis Giovanni Proiettis

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saperi

Sfidare i talebani per andare a scuola Saperi / Sfidare i talebani per andare a scuola

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Le audaci parole della sedicenne pakistana Malala offrono l’occasione per fare il punto sull’agenda delle Nazioni Unite per assicurare l’accesso all’istruzione primaria universale obbligatoria e gratuita. di Francesca Nicola

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ggi tutti la conoscono semplicemente come “Malala”, o come “la ragazzina Pakistana che ha fatto il discorso all’ONU”. Il “Time” le ha dedicato una copertina lo scorso aprile, inserendola nella lista delle cento persone più influenti al mondo. Del resto, sempre l’anno scorso, è andata molto vicina a ottenere il premio Nobel per la pace, assegnato poi all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac). Tutto inizia quando, a undici anni, e con lo pseudonimo di Gul Makai, Malala Yousafzai lancia un blog per la Bbc (la televisione inglese) in cui descrive la sua vita nello Swat, una regione del Pakistan nordoccidentale, sotto il regime Un bambino, un dei talebani: sempre più scuole chiuse e una legge islamica maestro, una penna e un libro possono fare la molto severa che penalizza sole donne. Giovane ma differenza e cambiare il prattutto sorprendentemente determinamondo. ta,Malala non fa giri di parole.In un post del 14 gennaio 2009 dal titolo “I may not go to school again” (“potrei non tornare più a scuola”) si dichiara preoccupata perché il suo preside non ha fissato la data di riapertura dopo le vacanze estive: «non ci ha informato sui motivi, ma io credo che i talebani abbiano vietato l’educazione per le ragazze a partire dal 15 gennaio». Un coraggio che quasi le costa la vita. Il 9 ottobre 2012 alcuni uomini armati la raggiungono a bordo del pullman su cui sta tornando da scuola e le sparano ferendola alla testa e al collo. Malala si salva miracolosamente. La sua storia, però, fa il giro del mondo, tanto da portarla il 12 luglio 2013, in occasione del suo sedicesimo compleanno, a parlare al palazzo delle Nazioni Unite di New York.Indossando lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto, Malala lan-

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cia un appello per l’istruzione dei bambini di tutto il mondo: «Lasciateci prendere in mano i libri e le penne. Sono le armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo.L’istruzione potrà salvare il mondo». Un discorso che ha ricevuto l’ovazione dei rappresentanti delle istituzioni presenti nella sala Trusteeship Council del Palazzo di Vetro: tutti in piedi per un lunghissimo e caloroso applauso.

Il diritto all’istruzione per tutti —

Il diritto all’istruzione è uno dei diritti fondamentali della persona ed è sancito da moltissimi documenti internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che recita, all’articolo 26: «Ogni individuo ha diritto all’istruzione gratuita e obbligatoria almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali». Un principio reso giuridicamente vincolante dal Patto sui diritti economici sociali e culturali delle Nazioni Unite, che fissa cinque punti fondamentali: • tutti hanno diritto all’istruzione di base (elementare) in una qualche forma, ivi compresa l’istruzione di base per gli adulti; • essa deve essere gratuita e obbligatoria; • lo Stato ha l’obbligo di tutelare questo diritto dalle intromissioni di terzi; • esiste libertà di scelta dell’istruzione senza interferenze da parte dello Stato o di terzi; • le minoranze hanno diritto all’insegnamento nella lingua di loro scelta, in istituti al di fuori del sistema ufficiale della pubblica istruzione. Nell’aprile 2000, in occasione del Forum Mondiale di Dakar sull’Istruzione, la comunità internazionale si è impegnata a raggiungere entro il 2015

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Le “quattro A” —

Katerina Tomasevski, studiosa dei diritti umani, è stata dal 1998 al 2004 il primo interlocutore speciale sul diritto all’istruzione della Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti Umani. Fino alla sua pre-

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↑ matura morte,avvenuta nel 2006,si è impegnata in Malala Yousafzai un costante lavoro di denuncia delle ipocrisie della riceve il premio retorica internazionale sul diritto all’istruzione, Sakharov a universalmente proclamato a gran voce, ma di fatStrasburgo, il 20 novembre 2013. to sistematicamente ignorato da quasi tutti i Paesi. (Credit: Claude È suo il The State of the Right to Education Worldwide Truong-Ngoc, del 1994, un documento che analizzava le leggi e le Wikimedia). pratiche educative di 170 nazioni, focalizzandosi sul divario fra l’accesso all’istruzione de jure (ossia come principio formale) e de facto (ossia sulla sua realizzazione concreta). Nello stesso documento, per misurare attraverso indicatori concreti il diritto all’istruzione, Tomasevski proponeva anche quattro concetti analitici: availability (disponibilità), accessibility (accessibilità), acceptability (accettabilità) e adaptability (adattabilità). Il criterio della disponibilità implica che l’istruzione sia gratuita e finanziata dal governo e che vi siano sia infrastrutture adeguate (edifici sicuri, scuole nei villaggi e nelle aree rurali, servizi igienici e di trasporto adeguato) sia insegnanti qualificati in La comunità grado di svolgere questo delicainternazionale si to compito. La questione degli è impegnata a insegnanti è particolarmente raggiungere entro il centrale, per esempio, nel garantire la parità di accesso all’i2015 un’istruzione di struzione fra studenti e stubase obbligatoria. dentesse. In tutte le regioni del mondo, infatti, la percentuale di insegnanti donne impiegate nell’istruzione superiore è inferiore a quella presente nelle scuole primarie. Un dato preoccupante non solo in sé e per sé, ma anche tenendo conto del fatto che,in molti Paesi del mondo, i genitori rifiutano spesso di permettere alle figlie

Saperi / Sfidare i talebani per andare a scuola

un’istruzione di base di qualità obbligatoria e universale. I 164 Paesi partecipanti hanno definito un’agenda basata su sei obiettivi: • espandere e migliorare la cura e l’istruzione di tutti i bambini e le bambine, in particolare di quelli più vulnerabili e svantaggiati; • assicurare, entro il 2015, l’accesso all’istruzione primaria universale obbligatoria, gratuita e di buona qualità per tutti i bambini, in particolare per le bambine, per i bambini che vivono in condizioni difficili e per quelli che appartengono a minoranze etniche; • assicurare che i bisogni educativi di tutti i giovani e gli adulti siano soddisfatti attraverso un accesso equo a programmi di istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita; • raggiungere un aumento del 50% nell’alfabetizzazione degli adulti, specialmente delle donne, e un accesso equo all’istruzione primaria e alla formazione continua per tutti gli adulti; • eliminare le disparità di genere nell’istruzione primaria e secondaria entro il 2005 e arrivare alla piena parità di genere nel settore educativo entro il 2015, con una particolare attenzione a un pieno ed eguale accesso all’istruzione primaria e di buona qualità per le ragazze; • migliorare tutti gli aspetti della qualità dell’istruzione e assicurare a tutti l’eccellenza così che risultati visibili e valutabili siano raggiunti da tutti, specialmente nel leggere, scrivere, contare e in altre abilità essenziali per vivere. Per realizzare questi obbiettivi è nato Education for All (EFA), un programma che coinvolge in primo luogo i Paesi in via di sviluppo a completare i piani d’azione nazionali (cioè a indicare con precisione obiettivi, impegni, strategie e risorse necessarie), i Paesi donatori (ovvero quelli ricchi) a finanziare tali piani, e gli Organismi internazionali (UNESCO, UNICEF, UNDP, Banca Mondiale e FAO) ad assistere entrambi nella programmazione e nella realizzazione. Nonostante sembri ormai inevitabile il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati per il 2015, e nonostante la crisi economica mondiale in atto dal 2008 abbia condizionato la disponibilità di risorse per l’educazione dei Paesi donatori, la 36° Conferenza Generale (svoltasi nell’ottobre 2011) ha confermato il programma EFA come il più importante impegno politico internazionale per la promozione dell’istruzione per tutti.

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di essere istruite da uomini, scoraggiandone così la scolarizzazione secondaria. Il secondo principio, l’accessibilità, stabilisce che il sistema scolastico non sia discriminatorio e che siano prese misure concrete affinché i soggetti più emarginati non siano esclusi. Nella pratica questo significa, per esempio, assicurarsi che nei vari Paesi siano aboliti tutti i possibili ostacoli giuridici e amministrativi, come la necessità di un certificato di nascita per essere ammessi a scuola. Un altro parametro da monitorare è che l’educazione sia economicamente alla portata di tutti, compresi i suoi costi indiretti, come le spese per i libri di testo e le uniformi. O, ancora, che siano adottate le leggi che vietano il lavoro minorile. Un punto abbastanza spinoso riguarda l’impiego di “azioni affermative”, ovvero di leggi speciali che attribuiscono un vantaggio ai soggetti considerati più “deboli”, quali per esempio le donne. Le polemiche che circondano tali provvedimenti si concentrano spesso sulla difficoltà di stabilire esattamente quale sia il punto critico in cui l’obiettivo dell’uguaglianza può dirsi raggiunto. Basti pensare Il linguaggio dei ad alcune nazioni, in particolare diritti umani necessita dei Caraibi, che dopo aver istitudi essere calato ito misure speciali per le ragazze all’interno dei contesti in materia di istruzione si trovaconcreti in cui è no ora nella situazione opposta, cioè con un sistema educativo applicato. che sembra faticare a includere i ragazzi. La Giamaica è un esempio calzante. Per accettabilità si intende che il contenuto della formazione, sia nel sistema educativo pubblico che in quello privato, sia rilevante, non discriminatorio,culturalmente appropriato e di qualità.Ma anche che i curricula siano pluralisti e liberi da indottrinamenti politici o religiosi. Riconoscendo che il contenuto dell’insegnamento è un fattore determinante per il suo ruolo come trasmettitore di discriminazione o promotore dell’eliminazione delle discriminazioni, molti Stati hanno avviato un processo di revisione dei programmi di studio e dei libri di testo, al fine di sradicare immagini stereotipate, manifeste e implicite, dei ruoli di genere. Infine, l’ultima delle “quattro A”, l’adattabilità, si riferisce alla necessità che l’educazione debba adattarsi alle esigenze degli individui (per esempio i bambini con disabilità o appartenenti a minoranze etniche e linguistiche) e delle società (rispettando tutte le feste religiose e culturali riconosciute).

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L’istruzione per tutti: un problema vero —

L’istruzione funziona certamente come un moltiplicatore che, se effettivamente garantito, enfatizza il godimento di tutti i diritti individuali e della libertà. Oltre ad essere la chiave per lo sviluppo economico, aiuta le persone a sviluppare al mas-

simo il proprio potenziale e a emanciparsi dallo stato di povertà e di emarginazione. Nonostante i significativi progressi compiuti negli ultimi anni, tuttavia, sono ancora 72 milioni (circa il 10% della popolazione mondiale in età scolare primaria) i bambini che non hanno accesso all’educazione di base; il 70% di questi vive nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e occidentale, cifra che in realtà si presume sottostimata, non considerando il numero di bambini che, nonostante risultino iscritti, non frequentano la scuola. Basti pensare che nei Paesi in guerra o in situazioni di post conflitto i dati non sono disponibili o affidabili. Una dimostrazione del fatto che, in linea con quanto ha sostenuto Tomasevski, il linguaggio dei diritti umani, incluso quello all’istruzione, necessita in una certa misura di essere sottratto al diritto formale astratto ed essere calato all’interno dei contesti concreti in cui è applicato. Questo significa comprendere che, oltre che catalizzatore di processi di emancipazione, il diritto all’istruzione per tutti è strettamente dipendente da alcune condizioni culturali e socio-economiche. E che incidere su queste ultime può rivelarsi a volte più efficace che imporre standard di scolarizzazione rigidi e universali. Sembra per esempio poco efficace spendersi in campagne a favore della scolarizzazione femminile se non si aumentano le opportunità lavorative per le ragazze.Uno studio di UNICEF ha dimostrato per esempio che in Egitto in almeno il 50 % dei casi esaminati la decisione dei genitori di non mandare le bambine a scuola è fortemente influenzata dalla percezione che l’istruzione non garantisca una futura occupazione. Una percezione, del resto, in linea con quanto attestato da UNIFEM (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne): i salari medi delle donne sono inferiori a quelli degli uomini in tutti i Paesi in cui sono disponibili i dati. Considerazioni di buon senso, ma tutt’altro che scontate nel mondo del diritto e delle agenzie internazionali, spesso caratterizzati da un eccesso di formalismo.

Francesca Nicola è dottoranda in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

Approfondire —

J • Y. Malala e L. Christina, Io sono Malala, Garzanti, Milano, 2013.

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A scuola per crescere: riconoscersi persone Secondo il portavoce del Gruppo Abele Michele Gagliardo serve una pedagogia nuova, votata sì a promuovere e sviluppare le capacità personali, ma anche a fornire strumenti relazionali per confrontarsi in modo dialettico e costruttivo.

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a scelta di dedicare un numero de “La ricerca” al tema dell’educazione alla cittadinanza appare coraggiosa ma necessaria. Coraggiosa perché ad alcuni potrebbe risultare ridondante; necessaria, poiché in questi anni abbiamo assistito a un moltiplicarsi di progetti e interventi, non sempre sostenuti da un’attenta riflessione sulle premesse, sui princìpi e sulle metodologie a monte del fare. Parole e azioni si mischiano tra loro pericolosamente, fino a “perdersi” le une nelle altre; a non riuscire più a darsi in una relazione all’interno della quale la parola definisce la direzione dell’azione e l’azione ne arricchisce la profondità. Lavorare con le parole significa esercitare un potere pedagogico e politico insieme, che comporta la responsabilità delle conseguenze legate agli atti generati da certe visioni del mondo. La scelta di un’articolazione specifica della cittadinanza è un fatto decisivo ai fini della formazione civile. Attivare certi percorsi offre ai ragazzi la possibilità

Saperi / A scuola per crescere: riconoscersi persone

di Michele Gagliardo

di farsi un’idea di quale contesto sociale sia più adatto ad accogliere il nodo della cittadinanza; di quale tipo di donna e di uomo possano crescere e vivere in quello spazio; di cosa significhi l’essere cittadino e, infine, di come qualificare le relazioni tra le persone. In questa direzione, siamo chiamati a riflettere e discutere sulle premesse, sulle prospettive insite nelle proposte educative veicolate dal nostro linguaggio. Gianrico Carofiglio scrive a proposito nel suo libro La manomissione delle parole (Rizzoli, 2010): «Oltre la sciatteria, la banalizzazione, l’uso meccanico della lingua, esiste però un fenomeno più grave, inquietante e pericoloso: un processo patologico di vera e propria conversione del linguaggio all’ideologia dominante. Un processo che si realizza attraverso l’occupazione della lingua, la manipolazione e l’abusivo impossessamento di parole chiave del lessico politico e civile». Un fenomeno graduale che ci sta interessando da anni, caratterizzato dal “prendere” alcune parole fondanti, i pilastri sui

← Un flash mob organizzato da Libera e dal Movimento Quarto Mondo in occasione della giornata mondiale del Rifiuto della Miseria (Credit: www.atdquartomondo.it).

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→ Credit: © Image Source/Getty Images.

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Saperi / A scuola per crescere: riconoscersi persone

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quali edificare società e far crescere persone, per poi mutarne il significato, confonderlo fino a farlo perdere completamente. Si pensi a parole come giustizia, libertà, democrazia, legalità e cittadinanza, appunto; trasformate trasformando l’idea di futuro che in esse si istruiva. Dunque, questi sono il potere e la responsabilità di un educatore, che si avvicina alla pratica delicatissima del “maneggiar parole”: aprire a percorsi possibili dentro il solco della giustizia sociale; far crescere cittadini e città oppure consolidare traiettorie di oppressione delle persone e il consolidamento di economie diseguali.

La questione civile —

La questione civile emerge dall’osservazione di alcuni dati, cifra distintiva di questo momento sociale e politico. I dati sulle povertà (relativa e assoluta) riguardano oltre 12 milioni di italiani; i giovani fino ai 24 anni in stato di povertà sono oltre 3 milioni; gli analfabeti in Italia sono circa 6 milioni. Si potrebbe proseguire, tuttavia questi dati sono significativi a sufficienza per comprendere come dietro ad essi si nasconda non solo la tanto citata “crisi”, quanto piuttosto un graduale abbandono della giustizia civile,sostituita da una cultura delle disuguaglianze e dell’illegalità e dall’abbandono dell’esercizio del ruolo civile di controllo, denuncia e proposta dei cittadini. L’educare alla cittadinanza attiva significa dunque occuparsi della questione civile, costruendo impegno per la giustizia e la crescita civile dei cittadini; cogliendone l’attualità e affrontandone le molteplici articolazioni. Molti sono i nodi che descrivono le traiettorie che compongono la questione civile; tra i più “caldi” è bene ricordare: • la maturazione del senso e della coscienza civile e sociale in ogni cittadino; • lo studio di forme di superamento degli ostacoli che bloccano la piena partecipazione alla vita della comunità;

la riflessione sui princìpi, le pratiche, i contenuti sui quali si fonda una comunità che intende crescere secondo giustizia e libertà; • la valorizzazione dei beni pubblici, della “cosa pubblica”, praticando un severo rifiuto dell’essere al servizio di interessi particolari; • l’allestimento di spazi democratici di confronto sulla città; • lo sviluppo delle libertà individuali, fattori di accesso al pieno sviluppo dell’uomo “civile” e della città. La delega è dunque rinuncia a un atto importante, rappresentato dal decidere insieme sulle cose che ci riguardano. Un’abitudine che fa parte della proposta culturale di oggi,di fronte alla quale l’educazione alla cittadinanza deve poter promuovere il prevalere dell’uomo sulle altre questioni. Un uomo in relazione con gli altri e con il mondo; dentro il mondo e in relazione con esso.

Aprire uno spazio critico e sperimentale —

I contesti nei quali si cresce educano, a volte più efficacemente di molte aperte intenzioni. L’educazione accade, in ogni gesto, in ogni decisione, in molti sensi e direzioni, a volte inconsapevoli. Educare alla cittadinanza attiva implica un investimento in due direzioni: occuparsi di leggere la cifra dell’educazione che c’è, cogliendo nel contesto le premesse di quella che potrebbe concretizzarsi; e fornire le competenze e le conoscenze necessarie affinché ciascuno possa diventare a sua volta ricercatore attento e autonomo. Si tratta allora di dare vita a laboratori di ricerca sui contenuti e sulle didattiche di questo modello educativo; per meglio comprenderlo al fine di individuarne le debolezze, le aree disattese, i nuclei presso i quali sta prendendo forma un’alternativa.

Sviluppare un’educazione partigiana —

Leggere criticamente l’educazione e i suoi attuali dispositivi è un’attività fondamentale, ma non di per sé sufficiente. È necessario che ad essa si affianchi l’esercizio di una precisa proposta pedagogica, con la quale entrare in discussione. Troppo spesso ci si trova di fronte a educatori che pensano all’educazione come a un fatto neutrale: impegnati a “tirar fuori cosa c’è nell’altro”, a riconoscere, valorizzare, promuovere. Ma questa è solo una tra le pratiche dell’educare. Chi cresce si aspetta da chi è adulto una proposta con la quale entrare in relazione, misurarsi, dialogare, confliggere, scoprendo sé stesso e le proprie idee, prendendo posizione. Educare alla cittadinanza restituisce un potere e alcune responsabilità: il potere di fare una proposta nella direzione di un mondo più giusto; la responsabilità di far crescere competenze e saperi utili a stare nel confronto dialettico in modo costruttivo.

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Fornire un intenso accompagnamento formativo —

Della giustizia e delle libertà —

Occuparsi dello sviluppo di percorsi di educazione alla cittadinanza rimanda in modo evidente alla cura delle pratiche di giustizia e libertà, di accesso a diritti, risorse e progetti futuri per tutti, proprio come richiama la nostra Costituzione. Purtroppo però troppe persone pagano con la loro esclusione la crescita economica di pochi. Le nostre economie pensano e praticano uno sviluppo attraverso l’applicazione di un modello teorico che prevede le disuguaglianze come elementi funzionali alla crescita. L’educazione alla cittadinanza non può prescindere dall’affrontare il nodo della giustizia e della libertà nella loro relazione: in questa direzione

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11 Saperi / A scuola per crescere: riconoscersi persone

Un accompagnamento formativo dovrebbe essere orientato a due ambiti. Il primo riguarda la formazione della persona e la crescita del cittadino, e si può sviluppare attraverso la costruzione di percorsi orientati a: • fornire e discutere conoscenze pubbliche utili all’esercizio del ruolo di cittadino nella relazione con la città, il suo vivere e il suo crescere; • sviluppare abilità di tipo sociale, legate allo stare con gli altri, pensare e progettare insieme, interloquire con chi amministra, dare vita a percorsi di denuncia e di costruzione partecipata di ipotesi di cambiamento; • far crescere essenze, utili alla maturazione della coscienza civile, princìpi irrinunciabili attorno ai quali apprendere l’esercizio difficile della coerenza nel quotidiano e costruire lo spazio del vivere collettivo; • curare il sentire civile,i sentimenti che sostengono le pratiche di giustizia e uguaglianza. Quattro aree orientate alla piena partecipazione delle persone alla vita della comunità, nella quale vivono per formare il cittadino a far sorgere la propria dimensione sociale. Il secondo ambito riguarda la cura della crescita di contesti pubblici nei quali poter vivere meglio. Per crescere serve un mondo prossimo,un contesto vicino alle persone al punto da aiutarle a riconoscersi senza perdersi. Nel quale incontrare confini con cui misurarsi; incontrare l’altro. Per crescere serve l’altro, ogni persona esiste se ha uno spazio nell’altro, nei suoi pensieri, nei suoi percorsi. Si tratta di cercare di costruire insieme realtà vive, accoglienti e eterogenee, tenute insieme da diritti e responsabilità. Un’esperienza educativa civile, che si fa politica pubblica, non al servizio di interessi particolari ma con i beni pubblici come contenuti specifici, una comunità che si trasforma e cresce secondo giustizia.

possono venirci in aiuto le parole del Presidente Sandro Pertini: «Per me libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile. Non vi può essere vera libertà, senza la giustizia sociale. Come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà». Occorre ricercare e perseguire la giustizia sociale per realizzare comunità fondate sull’uguaglianza e garantire libertà per permettere un reale accesso a percorsi di vita e di sviluppo possibili; libertà intese come presenza o assenza di limitazioni. Appare chiaro il concetto di “libertà individuali”, insieme di dotazioni personali, di capacità e competenze, L’educazione alla che mettono le persone nelle cittadinanza non condizioni di essere interpreti può prescindere principali del loro processo di liberazione ed emancipazione. dall’affrontare il nodo Gli studi sulle libertà individuali della giustizia e della esprimono interessanti orienlibertà nella loro tamenti, che indicano attorno relazione. a quali aree di impegno le politiche e il sistema pedagogico dovrebbero investire: • i percorsi di liberazione dal bisogno e di costruzione di diritti; • l’investimento sulla conoscenza e sull’accesso all’informazione; • l’aumento della coesione sociale e dei legami significativi nelle comunità; • la pratica di processi partecipativi; • la cura degli ambienti urbani di vita.

Apprendere e amare l’esercizio del pensare —

Se l’esercizio del pensiero è debole, o viene meno, è possibile che gradualmente entri in crisi la capacità di uno sguardo etico sulla vita, la possibilità di distinguere il giusto dall’ingiusto. Si smette di prendere decisioni autonome sulla qualità del proprio esistere e del proprio essere donne e uomini. Ciò che spesso accade in molti percorsi di educazione alla cittadinanza è, purtroppo, la promozione di una cultura della conoscenza fondata sul possesso, in linea con la cultura dominante, un sapere utile a esercitare potere sulla realtà. Si dovrebbe e si potrebbe lavorare invece per lo sviluppo del pensiero, della capacità e della passione per la ricerca del senso delle cose. Un pensare libero e autonomo, critico e partecipativo.

Michele Gagliardo è responsabile del Piano Giovani del gruppo Abele; è autore insieme a F. Rispoli e M. Schermi di Crescere il giusto. Elementi di educazione civile, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.

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Tutti a scuola di democrazia

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Saperi / Tutti a scuola di democrazia

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Cécile Kyenge ci consegna un appassionato manifesto di una cittadinanza sostanziale e attiva, e delle opportunità reali di crescita offerte dai processi di meticciato e d’integrazione con i nuovi cittadini. di Cécile Kyenge

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a scuola è la “prima palestra” dove rafforzare i diritti, il luogo ideale per passare ai nostri figli l’idea delle pari opportunità, dei diritti e dei doveri: nella scuola si rafforza la democrazia di un Paese. La vera sfida per le Istituzioni è quella di intraprendere iniziative che facciano sentire i giovani parte integrante della comunità e, in questa ottica, il dialogo aperto con gli studenti è una necessità. Le tante domande che ci vengono poste devono trovare risposte concrete in considerazione dei grandi mutamenti che stiamo vivendo tutti, nessuno escluso. Nella scuola si concentrano desideri, aspettative, timori, tutti sentimenti necessari a una crescita armonica dell’individuo. La scuola è luogo di integrazione e noi dobbiamo dare messaggi positivi alle nuove generazioni, non fare leva sulle loro paure, dobbiamo dare loro la speranza di un futuro migliore. Il messaggio che ho cercato di far passare quando mi sono insediata come ministro per l’Integrazione è proprio quello di capire che la nostra società sta cambiando rapidamente,la realtà in cui crescono i nostri figli è ben diversa dalla nostra, di quando eravamo giovani.La mobilità delle persone è diventata un’esigenza per motivi sociali, politici, economici e di religione e non possiamo voltarci dall’altra parte e far finta di nulla.Garantire dignità alle persone deve diventare priorità di tutti. L’arrivo di persone da Paesi diversi e i processi di meticciato non necessariamente portano a smarrire la propria identità, forse possono servire proprio a ritrovarla e a renderla più ricca. La meravigliosa Costituzione della Repubblica Italiana non è spaventata dal pluralismo, dalla multietnicità, dal plurilinguismo, dalla varietà di religioni, anzi una democrazia si nutre di differenze, ne ha bisogno per produrre quella dialettica che porta alla crescita della comunità.

Le migrazioni ci sono sempre state e gli italiani sono stati tra gli attori protagonisti di questo fenomeno. Le migrazioni diventano un problema se vengono vissute come un problema, diventano una risorsa se si affrontano come una risorsa. L’approccio emergenziale tratta l’immigrazione come un problema e così produce conseguenze problematiche, l’approccio progettuale e sistemico può rendere la circolazione delle persone una grande opportunità.

Evitare di sprecare i talenti —

Pensiamo ad esempio al fatto che i figli di immigrati, con radici in un Paese e vite in un altro, con familiari sparsi per il mondo, capaci di parlare più lingue, di interagire con contesti culturali diversi, con una dote naturale verso il dialogo, con la propensione a essere ponti tra la dimensione locale e quella globale, possono rendere l’Italia più cosmopolita. Passaggio necessario per avere un ruolo di ribalta sulla scena internazionale e per saper tener testa alle sfide che la realtà ci pone. Ma questo enorme potenziale, come quello di tutti i giovani di questo Paese, nuovi e vecchi cittadini, purtroppo va troppo spesso sprecato. La mia battaglia, infatti, non si ferma al riconoscimento della cittadinanza formale per la popolazione di origine straniera. Io mi batto per promuovere una cittadinanza sostanziale, affinché italiani e immigrati possano diventare cittadini attivi. Dobbiamo permettere ai ragazzi di avere voce, di avere spazio e opportunità. I giovani devono tornare a contare per riappropriarsi pienamente del fatto di essere cittadini. È per questo che stiamo intensificando gli sforzi contro la dispersione scolastica, per sostenere i centri di aggregazione giovanile, le opportunità per divenire protagonisti della propria vita e della vita della propria comunità.

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Ma in particolare, molti ragazzi di seconda generazione finiscono per essere talenti sprecati. Mi riferisco a quei giovani che, ad esempio nello sport, a causa del mancato riconoscimento della cittadinanza, non sono ritenuti italiani, mentre in realtà sono figli del nostro Paese che non sappiamo riconoscere per una normativa che dobbiamo oramai aggiornare. Questo atteggiamento denota anche miopia da parte dello Stato che prima spende, investe nell’educazione di questi ragazzi e poi rischia di perdere i ragazzi che ha coltivato e cresciuto, e qui includo ovviamente anche i figli di italiani che sempre più emigrano. La riforma della cittadinanza deve partire dal concetto dello ius soli temperato, la stessa direzione in cui si stanno muovendo molti altri Paesi. In questo modo i genitori immigrati possono richiedere la cittadinanza dei figli che nascono in Italia senza seguire un percorso di integrazione perché i figli di immigrati fanno già lo stesso percorso dei bambini nati da genitori italiani, andando a scuola e vivendo nella stessa società fin dal primo giorno della loro vita. Il talento si protegge con i diritti e si alimenta con le opportunità. C’è una seconda generazione di ragazzi che aspettano solo di essere riconosciuti come talenti e come cittadini.Sono il nostro futuro. Un germoglio di speranza del Paese. Non respingiamo la loro voglia di sentirsi parte di noi, della nostra comunità e della storia italiana. Sulla mia scrivania mi ritrovo molte lettere di cittadini comuni che desiderano comunicarmi le loro personali preoccupazioni o vogliono manife-

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starmi il loro incoraggiamento. Tra queste sono numerose le lettere di giovani ragazzi e ragazze che si interrogano sul tema della cittadinanza. I giovani ci dicono che l’Italia è cambiata, dobbiamo rendercene conto, e adeguarci al più presto. E il nostro compito di adulti, prima ancora che di politici, è dare risposte. Ma voglio anche dire che questo cambiamento che il Paese sta attraversando non è un tradimento delle radici civiche e culturali dell’Italia. Al contrario: questo cambiamento rappresenta il pieno compimento dei valori su cui si fondano le Una democrazia si nazioni democratiche europee. nutre di differenze, Nelle lettere delle ragazze e ne ha bisogno per nelle parole di moltissimi gioprodurre quella vani che ascolto andando in giro dialettica che porta per l’Italia non c’è niente che vada contro la nostra Costituzioalla crescita ne. I padri e le madri costituendella comunità. ti sorriderebbero ad ascoltarle, perché quando Roberta scrive: «a noi non ce ne importa proprio di discriminare un ragazzo come noi», a parole sue, sta proclamando l’articolo 3 della Costituzione Italiana. O quando Oumaima mi scrive che cantando l’inno si commuove e avverte un senso di fratellanza con coloro che sente essere i suoi “connazionali”, addirittura sta riportando in vita un patriottismo che sembrava smarrito.

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← Pablo Picasso, I quattro angoli del mondo, da Guerra e Pace, 1952-54, affresco su pannello, Musée Nationale Picasso, Vallauris, France. (Credit: Musée Nat. Picasso, La Guerre et la Paix, Vallauris, France, The Bridgeman Art Library Archivi Alinari, Firenze; P. Picasso/© by SIAE, Roma 2014).

Articolo chiuso in redazione prima del 13 febbraio 2014.

Cécile Kyenge è una politica italiana di origine congolese, ministro dell’Integrazione per il governo Letta.

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Educazione linguistica e cittadinanza

Saperi / Educazione linguistica e cittadinanza

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Chi parla male, pensa male e vive male: la citatissima, lapidaria esclamazione di Nanni Moretti in Palombella Rossa sintetizza perfettamente il manifesto fondativo del Giscel, secondo cui non si può essere cittadini consapevoli e autonomi senza un’adeguata padronanza della lingua. di Francesco De Renzo

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ingua e cittadinanza formano un binomio inscindibile. Il possesso di adeguate conoscenze linguistiche costituisce infatti un requisito indispensabile, senza il quale non è possibile diventare un cittadino consapevole e autonomo. La conoscenza della lingua è difatti alla base per l’esercizio... di una cittadinanza che prevede crescita culturale e partecipazione alla vita economica, sociale e democratica del Paese. Ciò vuol dire che una efficace educazione linguistica deve lavorare nella direzione di rafforzare gli usi scritti e parlati, produttivi e ricettivi della lingua, attraverso un ampliamento progressivo del lessico e l’acquisizione di capacità espressive funzionali a una sempre più estesa varietà di tipi di testo e di contesto. Ma soprattutto occorre che la Il concetto di scuola garantisca il raggiungicittadinanza è mento di adeguate competenze collegato alla linguistiche a tutti i cittadini, possibilità di quale che sia la loro provenienza linguistica o la loro condizione partecipazione attiva socio-culturale. In questo senso alla vita sociale. esiste in Italia una tradizione di riflessione educativa, espressa nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica, manifesto fondativo del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, www.giscel. it), che insistevano già nel 1975 sul valore della diversità culturale e sulla necessità di un’educazione linguistica e democratica che mettesse in atto il principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono

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il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

La centralità della cittadinanza —

Nel testo si parla di «cittadini», ma ciò non deve essere inteso come una limitazione dell’intervento dello Stato in relazione al possesso o meno della cittadinanza italiana, bensì come l’estensione di tali interventi anche a tutti gli immigrati.In effetti, negli ultimi tempi è cambiato il concetto di cittadinanza: non è più vincolato alla nazionalità ma è direttamente collegato alla possibilità di partecipazione attiva alla vita sociale e culturale.Al nuovo concetto di cittadinanza si associano valori che comprendono la democrazia, la dignità umana, la libertà, il rispetto dei diritti umani, la tolleranza, l’uguaglianza. E ancora, il rispetto della legge, la giustizia sociale, la solidarietà, la responsabilità, la lealtà, la cooperazione, la partecipazione,passando per lo sviluppo culturale. In questi termini, i diritti di cittadinanza tendono anche a ricondursi direttamente alla nozione stessa di diritti umani, nel senso di cittadinanza attiva a tutti i livelli, proprio come veniva già proposto nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 e poi ribadito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Del resto, proprio la consapevolezza dell’articolato mosaico multiculturale e plurilingue di molte nazioni europee – dove coesistono prime, seconde e terze generazioni di immigrati – ha contribuito positivamente all’elaborazione dei “diritti di cittadinanza”, intesi ormai come diritti che riguardano tutti, senza distinzione di nazionalità. Questi temi sono parte ineludibile del dibattito attuale sulle politiche educative cosiddet-

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← N. Rockwell, I nuovi ragazzi del quartiere, olio su tela, 1967.

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lingua. È necessario, pertanto, che l’apprendimento della lingua italiana avvenga sempre a partire dalle competenze linguistiche e comunicative che gli alunni hanno già maturato nell’idioma nativo» [corsivo dell’autore]. Già nelle Dieci tesi si evidenziava il valore del plurilinguismo e il ruolo della lingua materna per ciascun individuo. Ora, però, la situazione sociolinguistica e scolastica italiana è profondamente cambiata: in media in oltre tre classi su quattro ci sono alunni stranieri; negli ultimi dodici anni gli alunni Sarebbe davvero con cittadinanza non italiana sono aumentati di oltre 710 000 importante se unità e si è passati dai 119 679 finalmente si riuscisse del 1999/2000 agli 830 000 del a partire dall’idioma 2013/14,pari al 10% del totale delnativo per insegnare la la popolazione scolastica (circa lingua italiana. metà di seconda generazione). Sono alunni provenienti da più di 200 nazionalità diverse e con una estrema varietà linguistica. Sarebbe davvero importante se finalmente si riuscisse a partire dall’idioma nativo per insegnare la lingua italiana. In effetti, varie ricerche e documenti internazionali dimostrano che la presenza nell’insegnamento della lingua materna, anche per alunni di seconda o terza generazione, costituisce un fattore importante per il successo scolastico e per un’integrazione reale senza fratture familiari, sociali, generazionali.

Saperi / Educazione linguistica e cittadinanza

te di inclusione, tendenti a rendere parte attiva e consapevole tutti i componenti della società, in primo luogo quelli più a rischio di esclusione,come appunto gli immigrati e i figli di immigrati. Questa prospettiva è evidente all’interno della scuola, che, come recita l’articolo 34 della Costituzione, «è aperta a tutti» e le finalità che persegue devono essere di carattere generale, perciò devono garantire a tutti gli alunni gli stessi “diritti di cittadinanza”.In questo senso la nozione di cittadinanza, già presente nelle Indicazioni del 2007, assume un’indiscutibile centralità educativa nelle Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, in vigore dal 2013. In questo testo, oltre che nei princìpi fondativi e nelle finalità educative, il riferimento alla cittadinanza è presente in tutti gli ordini di scuola (infanzia, primaria, secondaria di primo grado) e in tutte le discipline di apprendimento. Ma è in primo luogo attraverso l’educazione linguistica che si sviluppano le competenze necessarie «per l’esercizio pieno della cittadinanza», come del resto è affermato con chiarezza nelle Indicazioni nazionali: «Lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio». E tale sviluppo deve tenere conto della diversità linguistica e culturale di cui è portatore ciascun alunno: «Nel nostro Paese, l’apprendimento della lingua avviene oggi in uno spazio antropologico caratterizzato da un varietà di elementi: la persistenza, anche se quanto mai ineguale e diversificata, della dialettofonia; la ricchezza e varietà delle lingue minoritarie; la compresenza di più lingue di tutto il mondo. Tutto questo comporta che nell’esperienza di molti studenti l’italiano rappresenta una seconda

Francesco De Renzo è ricercatore di Didattica delle lingue moderne presso il Dipartimento Iso dell’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di educazione linguistica, formazione degli insegnanti, insegnamento dell’italiano come L2, integrazione interculturale, plurilinguismo e minoranze linguistiche, semplificazione dei linguaggi specialistici, orientamento scolastico e per l’università.

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Educazione alla legalità. I minori del penale Il direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile offre una panoramica sui minori nel penale: qual è lo scenario, chi sono gli attori, quali i mali della società e in cosa consiste il modello riparativo. 16 Saperi / Educazione alla legalità. I minori del penale

di Serenella Pesarin

D: Di che cosa si occupa il Dipartimento di Giustizia Minorile, e qual è la filosofia che sta alla base del lavoro che vi si svolge? R: Il Dipartimento, uno dei quattro Dipartimenti del Ministero della Giustizia, assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile, garantendo la certezza della pena, la tutela dei diritti soggettivi,la promozione dei processi evolutivi adolescenziali in atto e perseguendo la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori entrati nel circuito penale. Si occupa della tutela dei diritti dei L’istruzione, insieme minori e dei giovani-adulti, dai alla formazione 14 ai 21 anni, sottoposti a misuprofessionale e il re penali, mediante interventi lavoro, è uno degli di tipo preventivo, educativo e strumenti principali del di reinserimento sociale. Altra finalità è quella di attivare protrattamento, sia per il grammi educativi, di studio e suo valore intrinseco, di formazione-lavoro, di tempo sia in quanto mezzo di libero e di animazione, per asespressione. sicurare una effettiva integrazione con la comunità esterna. L’istruzione, insieme alla formazione professionale e il lavoro, è uno degli strumenti principali del trattamento sia per il suo valore intrinseco, sia in quanto mezzo di espressione e realizzazione delle singole capacità e potenzialità.

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D: Come si declina la punibilità di un quattordicenne? Lei ha affermato che «non si può buttare la chiave» se un giovane sbaglia. R: Il termine punibilità richiama alla mente il cosiddetto modello retributivo vigente in Italia dal 1934 (anno del Regio Decreto 1404 Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni) al 1956 (anno della Legge 888 Modificazioni al Regio Decreto 1404/34) quando l’intento della società si

risolveva in una mera punizione del reo caratterizzata dal controllo, dalla cura e dalla correzione e la responsabilità del minore veniva valutata ai fini di un’equa commisurazione della pena. Si è poi passati al cosiddetto modello rieducativo centrato sulla rieducazione del reo e sull’adeguamento del suo comportamento attraverso l’assistenza, l’osservazione della personalità e interventi mirati a sopperire alle carenze affettive o di socializzazione, “in uso” dal 1956 sino all’emanazione del DPR 448/88 che istituisce il processo penale per i minorenni. Oggi, invece, la Giustizia minorile opera nel campo del cosiddetto modello riparativo e l’intervento non si connota più dal solo punto di vista sanzionatorio-trattamentale, ma è diventato un approccio di riconciliazione con il contesto,un’azione riparativa e di responsabilità, dove una nuova concezione della sanzione penale, pur mantenendo intatti gli aspetti di rinvio alla responsabilità personale, rimanda a una responsabilità condivisa, puntando sulla presa di coscienza dell’autore di reato, sull’attivazione delle risorse del territorio e sulla revisione critica di ciò che si è soliti definire comportamento improprio fino al risanamento dell’equilibrio rottosi tra l’autore del reato e la vittima. Altra cosa è l’imputabilità, intorno alla quale è costituito il sistema penale minorile italiano: per poter procedere penalmente nei confronti di un minore è necessario che questi sia imputabile, ossia capace di intendere e di volere. Gli artt. 97 e 98 del Codice penale prevedono rispettivamente che «non è imputabile chi,nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni» e che «è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma non ancora diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere». Tale capacità deve essere sempre accertata dal giudice, a differenza dei maggiorenni per i quali invece la capacità di intendere e volere è presunta.

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Affermare che se un giovane sbaglia «non si può buttare la chiave» fa riferimento innanzitutto alla differenziazione totale degli interventi del sistema italiano di Giustizia minorile da quella adulta: la filosofia del legislatore fa sì che il ricorso all’istituzione carceraria sia residuale, cioè l’ultimo approdo, se tutti gli altri interventi posti in essere falliscono o se i reati commessi sono di estrema gravità. È il cosiddetto principio della minima offensività, per scongiurare, altresì, il sovraffollamento carcerario, al quale si affiancano una serie di misure e istituti giuridici previsti dal DPR 448/88 quali le prescrizioni (art. 20), la permanenza in casa (art. 21), il collocamento in comunità (art. 22), l’irrilevanza del fatto (art. 27), la messa alla prova (art. 28), le sanzioni sostitutive alla detenzione (art. 30), le misure di sicurezza (art. 36), gli interventi di mediazione penale.

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R: I ragazzi minori del penale sono oltre 20 000, dato che non tiene conto di una devianza minorile sommersa. A questo dato quantitativo occorre affiancare il dato qualitativo dell’utenza penale minorile, un crogiuolo che investe l’universalità del disagio: tossicodipendenti, border-line dediti al policonsumo di sostanze, manovalanza a uso della criminalità organizzata, stranieri privi di riferimenti familiari spesso non accompagnati, soggetti con problematiche psicopatologiche che richiedono interventi specialistici in stretta connessione con la competenza clinica, minori abusanti, baby gang; ultradiciottenni la cui maggior parte è costituita da soggetti in espiazione di pena per reati commessi da minorenni. Oggi abbiamo nuovi soggetti, nuovi attori: da due anni a questa parte, il trend minorile in aumento è degli italiani che non appartengono a famiglie disgregate e non degli stranieri. Le nuove baby gang sono i figli delle cosiddette famiglie “normali”. L’evento reato non è l’esercizio di un’azione predatoria, ma nasconde l’esigenza di protagonismo di giovani soli, non ascoltati da nessuno, con un bisogno sfrenato di accompagnamento sul piano educativo e affettivo, perché sul piano cognitivo i ragazzi di oggi sono stati già stimolati, sono bravissimi, eccezionali in tutto, anche nel cyber-bullismo. L’importante è essere famosi, essere all’altezza della situazione, avere successo, riconoscimento, protagonismo. Il problema veramente serio è quello di uno scenario depressivo e inquieto che attraversa la società contemporanea in maniera trasversale, e non riguarda solo gli universi giovanili ma anche gli adulti, affetti da un paternalismo in incremento, dalla voglia di scimmiottare e di essere amici dei propri figli, con la differenza che gli amici si scelgono, mentre i genitori si trovano. Una caduta

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di valori e di perdita di autorità di riferimento, di chi non riesce a trasmettere il sogno di una costruzione futura: e senza sogno non c’è educazione, senza educazione non ci sono più limiti. D: Che cos’è l’articolo 28, cioè l’istituto della messa alla prova? R: È un istituto giuridico di consolidata esperienza ri-educativa, con un trend esponenziale che va dai 788 casi del 1992 ai 3.368 del 2012, in nome del quale il giudice può disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore ai tre anni, quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne in esito alla realizzazione di un progetto di intervento elaborato dai Servizi Minorili della Giustizia. Il progetto deve prevedere le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente sociale. Gli impegni assunti dal minore,la riparazione delle conseguenze del reato e la conciliazione con la persona offesa comportano l’estinzione del reato in caso di esito positivo del periodo di messa alla prova.

↑ Sette ragazzi usciti dal carcere minorile Beccaria, seguiti dalla comunità di recupero Kayros, hanno lanciato la nuova collezione di una maison online di abbigliamento maschile, chiamata Non esistono ragazzi cattivi dal titolo del libro di don Claudio Burgio, il cappellano del carcere. (Credit: www.milano. repubblica.it).

Saperi / Educazione alla legalità. I minori del penale

D: Chi sono i ragazzi minori del penale?

D: Qual è la corresponsabilità della scuola, delle politiche sociali, della famiglia? R: La riforma del Titolo V della Costituzione e delle recenti normative, non ultima la L. 328/2000, hanno ridisegnato il sistema istituzionale, riconoscendo un nuovo ruolo agli Enti locali e territoriali, incentrato sull’operatività interistituzionale e rispondente a una cultura del dialogo e della collaborazione sinergica. I giovani che entrano nel circuito penale sono certamente degli orfani del territorio: non servono le facili scorciatoie di

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Il sistema Giustizia Minorile in Italia, nell’ottica di tutela dei diritti soggettivi, dell’abbattimento delle condotte recidive e dell’effettivo reinserimento del minorenne autore di reato, esercita un’attenzione crescente di contestualizzazione degli interventi sul territorio di riferimento degli utenti, nel delicato percorso di maturazione in cui gli stessi possono esperire una cittadinanza attiva e un’identità socialmente responsabile. D: Lei parla spesso di nuove povertà culturali e educative. In che cosa consistono, a che cosa conducono?

Saperi / Educazione alla legalità. I minori del penale

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↑ Foto realizzate per SelectBox/ Claudio Burgio, Non esistono ragazzi cattivi, edizioni Paoline. (Credit: www.milano. repubblica.it).

individuazione di colpevoli, ora la famiglia, ora la scuola, ora il Comune, ora la parrocchia. Serve una diversa sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale, che realizzi una qualità della vita capace di includere tutti nei propri processi di crescita e di benessere. Da qui la governance dei processi di cambiamento, la cooperazione tra servizi, la significatività delle relazioni interpersonali, l’efficacia della comunicazione sociale, il lavoro di squadra nazionale e internazionale, la sussidiarietà e la solidarietà praticate come stile di comportamento individuale e collettivo.

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D: In un’intervista Lei ha dichiarato che «la pena deve sempre tendere alla rieducazione, a dare opportunità di riflettere, per capire se si vuole scommettere verso la cittadinanza attiva, o ricadere nell’esclusione sociale, nel silenzio e nella paura»: che cosa è la cittadinanza attiva, come la si coltiva, come la si fa scoprire? R: Tutti i soggetti hanno una parte di responsabilità. Il compimento di un reato è il fallimento del sistema società ed è per questo che lo Stato si impegna nella rieducazione come sancito dall’art. 27 della Costituzione: «le Alle nuove baby pene hanno il compito di riedugang appartengono i care».Le istituzioni sono al servifigli delle cosiddette zio del cittadino, ma il cittadino deve acquisire questa consapefamiglie “normali”. volezza e imparare a usufruire dei Servizi, delle consulenze, dell’assistenza che le istituzioni offrono.Essere parte attiva per la crescita della società è un diritto che contribuisce a rafforzare la nostra identità, che ci fa sentire inclusi.

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Da diversi anni,la Giustizia minorile italiana opera sul riconoscimento e la valorizzazione del capitale umano dei giovani, la cui perdita o trascuratezza incide sulla ricchezza di una nazione. Tante sono le difficoltà di lavorare oggi col grande malessere dell’anima e la fragilità emozionale degli universi giovanili, spesso accompagnati da adulti non più portatori di coerenti pratiche educative. Il modello d’intervento della giustizia minorile italiana è centrato non solo sulla responsabilità esclusiva dell’individuo, ma anche sul contesto, sul mondo adulto e sulla società tutta. Difficoltà e inquietudine rappresentano le nuove povertà culturali e educative dei nostri giovani: le politiche di approccio al fenomeno devono essere altre, rispetto a quei casi che rappresentano il malessere, senza ricorrere alle consuete etichette di prevenzione primaria o a politiche centrate sulla cura e sulla classificazione dei problemi. È molto facile essere quelli “con le sbarre e con le mura”, perché è facile rinchiudere i ragazzi, magari buttando anche la chiave, pensando così di aver risolto il problema: teniamo presente che se i ragazzi sono finiti lì dentro è perché qualcosa non ha funzionato prima. I ragazzi nascondono linguaggi di decodificazione, di ricerca disperata di ascolto e di vedersi riconosciuti per quello che sono, e non per come gli altri vorrebbero che tu fossero. D: Il lavoro del vostro dipartimento vede la sanzione come secondaria rispetto alla costruzione di identità, e il carcere come assolutamente residuale. Quali progetti stanno dando buoni risultati? R: Contenimento e sviluppo sono le parole chiave della mission istituzionale della Giustizia minorile. Voglio dire che la sanzione è il primo gradino da cui parte l’opera di ricostruzione di un giovane deviante, altrimenti dovremmo parlare di giovani disagiati e di competenze che esulano dalla Giustizia minorile. I progetti cardine su cui si centrano sempre più gli interventi riguardano l’istruzione scolastica, la formazione professionale, il lavoro e l’apprendistato, attraverso un raccordo sinergico

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D: La scuola è «palestra di relazioni con l’altro»: come lavorate con le scuole? R: La scuola è parte integrante del percorso rieducativo dei minori di area penale che non possono e non devono sottrarsi né all’obbligo scolastico fino ai 16 anni, né all’obbligo formativo fino ai 18 anni. L’attenzione primaria dei Servizi minorili è quella di sostenere e/o recuperare il diritto allo studio dei minori, in ordine ai percorsi scolastici, ai corsi di alfabetizzazione e di lingue da attuare presso i Centri Territoriali Permanenti, con misure non restrittive della libertà personale per l’utenza penale minorile.A ciò si affianca l’offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale, per favorire la fruibilità delle attività formative, con la ri-progettazione dei percorsi in una logica di flessibilità e modularità degli apprendimenti, in

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relazione ai tempi di permanenza,ai titoli di studio e al recupero delle competenze di base richieste. Sono oggetto di considerazione anche i diversi livelli di preparazione degli adolescenti, la possibile disaffezione verso situazioni formative strutturate e continuative o causata da insuccessi scolastici ripetuti o da storie personali di trasgressione e rifiuto di regole. Per l’area penale esterna si rendono necessari percorsi didattico/formativo modulari, brevi e formalmente certificabili,in continuità con quelli effettuati nell’intra-murario, al fine di non disperdere risorse investite e bagaglio conoscitivo maturati, con incremento della motivazione e del grado di autostima dell’apprendente. D: Che cos’è un accompagnamento educativo? Come entrano nel percorso due parole che consideriamo essenziali: speranza e costruzione? R: Gli adolescenti sono le fasce più a rischio nei momenti delle grandi mutazioni storiche o di trasformazione economica. C’è chi sostiene che questi giovani hanno bisogni diversi rispetto al passato. Non è vero. Oggi come nel passato i ragazzi hanno bisogno di amore, di ascolto, di accoglienza e di accompagnamento; ciò che cambia sono le modalità con cui questi bisogni si manifestano. La soDifficoltà e litudine è l’aspetto che spicca inquietudine maggiormente nelle interviste rappresentano le nuove ai giovani: non si tratta di una povertà culturali e scelta, credo invece si tratti di una condizione determinaeducative dei nostri ta dalla società moderna che, giovani. paradossalmente, pur essendo mediatica ed iper-comunicativa, è al contempo de-socializzante. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: incremento di suicidi, bulimia e anoressia, alcool e droga, non ultimi il drammatico fenomeno dei minori abusanti e dei tanti giovani affetti da problematiche psico-patologiche. Il vero problema sta nell’incomunicabilità, nell’assenza di aspettative tra i giovani e nell’assenza di spazi per dare forma compiuta ai sentimenti. I giovani di oggi, così come quelli di una volta, cercano un protagonismo attivo, libero, responsabile. Bisogna creare, possibilmente insieme ai giovani, contesti e occasioni in cui i giovani possano mettersi alla prova, confrontarsi e crescere.

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con le istituzioni preposte, al fine di prevedere una diversificazione dell’offerta formativa e un collegamento strutturato per garantire il diritto-dovere all’istruzione e la continuità didattica tra area penale esterna ed interna, tra settore minorile e settore adulti, oltre che nell’attuazione delle diverse misure penali. Strategica è la collaborazione con i CPIA, Centri Provinciali Istruzione degli Adulti (ex Eda), destinati anche agli stranieri, nonché a coloro che abbiano compiuto il 16° anno di età, in possesso del titolo di studio conclusivo del 1° ciclo di istruzione e non possano frequentare il corso diurno.L’assetto didattico e organizzativo presenta percorsi di istruzione personalizzati e progettati per unità di apprendimento,riferimento anche per il riconoscimento dei crediti. Importanti, altresì, le opportunità formative e di reintegrazione nel tessuto sociale e produttivo attraverso tirocini di orientamento e professionalizzanti, che prevedono insegnamenti teorici e pratici, work-experience e borse lavoro, per l’acquisizione di competenze riconosciute e spendibili nel mercato del lavoro. Altra centratura che da anni si sta sperimentando è il trasferimento agli operatori dei Servizi della Giustizia Minorile e dei Servizi territoriali di strumenti e metodologie utili a rendere più efficace il lavoro con le famiglie, anche nell’ottica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’instaurarsi di una effettiva collaborazione tra famiglie e Servizi durante il periodo della presa in carico del minore da parte del Sistema della Giustizia Minorile. Le famiglie vivono l’ingresso del minore nel Sistema della Giustizia Minorile come forte evento traumatico, con reazioni che vanno dal disorientamento al sentimento di vera e propria espropriazione del proprio ruolo genitoriale (temporaneamente trasferito al Sistema della Giustizia) fino al manifestarsi di forme evidenti di disagio. Tali reazioni generano non di rado atteggiamenti di scarsa disponibilità alla collaborazione con i Servizi della Giustizia.

Serenella Pesarin è socio-psicologa specializzata in ambiti psicosocio-educativi e nei processi comunicativi. Insegna psicologia generale presso la LUMSA Libera Università Maria SS. Assunta di Roma. Dal dicembre 2004 è direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari presso il Dipartimento giustizia minorile del Ministero della giustizia.

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L’intervista al Sottosegretario MIUR Gabriele Toccafondi offre l’occasione per fare un bilancio sul passato e soprattutto sull’avvenire dell’insegnamento nella scuola italiana della disciplina un tempo denominata “Educazione civica” poi “Cittadindanza e Costituzione”. di Gabriele Toccafondi Intervista di Marco Ricucci

↑ Le prove, nel cortile del carcere, del film Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani, 2012. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

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D: Quando si parla di “educazione” dei giovani in Italia, si pensa immediatamente alla crisi dei valori che si è aggravata al punto di parlare di vera e propria emergenza educativa… R: Purtroppo sì, adesso stiamo vivendo un momento di emergenza educativa. La nostra società non riesce a educare l’uomo. Sviluppare nei ragazzi la coscienza, la responsabilità verso qualcosa di più grande (ideali, patria, valori, religiosità) che faccia anche cambiare, già da ora, il modo di vivere il quotidiano: è questo che la nostra società deve riconquistare. Ne abbiamo bisogno oggi, soprattutto in un momento di crisi in cui così tanti giovani né frequentano la scuola né cercano un lavoro, smarriti e senza prospettiva. Dobbiamo ridare loro la speranza di riconquistare il senso e il gusto della vita. Solo investendo tutto sui nostri ragazzi potremo dare un futuro al nostro Paese.Sta a noi renderli consapevoli della loro grandezza e del loro valore.

D: Oltre al comune sentire di genitori, docenti e di quanti operano o stanno a stretto contatto con i ragazzi, anche la scuola in quanto pilastro su cui si fonda lo Stato e la comunità nazionale è chiamata a fare la sua parte. Il ministro Gelmini introdusse una nuova materia, chiamata “Cittadinanza e Costituzione”, rinnovando la vecchia “Educazione civica” alla luce della società attuale. È possibile farne un bilancio? R: Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile per diverse ragioni, fra cui hanno particolare rilievo il processo di globalizzazione e i consistenti flussi migratori degli ultimi decenni. È significativo che sia stato lo stesso Presidente della Repubblica, in un suo messaggio, a chiedere che «la Carta costituzionale e le sue disposizioni vengano sistematicamente insegnate, studiate e analizza-

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D: Poi il Ministro Gelmini ha introdotto “Cittadinanza e Costituzione”, una versione aggiornata della vecchia educazione civica…

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R: Il disegno di legge del 1.8.2008, approvato dal Consiglio dei Ministri – e successivamente il decreto legge 1.9.2008 n. 137, convertito nella legge 30.10.2008,n.169 e le successive indicazioni emerse nel Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” (4 marzo 2009) – hanno introdotto l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, previsto per ogni ordine e grado di scuola (dall’infanzia alle superiori) collocandolo nell’ambito dell’area storico-geografica della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado; nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale della scuola secondaria di secondo grado, e del diritto ed economia, laddove queste discipline sono previste.

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D: Qual è il senso didattico di tale “materia” e quali sono le applicazioni concrete in cui infondere questo senso? R: Dalla istituzione di questa “materia”– come la chiama lei – sono state messe in campo dal MIUR una serie di iniziative (corsi di aggiornamento, siti web, bandi di concorso, valorizzazione delle esperienze in atto) in modo da rendere più sistematico questo insegnamento che, comunque, presenta non poche difficoltà nell’essere proposto, per la sua particolare natura. La particolare difficoltà, cioè, è che non si può semplicemente “insegnare” con le parole, ma occorre soprattutto la testimonianza del docente, per non cadere in un formalismo asettico e, ancor peggio, in un moralismo, tanto vuoto quanto distruttivo per i ragazzi. La società ha bisogno di giovani liberi, capaci di decidere e di assumersi le proprie responsabilità. Non si tratta perciò di introdurre temi particolari: anche se credo molto importante, anzi La società ha bisogno fondativo, lo studio della nostra di giovani liberi, Costituzione, perché i ragazzi capaci di decidere e di devono avere la possibilità, al di là dei tanti condizionamenti, di assumersi le proprie fare i conti direttamente con i responsabilità. princìpi che hanno incarnato tutta la nostra ricca tradizione. Si tratta piuttosto di uno sguardo diverso, una responsabilità – appunto – di fronte alla realtà, atteggiamento che i giovani imparano vedendo adulti impegnati in modo altrettanto serio e responsabile. Occorrono perciò dei maestri, che non significa assolutamente persone “senza macchia”: ciò che gli studenti chiedono agli adulti non è una coerenza morale, ma una coerenza ideale. Non è perché sbagliano che i ragazzi non riconoscono come autorevoli – tanto più in questo ambito – i loro educatori: tutti sbagliamo!

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te nelle scuole italiane, per offrire ai giovani un quadro di riferimento indispensabile a costruire il loro futuro di cittadini consapevoli dei propri diritti e doveri». L’articolo 1 della legge 169/2008 ha sostituito l’educazione civica con una nuova disciplina denominata “Cittadinanza e Costituzione”. In realtà, l’educazione civica aveva bisogno di uno svecchiamento: il suo iter è stato lungo e piuttosto tormentato. Il primo passo per l’introduzione dell’educazione civica è stato, a dieci anni dal varo della Costituzione repubblicana, il DPR 13.6.1958, n. 585 per la scuola secondaria di primo e secondo grado, dal titolo «Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica».È questa la dicitura che avrà maggiore successo nella scuola. Era prevista una dotazione di due ore mensili ma senza voto proprio. I primi cambiamenti iniziano negli anni Settanta, legati in particolare alla riforma della scuola media (DM 9.2.1979) e della scuola elementare (DPR 12.2.1985, n. 104). Nel primo si legge, per la prima volta, che l’educazione civica, «quale specifica materia d’insegnamento, esplicitamente prevista dal piano di studi, ha come oggetto di apprendimento le regole fondamentali della convivenza civile» ed ha il suo nucleo fondamentale nel «testo della Costituzione italiana, legge fondamentale dello Stato e sintetica espressione della nostra civile convivenza, che abbisogna di tutte le forze per la sua completa attuazione». La gestione veniva affidata al consiglio di classe che doveva anche preoccuparsi della sua programmazione. Nei programmi della scuola elementare del 1985 compariva l’“educazione alla convivenza democratica”, indicata come uno dei “princìpi e fini della scuola primaria”. Intanto però l’educazione civica soffriva, nelle scuole, per la sua non chiara collocazione, anche perché, attraverso circolari e decreti, ad essa erano state demandate tutte le emergenze via via affioranti: dal disagio giovanile alla droga, dall’alcolismo al tabagismo e così via. La legge 53/2003 ha segnato un altro passo importante, perché ha posto, tra i fini delle scuole di ogni ordine e grado, l’educazione ai princìpi fondamentali della convivenza civile, articolata in sei educazioni (cittadinanza, sicurezza stradale, ambiente, salute, alimentazione, affettività), mettendo così ordine alla varia decretazione che era intervenuta sulle singole tematiche. La “Convivenza civile” doveva coinvolgere tutti i docenti e tutte le discipline per una programmazione interdisciplinare.

D: Ricordo anche, da ultimo, che nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola

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al mondo della scuola. Il Senato della Repubblica svolge incontri periodici di studio e di formazione, denominati “Un giorno in Senato”, con le classi del terzo e del quarto anno delle scuole secondarie di secondo grado. Gli studenti entrano direttamente in contatto con il lavoro dell’Assemblea parlamentare di Palazzo Madama, mettendo a confronto, tra l’altro, le conoscenze acquisite nell’ambito dell’attività didattica con il concreto funzionamento delle predette istituzioni. Le giornate di studio sono connotate da una specifica attività di informazione/formazione per valorizzare il lavoro scolastico svolto e per integrarlo opportunamente con gli strumenti offerti dal Senato, in modo da favorire lo sviluppo di future attività di ricerca individuali e collettive.

↑ Le prove, nel cortile del carcere, del film Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani, 2012. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

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dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione”, c’è un paragrafo dedicato a Cittadinanza e Costituzione. R: Certo, si legge che «è compito peculiare di questo ciclo porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva, potenziando e ampliando gli apprendimenti promossi nella scuola dell’infanzia. L’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di se stessi, degli altri e dell’ambiente, e che favoriscano forme di cooperazione e di solidarietà. Questa fase del processo formativo è il terreno favorevole per lo sviluppo di un’adesione consapevole ai valori condivisi e di atteggiamenti cooperativi e collaborativi che costituiscono la condizione per praticare la convivenza civile…». Ma, come sa, la delega del primo ciclo di istruzione è del mio collega, il Sottosegretario Marco Rossi Doria… D: Da qualche anno il MIUR ha avviato nume rose iniziative per educare gli studenti italiani al senso civico, alla legalità, alla convivenza pacifica e – se mi è consentita l’espressione forse alquanto desueta – al senso dello Stato. Ad esempio, vi è uno specifico protocollo d’intesa tra Ministero dell’istruzione e il Parlamento della Repubblica. Per le scuole secondarie di secondo grado, vi è la possibi lità di assistere a una seduta del Senato con il programma “Un giorno in Senato - Incontri di studio e formazione”. Di cosa di tratta esattamente? R: Il progetto nasce da un protocollo d’intesa tra il MIUR e il Parlamento che si rinnova da alcuni anni per avvicinare le istituzioni parlamentari

D: E poiché in Italia vige il bicameralismo perfetto, anche alla Camera dei Deputati abbiamo la “Giornata di formazione a Montecitorio”. Di cosa si tratta? R: La Camera dei Deputati,dal canto suo,propone la “Giornata di formazione a Montecitorio”. In questo progetto sono coinvolti gli studenti, coordinati da uno o più docenti, delle classi, o gruppi interclasse, dell’ultimo biennio delle scuole secondarie di secondo grado che abbiano affrontato, nell’ambito di un progetto formativo, studi sul sistema istituzionale o approfondito temi collegati all’attualità politico-parlamentare, sviluppando un lavoro di ricerca da presentare sotto forma di tesina, dossier di documentazione o proposta di legge, accompagnata da una relazione introduttiva e suddivisa in articoli. D: È importante tenere viva la coscienza dei giovani e desta l’attenzione su ciò che è stato: la “Nave della legalità” è una entusiasmante iniziativa del MIUR per ricordare le due eroiche figure di Falcone e Borsellino. Qual è il dovere della scuola nella lotta alla mafia e in generale alla illegalità, specialmente nelle parti del Paese dove è più visibile l’azione della criminalità? R: Per un giovane adolescente assumere delle corrette norme di comportamento e riconoscersi in un sistema di regole può essere un percorso delicato e complesso, soprattutto se il contesto sociale e gli enti preposti alla formazione non si dimostrano in grado di proporre significati, valori positivi ed esempi credibili. Il 23 maggio è ormai diventata la data simbolo dell’impegno delle scuole nella diffusione della cultura della legalità e del contrasto ad ogni atteggiamento mafioso. Ma è un percorso che comincia da lontano. Educare alla legalità significa elaborare e diffondere un’autentica cultura dei valori civili. La scuola, luogo

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D: Tra le sue deleghe, c’è anche l’istruzione carceraria. A che punto siamo? Sono previste innovazioni? Anche in un luogo del genere il diritto all’istruzione deve vivere in qualche modo… R: L’istruzione carceraria è un aspetto molto importante e delicato all’interno del mondo della scuola. Per questo il MIUR e il Ministero della Giustizia hanno stipulato un accordo per valorizzare l’istruzione con l’obiettivo di favorire una vera rieducazione, l’attivazione dei processi di reinserimento del condannato nella vita sociale ed il recupero del rispetto dei valori fondamentali della convivenza civile. Si vuole garantire a tutti, minori e adulti, il diritto all’istruzione, alla formazione e ai percorsi di apprendistato e di formazione per il lavoro, con l’obiettivo di favorire e sostenere il successo formativo di ciascuno e di contrastare ogni forma di disagio e di discriminazione, in continuità con gli interventi pregressi in materia. Si vuole promuovere interventi di supporto alla convivenza civile e all’impegno giovanile al fine di favorire la costruzione dell’identità personale e la consapevolezza di essere titolari di diritti e di doveri in una comunità sociale e civile in cui il valore della solidarietà trova espressione anche nelle forme di contribuzione partecipata e volontaria. In questi mesi ho scelto di visitare alcune realtà carcerarie: queste esperienze mi hanno convinto, ancora di più, che chi vuole cambiare deve averne la possibilità. Dobbiamo assicurare, dentro il carcere, la possibilità di attivare percorsi formativi e lavorativi utili e concreti. Chi impara un mestiere durante la detenzione, raramente torna a delinquere, una volta tornato libero. L’istruzione nei penitenziari contribuisce ad abbattere la recidiva: c’è tanto da fare in questo campo, e il MIUR è in

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prima linea in questo percorso di riabilitazione per i singoli ma che ha ricadute importanti per l’intera società. Inoltre mi sono accorto di quanto sia fondamentale incentivare rapporti e legami tra le istituzioni carcerarie con il tessuto produttivo del territorio, per offrire la possibilità ai detenuti di imparare un mestiere sempre più richiesto, e facilitare il loro reinserimento nella società. D: Ha visto Cesare deve morire, il docu-fiction dei fratelli Taviani? R: Cesare deve morire mi ha emozionato per l’intensità con cui i protagonisti esprimono i loro vissuti, le emozioni, la loro umanità: attraverso il teatro e la recitazione, appropriandosi pian piano del personaggio e rivelando, attraverso di lui, molto di se stessi. I fratelli Taviani affrontano questo lavoro con la consapevolezza di chi sa che il teatro è uno strumento di rara efficacia per il reinserimento del detenuto, perché costringe la persona a fare i conti con se stessa.[…] Ogni detenuto “sente” e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo, così che ogni “attore” è allo stesso tempo se stesso e il personaggio che interpreta. Attraverso la recita essi rappresentano anche la propria vita,le proprie scelte,i propri errori. Nel film il presente, fatto di celle, cancelli, porte sbarrate, spioncini che fissano simmetricamente altri muri, altre porte, altri cancelli, si intreccia continuamente con il passato che li ha condotti lì e con un futuro che per qualcuno è tragicamente segnato dalla mancanza di una data di fine pena.«Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione» è una battuta del docu-fiction che esprime la potenza dell’arte e sulla sua capacità di incidere profondamente sulle persone, anche quelle culturalmente più deprivate. Sono parole che rimarranno per sempre impresse nella mia mente, sollecitandomi ad impegnarmi con tutte le mie forze a far entrare più cultura tra le sbarre. Un giorno, qualcuno che aveva vissuto l’esperienza del carcere e si era preso il diploma in condizione non certo agevole, mi ha detto una frase del Vangelo di Giovanni: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi». Confesso che rabbrividisco quando ci ripenso.

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privilegiato di cultura e formazione, si impegna a promuovere la cultura della legalità valorizzando la partecipazione consapevole dei ragazzi alla vita della comunità scolastica. Solo in un ambiente inclusivo e partecipato è infatti possibile lo sviluppo del senso critico e della capacità di riflessione, la cooperazione sociale costruttiva, l’integrazione e il senso di appartenenza ad una comunità. Attenzione però: il bagaglio culturale dei giovani è frutto dell’interazione tra apprendimenti formali e non formali, la cultura della cittadinanza e della legalità è il risultato delle esperienze e delle conoscenze acquisite anche fuori della scuola. Il ruolo della scuola, dunque, dovrà essere anche quello di cooperare con tutti i soggetti formatori e con la società civile: una scuola aperta al territorio e in grado di coglierne specificità e necessità. Il magistrato antimafia Antonino Caponnetto, sosteneva che «la mafia ha più paura della scuola che dei giudici perché prospera sull’ignoranza».

Gabriele Toccafondi è stato nominato sottosegretario di Stato del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel governo Letta e riconfermato nel governo Renzi.

Marco Ricucci è laureato in Lettere antiche presso l’Università di Milano e dottorando in Didattica delle lingue classiche presso l’Università di Udine.

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Per una pedagogia dell’identità sessuale

Saperi / Per una pedagogia dell’identità sessuale

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Riconoscimento, dialogo, accettazione dell’alterità e rifiuto dello stereotipo sono alla base di una pedagogia che educhi al rispetto delle diversità di genere: presentiamo il “Quaderno della Ricerca” Identità sessuale: un’assenza ingiustificata, di prossima pubblicazione, inteso a fornire una dotazione strumentale e cognitiva a chiunque si occupi di istruzione. di Federico Batini

È

in uscita nelle prossime settimane il Quaderno della Ricerca dedicato al tema dell’identità sessuale all’interno della scuola, o meglio ai problemi ingenerati dall’assenza di una qualsivoglia attenzione a questo tema. I dati di ricerca riportati nel quaderno, relativi all’incidenza del bullismo omofobico e al livello di preparazione e d’informazione di studenti e insegnanti delle scuole secondarie (ma anche in ambito universitario), lasciano purtroppo propendere per lo sconforto. Stereotipi e cattiva informazione la fanno da padrone, e un confronto con le scuole spagnole acuisce ulteriormente la preoccupazione, quando non è causa di vero allarme. Nel sistema d’istruzione italiano, come si è detto spesso, il corpo è completamente cancellato: si va a scuola, insomma, come se si fosse immateriali, Educare alla diversità con gravi conseguenze sull’apsignifica insegnare la prendimento, sulla significaticapacità di guardarsi vità dell’esperienza scolastica, negli altri come in uno sui livelli di frustrazione, sulle specchio complesso. capacità di gestione e controllo della propria fisicità, sul rispetto di ogni tipo di differenza. Ignorare e imbavagliare il corpo produce riemersioni dello stesso per vie sotterranee, ambigue, a volte violente, e produce stereotipi, disaffezioni, opposizioni, disagi di ogni tipo. Proponiamo in questa sede un’estrema sintesi di alcuni degli obiettivi che, nel quinto capitolo del “Quaderno” citato, verranno individuati come possibili direzioni per fondare una pedagogia dell’identità sessuale. In una società contemporanea evoluta la libertà si può declinare, assumendo un’ottica pedagogica, come l’opportunità offerta a ciascuno di perseguire

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i propri obiettivi di sviluppo ed empowerment nel rispetto degli altri. La traduzione di questa possibilità in opportunità reale passa attraverso la dotazione strumentale e cognitiva alla quale ogni sistema di istruzione dovrebbe provvedere.

L’insegnamento di Foucault —

Come ha ampiamente dimostrato Michel Foucault, i sistemi di controllo hanno trovato nel corpo e nei comportamenti sessuali delle persone aree sulle quali insistere con particolare pervicacia. La regolazione attraverso le forme del controllo medico, normativo, religioso (con i correlati dei comportamenti considerati devianti tradotti in: patologie, reati, peccati) ha interessato le società occidentali sino ai giorni nostri. Il principio della libertà di comportamento delle persone adulte,ove questa libertà non intacchi in alcun modo le libertà altrui, ha trovato sostanza in poche realtà statuali, che hanno così affermato la laicità dello Stato medesimo e la non pretesa di normare “eticamente” i comportamenti adeguati e quelli non adeguati. Educare alla diversità, forse, significa proprio questo: insegnare la capacità di guardarsi negli altri come in uno specchio complesso, per riconoscervi quanta sfumatura dell’altro/dell’altra ci sia dentro di noi; riconoscere quanto di differente, di fuori dalla norma, di non appartenente alla maggioranza sia in ciascuno di noi. Educare alla diversità significa ampliare il numero e il repertorio dei significati possibili, per poterli attribuire personalmente alle esperienze che viviamo e alle relazioni che intrecciamo, per non cadere nei significati proposti da etichette mediatiche, buone per ogni contesto e per molte situazioni, ma che non aggiungono vita all’esperienza. Educare alla diversità significa lasciare cittadinanza alle

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Tutte le attenzioni necessarie —

Ecco una sintesi delle attenzioni necessarie: • nei primissimi anni di scolarità favorire la frequentazione di piccole storie con protagonisti che affermano una differenza come valore; • utilizzare testi pensati proprio per spiegare le differenti composizioni possibili delle famiglie; • la necessità di includere, in modo reiterato e con variazioni relative all’età e al livello cognitivo dei ragazzi/e, narrazioni che affrontino lo stesso tema da più punti di vista, per favorire la comprensione di come lo “sguardo” di ciascuno di noi possa costituire, a volte, la causa di fraintendimenti e incomprensioni che non derivano, necessariamente, da cattiva volontà, ma da impossibilità di accedere ai significati dell’altro/a se non lavoriamo sulle nostre capacità empatiche; • la necessità di leggere ad alta voce testi appartenenti a più culture in aula, per il gusto e la funzione di confrontarsi sulle storie; • la necessità di confrontarsi con storie plurali in cui vi siano soggetti in formazione che giungono a esiti differenti circa la propria identità di genere, circa il proprio orientamento sessuale; • proporre modelli di ruolo che non siano solo maschili ed eterosessuali (evitare il fenomeno per cui nelle società occidentali il maschio caucasico eterosessuale viene utilizzato come fosse l’unico rappresentante possibile del genere umano); • recuperare porzioni del curricolo nascoste: se si affrontano le biografie dei personaggi che sono studiati ricordarsi che esiste un numero enorme di artisti, pensatori, condottieri, inventori eccetera omosessuali o transessuali; • prevedere nel corso dell’anno scolastico momenti di confronto su diverse tematiche relative ai vari tipi di differenza;

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emozioni, consentire che siano espresse, aiutare a rifletterci,a viverle e gestirle,nel rispetto degli altri, imparando a separare emozioni e comportamenti. Esperire la differenza attraverso l’incontro rimane il metodo migliore, il più dirompente, quello più entusiasmante, che fa traboccare di gioia per la scoperta vera che rappresentano gli altri. Volendo tuttavia sollecitare tutti coloro che si occupano, a vario titolo, di educazione, istruzione e formazione a trattare questi temi,bisogna anche ricordare cosa significa sperimentare direttamente la bellezza del cambiamento di opinione, il disvelamento di pregiudizi, il rapido prendere coscienza degli stereotipi che ci portiamo dietro: attraverso segmenti formativi e, perché no, anche attraverso alcune semplici attività e poche informazioni di prima alfabetizzazione. Nel nostro sistema di istruzione il controllo del corpo e dei comportamenti sessuali si è declinato nel silenzio e nella sistematica rimozione di ogni elemento che potesse mettere in discussione ciò che è implicitamente promosso (la coppia eterosessuale monogamica centrata sulla procreazione). Per contribuire alla costruzione di una scuola inclusiva,rispettosa delle differenze,capace di offrire a ciascuno strumenti e competenze adeguate alla gestione del proprio futuro in quanto cittadino/a e lavoratore/trice è necessario partire dalla scuola dell’infanzia, con l’esercizio di alcune attenzioni. Il riconoscimento della dignità di ogni persona e il suo diritto al rispetto degli altri, alla sospensione del giudizio (prima di conoscere e provare ad assumere il suo punto di vista), il diritto di ciascuno alla possibilità di costruirsi e di perseguire la propria piena realizzazione devono essere promossi attivamente attraverso inserti teorici, esperienze pratiche, riflessioni e confronti. Il riconoscimento del carattere mutevole di valori e significati, esplorando come alcune cose che riteniamo oggi assolutamente “normali” e quotidiane non lo fossero in altri tempi, o non lo siano in altri luoghi geografici, costituisce uno dei primi passi che si possono fare.

← Un caso di bullismo. (Credit: www.flickr.com/ photos/trixer).

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favorire già dalle scuole secondarie di primo grado l’attivazione dei ragazzi, perché anche sulla scorta di episodi di cronaca possano compiere azioni di ricerca, sondaggi di opinione, momenti di confronto con le opinioni di altri; • favorire la frequentazione di letture che “aprano” al possibile, alla seconda opportunità, alla costruzione e realizzazione di sé, al superamento delle difficoltà, alla resilienza; • educare alla differenza significa riconoscere le differenze di cui ciascuno è portatore e valorizzarle: discussioni, giochi, attività sul tema costituiscono Educare alla una componente ineliminabile differenza significa della formazione dei soggetti riconoscere le adolescenti (nel citato Quaderno in uscita troveranno posto differenze di cui esempi concreti di giochi ed atciascuno è portatore tività e un percorso narrativo e valorizzarle. completo con le istruzioni per il conduttore e le schede per gli alunni); • favorire incontri con persone che rappresentano le differenti posizioni sui diversi temi collegati all’identità sessuale (diritti civili, omogenitorialità, matrimonio civile, omofobia e normazione della stessa) e favorire un dibattito in cui i ragazzi, specie nella secondaria di secondo grado, prendano posizione dopo aver ricercato materiali, essersi confrontati con testimonianze dirette, aver effettuato ricerche, dopo aver letto testi o visto film; • favorire l’incontro con persone omosessuali e transessuali per ridurre i pregiudizi e gli stereotipi. Notevole è infatti il dato (confermato dalle ricerche) secondo il quale le persone

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eterosessuali che conoscono un gay hanno un atteggiamento di maggiore accettazione verso il gruppo omosessuale, e questo è vero anche in gruppi demografici dove sono più diffusi atteggiamenti negativi, ad esempio tra le persone altamente religiose o le persone poco istruite; inserire nel curricolo un’alfabetizzazione scientifica seria sui costituenti dell’identità sessuale; dare spazio al riconoscimento dei generi e al confronto sui comportamenti attesi in relazione al sesso biologico, in relazione all’orientamento sessuale, in relazione all’identità di genere; non favorire le semplificazioni e l’insorgenza di stereotipi, attraverso il confronto (pur accettando qualsiasi opinione e senza colpevolizzare chi la esprime) e l’approfondimento di ogni posizione; favorire i confronti anche in famiglia riguardo questi temi.

La formazione degli insegnanti —

Gli insegnanti si trovano spesso soli e impreparati ad affrontare problematiche relative al bullismo omofobico e alla discriminazione verso adolescenti gay, lesbiche e trans. Consapevoli dell’importanza del loro ruolo sociale come educatori e formatori anche su un piano umano,relazionale e di crescita personale, essi possono, con il loro esempio e attraverso la trasmissione di informazioni corrette,promuovere un atteggiamento aperto e stimolare riflessioni su questi argomenti, producendo un cambiamento significativo da un punto di vista sociale e culturale e affermando i valori di libertà,autodeterminazione, rispetto e integrazione delle diversità. La formazione degli insegnanti certamente è uno strumento di primaria importanza nella lotta alla discriminazione e nella prevenzione del bullismo omofobico. Non è pensabile affidare ogni situazione difficile all’intervento di esperti esterni: occorre che queste competenze entrino in possesso di chi insegna e di chi educa, perché la differenza trovi cittadinanza nella scuola. Federico Batini è ricercatore confermato all’Università di Perugia, dove insegna Pedagogia sperimentale e Metodologia della ricerca in educazione, dell’osservazione e della valutazione. Sul tema di quest’articolo ha pubblicato, tra l’altro: L’identità sessuale a scuola (a cura di F. Batini, B. Santoni, edizioni Liguori) e Comprendere la differenza (Armando editore), Di che sesso sei? (e-book e audiolibro, Php edizioni). In uscita per Loescher il “Quaderno della Ricerca” Identità sessuale: un’assenza ingiustificata. Ricerca, strumenti e informazioni per la prevenzione del bullismo omofobico a scuola.

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I QUADERNI

I Quaderni della ricerca sono agili monografie pensate come contributo autorevole al dibattito culturale e pedagogico italiano.

La coLLana I volumi già pubblicati: 01. Il curricolo verticale di lingua straniera a cura di Gisella Langé

02. Insegnare per competenze a cura di Federico Batini

03. Elementi generali di approfondimento sui BES nel contesto italiano a cura di Silvia Tabarelli, Francesco Pisanu

04. Buone prassi per la certificazione delle competenze in Piemonte al termine dell’obbligo di istruzione a cura di Valter Careglio

05. Imparare dalla lettura

a cura di Simone Giusti, Federico Batini

06. Per una letteratura delle competenze a cura di Natascia Tonelli

07. Fare scuola nella classe digitale - Tecnologie e didattica attiva fra teoria e pratiche d'uso innovative di Valeria Zagami

08. Identità sessuale: un’assenza ingiustificata di Federico Batini

In preparazione: Imparare per competenze – Principi, strategie, esperienze, di Benetti, Casellato 1954 – 2014: l’italiano tra scuola e televisione, di Donfrancesco, Patota La costruzione di materiali glottodidattici accessibili ad allievi con Disturbi Specifici dell’Apprendimento, di Daloiso Test Invalsi di italiano e matematica, di Stancanelli

Per ricevere copia dei Quaderni rivolgersi all’agente Loescher di zona,oppure scaricare i pdf dal sito

www.laricerca.loescher.it

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dossier

I diritti dei bambini presi sul serio

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Oggi le politiche di intervento in favore dell’infanzia sono caratterizzate da una visione non sempre lineare. Da una parte si segue la tradizione paternalista nel considerare il bambino come un mero oggetto di assistenza, perché senza diritti e spesso oppresso dagli adulti. Dall’altra, però, negli ultimi venti anni sono cresciute le tendenze a legittimare i minori come soggetti attivi, titolari di diritti e degni quindi di essere ascoltati. di Francesca Nicola

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a Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child, spesso abbreviata in CRC) è un documento molto importante. Lo è perché riconosce, per la prima volta espressamente, che anche i bambini, le bambine e gli adolescenti sono titolari di diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici. Entrata in vigore il 20 settembre 1975, essa esprime un largo accordo sugli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell’infanzia, codificando e sviluppando le norme internazionali applicabili ai bambini. Dal 1989 a oggi tutti i Paesi del mondo, tranne Stati Uniti e Somalia, si sono impegnati a rispettare e a far rispettare sul proprio territorio i princìpi generali e i diritti fondamentali in essa contenuti. L’Italia l’ha ratificata con la legge n. 176 del 27 maggio 1991. Si tratta di un fatto storico importante. I bambini, infatti, non sono sempre stati og-

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getto d’interesse specifico, e la promozione dei loro diritti è un fenomeno relativamente recente. Questione neppure contemplata, ad esempio, nella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo del 1789. La ragione di questa invisibilità è che i bambini sono stati a lungo considerati come una categoria residuale di persona, privi di diritti umani completi: una proprietà dei loro genitori, neanche particolarmente preziosa. Basti pensare ai commentari legali del 1758 di William Blackstone, giurista e accademico britannico, che non definivano la sottrazione di minori un furto in senso giuridico: il ladro era infatti condannabile, nel caso il bambino fosse vestito, solo per il furto degli indumenti. In ambito europeo, la prima nozione di ciò che oggi chiamiamo “diritti dei bambini” fu discussa e promossa nel corso del XIX secolo, ad esempio nelle riforme del lavoro minorile adottate da molti Paesi, che per diminuire l’analfabetismo dei

fanciulli lavoratori stabilivano l’età lavorativa minima e il numero massimo di ore giornaliere vietando l’impiego di minori

“Bisogna aspettare il ventesimo

secolo perché si inizi a identificare i bambini come soggetti di diritti, non oggetti di preoccupazione.

in fabbriche pericolose. Bisogna aspettare il XX secolo perché si inizi a identificare i bambini come soggetti di diritti, piuttosto che oggetti di preoccupazione. Questa innovazione è di solito associata al lavoro dell’attivista britannica Eglantyne Jebb. Dopo gli studi a Oxford, Jebb divenne dama della Croce Rossa durante il primo conflitto mondiale rimanendo molto colpita dalle sofferenze inflitte dal conflitto ai bambini. Il 19 maggio 1919 fondò a Londra, insieme alla sorella Dorothy, l’organizzazione Save the Children per la difesa e la promozione dei diritti dei bambini. È sua la Carta dei Diritti del Bambino del

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1923, il primo documento storico a tutela dell’infanzia, ripreso poi quasi senza modifiche dalla Società delle Nazioni, nel 1924, come Dichiarazione di Ginevra sui Diritti del Fanciullo, e infine adottato con alcune integrazioni e modifiche dalle Nazioni Unite nel 1959. A onore del vero i bambini erano già stati citati nel 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, che istituiva il principio del diritto di ingerenza negli affari di altri Stati sovrani per la tutela di alcuni diritti fondamentali dell’essere umano, fra i quali i diritti alla libertà individuale, alla vita, all’autodeterminazio-

“La Dichiarazione Universale dei

Diritti Umani dell’ONU afferma che tutti i bambini, anche se illegittimi, devono godere della stessa protezione sociale.

ne, a un giusto processo, a un’esistenza dignitosa e alla libertà. L’articolo 25, comma 2, affermava che «la maternità e i bambini

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hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini nati nel matrimonio o fuori da esso devono godere della stessa protezione sociale»: una preoccupazione basata sulla percezione dell’immaturità e quindi della vulnerabilità dei bambini, visti ancora come oggetti, piuttosto che come autonomi soggetti di diritti.

I bambini come titolari di diritti —

Solo a partire dal 1979, l’Anno Internazionale del Bambino indetto dalle Nazioni Unite, ha cominciato a svilupparsi nella coscienza della comunità internazionale una visione dei diritti dei bambini che va oltre la loro protezione, considerandoli quali soggetti attivi di diritti, compreso quello di autodeterminazione. Il cambiamento di rotta avvenne quando la Commissione dei Diritti Umani prese in considerazione la proposta avanzata l’anno precedente dal governo polacco di una Convenzione dei Diritti del Bambino

basata sul testo della Dichiarazione del 1959. Il fatto che la proposta venisse dalla Polonia, in un momento in cui la cortina di ferro ancora divideva l’Europa in due mondi, è spesso attribuito alla vita e all’opera di Janusz Korczak, pseudonimo di Henryk Goldszmit.Pedagogo,pubblicista,scrittore, medico e militante sociale, questo polacco di origine ebraica, noto anche come “Il vecchio Dottore” o “Il signor Dottore”, è stato il pioniere del benessere infantile e un precursore della lotta per il riconoscimento di una totale uguaglianza fra minori e adulti. Le sue idee pedagogiche erano sorprendentemente innovative: riteneva che il bambino debba stare in compagnia dei coetanei e non ritirato in casa; solo lontano dall’idillio o dal «quieto cantuccio domestico» si può verificare il confronto fra idee indispensabile per un corretto sviluppo. Il bambino, infatti, dovrebbe arrivare da solo a comprendere e sperimentare emotivamente le varie situa-

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↑ L. Wickes Hine, una piccola filatrice nella fabbrica tessile Mollohan Mills, Newberry, Carolina del sud, 3 dicembre 1908. (Credit: David Shapinsky, Wikimedia Creative Commons).

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zioni, traendone conclusioni ed eventualmente trovandovi rimedio, invece di venir semplicemente informato dall’educatore su una serie di fatti. Lo stesso principio educativo animava sia il suo modo di confrontarsi con i piccoli, improntato a un dibattito aperto

“Nell’orfanotrofio fondato da

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Janusz Korczak gli educandi avevano il diritto di deferire gli educatori a un tribunale composto unicamente da ragazzi.

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e franco, sia le modalità organizzative delle istituzioni da lui fondate. Fondò la prima rivista al mondo redatta solo da bambini e nell’orfanotrofio di cui era direttore introdusse l’autogestione, dando agli educandi il diritto di deferire gli educatori a un tribunale composto unicamente da ragazzi.

Il Padre della Convenzione —

La Polonia può rivendicare un altro eroe dei diritti dei bambini: il professor Adam Lopatka (1928-2003), a volte indicato come il “Padre della Convenzione” essendo stato il presidente del Gruppo di Lavoro della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Riunitosi ogni anno a Ginevra tra il 1979 e il 1988, il gruppo è stato l’artefice del faticoso processo di trasformazione del documento nella versione finale di 54 articoli,adottata nel novembre 1989. Il fatto che il processo di elaborazione sia durato quasi un decennio è dovuto alle differenze tra gli Stati nel modo di intendere i bambini dal punto di vista sociale, giuridico e culturale. Il paragrafo sui bambini nati fuori dal matrimonio, ad esempio, è stato oggetto di grandi dibattiti a causa della diversità fra le leggi sul matrimonio presenti nei vari Stati. Anche gli articoli sull’adozione e sull’affido hanno sollevato prospettive completa-

mente diverse su questi temi, in particolare fra Paesi islamici e cristiani. Alcuni diritti, del resto, come la protezione contro lo sfruttamento sessuale, non avrebbero mai fatto parte della Convenzione se il gruppo di lavoro non avesse cercato costantemente una forma di intesa. Nonostante i suoi limiti, la Convenzione ha un carattere fortemente innovativo. Specifica,ad esempio,il diritto dei bambini ad essere consultati quando gli adulti prendono decisioni che li riguardano (articolo 12), il diritto di esprimere le proprie opinioni (articolo 13) e di aderire o formare associazioni per rappresentare i propri interessi (articolo 15). Sembrerebbero buoni propositi di difficile realizzazione. Eppure la storia mostra che i bambini hanno spesso voluto affermare le loro opinioni Nel 1212 la crociata indetta dai bambini mobilitò migliaia di ragazzini dagli otto anni in su, partiti dalla Francia e dalla Germania per riconquistare la Terra Santa in nome del Cristianesimo. Non erano guidati da adulti, ma da ragazzi: dal francese Stefano di Cloyes e dal tedesco Nicholas, entrambi di 12 anni. È però nelle scuole che si è concentrata la maggior parte delle azioni politiche dei bambini, almeno in Europa. Nel 1669 un ragazzo probabilmente vicino ai Levellers, un gruppo politico favorevole alle idee di uguaglianza sociale, presentò al Parlamento inglese una petizione per migliorare la disciplina a scuola. Non mancano nemmeno esempi di organizzazioni infantili al di fuori delle istituzioni. Nel 1899 a New York i ragazzi che vendevano i giornali organizzarono un sindacato per lottare contro i tagli salariali imposti dagli editori. E sempre negli Stati Uniti, nel 1902, i bambini scioperarono insieme agli adulti per attirare l’attenzione sul lavoro minorile nelle miniere.

Più recentemente, negli anni Sessanta e Settanta, bambini e ragazzi ghanesi hanno intrapreso azioni di lotta nei confronti dei datori di lavoro agricoli.

La storia fatta dai ragazzi —

Nonostante questi e tanti altri episodi, l’affermazione indipendente da parte dei bambini delle loro opinioni e dei loro diritti non è solo frequentemente banalizzata dagli adulti; a volte è anche violentemente soppressa. Gli esempi abbondano nei Paesi del Sud del mondo, dove la divisione tra adulto e bambino è spesso più sfocata che nel resto del pianeta. I ragazzi erano in prima linea nella lotta contro l’apartheid in Sud Africa e nell’intifada in Palestina. Hanno affrontato morte, ferite e prigionia insieme agli adulti, spesso dando inizio all’azione politica. Eppure nei processi di pace che hanno seguito queste battaglie il loro contributo è stato quasi sempre sottovalutato. Gli adulti non considerano gli ex combattenti bambini come eroi; preferiscono patologizzarli come vittime traumatizzate destinate a contribuire in negativo alla società che, invece, hanno contribuito a realizzare. Autorizzati a fare la storia, sono poi stati di fatto esclusi dalla possibilità di fare politica. La storia dei diritti dei bambini continua a essere quella delle azioni degli adulti in loro favore. E sarà così fino a quando gli adulti riusciranno a prendere seriamente in considerazione quanto stabilito dagli articoli 12, 13 e 15 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, invitando i più piccoli ai tavoli in cui vengono decise e valutate le politiche mondiali, infantili e non.

Francesca Nicola è dottoranda in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

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Ripensare i bambini come agenti attivi

di Esther Goh

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e pratiche dei servizi sociali per l’infanzia variano a seconda della natura del problema di cui si fanno carico e dei contesti socio-culturali e politici in cui vivono i bambini.Tuttavia, a prescindere dal contenuto, dai contesti e dalle metodologie di intervento, sono regolate da

valori professionali e da precisi codici etici. Un’analisi delle associazioni professionali dei servizi sociali in venti Paesi ha rivelato l’alta omogeneità di tali princìpi. Secondo la Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali (IFSW), la più grande organizzazione del settore comprenden-

te operatori sociali provenienti da novanta nazioni in tutto il mondo, il principale obiettivo di queste istituzioni è responsabilizzare le persone e aiutarle a migliorare la loro condizione di vita,il che spesso richiede azioni di giustizia sociale e per il rispetto dei diritti umani fondamentali. Allo stesso modo, l’Associa-

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Gli operatori dei servizi sociali devono superare il modello paternalistico. I bambini vanno considerati soggetti attivi da numerosi punti di vista: sono capaci di auto-determinarsi, di interpretare informazioni, di costruire attivamente significati e di influire in modo strategico sull’ambiente circostante per ottenere determinati obiettivi.

→ Due bambine al corteo dei lavoratori di New York del 1° maggio 1909. Sui cartelli, in inglese e yiddish, è scritto “Abolish Ch[ild] Slavery”, ossia “Abolire la schiavitù dei bambini”, cioè il lavoro infantile. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

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Dossier / Ripensare i bambini come agenti attivi

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zione Nazionale degli Assistenti Sociali degli Stati Uniti ritiene il mantenimento della giustizia sociale il fondamento della professione,e la difesa dei più deboli la pietra angolare su cui poggia il lavoro dei servizi sociali. Nel quadro di programmi tanto eticamente caratterizzati non sorprende che tutti gli interventi di assistenza sociale dell’infanzia si basino su uno di questi tre modelli: quello del “salvataggio” dei bambini, quello dei servizi sociali o quello medico. Si tratta di orientamenti che danno forma a servizi importanti e necessari per migliorare il benessere dei bambini nella nostra società. Tuttavia, il modo in cui gli utenti, cioè i bambini, sono concepiti in questi programmi deve essere ripensato. Animati dal desiderio di proteggerli e sostenerli, gli assistenti sociali possono involontariamente

Tutti gli interventi di assistenza sociale dell’infanzia si basano su uno di questi tre modelli: quello del “salvataggio” dei bambini, quello dei servizi sociali o quello medico.

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renderli vittime e destinatari passivi di aiuto.È innegabile che in alcune situazioni i bambini soffrano per mano di adulti e a causa di un ambiente ingiusto. Logico quindi che necessitino di protezione, ma il concetto di “vittime indifese” riflette una visione parziale e grossolana della loro situazione.

I bambini come vittime —

I modelli dei programmi dei servizi sociali per l’infanzia sono spesso stati criticati per l’incapacità di riconoscere che i bambini sono capaci di fornire un prezioso contributo alla propria protezione e alla società in ge-

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nerale. In realtà, diversi esempi antropologici suggeriscono che la maggior parte dei piccoli in tutto il mondo assume ruoli “da adulto” importanti per il mantenimento della famiglia e che l’adempimento di questi compiti fornisce loro un senso di appartenenza, le competenze e l’opportunità di partecipare alla vita familiare e comunitaria. Le più recenti ricerche sociologiche e antropologiche sullo sviluppo infantile dimostrano che i bambini sono molto più capaci di quanto pensiamo. Il lavoro minorile, ad esempio, sia esso classificato o meno come pericoloso, è malvisto dalle società ricche, che lo considerano dannoso per lo sviluppo infantile. Ma alcuni studiosi sostengono che l’enfasi sull’innocenza perduta e sull’infanzia rubata tendono a sentimentalizzare la questione, riflettendo più i valori personali dei ricercatori adulti che l’esperienza dei bambini. Non pochi di questi, infatti, considerano il lavoro come un veicolo per l’auto-realizzazione, l’autonomia economica e la responsabilizzazione. Jo Boyden e Deborha Levison, due studiosi dei cosiddetti Childhood Studies,affermano che

↑ Un’immagine dal film del 1990 Dottor Korczak diretto da Andrzej Waida, presentato fuori concorso al 43º Festival di Cannes.

Nato nel 1878 in una ricca famiglia di origine ebraica, Janusz Korczak studiò medicina all’Università di Varsavia, diventando pediatra nel 1903. La sua vocazione, tuttavia, emerse durante la guerra russo-giapponese del 1905-1906, nella quale fu impiegato come medico militare. Nel 1911 riuscì a far approvare il suo progetto per una Casa degli Orfani nel ghetto di Varsavia, di cui rimase direttore sino alla morte. L’orfanotrofio era gestito dai bambini stessi, che lo sostenevano finanziariamente tramite il loro lavoro manuale e lo governavano attraverso un Tribunale gestito unicamente da loro, riuscendo persino a stampare un proprio giornale. La mattina del 5 agosto 1942 tutti i bambini ospiti dell’orfanotrofio ebraico furono deportati nel campo di sterminio di Treblinka. Sembra che, consapevoli del valore della sua personalità, gli ufficiali nazisti intendessero riservargli un destino meno terribile, ma egli rifiutò di abbandonare i suoi ragazzi, morendo pochi mesi dopo in una camera a gas. Nel 1914 Korczak pubblicò la prima delle sue opere, Come amare il bambino, cui seguì Quando ridiventerò bambino, nel 1924, pubblicate in Italia dalla casa editrice Luni di Milano.

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mentre i bambini non dovrebbero farsi carico delle responsabilità degli adulti, nondimeno dovrebbero avere maggiori opportunità di partecipare alla vita sociale. I servizi sociali dovrebbero integrare la loro mission con l’idea che i bambini non hanno necessariamente bisogno di protezione, e che

spesso hanno valide intuizioni sul loro benessere, ottime soluzioni ai loro problemi e un ruolo spendibile nel mettere tutto ciò in pratica.

L’approccio paternalistico —

Un aspetto centrale del dibattito sui limiti della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia riguarda la presunta visione paternalistica dei diritti dei bambini, che rischierebbe di compromettere la loro agency annullandoli come attori sociali competenti. È interessante notare, ad esempio, che i bambini non solo non hanno in alcun modo partecipato alla stesura della Convenzione, ma non sono stati neppure consultati dai governi, sia a proposito dei princìpi stabiliti dalla Convenzione sia riguardo ai modi più efficaci per attuarli. Ma proteggere i diritti dei bambini,se fatto in modo paternalistico, cioè in base a come gli adulti pensano che dovrebbero vivere, può causare danni pesanti anche se involontari. Nel 2008 gli antropologi Gina Porter e Albert Abane hanno avviato in Ghana un piccolo studio-pilota finalizzato a comprendere quali fossero le esigenze dei bambini poveri rispetto alla viabilità e ai mezzi di trasporto operanti in quell’area. Il presupposto stava nella

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Il fattore resilienza —

Le ricerche nel campo dei servizi sociali si stanno sempre più allontanando dal modello del bambino come soggetto passivo da tutelare. Al suo posto sono emerse due prospettive convergenti,anche se di origini diverse. La prima si fonda sul concetto di resilienza dei bambini, ovvero sulla capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzati o addirittura positivamente trasformati. La seconda si basa sull’idea che tutti i soggetti siano dotati di una forza propria e quindi i servizi sociali dovrebbero lavorare per aumentare questa “dotazione” universale.

“Tutti i soggetti

sono dotati di una forza propria, e quindi i servizi sociali dovrebbero lavorare per aumentare questa dotazione universale.

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È necessario riconoscere che i bambini sono spesso capaci di fornire un prezioso contributo alla propria protezione e alla società in generale.

consapevolezza che la maggior parte della pianificazione dei trasporti su strade e autostrade in Africa è realizzata da ingegneri civili di sesso maschile; e se gli interessi delle donne sono poco considerati dal Ministero dei trasporti, quelli dei loro figli sono addirittura invisibili. La particolarità di questo progetto sta nell’aver coinvolto direttamente i più piccoli, diversamente dalla maggior parte della ricerca accademica, anche quella più focalizzata sul bambino, che in realtà è condotta da ricercatori adulti i quali si limitano a consultare i piccoli per accertare le loro opinioni senza però renderli mai partecipi alla ricerca. L’esperimento di Porter e Abane si è svolto in varie fasi. Prima di tutto è stato necessario trovare i bambini interessati a partecipare e ottenere il consenso dei genitori e degli insegnanti. In un secondo tempo i piccoli hanno partecipato a un seminario di formazione di sei giorni facilitato da personale delle varie ONG coinvolte. Infine, i piccoli ricercatori hanno condotto osservazioni, test, misurazioni e interviste ad altri bambini in una zona vicina alla regione centrale di Cape Coast. La raccolta dei dati è stata portata avanti da loro in maniera autonoma, ovvero senza la presenza di adulti. Il progetto si è dimostrato assai efficace nel mettere in luce una serie di importanti problemi legati al trasporto, rivelando criticità che non erano state identificate dai ricercatori adulti: percorsi troppo lunghi per arrivare a scuola, buche e altri ostacoli lungo le strade, fogne a cielo aperto in cui i bambini rischiano di cadere facilmente, clacson di autobus troppo rumorosi che spaventano i più piccoli, mancanza di un’adeguata illuminazione notturna, percorsi di attraversamento stradale pericolosi e autisti di taxi maleducati, al punto da molestare le ragazze.

Il concetto di resilienza è stato elaborato negli anni Settanta da un gruppo di psicologi e psichiatri nordamericani impegnati nello studio delle psicopatologie infantili. Osservando come i bambini e gli adolescenti coinvolti in situazioni oggettivamente difficili trovavano quasi sempre risorse personali e ambientali per affrontare al meglio le situazioni di degrado in cui vivevano, questi studiosi hanno accentuato l’importanza di scovare risorse inaspettate, di far leva su punti di forza individuali, di mobilitare al massimo le capacità di auto-riparazione e di sopravvivenza specialmente in situazioni di crisi.

L’ambiente facilita la crescita del bambino —

Il concetto di resilienza ha cominciato a richiamare l’attenzione degli studiosi di servizi

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I diritti dei bambini secondo Janusz Korczack

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Dossier / Ripensare i bambini come agenti attivi

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• Diritto a una morte serena. • Diritto alla sua vita presente. • Diritto a essere quello che è. • Diritto a esprimere ciò che pensa. • Diritto a prendere attivamente parte alle considerazioni e alle sentenze che lo riguardano. • Diritto al rispetto: per la sua ignoranza; per la sua laboriosa ricerca della conoscenza; per le sue sconfitte e le sue lacrime; per la sua proprietà; per i colpi che gli riserva il duro lavoro della crescita; per ogni suo minuto che passa, perché morirà e non tornerà più e un minuto ferito comincerà a sanguinare. • Diritto di volere, chiedere e reclamare. • Diritto di crescere, maturare e, giunto alla maturità, dare i suoi frutti. J. Korczack, Come amare il bambino (1914), Luni, Milano, 1996.

sociali che hanno cercato di tradurlo nei loro interventi concreti. Con un approccio costruttivista post-moderno, Michael Ungar, direttore del Resilience Research Centre, propone di considerare la resilienza un concetto allargato e complesso, tale da includere sia l’individuo sia i fattori comunitari e culturali in cui vive. Alla resilienza, infatti, contribuisce l’abilità dell’ambiente di facilitare la crescita del bambino, compresi i meccanismi ambientali che influenzano l’espressione dei geni. Quanto più i giovani sono in grado di mobilitarsi per procurarsi le risorse di cui hanno bisogno per la salute mentale, tanto più è probabile che lo sviluppo sia soddisfacente. Allo

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stesso modo, quanto più sono in grado di negoziare per ottenere che queste risorse siano rese disponibili in modi culturalmente rilevanti, tanto più facilmente le risorse contribuiranno a uno sviluppo positivo. Emersa in gran parte dopo l’anno 2000, la prospettiva della resilienza infantile si rifà a sua volta a una tendenza precedente denominata Strength Based Practice, ovvero pratica basata sulla forza. Elaborata negli anni Ottanta e successivamente resa popolare dallo studioso di welfare sociale Dennis Saleebey, essa si concentra nell’incoraggiare le persone, anche quelle in condizioni apparentemente disastrose, ad assumere la guida dei loro stessi

processi di cura basandosi sulle risorse personali e sul desiderio soggettivo di star bene. Ponendosi come convinzioni filosofiche e aprioristiche più che scientifiche, sia la prospettiva della resilienza sia quella della forza rischiano tuttavia di rimanere astratte. Spesso si traducono in misurazioni oggettive di fattori che contribuirebbero o ostacolerebbero la resistenza dei bambini ai drammi che sono costretti a vivere, con il risultato di rendere invisibile la loro personalità.

↑ Un’immagine dal film del 1990 Dottor Korczak diretto da Andrzej Waida, presentato fuori concorso al 43º Festival di Cannes.

Bambini come agenti —

Il concetto di agency non è nuovo nella letteratura sociale. Può essere definito come la capacità

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trasmessi ai singoli dalle leggi, dagli usi e dai costumi di una cultura. La cultura occidentale, ad esempio, tende a fornire spazio di manovra ai bambini riconoscendo loro numerosi diritti, come stabilito in primo luogo dalla Convenzione sui Diritti dell’infanzia. Ma anche nelle culture in cui ai bambini sono assegnate meno risorse, questi continuano a essere agenti, solo che la loro efficacia come soggetti sociali attivi può essere ridotta o manifestarsi in forme diverse.

Il contesto rimane fondamentale —

Secondo la Social Relations Theory, l’agency dei bambini deve essere intesa nel contesto relazionale in cui questi sono intimamente connessi, incluse le relazioni con i loro caregivers (gli adulti che si occupano di loro) e con la cultura in cui vivono. La considerazione del contesto relazione è dunque fondamentale per stabilire se i minori abbiano o meno agentività, perché fornisce un punto di vista dinamico, capace di includere le contraddizioni, i conflitti e il cambiamento. Lo mostra ad esempio uno studio di Chan e Goh sulle relazioni madre-figlio di fratelli di bambini autistici: empatizzando con

Approfondire —

J • J. Boyden, Childhood Adversity Contextually Defined, in M. Ungar (a cura di), Handbook for Working with Children and Youth: Pathways to Resilience across Cultures and Contexts, Sage Publications, Thousand Oaks, California, 2005. • W. Chan e E. Goh, An Exploratory Study on Parents’ Relationship with Siblings of Children with Autism, in “3rd Global Conference: Childhood”, Università di Oxford, Oxford, 2013. • G. Porter e A. Abane, Increasing Children’s Participation in African Transport Planning: Reflections on Methodologies Issues in a Child-Centred Research Project, in “Children’s Geographies”, vol. 6, n. 2, 2008. • L. Kuczynski (a cura di), Handbook of Dynamics in Parent-Child Relations, Sage Publications, Thousand Oaks, California, 2003. • D. Saleebey (a cura di), The Strengths Perspective in Social Work Practice, Pearson, Boston, 2013. • M. Ungar, Resilience across Cultures, in “British Journal of Social Work”, vol. 38, n. 2, 2008.

Il concetto di agency contesta la visione dei bambini come destinatari a priori di aiuto, costringendo i servizi sociali a trattare i minori come partner nella risoluzione dei problemi.

lo stress delle madri prodotto dal lavoro di cura dei fratellini problematici, i bambini “normali” tendono a giustificare e a razionalizzare il fatto di ricevere meno attenzioni genitoriali. In definitiva, il concetto di agency contesta la visione dominante dei bambini come destinatari a priori di aiuto o vittime

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di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti. Nei rari casi in cui è attribuito ai bambini, ciò è fatto in maniera ambigua, e tale ambiguità a sua volta riflette una mancanza di chiarezza del concetto stesso. L’idea di agency alla quale mi riferisco è quella elaborata dalla Social Relations Theory (SRT) e sviluppata in modo particolare dallo psicologo dello sviluppo infantile Leon Kuczynski e dai suoi colleghi. A livello ontologico questa branca di studi sostiene l’idea di un’agency universale, vale a dire l’idea che tutti gli esseri umani siano agenti intenzionali, organismi che riflettono su di sé, dotati di auto-organizzazione e capaci di contribuire attivamente alla loro vita. A livello analitico, questi studiosi distinguono tre dimensioni dell’agency. La prima è l’autonomia, ovvero l’aspetto motivazionale per l’auto-determinazione e l’auto-conservazione. La seconda è la costruzione, ossia la manifestazione dell’agire umano attraverso l’attività semiotica, cioè la capacità di bambini e adulti di interpretare le loro interazioni con l’ambiente e di creare nuovo significato dalla loro esperienza. La terza, infine, è l’azione, cioè la capacità di intervenire nell’ambiente o, in alternativa, di astenersi da tale intervento. Se tutti gli esseri umani sono agenti, la Social Relations Theory propone però che essi differiscano nelle risorse di cui dispongono per sostenere le loro azioni. Tali risorse, che costituiscono il potere di cui gli individui sono o meno provvisti, possono essere distinte in tre tipologie: le risorse individuali, ovvero la forza fisica, il controllo delle ricompense, le competenze e l’informazione; le risorse relazionali, ossia l’accesso alle relazioni personali come supporto per l’esercizio di agency; infine le risorse culturali, che si riferiscono ai diritti e ai vincoli

bisognose di protezione e di intervento, costringendo anche i servizi sociali a trattare i minori come partner nella risoluzione dei problemi che li coinvolgono evitando così una mera fornitura paternalistica di servizi. E. Goh, Reconceptualization of Children as Active Agents in Social Work Practice, Social Work Department, Università Statale di Singapore, Singapore. Paper presentato alla 3rd Global Conference Childhood. A Persons Project, Mansfield College, Oxford, 2013. Traduzione di Francesca Nicola.

Esther Goh insegna nel Dipartimento di Servizi Sociali della National University of Singapore.

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Comprendere i bambini soldato

di Eyal Ben-Ariv

La ricerca / N. 5 Nuova Serie. Marzo 2014

Dossier / Comprendere i bambini soldato

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A partire dagli anni Settanta sono state promulgate molte convenzioni internazionali per combattere il fenomeno dei bambini soldato. Molti di loro però continuano a essere utilizzati in numerosi conflitti. La ragione per cui spesso gli interventi si rivelano inefficaci è che riproducono una visione romantica dei bambini.

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ggi gli adolescenti e i bambini partecipano a volte direttamente ai conflitti armati come soldati. Ancora più spesso ricoprono ruoli ausiliari, ad esempio come vedette o messaggeri, o ruoli di supporto quali la pulizia, la cucina, la manutenzione delle strade, la distribuzione di cibo,il trasporto di merci o la fornitura di servizi sessuali. Infine, in determinate circostanze, adolescenti e bambini sono usati come scudi umani o per scopi di propaganda, sia da parte dei governi sia dalle forze di opposizione. Dalla fine degli anni Settanta è stata promulgata una serie di convenzioni internazionali per limitare questo fenomeno, ma non si può certo dire che abbiano avuto successo. Con la diffusione di nuove armi leggere, infatti, i bambini sono oggi più facilmente armati, e richiedono un minore training militare rispetto al passato. In tutto il mondo più di mezzo milione di ragazzi sotto i diciotto anni sono reclutati nelle forze armate governative, paramilitari, nelle milizie civili e in una grande varietà di gruppi armati non statali in più di 85 Paesi. Mentre leggete questo articolo, più di 300 000 stanno

attivamente combattendo come soldati con forze governative o gruppi politici armati. Vorrei essere chiaro su un punto: l’uso di bambini soldato è una prassi deplorevole prevalente in molti conflitti in tutto il mondo. Basta leggere il flusso costante dei resoconti provenienti dalle zone di guerra per cogliere l’orrore e la tristezza che segnano le esperienze di questi giovani. Al tempo stesso, però, credo che per comprendere a pieno questo fenomeno abbiamo bisogno di problematizzare la categoria di bambini soldato.

Motivazioni inaspettate —

L’antropologa Jo Boyden ha sottolineato che la nostra comprensione dei bambini soldato è segnata da un punto di vista disciplinare specifico, che solo nell’ultimo mezzo secolo è stato globalizzato. Per dirla in parole semplici, la maggior parte della letteratura sulla partecipazione dei giovani alla guerra è basata sul punto di vista della medicina, della psichiatria e della psicologia. La visione promossa da questa coalizione di discipline è che gli effetti della guerra sono prevalentemente negativi e che, di conseguenza, i bambini espo-

sti a eventi bellici tendono non solo a sviluppare reazioni traumatiche sia a breve sia a lungo termine, ma anche a compromettere irrimediabilmente il loro sviluppo. Sono pienamente d’accordo che, data la natura altamente distruttiva dei conflitti armati e la terribile sofferenza dei bambini in tali guerre, potrebbe sembrare ovvio porre l’attenzione

“Il problema è che una

prospettiva che dà per scontati gli impatti negativi dei conflitti armati corre il rischio di trascurare una più ampia gamma di effetti sui bambini e gli adolescenti.

soprattutto sul loro impatto psicopatologico.Il problema,però,è che una prospettiva che dà per scontati gli impatti negativi dei conflitti armati corre il rischio di trascurare una più ampia gamma di effetti sui bambini e gli adolescenti, come la formazione e il mantenimento dei valori morali, le competenze sociali e il senso di auto-efficacia. Dopo aver lavorato a lungo in Mozam-

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← Un bambino cinese arruolato a 10 anni durante la seconda guerra mondiale. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

bico e in Angola, l’antropologa Alcinda Honwana sostiene ad esempio che alcuni ragazzi intervistati abbiano parlato della loro motivazione ad aderire a un conflitto armato come derivante dal senso di sicurezza di possedere una pistola e di essere in grado di difendere se stessi, dall’impulso a vendicare la morte di parenti, dal patriottismo o dal risentimento etnico o «dal puro divertimento derivato dall’indossare divise militari e dall’imbracciare un AK47». Analogamente, Merliza Makinano ha dichiarato che alcuni bambini incontrati nelle Filippine hanno ammesso di essersi uniti alle milizie per «il brivido e l’eccitazione».

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I comandanti genitori —

Da un punto di vista antropologico, tre sono i punti da sottolineare. In primo luogo, dobbiamo essere molto attenti a non confondere l’età cronologica con le categorie locali di infanzia e adolescenza. In molte società le persone non danno importanza alla data di nascita e non sono nemmeno consapevoli della loro età,che dunque non risulta un fattore determinante nella formazione delle categorie sociali. Ad esempio Henrik Vigh, nel suo studio dei giovani soldato della Guinea-Bissau, ha scoperto che ciò che i giornalisti e i membri delle ONG umanitarie operanti nella zona comprendono sotto la parola bambino, nella cultura locale può comprendere ragazzi molto più grandi, a volte addirittura uomini di trent’anni. Il secondo punto da sottolineare è che spesso la guerra non è un’aberrazione del tutto slegata dal contesto in cui si diffonde, ma un fenomeno che in qualche modo rafforza o riproduce le strutture sociali prevalenti prima del suo scoppio. Ne è una chiara espressione il meccanismo di reclutamento nell’esercito, spesso attraente per i giovani poiché replica e ripropone in

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forma simile i riti di iniziazione all’età adulta in vigore nelle loro società. Gli stessi leader dei gruppi armati si appropriano delle convinzioni culturali diffuse per usarle a proprio fine. Nel suo studio del 2004 sui combattenti RENAMO in Mozambico, Jessica Shafer spiega come i comandanti del movimento abbiano capito che per

“Ishmael Beah racconta come

abbia scelto di aderire a un gruppo armato di bambini soldato in modo razionale.

i bambini soldato arruolati la separazione dalle famiglie sia emotivamente straziante. Per conseguenza, hanno elaborato un immaginario patriarcale e una parentela fittizia come mezzi per risocializzare i loro giovani soldati: i comandanti

sono diventati padri e la truppa i loro figli. Insieme al tabù dell’incesto, associato a tali relazioni, questi legami filiali hanno portato nuove lealtà fra la truppa e un obbligo fermo a servire i generali-padri senza discutere sul campo di battaglia. È lo scenario descritto da Ishmael Beah in Memorie di un soldato bambino, un libro autobiografico che racconta la sua terribile esperienza in Sierra Leone. In queste circostanze, contrastare i leader delle bande di bambini soldato affermando che non forniscono alcuna guida morale è poco utile. In realtà, costoro forniscono indicazioni morali specifiche, centrate sulla sopravvivenza, su immagini di virilità, lealtà e impegno per il gruppo di combattimento inteso come una famiglia. Non affermo questo per idealizzare o naturalizzare l’idea di bambini

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soldato, ma per sottolineare la potenza delle definizioni culturali locali nel fornire strutture significative per il loro reclutamento nei gruppi armati.

I l racconto di un bambino soldato —

Dossier / Comprendere i bambini soldato

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Il terzo e ultimo punto, il più contestato, riguarda l’idea che i bambini possano essere considerati veri e propri attori sociali. Un numero crescente di ricercatori sta adottando una prospettiva che interpreta la violenza dei giovani in guerra come il risultato dell’interazione dinamica tra condizioni strutturali vincolanti e volontà individuale. Un eccellente, anche se straziante, esempio è fornito ancora una volta da Ishmael Beah, che racconta come abbia scelto di aderire a un gruppo armato di bambini soldato in modo razionale, data la disintegrazione della maggior parte delle altre strutture sociali in Sierra Leone. Eppure, queste decisioni intenzionali tendono a essere ignorate nella maggior parte dei ritratti di bambini soldato. Un report delle Nazioni Unite del 2002, ad esempio, ammette che spesso i giovani si presentano

volontariamente al servizio militare. Precisa, però, che sarebbe fuorviante considerare questo atto come realmente spontaneo. La scelta di questi giovani non sarebbe esercitata liberamente, ma influenzata da svariate forze, incluse le pressioni culturali, sociali, economiche o politiche. Suggerendo che i bambini possono essere intellettualmente e moralmente in grado di impegnarsi nella violenza politica, diversi antropologi avanzano invece la necessità di mettere in discussione una premessa di base dell’umanitarismo focalizzato sul bambino, e cioè che i giovani soldati siano sempre e necessariamente semplici vittime. E. Ben-Ari, Facing Child Soldiers, Moral Issues, and “Real Soldiering”: Anthropological perspectives on Professional Armed Forces, in “Scientia militaria-South African Journal of Military Studies”, vol. 37, n. 1, 2009. Traduzione di Francesca Nicola.

Eyal Ben-Ari è professore di Antropologia presso la Hebrew University of Jerusalem.

Approfondire —

J • I. Beah, Memorie di un soldato bambino, Neri Pozza, Venezia, 2007. • J. Boyden e J. De Berry ( a cura di), Children and Youth on the Frontline: Ethnography, Armed Conflict and Displacement, Berghahn Books, Oxford/New York, 2004. • A. Honwana, Children of War: Understanding War and War Cleansing in Mozambique and Angola, in S. Chesterman (a cura di), Civilians in War: A Project of the International Peace Academy, Lynne Reinner, Londra, 2001. • J. Shafer, The Use of Patriarchical Imagery in the Civil War in Mozambique and its Implications for the Reintegration of Child Soldiers, Berghahn Books, Oxford/New York, 2004. • M. Makinano, Child Soldiers in the Philippines, Featured Paper n. 2, 2002, disponibile su: www.childprotection.org. • United Nations, Promotion and Protection of the Rights of Children: Impact of Armed Conflict on Children, Report of the Expert of the Secretary-General, New York, 2002. • H. Vigh, Navigating Terrains of War: Youth and Soldiering in Guinea-Bissau, Berghahn Books, Oxford/New York, 2006.

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← Eglantyne Jebb (1876–1928)

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La pacifista e attivista inglese Eglantyne Jebb è stata la fondatrice di Save the Children, la più antica e prestigiosa organizzazione non governativa internazionale dedicata alla salvaguardia dell’infanzia, oggi operante in 120 Paesi. La fondazione di Save the Children, nel 1919, avvenne non senza contrasti, dato che le attività dell’organizzazione erano rivolte alla salvaguardia di tutti i bambini coinvolti nella recente guerra, anche di quelli appartenenti alle nazioni che avevano combattuto contro l’Inghilterra.

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Il lavoro infantile: problema o risorsa? Il lavoro minorile in America Latina è una piaga sociale che coinvolge milioni di ragazzi e sono molte le organizzazioni umanitarie che si battono per estirparlo. In attesa che la società e le famiglie provvedano più efficacemente alla loro sopravvivenza, però, molti giovani lavoratori non hanno altro mezzo per vivere: chiedono quindi che sia anche a loro riconosciuto il diritto al lavoro e che ci si impegni non tanto in una politica legislativa negatrice del fenomeno quanto in una regolamentazione che eviti le forme peggiori di sfruttamento. Giusta o sbagliata, è la loro opinione.

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stituita dall’ONU nel 2002, la giornata mondiale contro il lavoro minorile (International Day against Child Labour) celebrata il 12 giugno è finalizzata a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, almeno per un giorno, sul problema del lavoro in età precoce. Si tratta di un fenomeno annoso, anzi millenario se si considera che le prime testimonianze

“In alcune culture

il lavoro minorile è considerato come un obbligo rituale, un contributo alla comunità, un apprendistato o un’attività ludica.

di bambini impiegati in lavori servili provengono da testi assiri e raffigurazioni murali egizie del III e II millennio a. C., oltre che da pitture vascolari greche d’epoca arcaica e classica. E se una soluzione della questione

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non sembra facile né a portata di mano, una sua corretta concettualizzazione, tale da porsi come valore universale, lo è ancor meno, vista la varietà dei modi in cui il lavoro infantile è stato considerato in diverse epoche e ancora oggi lo è,sincronicamente, fra differenti culture. Non esiste in realtà neppure un pensiero unico su cosa si debba considerare lavoro infantile, giacché quello che in una cultura è ritenuto tale, in un’altra può essere considerato come un obbligo rituale, un contributo alla comunità, un apprendistato o perfino un’attività ludica. Per rifarmi a una mia esperienza diretta: quando, nella scorsa estate, i bambini del fiume Itaya, in piena selva amazzonica, organizzati in una loro associazione autonoma, hanno deciso di ripulire le due sponde del fiume dai detriti e dalle immondizie accumulate dall’ultima piena e dall’incuria umana, hanno svolto un servizio comunitario, un’azione ecologica, una protesta generazionale o un

↓ Manifesto della OIL, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, per il 12 giugno, giorno internazionale contro il lavoro minorile.

Dossier / Il lavoro infantile: problema o risorsa?

di Giovanni Proiettis

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Dossier / Il lavoro infantile: problema o risorsa?

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gioco infantile? E se fosse tutto questo insieme? A qualcuno verrebbe in mente di chiamarlo “lavoro minorile non retribuito”? Le principali istituzioni internazionali, a partire dall’UNICEF e dalla OIL (Organizzazione internazionale del lavoro), entrambe emanazioni dell’ONU, molte ONG e la stessa Chiesa cattolica sono allineate su un criterio univoco e apodittico: il lavoro infantile è nocivo allo sviluppo dei minori e si deve arrivare alla sua completa eliminazione. In America Latina si parla addirittura di erradicación, un termine preso in prestito dalla medicina e originariamente riservato alle malattie.

Il parere del Manthoc —

Ma il lavoro minorile è davvero sempre e comunque una pratica malsana? Contro questa prospettiva maggioritaria, che ama presentarsi come unica, si sono alzate recentemente molte voci, provenienti da diversi Paesi e quasi sempre da organizzazioni autonome di bambini e adolescenti. Una di queste voci, che esprime efficacemente la posizione contestataria, è quella del Manthoc peruviano, ovvero il Movimiento de adolescentes y niños trabajadores hijos de obreros cristianos. Questa organizzazione pionieristica, fondata nel 1976, proprio nella ricorrenza del 12 giugno ha reso pubblico il suo punto di vista: «Sebbene la Organizzazione internazionale del lavoro e altri organismi internazionali promuovano questa data come giornata mondiale contro il lavoro minorile, di fatto molte loro iniziative si riducono a rendere la vita più difficile ai ragazzi che lavorano». Il documento, redatto dagli stessi bambini e adolescenti che lavorano, sottolinea l’importanza del contributo infantile all’economia familiare in zone povere e rurali, «malgrado le statistiche ufficiali segnalino che la povertà si è ridotta del 5%».

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Dopo aver contestato l’esistenza stessa di una giornata mondiale contro il lavoro minorile, «perché attenta contro la nostra dignità», i firmatari del documento richiedono piuttosto, da parte dello Stato, «programmi di attenzione e promozione dei diritti e delle capacità di bambini e adolescenti, insieme allo sviluppo delle potenzialità lavorative». Soprattutto, chiedono di essere considerati soggetti di diritto ed essere ascoltati per qualunque

↑ Ragazzi Amish al lavoro nei campi, USA, 2011. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

“È l’atteggiamento paternalista

delle istituzioni internazionali a essere rifiutato dalle associazioni dei bambini lavoratori.

decisione li riguardi. «Vogliamo che chi fa le leggi tenga conto delle nostre opinioni, necessità e richieste». Il documento conclude: «Continueremo a lottare per il riconoscimento e il rispetto del diritto a lavorare. Diciamo sì al lavoro degno e no alla sua eliminazione!». In breve, secondo questa minoranza crescente, il

In condizioni ottimali, ovvero in assenza di qualsivoglia forma di sfruttamento, la partecipazione dei bambini al comune lavoro familiare può diventare un importante valore formativo. È il principio seguito dalla comunità Amish negli Stati Uniti, nota per preservare i propri tradizionali costumi di vita sino al punto di rifiutare tutti i prodotti della modernità industriale. Nelle scuole Amish il calendario scolastico è scandito in modo da permettere ai ragazzi di partecipare alle attività stagionali agricole, e dal 2004 un emendamento al Fair Labour Standards Act, la legge che dal 1938 regola il mercato del lavoro negli Stati Uniti, permette loro di aiutare i genitori nelle attività di falegnameria già a partire dai 14 anni. Anche la direttiva europea del 1996 (94/33/EC) contiene qualche eccezione al lavoro minorile, ammettendone la pratica a qualunque età, purché autorizzata dall’autorità e relativa esclusivamente ai campi della cultura, dell’arte, dello sport e della pubblicità.

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problema non è il lavoro infantile in sé, ma la condizione in cui viene svolto. Ci si deve certamente opporre allo sfruttamento, ai maltrattamenti, ai lavori pericolosi o nocivi alla salute, alle attività delinquenziali, alla pornografia e alla prostituzione. Ma sono molti i bambini che lavorano contenti di farlo, specie se riescono a non lasciare gli studi, e si sentono orgogliosi di contribuire così al benessere della famiglia. Sentirsi utili anziché un peso morto, è bello anche per loro.

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro,215 milioni di bambini sono costretti a lavorare in tutto il mondo, mentre secondo i dati dell’UNICEF il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, sarebbero 150 milioni i minori, fra i 5 e i 17 anni, che lavorano. Lo stesso UNICEF, in precedenti occasioni, aveva dichiarato che sono 346 milioni i bambini soggetti a sfruttamento.Anche i dati a livello nazionale presentano enormi disparità: il Cile, un Paese con 18 milioni di abitanti, calcola in 196 000 i suoi NAT (niños y adolescentes

compiuto il diciottesimo anno di età. Senza contare, poi, il Trattato 189, che pur occupandosi della dignità del lavoro e delle at-

Secondo gli ultimi dati dell’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, sarebbero ben 150 milioni i giovani minori, fra i 5 e i 17 anni, occupati in attività lavorative in tutto il mondo.

tività economiche domestiche, non è specificamente dedicato all’infanzia. Tuttavia, è l’atteggiamento paternalista e poco ricettivo di queste importanti istituzioni internazionali e della stessa Chiesa a essere rifiutato dalle associazioni dei bambini e adolescenti lavoratori, che hanno saputo conquistare negli ultimi anni un crescente protagonismo, basato sul rispetto e l’esercizio dei propri diritti. Ormai non vogliono solo essere ascoltati, ma reclamano voce e voto.

Le organizzazioni sindacali dei bambini —

Formatesi alla fine degli anni Novanta, le organizzazioni di bambini lavoratori, quasi sempre autonome, sono già una

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Le dimensioni sociali del problema —

trabajadores), mentre il Messico ne avrebbe solo 158 000 su una popolazione di 115 milioni. L’apparente inconsistenza di queste cifre rivela una chiara differenza nei criteri e nei parametri metodologici adottati nei censimenti, a partire dalla determinazione della minore età, che non tutti fanno arrivare a 17 anni. Pur nella loro disparità, i dati sono comunque impressionanti: secondo l’OIL, in America Latina e Caraibi sono 17 milioni i minori che lavorano, una cifra ragguardevole che diventa piccola di fronte agli 80 milioni di bambini africani e ai 153 milioni di asiatici. In questa situazione per molti versi drammatica, e soprattutto in aumento rispetto ai decenni passati, sono innegabili le buone intenzioni dell’UNICEF, che vorrebbe estirpare questa piaga, e l’impegno dell’OIL, che ha recentemente promulgato due norme a tutela dell’infanzia che lavora: il Trattato 138, che fissa l’età minima a 14 anni, e il Trattato 182, che denuncia e combatte le peggiori forme di lavoro minorile, come l’arruolamento in milizie armate, il traffico di droga o la prostituzione, definendo “bambino” (child/enfant/ niño) chiunque non abbia ancora

↓ Una manifestazione del Manthoc. (Credit: www. arcilucca.org).

Il Manthoc è stato fondato nel 1976 a Lima da Alejandro Cussianovich, docente di Pedagogia all’Università di San Marco e salesiano aderente alle dottrine della teologia della liberazione. Oggi questa istituzione, controllata direttamente da bambini e adolescenti, organizza circa 5000 gruppi locali (NATs) in 27 località di 10 distretti del Perù. Negli ultimi anni, inoltre, l’esempio del Manthoc si è diffuso nel resto dell’America latina e in Africa.

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fitta costellazione in America Latina, come del resto anche in Africa e in Asia. In Perù, allo storico Manthoc, fondato nel 1976, si sono aggiunte nel 1996 altre trenta organizzazioni per formare un movimento a livello nazionale, il Movimiento Nacional de Niños y Adolescentes Trabajadores Organizados del Perú, che riesce già a incidere sulle politiche pubbliche e non rinuncia a esprimere proposte e prese di posizione. Fra le associazioni infantili peruviane merita una menzione speciale Infant-Nagayama (Instituto de Formación de Adolescentes y Niños Trabajadores), fondata dal filosofo Alejandro Cussianovich, teorico della “pedagogia della tenerezza”. Avvalendosi della collaborazione di Save the Children, Infant lavora per la difesa e lo sviluppo dei diritti di tutti i bambini, specialmente quelli che lavorano. Le sue pratiche pedagogiche, ispirate e dirette da Cussianovich, sono volte a rafforzare il senso di identità e il protagonismo infantile, stimolando la capacità di autogestione dei partecipanti, insieme alla coscienza sociale, in un clima di fraternità.

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I ragazzi e il Presidente —

Un’altra situazione molto interessante è quella boliviana, in cui è attivo l’Unatsbo, la Union de niños, niñas y adolescentes trabajadores de Bolivia. Nel 2008, in occasione della riforma costituzionale in senso “indigenista” voluta dal presidente Evo Morales, questo

“La Costituzione boliviana non vieta

il lavoro infantile in quanto tale ma solo le condizioni di sfruttamento in cui viene esercitato.

sindacato dei bambini aveva ottenuto un notevole successo, ottenendo che la nuova Costituzione vietasse non il lavoro infantile in quanto tale ma solo le condizioni di sfruttamento in cui viene esercitato. Da una parte, quindi, esso veniva legittimato, dall’altra fortemente regolarizzato con la specificazione di 23 attività vietate ai ragazzi perché considerate pericolose o degradanti. Proprio in questi mesi, tuttavia, il Parlamento boliviano sta per promulgare un Nuovo Codice dell’Infanzia in cui si vorreb-

↓ Un gruppo di studentesse e lavoratrici del NATs. (Credit: www.codehica. org.pe).

be introdurre il divieto assoluto di ogni forma di lavoro minorile, una riforma quasi impossibile, almeno in termini immediati, in un Paese in cui i lavoratori tra i 6 e 14 anni sono circa 500 000 su una popolazione di 10 milioni (solo 39% frequenta anche la scuola). La domanda che pongono i giovani attivisti dell’Unatsbo è semplice e brutale: dato che ogni essere umano possiede il diritto al lavoro, perché da questo dipende la sua sopravvivenza, come si può negare questo diritto ai più piccoli laddove la famiglia e la società non riescono a garantire loro tale sopravvivenza? Certamente anche per loro si tratta in primo luogo di costruire un mondo in cui il lavoro infantile non sia più necessario, ma una condizione di clandestinità determinata dalla nuova legge non favorirebbe di per sé alcun miglioramento strutturale mentre di certo renderebbe incontrollabili gli abusi. Sono opinioni che hanno convinto il presidente Evo Morales a bloccare temporaneamente il Nuovo Codice per riconsiderare il problema dalle fondamenta. È un esempio di come le organizzazioni dei ragazzi lavoratori abbiano raggiunto in America Latina un sorprendente grado di maturità e siano ormai capaci di criticare l’approccio tradizionale alla problematica dell’infanzia che lavora, presentando proposte interessanti ed efficaci provenienti dagli stessi protagonisti. Rimane solo che le istituzioni internazionali che si interessano a loro, finora solo in modo solo assistenziale, comincino ad ascoltarli.

Giovanni Proiettis è stato sino al 2011 docente di Antropologia alla Universidad Autónoma del Chiapas. Corrispondente dall’America Latina per il quotidiano “il manifesto”, attualmente si dedica a studi sull’infanzia nelle Ande.

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← Puno, Perù: ragazzo in abito tradizionale sul sentiero del Raya Pass, con i suoi lama. (Credit: Stormy Westwood, 2006).

43 Dossier / David: studente e guardiano di lama

David: studente e guardiano di lama Spesso i grandi numeri nascondono realtà complesse e inaspettate. Non sempre, ad esempio, il lavoro minorile è sinonimo di sfruttamento senza regole. Nella cultura andina, anzi, è tradizionalmente valorizzato, regolarizzato e accettato senza particolari remore dai giovani lavoratori, che per il 90% frequentano anche la scuola. In ogni caso è importante ascoltare anche il loro parere, che può rivelarsi una sorpresa. di Giovanni Proiettis

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ttraversare in macchina la puna, l’altopiano andino a 4000 metri di altitudine ricoperto da una steppa riarsa, è come navigare in un immenso oceano secco, con auchenidi (lama, alpaca, vicuña) invece di delfini e pesci volanti. Al posto del mal di mare, si patisce il soroche, il mal de altura che provoca vertigini, emicranie e affanni al minimo sforzo. L’unico modo

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per alleviarlo è bere un infuso di foglie di coca, la pianta sacra che l’uomo bianco ha profanato trasformandola (prodigi della chimica) nella droga preferita del capitalismo nordamericano. La traversata della puna, guidando su una pista di terra, può sembrare infinita.I gruppi di case,costruite con mattoni di terra e tetti di lamiera ondulata o più tradizionalmente di paglia compattata, sono isolati e rari come

scogli. Neanche un negozietto per chilometri: qui quasi tutto è autoprodotto. Le donne portano il cappello e vestono le polleras, gonne coloratissime sovrapposte come strati di cipolla. Se un forestiero rivolge loro la parola, magari per un’indicazione, lo guardano con diffidenza, specie se è un bianco, un wiracocha. Nel bel mezzo di questo nulla, un bambino accanto a una mandria di lama fa un gesto co-

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← Puno, Perù: due ragazzi in abito tradizionale sul sentiero del Raya Pass, con i loro lama. (Credit: meunierd, Shutterstock).

Dossier / David: studente e guardiano di lama

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me per fermarci. Ha un poncho dello stesso colore dei cespugli bruciati dal sole e un secchiello di plastica in mano. Fermiamo la jeep per sentire cosa vuole: chiede acqua da bere in perfetto spagnolo. Gli porgo la mia bottiglia di minerale ma la rifiuta.

Una tradizione andina racconta di una lama che avvisò il suo padrone, prima con pianti e poi a parole, di un imminente diluvio universale, convincendolo a rifugiarsi in una grotta sul picco di una montagna.

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«Non avete acqua semplice?». E si scusa: «Non è per me, è per Yasha, a lei non piace la minerale con gas». Non vedo nessuna bambina nei dintorni ma gli do lo stesso la tanica dell’acqua per il radiatore. Ne versa un poco nel suo secchiello, poi lo porge a una lama con dei ponpon rossoblu e la fa bere. Yasha, che in quechua vuol dire “lenta, grassottella”, beve con avidità, poi fa un ruttino educato, soddisfatto. Sembra accennare un sorriso di ringraziamento. «E le altre?», chiedo. «No, le altre non hanno sete». «E tu come lo sai?». «Perché me lo hanno detto». «Lei te l’ha detto?». «Mica solo lei parla. Tutte e

ventotto si fanno capire molto bene. Quando vogliono, chiaro». Qui la cosa si fa interessante. Un testo peruviano del XVI secolo, Dioses y hombres de Huarochiri, una raccolta di antiche tradizioni orali delle Ande, racconta di una lama come questa diventata celebre per aver avvisato il suo padrone, prima con pianti e lamenti, poi a parole, di un imminente diluvio universale, convincendolo a rifugiarsi in una grotta sul picco di una montagna e a salvarsi così dalla fine del mondo. Yasha e il suo piccolo badante valgono ben una sosta, non fosse altro per capire che lingua parlano gli auchenidi. La conversazione con David, un bambino di dodici anni perfettamente bilingue (quechua e spagnolo) che sembra più piccolo della sua età, si rivela in effetti interessante. L’intero gregge appartiene alla sua famiglia, a parte i due animali più piccoli, affidati temporaneamente da un vicino. È il minore di cinque figli e trova naturale dover pascolare i lama alternandosi con una sorella: fanno un giorno per uno. Ritiene normale che sia così; negli anni precedenti se ne erano occupati gli altri fratelli, adesso tocca a loro. David va a scuola tre volte a settimana.Impiega quasi due ore a piedi per arrivarci, ma non perde neanche una lezione; gli piace moltissimo studiare,

specialmente storia e geografia. Da grande vuole fare il capitano di una nave, comandare un traghetto sul lago Titicaca. «È il lago navigabile più alto del mondo», mi informa con orgoglio. Quando gli racconto che da noi per far addormentare i bambini si dice loro di contare le pecorelle, ride divertito. «Io queste le conto per rimanere sveglio», mi spiega, «anzi le chiamo per nome una ad una», si corregge. «Ti ricordi i nomi di tutte e ventotto?». «Di certe conosco anche il soprannome». «Te l’hanno detto loro?». «No, loro no, le altre». «Ah». Ma una domanda mi preme più di tutte. «Questo pascolare le llamitas lo consideri più un passatempo, un compito come quelli della scuola, un lavoro o come?». Ci pensa su un poco, poi con il suo spagnolo lento e preciso, imparato sui banchi, dice così: «Per me è come fosse un recreo, la ricreazione che si fa a scuola. A loro invece», e indica il gregge, «cercare i pochi germogli e un po’ d’erba verde deve sembrare più un lavoro, però piacevole».

Giovanni Proiettis

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Premio di lettura dantesca “la SelVa, Il MONTe, le STelle„

Per la scuola secondaria di primo e secondo grado

L’

Accademia della Crusca e Loescher Editore, per il secondo anno consecutivo, dopo il successo dell’edizione 2013, promuovono un premio di lettura dantesca nelle scuole, per continuare a far sentire la voce di Dante attraverso le voci dei ragazzi. Un compito importante, ma anche divertente, per le giovani generazioni: quello di mantenere viva la tradizione della Divina Commedia con l’aiuto dei nuovi media.

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SCUOLA

A scuola di cittadinanza... in rete

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“Percorsi di legalità” è una rete di quattordici scuole della provincia di Chieti, nata nel 2013 in collaborazione con Libera Formazione, per promuovere l’educazione civile e trasformare la tensione educativa per la legalità e la giustizia in pratica pedagogica. Perché «solo la pratica della giustizia educa alla giustizia». di Gilda Pescara

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asce in territorio abruzzese “Percorsi di legalità”: una rete di scuole che mira a orientare l’azione pedagogica nella direzione della cittadinanza attiva, della giustizia e della solidarietà sociale. Sono quattordici gli istituti scolastici – dalle scuole primarie agli istituti superiori –, tutti delle provincia di Chieti, che ne fanno parte, tra cui l’istituto magistrale Gonzaga di Chieti, scuola promotrice, nonché capofila della rete medesima. Una rete che instaura un gemellaggio tra i vari ordini d’istruzione assolutamente nuovo nel panorama del nostro territorio. Non affida appalti per forniture di servizi, non opera per realizzare economie di gestione. Invita, al contrario, il mondo dell’educazione a lavorare in sinergia per perseguire insieme una finalità comune: promuovere l’educazione civile nelle scuole. Un progetto ambizioso quanto difficile, che lancia una sfida culturale a sostegno del bene comune in un momento storico caratterizzato dal prevalere di individualismi e di divisioni, non estranei all’organizzazione del servizio dell’istruzione. “Percorsi di legalità” è un’esperienza “nuova” di fare rete: tende alla costruzione di percorsi condivisi di legalità, destinati a promuovere in modo solidale la partecipazione del mondo dell’educazione a iniziative rivolte al territorio e alla società civile.Si connota come un laboratorio di democrazia sul territorio di appartenenza. Ispirandosi ai valori democratici a fondamento della Costituzione italiana,la rete persegue,infatti,la finalità di orientare l’azione pedagogica nella direzione della legalità nelle sue accezioni più profonde. Quella, per intenderci, che costituisce l’orizzonte stesso del vivere sociale e che l’educazione dovrebbe favorire con tutti i mezzi a sua disposizione, a cominciare dalle risorse umane. La rete mette in gioco le professionalità interne degli istituti e “investe” in primo luogo sulla formazione culturale degli insegnanti. L’efficacia dell’azione pedagogica per la legalità democratica è, sotto questo profilo, un irrinunciabile obiettivo della rete. Essa trae nutrimento dall’impegno di educatori che sperimentano nuove strategie nel campo metodologico e didattico, per sostenere i giovani nel cammino di crescita uma-

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↑ Credit: Andersen Ross, Blend Images, Corbis.

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La rete, pertanto, collabora strettamente con la Prefettura di Chieti, con cui struttura un percorso di sensibilizzazione del territorio ai temi sociali che rientrano nel suo raggio di attività.Per tale via,si preparano i ragazzi all’attesa di un mondo più giusto, guardando avanti, e oltre i confini della scuola, con autentica speranza. In quanto scuola, essere in rete con questo orizzonte significa testimoniare collettivamente il valore del presidio educativo che la scuola porta ancora dentro di sé. 47

Com’è nata l’idea della rete —

La rete “Percorsi di legalità” è nata in stretta collaborazione con Libera Formazione (settore che si occupa della formazione per l’associazione nazionale Libera), sul solco tracciato da un’esperienza di formazione, quella di “Abitare i margini” (edizione 2011), a cui ho personalmente preso parte. Ragionare insieme sul tema delle mafie di dentro, sulle illegalità diffuse che tanto inquinano il rapporto tra Stato e cittadino, e trovare insieme nei laboratori di gruppo un’alternativa pedagogica di contrasto al dilagare di un atteggiamento così diffuso nel nostro Paese, è stata un’esperienza di lavoro a dir poco trainante. Troppo spesso la scuola educa alla legalità limitando il suo intervento a un’educazione ai princìpi, al rispetto degli altri e delle leggi. È una prospettiva di lavoro che finisce per privilegiare l’aspetto della legalità formale, ma che, a conTroppo spesso la fronto con la complesscuola educa alla sità del reale, diventa legalità limitando astratta, parziale e, il suo intervento soprattutto, non persuasiva. È un perimea una educazione tro troppo stretto che ai princìpi, al non sollecita le nuove rispetto degli altri generazioni a sentire e delle leggi. il bisogno del cambiamento, e dunque a partecipare attivamente al divenire del sistema. Per chi si occupa di educazione, in particolare di educazione civile, è fondamentale stimolare l’adesione sostanziale ai princìpi che regolano il proprio Paese. L’azione pedagogica che pone al centro l’educazione civile, d’altra parte, abbisogna essa stessa di essere conosciuta, assimilata, sperimentata e messa in pratica dalle agenzie formative.

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na, personale e sociale. Vista da questo aspetto, “Percorsi di legalità” individua nella rete un gemellaggio culturale che si nutre di un costante aggiornamento sulle pratiche e sui metodi di lavoro. La legalità, in tal senso, rappresenta la via con la quale la rete sceglie di dar vita a un serio e strutturato impegno per la giustizia, educando i giovani all’interno di un’azione quotidiana che aspira a diventare prassi e sistema pedagogico al tempo stesso. La rete promuove educazione civile, essendo essa stessa un laboratorio aperto di educazione civile. Gli incontri di rete costituiscono momenti importanti di studio, di confronto, di scambio di esperienze. Costituiscono, al contempo, un modo di stare insieme, di costruire legami tra le persone, un “fare società” nella scuola che guarda al territorio aprendosi all’esterno, al mondo. La rete ragiona sulle infrastrutture educative, tentando essa stessa di costruire dentro la scuola un modello sociale basato sulla condivisione e sulla collaborazione. In tal senso, le scuole coinvolte fanno società e vivono secondo legalità nella misura in cui si rendono disponibili ad attuare l’autonomia in modo solidale, allo scopo di fondare le basi di un impegno comune per la giustizia, la legalità e lo sviluppo del territorio. E la rete si apre al territorio promuovendosi come un interlocutore attivo nella comunità di appartenenza, per far entrare il territorio nella scuola e fare in modo che il territorio stesso consideri la scuola come un proprio patrimonio da preservare, difendere e far crescere. Questa attesa di collaborazione con i diversi attori locali rappresenta una novità assoluta per la scuola, orientata più a essere cercata che a cercare. È un’azione, questa, che va pensata, progettata e condotta con coerenza, con determinazione, con costanza e competenza, specialmente quando la scuola si fa interprete di un’istanza pedagogica certamente delicata, complessa e “difficile” come quella dell’educazione civile.Sotto questo profilo,una delle prime buone pratiche della rete è l’apertura al dialogo con le istituzioni locali al fine di strutturare un impegno comune per la giustizia, la legalità e lo sviluppo del territorio, sollecitando con una sua proposta formativa l’attenzione delle istituzioni locali a un diverso modo di operare per la concreta attuazione del proprio mandato educativo.

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Da qui la scelta dell’Istituto Gonzaga di Chieti di “adottare” quell’esperienza di formazione, di farsi carico, anche economicamente, dell’organizzazione del seminario e di diffondere l’educazione civile sul territorio, aprendo la partecipazione a tutte le scuole della provincia. Tutto ciò in stretta collaborazione con Libera Formazione e con l’Ufficio territoriale del Governo di Chieti, attento e sensibile interlocutore della rete fin dalle prime battute. Molte sono state le scuole che hanno aderito al corso, apprezzando la qualità e la novità della proposta di lavoro. In quell’ambito, gli insegnanti sono stati chiamati a riconoscere le illegalità vicine ai propri contesti di riferimento e a immaginare la definizione di snodi educativi, ovvero di sequenze di princìpi, di pratiche e contenuti da calare nel vivo delle esperienze educative in corso. Quel seminario, oltre a costituire un primo approccio di conoscenza verso l’educazione civile, aveva gettato le basi per una riconsiderazione del lavoro per la legalità, affidato spesso e volentieri a enti o a figure esterni. L’azione pedagogica di educazione civile si può riassumere in questa formula di pensiero: la tensione educativa per la legalità e la giustizia si trasforma in pratica pedagogica. L’educazione civile è in prima istanza una pratica, non l’insegnamento di un sapere specifico. È, sotto questo aspetto, un modus vivendi che trasmette una tensione educativa.Calato nel contesto della scuola, significa restituire all’educazione i contenuti, le competenze e soprattutto le essenze della piena cittadinanza. Significa anche calarla nell’ordinario svolgersi del lavoro formativo, avendo cura tanto delle relazioni umane quanto dei contesti di riferimento nei quali gli studenti crescono, a partire, naturalmente, dai contesti di lavoro. È un’azione politica in senso lato, che pervade il sistema nel suo complesso. Non è solo questione di entrare nelle singole vite, ma anche di prestare attenzione a tutto quell’insieme di regole, di pratiche, di abitudini che educano all’idea di società solo se improntate ai valori di giustizia, solidarietà e partecipazione. Solo la pratica della giustizia educa alla giustizia. Solo la pratica educativa ispirata ai princìpi irrinunciabili della nostra Carta fondamentale forma l’essere cittadini. In questa dimensione, l’educazione civile determina necessariamente l’apertura della scuola verso le questioni

del mondo, verso la conoscenza dei fenomeni di micro/macro illegalità che toccano le vite dei ragazzi e che fanno da sfondo alle mafie, verso le storie di vita che hanno molto da insegnare a chi ha il compito di educare. Viene pertanto a configurarsi come un sistema di conoscenza del mondo, che forma, con il filtro dei princìpi e delle buone pratiche, tutti i soggetti del rapporto educativo.È un lavoro faticoso, e anche difficile, che richiede impegno, coerenza e passione. E muove indubitabilmente dalla consapevolezza dei limiti di un’educazione troppo formale, ingessata e inquadrata dai programmi. Rappresenta, tuttavia, un prezioso investimento per il futuro.

↑ Un’iniziativa scolastica a Palermo in sostegno dei villaggi della legalità, nati sui luoghi confiscati alle mafie.

La rete si costituisce —

Su proposta dell’Istituto Gonzaga, la rete si costituisce nel 2013 con l’adesione di tredici scuole della provincia di Chieti. La finalità è duplice: accompagnare i docenti in un percorso di formazione sull’educazione civile e promuovere pratiche di educazione pubblica che trasmettano ai giovani il senso del vivere secondo legalità. La rete si propone di attivare percorsi formativi di cui i ragazzi siano protagonisti, di promuovere nei giovani la cultura dei diritti, della partecipazione e della responsabilità, di diffondere la cultura dell’antimafia sociale, con particolare riferimento all’uso sociale dei beni confiscati e al dovere della Memoria. Individua un’organizzazione interna costituita da organi d’impulso (il gruppo dei referenti di ciascuna scuola aderente), da organi decisionali (il gruppo di indirizzo formato dai dirigenti scolastici) e rimette alle scuole l’opportunità di costituire al loro interno gruppi di progetto

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La rete di scuole: • Istituto Comprensivo Bucchianico • Istituto Comprensivo Buonarroti – Ripa Teatina • Istituto Comprensivo Galilei – S.Giovanni Teatino • Istituto Comprensivo Fara Filiorum Petri • Istituto di Istruzione Superiore Mattei – Vasto • Istituto di Istruzione Superiore Vico – Chieti • Istituto Tecnico Galiani-De Sterlich – Chieti • Liceo Scientifico Masci – Chieti • Convitto Nazionale Vico – Chieti • Istituto Comprensivo 1 – Chieti • Istituto Comprensivo 3 – Chieti • Istituto Comprensivo 4 – Chieti • Istituto Magistrale Gonzaga – Chieti • Istituto di Istruzione Superiore Savoia – Chieti cui gli insegnanti sono stati chiamati a raccontare in prima persona microstorie di autorità. La rete, infatti, curerà una raccolta di storie scritte dai ragazzi, la cui elaborazione è ancora in corso. Sullo sfondo delle storie, le grandi questioni sociali del nostro tempo, oggetto anche della campagna «Miseria Ladra», lanciata dalle associazioni Libera e Gruppo Abele sul territorio nazionale.

Quanto si deve ancora fare —

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cui affidare la cura dei percorsi di legalità da attivare nell’anno scolastico di riferimento. Il gruppo dei referenti e i gruppi di progetto si incontrano periodicamente per confrontarsi sul lavoro e per decidere insieme i dispositivi educativi che le scuole metteranno in atto, secondo modalità autonomamente definite. Nel suo primo anno di vita la rete ha organizzato un seminario sulle pratiche di educazione civile e ha scelto come dispositivo educativo il tema della Memoria delle vittime innocenti della criminalità organizzata. Le scuole hanno dunque attivato laboratori curricolari sul tema, con un elaborato finale che è stato socializzato in occasione della manifestazione pubblica presso il Teatro Supercinema di Chieti, organizzata di concerto con la Prefettura. Vi ha preso parte con una testimonianza anche il figlio del giudice Emilio Alessandrini, uomo della nostra terra assassinato durante gli anni di piombo. Il lavoro pedagogico sulla Memoria e sull’Impegno è stato declinato differentemente dalle singole scuole e ha avuto come riscontro un forte impatto emotivo presso i ragazzi. Sullo sfondo delle storie dei Sullo sfondo delle personaggi, gli insestorie dei personaggi, gnanti hanno aperto gli insegnanti hanno finestre sul diritaperto finestre sul to-dovere di cronaca diritto-dovere di e di critica, sul dovere delle denuncia, sul cronaca e di critica. diritto alla giustizia, sul pizzo, sul mondo delle mafie, sugli atteggiamenti mafiosi. Per mezzo di discussioni guidate, di lavori di gruppo, di lavori individuali, i ragazzi sono stati spinti verso la conoscenza di un fenomeno solo apparentemente lontano, maturando una riflessione e la capacità di dare delle risposte che si esprimono nei loro elaborati: giornali di istituto a tema, rappresentazioni teatrali, video divulgativi, lettere aperte, testi musicali scritti dai ragazzi,cori e narrazioni.Un modo di fare memoria cucito,per così dire,sulla condizione della gioventù,che intercetta nuovi linguaggi più congeniali e più vicini al mondo dei ragazzi e che, in quanto svolto collettivamente, esprime il significato del “noi” che determina le condizioni del cambiamento. Relativamente all’anno scolastico in corso, la rete ha organizzato il seminario sul tema «l’Autorità» attraverso l’attivazione di laboratori in

“Percorsi di legalità” pone al centro della sua attività il tema della cittadinanza attiva in dialogo col territorio.Si prefigge un modello alto di fare scuola che richiede un forte impegno e un grande lavoro di organizzazione. Tenendo conto della sua “tenera” età, tanto è stato fatto e tanto è ancora da fare... Saper collaborare e saper partecipare sono competenze civili sulle quali la rete ha bisogno di misurarsi più di quanto abbia fatto finora. Le piste di riflessione e di buone pratiche a cui la rete può contribuire per migliorare la sua organizzazione si possono concretizzare in due direzioni: il campo della comunicazione e un modello di più ampia condivisione in risposta all’esigenza, coerente con le sue finalità, di portare dentro la scuola tutta l’educazione civile.

Gilda Pescara è docente di Discipline giuridicoeconomiche presso l’Istituto Magistrale Gonzaga di Chieti. È la referente della rete “Percorsi di legalità”.

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Sentieri erranti di antimafia

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«L’antimafia non è ciò che diciamo ai nostri ragazzi, ma ciò che permettiamo loro di sperimentare». Nasce così Amunì: un percorso per guardare la mafia da un altro punto di vista, incontrando chi l’ha incontrata. Il racconto di Salvatore Inguì, che da ventitré anni lavora al Dipartimento di Giustizia Minorile. di Salvatore Inguì

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a mafia da queste parti gode di molta popolarità. In questa parte occidentale della Sicilia la mafia è mito e leggenda. Leggenda nel senso sublime del termine. In questa parte della Sicilia (e non solo, ma io abito in questa) la mafia, comunque, è affascinante, anzi… seducente. 30 aprile 2013 Nell’aeroporto di Trapani attendo l’imbarco con un gruppo di ragazzi dell’area penale, con i quali saremmo andati per cinque giorni a Tezze sul Brenta, in provincia di Vicenza. Per ingannare l’attesa mi aggiro tra gli scaffali della libreria, guardando libri e riviste. Riccardo mi tallona e a un tratto lo sento esclamare: «Belloooo! Fiuuuuu!». Con impeto afferra un grosso volume, mirandolo e rimirandolo, avvicinando e allontanando la copertina dal suo viso. Il suo entusiasmo mi sorprende. Mi avvicino, curioso di conoscere i gusti letterari del mio giovane amico. «Questo sì che è un bel libro. Lo possiamo comprare?». In copertina campeggia la foto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino, la primula rossa, il nuovo capo dei capi di Cosa nostra. «Riccardo, conosci questo libro?».

→ Manifestazione delle Agende Rosse a Roma, 26 settembre 2009. (Credit: www.flickr.com).

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abbia inculcato loro, ma perché ne hanno fatto esperienza. Lo stesso si può dire per i ragazzi di Napoli, anzi, come puntualizzano loro, di Scampia. Come se fosse una città a sé stante. E loro, i giovani di Scampia, hanno documentato la vita nel quartiere “delle vele”, chiamato così per via delle case costruite in tale bizzarra forma. Il loro quartiere rivisto, però, con gli occhi di chi deve raccontare, e quindi colto in un’ottica differente,nei suoi particolari di bellezza e di orrore. Orrore per la difficoltà a vivere in questa zona senza entrare in contatto con i piccoli boss di quartiere, ultimo gradino della gerarchia camorristica,ma non per questo meno pericolosa, che obbliga i ragazzini ad allenarsi dinanzi allo specchio per farsi venire la faccia truce e iniziare a scimmiottare i guappi dell’immaginario condiviso.

Testimoni e protagonisti —

Questi ragazzi lasciano dunque i loro territori e scoprono di essere testimoni e, al tempo stesso, protagonisti: sono loro a illustrare, con le loro foto e le loro relazioni, le proprie condizioni di vita e i propri rapporti con le rispettive mafie. «Riccardo, scusa, ti ricordo che le pale eoliche che hai visto e che stiamo andando a raccontare agli amici del Nord, e che tu hai detto che fanno schifo già solo a guardarle, sono quelle che hanno permesso di accumulare miliardi di euro proprio a Matteo Messina Denaro». «Ci criristi. Ti pigghiava pù culu. Vulìa viriri soccu mi dicivi… U sacciu, u sacciu, oramai, iddu si fici i miliardi e ai puvireddi un ci retti mancu un centesimo… ». Lo guardo con lo sguardo un po’ torvo. Riccardo mi sorride, prende il libro e lo rigira sul lato opposto della copertina sullo scaffale. «Oramai mi fa schifu». Matteo Messina Denaro oramai gli fa schifo, a lui come a tante altre decine di ragazzi che abbiamo voluto accompagnare in un percorso che consentisse loro di conoscere realmente la mafia. Di mostrare il suo vero volto. Lavoro per il Dipartimento di Giustizia Minorile da circa ventitré anni, e nella quasi totalità dei ragazzi che ho incontrato è stato evidente il loro grado di apprezzamento verso gli uomini d’onore, grazie a una capacità di marketing e di rappresentazione di sé che gli uomini della mafia hanno saputo veicolare. Per i ragazzi

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«No!». «E allora come fai a sapere se ti piace?». «A mia mi piace iddu!». «A te piace lui! Comunque questo libro non parla bene di lui. Questo libro è contro di lui». «Allura lu posu subbitu». Riccardo sta partecipando, insieme ad altri cinque giovani, a un progetto che abbiamo chiamato Forum della legalità.Siamo in viaggio verso Tezze, dove ci congiungeremo con un altro gruppo di ragazzi e ragazze provenienti da Napoli, quartiere Scampia. Condivideremo un’esperienza di viaggio (sia i ragazzi del trapanese che quelli di Napoli non sono mai usciti dalla loro provincia di residenza) e ci racconteremo le nostre storie personali. Ma non solo. Racconteremo ai cittadini di Tezze e agli studenti di un istituto professionale, e ad altri giovani del posto,le bellezze delle nostre terre e anche gli scempi provocati delle organizzazioni criminali mafiose. I ragazzi siciliani e quelli napoletani hanno lavorato, infatti, per circa tre mesi alla lettura del loro territorio e hanno prodotto una documentazione fotografica. Quelli di Marsala (con i quali ho lavorato io) si sono concentrati sulle bellezze archeologiche che affiorano dal sottosuolo, abbiamo passeggiato lungo la costa della laguna dello Stagnone, scoprendone le bellezze paesaggistiche e gli aironi e i fenicotteri, ma abbiamo anche trovato case costruite sulla spiaggia, comprendendo come queste costruzioni abbiano rubato alla collettività la possibilità di fruire I ragazzi hanno tanta bellezza a compreso il senso del bene di beneficio di pochi. comune, collettivo, e del E ancora, abbiamo disvalore della mafia, di scarpinato per le vallate del trapaCosa nostra. nese scoprendo le belle e dolci colline dell’entroterra,violentate da centinaia di mostruose installazioni di pale eoliche,molte delle quali non funzionanti o, addirittura, non collegate a nessuna centrale di trasformazione energetica. E i ragazzi hanno guardato, fotografato, commentato, incontrato esperti, ragionato. Alla fine hanno compreso il senso del bene comune, collettivo, e del disvalore della mafia, di Cosa nostra, che si muove in dispregio della bellezza, pur di accumulare ricchezze economiche e di potere. Conclusioni, queste, cui sono arrivati i ragazzi stessi, non perché qualcuno le

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questi uomini sono di rispetto, d’onore, leali, giusti, forti, coerenti, di parola. E a queste affermazioni sono arrivati prima ancora delle proiezioni di sceneggiati e film di discutibile capacità educativa. Attraverso momenti di incontro, di gioco, di progettazione, non è stato difficile coinvolgere, di volta in volta, gruppi di ragazzi, in dibattiti e discussioni sul tema della mafia. Anzi, orgogliosamente, alcuni rivendicavano vicinanze abitative con soggetti riconosciuti come boss o killer. Orgogliosamente vicini di casa o, semplicemente, concittadini. Quando questi ragazzi affermano: «La mafia è lo Stato, la mafia porta lavoro, lo Stato porta povertà, la mafia porta rispetto…», un educatore come pensa di controbattere? Come pensa di poter essere credibile? Alle mie parole di non condivisione, le loro risposte erano di scherno, di chi la sapeva più lunga di me.

Percorsi di legalità —

Così nasce l’idea di far incontrare questi giovani con chi, con la mafia, ci ha avuto a che fare sul serio, e non leggendola sui libri ma conoscendola sulla propria pelle. Il percorso che abbiamo proposto ai ragazzi è stato un cammino a tappe. A ogni tappa un luogo, una storia, una persona, un racconto, una testimonianza. «Qui siamo a Valderice e hanno ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. Vi presento sua figlia Marene, che aveva 8 anni quando le hanno ucciso il papà». «Qui invece hanno ucciso Mauro Rostagno, era un giornalista che parlava con la gente. Questi erano i ragazzi, allora tossicodipendenti, che erano in comunità e che lui aiutava a uscire dalla droga». «Questo posto si chiama Pizzolungo, lungomare di Trapani. Un’autobomba per uccidere il giudice Carlo Palermo ha invece disintegrato un’auto con dentro una mamma, Barbara Rizzo, e i suoi gemellini di 6 anni, Giuseppe e Salvatore Asta. Margherita Asta ha così perduto la mamma e i fratellini a 10 anni, e adesso vi racconta la sua storia e di come è cresciuta da sola». «Qui, invece, siamo a San Giuseppe Jato. In questa stalla hanno tenuto per gli ultimi mesi, dopo due anni di prigionia, il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino. Hanno sequestrato Giuseppe quando aveva 12 anni, lo hanno strangolato e sciolto nell’acido a 14 anni. Quattro uomini, uomini d’onore… d’ono-

re. Qui non abbiamo nessun parente che vi può raccontare alcunché. Qui invece potete conoscere gli ultimi momenti di vita di Giuseppe stando in questa stanzetta di 2 metri per uno,guardando questa rete arrugginita, chiudendo gli occhi e immaginando il buio che lo avvolgeva. Qui vi parla il terreno circostante, dove Giuseppe è stato “sversato” dal bidone che conteneva il suo corpo disciolto e l’acido che lo aveva corroso». Io non devo dire nulla.Devono ragionare loro. Devono pensare con la loro testa. Devono confrontarsi con le loro certezze. «Ma io sapevo che la mafia non uccide i bambini…» e questa è la prima certezza che inizia a sgretolarsi. «Quattro uomini, quattro persone adulte, contro un bambino. E questi sono gli uomini d’onore? A me manco uomini mi pareno». «Dopo tutte queste storie che ho sentito. Dopo tutte queste persone che ho incontrato, di nascosto ho pianto. Io la mafia «Ma io sapevo che così non l’avevo vila mafia non uccide i sta mai. Mi sembrava bambini»: questa è la un’altra cosa». prima certezza che ora L’antimafia non è ciò che diciamo ai noinizia a sgretolarsi. stri ragazzi, ma è ciò che permettiamo loro di sperimentare. L’antimafia non è una gara di slogan, ma fornire occasione di visioni, di far vedere la mafia come qualcuno non l’ha vista mai. Dopo questo cammino, i ragazzi diventano “educatori dei pari” a loro volta, e quando arrivano quelli “nuovi”, che parlano bene della mafia, sono loro a dire: «Ma voi che ne sapete? Davvero pensate di conoscerla? Di conoscerla veramente?». Siamo nel 2008 quando propongo a uno dei gruppi che sto seguendo di andare a Napoli, perché nella città partenopea Libera ha organizzato per il 21 marzo la Giornata della Memoria e dell’Impegno per tutte le vittime innocenti delle mafie. «Viaggiare? Partire con la nave? E chi l’ha fatto mai? Già solo per questo diciamo sì! Ma che andiamo a fare?». Spiego che incontreremo tante persone, tanti giovani che hanno deciso di dedicarsi alla lotta contro la mafia e che il 21 marzo vengono ricordate, una ad una, tutte le persone uccise. A Napoli non abbiamo portato striscioni o bandiere. Siamo sbarcati, però, assieme a tanti giovani siciliani,colorati e con diverse bandiere al

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← Napoli, Quartieri Spagnoli, scena di strada. La zona è profondamente degradata, sede di traffici illeciti governati dalla Camorra. (Credit: Samuel Aranda, Corbis).

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raccontato le loro storie di devianza e i loro passi nell’avvicinarsi a una diversa percezione del mito dell’uomo d’onore. Dieci delinquentelli che adesso spiegano a un’aula affollata che la mafia, per loro, è una cosa schifosa e spiegano, soprattutto, come siano arrivati a questa conclusione. È bello vederli così orgogliosi del loro cammino,delle loro conquiste.E lo dicono: «Non ce l’ha insegnato nessuno, ci siamo arrivati noi da soli. Gli amici di Libera e l’assistente sociale che ci ha dato il giudice ci hanno solo aiutato a incontrare altre persone, a farci parlare con loro e a farci parlare tra di noi». E mentre il progetto Amunì procede, inizia anche il “processo Il progetto Annemu di contaminazione”: i ha portato a Palermo colleghi del servizio soe a Marsala un gruppo ciale per i minorenni di giovani liguri per far di Genova hanno dato conoscere loro storie di vita al progetto Annemu e, con un percorso mafia e di antimafia. simile a quello siciliano,hanno portato a Palermo e a Marsala un gruppo di giovani liguri per far conoscere loro storie di mafia e di antimafia.E soprattutto storie di loro coetanei, con percorsi giudiziari simili, i quali si interrogano e ci interrogano su come sconfiggere la mafia, partendo,come scriveva nel suo diario Rita Atria, dal riconoscere quel po’ di mafia che alberga in ciascuno di noi.

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vento. I ragazzi si confondono dentro al corteo che muove verso il luogo da cui partirà la manifestazione. Sono sorridenti, si guardano attorno, si sentono quasi fieri di far parte di un gruppo e si sentono quasi a disagio per non avere alcuna bandiera. Mi chiedono dove possono trovarne. Qualcuno li ha sentiti e offre loro la possibilità di portare uno striscione. Loro prima lo guardano, lo leggono. «La mafia è una montagna di merda». Si ricordano che abbiamo già parlato di quel giovane, come si chiamava?!, Peppino, sì, Peppino. Si illuminano. Anche loro sanno. Afferrano lo striscione e sembrano partire all’attacco. Sul lungomare incontriamo altre migliaia di persone. Ma quanti saremo? Si sparge la voce che siamo circa 150 000. E loro ne fanno parte. Riecheggiano i nomi delle vittime. All’inizio sembrano non farci caso, mai poi si fanno più attenti. Alcuni nomi li riconoscono, degli altri chiedono chi fossero. Arriviamo in piazza del Plebiscito e ancora riecheggiano i nomi. «Minchia quanti sono». Da questa esperienza ha preso avvio il progetto che abbiamo chiamato Amunì, che in siciliano è un esortativo ad andare, a darsi una mossa. E così, ogni anno ragazzi nuovi, diversi, ma accomunati dal loro iniziale tifo e sostegno alle mafie,partecipano attivamente, in piccoli gruppi, a questo percorso per guardare la mafia da un altro punto di vista, incontrando chi l’ha incontrata. E così siamo andati a Genova nel 2012 e a Firenze nel 2013. E sono diventati loro testimoni, e sono diventati loro protagonisti, quando hanno tenuto un incontro alla facoltà di Psicologia all’Università di Firenze, dove hanno

Salvatore Inguì è assistente sociale presso l’Ufficio Servizio Sociale per minorenni di Palermo. È referente provinciale (Trapani) di “Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.

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La responsabilità secondo don Peppe

di Francesco Diana

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l 19 marzo 2014 saranno passati 20 anni dall’uccisione di don Giuseppe Diana, morto per amore del suo popolo, e Casal di Principe si prepara ad accogliere migliaia di cittadini che marceranno per le vie del paese. Ricordare don Peppe Diana vuol dire tramandare alle nuove generazioni il suo straordinario impegno, Il 19 marzo Casal di ma anche far emergere appieno la sua figura Principe ricorda don Peppe di sacerdote attraverso le storie personali e le Diana, ucciso 20 anni fa esperienze vissute da chi è stato al suo fianco. È in questo solco di liberazione e di rinascita che si dalla camorra. inseriscono tutti i percorsi di responsabilità sociale che la sinergia composta dal “Comitato don Peppe Diana” e dalla delegazione casertana dell’associazione “Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” promuove da circa 10 ↓ anni nelle scuole di ogni ordine e grado. Attraverso la continua ricerca Una di nuove strategie comunicative per rendere efficaci tali interventi, si manifestazione in ricordo di don è deciso di propendere verso metodologie che oltre a fornire elementi Peppe Diana. teorici di riflessione, mirano all’accompagnamento attivo dei ragazzi (Credit: www. sul territorio. Diversi gli obiettivi comuni: avvenire.it).

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Essere responsabili significa saper dare delle risposte, essere in grado di comprendere la necessità di darle nel rispetto del contesto e delle persone, comprendere che la responsabilità di ognuno diventa corresponsabilità se vista in dimensione comunitaria.

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la costruzione della memoria di don Giuseppe Diana, contestualizzando la sua vita di persona comune in una realtà problematica; la realizzazione di azioni educative e didattiche sui temi dell’impegno civile e sociale per una cittadinanza attiva; la promozione nelle nuove generazioni della speranza, dell’impegno e dell’assunzione di responsabilità.

Formazione etica e sociale —

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La socialità, dimensione costitutiva dell’essere umano, si riferisce alla capacità costruttiva di vivere insieme agli altri, condividendo impegni e vincoli, istanze, progetti e opere sulla base dell’insieme di valori e norme che regolano la vita della comunità sociale. La socialità, si costruisce attraverso complesse dinamiche interpersonali, conflitti cognitivi e affettivi, articolati da processi di interscambio e comunicazione, attraverso interiorizzazione, da parte di ciascuno, di un apparato condiviso di comportamenti e consuetudini. In tal senso, la socialità appare intrecciata alla eticità, alla condivisione sociale di vincoli e di responsabilità nei confronti degli altri, delle istituzioni e dell’ambiente.Socialità ed eticità si incontrano nel campo della solidarietà sociale. Alla luce di questa categoria si cominciano a valorizzare nuovi diritti, dai diritti umani ai diritti della natura.L’educazione etico-sociale si sostanzia, nell’impegno a fare acquisire atteggiamenti di solidarietà e di rispetto dell’altro, di valorizzazione delle affinità e degli interessi comuni, di riconoscimento delle differenze e delle peculiarità individuali e culturali. L’educazione alla legalità democratica ha ampliato sempre di più i propri confini divenendo il comune denominatore di esperienze educative apparentemente diverse fra loro. L’educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, la promozione di comportamenti prosociali e altruistici, l’educazione alla convivenza civile, la prevenzione del bullismo, la tutela dei diritti delle minoranze, l’incontro fra culture diverse,la pace,l’uso responsabile del denaro, il rispetto delle regole, l’approfondimento sulla conoscenza delle mafie, la cultura dell’antimafia, della memoria, la legislazione antimafia, i comportamenti “etici” nello sport e il problema del doping

sono temi e aree di intervento che rappresentano, nei fatti, le varie declinazioni attraverso cui l’educazione alla legalità trova percorsi di discussione e confronto. Due i pilastri su cui poggia la filosofia di intervento di Libera nelle scuole: la prosocialità e la pedagogia legale. La prima implica quei comportamenti che, senza la ricerca di ricompense esterne, favoriscono altre persone, gruppi o fini sociali e aumentano la probabilità di generare una reciprocità positiva, di qualità, solidale nelle relazioni interpersonali o sociali. La seconda si ritiene raggiunta quando la persona impara a seguire una norma non in quanto imposta da una qualsiasi autorità (genitore, insegnante, datore di lavoro, eccetera), ma piuttosto perché sente che quel comportamento deontologico è l’unica via che gli permette di essere uomo in mezzo ad altri uomini. Nell’ottica del learning by doing, ogni laboratorio di cittadinanza attiva è soprattutto un grande cantiere didattico in cui i partecipanti sentono, comprendono, parlano, realizzano. Per una reale acquisizione di pratiche democratiche nella vita Si propone alle quotidiana è necessascolaresche di vivere rio attivare un procesun’esperienza di so di condivisione e di interiorizzazione delle protagonismo reale alla regole, che non sono lotta antimafia. più imposte dall’alto ma sono forme di tutela dei propri diritti e di quelli altrui. Da un punto di vista formativo l’apprendimento esperienziale risulta essere la metodologia più idonea a questo tipo di obiettivi. Le esperienze concrete sono un “linguaggio” che tutti possono afferrare e permettono di incidere più in profondità rispetto a quelli trasmessi a parole. Contribuire a formare cittadini responsabili vuol dire, in maniera costante e continua, acquisire sempre nuove competenze per far comprendere, conoscere e promuovere la cultura della convivenza sociale, delle regole del vivere civile, del rispetto, della partecipazione e della responsabilità. Ormai da tempo si è compreso la necessità e la “forza preventiva” di educare alla responsabilità e alla cittadinanza. Le attività di educazione e formazione sono cresciute e si sono sviluppate differenziandosi di volta in volta in relazione agli obiettivi specifici, ai contesti territoriali, alle collaborazioni:

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56 ↑ La bandiera di “Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.

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stimolare i ragazzi a osservare criticamente la realtà in cui vivono; promuovere la cooperazione e la solidarietà; invitare gli individui a interrogarsi sulle contraddizioni, sui problemi che li circondano; riflettere sul perché di alcune dinamiche sociali locali; cercare di individuare le responsabilità di chi non fa o non fa bene e proporre suggerimenti/soluzioni; re-impadronirsi del territorio in cui si vive; facilitare la riflessione sul bene comune; promuovere la libera espressione nel rispetto dell’espressione altrui; partecipare alla vita sociale, alla costruzione della realtà.

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Il riutilizzo dei beni confiscati —

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I beni confiscati sono stati simboli del potere dei camorristi su territori da loro dominati. Il loro utilizzo da parte delle istituzioni e della società civile organizzata è il segnale della perdita di controllo e di prestigio di questi criminali, proprio nel loro stesso ambiente. Diventa, quindi, un indicatore della crescita di comunità alternative alla camorra; la prova reale del processo di cambiamento in atto nelle terre di camorra. I progetti di educazione alla legalità e alla responsabilità sociale attraverso il riutilizzo sociale dei beni confiscati, sono stati gli strumenti più efficaci di cui si sono dotati la delegazione casertana di Libera e il “Comitato Don Peppe Diana” nel corso di questi anni per portare avanti i loro programmi. Questi percorsi vogliono aiutare i ragazzi a riflettere sulle azioni, i modi e le

finalità delle organizzazioni criminali che ostacolano lo sviluppo di un territorio e favoriscono la sperequazione sociale. Attraverso la storia di un proprietà confiscata alla mafia, i ragazzi hanno modo di conoscere che cosa significhi il blocco di un bene e la sua restituzione alla collettività, di quale sviluppo venga generato prima e dopo la confisca. Le attività presentate favoriscono la creazione di un rapporto tra la scuola e le cooperative di riutilizzo del bene confiscato, attraverso una conoscenza diretta. Inoltre aiutano i ragazzi a diventare protagonisti di uno studio di proposte relative all’uso più indicato che si potrebbe suggerire per il riutilizzo di nuovi beni confiscati.

Formazione e testimonianza —

La modalità utilizzata permette agli studenti di sentirsi protagonisti dell’attività, essi infatti partecipano alla progettazione, all’organizzazione e alla stesura delle fasi di lavoro di un dossier che verrà presentato con modalità differenti, sia nella scuola sia nella città in cui si è inseriti. Lo studio del personaggio e delle azioni da lui svolte saranno motivati dall’obiettivo della trasmissione del sapere che favorirà nei ragazzi un’assunzione di responsabilità diversa nei confronti del compito assegnato. Si sottolinea, infatti, che una motivazione adeguata può davvero spingere i ragazzi verso la conoscenza di un fenomeno apparentemente lontano dalla propria esperienza. Salvatore Nuvoletta, carabiniere. Federico Del Prete, sindacalista. Franco Imposimato, impiegato. Attilio Romanò, informatico. Alberto Varone, commerciante. Domenico Noviello, imprenditore. Sono questi alcuni nomi simbolici, ritratti sconvolgenti ma non rassegnati.Perché anche nella Gomorra assatanata di soldi e di potere arriva una sentenza giusta emessa “in nome del popolo italiano”; c’è qualcuno, un insegnante, un giornalista, una studentessa, un prete, che difende a testa alta i valori dell’Italia civile. Libera ha redatto un elenco con oltre 700 nomi di persone che hanno pagato con la vita il prezzo del loro impegno nel contrastare la prepotenza mafiosa, ovvero le cui vite, per casi fortuiti, sono state travolte dalla ferocia criminale. Attraverso questo elenco, disponibile sul portale dell’associazione è possibile rintracciare i nominativi di una o più vittime di mafie, sulle quali

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iniziare il percorso didattico. Ricostruire una storia, quindi anche per evidenziare carenze o possibili prospettive per la propria città, per sottolineare i punti critici che interessano la sicurezza dei cittadini e per capire infine che è importante promuovere l’impegno di tutti a scapito di comportamenti di delega o indifferenza.

Le “Terre di don Diana” —

Un progetto realizzato —

Si tratta di un progetto formativo finanziato dal MIUR, che ha coinvolto 25 istituzioni scolastiche della provincia di Caserta (secondarie di I e II grado) realizzato nell’a.s. 2009/2010. Abbiamo svolto laboratori nei quali i giovani, con gli adulti, potessero conosce-

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Francesco Diana è docente in Psicologia scolastica; si occupa di formazione per l’associazione Comitato don Peppe Diana.

Approfondire —

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Dal 2009 abbiamo proposto a tante scolaresche di vivere un’esperienza di protagonismo reale alla lotta antimafia. Un viaggio che propone un modo nuovo e diverso di conoscere e di imparare,perché è visita di istruzione in un territorio vissuto in chiave equo-solidale, in compagnia di persone impegnate nell’economia solidale che sperimentano e propongono le buone pratiche del consumo critico. Un’esperienza importante non solo per apprendere l’interculturalità, la valorizzazione dei luoghi, la salvaguardia della memoria e delle risorse. Essere a fianco degli operatori delle cooperative, che con enorme sforzo si impegnano nella difficile ma fondamentale opera di restituzione dei beni confiscati alla collettività diventa un modo per contrastare in concreto la camorra. I programmi proposti sono fatti di incontri con persone che con i loro racconti ed esperienze di vita solleciteranno i partecipanti a riportare lo stesso impegno anche nei loro territori di provenienza. Non solo beni confiscati, ma anche visite guidate nei luoghi di interesse della provincia di Caserta,da Aversa normanna al millenario santuario di Villa di Briano, fino ai piccoli incontaminati borghi del casertano, con lo scopo di far conoscere paesi e luoghi che per troppo tempo sono stati dimenticati ed oltraggiati da chi li ha rovinati e da chi si è arricchito sulle rovine. Paesi, gente, popoli che ora desiderano farsi ri-conoscere in un’ottica di riscatto e di cittadinanza attiva perché è questa che vivono.

re l’economia sociale, nella quale si producono beni e servizi di pubblica utilità e con la quale si promuove uno sviluppo sostenibile, dove al centro c’è l’uomo e l’ambiente nel quale vive. Un’economia che, su territorio a dominio camorrista come quello dell’agro-aversano, può essere un valido antidoto alle logiche e alla cultura dell’economia criminale. I laboratori in particolare si sono focalizzati sugli obiettivi di far conoscere la produzione di beni e servizi di utilità sociale come antidoto all’economia criminale; di sensibilizzare all’uso responsabile dei beni comuni, in particolare i beni confiscati alla camorra; di far acquisire competenze pratiche agli studenti, usando come case history i beni confiscati nella provincia di Caserta.

• AA.VV., Libera Formazione, Egea Editore, Torino, 2007. • F. Betto, L. Ciotti, Dialogo su pedagogia, etica e partecipazione politica, Ed. Gruppo Abele, Torino, 2004. • L. Ciotti, La speranza non è in vendita, Giunti Editore, 2011. • T. Cioffo, F. Diana F., A. Tommasino, Fine Pena mai, Edizioni La Meridiana, Bari, 2013. • R. Sardo, Al di là della notte, storie di vittime innocenti di camorra, Tullio Pironti, Napoli, 2010. • G. Solino, La buona terra. Storie dalle terre di don Peppe Diana, Edizioni La Meridiana, Bari, 2011.

• www.dongiuseppediana.com • educazionelibertaria.org • www.liberacaserta.org • www.cosenostre.info • www.visiterre.it • www.antiracket.info • www.gruppoabele.org

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Un Mammut a Scampia

di Giovanni Zoppoli

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L’educazione alla legalità nell’esperienza del centro Mammut di Scampia, che applica princìpi di psicologia e pedagogia attiva per rispondere a una spiccata eterogeneità culturale, attuando modalità di cooperazione nell’appropriarsi degli spazi pubblici: luoghi fisici come occasioni di esercizio di cittadinanza.

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lvira è emozionata, a intermittenza mi lancia sguardi per chiedermi quando tocca a lei, sguardi che si fanno sempre più insistenti. È il 7 settembre 2013, siamo al Museo Archeologico di Napoli, nella sala conferenze che ospita la tavola rotonda “Scattiva, incontri conviviali della scuola attiva”. Nella sala affollata ci sono molte delle maestre, dei maestri e degli educatori che abbiamo incontrato in questi sette anni di Mammut, quasi tutti napoletani ma anche qualcuno proveniente da Roma, Verona, Pistoia e altre città italiane. C’è anche il medico Gianni Grasso, che sta tentando di trasformare l’ex area NATO piena di eternit di Bagnoli in spazio comunale destinato a educazione e ecologia. Gianni è nato in quelle terre, residuo di campagna napoletana oggi presidiato da pochi superstiti, tra cui suo zio ultraottantenne e ultralavoratore. È da qualche anno che il medico/maestro coinvolge associazioni e scuole per strappare queste zone alla speculazione edilizia, e ora che la NATO sta abbandonando i terreni confinanti cerca di fare in modo che il Comune rilevi questa estesa area, trasformandola da fabbrica di morte in scuola di vita e agricoltura. Al Museo stamattina ci sono anche i Comboniani, che lavorano a Castelvolturno con i migranti, tentando di trasformare la pedagogia della carità in scuola di qualità e proprio dall’interno di un’opera missionaria. Antonio, Filippo, Fulvio e i loro compagni hanno

↑ Scampia, Napoli, foto di classe tra i rifiuti. (Credit: Ciro Fusco, ANSA, Corbis).

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capito da un po’ che non è possibile salvare nessuno dal ghetto creando altri ghetti, e così fanno doposcuola e attività di animazione territoriale a partire dai moltissimi migranti che popolano quelle zone per trasformare scuola e territorio. Con un obiettivo: tentare (donchisciottescamente) di avviare la bonifica (almeno quella delle coscienze) di questa fetta di Campania devastata dagli affari internazionali. Ancora una volta a partire dal fare scuola.

Il “Mito” del Mammut —

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“Scattiva” è la seconda edizione della tavola rotonda organizzata dal Centro territoriale di Scampia come condivisione del lavoro svolto durante l’anno con il “Mito” del Mammut. Sette anni fa ci trovammo nel bel mezzo di una delle più grandi piazze della città: piazza Grandi Eventi di Scampia, una spianata di cemento desolata e zeppa di chiazze di sangue e delle siringhe di chi ci andava a bucarsi per far convergere quanta più energia possibile su uno spazio tanto malconcio. Attorno ai miti di creazione dei sette continenti accettarono di contribuire all’impresa scuole elementari, medie e superiori, ludoteche, carceri (come quelli dell’isola d’Elba), centri di salute mentale e molte altre realtà della Campania e del resto d’Italia. Il gioco è semplice: a partire da alcuni capisaldi della pedagogia attiva chi si iscriveva doveva intrecciare la didattica di ogni giorno con il recupero di uno spazio pubblico, adottando strumenti e percorsi della ricerca-azione. Il “Barrito”, la rivista pedagogica del Mammut, era lo strumento di raccordo,dove alunni,maestri e scrittori anche noti (come Goffredo Fofi,Grazia Honegger Fresco, Stefano Benni, Miguel Benasayag e molti altri) potevano mettere in piazza scoperte, bagagli teorici, dubbi ed esperienze su campo. Oltre ai numeri del “Barrito” e alla pubblicazione Come partorire un Mammut senza rimanerci schiacciati sotto (ed. Marotta & Cafiero, Napoli, 2011), dalla ricerca-azione partita nel 2007 sono nate molte attività, coinvolgendo più di 50 spazi pubblici nel lavoro di recupero urbano e portando alla nascita di esperienze importanti, come quella appunto del Centro territoriale di Scampia. La “Scattiva” al Museo è il momento di lancio della VII edizione del Mito e ha come tema la distanza fra nobili enunciati pedagogici e azioni su campo. Partendo dalla constatazione che molti dei termini

cardine della pedagogia attiva sono stati fatti propri anche dalla scuola ufficiale, la criticità da sbloccare sta proprio nella mancanza di ricadute sulla vita d’aula di tutti i giorni. Sull’importanza dell’affettività e dei suoi surrogati in pedagogia si fa ormai un gran parlare, e difficilmente si troverà un qualche educatore che ne neghi apertamente l’importanza. Come su concetti quali creatività, empowerment, valutazione sul processo e non sulla persona… Purtroppo i molti anni di esperienza in molte regioni d’Italia ci insegnano che nella maggior parte dei casi la normale giornata d’aula continua a svolgersi dietro ai banchi con una maestra che impartisce sapienza cognitiva e alunni passivi, attorno a un sistema di premi e castighi di impronta prebeccariana. Elvira ha scelto di stare a Scampia dove insegna da molti anni. Nella sua classe, una quinta elementare, c’è più di un alunno pluribocciato e anche lei, come quasi tutti in quella mattinata di settembre al Museo archeologico, nel proprio intervento parla dei nessi fra didattica e salute. Nella sala conferenze del Museo c’è anche Giulia Valerio, etnoclinica che ha parlato di quanto la psicologia a scuola possa diventare gabbia anziché liberare. La gravità della situazione della terra dei fuochi sta per scoppiare anche mediaticamente e tutti i partecipanti ne sono fortemente consapevoli. In più interventi viene sottolineato uno degli aspetti peggiori della faccenda: a seguito del grave disastro ambientale oggi in Campania ci si sente più sicuri in città che in camL’obiettivo è pagna. Nelle aree verdi, da sempre tentare di avviare considerate luogo la bonifica di questa di risanamento, fetta devastata di oggi non sai cosa Campania. Ancora ci hanno sotterrauna volta a partire to e quindi meglio starne alla larga. dal fare scuola. Se smog e strade di cemento diventano i luoghi più salutari per i bambini,qualche problema c’è.Molti degli interventi della mattinata vertono anche sui “danni” causati alla salute da certi modi di fare lezione. Nasce così la mappa di ricerca del “Mito” del Mammut VII edizione, esplosa attorno alla domanda/ipotesi principale: come trasformare la scuola e il territorio in luoghi che generano salute anziché malattia. «Il lunedì era parente al sabato, le ho pro-

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← Scampia, Napoli. (Credit: Silvia Morara, Corbis).

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vate tutte ma niente: il lunedì veniva solo una metà classe. Da quando abbiamo cominciato col “Mito” al Mammut di lunedì ci sono tutti! E non sia mai che le mamme non li portano…» Siamo in una delle mattinate in cui le classi partecipanti al “Mito” vengono a trascorrere il loro tempo curriculare nei locali del Centro territoriale nella piazza Giovani Paolo II, ed Elvira ci racconta con entusiasmo questo retroscena. Sette anni fa facemmo fatica a far iscrivere le classi al “Mito”: anche a patto di andare noi da loro con nostri operatori, le risposte erano sempre di diffidenza e ostilità contro qualsiasi cosa somigliasse al “progettificio”. Di venire nella “piazza del male”, manco a parlarne. Oggi sono le classi a venire al Mammut e siamo costretti a dire no a molte delle maestre che vorrebbero fare un’esperienza del genere. E se le cose si sono invertite così vistosamente non è certo perché abbiamo attrezzature particolari o spazi avveniristici, né perché gli operatori del Mammut siano particolarmente belli o bravi.L’unica cosa che abbiamo è la passione autentica per una sperimentazione attorno al metodo, portata avanti senza paura di fare scoperte che scombussolano.

Il racconto di Elvira —

Con la classe di Elvira abbiamo cominciato il lavoro in settembre, quando con lei e i suoi bambini abbiamo condiviso la mappa di ricerca emersa nel convegno “Scattiva”. Oltre all’intreccio salute/territorio/didattica non avevamo in mente niente di precostituito. Una delle premesse principali della nostra sperimentazione attorno al metodo è accettare

l’imprevedibilità della ricerca: avere cioè strumenti e modalità di lavoro ben chiari, ma poi lasciare che sia la ricerca stessa a portare anche verso mete non attese. Fu proprio nel cerchio di discussione con la classe di Elvira nel mese di novembre che emerse uno dei nuclei principali del lavoro di quest’anno. L’archetipo della porta, utilizzato come sfondo integratore del “Mito” VII,in questa classe (composta da molti alunni con genitori in carcere) diventò in quella occasione uno spunto di riflessione attorno alla detenzione. I cerchi di discussione sono per noi il momento chiave di ciascuna giornata di I cerchi di discussione lavoro, ispirati a cirsono il momento chiave coli di ragionamento scientifico e filosofico. di ciascuna giornata Il clima che si crea è di lavoro, ispirati a qualcosa di assolutacircoli di ragionamento mente emozionante. scientifico-filosofico. L’assenza di giudizio fa del cerchio di coetanei una piscina di accoglienza senza uguali, luogo in cui i bambini riescono quasi sempre a raccontare e a meditare collettivamente. In quella mattina d’inizio percorso gli alunni di Elvira ragionarono sulle molte ingiustizie che si annidano attorno alla porta del carcere, proponendo di fare di quella porta uno dei contesti da trasformare attraverso il “Mito”. La narrazione con ombre cinesi del mito della caverna di Platone, il gioco a squadre divisi in solidi, liquidi e gassosi, la comunicazione teatrale, la pittura e giochi all’aperto sono stati gli strumenti usati finora per lavorare alla mappa di ricerca sviluppata con Elvira (abbiamo “estratto” una sottomappa di ricerca con ciascuna delle otto insegnanti che

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Didattica nello spazio pubblico —

Lavorare al recupero di una piazza è senza dubbio un’impresa difficile, almeno quanto quella di migliorare la quotidianità a scuola di bambini e docenti. Quel poco che ci è riuscito in questi anni è proprio perché abbiamo tentato di tenere legate le due cose. Il tentativo della ricerca Mammut oggi è di andare ancora più in profondità, scovando e scardinando punti critici del sistema scuola. Se l’abbinamento spazio pubblico e didattica si è rivelato vincente in questi sette anni, oggi la situazione è ancora più grave e quindi è necessario ampliare il discorso ulteriormente. Il tema della valutazione ad esempio si è rivelato tra i principali spartiacque tra modalità contrapposte di concepire l’educazione. E questo anche grazie anche alla collaborazione con la rivista “Gli asini” che in dicembre ha dedicato un intero numero all’argomento e al lavoro di ricerca-azione fatto per conto dell’ONG Intervita nei centri di Milano, Napoli e Palermo impegnati nel programma di lotta alla dispersione scolastica Frequenza 200 (ricerca raccontata nei quaderni pedagogici “Lenti

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a contatto” da me curati). Classi come quelle di Elvira sono la prova vivente del continuum che c’è tra valutazione a scuola e sistema giudiziario: l’apice di entrambi è il carcere, e questi due mondi hanno molte più contiguità di quanto non si possa immaginare. Pensare al dramma inspiegabile che per un bambino può voler dire avere un genitore in carcere e al fatto che questo sia un tabù (molto spesso anche per il divieto di parlarne da parte dei genitori) nella vita scoIl nostro sistema lastica sembra un’asscolastico insegna surdità, eppure è più o a mettere da parte meno la norma. È il nostro sistema scolastico emozioni e sentimenti che insegna a mettere autentici. da parte emozioni e sentimenti autentici, quelli pulsanti che fanno sbandare programmi e produzioni standardizzate. E così, oggi i bambini si trovano sfasati: “avanti” rispetto a maestre molto puntuali nello sfoggiare termini all’ultima moda su espressività e creatività, ma costretti più di ieri a mettere a tacere quanto realmente bolle dentro di loro. Come ci hanno insegnato maestri quali Freinet,compito della scuola sarebbe semplicemente partire da questa materia viva (emozioni e sentimenti appunto) e darle strumenti e possibilità. È questo che tentiamo di fare con il “Mito” e le altre azioni del Mammut che coinvolgono ragazzi e adulti (come la Ciclofficina, il Mammutbus, i laboratori di break dance, i molti percorsi di formazione ad altri gruppi d’Italia). Partendo prima di tutto da quello che si muove dentro di noi, da quanto ci incuriosisce e ci nutre nella straordinaria impresa di costruire comunità di apprendimento autentiche. Malgrado i molti fallimenti, malgrado l’impossibilità di uscire dalla perenne precarietà, malgrado la nostra infinita impotenza. Saziandoci dell’ordinaria straordinarietà di quello che andiamo scoprendo con i grandi e i piccoli sulle cose dell’universo.

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quest’anno partecipano al “Mito”) e che ha come obiettivi principali l’intreccio fra gli insegnamenti curriculari sugli stati della materia e il miglioramento di un servizio pubblico chiamato “carcere”. Questo percorso con i bambini di quinta elementare si integra con il laboratorio teatrale condotto nel carcere da Maurizio Braucci (generoso animatore culturale napoletano e scrittore noto per le sceneggiature di film famosi come Gomorra), che porterà a una rappresentazione unica dentro al carcere alla quale contiamo di far partecipare anche i bambini. Infine, ultimo pezzo del lavoro con la classe di Elvira è il seminario organizzato per marzo che si propone di riflettere sulle possibilità di migliorare la comunicazione tra dentro e fuori il carcere grazie agli interventi di chi ha già messo in campo azioni significative in questa direzione, come Punzo e Dalisi. Elvira ci ha parlato di quanto il lavoro attorno al carcere, l’aver dato possibilità e legittimazione al racconto anche di questa parte di sé (un genitore in carcere) abbia molto giovato al rendimento curriculare.A ulteriore prova che benessere psicofisico e didattica possono andare d’accordo.

Giovanni Zoppoli è coordinatore del Centro territoriale Mammut, programma nazionale di ricerca e operatività sociale, con sede a Scampia. Il Centro ha sede sotto le colonne di un grande e strano porticato di sei colonne chiamato dagli abitanti del quartiere, per il profilo delle sue forme, ‘o Mammut.

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Per non dimenticare: una rete degli archivi

di Ilaria Moroni e Cinzia Venturoli

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La Rete degli archivi per non dimenticare riunisce oggi più di sessanta realtà - associazioni, centri di documentazione, fondazioni, archivi di Stato, istituti pubblici e privati - che conservano documentazione di interesse contemporaneo relativa al terrorismo, all’eversione e alla violenza politica, agli anni Settanta nel loro complesso e alla criminalità organizzata, in tutti i loro aspetti sociali, civili e politici.

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n collaborazione con il ministero per i Beni e le Attività Culturali abbiamo realizzato il portale Rete degli archivi per non dimenticare che raccoglie il patrimonio di buone pratiche, storie e percorsi, rendendo rintracciabili i tanti documenti esistenti, al fine di incoraggiare il lavoro degli storici di oggi e di domani e di offrire ai cittadini strumenti e documenti per la comprensione della nostra storia recente. Il portale è stato inaugurato il 9 maggio 2011, nel corso della cerimonia del Giorno della memoria, tenutasi al Quirinale. A conclusione del suo intervento, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sottolineato come il portale «varrà a esigere e fare chiarezza, […] perché l’Italia non dimentichi ma tragga insegnamenti e forza» dalle tragedie che si sono abbattute sul nostro Paese.

← In equilibrio sul percorso aereo turistico delle Rock’n’Ropes, a Taupo, Nuova Zelanda. (Credit: Tim Clayton/101010/ Corbis).

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La creazione di una rete, la valorizzazione e la diffusione di documenti e fonti sono punti essenziali per rendere fruibili questi luoghi: gli archivi privati e i centri di documentazione presenti in Italia custodiscono,infatti,un vasto e proteiforme patrimonio (cartaceo, audio, video, fotografico), e la Rete diviene così un luogo fisico e virtuale di lavoro e scambio in cui trovare informazioni e dare visibilità alle singole attività degli aderenti.

Il progetto della Rete —

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La Rete degli archivi per non dimenticare ha tra i suoi obiettivi anche quello di tradurre in azioni didattiche attive e multimediali i contenuti degli archivi e le conoscenze storiografiche legate ai temi della storia contemporanea, della legalità e della cittadinanza attiva. Questo perché crediamo che attraverso la storia si possa attuare una sempre più necessaria educazione alla cittadinanza, ovvero interventi educativi che portino i giovani e gli adulti, i cittadini e i nuovi cittadini, ad acquisire le competenze necessarie per partecipare attivamente alla vita democratica. La storicizzazione del tema della cittadinanza permette, infatti, di seguire sentieri didattici e pedagogici che portino alla formazione di un cittadino consapevole, in grado di confrontarsi e comprendere identità plurime, grazie allo sviluppo dell’analisi critica. Se prendiamo in considerazione la definizione di educazione alla cittadinanza democratica La storicizzazione del che nel 2000 venne tema della cittadinanza approvata dal Consiglio d’Europa, ci renpermette di seguire diamo agevolmente sentieri didattici che conto di come la storia portino alla formazione italiana sia un terreno molto fertile attraverdi un cittadino so il quale perseguire consapevole, in grado gli obiettivi indicati. di confrontarsi e In quel documento si comprendere identità affermava la necessità plurime, grazie allo di preparare i giovani e gli adulti a una partesviluppo dell’analisi cipazione attiva nella critica. società rafforzandone la cultura democratica, e di concorrere alla lotta contro la violenza, la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo aggressivo, l’intolleranza, in modo da contribuire al consolidamento della coesione e della giustizia sociale e del bene comune.

Per anni gli aderenti al progetto della Rete hanno portato avanti questi obiettivi dedicando ampio spazio alla didattica e costruendo una vera e propria sezione dedicata, così da dare visibilità alle iniziative che si stanno promuovendo, presso università e scuole di ogni ordine e grado,per I discenti, studenti trasmettere alle nuove e adulti, hanno generazioni la conol’occasione di ritrovare scenza – senza omissioni e reticenze – del le radici del presente nostro recente passato. e acquisire conoscenze Le iniziative descritte e competenze nella sezione didattica indispensabili per del portale spaziano da leggere l’oggi e per concorsi per le scuole a percorsi di formazione progettare il domani. e aggiornamento degli insegnanti, a bandi per tesi di dottorato sull’eversione politica, sulla criminalità organizzata e sulla difesa della democrazia nell’Italia repubblicana, dalla strage di Portella della Ginestra all’omicidio di Marco Biagi. Questa storia, a nostro avviso, deve avere un posto di rilievo all’interno della programmazione scolastica e anche nei programmi di educazione permanente: attraverso questi insegnamenti i discenti, studenti e adulti, avranno l’occasione di ritrovare le radici del presente e acquisire conoscenze e competenze indispensabili per leggere l’oggi e per progettare il domani. L’utilizzo delle fonti che gli archivi conservano e mettono a disposizione è un importante valore aggiunto per praticare una didattica attiva e laboratoriale, antidoto per la disaffezione verso la storia che, a volte, gli studenti mostrano.

Il Giorno della memoria —

Qualche anno fa è stato fatto un passo importante in questa direzione. Per ricordare tutte le vittime del terrorismo interno e internazionale, dal 2007 è stato istituito il 9 maggio - anniversario dell’uccisione di Aldo Moro - Giorno della memoria (legge 4 maggio 2007, n. 56, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio 2007). Una giornata dedicata alla memoria di tutte le vittime del terrorismo che sottolinea il ruolo che questi eventi hanno, o potrebbero assumere, all’interno della memoria pubblica e sancisce la necessità di «conservare, rinnovare e costruire una memoria storica in difesa delle istituzioni democratiche».

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Scuola / Per non dimenticare: una rete degli archivi

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↑ Credit: inchiostro. unipv.it (il giornale degli studenti dell’Università di Pavia).

Ogni anno (dal 2008 presso il Quirinale e nel 2013 al Senato) si tiene una manifestazione pubblica alla presenza del Capo dello Stato e delle più alte cariche istituzionali, alla quale sono stati invitati i familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi che hanno contribuito, con i loro interventi pubblici, a tenere viva la memoria di quegli anni. Per rendere il Giorno della memoria un momento di riflessione e di partecipazione abbiamo dato rilievo, sul portale, ai lavori di insegnanti e studenti nel corso degli anni, creando un archivio delle buone pratiche che lo scorso anno si è arricchito grazie ai progetti arrivati tramite il concorso “Le buone pratiche: storia e memorie a scuola”, che ha visto la partecipazione di molte scuole ed è stato premiato al Senato nel corso delle celebrazioni per il Giorno della memoria.

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Memorie in un flash —

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Quest’anno, grazie alla collaborazione del Mibact e del Miur, abbiamo proposto il concorso nazionale “Memorie in un flash”, e chiesto agli studenti di rintracciare nel proprio territorio luoghi dedicati alla memoria delle vittime dei terrorismi, della violenza politica e/o della criminalità organizzata (lapidi, intitolazioni di edifici, strade ecc.), di fissare attraverso le immagini (foto, video, disegni eccetera) i luoghi ritrovati e di presentarli attraverso un elaborato (video, album fotografico, collage, eccetera). Promuovere questi concorsi è fondamentale per tenere viva l’attenzione su tali temi, ma non è iniziativa sufficiente. Questa storia è la nostra storia, in que-

gli anni – erroneamente definiti Anni di piombo – ci sono stati movimenti e cambiamenti culturali epocali e hanno preso vita le riforme più importanti di questo Paese, quali lo statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia, la legge Basaglia, la legge sul divorzio, quella sull’interruzione volontaria di gravidanza e l’istituzione dei consultori, la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare e molte altre. In parallelo, una violenza cieca ha distrutto le vite di centinaia di uomini e donne che lottavano per migliorare il nostro Paese. Conoscere le loro vite e seguire il loro esempio può renderci dei cittadini migliori, e soprattutto restituirci quel senso dello Stato che talvolta sembra andato perduto. La memoria va conservata, altrimenti il rischio è di perderne traccia. Questo timore vale ancor di più nell’era di internet, dove tutte le notizie sono immediate, e spesso Conoscere le loro non si ha sufficiente vite e seguire il loro cura nel verificare le fonti - troppo è il flusesempio può renderci so delle informazioni dei cittadini migliori, e - né modo per approsoprattutto restituirci fondirle. Potendo conquel senso dello Stato tare anche sulle nuove che talvolta sembra tecnologie, gli archivi possono e devono esseandato perduto. re i legittimi custodi di queste tante memorie,garantendo facilità di ricerca e rintracciabilità. Solo così si potrà scrivere la nostra storia recente e costruire basi solide per il nostro futuro.

Ilaria Moroni è la direttrice del Centro documentazione Archivio Flamigni, di cui promuove anche le iniziative e la didattica dal 2008. Dal 2006 coordina la Rete degli archivi per non dimenticare, di cui è promotrice, e dal 2009, in collaborazione con la Direzione generale per gli archivi, il portale dedicato al progetto (www.memoria.san.beniculturali.it). Per il suo impegno riguardo a questi temi le viene conferita nel 2013 l’onorificenza a Cavaliere al merito della Repubblica Italiana.

Cinzia Venturoli è dottore di ricerca in storia e informatica. Ha coperto il ruolo di direttore del Centro di documentazione storico-politica sullo stragismo e collabora con la cattedra di Storia contemporanea della Scuola di Scienze della formazione dell’Università di Bologna.

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← Fotogramma dell’animazione alla fine del film Ultima chiamata (Credit: Zenit Arti Audiovisive).

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Abbiamo visto il documentario Ultima chiamata, una coproduzione italo-norvegese che prende le mosse dal profetico rapporto The Limits of Growth, e abbiamo chiesto al suo regista di raccontarci perché un film può spiegare meglio di tanti dibattiti la vera portata e le ripercussioni dell’attuale crisi economica ed energetica.

Scuola / Educazione ambientale: l’ultima chiamata

Educazione ambientale: l’ultima chiamata

di Enrico Cerasuolo

A

Winthertur, nel dicembre 2012, c’eravamo anche noi insieme a un sacco di neve e di giovani provenienti da tutto il mondo e uniti dall’ambizione di cambiare il corso della storia. È stato il Club di Roma a rendere possibile l’incontro fra così tante esperienze diverse, con lo scopo d’iniziare a creare una rete. Il Club di Roma fu concepito e creato da un torinese,Aurelio Peccei, nel 1968. Quattro anni dopo, nel 1972, fu pubblicato il primo rapporto scientifico. Il libro s’intitolava The Limits to Growth (“I limiti della crescita”, pubblicato da Mondadori in Italia con il titolo I limiti dello sviluppo), e lanciava un avvertimento: se la crescita continuerà senza tenere conto della finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse, se ne supereranno i limiti e si andrà incontro al collasso. L’impatto del libro fu talmente forte, nel mondo intero, che se ne discute ancor oggi, continuando però a non ascoltare il suo messaggio. Di The Limits to Growth abbiamo raccontato la storia in un documentario intitolato Ultima chiamata, presentato e premiato per la prima volta al Festival Cinemambiente di Torino nel giugno del 2013.

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Il progetto Change the Course di Winthertur sarebbe piaciuto ad Aurelio Peccei, che dedicò gran parte dei suoi ultimi tre anni di vita, dal 1981 al 1984, al progetto Forum Humanum: una rete di giovani ricercatori per l’approfondimento dei problemi delle relazioni internazionali. Dopo aver sollecitato il mondo e i suoi leader a preoccuparsi del futuro delle prossime generazioni, Peccei si rivolgeva direttamente ai giovani, forte della convinzione che dovessero essere loro i primi agenti del cambiamento. Durante le riprese di Ultima chiamata ricordo un aneddoto raccontatoci da Anna Pignocchi, la segretaria di Peccei: Aurelio si trova alla stazione di Amsterdam dopo un Le crisi che stiamo summit internazionavivendo (ambientale, le, pronto a ripartire economica, finanziaria) per un nuovo impegno. sono sintomi di una Seduto per terra un giovane hippie intento a crisi globale, che si leggere una copia di sta verificando perché The Limits to Growth. abbiamo superato L’elegante e attempato da tempo i limiti del ex-manager italiano si nostro sistema. ferma a parlare del libro con il ragazzo: l’incontro e la chiacchierata, dice poi, sono per lui molto più gratificanti del summit cui ha appena partecipato. Perché The Limits to Growth e Aurelio Peccei sono importanti oggi, nel 2014? Perché stiamo vivendo lo scenario che loro avevano previsto più di 40 anni fa – quello scenario che gli economisti, i politici, le multinazionali e i media hanno deciso di consegnare alle nuove generazioni. Le crisi che stiamo vivendo, in primo luogo quella ambientale legata al cambiamento climatico, insieme a quella economica e finanziaria, sono spacciate per temporanee,in attesa di un imminente ripristino della crescita. Se assumiamo il punto di vista degli autori di The Limits to Growth, di Peccei e del loro approccio sistemico, invece, allora diventano sintomi di una crisi globale, che si sta verificando perché abbiamo superato da tempo i limiti del nostro sistema. Mentre io scrivo e voi state leggendo le emissioni di CO2 continuano ad aumentare, nonostante il 99% della comunità scientifica internazionale ammonisca che devono assolutamente ridursi per evitare un ulteriore innalzamento delle temperature, responsabile di un circolo vizioso che l’uomo potrebbe non essere più in grado di controllare.

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L’ultima chiamata —

Mi e vi chiedo: c’è davvero qualcosa di più importante di cui parlare? Se ne discute nel Parlamento italiano? Si insegna educazione ambientale nelle scuole italiane? Le uniche occasioni in cui se parla sono, purtroppo, i day after i disastri ambientali – sempre più frequenti eppure immediatamente e inesorabilmente dimenticati, fagocitati dal flusso di nuove notizie. Non so quanto un documentario possa realmente incidere nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questi temi. Noi ci stiamo provando: vi racconto quello che stiamo facendo. Ultima chiamata è una coproduzione italo-norvegese fra la nostra casa di produzione, Zenit Arti Audiovisive, e Skofteland Film. In Norvegia è stato trasmesso dalla televisione pubblica, NRK, nei giorni precedenti le ultime elezioni politiche, per stimolare il dibattito. Alle tribune elettorali è stato chiamato a intervenire Jorgen Randers, uno dei protagonisti del film nonché coautore di The Limits to Growth. Il partito verde è entrato per la prima volta in Parlamento. In Italia l’allora ministro dell’Ambiente Andrea Orlando – presente alla proiezione a Cinemambiente – aveva promesso di proporne la visione in Parlamento. Ora il film è stato acquisito da RAI Storia: non sappiamo ancora quando, ma il pubblico televisivo potrà vederlo. Negli Stati Uniti Last Call (il sito del film www.lastcallthefilm.org.) è distribuito nel circuito educativo da The Video Project, di San Francisco. Un circuito, quello americano, che crea un mercato specifico, alimentato dalle biblioteche delle università e delle scuole alla ricerca di documentari da utilizzare in ambito didattico. Qui in Italia iniziano ad arrivare le prime richieste, promosse da insegnanti che hanno visto il film e che lo vogliono far vedere ai loro studenti. Sono per ora iniziative sporadiche e rese complicate dalle restrizioni di budget delle scuole, ma ci sono, e pensiamo siano destinate ad aumentare. Le partecipazioni di Ultima chiamata ai festival stanno creando diverse occasioni in ambito educativo.A Mantova, ad esempio: a settembre la proiezione al Festival della Letteratura; a dicembre al Cinema Oberdan, doppio spettacolo la sera e la mattina per le scuole della provincia. In questi giorni siamo stati contattati dalla

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ve, ha ad esempio elaborato un software incentrato sul cambiamento climatico: cambiando i parametri, si vedono le conseguenze sul cambiamento climatico. Cambi i parametri e vedi le conseguenze delle tue azioni nel tempo. John Sterman, che insegna Dinamica dei Sistemi e i concetti di The Limits to Growth al MIT di Boston, mi raccontava invece di un gioco in cui fa interpretare agli studenti i decisori delle politiche mondiali sull’ambiente.La prima parte del gioco si conclude sempre nello stesso modo: gli studenti prendono le stesse decisioni che prendono i politici e le imprese. Solo messi di fronte alle conseguenze di tali decisioni, nella seconda fase del gioco, imparano a comportarsi in modo meno miope. La consapevolezza nasce dall’educazione, ed è l’unico modo per affrontare le crisi che abbiamo di fronte: “ultima chiamata” per l’educazione alle tematiche ambientali.

↑ Due bambine giocano con l’aquilone sull’isola in Norvegia dove è stato girato il film (Credit: Zenit Arti Audiovisive).

Scuola / Educazione ambientale: l’ultima chiamata

direttrice del Festival scientifico CAID di Atene per avere il permesso di portare Ultima chiamata in un tour per scuole della Grecia. Quando ci è possibile partecipiamo direttamente a progetti educativi che prevedono di utilizzare il nostro documentario. L’associazione culturale ScienzaAttiva, ad esempio, ci ha proposto di partecipare al festival letterario per ragazzi Mare di libri,di Rimini,insieme a un gruppo di studenti che vedranno il film, lo discuteranno con me e con Massimo Arvat, il produttore, e lo presenteranno insieme a noi a giugno. Andrea Vico di ScienzaAttiva ha anche elaborato un progetto didattico intorno al film, la cui parte finale prevede un gioco di ruolo che ha lo scopo di far mettere gli studenti nei panni degli scienziati e dei politici, per capirne comportamenti e decisioni. Se vi capiterà di vedere la versione integrale di Ultima chiamata (90 minuti, quella che verrà trasmessa da RAI Storia ne dura 52) avrete l’occasione di assistere a due roleplay ideati e condotti da Dennis Meadows, uno degli autori di The Limits to Growth. Sono giochi molto semplici ed efficaci, che hanno il pregio di far comprendere in un attimo e intuitivamente cose teoricamente complicate. Durante le riprese del documentario mi sono imbattuto anche in altri giochi. Elizabeth Sawin, del Climate Interacti-

Enrico Cerasuolo è presidente di Zenit Arti Audiovisive, casa di produzione indipendente di Torino, a partire dalla sua fondazione, nel 1992. Autore e regista di documentari, tra cui L’enigma del sonno (2004), Checosamanca (2006), Il sogno di Peter (2007), I pirati dello spazio (2007), Il volto nascosto della paura (2008), Andante ma non troppo - 150 anni di storia d’Italia (2011), Ultima chiamata (2013).

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← La sede della cittadella della Mobilità e del Design del Politecnico di Torino.

Scuola / A scuola di sostenibilità

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A scuola di sostenibilità

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Applus-énergie è il primo living lab realizzato in una scuola italiana: gli studenti imparano a consumare meno e a occuparsi dell’efficienza energetica, diventando un po’ informatici, un po’ energy manager, un po’ scienziati. Un modo concreto e innovativo di educare alla cittadinanza attiva attraverso il rispetto dell’ambiente e delle risorse energetiche.

l global warming e il rispetto dell’ambiente sono temi sempre più presenti anche a scuola nei percorsi di educazione alla cittadinanza attiva. E non solo. “Sostenibilità” è un termine ormai quasi abusato dai media e dal marketing, ma forse rischia di perdere significato se non tradotto in pratica. Se da un lato l’ansia prodotta a livello mediatico dall’elencazione, spesso catastrofica, dei di Elena Piastra intervista di Stefano Milano rischi a cui va incontro il Pianeta ha creato grande attenzione verso l’ambiente, dall’altro appare evidente che la “rivoluzione sostenibile” debba avvenire attraverso tante, diverse, piccole rivoluzioni quotidiane delle nostre abitudini e non solo come una preoccupazione generale – e generica – per le sorti di Gaia. Come scrive Anthony Giddens,autore di The Politics of Climate Change,«il cambiamento climatico è un’idea che incute paura, ma nello stesso tempo è anche astratta. I cittadini captano l’ansia, ma è difficile collegare possibili future catastrofi con la banalità della vita quotidiana. Quindi molte persone, semplicemente, ripongono la questione nel retrobottega della mente, dove essa si apposta nelle vesti di un’ansia generalizzata». In sostanza, ciò di cui ci avverte Giddens è che occorre trasformare l’ansia in azione consapevole, e che la sostenibilità rischia di diventare una formula sterile se non tradotta nella vita di tutti i giorni. Educare alla sostenibilità significa quindi, innanzitutto, educare nella pratica alla consapevolezza dell’impatto prodotto dall’uso delle risorse che ogni giorno alimentano i nostri bisogni.

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D: In cosa consiste il progetto? R: Applus-énergie è un sistema di monitoraggio elettrico e climatico in tempo reale pensato per edifici complessi, nei quali si muove un alto numero di individui. Il progetto è stato finanziato con un bando europeo trasfrontaliero che ha coinvolto la Regione Valle d’Aosta, il Piemonte e la regione francese di RhÔne-Alpes, realizzato dalla PMI torinese Proxima Centauri in collaborazione con Bosch Italia, Politecnico di Torino e Università di Annecy. La scelta di monitorare l’energia consumata da edifici scolastici è dovuta a motivazioni differenti, che coinvolgono sia alcuni aspetti tecnici sia quelli più sociologici. Infatti, la scuola superiore individuata in Valle d’Aosta presenta caratteristiche architettoniche interessanti che la rendono molto costosa rispetto al riscaldamento e al raffrescamento dell’edificio. Allo stesso modo, la scelta di monitorare strutture come il Politecnico di Torino o l’Università di Annecy risponde all’esigenza di individuare edifici pubblici molto frequentati, che risentono in modo importante dei comportamenti di chi li abita quotidianamente.

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D: L’aspetto più rilevante è proprio quello sociale, cioè la valenza didattica e educativa che un progetto come questo assume per gli studenti… R: La scuola non è stata scelta come spazio di realizzazione del progetto per questioni meramente tecniche. Si tratta di un luogo fondamentale per la sperimentazioI cittadini ne: al suo interno si captano l’ansia, ma muovono persone che è difficile collegare compiono attività dipossibili future verse e interdipendencatastrofi con la ti, un po’ come in una piccola città. Gli allievi banalità della vita hanno imparato come quotidiana. funziona tecnicamente il consumo dell’edificio nel quale si muovono nella quotidianità, ma hanno anche scoperto quanto il loro comportamento incide sul contesto. Gli studenti sono l’utente ideale per un’iniziativa di questo tipo perché, imparando a essere consapevoli dei loro consumi, possono influenzare positivamente quelli futuri: credo che questo sia il modo migliore di educare alla cittadinanza attiva, relativamente al rispetto delle risorse del Pianeta.

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Quale miglior laboratorio, quindi, della comunità scolastica per costruire un diverso modo di pensare e rispettare l’ambiente, che si traduca in azioni realmente sostenibili e orientate a creare un legame tra territorio e comunità? È di fondamentale importanza, quindi, che la sostenibilità si faccia azione quotidiana e che i ragazzi sperimentino quanto i loro singoli e specifici comportamenti possano assumere conseguenze – sia negative sia positive – più generali. È esattamente l’obiettivo, meritorio, del progetto Applus-énergie, il primo living lab realizzato in una scuola italiana: gli studenti imparano a consumare meno e a occuparsi dell’efficienza energetica, diventando un po’ informatici, un po’ energy manager, un po’ scienziati, per monitorare in tempo reale quanto consumano un’aula, un computer o una fotocopiatrice, e soprattutto per calcolare quanto possa incidere il comportamento di ciascuna persona sull’intero sistema e intervenire per renderlo più efficiente. Elena Piastra di Proxima Centauri – tra i coordinatori del progetto – ci racconta le caratteristiche di questa iniziativa e soprattutto i suoi metodi e risultati didattici.

D: Questo progetto ha anche un’importanza più di medio-lungo periodo per le ricadute che l’acquisita consapevolezza dei ragazzi avrà anche in futuro… R: Il fatto che i ragazzi possano misurare i propri miglioramenti e vedere gli effetti reali delle loro azioni è un aspetto innovativo e ha una grande portata sociale, oltre che didattica. Non solo perché a scuola sono degli energy manager attenti che si preoccupano delle risorse consumate, ma ben più in generale e in prospettiva futura. Ognuno di loro porterà la consapevolezza acquisita, e i relativi skills, in tutti i diversi contesti che frequenta e frequenterà negli anni a venire: in famiglia, innanzitutto, ma anche, ad esempio, nell’ambito lavorativo in cui sarà inserito. Come affermano chiaramente tutte le analisi scientifiche sul futuro delle risorse del Pianeta, nei prossimi anni la chiave di volta sarà l’efficienza energetica, e Applus-énergie sta già formando oggi, a scuola, gli energy manager che un po’ tutti dobbiamo e dovremo diventare.

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hanno a disposizione dati e informazioni per realizzare analisi, studi specifici, tesine, che possono caricare su www. applus-energie.org. D: Come abbiamo detto, il progetto è un esempio virtuoso di partecipazione attiva: come hanno reagito gli utenti coinvolti?

↑ Il monitor in un’aula studio sul quale è possibile visionare i consumi in tempo reale.

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D: Il progetto ha usato una metodologia ancora poco nota in Italia: il living lab. In cosa consiste? R: L’applicazione è stata installata all’interno del Politecnico di Torino, nella Cittadella della Mobilità a Mirafiori, e di un istituto tecnico di Verrès (Aosta). Gli edifici sono stati scelti considerando alcune loro caratteristiche significative, come il numero di utenti coinvolti (molte centinaia) e la presenza di forme di misurazione energetica già esistenti con le quali interfacciarsi. Le scuole selezionate sono diventante un laboratorio vivente in cui sperimentare Applus-énergie e verificare la sua efficacia, anche in situazioni complesse. Nelle aule e negli spazi comuni delle scuole-living lab sono stati installati monitor che mostrano quanto stanno consumando l’edificio e le singole aule in un preciso istante e l’andamento storico dei consumi, rendendo così evidenti i progressi in termini di efficienza energetica e mirando ad aumentare il livello di conoscenza degli allievi coinvolti. D: Quali strumenti per intervenire sul sistema sono stati messi a disposizione degli studenti? R: Agli studenti, aspiranti periti elettronici ed elettrotecnici, è stata fornita una vera e propria “valigetta degli attrezzi”, con gli strumenti necessari per misurare quanto consuma un qualsiasi elemento del sistema. Tutti i ragazzi accedono al sistema via web, su un sito in cui possono confrontare i consumi e le variabili ambientali delle diverse altre aule e dove

R: Misurare la temperatura di un’aula è relativamente semplice. Eppure tutti sappiamo per esperienza che la percezione del clima di uno spazio in cui trascorriamo molte ore può variare da persona a persona. Per questo abbiamo pensato che il sistema non dovesse limitarsi a misurare oggettivamente la temperatura, la concentrazione di anidride carbonica e l’illuminazione dei locali, ma che si dovesse provare a considerare anche la percezione soggettiva degli utenti. Gli allievi e gli insegnanti hanno la possibilità di partecipare attivamente perché esprimono il loro grado di comfort rispetto all’ambiente in cui studiano e lavorano e, soprattutto perché la loro opinione incide direttamente sul sistema di regolazione. Per fare un esempio concreto: se il sensore di un’aula studio rileva 20 gradi, ma tutti gli allievi e gli insegnanti esprimono nell’area a loro dedicata sul sito internet che la temperatura percepita è molto più elevata in base a un calcolo che pondera il numero di opinioni raccolte, il sistema abbasserà la temperatura di quella stanza. D: Con quali modalità sono stati coinvolti gli studenti? R: Con livelli diversi di interazione: alcune classi hanno partecipato attivamente, portando proposte di modifica, controllando che il sistema rilevasse in modo corretto, introducendo modifiche e miglioramenti; altre classi hanno partecipato in modo meno attivo, ad esempio hanno preso parte ai focus group nei quali hanno potuto fare proposte rispetto alla diffusione e alla divulgazione del progetto nel proprio istituto e nelle altre scuole del territorio. Inoltre, tutti gli studenti hanno scoperto quanto consumano con le loro abitudini quotidiane e quanto la loro azione e la loro attenzione possa incidere sul contesto. Alcuni allievi, poi, si sono mostrati più interessati ad approfondire gli aspetti tecnici e hanno avuto

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la possibilità di lavorare, grazie agli stage retribuiti messi a disposizione dall’impresa informatica coinvolta nel progetto. D: Alcuni esempi di proposte concrete di miglioramento da parte degli studenti, emerse durante il living lab?

D: Come è avvenuta la dissemination del progetto da parte dei ragazzi? R: È stato chiesto agli studenti di raccontare ai loro coetanei l’attività svolta durante il progetto con il medium da loro preferito (video, testo scritto eccetera). Alcuni allievi della classe quinta hanno scelto di spiegare il progetto facendo una parodia di una nota pubblicità virale (“Ne-

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D: Prospettive per il futuro? R: Rispetto al progetto nello specifico sarà interessante fare valutazioni alla fine dell’anno scolastico, per capire se e quanto abbia inciso sulle abitudini degli allievi e degli insegnanti. Certo sarebbe stimolante misurare non solo le eventuali diminuzioni nei consumi della scuola, date dal cambiamento dei comportamenti, ma anche le variazioni che gli studenti possono produrre negli altri contesti che frequentano oltre alla scuola: a casa, in palestra, e così via. Più in generale, il modello del living lab è interessante perché la partecipazione attiva degli allievi-utenti è un test di verifica fondamentale per le aziende e per gli istituti di ricerca coinvolti. Con la loro attività, infatti, gli utenti hanno aiutato a migliorare direttamente il prodotto e a calibrarlo meglio rispetto alla realtà specifica. Si tratta quindi di un modello di verifica potenzialmente molto utile sia per la Pubblica Amministrazione sia per il privato, oltre naturalmente che per le istituzioni scolastiche che potrebbero utilizzarlo come laboratorio avanzato e concreto di educazione alla cittadinanza attiva attraverso la gestione consapevole delle risorse da parte degli studenti.

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R: Il monitoraggio energetico, reso operativo negli edifici a fine agosto 2013, ha permesso in pochi mesi di evidenziare alcune anomalie nei consumi, prima poco visibili. Un aspetto interessante su cui gli allievi si sono soffermati è che il monitoraggio della concentrazione di anidride carbonica permette di conoscere la reale occupazione dell’aula; quindi le aziende coinvolte nel progetto Il monitoraggio energetico ha permesso hanno chiesto di poter intervenire sulle serin pochi mesi di rande di regolazione evidenziare anomalie per permettere una rinei consumi. duzione sensibile dei consumi di condizionamento dovuti ai ricambi d’aria, forniti altrimenti in modo indipendente dal bisogno reale e dall’effettivo numero di presenze basandosi sul numero teorico di persone che possono abitare il locale. Gli allievi hanno inoltre scoperto che le aule di informatica consumano molto anche di notte e in orari in cui la scuola è chiusa, perché spesso i computer vengono lasciati accesi o in stand-by: hanno quindi deciso di “adottare” le sale computer, elaborando un sistema elettronico e informatico automatico di spegnimento dei PC. Altro dato emerso in questi mesi di collaborazione con gli studenti, interessante soprattutto per i gestori pubblici dell’istituto di Verrès, è che l’edificio “lavora” e consuma indipendentemente dalla presenza degli allievi a scuola, tanto che la domenica consuma appena la metà rispetto agli altri giorni in cui l’istituto è frequentato.

ver Say No to Panda”, spot di un formaggio egiziano) e hanno girato e montato un video divertente in cui il protagonista è un panda – mascotte del WWF e quindi per traslato un simbolo ambientale più in generale – che invece di essere l’animale pacioso che tutti conosciamo è irascibile e arrabbiato con chi nella scuola consuma troppo: professori, bidelle, compagni. Gli studenti hanno anche preso direttamente parte ad alcune conferenze nazionali sui living lab, svoltesi ad Aosta e a Genova durante il Festival della Scienza.

Elena Piastra è assessore all’Innovazione nel Comune di Settimo Torinese. Si occupa, inoltre, di sviluppo del sistema informativo locale, di progetti di cooperazione internazionale e di servizi educativi e scolastici.

Stefano Milano è giornalista freelance, scrive e realizza reportage per le principali riviste italiane. È direttore editoriale della saggistica di Codice Edizioni.

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Quando lo sport diventa integrazione Special Olympics è il programma di allenamenti e competizioni che coinvolge persone con e senza disabilità intellettiva. Ecco l’esperienza dei “ragni” dell’Istituto magistrale di San Giovanni Valdarno. 72

di Team Spiders

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Scuola / Quando lo sport diventa integrazione

← Cerimonia di apertura dei Giochi Nazionali Invernali Special Olympics 2014. (Credit: www. specialolympics. org).

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o spirito del movimento Special Olympics è ben espresso dal giuramento dell’atleta: «Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze». Special Olympics è un programma internazionale di allenamenti e di competizioni per persone con disabilità intellettiva,un programma che non mira unicamente alla performance sportiva, ma a una completa integrazione sociale dell’individuo. Il movimento è nato negli Stati Uniti nel 1968 a opera di Eunice Kennedy, sorella di John e Bob Kennedy,che per la sua storia familiare fu particolarmente sensibile nei confronti della disabilità. Oggi Special Olympics è riconosciuto dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) e i suoi programmi sono adottati in quasi tutti i Paesi del mondo. In Italia, Special Olympics è presente da circa trent’anni ed è un’Associazione benemerita del CONI e del CIP (Comitato Italiano Paraolimpico). Le discipline praticate sono nuoto, atletica leggera, bocce, calcio, equitazione, ginnastica artistica e ritmica, pallacanestro, tennis, bowling, golf, pallavolo, sci alpino, sci nordico, corsa con le racchette da neve e snowboard. Il progetto “Prova lo Sport!” sperimenta anche badminton, mountain bike, tennistavolo e rowing. Gli atleti si confrontano nelle manifestazioni locali, nei Giochi nazionali, nei Giochi europei e nei Giochi mondiali estivi e invernali. Negli ultimi anni Special Olympics Italia ha attivato una dinamica collaborazione con le scuole, al fine di coinvolgere i giovani con e senza disabilità intellettiva nel-

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la vittoria o la sconfitta rappresentano comunque un successo, raggiunto grazie a uno sforzo comune fatto di urla,lacrime e abbracci. Tale sforzo ha portato il Team degli Spiders a ottenere un palmarès di 5 ori e 4 argenti, conseguiti nelle varie edizioni dei Giochi nazionali estivi. Proprio come i ragni E non esistono che arrivano ovunque e solo gare e medaglie: Special Olymtessono tele, la squadra pics offre imporè in grado di raggiungere tanti momenti di i propri obiettivi con riflessione come il volontà e determinazione, “Global Youth Actiintrecciando una fitta rete vation Summit”. L’edizione del 2013, di rapporti. svoltasi in Corea, in contemporanea con i Giochi mondiali invernali Special Olympics, ha visto la partecipazione di tre ragazze della squadra degli Spiders che si sono confrontate con i rappresentanti di altri 22 Paesi del mondo. Nell’arco della kermesse i partecipanti sono stati chiamati a mettere a punto strategie volte a favorire l’integrazione ricorrendo a workshop,giochi propedeutici e riflessioni sulle R-words, le parole che da sempre stigmatizzano le persone con disabilità intellettiva.

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la promozione dell’inclusione. Proprio nell’ottica di questa collaborazione nel 2010 nasce il Team sportivo scolastico Spiders dell’Istituto magistrale statale “Giovanni da San Giovanni” di San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo. L’esigenza di alcune professoresse di educazione fisica e di sostegno di aumentare le occasioni d’integrazione degli alunni con disabilità intellettiva ha incontrato la filosofia dell’inclusione attraverso lo sport proposto da Special Olympics. Il nome della squadra è stato scelto dai ragazzi stessi e ha un significato profondo: proprio come i ragni che arrivano ovunque e tessono tele, la squadra è in grado di raggiungere i propri obiettivi con volontà e determinazione, intrecciando una fitta rete di rapporti. Il Team scolastico aderisce al progetto sportivo-culturale promosso dal movimento che va sotto il nome di Unify Project all’interno del quale trova collocazione lo “sport unificato”. Il Team Spiders svolge un’attività sportiva unificata – atletica, ginnastica,pallacanestro e pallavolo – grazie alla quale gli atleti (ragazzi con disabilità) e i partner (ragazzi senza disabilità) s’incontrano per giocare e per prepararsi agli appuntamenti sportivi. Lo sport unificato, attraverso l’azione e il supporto reciproco, permette lo sviluppo nel partner dell’empatia e nell’atleta dell’autonomia, sia in ambito personale sia sportivo. Gli allenamenti pomeridiani in preparazione alle varie manifestazioni sportive, che iniziano sempre con il pranzo consumato insieme, offrono momenti di confronto durante i quali sia l’atleta sia il partner affrontano le stesse difficoltà e cercano di superarle attraverso soluzioni condivise. La squadra partecipa a eventi nazionali organizzati in varie città, negli ultimi anni Monza, La Spezia, Biella, Arezzo e Lodi, e a eventi locali, ad esempio il Meeting di atletica di Rosignano. Questi eventi rappresentano non solo un momento di confronto sportivo, ma anche e soprattutto un’occasione di condivisione della quotidianità. Infatti durante le trasferte la squadra trova alloggio in campeggi, palestre e case vacanza e ciascun componente del gruppo è chiamato a collaborare e ad autogestirsi in tutte le attività che scandiscono la giornata, dalla colazione sino al dopocena. Anche il confronto sportivo non è vissuto come competizione agonistica, bensì come opportunità per stare insieme e divertirsi:

La percezione della disabilità —

I genitori affermano che i loro figli, a seguito dell’esperienza nel Team, stanno sviluppando una crescita nelle relazioni con i pari e un maggior livello di autostima e consapevolezza delle proprie capacità. Per questo, la scelta condivisa fra genitori e docenti di permettere il L’esigenza di aumentare p r o s e g u i m e nt o le occasioni d’integrazione del percorso all’interno del progetto, degli alunni con disabilità una volta terminaintellettiva ha incontrato to il quinquennio la filosofia dell’inclusione scolastico, ha fatto attraverso lo sport. del Team un punto di riferimento per gli stessi atleti e partner. Il progetto d’integrazione attraverso lo sport si sta estendendo al territorio aprendosi ad atleti provenienti da altri istituti scolastici. Nell’ottica dell’informazione, inoltre, gli Spiders stanno lavorando per far conoscere la propria realtà attraverso differenti canali comunicativi come la stampa locale e nazionale, la creazione di un blog e di una pagina Facebook.

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Avvalendosi della collaborazione di Alessandra Palazzotti, Direttore Nazionale, di Alessia Bonati, Referente Nazionale Scuola e di Paola Mengoni, Direttore Sportivo di Special Olympics Italia, la Casa editrice D’Anna ha realizzato nel 2014 un film dedicato agli atleti speciali. Tra interviste e immagini delle principali discipline praticate in Italia, questo documentario propone un viaggio fra tutti coloro che contribuiscono al successo dell’associazione: gli organizzatori, i volontari, gli insegnanti delle scuole e ovviamente gli atleti. Un meraviglioso universo mosso da passione, lealtà e soprattutto sport, nell’accezione più alta del termine.

↑ Due marine accompagnano un piccolo atleta durante gli Special Olympics del 2010, celebrati nella base navale di Lings Bay. (Credit: Wikimedia Creative Commons).

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Fin dall’inizio la squadra ha riscosso la simpatia di un gran numero di sostenitori, i quali danno un fondamentale aiuto nella raccolta dei fondi destinata a finanziare le attività del gruppo. Gli Spiders sono fortemente radicati nella realtà scolastica, tanto che gli studenti stessi richiedono la partecipazione del Team nelle assemblee studentesche dei vari istituti per stimolare la riflessione sui temi dell’integrazione. Il Team organizza periodicamente cene sociali,vissute dalle famiglie come opportunità di aggregazione e di confronto sulle difficoltà comuni e dalla squadra come momento collettivo di svago e divertimento. Non c’è niente di meglio di una cena per rivivere le emozioni delle esperienze passate, guardando i video e le fotografie realizzati dai componenti stessi della squadra! Il clima conviviale favorisce l’instaurarsi di legami di amicizia fra le famiglie, che si ritrovano anche al di fuori degli eventi organizzati dal Team. Il progetto sta cambiando la percezione della disabilità in tutte le persone che coinvolge. Sia per le abilità sportive dimostrate dagli atleti sia per le relazioni interpersonali intrecciate all’interno della squadra, la visione della disabilità

che se ne ricava appare molto lontana da qualsiasi stereotipo.Lo stesso partner,che inizialmente dimostra eccessivo senso di protezione nei confronti dell’atleta, dopo poco tempo cambia del tutto atteggiamento, lasciando posto alla spontaneità tipica di ogni relazione. Così si intraprende la strada verso una maggiore inclusione da parte di quella fetta di mondo che il partner rappresenta, e il luogo in cui poter percorrere tale strada sembra proprio essere la scuola.Gli Spiders lo confermano quando tutti mettono in gioco i propri punti di forza e di debolezza, ma soprattutto quando è l’atleta a essere il punto di forza per il partner, invertendo ogni comune aspettativa. Il gruppo,omogeneo nella propria diversità, diventa così strumento per raggiungere insieme molti e importanti risultati. Team Spiders è il team sportivo scolastico dell’Istituto magistrale statale “Giovanni da San Giovanni” di San Giovanni Valdarno, ed è nato nel 2009. Autrici dell’articolo sono le professoresse Marina Agnoletti, Rosanna Cuniglio, Carla Pampaloni e Olga Ratti, che ringraziano Andrea Baglioni e Alessandra Porri.

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