La ricerca 10 - Parla come badi

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RI11- Fotogramma dal film Totò, Peppino e la ... malafemmena, 1956. - Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 10 anno 2016

10 N°

La ricerca

Maggio 2016 Anno 4 Nuova Serie – 6 Euro  www.laricerca.loescher.it

Parla come badi SAPERI

Scrivere per comunicare, comunicare per insegnare

SCUOLA

Revisione, riscrittura, imitazione: l’artigianato in classe

DOSSIER

Le illustrazioni prese sul serio


QdR / Didattica e letteratura

U

na nuova collana scientifica destinata a scuola e università, diretta da Natascia Tonelli e Simone Giusti. Per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.

COMITATO SCIENTIFICO Remo Ceserani (Università di Bologna) Paolo Giovannetti (IULM) Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari) Marielle Macé (CRAL Parigi) Francisco Rico (Universitad Autònoma Barcelona) Francesco Stella (Università degli Studi di Siena) USCITE PREVISTE Le competenze dell’italiano. Strategie di insegnamento e di valutazione, a cura di N. Tonelli Tradurre le opere, leggere le traduzioni. Strategie di insegnamento e di valutazione, a cura di Simone Giusti

Per la scuola e per l’università

ISSN 2385-0914

La collana QdR / Didattica e letteratura è online www.laricerca.loescher.it/quaderni/qdr

Per le copie cartacee rivolgersi in libreria o presso l’agente di zona www.loescher.it/agenzie


editoriale

Bado a come parlo

F

ino a una quindicina di anni fa, cioè fino a quando sono stato insegnante di Lettere al liceo, ricordo che ai libri di testo si chiedevano poche cose ben precise: che fossero culturalmente affidabili, didatticamente strutturati, trasparenti nell’impostazione ideologica, ricchi di esercitazioni, prevedibili (per quanto possibile) nella selezione del canone disciplinare, ma senza rinunciare a interessanti spunti di originalità sia nel merito che nel metodo.Al docente spettava il compito di mediare e impreziosire con la propria preparazione e dialettica, e magari con un pizzico di istrionismo, i contenuti offerti dalla carta stampata. Quindici anni dopo, le cose sono formalmente molto simili, se non per un aspetto, che fa però tutta la differenza del mondo. È cambiato il mondo, in effetti: quello che sta dentro e fuori dalle aule, dentro e fuori dalle coscienze. È stato innalzato l’obbligo scolastico e quello formativo; si sono riformati gli indirizzi e i programmi; si è imposto di lavorare per competenze; sono state accolte prime e seconde generazioni di nuovi italiani; si è diffusa la richiesta legittima di accurate personalizzazioni (se non individualizzazioni) dei programmi scolastici e dei piani di studi. I banchi si sono popolati dei cosiddetti “nativi digitali”, con le loro fonti alternative di informazioni e di sapere (Facebook e YouTube su tutti); con la loro attitudine alla navigazione di superficie, e all’ipertestualità; con i pollici opponibili usati su minuscole tastiere per scrivere messaggi in codice; provenienti da città e quartieri sempre più multietnici; da contesti depauperati da una decennale crisi economica,che ha invertito priorità e valori, ponendo l’istruzione al fondo della classifica dei mezzi di promozione sociale. A fronte di tali mutamenti del mondo, si sono resi indispensabili cambiamenti significativi anche nel modo di rappresentarlo Fare i libri di testo e di narrarlo. Si è cioè, sempre più, chiesto che la lingua, o meglio, i è cambiato, perché è linguaggi della comunicazione didattica si calibrassero su un nuovo cambiato il mondo. standard d’intellegibilità, che prescindesse da un’idea omogenea e astratta di curriculum scolastico, e mediasse il sapere nelle forme e nei modi più adatti a tutti e a ciascuno. Io,che il cambiamento l’ho vissuto non più in classe,ma dietro una scrivania popolata di bozze e progetti grafici, ho visto rapidamente mutare anche il mio lavoro, spostandosi il centro di interesse sempre più dal contenuto al metodo, dallo specialismo disciplinare alla mediazione linguistica. Non che il fenomeno sia del tutto nuovo, nella scuola e nella società italiane. Dal saggio manzoniano sulla lingua italiana e “sui mezzi per diffonderla” al “non è mai troppo tardi” televisivo; dai programmi della scuola media dell’obbligo alle contestazioni dell’autunno caldo; dalla lettera alla professoressa alle tesi di De Mauro, ogni stagione sembra aver fatto i conti con una realtà antropologica e culturale diversa e inattesa.Quello che c’è di nuovo,oggi,sembra essere la pervasività del fenomeno, che non si limita più alla “semplice” dialettica verticale tra chi è privilegiato, culturalmente ed economicamente, e chi no, ma che si radicalizza in una divisione orizzontale e generazionale che, nei suoi esiti estremi, rende vicendevolmente muti e sordi genitori e figli, studenti e insegnanti. Di questo abbiamo voluto parlare, in questo decimo numero della Ricerca. Della lingua che si usa a scuola e di quella che si pensa per la scuola; di pratiche didattiche intelligenti e di errori che diventano risorse; di libri di testo sequenziali e di granularità di contenuti virtuali; di poesia e di comunicazione. Di comunicazione, soprattutto, ma non come mera tecnica di trasmissione del sapere. Piuttosto come abito mentale e prassi etica, oltre che come base di una progettazione editoriale che voglia essere al tempo stesso seria, civile, democratica, inclusiva.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Loescher.


La ricerca Periodico semestrale Anno 4, Numero 10 Nuova Serie, Maggio 2016 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Loescher Editore Direttore responsabile Martina Pasotti Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - Piaccapi Grafica e impaginazione Leftloft - Milano/New York Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero Mario Ambel, Raffaella Bosso, Rosalee A. Clawson, Dario Corno, Francesca Di Fenza, Simone Giusti, Marco Guastavigna, Sandro Invidia, Lucia Lumbelli, Valerio Magrelli, Giusi Marchetta, Cristina Nesi, Ubaldo Nicola, Gino Roncaglia, Suzanne Stokes © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)


Sommario Scrivere per comunicare, comunicare per insegnare

saperi

scuola Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

Chi scrive bene pensa bene e convive meglio

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Il paradosso della semplificazione

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Risorse digitali per la scrittura

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Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi

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Conversazioni brevi. A scuola di epigramma nell’era digitale

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Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica

6

Lucia Lumbelli

Dario Corno

Marco Guastavigna

Mario Ambel

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Digitale, ma sempre un libro

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Quattro poesie di Valerio Magrelli

Gino Roncaglia

Cristina Nesi

66

26

Comunicare con le immagini

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Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali?

Ubaldo Nicola

Suzanne Stokes

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Ritratti della povertà nei testi di economia Rosalee A. Clawson

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La comunicazione visiva in tre manuali di storia Ubaldo Nicola

“La pagina che non c’era”: lettura creativa e scrittura mimetica per lavorare con lentezza Raffaella Bosso e Francesca Di Fenza

73

Le immagini prese sul serio

dossier

Marco Guastavigna

Se una fontana si ammala Giusi Marchetta


saperi

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Saperi / Chi scrive bene pensa bene e convive meglio

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Chi scrive bene pensa bene e convive meglio La scrittura, in quanto fondamento della vita associata, deve necessariamente essere chiara, orientata al destinatario, il quale è chiamato a mettere in comune la sua enciclopedia del mondo e a cooperare alla costruzione del significato. Intervista a Dario Corno A cura di Simone Giusti D: Il suo libro Scrivere e comunicare (2012), uno dei manuali più esaustivi ed efficaci tra quelli dedicati alla teoria e pratica della scrittura, inizia con un brano di John Dewey. «La vita sociale – scrive il filosofo – si identifica con lacomunicazione», e, inoltre, «ogni comunicazione è eductiva» poiché consente di condividere l’esperienza, metterla in comune. Mi pare che il suo lavoro, caratterizzato da un uso sapiente e ben calibrato delle acquisizioni della retorica, della linguistica testuale e della semiologia, sia caratterizzato soprattutto da questa preliminare attenzione alla comunicazione come fondamento della vita associata. R: L’interesse per la comunicazione viene dal mio passato di semiologo che per anni ha indagato quali fossero i principali modelli del comunicare e che si è presto reso conto – anche grazie a queste parole di Dewey e a tutto il suo lavoro, soprattutto quello condotto durante gli anni Trenta – che il comunicare costituisce il cuore pulsante della vita sociale. La parola “comunicazione” sottende la parola “comune”. È ciò che mette in comune un mittente con un ricevente. Non si tratta solo di persuadere o convincere qualcuno attraverso l’uso della parola, ma, soprattutto, di condividere. D’al-


7 Saperi / Chi scrive bene pensa bene e convive meglio

Umberto Eco, fotografia di S. Lee, 2015, © «The Guardian». di sesso femminile».


R: Per imparare a comunicare non dobbiamo pensare a un’idea divinatoria della scrittura. Non abbiamo un autore lasciato solo con i fulmini di Zeus a costruire qualcosa che non esiste in precedenza. Mi pare che a scuola, soprattutto con i nuovi esami di maturità, dal 2000 in avanti, si sia recepita la necessità di non lasciare solo lo studente, ma di accompagnarlo – fornendogli dei documenti – nell’esplorazione della sua memoria,che non è solo una memoria interna ma è anche esterna, fatta di materiali che sono reperibili al di fuori della sua mente. È un approccio la cui validità è confermata dalla diffusione di Internet. La vecchia topica di Aristotele acquista un nuovo senso: oggi come ieri lo studente ha bisogno di essere accompagnato a recuperare le informazioni che gli servono per comporre il suo discorso.

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Saperi / Chi scrive bene pensa bene e convive meglio

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D: Sono idee rilanciate anche dagli studi sull’arte della memoria di Paolo Rossi, se non ricordo male. R: Sì,certo.L’arte della memoria ha riconquistato la scena in modo molto pratico, a partire dalla necessità di rielaborare creativamente vecchie informazioni. Far sorgere il nuovo dal vecchio, scoprendo visioni inusitate di vecchi problemi. ↑ Truman Capote nel 1959. © New York World-Telegram and the Sun - Library of Congress Prints and Photographs Division.

tronde già Aristotele individuava tra i diversi tipi di oratoria il genere epidittico, che ha per oggetto la lode o il biasimo di una determinata persona e ha lo scopo di illustrare e dimostrare, non di esortare o dissuadere (come l’oratoria deliberativa) o di perorare la causa di qualcuno,compito dell’oratoria giudiziaria.A partire da qui, dalla Grecia antica, ma con lo sguardo volto all’idea di comunicazione proposta da Dewey, ritengo fondamentale rilanciare in ambito moderno la retorica come insieme di tecniche pratiche. Perché in fondo scrivere e comunicare sono una questione artigianale: si tratta, semplicemente, di far bene le cose. Una scrittura è felice se è fatta bene. Non si tratta di convincere, quanto di condividere aperture di conoscenza. D: Leggo dall’introduzione a Scrivere e comunicare: “Imparare a scrivere è come imparare a costruire un mobile in legno. Se per costruire un mobile in legno occorre seguire degli schemi, sapere qualcosa sul legno, sulle colle, sugli incastri e così via, ma poi bisogna esercitarsi concretamente segando, piallando e così via, anche per imparare a scrivere bene occorre conoscere gli aspetti principali dello scrivere, ma bisogna soprattutto ideare, stendere e rivedere i testi, e cioè apprendere praticamente”. È un’idea di scrittura facile da comprendere per chi lavora nell’editoria, ma che ancora fatica ad affermarsi in molti ambienti educativi.

D: Riguardo alla possibilità di insegnare e quindi di imparare la scrittura, lei ha scritto che occorre “apprendere a scrivere in modo che la comunicazione col lettore avvenga nel migliore dei modi possibili e con il maggiore successo informativo possibile”. Mi pare una formula particolarmente efficace: qual è la sua origine? R: È un’idea che proviene dall’ambiente anglosassone, dove il concetto è in uso almeno a partire dal 1975. Si tratta del principio di cooperazione di Paul Grice [“Forma il tuo contributo alla conversazione così come lo richiedono, nel momento in cui essa ha luogo, le finalità e la direzione accettate dalla conversazione a cui partecipi”, NdR], il quale evidenzia che nella scrittura e prima ancora nella conversazione sono in gioco dei presupposti, cioè delle conoscenze implicite sul mondo che i partecipanti all’atto comunicativo debbono condividere. Lo scrivente deve quindi coordinare i suoi sforzi informativi ai bisogni enciclopedici del destinatario. D: È questo che intende quando nel suo libro afferma che per scrivere bisogna essere dotati di “un forte senso del destinatario”? R: Avere un senso del destinatario è fondamentale. È una specie di intuito. Ciò che bisogna rimarcare a scuola più che in altri luoghi è che il pubblico non è indifferenziato: il pubblico è mirato,non si scrive,


non si comunica allo stesso modo con tutti. Si comunica sempre tenendo presente un destinatario privilegiato. È questo che determina il successo della comunicazione. Essere chiari dipende da come si pensa in relazione al pubblico: un conto è scrivere per altri studenti, un altro è rivolgersi a un pubblico di professionisti. Lo scrivente deve dare una direzione alle informazioni, gli occorre un’intuizione che gli consenta di raggiungere il lettore, proprio quel lettore. D: È possibile imparare a scrivere, dunque? Come si può sviluppare il senso del destinatario e come si fa a diventare dei buoni artigiani della scrittura?

Approfondire —

J • D. Corno, La tastiera e il calamaio. Come si scrive all’università, studi e ricerche, Mercurio, Vercelli 2010. • D. Corno, Retorica in «Enciclopedia dell’italiano», Treccani www.treccani.it 2011. • D. Corno, Scrivere e comunicare. La scrittura in lingua italiana in teoria e in pratica, Bruno Mondadori, Milano 2012.

R: Intanto, io faccio scrivere a mano, poi eventualmente gli studenti ricopiano al computer i loro testi. Hanno bisogno di un grandissimo recupero della manualità, quindi facciamo molti esercizi. La scrittura a mano richiede una maggiore attenzione alla memoria rispetto alla scrittura al computer, che è volatile. Anche se so che è una battaglia persa, io insisto in questa direzione. Ho visto proprio oggi un servizio giornalistico sull’uso esclusivo del tablet nelle scuole medie… ecco, io ritengo che sia una grossa perdita. Non vorrei sembrare un apocalittico, però effettivamente la rinuncia alla tecnologia della scrittura manuale va a vantaggio di nuove forme di interazione con i media elettronici, ma anche a svantaggio di quella che è la prima qualità dello scrivere a mano, cioè l’astrazione, la capacità di pensare con se stessi nel momento in cui si scrive. Non che manchi con le nuove tecnologie, ma è un’altra cosa. I miei corsi dimostrano che qualcosa si può ottenere proprio grazie alla tecnologia a mano. D: Un’ultima curiosità. Mi ha sempre colpito la grande importanza che lei attribuisce all’uso della tabella nei suoi esercizi di scrittura. R: Si tratta di un’attività che dà ottimi risultati. Ho attinto a metodologie che erano ben presenti nelle scuole americane di scrittura negli anni Venti del secolo scorso, basate sulla logica dell’unire e separare attraverso qualità specifiche (Aristotele l’aveva visto con molta chiarezza). Questo lavoro comporta grossi risultati dal punto di vista del ragionamento, della logica. Questa in fondo è la caratteristica che tiene insieme tutta la mia attività di ricerca: scrivere è comunicare, sì, ma è soprattutto pensare.

Dario Corno è stato docente di linguistica italiana presso l’Università del Piemonte orientale, e attualmente insegna Tecniche di comunicazione e scrittura presso il Politencico di Torino. Si è occupato di teoria della scrittura, di semiotica del testo e di retorica.

Simone Giusti allievo di Domenico De Robertis, è docente e consulente di politiche dell’istruzione, della formazione e dell’orientamento ed esperto di didattica della letteratura. Per Loescher condirige la collana “QdR /Didattica e letteratura” e collabora a La ricerca online. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Cambio verso (Effequ, 2016).

9 Saperi / Chi scrive bene pensa bene e convive meglio

R: Nel mio lavoro di docente e autore di manuali di didattica della scrittura insisto molto sull’articolazione in fasi del lavoro di scrittura. Scrivere fondamentalmente è progettare una comunicazione, e come qualsiasi progetto è diviso in fasi. È un’idea antica, che affonda le radici nella retorica classica (Cicerone, Rhetorica ad Herennium). Le fasi sono al primo posto: inventio, dispositio, elocutio, e poi la memoria e, nell’oratoria, la pronuntiatio. Sono ovviamente da reinventare, ma rimane il fatto che mostrare l’oggetto testuale come un oggetto costruito per fasi ha una grande efficacia soprattutto nell’apprendimento. Nella mia esperienza ormai decennale nei corsi di Tecniche di comunicazione e di scrittura al Politecnico di Torino ho sempre seguito questo approccio,ottenendo buoni risultati. I miei corsi si rivolgono agli studenti del primo anno di tutti i corsi di laurea. Sono circa 350 ogni anno quelli che scelgono di frequentare.In cinquanta ore di corso non è possibile incidere su alcuni errori di meccanica fine (uso della punteggiatura, degli accenti,degli apostrofi o difficoltà nell’ortografia – errori insidiosi,che vengono appresi durante la prima giovinezza e sono difficilmente estirpabili), ma è visibile il miglioramento di quello che ho chiamato il successo informativo.

D: Come funziona il lavoro in aula?


Il paradosso della semplificazione

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Saperi / Il paradosso della semplificazione

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È proprio inevitabile proporre sempre e comunque testi disciplinari “difficili” per abituare alla “complessità” delle conoscenze e della cultura? Perché considerare ancora la semplificazione come banalizzazione dei contenuti e mortificazione degli studenti? E se scoprissimo che gli strumenti e le tecniche che usiamo per i BES sono validi per tutti? di Marco Guastavigna

D

a due anni ho l’incarico del Laboratorio di Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione nei percorsi di Specializzazione sul Sostegno a Torino, per la scuola secondaria di secondo grado. In entrambi i corsi ho presentato ai corsisti il software FacilTesto e molti di loro lo hanno utilizzato nella realizzazione del prodotto multimediale che costituisce uno dei risultati professionali della loro formazione. Nessun corsista – nonostante molti già operassero con persone in condizioni di disabilità – lo aveva mai sentito nominare prima. Qualcuno conosceva i principi basilari del “linguaggio piano1”, in particolare il suggerimento di inserire in un proprio scritto soltanto le difficoltà davvero necessarie. Nessuno, però, conosceva i “Protocolli dei tre livelli di adattamento per i testi scolastici2”, che riprendo qui di seguito:

Livello 1, adattamento a una insufficiente competenza linguistica —

• Il lessico è costituito prevalentemente (80-90%) da parole appartenenti al repertorio fondamentale del Vocabolario di Base di De Mauro. • Completo annullamento dell’espediente stilistico della variatio e dell’uso pleonastico di aggettivi e avverbi. • Le frasi contengono meno di 15 parole e sono organizzate sul versante sintattico da frasi nucleari complete ampliate da modificatori e avverbiali, frasi binucleari coordinate di azioni congiuntive e disgiuntive.

• Esplicitazione costante del soggetto che svolge l’azione. • Assenza di forme passive. • Mantenimento di livelli elevati di coesione e di coerenza del testo, con conservazione dell’identità di referenza del testo, dell’ordine logico e gerarchico delle sequenze, dell’aderenza alla grammatica delle storie e dell’esplicitazione dell’obiettivo e della motivazione del testo. • Controllo dei riferimenti enciclopedici ed eliminazione dei processi inferenziali richiesti per la comprensione del testo. • La veste grafica prevede un corpo tipografico sufficientemente grande, un numero di parole per pagina compreso tra 80 e 150, paragrafi brevi e pagine poco fitte. • Il testo è accompagnato da immagini esplicative analogiche colorate.

Livello 2, adattamento a una mediocre competenza linguistica —

• Il lessico è costituito prevalentemente (80-90%) da parole appartenenti al repertorio fondamentale e al repertorio di alto uso del Vocabolario di Base. • Parziale annullamento dell’espediente stilistico della variatio e dell’uso pleonastico di aggettivi e avverbi. • Le frasi contengono meno di 20 parole e sono organizzate sul versante sintattico da frasi nucleari complete ampliate da modificatori e avverbiali; frasi binucleari coordinate di azioni congiuntive e disgiuntive; frasi binucleari subordinate causali e temporali (esplicite con


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Livello 3, adattamento a una quasi sufficiente competenza linguistica —

• Il lessico è costituito prevalentemente (80-90%) da parole appartenenti al repertorio fondamentale; di alto uso e di alta disponibilità del Vocabolario di Base; con l’introduzione di parole non appartenenti al Vocabolario di Base. • Presenza significativa dell’espediente stilistico della variatio e dell’uso pleonastico di aggettivi e avverbi. • Le frasi contengono anche più di 20 parole e sono organizzate sul versante sintattico dall’introduzione delle frasi subordinate consecutive; ipotetiche; concessive; avversative; comparative; modali; aggiuntive; esclusive; eccettuative e limitative. • Prevalente tendenza a rendere implicito il soggetto che svolge l’azione. • Presenza costante di forme passive. • Mantenimento di livelli incostanti di coesione e di coerenza del testo. • Controllo dei riferimenti enciclopedici e richiesta all’alunno di eseguire frequenti processi inferenziali necessari per la comprensione del testo. • La veste grafica prevede un corpo tipografico definito dal testo originale e un numero di parole per pagina compreso tra 200 e 250. • Il testo può non essere accompagnato da immagini. Nati per compensare le difficoltà degli alunni sordi, i tre protocolli sono stati empiricamente utilizzati in diverse situazioni per adattare parti di libri di testo “ordinari”, ma anche come criteri di scrittura controllata, ovvero per la produzione di testi costru-

iti innanzitutto per essere comprensibili. Molti dei miei corsisti si sono cimentati con l’una e l’altra possibilità e l’opportunità, inizialmente velata di tecnocrazia – qualcuno addirittura immaginava che il programma fosse in grado di automatizzare l’operazione di adattamento, quando invece esso fornisce una serie di statistiche quantitative e propone i protocolli come check list di riferimento –, è stata poi considerata molto significativa e davvero arricchente sul piano didattico e, prima ancora, cognitivo. Tutti gli aspiranti insegnanti dei due corsi hanno infatti tirato la medesima conclusione: semplificare un testo già esistente è molto complesso così come scriverne uno nuovo “controllato”. Perché agire intenzionalmente e costantemente sul testo e con il testo per farsi capire è un modo di procedere che porta alla luce «quanto a scuola tutti diamo troppo spesso per scontato nello scrivere e nel (far) leggere», come ha sintetizzato in modo quanto mai efficace una corsista presentando il proprio lavoro. L’idea di fondo dell’adattamento protocollare dei testi e della scrittura controllata è fortemente inclusiva sul piano della cittadinanza culturale, perché ipotizza che con opportuni accorgimenti possano diventare più accessibili nozioni, matrici concettuali e altri contenuti dai quali siano state rimosse le complicazioni linguistico-cognitive inutili. Siamo lontani dall’aver dimostrato che si tratti di una sfida che è possibile vincere. Ma certo è una prospettiva più stimolante e democratica di quella che assumono i molti colleghi che pensano che sia inevitabile proporre sempre e comunque agli studenti testi disciplinari “difficili”, per allenarli e abituarli alla “complessità” delle conoscenze e della cultura. E che vivono la semplificazione come banalizzazione dei contenuti e mortificazione degli studenti. Che hanno una visione quasi deterministica della scrittura e non si pongono minimamente il problema del fatto che il variare delle relative intenzioni, tecniche e strategie può determinare condizioni anche molto diverse di richiesta, attivazione e sostegno della comprensione. E quindi dell’apprendimento. NOTE 1. Cfr. http://www.unibz.it/it/education/welcome/pages/LinguaggioPiano.aspx. 2. Cfr. M. T. Tiraboschi (a cura di) La cornacchia ladra. Guida per gli insegnanti al testo di facile lettura, Tecnodid, Napoli 1994.

Marco Guastavigna formatore, è stato insegnante nella scuola secondaria di secondo grado. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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verbo di modo finito) e finali (implicite con verbo di modo indefinito). Esplicitazione incostante del soggetto che svolge l’azione. Introduzione di forme passive. Mantenimento di livelli medi di coesione e di coerenza del testo; conservando in modo parziale l’identità di referenza del testo; l’ordine logico e gerarchico delle sequenze; l’aderenza alla grammatica delle storie e l’esplicitazione dell’obiettivo e della motivazione del testo. Controllo dei riferimenti enciclopedici e riduzione dei processi inferenziali richiesti per la comprensione del testo. La veste grafica prevede un corpo tipografico di moderata dimensione; un numero di parole per pagina compreso tra 150 e 200; paragrafi di moderata lunghezza e pagine più ricche di testo rispetto al livello 1 (Iniziale). Il testo può essere accompagnato da immagini più schematiche anche in bianco e nero.


Saperi / Direttiva sulla semplificazione dei testi amministrativi

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Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi Nel giugno 2002 il Ministro della Funzione pubblica, Franco Frattini, emana una circolare inviata a tutte le Pubbliche Amministrazioni: l’elaborazione del progetto “CHIARO” per la semplificazione del linguaggio amministrativo. Riportiamo di seguito un estratto della direttiva ministeriale contenente un decalogo per la redazione di stesti scritti, allo scopo di migliorare la comunicazione ai cittadini.

Scrivere frasi brevi —

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Le ricerche dicono che frasi con più di 25 parole sono difficili da capire e ricordare. Ogni frase deve comunicare una sola informazione. È sempre preferibile dividere la frase lunga, aumentando dunque l’uso della punteggiatura. Testo originale Qualora dal controllo dovesse emergere la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici conseguiti sulla base della dichiarazione non veritiera, fermo restando quanto previsto dall’art 26 della legge 4 gennaio 1968, n 15, in materia di sanzioni penali Testo riscritto Chi rilascia una dichiarazione falsa, anche in parte, perde i benefici descritti e subisce sanzioni penali. Art. 26, legge n. 15 del 4 gennaio 1968.

Usare parole del linguaggio comune —

Rispetto alle parole di un dizionario, quelle che usiamo di solito sono in numero molto contenuto. Il vocabolario di base della lingua italiana contiene meno di 7000 parole e sono quelle che dobbiamo preferire se vogliamo essere capiti da chi legge. Testo originale L’ufficio trattamento economico in indirizzo, cesserà la corresponsione degli emolumenti a decorrere dal 1° maggio 2001 Testo riscritto Dal 1° maggio 2001 il nostro ufficio sospenderà i pagamenti.

Usare pochi termini tecnici e spiegarli —

Contrariamente a quanto si crede, in un “testo di


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Testo originale Tali posizioni sono da identificare non tanto in diritti irrefragabili, il cui esercizio prescinde dall’adozione di atti permissivi dell’amministrazione, ma in situazioni giuridiche suscettibili di trasformazione a seguito di atti di tipo suindicato. Testo riscritto I cittadini che vogliono iniziare un’attività devono chiedere un’autorizzazione alle amministrazioni competenti.

Usare poco abbreviazioni e sigle —

È bene evitare abbreviazioni e sigle: spesso sono ovvie per chi scrive, ma non sono capite da chi legge. Se le usiamo, è bene che la prima volta che compaiono siano sciolte e scritte per

esteso. Fanno eccezione abbreviazioni e sigle d’uso consolidato e molto note (per esempio: Fiat, Cgil, Istat). Testo originale Le SS.LL. sono pregate di indicare al responsabile dell’U.R.P.A. i membri della commissione preposta al rilascio del patentino Testo riscritto Vi chiediamo di indicare al responsabile dell’ufficio regionale per le politiche agricole (Urpa) i membri della commissione per il rilascio del patentino.

Usare verbi nella forma attiva e affermativa —

È buona regola costruire il periodo usando prevalentemente frasi attive. Il testo con il verbo attivo e in forma affermativa è più incisivo, le frasi sono più brevi, la lettura più rapida. Testo originale Non volendo disconoscere a codesto ufficio il diritto di non ingerenza, viene tuttavia fatta richiesta che siano comunicati gli esiti della commissione

↑ Italo Calvino, fotografia di G. Giansanti, 1984, © Contrasto.

Saperi / Direttiva sulla semplificazione dei testi amministrativi

servizio” (un testo che informa o fornisce istruzioni) il numero di termini tecnici indispensabili è normalmente molto basso. In media, in un testo amministrativo le parole tecniche sono meno di cinque su cento.È bene usare solo quelle veramente necessarie e, quando possibile, spiegarne il significato in una nota oppure con un piccolo glossario.


Testo riscritto Vi chiediamo di comunicarci i risultati dei lavori della commissione.

Legare le parole e le frasi in modo breve e chiaro —

Costruire il testo in modo semplice e compatto significa anzitutto rendere esplicito il soggetto e ripeterlo quando è necessario. È opportuno evitare le sequenze di parole che non hanno un verbo in forma esplicita.

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Saperi / Direttiva sulla semplificazione dei testi amministrativi

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Testo originale ... stanti le urgenti ed indifferibili esigenze di personale in grado di garantire adeguata e qualificata attività di assistenza tecnica ai lavori ed agli interventi programmati dal settore dipartimentale 8 ...¢ Testo riscritto poiché il dipartimento 8 ha urgente bisogno di personale qualificato per svolgere i lavori e gli interventi programmati ...

Usare in maniera coerente le maiuscole, le minuscole e la punteggiatura —

Le maiuscole sono mezzi ortografici che hanno lo scopo di segnalare l’inizio di un periodo e i nomi propri. I testi amministrativi affidano spesso alle maiuscole contenuti stilistici di rispetto, di gerarchia, di enfasi. Questi usi sono retaggio di una cultura retorica, appesantiscono lo stile e il tono della comunicazione: essi devono essere eliminati o ridotti quanto più è possibile. La punteggiatura, per contro, suddivide il testo in unità di senso. Essa non solo guida l’occhio e la voce, ma articola il contenuto logico di quanto è scritto. Una buona punteggiatura obbliga a togliere ambiguità al testo e a collegare in modo corretto i contenuti. Testo originale L’emergere di nuove modalità d’interazione anche nel settore pubblico che coinvolgono istituzioni di diversa natura hanno inevitabilmente posto quesiti intorno alle configurazioni sia dei processi di decision making politico sia nelle configurazioni delle amministrazioni pubbliche e responsabili dell’offerta di servizi pubblici. Testo riscritto Anche nel settore pubblico emergono nuovi rapporti con istituzioni di diversa natura. Questo fenomeno pone due ordini di problemi. In primo luogo, dobbiamo ridefinire le procedure di decisioni delle istituzioni politiche. In secondo luogo, dobbiamo ridefinire le responsabilità delle amministrazioni pubbliche nella gestione dei servizi.

Evitare neologismi, parole straniere e latinismi —

Non si deve essere ostili, a priori, ai neologismi. Ma è consigliabile usarli solo se sono effettivamente insostituibili e non usarli se sono effimeri fenomeni di moda. Analogamente, le parole straniere e i latinismi vanno evitati ove sia in uso l’equivalente termine in lingua italiana. È ormai frequente il ricorso a termini tecnici propri della società dell’informazione e dell’elettronica: da evitare se ve ne siano di equivalenti nella lingua italiana. Testi originali 1.Tale servizio,come è noto,dovrà essere esternalizzato. 2. Bisogna porre particolare attenzione alla policy implementation 3. Le agevolazioni saranno concesse anche ai conviventi more uxorio. Testi riscritti 1. La gestione di questo servizio sarà affidata a un soggetto esterno. 2. Bisogna curare con attenzione le fasi di attuazione delle politiche. 3. Le agevolazioni saranno concesse anche alle coppie conviventi.

Uso del congiuntivo —

Il testo scritto richiede il rispetto del congiuntivo. Dove il contesto lo permette, è opportuno però sostituire il congiuntivo con l’indicativo o con l’infinito. L’indicativo rende il testo più diretto e evita informazioni implicite o ambigue. Testo originale Ove la commissione potesse riunirsi per tempo, le delibere sarebbero ancora valide Testo riscritto Se la commissione si riunirà per tempo, le delibere saranno ancora valide.

Usare in maniera corretta le possibilità di composizione grafica del testo —

I sistemi di video scrittura mettono a disposizione di chi scrive enormi possibilità di scelte grafiche e tipografiche. Neretti, sottolineature, corsivi, caratteri, grandezza del corpo, elenchi sono solo alcuni esempi di tali possibilità e possono aiutare a focalizzare l’attenzione. È bene tuttavia non abusarne e utilizzarli con parsimonia. Il testo sobrio è sempre visivamente leggibile e coerente. Testo originale Si comunica che NULLA OSTA per questo Comando alla sottodescritta ISTALLAZIONE


PRECARIA di materiale pubblicitario, alle condizioni retroindicate. Testo riscritto Il comando comunica che il materiale pubblicitario descritto può essere temporaneamente installato. L’installazione deve rispettare le condizioni seguenti: a. b. c.

Un esempio —

Il caso che presentiamo è un esempio di semplificazione di un testo usato da un’amministrazione. Lo riportiamo per mostrare i passi da compiere per scrivere o riscrivere un testo basandosi sulle regole appena indicate.

15 Saperi / Direttiva sulla semplificazione dei testi amministrativi

Testo originale. Di quanto sopra, io Segretario rogante ho ricevuto il presente atto, scritto con mezzi meccanici da persona di mia fiducia e parte a mano da me personalmente su 4 fogli dei quali occupa i primi 3 per intero e fino qui del contratto, atto che viene da me letto alle parti i quali, avendolo riscontrato pienamente conforme alla loro volontà, dichiarano di accettarlo e, pertanto, assieme a me lo sottoscriviamo come appresso, unitamente agli allegati di cui viene omessa la lettura avendo le parti medesime dichiarato di averne preso conoscenza. Caratteristiche del testo originale: • numero parole: 90; • numero frasi: 1; • numero tecnicismi: 2 (segretario rogante, parte) cioè circa il 2% del testo di servizio. Analisi del testo originale: • sequenza di parole senza un verbo in forma esplicita: “scritto con mezzi meccanici da persona di mia fiducia e parte a mano da me personalmente su 4 fogli”; • soggetti cancellati, cioè sostituiti da locuzioni avverbiali: “di quanto sopra; dei quali occupa; di cui viene omessa”; concordanze errate: “alle parti, i quali”; • forme stereotipate al posto del linguaggio comune: mezzo meccanico invece di macchina da scrivere; come appresso invece di di seguito; • unitamente invece di insieme; • falsi tecnicismi: omettere invece di non leggere; sottoscrivere invece di firmare; prendere conoscenza invece di conoscere; assenza del capoverso, • assenza del punto fermo, punteggiatura iterata; maiuscole di reverenza (Segretario).

Testo riscritto Il contratto occupa 4 pagine ed è stato compilato,nelle parti scritte a mano,dal sottoscritto, Eugenio Verdi. I signori Mario Rossi e Luca Neri lo hanno letto e dichiarano di accettarlo, avendolo riscontrato pienamente conforme alla loro volontà. I documenti allegati non sono stati letti, perché i signori Rossi e Neri affermano di conoscerli. Sia il contratto, sia i documenti allegati vengono firmati dal sottoscritto, da Mario Rossi e da Luca Neri. Caratteristiche del testo riscritto: • Numero parole: 73; • Numero frasi: 4. Roma, 8 maggio 2002 Il Ministro: Frattini Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 141 del 18 giugno 2002.

↑ Elsa Morante.


Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Saperi / Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica

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Nel corso del 2015 sono stati variamente ricordati i 40 anni dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, un testo pubblicato nel 1975 che ha sicuramente determinato l’impostazione culturale e le scelte educative di molti (o pochi?) insegnanti di italiano laureati tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso. di Mario Ambel

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el corso del 2015 sono stati variamente ricordarti i 40 anni dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, un testo pubblicato nel 1975 che ha sicuramente determinato l’impostazione culturale e le scelte educative di molti (o pochi?) insegnanti di italiano laureati tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso. Erano (eravamo) giovani aspiranti docenti che si affacciavano all’insegnamento in condizioni assai complesse e tumultuose, caratterizzate da una forte espansione della scolarizzazione di massa e da un conseguente precariato di entità abnorme, di cui facevano parte1. È giusto ricordare il contesto in cui nacquero le Dieci tesi perché la loro forte caratterizzazione “democratica”, marcata da quell’attributo che si richiamava esplicitamente al mandato dell’art. 3 della Costituzione, testimonia come quell’auspicato rinnovamento educativo avesse solide ragioni sociali e politiche. Ma nello stesso tempo, oggi, a 40 anni di distanza, quella caratterizzazione impone di interrogarsi sull’effettivo impatto avuto da quel documento, e su quanto davvero sia cambiata e in che direzione la didattica dell’italiano, per garantire quei principi che abbiamo indicato nel titolo di questa riflessione e che certamente erano fra le finalità strategiche di quel documento e del movimento che le sosteneva: comprensione, insegnabilità, inclusione. Erano queste le risposte che il Paese, alla fine del decennio della crescita economica e della forte migrazione interna,doveva dare agli squilibri socioculturali e alle sacche di emarginazione culturale e alfabetica che ancora lo caratterizzavano.

Per questi motivi, l’attuale quarantennale ha rappresentato, o avrebbe dovuto ancor più marcatamente rappresentare, l’occasione di un bilancio storico, forse con una declinazione generazionale, anche perché, sia detto più o meno per inciso, la generazione protagonista della lettura e dell’applicazione di quelle Tesi era quella che aveva avuto vent’anni attorno al 1968 e che da qualche anno sta progressivamente uscendo dalla scuola2. Questo bilancio avrebbe dovuto dirci se e quanto dello spirito e delle pratiche di quel documento e dei profondi cambiamenti che suggeriva siano stati recepiti dalla scuola e quanto abbiano effettivamente contribuito a rinnovare le pratiche didattiche nel “campo dell’educazione linguistica”, non solo per rispondere alle domande del passato, ma soprattutto per misurare la capacità di rispondere a quelle del presente. Vediamo dunque, per sommi capi, l’esito di quelle finalità strategiche.

Comprensione e partecipazione alla vita attiva —

Il problema dell’effettiva comprensione dei testi e più in generale delle molteplici forme di comunicazione contemporanea, come garanzia di partecipazione attiva alla vita democratica (uno degli assunti cardine della denuncia-progetto che Don Milani pose alla base di Lettera a una professoressa e che è certamente presente nelle Dieci tesi) si ricollega da un lato alla capacità della scuola di garantire adeguate competenze linguistiche, e dall’altro all’effettiva possibilità di fronteggiare l’evoluzione delle forme e degli strumenti della comunicazione di massa.


Sappiamo da riscontri diversi che lo stato di salute delle competenze linguistiche e culturali nel nostro Paese, a quasi tutte le età, fatta forse eccezione dei “lettori” più piccoli, è assai insoddisfacente. È lo stesso riconosciuto “padre” dell’educazione linguistica democratica, Tullio De Mauro, che ci ricorda sia i progressi compiuti,che i ritardi ancora da fronteggiare3. È come se, man mano che la scuola tenta di incrementare le competenze linguistiche della popolazione, l’asticella dell’obiettivo da raggiungere venisse spostata sempre più in alto. Le caratteristiche della comunicazione contemporanea, in termini di pluralità e complessità dei contenuti e delle forme testuali veicolate da una infinità di media tra loro diversi, pongono l’intera comunità scolastica di fronte a compiti cui essa fatica certamente a adeguarsi. E intanto, la comunicazione contemporanea appare caratterizzata da mutamenti che certo non vanno nella direzione di una maggior gestibilità generalizzata dei messaggi, la cui comprensibilità è spesso molto più apparente che sostanziale.

17 Saperi / Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica

Insegnabilità e resistenza al cambiamento —

Di conseguenza, il problema dell’insegnabilità “democratica” della lingua impone, ancora una volta, una duplice riflessione su quale lingua – anzi quali linguaggi4 – sia oggi necessario insegnare e su come sia possibile farlo in modo coerente e adeguato ai tempi. Da questo punto di vista si ha la sensazione che alcuni dei presupposti e delle indicazioni delle Dieci tesi vadano riadattati al nostro tempo, ma sostanzialmente ribaditi. Li si potrebbe riassumere in quell’attenzione alle varietà linguistiche, al plurilinguismo e alla trasversalità della lingua che stava fra i capisaldi del messaggio delle Dieci tesi, ma che è stata anche una fra le istanze più disattese5. L’insegnamento della lingua, in questi decenni, non solo non si è interrogato a sufficienza sulle trasformazioni in atto nella lingua italiana, inevitabilmente cambiata in seguito ai fenomeni sociali e culturali che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ma soprattutto ha finito col confermare modalità tradizionali e spesso perdenti di (non) “fare italiano”, per usare il bel titolo di un’antica proposta editoriale di Raffaele Simone. In una recente indagine della rivista «insegnare», svolta per misurare l’incidenza avuta dalle “Dieci tesi” sull’insegnamento dell’italiano, una delle domande chiedeva di dichiarare quanto si ritenessero oggi diffuse alcune pratiche didattiche6. La risposta è stata impressionante: tutte le prospettive e le pratiche didattiche che le Dieci tesi individuavano come auspicabili sono quelle a tutt’oggi (e forse più di ieri) meno frequentate

dalla scuola (per esempio il coinvolgimento di tutte le discipline nell’insegnamento linguistico o l’attenzione didattica al parlato e all’ascolto), al contrario sono ancora e sempre più diffuse tutte le pratiche che le Dieci tesi consideravano deleterie (per esempio l’insegnamento normativo e trasmissivo della grammatica o la riduzione della scrittura alle sole pratiche del tema, riassunto e commento).

Inclusione e debolezza politica e culturale —

Fortemente connessa alle prospettive dell’inclusione e del riscatto (di tutti e di ciascuno a partire dal rispetto e dalla valorizzazione del loro retro-

↑ Vladimir Nabokov a caccia di farfalle, 1970.


terra linguistico e culturale) sta ovviamente la modalità della scuola di rispondere alle vecchie e nuove diseguaglianze che in essa convivono e la attraversano, accentuando le resistenze selettive e discriminatorie o al contrario esaltando la capacità di prendersi cura dei disagi che quelle disuguaglianze La scuola continua a producono. Il lavoro che la trascurare la relazione scuola compie in questa educativa, ovvero la direzione continua a essere strenuo ed encomiabile, necessità di prendersi soprattutto nei luoghi “di cura culturale e umana frontiera”. Ma ancor oggi – degli allievi. forse più che nel 1975 – la scuola non può fronteggiare le disuguaglianze sociali fuori da un’azione coerente dell’intero contesto culturale, mediatico e politico, mentre, in realtà, spesso deve farlo nonostante o contro il contesto entro cui agisce. In questi mesi abbiamo anche ricordato che le Dieci tesi non si rivolgevano solo alla scuola, ma erano una sorta di appello “al mondo della cultura, all’Università, alle classi dirigenti, alle forze politiche e sociali”. Pertanto è a questo insieme di soggetti e di responsabilità che ci si deve rivolgere nel momento in cui constatiamo con amarezza che non tutto è andato come ci si sarebbe aspettati o quando verifichiamo quanto ancora oggi sia arduo dar corpo e continuità a quei principi7. La stessa editoria scolastica dovrebbe interrogarsi su quanto, in questi 40 anni, abbia orientato la didattica dell’italiano su strade più o meno vicine al dettato delle Dieci tesi oppure se, esaurita la spinta propulsiva degli anni Ottanta, non abbia preferito ripiegare su soluzioni più accomodanti.

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La mancata risposta alle nuove sfide —

Oggi, la possibilità di perseguire la comprensione, l’insegnabilità e l’inclusione appare del resto assai più complessa di allora, per l’insorgere di una serie di fenomeni noti e dei quali si discute ampiamente ma senza giungere a qualche concreta assunzione di responsabilità strategica. Si ha la sensazione, anzi, che a fronte delle nuove sfide determinate dall’incremento dell’eterogeneità delle classi conseguente ai flussi migratori, ai vecchi e nuovi disagi che disoccupazione e nuove povertà determinano, all’incremento caotico dei consumi tecnologici e a una trasformazione dei media di massa troppo spesso più subita che analizzata, la scuola reagisca con pericolosi ripiegamenti difensivi su territori tradizionali, consolatori e solo apparentemente adatti a fronteggiarle. In campo linguistico, la nostalgia per la grammatica tradizionale e la sempiterna “analisi logica”, così come per dettati e riassunti acriticamente riproposti, il ritorno massiccio della storia della letteratura, i “classici” di nuovo branditi come

campioni di identità spesso velleitarie, i libelli di addestramento alle prove Invalsi, sono segnali di un riposizionamento del tutto antitetico agli insegnamenti delle Dieci tesi, che vengono riproposti come reconquista della serietà perduta, come argine e antidoto alle nuove barbarie, siano esse etniche, culturali o pseudo tecnologiche. Si parla e si discute di migranti e di integrazione linguistica e si fanno passi avanti indubitabili nella ricerca e nella didattica dell’italiano come L2, si ragiona o per lo più si alimentano gare e progetti attorno alle innovazioni tecnologiche, s’immaginano alternative metodologiche capaci di fronteggiare la crisi strutturale della scuola, ma la sensazione resta quella di risposte episodiche, spesso governate più dagli interessi di parte o parziali dei promotori della riflessione che dall’esigenza di rispondere ai nuovi bisogni educativi. Parallelamente si ragiona anche molto di nuove disabilità, universo che coinvolge fortemente le visioni di scuola e di società e che chiama a un’effettiva riconsiderazione delle reali capacità inclusive della scuola a fronte di tutte le variegate “diversità” che la attraversano, nei cui confronti è necessario adottare “soluzioni adeguate perché non diventino disuguaglianze”,come recita una delle frasi meglio concepite delle “Indicazione per la scuola di base”. Sembra però mancare uno sguardo d’insieme, una capacità progettuale che ridia alla scuola motivazioni, condizioni e strumenti per fronteggiare queste nuove sfide.

Lingua e realtà, oggi —

Altre sollecitazioni che in questi anni si sarebbero dovute maggiormente cogliere vanno ripensate e tradotte in efficaci pratiche educative. La scuola continua a trascurare la relazione educativa, ovvero la necessità di prendersi cura culturale e umana degli allievi, e continua a sottovalutare il ruolo dei contesti esterni nelle dinamiche di apprendimento. Nei confronti della “realtà” – quella realtà così fortemente evocata nelle Dieci tesi come orizzonte permanente di confronto – la scuola continua a oscillare fra due estremi altrettanto infruttuosi: da un lato tende a ignorare il mondo esterno, a opporvi uno spesso sterile primato di una conoscenza fine a se stessa e a esaltare la qualità intangibile dei saperi disinteressati; dall’altro si piega a esaltare la funzionalità dell’educazione al mondo esterno, all’occupabilità, rincorrendo simulazioni o emulazioni della realtà che spesso finiscono col rendere il percorso scolastico un segmento di vita eccessivamente adattivo nei confronti di un futuro per altro in buona misura inconoscibile. Ma la cultura – e con essa la scuola,se vuole mantenere, per tutti e non solo per i liceali un’impronta culturale – non esiste solo per preparare, addestrare, allenare alla realtà: la cultura e la scuola hanno


NOTE 1. «Il precariato all’inizio degli anni Settanta era più numeroso: era quasi la metà del personale allora in servizio, il che vuol dire che si aggirava permanentemente intorno al mezzo milione di unità. […] La crescita della scolarizzazione tra il 1960 ed il 1975 era stata così impetuosa da mandare in “tilt” non solo la macchina amministrativa della scuola italiana insieme agli equilibri sociali, ma anche il tradizionale sistema di reclutamento basato sul concorso», da Giuseppe Patroncini, Il lavoro di supplente, Valore scuola, Roma 2000. 2. In occasione di questa ricorrenza quarantennale, qualcosa si è fatto. In particolare Giscel e Cidi, le sigle che storicamente hanno dato paternità al documento e che da allora, insieme al Lend, ne curano la memoria e la diffusione, hanno realizzato convegni e riflessioni pubbliche.Al Giscel,inoltre,il sito dell’Enciclopedia Treccani

ha affidato uno speciale dal titolo Quarant’anni dopo, le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica, consultabile all’indirizzo www.treccani.it/lingua_italiana/ speciali/tesi/mainSpeciale.html. Vi si possono leggere interessanti contributi di alcuni fra i più attivi testimoni di questa stagione.«insegnare»,rivista del Cidi,ha aperto uno spazio dedicato all’Educazione linguistica democratica, www.insegnareonline.com/orizzonti/educazione-linguistica-democratica/bacheca, che resterà attivo anche esaurita la fase commemorativa. 3. L’ultima occasione in ordine di tempo è stato per De Mauro l’intervento al Convegno nazionale del Cidi, Napoli, il 20 febbraio 2016, dove ha ricordato che «Ciò che è devastante (e che si ritorce contro la cultura dei giovanissimi) è l’incultura della popolazione: il 70% degli individui tra i 16 e i 65 anni ha difficoltà a capire un grafico, un articolo di giornale, e questi dati provengono dall’inchiesta “All”, un progetto di ricerca internazionale che tra il 2003 e il 2005 ha sondato in sette Paesi le competenze degli adulti»; cfr. “Una sfida ancora aperta”, report a cura di R. Angelelli, G. Calì, A. Gueli, in «insegnare» online, disponibile qui: www.insegnareonline.com/ rivista/oltre-lavagna/sfida-aperta. 4. La distinzione fra lingua e linguaggio fu una delle pietre miliari di quella stagione,a partire appunto dal saggio di R. Simone, “L’educazione linguistica dalla lingua al linguaggio”, in R. Simone, a cura di, L’educazione linguistica, La Nuova Italia, Firenze 1979 (1976, nella precedente edizione su «Scuola e città»). 5. Sul ruolo e la vitalità di questi concetti, dalle Dieci tesi a oggi, si vedano, nel citato speciale dell’Enciclopedia Treccani, i contributi in particolare di Alberto Sobrero, Rosa Calò e Cristina Lavinio. 6. L’indagine, che aveva lo scopo di interrogarsi su quanto la scuola abbia davvero recepito l’indirizzo sociale, epistemologico e didattico di quel documento, è stata svolta presso cento insegnanti “informati dei fatti”, ovvero docenti che in questi anni avessero partecipato a iniziative di ricerca e formazione nel campo dell’educazione linguistica. 7. Scrive Adriano Colombo nel citato speciale per l’Enciclopedia Treccani: «Quando ci chiediamo, preoccupati e un po’ delusi, perché l’incidenza delle Tesi sulla pratica didattica sia stata così limitata, non dobbiamo pensare in primo luogo alla sordità del corpo insegnante, ma chiederci che cosa abbia fatto l’Università per la loro formazione, che cosa abbia fatto il Ministero dell’Istruzione,dove siano i “centri locali e regionali di formazione e informazione linguistica e educativa” che dovevano sostenere il cambiamento richiesto, quale sia stata la consapevolezza della questione linguistica nella politica, sulla stampa, nell’editoria».

Mario Ambel per anni docente di italiano nella “scuola media”; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, direttore di «insegnare», rivista on line del CIDI.

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il compito di osservare la realtà, studiarla, interpretarla, preparare a viverla, ma anche sottoporla a critica, immaginarne una diversa, contribuire a cambiarla, possibilmente in meglio. E la funzione del controllo personale dei linguaggi,come già sostenevano le Dieci tesi,in questo è determinante: di tutti i linguaggi, nessuno escluso,applicati a qualsiasi universo di sapere e di agire, con qualsiasi “medium” siano veicolati – purché sia affrontata seriamente la dialettica fra la capacità di usare i media per adattarli alle nostre esigenze e gli interessi di alcuni di forgiare i bisogni umani adattandoli ai media che noi stessi abbiamo prodotto. A scuola, per gli allievi, a partire dai più piccoli, questa esigenza di chiarezza e di coerenti scelte strategiche è ormai divenuta improcrastinabile. Per questo avremmo forse dovuto utilizzare meglio le recenti ricorrenze, prima della scuola media unica e poi delle Dieci Tesi, per chiederci che cosa in questi anni è cambiato davvero e che cosa si poteva fare di più e meglio.Tanto più che oggi abbiamo altri e ancor più consistenti problemi da fronteggiare. Forse, invece di approvare leggi che fomentano nella scuola un’inopportuna quanto deleteria meritocrazia individuale (già nociva in tempi di espansione, figuriamoci in tempi di crisi polivalenti), sarebbe necessario avviare una consistente azione di ricerca e di intervento che coinvolga scuola, università e editoria nell’individuazione delle strategie più adeguate per affrontare, oggi, un contesto educativo per certi versi assai più variegato e complesso di quello che caratterizzò il decennio fra l’approvazione della scuola media unica (1962-63) e l’approvazione dei “Decreti delegati” del 1974 o, se si vuole, delle Dieci Tesi (1975) e dei “Nuovi programmi per la scuola media” (1979). Sarebbe spiacevole se fra altri quarant’anni una generazione che ha vissuto e vive i suoi vent’anni ora, tra crisi occupazionale, involuzione mediatica, espansione tecnologica e forti tensioni migratorie, dovesse registrare un’altra occasione perduta.


saperi

“Semplificare” sì, ma quanto e come?

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Saperi / Fabbricare il nemico: una “storia unica” a scuola?

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Nella variegata casistica degli aforismi sulla scrittura, non mancano certo gli inviti alla chiarezza e alla semplicità. Sono noti quelli di Galileo Galilei: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi” o di Francesco De Sanctis: “La semplicità è la forma della vera grandezza”. Ma che cosa significa “semplificare” il linguaggio? E fino a che punto è possibile farlo senza banalizzare o mistificare un contenuto complesso? Mi ha colpito, tempo fa, riascoltare una dichiarazione di don Lorenzo Milani, di cui spesso si ricorda la strenua difesa della necessità di conquistare il diritto alla parola per essere appieno cittadini, anzi egli diceva “sovrani” (nel senso che si ricava dall’art.1 della Costituzione). Queste le sue parole: «In statistica si usa chiamare analfabeta chi non ha fatto la terza, semianalfabeti quelli che hanno fatto la terza e alfabeti quelli che hanno fatto la quinta. Ma queste sono distinzioni statistiche con pochissimo fondamento nel reale perché io non considero che uno che sa leggere la Gazzetta [Sportiva] sappia leggere. La Gazzetta ha un suo vocabolario fatto di non più di 200 vocaboli e uno può con una certa facilità arrivare a leggere la Gazzetta dello sport e capire fino agli ultimi particolari, ma saper leggere la Gazzetta non significa saper leggere. Saper leggere significa, a dir poco, intendere il giornale dalla prima all’ultima pagina. Oppure, a dir poco poco, intendo la prima pagina del giornale. E non chiamerei cittadino a pieno diritto, cittadino sovrano chi non fosse in condizioni di intendere davvero la prima pagina del giornale oppure il livello di Tribuna politica o il livello di un comizio». Quest’affermazione di Don Milani è di estrema importanza poiché, in netto anticipo sui tempi, misura l’essere alfabeti non dalla classe frequentata ma dall’effettiva capacità di comprendere testi complessi e rilevanti sul piano democratico. Per questo non si accontentava che i suoi ragazzi sapessero leggere la pagina sportiva! Le sue considerazioni rimandano a un tema assai dibattuto: la comprensibilità del linguaggio pubblico, in particolare politico, che consenta davvero la partecipazione di tutti i cittadini,e il dovere costituzionale della scuola di fornire a tutti gli strumenti che garantiscano l’accesso a quei testi. Nello stesso tempo egli lavorò strenuamente

perché il testo dei ragazzi di Barbiana, pur affrontando un tema delicato e complesso, fosse chiaro e comprensibile. Lettera a una professoressa è infatti considerato un libro non solo rivoluzionario per i temi trattati e le idee sostenute, ma anche per lo stile chiaro ed efficace, che ben ne sorregge la dura critica alla scuola borghese, che faceva dell’oscurità linguistica uno dei suoi strumenti di selezione. Le pagine in cui gli allievi di Don Milani descrivono la loro tecnica di scrittura sono mirabili e si commentano da sé. Noi dunque si fa così: Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due. Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire. Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza. Dopo che s’è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: “Questa lettera ha uno stile personalissimo”… Da Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Editrice Fiorentina, Firenze 1967.


Digitale, ma sempre un libro In che forma i libri di testo possono conservare la loro funzione nell’era del digitale? Come devono essere concepiti, pensati, scritti, intesi, proposti, usati? Proviamo a rispondere ripercorrendo alcune tappe della complessa storia del libro di testo come strumento di apprendimento. di Gino Roncaglia

ta complessa e articolata. L’obiettivo non è dunque quello di costruire strumenti di apprendimento alternativi al libro, ma quello di moltiplicare i libri utilizzati, per moltiplicare le voci e i punti di vista presi in considerazione. Fra i risultati di questa vivace discussione critica è stata la ratifica – nella legge 517 del 1977 – della possibilità di adozioni alternative. Ma l’esito concreto non è stato affatto quello dell’abbandono dei libri di testo: piuttosto, la contestazione degli anni Sessanta e Settanta ha portato a un cambiamento radicale nell’impianto editoriale adottato nel costruirli. In questa seconda fase, che va più o meno dalla seconda metà degli anni Settanta all’inizio del nuovo Millennio, i libri di testo si pongono il problema di essere “politicamente corretti”,di dare voce a una pluralità di punti di vista e di opzioni didattiche diverse; da un impianto univoco e sintetico si passa a opere sempre più ricche e voluminose, che si rivolgono in primo luogo all’insegnante e che all’insegnante offrono non già una sintesi ma una pluralità di contenuti corrispondenti a una pluralità di scelte possibili. Vengono così realizzati libri di testo che rappresentano veri e propri ‘tour de force’ editoriali. Libri a volte bellissimi per impianto e ricchezza di contenuti, ma sovrabbondanti e pensati con in mente più il docente chiamato a sceglierli che lo studente chiamato a utilizzarli concretamente come strumenti di studio. Anziché sparire, insomma, in questa seconda fase i libri di testo – preoccupati di rispondere contemporaneamente a domande e necessità formative sempre più differenziate e complesse – crescono fino all’elefantiasi. Nel contempo, però, proprio nella capacità di adattamento editoriale a esigenze assai diverse rispetto a quelle del passato, il modello rappresentato dal libro di testo si mostra straordinariamente radicato e resistente. Le ragioni di questa resistenza sono numerose, ma alcune mi sembrano più importanti di altre e vanno considerate anche oggi, nell’incontro con il

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a storia dell’uso del libro di testo come strumento di apprendimento è lunga e complessa; se si vuole capire se e in che forma i libri di testo possano conservare la loro funzione nell’era del digitale, occorre ricordarne almeno alcune tappe. Nel nostro Paese, nel secondo dopoguerra, l’editoria scolastica ha attraversato sostanzialmente tre fasi. In un primo periodo, che arriva più o meno alla metà degli anni Settanta, il libro di testo si propone come strumento unico, spesso – soprattutto per quanto riguarda la scuola dell’obbligo e le discipline umanistiche – fortemente orientato alla riproposizione acritica di modelli ideologici e valoriali tradizionali. Sono i libri di testo che, in particolare con riferimento alla scuola primaria, Umberto Eco e Marisa Bonazzi mettono in ridicolo in un libro caustico e irriverente che varrebbe la pena rileggere: I pampini bugiardi, del 19721. Sono i libri di testo che il Movimento di cooperazione educativa comincia a criticare già nella prima metà degli anni Sessanta, proponendo il modello alternativo rappresentato dalla biblioteca di classe. Sono i libri di testo che entrano – giustamente – nel mirino della contestazione da parte del movimento del ’68, e che sono più pacatamente (ma non meno radicalmente) criticati dalla riflessione pedagogica che accompagna l’attenzione sul tema della riforma della scuola durante gli anni dei governi di centro-sinistra. In discussione in questo periodo e in questi interventi non è tanto il ruolo della forma-libro come strumento didattico e di apprendimento, quanto l’idea del libro di testo unico, portatore di una visione del mondo e della disciplina a sua volta unica e totalizzante, incapace di riflettere la pluralità di concezioni, di voci, di metodologie formative che sarebbe invece necessario interpellare per fornire ai discenti strumenti effettivamente in grado di aiutarli nella comprensione di una realtà a sua vol-

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Saperi / Digitale, ma sempre un libro

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digitale e con una pluralità di nuove tipologie di strumenti di apprendimento2. 1. Il libro di testo – a differenza delle risorse di apprendimento granulari, come schede, pagine fotocopiate, learning object, siti o pagine web, singoli contenuti audio o video – permette un’organizzazione articolata, complessa e fortemente strutturata dei contenuti. I libri di testo «sopravvivono e prosperano (…) in primo luogo perché sono lo strumento più efficace per fornire quella strutturazione che il sistema dell’insegnamento e dell’apprendimento – particolarmente in una fase di forti cambiamenti – richiede»3. «Un libro di testo fornisce una struttura di riferimento (framework) chiara: docenti e studenti sanno dove stanno andando e cosa li aspetta,e questo produce un senso di organizzazione e di progresso»4. Da questo punto di vista, il libro di testo si è sempre proposto e continua a proporsi come strumento per una didattica “forte”, in cui sia l’organizzazione complessiva del percorso di apprendimento sia il peso e lo spazio riservato ai diversi argomenti sono il risultato di una valutazione non occasionale ma specifica e consapevole. 2. Il libro di testo fornisce a docenti e studenti un punto di riferimento canonico e curricolare, in un contesto formativo che richiedeva e continua a richiedere canoni e curricula (anche se adesso si chiamano Indicazioni Nazionali).In tal modo, il libro di testo contribuisce «a garantire un collegamento, un ponte fra i programmi ufficiali e la loro applicazione in classe»5, e nel contempo aiuta a garantire l’esistenza di standard comuni per la formazione e l’apprendimento che avvengono in istituzioni scolastiche diverse, ma che si basano sullo stesso curriculum di studi6. Non è un caso, quindi, che il grado di copertura curriculare costituisca in moltissimi casi e in Paesi diversi – a partire da quelli più avanzati – un elemento essenziale nella valutazione dei libri di testo (siano essi cartacei o elettronici). 3. Il libro di testo garantisce di norma un alto livello di cura autoriale ed editoriale, legata al lavoro di figure professionali diverse, auspicabilmente dichiarate e riconosciute: oltre all’autore o agli autori, una redazione, alla quale sono affidati il coordinamento e la revisione editoriale del testo, nonché un lavoro specifico su apparato iconografico, infografica, tabelle, esercizi, ecc.; la redazione garantisce inoltre professionalità nell’impaginazione e nella cura tipografica, nell’acquisizione di diritti, nella distribuzione, nell’aggiornamento. Il libro di testo è insomma di norma il prodotto di un lavoro che impegna una équipe di esperti e richiede competenze assai diversificate7. 4. Il libro di testo costituisce una risorsa di apprendimento almeno in parte indipendente e autonoma, che – diversamente da molte risorse

granulari – è sempre a disposizione del discente ed è riusabile anche indipendentemente dal contesto strettamente scolastico e dopo la fine del percorso di formazione formale. Da questo punto di vista, il libro di testo può essere considerato anche come uno strumento di reference, utile per l’aggiornamento e la formazione permanente8. 5. Proprio per la sua organizzazione strutturata, per la copertura curriculare, per l’organizzazione del contenuto, il libro di testo aiuta lo studio e la memorizzazione, e consente di tornare in qualunque momento su un passaggio, rileggere, sottolineare, annotare. 6. Il carattere di prodotto editoriale organico, riconoscibile, pubblicamente disponibile proprio del libro di testo facilita la validazione e il controllo qualitativo dei contenuti,anche attraverso il confronto fra libri di testo diversi e il dibattito aperto fra i diversi soggetti interessati (in primo luogo gli insegnanti). 7. La riconoscibilità dell’autore o del gruppo di autori – spesso specialisti fra i più noti della materia – e il meccanismo pubblico di validazione appena ricordato rendono di norma il libro di testo un prodotto editoriale non solo legato a una responsabilità autoriale esplicita, ma anche dotato di una propria autorevolezza. Nel caso del libro di testo, insomma, l’auctor corrisponde di norma a una auctoritas effettiva e verificabile. E questo aiuta anche a rendere più facilmente identificabili e riconoscibili i presupposti metodologici e teorici, gli eventuali condizionamenti ideologici o di scuola, e in generale l’impostazione complessiva dell’opera. Credo siano soprattutto queste caratteristiche a spiegare perché il libro di testo sia non solo sopravvissuto alle contestazioni, ma sia rimasto – anche nei Paesi tecnologicamente più avanzati – uno strumento di apprendimento essenziale.E tuttavia indubbiamente l’incontro con il digitale è all’origine di una nuova fase nello sviluppo di libri di testo. Inizialmente questa nuova fase si manifesta soprattutto con la crescita dell’apparato iconografico e con una strutturazione più articolata dei contenuti: il libro di testo non si trasforma ancora in un oggetto digitale (o anche digitale), ma cerca in qualche misura di riprodurre su carta la ricchezza del nuovo ecosistema comunicativo: infografica, collegamenti interni, box, arricchimento dei contenuti visivi e maggiore integrazione fra testo e immagini.Progressivamente,però,il digitale entra in maniera più diretta: prima in forma di CD-ROM allegati al libro,poi con la trasformazione della rete in un serbatoio parallelo di contenuti granulari potenzialmente preziosi, spesso distribuiti in forma aperta e gratuita, che si affiancano agli strumenti tradizionali. Come ultimo passo, lo stesso libro di testo comincia progressivamente a trasformarsi


(pur se ancora con qualche timidezza, legata sia all’arretratezza delle infrastrutture di rete nelle scuole, sia a resistenze culturali) in un oggetto esclusivamente o prevalentemente digitale.

I libri di testo online —

NOTE 1. M. Bonazzi, U. Eco, I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, Guaraldi, Farigliano 1972. 2.Riprendo qui,semplificandolo leggermente,lo schema che avevo già proposto in G. Roncaglia, Ruolo ed evoluzione dei libri di testo, in E. Barbieri, R. M. Borraccini, A. Petrucciani, C. Reale (eds.), Miscellanea in onore di Marco Santoro, in corso di stampa. 3.T. Hutchinson, E.Torres, The Textbook as Agent of Change, ELT Journal n. 48/4, 1994, pp. 315-328, p. 317. Garantire la strutturazione di un programma di studio è considerato il primo vantaggio dei libri di testo anche in J. C. Richards, The role of textbooks in a language program, in rete alla pagina http://www.professorjackrichards.com/ wp-content/uploads/role-of-textbooks.pdf. 4. P. Ur, A course in English Language Teaching, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. 198. 5. M. Drechsler, Manuels scolaires et albums augmentés. Enjeux et perspectives pour une pédagogie du 21e siècle, collana Comprendre le livre numérique,edizione digitale Numeriklivres, 2011, loc. 137. 6. Cfr. J. C. Richards, The Role of Textbooks cit. 7. Si veda al riguardo F-M. Gerard, X. Roegiers, Des manuels scolaires pour apprendre. Concevoir, évaluer, utilizer, 2e édition, Éditions De Boeck, Bruxelles 2009, cap. 1, in particolare pp. 11 e sgg. 8. Cfr. F-M. Gerard, X. Roegiers, Des manuels scolaires cit., p. 91.

Gino Roncaglia è docente alla Università della Tuscia.

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Ma i contenuti disponibili online non potrebbero direttamente sostituire il libro di testo? Ritengo proprio di no: il loro carattere granulare e specifico permette certo aggregazioni, ma non garantisce quelle funzioni di filo conduttore “forte”, strutturato,di cui abbiamo sottolineato l’importanza.Una didattica e un apprendimento che fossero basati solo sull’uso di risorse granulari mancherebbero di coesione narrativa, di punti di riferimento riusabili, di struttura: una didattica solo granulare sarebbe una didattica debole e destrutturata. L’esistenza e la disponibilità di contenuti granulari e integrativi permette però di rinunciare all’utopia di un libro di testo onnicomprensivo, capace di ricondurre al suo interno ogni voce e ogni punto di vista: la diversità delle voci non deve essere più ricondotta a forza all’interno di un unico supporto. Il libro di testo diventa uno degli strumenti di apprendimento: uno strumento certo fondamentale, ma non unico né caricato della responsabilità di soddisfare ogni esigenza del docente o del discente. Non è un caso dunque che il processo di progressiva ipertrofia che aveva caratterizzato la seconda fase della nostra storia, negli ultimi anni sia non solo interrotto, ma anche regredito. Il libro di testo può oggi essere pensato (deve essere pensato) come un filo conduttore più essenziale e sintetico, rivolto molto più direttamente al discente, e assai più aperto a integrazioni esterne. Questa integrazione può certo essere avviata già su carta, ma si sposterà sempre più sul terreno del digitale: su quel terreno è lo stesso libro di testo a trasformarsi, in particolare attraverso l’inclusione di contenuti multimediali e infografica animata. Le potenzialità del digitale in termini di uso integrato di codici comunicativi diversi (testo, audio, video, immagini…) impongono infatti una profonda revisione anche nel linguaggio usato nei testi: al posto del predominio assoluto del codice scritto, si aprono anche nel mondo dei libri di testo le nuove frontiere della crossmedialità (capacità di proporre le stesse informazioni in forme diverse utilizzando media e codici comunicativi diversi, che si rinforzano a vicenda) e della transmedialità (articolazione dei contenuti e dei messaggi all’interno di un universo comunicativo multimediale e multicodicale: al posto di contenuti autosufficienti si hanno in questo caso contenuti distribuiti selettivamente su media diversi, che devono essere utilizzati in forma integrata).I nuovi libri di testo, per rispondere davvero alle abitudini comunicative delle nuove generazioni, dovranno

dunque costruire una narrazione didattica (oggi è di moda chiamarla storytelling) molto più articolata di quanto non avvenisse in passato. In un certo senso, dovranno almeno in parte imitare strategie comunicative già largamente usate in altri settori: si pensi ad esempio all’incontro fra televisione e rete nei nuovi format ibridi rappresentati dalle serie televisive integrate da episodi su web. Credo insomma che ci aspettino in futuro libri di testo (e contenuti di apprendimento) notevolmente diversi da quelli di oggi. Ma questa trasformazione, certo radicale, modifica davvero il ruolo e la funzione essenziale dei libri di testo? A mio avviso, no: anche in digitale – e direi quasi soprattutto in digitale – il libro di testo dovrà continuare a fornire un filo conduttore, un punto di riferimento comune e condiviso, autorevole e validato, e continuerà quindi ad essere un tipo di risorsa di apprendimento diversa rispetto ai contenuti granulari e integrativi (coi quali tuttavia – come abbiamo visto – dovrà saper dialogare). Continuerà insomma a dover rispondere alle sette esigenze ricordate sopra. Proprio per questo anche in futuro – e anche in digitale – di libri di testo, di nuovi libri di testo, continueremo ad avere bisogno.


Quattro poesie di Valerio Magrelli

Saperi / Quattro poesie di Valerio Magrelli

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Magrelli è il poeta che più di ogni altro, in Italia, è riuscito a rappresentare l’esperienza della scrittura e della lettura. Di seguito pubblichiamo quattro sue poesie tratte da altrettanti libri. Nella prima, da Esercizi di tiptologia (Mondadori, Milano 1992), Magrelli traduttore s’immagina affine al traslocatore.

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

La seconda, Infanzia del lavoro, mette in scena lo straordinario fenomeno dell’apprendimento della lettura da parte di una bambina (da Disturbi del sistema binario, Einaudi, Torino 2006). La terza, prelevata da Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, Torino 1999), fornisce una puntuale definizione della poesia dal punto di vista di chi la legge. La quarta poesia è tratta da Ora serrata retinae (Feltrinelli, Milano 1980), e mette in scena l’atto di scrivere e di vedersi scrivere.

L’IMBALLATORE Cos'è la traduzione? Su un vassoio la testa pallida e fiammante d'un poeta. V. Nabokov L'imballatore chino che mi svuota la stanza fa il mio stesso lavoro. Anch'io faccio cambiare casa alle parole, alle parole che non sono mie, e metto mano a ciò che non conosco senza capire cosa sto spostando. Sto spostando me stesso traducendo il passato in un presente che viaggia sigillato racchiuso dentro pagine o dentro casse con la scritta "Fragile" di cui ignoro l'interno. È questo il futuro, la spola, il traslato, il tempo manovale e citeriore, trasferimento e tropo, la ditta di trasloco.


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INFANZIA DEL LAVORO Guarda questa bambina che sta imparando a leggere: tende le labbra, si concentra, tira su una parola dopo l’altra, pesca, e la voce fa da canna, fila, si flette, strappa guizzanti queste lettere ora alte nell’aria luccicanti al sole della pronuncia.

*** Scivola la penna verso l’inguine della pagina, e in silenzio si raccoglie la scrittura. Questo foglio ha i confini geometrici di uno stato africano, in cui dispongo i filari paralleli delle dune. Ormai sto disegnando mentre racconto ciò che raccontando si profila. È come se una nube arrivasse ad avere forma di nube.

*** LA POESIA Le poesie vanno sempre rilette, lette, rilette, lette, messe in carica; ogni lettura compie la ricarica, sono apparecchi per caricare senso; e il senso vi si accumula, ronzio di particelle in attesa, sospiri trattenuti, ticchettii, da dentro il cavallo di Troia.

Valerio Magrelli è professore di letteratura francese all’Università di Cassino, saggista e traduttore. Grazie alla sua attività di scrittore di prose autobiografiche e di poesie si è affermato a livello internazionale come uno degli artisti più importanti dell’Italia contemporanea. I suoi libri di poesia più recenti sono Il sangue amaro (Einaudi 2014) e La lingua restaurata e una polemica. Otto sonetti a Londra (Manni 2014).

↑ Alighiero Boetti, Il Mondo Possibile, 1980, biro su carta.


dossier

Comunicare con le immagini L’utilità e il danno dell’uso delle immagini nei libri di testo. 26

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Dossier / Comunicare con le immagini

di Ubaldo Nicola

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egli ultimi anni i manuali scolastici sono diventati sempre più illustrati,anche quelli di livello liceale e di discipline che sino al recente passato erano di esclusivo dominio della parola, come la letteratura e la filosofia. Riscontrabile nei prodotti di tutte le case editrici, questa tendenza ha probabilmente motivazioni diverse, dal desiderio di rendere più appetibili i volumi sino alla consapevolezza del crescente ruolo delle immagini nella cultura contemporanea, e quindi all’opportunità di includerle e commentarne il significato come parte non accessoria dei testi. Questa evoluzione, tuttavia, non è stata accompagnata da una specifica riflessione né da ricerche sull’effettiva utilità didattica delle immagini. O dovremmo dire sui danni da esse prodotti? Non è assodato infatti che tale proliferazione di illustrazioni sia di per sé positiva. Se, come vuole un’opinione comune, le capacità intellettive dell’uomo contemporaneo sono sfavorite dal pressante bombardamento di immagini che subisce quotidianamente guardando la Tv o sfogliando una rivista, è giusto che i manuali scolastici si adeguino a questo registro comunicativo? In breve: ha la pedagogia qualcosa da dire sull’opportunità di introdurre forme di comunicazione visiva nell’insegnamento? Possiamo rispondere in due modi a questa domanda: rivolgendoci alla storia oppure alle riflessioni d’Oltralpe sulla visual literacy.

Un libro ancora tutto da scrivere —

Una storia della pedagogia delle immagini dovrebbe partire dalle Tabulae Iliacae, ossia da uno strumento didattico che pur scolpito nella pietra appare straordinariamente simile a una modernissima tavola infografica.


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La fotografia della bandiera americana issata sul monte Suribachi nell’isola di Ivo Jima è probabilmente l’icona più diffusa e più dotata di valore simbolico della Seconda guerra mondiale. Valse il premio Pulitzer al fotoreporter Joe Rosenthal e ha fornito il soggetto del monumento che nel cimitero di Arlington commemora tutti i marine morti in guerra. È però un clamoroso falso, una messa in scena a opera di Rosenthal, che essendo arrivato sulla vetta troppo tardi fece ripetere la cerimonia collocando altri soldati in una suggestiva composizione artistica triangolare. Flags of Our Fathers, un film del 2006 diretto da Clint Eastwood, racconta la vera storia della fotografia, del fotografo e dei soldati che si fecero fotografare. La propaganda militare li trasformò nei simboli viventi dell’eroismo americano: furono subito riportati negli USA per dar vita a un massiccio tour di raccolta di finanziamenti.


Dossier / Comunicare con le immagini

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La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

↑ Tabula Iliaca, epoca augustea, Musei Capitolini, Roma.

Possediamo una ventina di queste Tabulae, tutte provenienti dalla campagna romana. Sono sottili lastre di marmo dense di testi e bassorilievi usate nelle classi al tempo di Augusto o di Tiberio. La più conservata, seppure rotta nel lato sinistro, è larga 30 centimetri e alta 25: è la Tabula Iliaca Capitolina, dedicata al ciclo troiano, come si legge nella leggenda scritta nella parte centrale in caratteri grandi. Delle altre, quindici si riferiscono a episodi dell’Iliade, tre all’Odissea, una al mito dei sette contro Tebe, una a quello dell’apoteosi di Eracle, mentre altre infine sembrano riguardare avvenimenti storici. È la prova che la produzione di queste tavole non era occasionale ma rispondeva a precise strategie didattiche valide per lo meno nello

studio delle opere letterarie, dei miti e della storia. La materia, data la sua complessità, è distribuita in una griglia di cornici inquadrate in un’architettura immaginaria, il cui elemento grafico centrale è dato dalle due colonne. Sull’unica rimasta vi è un succinto sommario dei libri XIII e XXIV dell’Iliade; quelli dall’II al XII erano sul pilastro sinistro, mentre la centralità didattica del libro I è riconosciuta assegnando ad esso la zona trasversale superiore. Le cornici rettangolari a fianco delle colonne (12 quelle ancora visibili) mettono in figura le scene indicate nei testi, funzionando così come supporti per l’ancoraggio mnemonico, in particolare degli eroi coinvolti, espressamente indicati sotto ogni figura.Che la progettazione

risponda a un preciso piano formativo è dimostrato anche dalla cornice centrale, in evidenza fra le due colonne, dedicata alla Distruzione di Troia di Stesicoro, un’opera centrata sul personaggio di Enea e quindi connessa alla nascita di Roma e funzionale all’adattamento imperiale dei modelli greci. Se si pensa al notevole impegno richiesto per scolpire nel marmo una tale quantità di immagini e testi, per giunta in una scala miniaturizzata, si è impressionati dallo sforzo degli antichi maestri per superare il logocentrismo didattico, in un’epoca in cui peraltro l’unico obiettivo della scuola era formare buoni oratori. La complessità delle Tabulae comportò quindi una divisione del lavoro nella loro produzione tale da render-


no Bruno tentò addirittura di trasformare in una ars inveniendi. E per la contemporaneità ricordiamo Otto Neurath, il filosofo inventore (per motivi filosofico-didattici) dell’Isotype, acronimo di International System of Typographic Picture Education, da cui deriva tutta la comunicazione contemporanea basata su pittogrammi, dalle icone sul computer alla segnaletica stradale.

Le riflessioni contemporanee —

La storia dell’uso didattico delle immagini mostra quindi una grande ricchezza di esperienze specifiche e diversamente finalizzate. È una complessità che riflette da una parte la grande molteplicità di usi cui si prestano le rappresentazioni visive, dall’altra l’indeterminatezza che connota lo stesso concetto di immagine, categoria che include una vasta serie di fenomeni, dalle metafore della lingua parlata alla grafica scientifica. È una situazione che in fondo determina anche il panorama attuale della riflessione pedagogica in questo campo di cui cerchiamo di dar conto in questo Dossier. Da una parte infatti abbiamo le ricerche sulla visual literacy, l’alfabetizzazione visiva. L’articolo di Suzanne Stokes è forse un po’ datato (risale a una quindicina di anni fa) ma ha il pregio di sintetizzare il tipo di indagini svolte in questo settore. Non si può certo dire che siano entusiasmanti: i numerosi sforzi di delimitare il fenomeno in una definizione essenziale ed esaustiva mi sembrano al contempo impossibili e inutili, in ogni caso inadeguati a coprire la multiforme varietà delle forme visive di comunicazione. Ed anche i tentativi di comparare matematicamente l’efficacia di messaggi orali, visivi o misti rimangono sul piano di uno sperimentalismo psicologico e

teorico poco attinente a una didattica effettiva, dato che non si tiene conto di come la fruizione delle immagini si ponga sempre in contesti concreti, ossia all’interno di discipline specifiche che intrattengono rapporti diversi con il visivo. Forse non è poi così grave che la voce visual literacy in Wikipedia non abbia una versione in italiano (ma c’è in arabo, giapponese, ecc.). Più numerose e interessanti sono le ricerche condotte sui contenuti effettivi veicolati dalle immagini di fatto utilizzate nella didattica, ad esempio nei libri di testo elementari, liceali e universitari. La maggior parte di queste analisi riguardano opere illustrate in uso nelle scuole di base e considerano le immagini quali possibili veicoli di stereotipi di genere, una questione che la sensibilità contemporanea reputa sempre più importante. Non mancano però le ricerche focalizzate su questioni specifiche, come quella sulle immagini descrittive della povertà nei manuali di economia in uso nelle università americane di Rosalee A. Clawson. Sono considerazioni a basso contenuto teorico ma dirompenti perché mettono in

“La maggior parte delle analisi

riguardano opere illustrate in uso nelle scuole di base e considerano le immagini quali possibili veicoli di stereotipi di genere.

luce la potenzialità mistificatoria di un uso non adeguatamente controllato delle immagini, specie quando sono presentate in serie complesse e coordinate, così da favorire la percezione di associazioni e di costanti. Un esempio di ricerca che abbiamo cercato di emulare nell’ultimo articolo, analizzando la comunicazione visiva messa in atto in tre manuali di storia. Ubaldo Nicola Direttore editoriale de La ricerca.

29 Dossier / Comunicare con le immagini

le molto “moderne”, anche nei difetti. Un esame dettagliato, infatti, mostra come vi siano scollature di significato fra alcune immagini e i testi di riferimento: significa che il lapicida non si coordinò adeguatamente con l’esecutore dei bassorilievi. Se le tavole iliache usavano le immagini in funzione della sintesi e dell’ancoraggio mnemonico, diverso appare lo scopo degli exultet medioevali, i rotoli di pergamena che il sacerdote svolgeva dal pulpito, così da mostrare ai fedeli le scene della passione di Cristo illustrate su un lato mentre lui stesso leggeva i testi sul retro. Il fruitore percepiva quindi immagini in successione accompagnate da un commento orale, sperimentando una specie di TV lenta e interattiva, capace di suggestionare senza eliminare i tempi necessari alla riflessione. Dovremmo poi parlare della didattica degli emblemata praticata nei collegi gesuitici nei secoli XVI e XVII. La ratio studiorum prevedeva di esercitare gli alunni a decodificare ed inventare loro stessi immagini concettuali, cioè allegorie capaci di esprimere nozioni astratte. Un esercizio in cui eccelleva il giovane Cartesio, che con il permesso degli insegnanti (giustificato anche dalla sua debole salute) passava le mattinate sdraiato nel letto, immobile, esercitandosi a visualizzare concetti astratti sul soffitto. Non dico che scoperse allora d’essere res cogitans, ma da grande ebbe sempre buone parole per i padri di La Flèche e per i loro metodi didattici. Altri capitoli dovrebbero trattare di Comenio e dell’Orbis sensualium pictus, cioè dell’invenzione del primo sussidiario illustrato per bambini (dopo duemila anni!). E, nella stessa epoca, delle sperimentazioni sulle lingue figurate o geroglifiche, e poi ancora del patrimonio di riflessioni sui rapporti fra immagini e concetti promosso dalla ars memorandi, che Giorda-


Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali? Dossier / Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali?

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È la domanda cui cercano di rispondere le ricerche sulla visual literacy, l’alfabetizzazione visiva. Questo articolo offre un’ampia rassegna dei temi più trattati in questo settore della sperimentazione didattica, molto frequentato nella pedagogia anglossassone. di Suzanne Stokes

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ggi la presenza di contenuti visivi è crescente sia nell’insegnamento scolastico sia nell’apprendimento informale, così come lo è l’integrazione di testi e immagini nella manualistica, nell’uso delle lavagne luminose, nelle attività supportate da computer e in genere nelle presentazioni basate su interfacce elettroniche.

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Quanto (poco) sappiamo degli stili cognitivi —

L’indirizzo tradizionale e ancor oggi più frequentato in pedagogia si fonda su competenze sequenziali,verbali e logico-matematiche elaborate dall’emisfero sinistro del cervello (West, 1997). Vi sono però individui che durante i processi cognitivi attivano prevalentemente le aree cerebrali dell’emisfero destro, in cui si organizzano competenze spaziali e non verbali, e possono essere in difficoltà nell’adeguarsi a uno stile pedagogico non confacente alle loro capacità.

Liu e Ginther definiscono lo stile di apprendimento cognitivo come «una predisposizione strutturale e caratteristica di ogni individuo a percepire, ricordare, organizzare ed elaborare i dati del pensiero in un particolare modo». Aggiungono che lo stile di apprendimento costituisce il principale fattore di differenza fra gli studenti e che si otterrebbero grandi vantaggi se i materiali didattici e gli stili di insegnamento fossero coordinati con il loro peculiare modo di imparare. Tuttavia, sebbene risulti con evidenza che gli individui si differenziano nel privilegiare l’uno o l’altro emisfero cerebrale, la ricerca scientifica non ha ancora chiarito il grado di questa polarizzazione e soprattutto le sue conseguenze sulle modalità verbali e non verbali del pensiero (West). Nonostante queste difficoltà interpretative,rimane la problematica evidenza che, mentre la maggior parte delle persone tende a pensare in termini verbali e non visivi, l’uso di visualizzare i

concetti sembra essere crescente nella società contemporanea. Un tema molto trattato in queste ricerche riguarda il modo in cui le competenze visive, in qualunque modo le si voglia definire, possano essere sviluppate. Le prime ipotesi, elaborate da Tuckey e Selvaratnam, mettevano in luce la centralità della pratica e delle esperienze concrete. Altre più recenti, tuttavia, sottolineano l’importanza della preparazione di base dello studente, un fattore decisivo per l’efficacia della strumentazione didattica visiva. Studenti con uno scarso dominio concettuale della materia possono trovarsi in grave difficoltà nell’interpretare espressioni grafiche non del tutto evidenti. Da non dimenticare, infine, che i linguaggi visivi giocano un ruolo importante nell’educazione di alunni sofferenti di disabilità linguistiche e disordini dell’udito, così come si dimostrano molto utili quando vi sono da superare barriere linguistiche.


Le (tante) definizioni di visual literacy —

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consapevolezza delle sue dinamiche specifiche. Come quella linguistica, anche l’alfabetizzazione visiva è culturalmente determinata, sebbene esistano forme simboliche universali e immagini interpretate ovunque allo stesso modo.

La natura delle competenze visive —

Branton propone due interessanti domande: «L’uso delle moderne tecnologie richiede particolari competenze visive?». E d’altra parte: «Può la stessa tecnologia essere utilizzata per migliorare le capacità del pensiero visivo?». Secondo questa ricercatrice la questione dell’alfabetizzazione visiva va inquadrata all’interno di una pedagogia costruttivista, intesa come «una teoria dell’apprendimento per la quale gli individui acquisiscono conoscenze attraverso l’interazione delle capacità innate con i dati forniti dall’ambiente». E oggi questa interazione avviene soprattutto nell’uso della tecnologia, in particolare delle interfacce grafiche introdotte dal WEB, che richiedono la competenza di interpretare ed usare creativamente una crescente simbologia visiva.

Heinich nota come in generale vi siano due approcci allo sviluppo di queste competenze. Il primo sta nell’aiutare gli studenti a leggere i messaggi visivi attraverso tecniche di analisi pratica al fine di acquisire i codici culturali e spesso convenzionali che ne permettono la decodifica. Il secondo sta nell’invitare gli studenti a usare essi stessi forme grafiche e visive come strumento di comunicazione. Sebbene siano in parte sovrapponibili, si tratta di due competenze molto diverse, accomunate però dallo svilupparsi solo attraverso l’esercizio pratico. Entrambe, comunque, dotate di un alto grado di complessità, perché come il pensiero verbale usa parole, frasi e paragrafi per ottenere uno stile particolare, così quello visivo raggiunge un equivalente grado di significanza con l’uso combinato di oggetti, spazi, luci, forme grafiche e suggestioni di tipo emotivo. Che il dominio delle competenze visive sia importante anche per migliorare l’apprendimento verbale è stato sostenuto da Flattley. Dato che nello sviluppo umano l’alfabetizzazione verbale segue quella visiva, è in questa che vanno cercate le fondamenta di quei processi di

↑ Una slide di un corso inglese sulla visual literacy.

Dossier / Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali?

Dell’alfabetizzazione visiva sono state elaborate numerose definizioni. Wileman la intende come «la capacità di leggere, interpretare e capire le informazioni presentate in immagini pittoriche o grafiche», ponendola in stretta relazione con il pensiero visivo, a sua volta descritto come «la capacità di trasformare ogni tipo di informazione in immagini, schemi grafici o forme di comunicazione non verbale». La ERIC (Education Resources Information Center) fornisce questa spiegazione: «un gruppo di competenze che permette agli esseri umani di discriminare e interpretare i dati visibili che incontrano nel loro ambiente di vita, costituiti da azioni, oggetti, simboli naturali o culturalmente costruiti». Robinson propone invece di considerare la visual literacy come «una capacità di prevalente tipo organizzativo, utile per promuovere la comprensione, la conservazione e la memorizzazione della grande quantità di concetti veicolati dall’educazione accademica». Sinatra, infine, ponendo l’accento sulle forme dell’attività cognitiva, la intende come «la capacità di integrare la propria passata esperienza percettiva con i nuovi messaggi visivi ricevuti dall’ambiente, così da essere in grado di capirne il significato». Andando oltre queste problematiche sintesi di fenomeni forse troppo complessi, Emery e Flood fanno notare che l’uso e l’interpretazione delle immagini costituiscono in ogni caso un linguaggio specifico, nel senso che le rappresentazioni visive sono oggi molto utilizzate per comunicare messaggi che devono essere decodificati in modo da avere un senso. Ma se consideriamo la visual literacy al pari di una lingua, sorge la necessità di saper comunicare usando tale linguaggio, il che implica la


Approfondire —

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La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Dossier / Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali?

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pensiero che poi si esprimono nella lettura e scrittura. Berger così sintetizza il concetto: «Il vedere precede il parlare. Il bambino guarda e riconosce prima di usare le parole». Del resto è proprio questo il significato del celebre Cono dell’esperienza proposto dal pedagogista americano Edgar Dale (1900-85): l’apprendimento si svolge dal concreto all’astratto e i simboli visivi costituiscono rappresentazioni non verbali che precedono quelle verbali. Sono quindi le attività e i comportamenti pratici a fornire le basi concrete per l’uso astratto di simboli, anche quelli atti a definire e spiegare le attività stesse. Questa cognitività materiale precede la capacità di osservazione che è a sua volta seguita da quella di formulare rappresentazioni astratte. È un processo che facilita la riconcettualizzazione e la comprensione di determinate esperienze prima ancora che ne siano fornite descrizioni verbali. In breve: proprio perché sono in fondo elementi d’esperienza, immagini e illustrazioni sono in grado di catturare e comunicare tratti della realtà vissuta in una grande varietà di modi. Come diceva Van Gogh: «Una buona immagine è equivalente a una buona azione».

Le ricerche sperimentali —

Per pensare e imparare visivamente in sostituzione o in aggiunta alle lezioni tradizionali e alle descrizioni verbali sono necessari cambiamenti nelle tecniche di apprendimento e di insegnamento. Gli studenti hanno bisogno di imparare visivamente e gli insegnanti hanno bisogno di imparare a insegnare visivamente. West, ad esempio, ha proposto un innovativo approccio alla matematica in cui gli studenti “fanno” la disciplina piuttosto che “guardarla”. È una tecnica che predilige gli strumenti della grafica interattiva alle con-


Kleinman e Dwyer hanno dimostrato che l’uso di grafica a colori nei materiali didattici è più efficace di quella in bianco e nero, in particolare nell’apprendimento concettuale. Questi risultati, tuttavia, sono in contrasto con uno studio di Myatt e Carter, secondo i quali, sebbene la maggior parte degli studenti preferiscano immagini a colori, la presenza di questi non ha un impatto significativo sul livello di apprendimento. I due ricercatori notano poi che, sebbene i giovani studenti preferiscono immagini semplici e quelli più grandi rappresentazioni più complesse, le forme grafiche meno elaborate sono di solito più efficaci indipendentemente dalla fascia di età. Inoltre, non necessariamente gli studenti imparano meglio dai tipi di immagini che preferiscono visualizzare.

Testi orali, visivi e misti a confronto —

In un’interessante sperimentazione, Mayer ha confrontato la ricezione di uno stesso contenuto, la descrizione di un processo, presentato in due modi diversi: da una parte un testo di seicento parole, dall’altra una sintesi multimediale costituita da una sequenza di illustrazioni, ognuna dotata di una breve dicitura. I risultati suggeriscono che una presentazione multimediale è più efficace di una meramente verbale, e lo è ancor più quando contiene una piccola quantità di testo piuttosto che una grande. Gli studenti possono imparare in modo più efficiente da sintesi concise, in particolare quando parole e illustrazioni sono strettamente connesse. I soggetti esaminati in questo studio,tuttavia,avevano un basso livello di conoscenza della materia e gli stessi ricercatori fanno notare che probabilmente i risultati sarebbero diversi con studenti esperti. Queste evidenze corroborano le già citate intuizioni di Chanlin

relative sia al maggiore impatto delle elaborazioni visive sugli studenti più inesperti, sia alla efficacia di integrare immagini e parole nel favorire lo sviluppo di connessioni mentali utili all’apprendimento. Sia lo stile cognitivo degli studenti sia la loro esperienza nella materia sono stati considerati da McKay (1999) in una ricerca comparativa sulla ricezione di materiali didattici esclusivamente verbali con altri supportati da elementi grafici. I soggetti classificati come studenti alle prime armi e dotati di uno stile cognitivo verbale hanno ottenuto risultati migliori combinando testi e grafica, mentre, in contrasto con le aspettative, gli stessi risultati non sono stati raggiunti da novizi individuati quali possessori di uno stile cognitivo visivo. Tuttavia, tutti gli studenti hanno mostrato miglioramenti nei punteggi dei test quando hanno ricevuto materiali didattici misti. Inoltre, tutti gli studenti alle prime armi di entrambe le categorie di apprendimento cognitivo hanno mostrato un miglioramento maggiore nei punteggi rispetto ai discenti esperti. Infine, Roshan e Dwyer hanno provato a sottoporre agli studenti vari tipi di grafica statica (mappe, schemi, reti concettuali, ecc.), non trovando rilevanti differenze nella loro efficacia. Decisivo appare invece il tempo dedicato alla loro osservazione. Tratto da: S.Stokes,Visual Literacy in Teaching and Learning: A Literature Perspective, in «Electronic Journal for the Integration of Technology», 2001. Traduzione a cura di Francesca Nicola.

Suzanne Stokes è professore associato al College of Health and Human Services presso la Troy State University, Idaho, Stati Uniti.

33 Dossier / Quanto sono efficaci gli strumenti didattici non verbali?

cettualizzazioni verbali. Come afferma lo stesso autore: «Le parole sono in grado di esprimere un’idea solo dopo che questa si è già ben formata nella mente». Altre ricerche suggeriscono che l’integrazione di apparati visivi alle lezioni ordinarie migliora l’apprendimento con vari gradi di successo. Chanlin ha indagato come lezioni senza grafica, corroborate da una grafica statica oppure ancora da animazioni grafiche, influenzino gli studenti in base ai loro differenti livelli di conoscenza generale dei problemi, determinando in particolare il modo in cui elaborano forme di conoscenza procedurale e descrittiva. Quando le conoscenze di base sono scarse, tutte le rappresentazioni grafiche, sia fisse sia animate, funzionano meglio delle lezioni verbali nell’apprendimento di conoscenze descrittive, ma non sembrano influire in modo rilevante su quelle procedurali. D’altra parte, quando gli studenti sono già ben preparati, sono le animazioni grafiche a fornire gli stimoli migliori negli apprendimenti descrittivi, ma le competenze procedurali si avvantaggiano soprattutto delle forme statiche di grafica. Anche le ricerche di Chanlin suggeriscono che studenti con differenti livelli di conoscenza preliminare rispondono in modo diverso alle specifiche forme di presentazione, concludendo che l’efficacia del visual design per l’apprendimento è strettamente dipendente dal grado di conoscenze preventive degli studenti. Le animazioni non sono superiori alla grafica statica e possono anche essere fonte di forte distrazione, se azioni e movimenti non sono strettamente coerenti con significati precisi e con le modalità con cui gli studenti elaborano le informazioni visive. In un ulteriore studio, lo stesso autore suggerisce che la proposizione di animazioni visive favorisce l’apprendimento soprattutto nei maschi.


Ritratti della povertà nei testi di economia Un’analisi delle immagini illustrative della condizione di indigenza nei manuali di economia più adottati nelle Università americane. I bianchi sono poveri perché sfortunati, i neri perché colpevoli. 34

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Dossier / Ritratti della povertà nei testi di economia

di Rosalee A. Clawson

N

egli Stati Uniti, gli afro-americani sono spesso dipinti in una luce negativa. Immagini di neri come boss della droga, criminali violenti e scrocconi del welfare non sono rare, mentre lo sono le raffigurazioni positive di neri. Questa costruzione razziale della povertà è particolarmente preoccupante quando appare nei libri di testo. Questi, infatti, sono la parte più visibile del programma di studi e giocano un ruolo centrale a ogni livello del percorso scolastico. Le informazioni che veicolano sono presentate come obiettive, imparziali e basate sui fatti. Molto probabilmente, gli studenti si accostano ai manuali con un occhio piuttosto acritico; li considerano fornitori neutri di notizie accurate e fattuali,materiali non socialmente costruiti o ideologicamente guidati. Come sintetizzano Sleeter e Grant, «nei libri di testo, versioni socialmente costruite di attività umane altrettanto socialmente costruite sono presentate come se fossero vere e naturali». Sebbene oggi la maggior parte dei libri di testo universitari non includano più dichiarazioni apertamente razziste è certamente possibile che le immagini in questi stessi testi promuovano forme più sottili di razzismo. Le immagini sono

una componente significativa di testi universitari e, come sintetizzano Kress e altri, «il visuale è ora molto più prominente come forma di comunicazione di quanto non lo sia stato nei secoli che ci hanno preceduto». Neppure va dimenticato che la rappresentazione visiva di una questione politica è parte integrante della definizione stessa di tale questione.

Le ipotesi e il progetto di ricerca —

L’importante ricerca svolta da Clawson e Kegler nel 2000 sulla rappresentazione razziale della povertà nei libri di testo in uso nei collegi statali americani suggerisce tre ipotesi che intendo verificare in questo studio. La prima è che i neri siano sproporzionatamente rappresentati nelle raffigurazioni concernenti la povertà. La seconda è che le immagini di neri poveri siano connotate in modo particolarmente non empatico, mentre quelle di bianchi indigenti siano accompagnate da un atteggiamento più comprensivo, propenso a considerare la loro povertà come un effetto dell’accanirsi della sfortuna su persone comunque meritevoli. La terza è che i neri raramente siano rappresentati nel contesto della Social Security, il popolare programma di assistenza sociale.

Per verificare queste ipotesi ho esaminato una serie di manuali introduttivi alle scienze economiche. Utilizzando le risorse messe a disposizione dalla rete (il Monument Information Resource’s Faculty Online Web), ho identificato i 27 manuali di economia più diffusi, tra i quali ne ho selezionati 8 che includono immagini relative sia alla povertà sia alla sicurezza sociale. Ho individuato in definitiva 14 immagini connesse all’indigenza e 4 alla previdenza sociale. In totale esse mostrano 45 persone povere e 6 beneficiari delle prestazioni sociali. Per ogni persona, ho annotato l’etnia (bianco, afroamericano, ispanico, asiatico americano o nativo americano), il sesso (maschio o femmina) e l’età (bambino, adolescente sino 18 anni, di mezza età, cioè fra 18 e 64 anni, e infine anziano, oltre i 65). Ho anche considerato se le immagini illustrino la povertà contemporanea (dopo il 1990) o quella della Grande Depressione negli anni Trenta. Infine, ho confrontato queste rappresentazioni manualistiche con la realtà, cioè con i dati forniti dal Current Population Survey condotto nel 1998 dal U.S. Bureau of the Census e con i dati sui beneficiari dell’assistenza sociale, riportati nel 1998 dal United States House Committee on Ways and Means (un organo di


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L’ambiguo rapporto fra immagini e realtà —

Per cominciare, ho esaminato la composizione razziale della povertà contemporanea rappresentata in questi manuali di economia. Oltre il 60% delle persone povere sono di colore nero. Si tratta di una grossolana esagerazione perché secondo il Bureau of the Census solo il 26% dei poveri sono afro-americani. Al contrario, i bianchi costituiscono appena il 36% dei poveri del libro di testo, anche se nella realtà sono il 46%.Tre dei quattro libri di testo contenenti immagini di poveri contemporanei rientrano in questa statistica, mentre il quarto include una sola persona povera bianca. Del tutto assenti sono gli ispanici, gli asiatici e i nativi americani,

a conferma della tesi di Clawson e Kegler, secondo i quali queste fasce della popolazione americana sono strutturalmente sotto-rappresentate nei manuali scolastici. Dato che in questi libri di economia molte immagini di poveri servono a illustrare i programmi del welfare, dai buoni pasto all’assistenza pubblica, ho considerato l’ipotesi che la loro enfasi sull’aspetto razziale sia funzionale a descrive la composizione sociale dei beneficiari dell’assistenza sociale. Ma ciò è vero solo in parte. La commissione Ways and Means della Camera dei Rappresentanti ha reso disponibile i dati, compresi quelli relativi all’identità etnica, di tutti gli assistiti nel programma AFDC (Aid to Families with Dependent Children). Quindi ho potuto confrontare le statistiche reali con le rappresentazioni manualistiche, riscontrando ancora una grande discrepanza.

Solo il 37% dei beneficiari dell’assistenza sociale per adulti sono afro-americani, ma tale cifra si eleva al 58% nei libri di testo. Per verificare l’ipotesi che i neri poveri siano rappresentati in modo non empatico, ho iniziato esaminando la loro età. Una ricerca svolta da Cook e Barrett, infatti, dimostra che gli anziani sono considerati i poveri più meritevoli, e d’altra parte possediamo dati certi sulla loro incidenza effettiva, che il Bureau of the Census fissa al 10%. I libri di testo esaminati rispecchiano questa percentuale e, contrariamente alla nostra ipotesi, pongono fra i poveri in età avanzata un alto numero di neri. Lo stesso discorso vale per i bambini, anch’essi fortemente rappresentati tra i poveri neri. Successivamente, ho analizzato il genere sessuale dei poveri presentati in queste fotografie, tenendo presente, come hanno suggerito Cook e Barrett, che la

↑ Afroamericani in fila a uno sportello dei servizi sociali, fotografia di M. Bourke-White, 1937, wikipedia.

Dossier / Ritratti della povertà nei testi di economia

controllo e revisione della spesa pubblica sociale afferente alla Camera dei Rappresentanti).


tendenza a colpevolizzare i poveri per la loro condizione si rivolge soprattutto verso i maschi adulti. Anche in questo caso si riscontra una relativa scollatura dalla realtà: i poveri di sesso maschile e di età adulta sono il 50% nelle immagini dei manuali ma solo il 40% nella vita reale.Un dato che in verità può derivare da una sottovalutazione della povertà femminile come fenomeno sociale. Infine, ho considerato le immagini dei poveri durante la Grande Depressione, che secondo Katz sarebbero oggetto di una particolare compassione nell’immaginario sociale, quali vittime incolpevoli di errori altrui. Sotto questo aspetto i manuali operano una chiara mi-

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Dossier / Ritratti della povertà nei testi di economia

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Approfondire —

J • R. A. Clawson e E. R. Kegler, The “race coding” of poverty in American government college textbooks, in «Howard Journal of Communications» 11, pp. 179-188, 2000. • R. A. Clawson e R. Trice, Poverty as we know it: media portrayals of the poor, in «Public Opinion Quarterly» 64, pp. 53-64, 2000. • F. L. Cook e E.Barrett, Support for the American welfare state, Columbia University Press, New York 1992. • M. Gilens, Why Americans hate welfare, University of Chicago Press, Chicago 1999. • M. Katz, The undeserving poor, Pantheon, New York 1989. • G.Kress, R. Leite-Garcia e T. van Leeuwen, Discourse semiotics, in T. A van Dijk (Ed.), Discourse as structure and process, pp. 257-291, Sage, London 1997. •C. E. Sleeter e C. A. Grant, Race, class, gender, and disability in current textbooks, in M. W. Apple e L. K. Christian-Smith (Eds.), The politics of the textbook, pp. 78-110, 1991. •M. Whatley, Photographic images of Blacks in sexuality texts, in «Curriculum Inquiry» 18, pp. 137-155, 1988.

stificazione: tutti propongono illustrazioni della povertà durante gli anni Trenta ma tutti utilizzano in questo caso solo immagini di bianchi. Per quanto riguarda la terza ipotesi, ho esaminato la composizione razziale dei beneficiari della sicurezza sociale rappresentati nei manuali. I risultati sono evidenti: sono tutti bianchi. È un’evidenza importante, sia perché supporta l’ipotesi di un forte pregiudizio sia perché confuta una possibile spiegazione alternativa della generale prevalenza dei neri come esempi visivi di povertà. Si potrebbe infatti argomentare che con queste scelte gli editori stiano semplicemente cercando di diversificare i loro prodotti, e che ad esempio vi includano molti neri per connotarli in senso multiculturale. Ma in questo caso, mi sarei aspettato di vedere almeno alcuni, se non molti, neri tra i beneficiari della sicurezza sociale.

I manuali come i mass media —

In sintesi, ho scoperto che i libri di testo di economia perpetuano la rappresentazione razziale della povertà, un risultato che del resto conferma la ricerca di Clawson e Kegler relativa ai manuali di tutte le discipline. Sembra inoltre assodato che rafforzino gli stereotipi ed emarginino le esperienze delle minoranze (ad esempio le donne) minimizzando l’impatto della discriminazione nella nostra società. Sono risultati coerenti con altre analisi relative al ruolo delle immagini nella pubblicistica scolastica e divulgativa. Ad esempio quelle svolte da Whatley sui manuali di educazione alla sessualità umana, che documentano la presenza di immagini stereotipate di neri, e quelle di Wasbum sulla presentazione della schiavitù nei libri di storia liceali, che dimostrano come le immagini si prestino a

una ricostruzione fortemente ideologica di tale questione. In breve, come sintetizzano Sleeter e Grant dopo aver esaminato un gran numero di manuali di storia, «a prescindere dal periodo o dai fenomeni considerati, sono soprattutto i bianchi maschi e adulti a dominare la story line e a essere celebrati per i loro successi». Purtroppo, i manuali scolastici non sembrano quindi discordarsi dalla rappresentazione razziale della povertà fornita dai mass media.Sebbene ormai datata, rimane ancora valida la ricerca di Gilens sulla rappresentazione della povertà in riviste e telegiornali tra il 1988 e il 1992, in cui lo studioso denunciò come i neri siano sproporzionatamente raffigurati tra i poveri. Dieci anni dopo Clawson e Trice hanno dimostrato che la situazione è rimasta del tutto immutata. Dovremmo aumentare la nostra consapevolezza per quanto riguarda i modi sottili con cui pregiudizi razziali possono insinuarsi nei libri di testo. Le immagini visive sono importanti veicoli informativi e dovremmo prestare particolare attenzione ai messaggi impliciti presenti nelle fotografie. Le rappresentazioni razzializzate della povertà spesso passano inosservate a professori e studenti bianchi, ma non sfuggono certo all’attenzione degli studenti neri, contribuendo così ad accentuare il loro senso di estraneità nelle Università tradizionalmente bianche. Tratto da: R. A. Clawson, Poor People, Black Faces: The Portrayal of Poverty in Economics Textbooks, in «Journal of Black Studies», vol. 32, n. 3, 2002, pp. 352-361. Traduzione a cura di Francesca Nicola.

Rosalee A. Clawson è docente di Scienze Politiche all’Università di Purdue a West Lafayette, Indiana.


La comunicazione visiva in tre manuali di storia Un’indagine sui valori suggeriti dalle immagini illustrative che corredano tre libri di testo dedicati alla storia del Novecento. 37

di Ubaldo Nicola

Lo spazio iconografico: immagini e paratesto —

La prima considerazione riguarda la rilevanza dello spazio iconografico,ovvero dell’insieme di

tutte le forme di comunicazione visiva: cartine, mappe, fumetti, linee del tempo, fotografie e documenti storici. La sua estensione si aggira fra un terzo e la metà delle opere nel loro complesso. Il numero di tali occorrenze iconografiche rasenta quello della pagina in due casi e nel terzo è addirittura superiore. Se per valutare sul piano qualitativo l’effettiva importanza comunicativa di questo spazio iconografico ricorriamo alla semiotica, possiamo inquadrarlo nella nozione di paratesto, quella parte di un’opera che non fa parte del testo e può anche non essere decisa dall’autore. In questi manuali,se escludiamo titoli, glosse, esercizi e letture, sono gli spazi iconografici a costituirne la parte predominante. Quest’area di contorno al testo, apparentemente accessoria e spesso sottovalutata sia dall’autore sia dal lettore, è in realtà fondamentale rispetto alla effettiva ricezione del testo. La anticipa prima di tutto cronologicamente: la notazione della presenza di un’immagine sulla pagina precede sempre la lettura del testo; anche se non c’è ancora una vera osservazione permette comunque di acquisirne il significato immediato. L’immagine cattura l’occhio, come si dice, e lo studio di manuali illustrati come questi è precedu-

to dallo sfogliarli, ricevendone più o meno consapevolmente una prima impressione effimera ma importante sia per la seguente analisi del testo sia per il consolidamento mnemonico. Anche se non posso addurre prove, credo che se chiedessimo a un trentenne cosa sia stata la storia del Novecento rifacendosi solo agli studi scolastici otterremmo risposte condizionate dal paratesto molto più di quanto si immagini. Oltre che esaudire la curiosità immediata, sollecitare forme

Le immagini determinano una pre-comprensione che dirige e indirizza la lettura del testo, con esiti a volte coerenti e positivi, a volte negativi.

di suggestione e quindi fissarsi nella memoria, questi spazi iconografici sono determinanti anche dal punto meramente cognitivo, ossia rispetto alla corretta interpretazione del testo autoriale. Ne determinano infatti una pre-comprensione che dirige e indirizza la lettura, con esiti a volte positivi, quando chiarificano i concetti spiegati,a volte negativi, quando di fatto li mistificano o accentuano aspetti non previsti dall’autore. Parliamo insomma di una

Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

C

ercherò in questo articolo di indagare i contenuti della comunicazione visiva in alcuni testi di storia dal punto di vista del lettore, rispondendo a domande del tipo: quali valori sociali e culturali veicola? qual è il livello di riflessione concettuale che l’accompagna? si riscontrano casi di un suo uso mistificante o addirittura didatticamente pernicioso? In pratica ho esaminato il terzo volume, dedicato alla storia del Novecento, di tre manuali per le scuole medie inferiori: Storyboard, edito da Mondadori Scuola, Scenari della storia, Le Monnier, e Il Corriere della Storia, Loescher Editore. Nonostante lo sforzo di quantificare i dati, si tratta di un’analisi qualitativa, perché i criteri scelti per catalogare le immagini non rispecchiano certo la loro complessità comunicativa. D’altra parte, i risultati non si discostano molto dalle impressioni che si ricevono a prima vista semplicemente sfogliando i volumi.


Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

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↑ Figura 1. Manifesto di propaganda staliniana.

parte importante della strategia comunicativa di un manuale scolastico. I semiotici descrivono il paratesto con la metafora dell’atrio cognitivo, una soglia che previene e poi accompagna la lettura influenzandone l’interpretazione, in particolare agendo sul giudizio di pertinenza delle proposizioni, cioè in pratica della significanza di ciò che poi si va leggendo, un aspetto importante dell’attività di studio, che in buona parte consiste nel distinguere fra notizie accessorie e nozioni da memorizzare.

Immagini testuali e immagini illustrative —

In un manuale di storia, ancor più che in quelli di altre discipline, le illustrazioni possono essere presentate e quindi anche fruite in modo diverso. Dobbiamo distinguere fra immagini offerte come un documento sto-

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

“Dobbiamo distinguere le immagini

autoriali e criticamente analizzate da quelle illustrative, accompagnate da una didascalia che ne descrive solo il contenuto immediato.

rico dall’autore e criticamente analizzate con un testo di corredo da quelle puramente illustrative e accompagnate da una didascalia che si limita a indicarne la fonte e a descriverne il significato immediato. Queste ultime, le uniche che possono essere considerate paratesto, non sono quasi mai

autoriali, almeno nei manuali, perché frutto delle scelte di una figura professionale resa necessaria dalla complessità dell’editoria scolastica. È l’iconografo, la cui mission sta nel reperire illustrazioni di corredo al testo, cioè in qualche modo legate al contenuto della pagina in cui si trovano. L’iconografo è prima di tutto un esperto delle complesse questioni che regolano la pubblicabilità di un’immagine, dal diritto d’autore agli obblighi di citazione, dalle norme etiche assunte dalla casa editrice alle qualità tecniche richieste dalla stampa (formato, definizione, colore, ecc). Sono problemi a volte molto complessi, specie dal punto di vista legale, e sempre da risolvere in fretta, perché l’iconografo può compiere le sue scelte solo quando sono ormai chiari gli spazi e le pagine destinate alla funzione illustrativa. La soluzione più frequente consiste nel sottoscrivere abbonamenti ai database commerciali di immagini non editoriali, diverse cioè da quelle reperibili sui circuiti fotografici artistici e giornalistici. I più importanti di questi stock photography sono Getty Images, Archivi Alinari, Photolia e Schutterstock. Quest’ultimo è stato il primo a nascere, nel 2003,e oggi archivia più di 50 milioni di fotografie e illustrazioni, con un incremento giornaliero di parecchie migliaia. Chiunque infatti può usare queste piattaforme per vendere immagini, purché superino tre controlli: uno etico sul contenuto; uno tecnico relativo al formato e alle qualità grafiche, che devono rispondere agli standard elevati richiesti dalla stampa industriale; uno legale, perché ogni immagine deve essere accompagnata da una licenza che attesti il possesso di un copyright da parte dell’autore e deve attenersi alle leggi che in molti Paesi, Italia compresa, regolamentano la pubblicabilità di un’immagine. Ad esempio,

una fotografia in cui compare in evidenza un volto in modo tale da rendere la persona riconoscibile, deve essere accompagnata da una liberatoria scritta della persona fotografata in cui si attesti la rinuncia al diritto di privacy, che potrebbe altrimenti essere rivendicato in tribunale. Ma esistono naturalmente molte eccezioni (celebrità, uomini politici) e ulteriori complicazioni derivanti da norme convenzionali e di autocensura che escludono la pubblicabilità di certe immagini (contenuto erotico, pubblicitario, orrorifico, non rispettoso di minoranze perseguitate e così via). Non ultimo, trattandosi di una transazione commerciale, l’acquisto di un’immagine deve essere accompagnato dal pagamento degli oneri fiscali, immancabili se pur variabili da Paese a Paese. Non esistono database specializzati in ambito educativo, così che anche i testi scolastici attingono allo stesso patrimonio visivo di cui si avvalgono le riviste commerciali, i blogger professionisti, i professionisti dell’illustrazione e le imprese che necessitano di usare in sicurezza un gran numero di immagini. Questi siti offrono la possibilità di orientarsi tramite ricerche linguistiche, cioè di chiedere alla macchina ciò che si va cercando: tutte le immagini sono infatti indicizzate con una serie di parole chiave (di solito non più di trenta) fornite dall’autore. La loro veridicità è un aspetto delicato del sistema, perché ovviamente ogni venditore cerca di rendere maggiormente reperibili le sue immagini corredandole con parole chiave il più possibile generiche e soprattutto più rispondenti alle richieste dei compratori, consultabili negli strumenti analitici di supporto messi a disposizione dalle piattaforme. Il controllo numerico delle parole chiave e la loro corrispondenza al contenu-


Immagini ricorrenti —

L’enormità di questi archivi richiede una spiegazione e pone il problema del loro utilizzo. Si tratta per la maggior parte di fotografie più o meno amatoriali, abbastanza generiche da poter essere usate nei contesti più diversi e con la leggerezza tipica dei moderni mass media.La loro vendibilità è proporzionale alla insignificanza concettuale. Immagini storiche e fotografie d’epoca vi compaiono solo quando sono offerte da venditori che le hanno acquisite da fonti non più soggette a diritti d’autore. L’archivio cui di fatto attinge l’iconografo di un manuale di storia è quindi solo una porzione del materiale visivo messo a disposizione dalla storia. Questo potrebbe forse spiegare il ripetersi di alcune illustrazioni nei diversi manuali. Il condizionale è d’obbligo, perché un testo scolastico non cerca l’originalità a ogni costo e vi sono immagini che, avendo fatto la storia, come si dice, sono degne d’apparire in ogni edizione, magari anche con note esplicative della loro vicenda, in quanto immagini, a volte più interessante dello

stesso contenuto. Purtroppo, però, le occorrenze di queste ripetizioni non sembrano seguire questa logica ma il mero criterio della reperibilità. La stessa immagine di una fabbrica di armamenti della Prima guerra mondiale (vedi figura 4) compare sia a pagina 63 di Storyboard sia in Scenari della storia, a pagina 31. Mostra in primo piano tre operai maschi chiaramente intenti a verniciare bombe e sullo sfondo una moltitudine indistinta di operaie che non si capisce bene cosa stiano facendo. Sarebbe una buona occasione per commentare sia l’importanza del lavoro femminile nello sforzo bellico della Prima guerra mondiale,sia,e anzi soprattutto, l’intento di nascondimento visivo che ha guidato il fotografo nella scelta dell’inquadratura. Se vi è una verità in questa immagine sta nella cultura maschilista che a suo tempo portò a minimizzare l’ingresso delle donne nel mondo produttivo e a contrastare gli effetti liberatori sul piano sociale che tale fenomeno implicava. Un pregiudizio di genere che i due manuali inconsapevolmente perpetuano pubblicando l’immagine con didascalie poverissime: “Una fabbrica di munizioni all’inizio del Novecento”. Che il ripetersi delle stesse immagini dipenda solo dalla reperibilità tecnica lo dimostrano tutte le altre occorrenze: ricorre la stesso stesso manifesto di propaganda staliniana (vedi figura 1), la stessa fotografia di Mussolini mentre usa una delle prime cineprese (vedi figura 3). E così via, per un totale, non esiguo, di 7 occorrenze di ripetizione in due testi. Ben 5 immagini compaio-

← Figura 2. Caricatura di Margaret Thatcher, «The Sunday Times Magazine», aprile 1980.

39 Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

to effettivo delle immagini sono facilitati da software specifici e oggetto di analisi a campione da parte dei gestori del sito, determinando in definitiva un punteggio che misura l’affidabilità di ogni venditore e il posto che andranno a occupare le sue immagini nell’ordine di apparizione sul sito. Questa necessità di determinare statisticamente e su larga scala il genere e la posizione gerarchica delle immagini, esclude che queste siano accompagnate da note, didascalie esplicative o contestualizzazioni, come invece avviene nelle agenzie fotografiche “editoriali”, cioè documentative di fatti di cronaca, in cui i reporter professionali vendono i loro prodotti a giornali e televisioni.

no in tutte le opere esaminate, tra cui una vignetta satirica della “ambiguità politica” di Giolitti (sempre senza alcuna indicazione di quale fosse la fazione politica promotrice della satira).

L’approccio critico all’immagine-documento —

È quindi importante chiedersi quale sia il rapporto numerico fra le immagini autoriali e quelle meramente illustrative, e più in generale se i manuali in esame si differenzino per il grado di attenzione verso l’iconologia, ovvero la competenza di appropriarsi in modo consapevole e critico di una rappresentazione visiva. Le differenze sono notevoli. In un scala dal basso poniamo prima Il Corriere della Storia, che commenta uno scarso numero di immagini con l’uso di tiranti (frecce che collegano un

Figura 3. Mussolini con la cinepresa. ↓


elemento specifico di un’immagine a una breve notazione), ma d’altra parte cade numerose volte nel grave difetto di presentare documenti visivi molto complessi (vignette satiriche, manifesti di propaganda, opere pittoriche) con didascalie che si limitano a descrivere il loro significato immediato, aprendo la porta a possibili fraintendimenti ed equivoci. Ad esempio: “Guglielmo II come il diavolo su una montagna di teschi”, senza spiegare se il messaggio veicolato da questa vignetta satirica sia aderente ai dati storici complessivi, come lascia supporre l’assenza di indicazioni, oppure sia un’assurda esagerazione polemica del disegnatore. Soprattutto poi, questo approccio eminentemente contenutistico risulta diseducativo perché occulta il fatto che il significato reale di questo tipo di documenti storici sta nella funzione pragmatica assegnata alle immagini, più ancora che nel loro soggetto. La stessa vignetta satirica su Maometto non ha lo stesso significato se pubblicata

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Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

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→ Figura 4. Fabbrica di armi, 1917.

su «Charlie Hebdo», su «L’Osservatore Romano» o su un quotidiano di Teheran. Trattandosi poi di un manuale di storia, va messa nel numero delle occasioni mancate l’assenza, comune ai tre volumi in esame, di qualsivoglia riflessione sulla liceità e gli eventuali limiti etici della satira politica o religiosa spinta sino ai limiti estremi. In fondo viviamo in un mondo in cui si muore per tali questioni. Ovviamente non si tratta di introdurre forme di censura o di selezionare i documenti storici in base ai nostri attuali criteri di correttezza comunicativa: tutto può essere mostrato, purché, almeno in un manuale di storia, sia contestualizzato, analizzato nei significati evidenti ed impliciti (spesso preponderanti) ed eventualmente criticato dal punto di vista etico-formativo, spiegando cioè come certe prassi comunicative usuali nel passato possano essere considerate illegittime nella sensibilità moderna. Il Corriere della Storia si caratterizza altresì per

un espediente di dubbio valore, ossia il frequente accostamento di un personaggio storico a una frase celebre a lui attribuita, inserita in una “nuvoletta” collegata all’immagine. Il risultato è aumentare a dismisura il già esorbitante numero di ritratti e di immagini di personaggi potenti. Più attento ai problemi della comunicazione visiva sembra Scenari della storia, sebbene non presenti un gran numero di immagini autoriali. Oltre all’analisi con il metodo dei tiranti, però, propone nella sezione laboratoriale di analizzare alcune illustrazioni rispondendo a una serie di domande sul loro contenuto immediato, senza per altro offrire gli strumenti per analisi più sofisticate. In vetta alla classifica troviamo Storyboard, che non a caso pone come promettente sottotitolo Parole e immagini della storia. Qui le immagini-testo sono oggetto di interventi didattici diversificati. Oltre all’indagine analitica favorita dai tiranti, si propongono con sistematicità due tipi di


Una storia di battaglie? —

Queste note sulla complessità del lavoro sottostante la produzione di un manuale possono spiegare come mai in tutti i casi esaminati la funzione di indirizzo svolta dal paratesto iconografico risulti scoordinata rispetto agli obiettivi cognitivi che il testo si propone con tutta evidenza di raggiungere. Storyboard, ad esempio (ma le stesse considerazioni valgono per gli altri), mostra un’encomiabile attenzione per la dimensione sociale della storia, concretizzata in pagine dedicate all’avvento della società di massa, all’evoluzione della cultura e dei modi di vivere, ma le suggestioni iconografiche indirizzano verso altri modi di intendere la storia. Di gran lunga prevalenti, ben 63, sono le immagini descrittive di eventi bellici: scene di battaglia, vita al fronte, condizione dei prigionieri, effetti dei bombardamenti e così via. Estremamente numerose (31) sono poi quelle connesse al potere politico e alla sua dimensione istituzionale: incontri fra capi di Stato, firma di trattati e cerimonie pubbliche. Nessuna altra categoria riesce a insidiare il primato di queste due, alle quali seguono in ordine di frequenza immagini dedicate all’emancipazione femminile (23), a manifestazioni di massa, comizi e adunate (13), alle modificazioni della vita quotidiana (11), alla condizione dei bambini (8) e altre minori. L’immagine del Novecento e della storia nel suo complesso che ne trarrà lo studente non è probabilmente quella cui puntava l’autore. Lo stesso accade con le risposte ad alcune semplici ma fondamentali questioni storiografiche. Qual è lo statista più importante del Novecento? Certamente Mussolini, dato che surclassa tutti gli altri comparendo ben 18 volte in Storyboard, 9 in Il Corriere della Storia e 7 in

Scenari della storia. Quale il peso degli individui nel procedere della storia? Enorme, se i ritratti di personaggi celebri e ben individuabili occupano ben 86 immagini. Quale il peso delle donne in questo processo? Nullo, dato che le uniche due femmine individuabili sono Anna Frank e Jacqueline Kennedy mentre salta sul cofano dell’auto presidenziale nel momento in cui il marito è ucciso a Dallas (per

“Qual è lo statista più importante

del Novecento? Certamente Mussolini, dato che surclassa tutti gli altri comparendo ben 18 volte.

inciso: la didascalia afferma che stava fuggendo, come suggerirebbe la percezione immediata dell’immagine. Ma è falso: stava istintivamente cercando di afferrare quella parte di cervello che aveva appena visto schizzare via dalla testa del marito, il che suggerisce una lettura molto diversa dell’immagine).

Questioni di genere e stereotipi —

Ancor più delle parole, le immagini sono potenti strumenti di creazione e diffusione di stereotipi, modelli ricorrenti e convenzionali di discorso, che si fissano come abitudini cognitive diventando opinioni precostituite in grado di influenzare l’esperienza e rimanendo scarsamente suscettibili alle smentite di quest’ultima. Ovviamente autori e iconografi hanno ben presente la necessità che un manuale scolastico combatta gli stereotipi più comuni e deleteri. Lo si vede dall’attenzione dedicata ad alcuni nodi scottanti nella sensibilità contemporanea, come la condizione della donna. I manuali in esame destinano tutti un congruo numero di immagini a questo tema, sottolineando le lotte delle suffragette per il diritto di voto, la partecipazio-

41 Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

attività: il confronto fra due immagini al fine di rilevare analogie e differenze caratterizzanti, e l’accostamento di un’immagine a una citazione o un brevissimo testo storico, in modo da focalizzare l’attenzione sulla capacità delle immagini di sintetizzare concetti, propensioni politiche o ideologie. Non solo: la sezione laboratoriale assegna due tipi di attività iconologiche. La prima invita a un’analisi puntuale delle immagini indicandone gli elementi notevoli con tiranti lasciati vuoti che spetta allo studente completare. La seconda enfatizza il potere di suggestione di determinate immagini invitando lo studente a comporre un libero testo dopo averle osservate. Soprattutto, Storyboard propone una riflessione metodologica sul modo di accostarsi ai documenti visivi,anche se purtroppo la inserisce in un’introduzione al volume dedicata alle pratiche della storiografia, probabilmente non utilizzata da tutti i docenti. Partendo dall’osservazione di due fotografie del 1914, in cui soldati francesi e tedeschi appaiono felici di recarsi al fronte, si pone il problema della veridicità dei documenti fotografici invitando alla contestualizzazione, ossia al confronto con tutte le altre fonti storiche disponibili. Come secondo e ultimo esempio si esamina il caso della documentazione fotografica dell’olocausto, con esiti per la verità non molto convincenti sul piano metodologico, perché le tesi dei negazionisti non sono prese in seria considerazione. Anche in Storyboard, comunque, il trattamento autoriale delle immagini rimane minoritario rispetto a quello meramente illustrativo. Su 417 occorrenze iconografiche solo 80 sono immagini in vario modo lavorate dall’autore (tiranti, confronto, accostamento) mentre ben 258 sono quelle illustrative, inserite dall’iconografo, suppongo, e da questi succintamente didascalizzate.


ne femminile alla produzione industriale, agli eventi bellici e alle battaglie per i diritti civili nel dopoguerra. A questa documentazione della vita sociale delle donne, tuttavia, fa da contrappunto l’evidenza di alcune connessioni

“Le donne sono presenti solo in

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Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

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quanto categoria sociale, come i bambini, i reduci o i popoli colonizzati, ma assenti come individualità storiche.

che oggi tendiamo a considerare espressione di stereotipi. Ad esempio, le figure femminili sono di gran lunga prevalenti nelle immagini che documentano le modificazioni della condizione personale (moda, stili di vita, progressi materiali e così via), ribadendo così una divisione dei ruoli fra l’ambito politico, prettamente maschile, e la sfera domestica, intimistica e famigliare, in cui le donne svolgerebbero il loro ruolo precipuo. Soprattutto, le donne sono presenti solo in quanto categoria sociale, come i bambini, i reduci o i popoli colonizzati, ma assenti come individualità storiche. È impressionante che in Scenari della storia non appaia neppure una sola immagine di una donna individuabile con nome e cognome, e che oltre ad Anna Frank e Jacqueline Kennedy (in Storyboard) siano rintracciabili (in Il Corriere della Storia) solo Margaret Thacher (vedi figura 2) ed Eva Perón (presentata però solo come moglie dell’illustre marito, senza accenni al suo ruolo politico neppure nel testo). Certamente le donne protagoniste riconosciute della storia del Novecento non sono molte, ma questi testi arrivano sino alla contemporaneità, per cui accanto a Ceausescu, Bob Dylan e Di Pietro potrebbero anche trovarsi Indira Gandhi, la regina Elisabetta o Angela Merkel. E perché non Emma Bonino? Sarebbe un modo per ricono-

scere che anche i movimenti d’emancipazione femminile, come tutti gli altri movimenti sociali, hanno espresso leader (cioè donne) dalla personalità memorabile. Quello delle suffragette non fu solo un fenomeno sociologico: fu capitanato da eroine degne di una citazione e una foto almeno quanto molti eroi. E lo stesso si può dire per altri episodi: pensiamo alle istituzioni che si occupano della cura dei malati al fronte, dell’assistenza ai bambini e del soccorso ai poveri del mondo, che sono state fondate a seguito di battaglie in cui le donne hanno dimostrato notevoli capacità di leadership, da Florence Nightingale a Eglantyne Jebb, da Madre Teresa di Calcutta a Maria Montessori. Ragionamenti analoghi si possono fare per altri temi che la sensibilità contemporanea giudica scottanti. Ad esempio la rappresentazione dei neri e degli africani, sempre, solo e unicamente centrata sull’efferatezza del loro sfruttamento in epoca coloniale e sulla drammaticità della loro attuale condizione materiale (siccità, mortalità infantile, degrado delle bidonville). L’immagine di un bambino nero riprodotta a pagina 44 di questa rivista compare ad esempio ben due volte in Storyboard per illustrare il problema attuale della carenza di acqua. I motivi che sottostanno a queste scelte di denuncia sono chiari e anche condivisibili; sta di fatto però che l’uso di un solo e unico registro per una realtà tanto complessa finisce per avere effetti stereotipizzanti, confermando l’equazione mentale fra l’Africa e una povertà atavica e irrisolvibile. Anche la rappresentazione dei bambini è quasi totalmente improntata alla denuncia del loro sfruttamento (lavoro in fabbrica, bambini soldato) e delle sofferenze particolarmente efferate che le guerre provocano loro. Tutte cose vere, ma ancora

una volta sono la costanza seriale di queste associazioni mentali e l’unilateralità del loro punto di vista ad avere effetti fuorvianti. Suggeriscono una visione in cui i bambini servono solo a dimostrare quanto grande sia la crudeltà degli adulti,tralasciando le occasioni in cui compaiono non come meri oggetti della storia ma come soggetti attivi, a volte persino esprimendo veri e propri leader, come Malala, di cui sarebbe bello vedere il ritratto.

Un’educazione alla lettura delle immagini —

Dopo aver tanto criticato corre l’obbligo di dire almeno a grandi linee cosa si potrebbe fare. Di certo non poco, se solo nelle pagine gli ampi spazi oggi usati a scopo ornamentale fossero ripensati in un progetto organico e fondato sulla consapevolezza della loro portata cognitiva, per certi versi ancor più importante del testo nel costruire l’immaginario della storia, o la sua narrazione, come oggi si ama dire. In un manuale dedicato al Novecento questo progetto dovrebbe proporsi di offrire agli studenti una strumentazione intellettuale atta a capire le molteplici, importanti e spesso controverse funzioni assegnate alle immagini nella vita civile e nelle lotte politiche attuali. Dato che non è il caso di approfondire qui questi temi, basti qualche esempio: la foto del piccolo Aylan annegato sulla spiaggia diventa un argomento importante nel dibattito politico sull’immigrazione; decine di giovani europei si lasciano sedurre da una propaganda jihadista che usa le tecniche hollywoodiane per estetizzare la guerra; la liceità di pubblicare vignette su Maometto è posta come un valore per cui si è disposti a uccidere e morire; la possibilità di diffondere subito e ovunque le immagini trasforma le esecuzioni in esibizioni spettacolari secondo un’inedita propaganda


ANALISI ICONOGRAFICA DI TRE MANUALI DI STORIA DEL NOVECENTO * STORYBOARD

** SCENARI DELLA STORIA

*** IL CORRIERE DELLA STORIA

numero di pagine

432

383

360

istruzioni storiografiche introduttive

SI

NO

NO

spazi iconografici

417

459

371

GENERE DI IMMAGINE 83 (20%)

62 (13,5%)

66 (18%)

autoriali (con attività interpretative)

81 (19%)

30 (6,5%)

40 (11%)

illustrative (con didascalie brevi)

253 (61%)

367 (80%)

265 (71%)

TIPO DI IMMAGINE fotografie

262

296

240

documenti visivi (vignette, manifesti)

42

60

54

opere d’arte

13

22

11

17 (pagine intere)

19 (illustrazioni)

0

fumetti

CONTENUTO E ASSOCIAZIONI PIÙ FREQUENTI ritratti di personaggi maschili individuabili

86

63

59

ritratti di personaggi femminili individuabili

2

0

2

Mussolini (18 volte)

Mussolini (7)

Mussolini (9)

eventi bellici

72

79

70

vita delle istituzioni

41

57

39

condizione della donna

40

48

30

in attività sociali (produzione, guerra, ecc.)

16

24

15

in attività famigliari

24

24

15

manifestazioni di massa

23

37

30

vita quotidiana e materiale

11

40

20

bambini

8

16

20

africani

9

10

5

personalità più rappresentata

* V. Calvani, Storyboard. Parole e immagini della storia. Il Novecento, Mondadori Scuola, Milano 2011. ** E. B. Stump, Scenari della storia. Il Novecento, Le Monnier, Milano 2010 (non è stato considerato l’Atlante allegato). *** M. Onnis e L. Crippa, Il Corriere della Storia. Dal Novecento alla contemporaneità, Loescher, Torino 2014.

43 Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

concettuali (cartine, schemi, mappe)


visiva di tipo orrorista. E così via: gli esempi possibili sono fin troppi anche rimanendo solo nell’ambito delle forme della guerra, il tema iconografico più considerato dai manuali. La riflessione critica sul presente dovrebbe essere preparata dallo studio del passato, svilup-

“Solo abituandosi a diffidare „

Dossier / La comunicazione visiva in tre manuali di storia

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sistematicamente delle immagini si può riequilibrare l’impressione di verità che recano in sé.

La ricerca / N. 10 Nuova Serie. Maggio 2016

Un bambino del Darfur, da Wikipedia. ↓

pando una sistematica educazione alla lettura delle immagini. Ecco una possibile sintesi in ordine gerarchico crescente delle competenze che questa didattica potrebbe sviluppare. Lo studente dovrebbe dapprima saper distinguere fra i diversi generi in cui le immagini si presentano, ognuno dei quali è connotato da una natura specifica: vignette, caricature, manifesti, opere d’arte, fotografie sono tutti documenti storici ma intrattengono un diverso rapporto sia con l’obiettività storica sia con le aspettative dell’osservatore. Dovrebbe quindi essere capace di distinguere il contenuto di un’immagine dall’uso, dalla funzione che assume in un

contesto storico determinato. Dovrebbe poi abituarsi a leggere un’immagine come un testo polisemico e solo in parte intenzionale, in cui accanto a quelli previsti dall’autore sono spesso presenti significati ulteriori e inconsapevoli. È la via attraverso cui le immagini si prestano a veicolare stereotipi e pregiudizi. Lo studente dovrebbe essere indotto a riflettere su come i giudizi di verità sulle immagini siano profondamente influenzati dalle aspettative di chi le osserva. Ad esempio, una foto di guerra brutta e mossa appare più vera proprio per la sua imperfezione tecnica, che può anche essere simulata ad arte dal fotografo. Robert Capa fu il primo ad inventare questo sottile modo di suggestionare l’osservatore nella celebre immagine del miliziano spagnolo morente, giustamente riportata dai manuali pur senza commenti adeguati. Le aspettative sono determinanti, cambiano secondo l’epoca e dipendono persino dai mezzi tecnici con cui l’immagine è stata prodotta: la fotografia nell’era digitale vede perdere l’aura di oggettività che possedeva nell’era della impressione chimica.

Immagini e sofferenza —

Un manuale di storia dovrebbe infine puntare a sviluppare competenze nel campo dell’educazione civica, ad esempio sottolineando la portata etica di scelte iconografiche apparentemente innocenti. Le immagini sono un ottimo strumento per documentare le sofferenze, e i tre manuali in esame insistono molto sul registro della denuncia. Ma fino a che punto le sofferenze altrui possono essere usate per esprimere un concetto? Il rispetto verso chi sta patendo è anch’esso un valore etico da salvaguardare. E soprattutto: possono le convenzioni che regolano le testimonianze visive del dolore umano essere diverse secondo l’etnia del sofferente? La coscienza civile ripudia l’idea, ma questa è la pratica corrente, purtroppo anche nei nostri manuali oltre che nel resto della carta stampata. Su un quotidiano non è possibile trovare il volto di un bambino morente, né quello di un cadavere a seguito di un incidente stradale,ma le convenzioni saltano se a morire è un bambino africano o la vittima di una strage in un Paese esotico. Infine, porrei come competenza massima l’acquisizione di una sana diffidenza nei confronti di tutte le immagini, l’assunzione verso di esse di un atteggiamento pregiudizialmente critico e caratterizzato dal sospetto. Se si vuole, la consapevolezza che, ancor più delle parole, le immagini sono un ottimo strumento per mentire. Solo l’abitudine a questo dubbio estremo può riequilibrare l’impressione di verità che ogni immagine reca in sé.

Ubaldo Nicola direttore editoriale de La ricerca.


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SCUOLA

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Scuola / Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

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Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore Una delle più autorevoli studiose del fenomeno della comprensione fornisce un sorprendente esempio di come si possa trasformare un difetto di scrittura in un’occasione di qualità educativa, utilizzando le anafore problematiche e i ragionamenti necessari a trovarne le coreferenze. di Lucia Lumbelli

L

a fase del processo di scrittura che consiste nella revisione del testo (Hayes, Flower 1980; Bereiter, Scardamalia 1987; Hayes 1996; Boscolo 1997; Fayol, Alamargot, Berninger 2012) ha uno stretto, quasi ovvio, nesso con il processo della comprensione, dal momento che, prima di correggere, si tratta di leggere con attenzione. La fase della revisione ha una particolare importanza perché ha dimostrato di discriminare sia tra le diverse fasi dello sviluppo dell’abilità di scrivere, sia tra i diversi gradi di questa abilità in età adulta. Chi scrive meglio ricorre alla revisione più frequentemente e più efficacemente. Nella revisione del testo scritto si tratta anche e soprattutto di osservare gli elementi linguistici verificando se essi garantiscono la principale qualità del testo che è la coesione, di cui sono indicatori


47 Scuola / Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

Beppe Fenoglio alla scrivania.


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Scuola / Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

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i connettivi,vari tipi di elementi linguistici che hanno in comune la funzione di segnalare i rapporti tra i significati delle diverse frasi o parti del testo. La caccia ai connettivi sembra essere un compito educativamente importante proprio perché darebbe luogo alla ricerca di che cosa viene connesso (il significato delle frasi collegate dal connettivo) e di quali processi cognitivi devono essere attivati perché il connettivo assolva alla sua funzione coesiva. Ci possono essere connettivi che aiutano il lettore a comprendere il testo utilizzandoli per collegarne le parti, e connettivi che invece possono assolvere alla loro funzione coesiva solo a Questi connettivi condizione che si difficili sono anche eseguano integrauna felice occasione zioni inferenziaper progettare una li. La necessità di compiere queste didattica della revisione integrazioni rende della scrittura fondata il connettivo diffisul problem solving e cile da capire, sosulla autoregolazione prattutto nel caso dell’allievo. di lettori/ revisori non esperti. Ma c’è anche un vantaggio: questi connettivi “difficili” sono anche una felice occasione per progettare una didattica della revisione della scrittura fondata sul problem solving e sulla autoregolazione dell’allievo. Da qui l’importanza di isolare qualche nesso linguistico che segnali una complessità cognitiva e quindi una difficoltà di comprensione che il revisore dovrebbe apprendere a identificare ed esaminare, per poi ridurre o eliminare. In altri termini,l’esame del revisore deve decidere se l’utilizzazione corretta del nesso richieda o no, oltre alla decodifica linguistica, anche una elaborazione cognitiva, richieda cioè inferenze nel senso di ragionamenti (Kintsch 1998). Ragionamenti che il testo scritto, per essere capito, richiede al lettore, creandogli una difficoltà. Da qui la prospettiva di trasformare il compito, generalmente non molto appetibile, della revisione, in un compito di vero e proprio problem solving, che così si articola: 1. concentrare l’attenzione sul nesso linguistico; 2. accertare se esso richieda una complessa elaborazione cognitiva per assolvere alla funzione di elemento di coesione;

3. ricostruire i processi cognitivi che rendono utilizzabile il nesso linguistico e rendono quindi comprensibile il brano in cui quel nesso linguistico compare; 4. riscrivere il testo traducendo l’anafora con l’espressione del significato che essa richiede di ricostruire. Un connettivo con queste caratteristiche è stato scoperto a suo tempo analizzando testi espositivi per verificarne la comprensibilità (Lumbelli 1999, 2009). È quel tipo di richiamo anaforico che in generale può essere capito (e cioè usato per collegare diverse informazioni nell’ambito di un’argomentazione o di una spiegazione) solo se vengono ricostruiti i processi cognitivi che permettono di collegare l’espressione anaforica e la sua coreferenza, e assicurare pertanto al richiamo anaforico sia un significato di per sé, sia la funzione di connettivo. Nel caso di queste speciali anafore problematiche, non bastano le regole linguistiche per l’uso dell’anafora come elemento di coesione dei testi (Halliday, Hasan 1976; Garnham 1987; Ehrlich 1999), ma il collegamento con la coreferenza si ottiene solo grazie a qualche forma più o meno complessa di ragionamento. È bene dunque illustrare alcuni esempi per chiarire che cosa si intende per anafore problematiche e per la loro soluzione come ricostruzione dei processi cognitivi necessari per la loro comprensione. Processi che sono legati alla specifica formulazione linguistica dello specifico brano in cui l’anafora è inserita.

Qualche esempio —

Ecco anzitutto un esempio che può sembrare semplice ma probabilmente non lo è per il lettore non esperto. È necessaria un’integrazione cognitiva della decodifica linguistica per rendere il testo comprensibile; è un lavoro cognitivo decisamente eccessivo e improbabile per questa categoria di lettori. La ricostruzione dei ragionamenti richiesti per utilizzare correttamente un’anafora problematica – come nell’esempio che segue – appare un buon percorso non solo per la diagnosi della comprensibilità di un testo,ma anche per l’identificazione della correzione che renda più facilmente e velocemente comprensibile un brano e sia perciò il traguardo di un intervento educativo che migliori l’abilità di revisione della scrittura.


Il materiale esaminato consisteva in conversazioni informali o conversazioni nelle quali il paziente aveva il compito di descrivere un particolare evento. La ricerca ha dimostrato che variazioni significative nelle strategie di riparazione dei messaggi dipendevano dal tipo di compito conversazionale: raccontare un evento dimostrava chiaramente di essere un compito più difficile che non parlare di argomenti personali, e ciò causava un aumento nelle strategie di riparazione. 49

trasformare il compito di capire l’anafora in una situazione di problem solving, e anzitutto a vedere il problema, ad accorgersi che quella parolina non è qualcosa di così semplice come pare. Questo aiuto è necessario: dato che la comprensione della lettura consiste in processi prevalentemente automatici, richiami anaforici come il ciò dell’esempio passano perlopiù inosservati, e cioè vengono elaborati senza consapevolezza. Quindi anche il probabile eventuale errore resterebbe fuori dal controllo consapevole che è indispensabile sia per la scoperta del problema, sia per l’elaborazione della sua soluzione.Soluzione che sarebbe poi la base di una corretta correzione: cioè la sostituzione del ciò con l’espressione la difficoltà del compito di raccontare un evento. Quello che segue è un esempio che presenta ben due richiami anaforici. Secondo alcuni ricercatori, l’influenza delle conoscenze precedenti dei lettori sui loro errori di comprensione potreb-

↑ Luciano Bianciardi.

Scuola / Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

Qual è il coreferente di ciò? In altre parole, con che cosa possiamo “tradurlo in modo da conferirgli un significato autonomo? Senza questa traduzione/sostituzione l’ultima frase non si collega con il testo precedente in modo chiaro, resta ambigua. Almeno se ci mettiamo nei panni (nella mente) di un lettore non esperto. Ecco il percorso mentale che il lettore dovrebbe intraprendere per utilizzare il ciò come collegamento tra la parte di testo che lo precede e la frase in cui è inserito. Anzitutto il coreferente non può essere il significato complessivo della parte che precede l’anafora. Infatti il ciò non può essere sostituito da quanto è stato dimostrato dalla ricerca, e cioè che le strategie di riparazione variano con il tipo di compito conversazionale, che esistono tipi di compito conversazionale più e meno difficili, e che il compito di raccontare un evento è più difficile che non parlare di esperienze personali. Il risultato di tale sostituzione, ovvero quanto è stato dimostrato dalla ricerca (al posto del ciò) causava un aumento nelle strategie di riparazione (il resto della frase introdotta dal ciò), è una frase senza senso, priva di coerenza. Bisogna trovare un’altra traduzione del ciò. Quella traduzione potrebbe fondarsi sul seguente ragionamento: se le strategie di riparazione cambiano con il tipo di compito, se ci sono compiti più o meno difficili, se il raccontare un evento è un compito più difficile che non parlare di esperienze personali, allora ciò che causa un aumento delle riparazioni è la difficoltà del compito di raccontare un evento. Nel caso di un lettore che avesse bisogno di questo ragionamento per usare correttamente il ciò, e quindi per capire il brano nel suo complesso, l’intervento educativo dovrebbe aiutare l’allievo a


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Scuola / Dall’automatismo al problem solving: come sopravvivere alle anafore

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↑ Ernest Hemingway al Dorchester Hotel di Londra, nel 1944.

be essere assunta come valida soltanto per le situazioni sperimentali in cui è stata accertata, e non potrebbe essere generalizzata all’esperienza comune dei lettori. Spiro non concorda con questa valutazione, e ritiene, al contrario, che questo fenomeno riguarda soprattutto situazioni ecologicamente valide. Nel testo che precede le due anafore non c’è nessuna parola o espressione che funzioni immediatamente come coreferente. Per ricostruirlo correttamente nei due casi bisogna cominciare con il chiedersi che cosa nelle frasi precedenti possa essere il coreferente di questa valutazione. Con quale contenuto semantico tale anafora può essere tradotta? La domanda per l’allievo è semplicemente: quale valutazione? Una forma di valutazione può essere riconosciuta nell’assunzione di alcuni autori secondo i quali certi dati sperimentali non sarebbero validi all’infuori delle situazioni sperimentali in cui sono stati accertati.Può essere considerata una forma di valutazione il negare validità ecologica a certi dati sperimentali. Ma questa coreferenza può essere identificata non tanto grazie alla competenza

semantico-lessicale del lettore/revisore quanto alla sua competenza cognitiva, grazie cioè a un ragionamento come il seguente: se nelle prime frasi del testo si tratta di riconoscere qualche forma di valutazione, essa si può riconoscere nel giudizio che certi autori danno di certi risultati sperimentali. Da qui la correzione cui potrebbe/dovrebbe giungere il lettore/ revisore: Spiro non concorda con gli autori che negano validità ecologica a certi dati sperimentali. Il riferimento agli esperimenti in questione è stato finora indeterminato proprio per evitare di anticipare l’analisi dell’anafora questo fenomeno. Questo secondo richiamo anaforico ha la coreferenza nella frase iniziale del brano che è stata ignorata nella ricostruzione del significato di questa valutazione. Mentre quell’anafora può essere risolta anche se non si riesce a identificare correttamente il preciso riferimento all’oggetto della valutazione, è questo preciso riferimento che serve a tradurre la seconda anafora questo fenomeno.Qui l’interrogativo da porsi è: qual è il fenomeno che, per Spiro, riguarda soprattutto situazioni ecologicamente valide? C’è nel testo il riferimento a un preciso, specifico fenomeno?


Le varie critiche all’introspezionismo non hanno rilievo per gli studi sulla metacognizione. Infatti, in questo contesto, si assume soltanto la possibilità che l’individuo produca idee sul funzionamento della mente usando l’introspezione, e non la verità di tali idee. Il fatto stesso che con quelle critiche si metta in discussione la verità del risultato della esperienza introspettiva, suggerisce che questa esperienza esista effettivamente. In un primo momento sembra che siano sufficienti le regole linguistiche per identificare la coreferenza dell’espressione anaforica in questo contesto nel più vicino tra i due possibili candidati contenuti nella prima frase del brano (introspezionismo e studi sulla metacognizione). L’anafora può essere effettivamente tradotta con studi sulla metacognizione. Ma con l’applicazione di questa regola linguistica non c’è la garanzia che il nesso linguistico espresso dall’anafora venga utilizzato con la sua funzione di connettere correttamente i significati espressi dalle diverse frasi del brano. Il percorso cognitivo porta a questa stessa soluzione,e cioè che contesto vada tradotto con studi sulla metacognizione, ma tale percorso garantisce l’uso

dell’anafora come connettivo tra diverse parti del testo nonché l’innesto di un intervento educativo di incomparabile qualità. Ancora una volta si parte dalla domanda che orienta la ricerca nel testo: in quale contesto? Si esamina la frase introdotta prima dal connettivo infatti e poi dall’anafora, e se ne ricostruisce il contenuto semantico: è il contesto in cui si assume la possibilità che la persona produca con l’introspezione alcune idee sul proprio funzionamento mentale senza per questo assumere che le idee elaborate con tale introspezione siano affidabili scientificamente. Sono queste le caratteristiche degli studi sulla metacognizione che rendono non rilevanti nei loro confronti le critiche all’introspezionismo, e cioè le critiche all’uso del metodo introspettivo nella ricerca scientifica. È da questa sintesi che si può inferire la coreferenza dell’anafora in questo contesto, che va tradotto con negli studi sulla metacognizione. La frase finale può essere considerata un’ulteriore argomentazione dell’assunzione dell’irrilevanza delle critiche all’introspezionismo nei confronti degli studi sulla metacognizione. Vi si trova anzitutto un richiamo anaforico non problematico, cioè l’espressione con quelle critiche: a differenza del tipo speciale di anafore che qui si stanno discutendo, l’identità di scelta lessicale (critiche) rende piano e immediato il riconoscimento della coreferenza in Le anafore le varie critiche problematiche solitamente all’introspeziofacilitano l’accesso nismo. Si tratta di alla consapevolezza una di quelle anafore che non sono di elementi della problematiche coesione linguistica che perché assolvono normalmente vengono immediatamente decodificati in modo e facilmente alla automatico e quindi funzione di connettivo. In queinconsapevole. sto caso, l’anafora semplice favorisce la comprensione della connessione tra i contenuti della frase iniziale e di quella finale, e cioè tra l’affermazione che le critiche all’introspezionismo non hanno rilievo per gli studi sulla meta cognizione (frase iniziale) e il fatto che tali critiche mettono in discussione la verità del risultato della ricerca tramite introspezione (frase finale) e proprio per

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In questo caso, la risposta si trova esplorando la prima parte del brano e identificando il riferimento all’influenza delle conoscenze precedenti dei lettori sui loro errori di comprensione. Sarebbe quest’influenza il dato sperimentale che certi autori ritengono legato all’esperimento stesso e che invece Spiro considera valido anche per i contesti dell’esperienza comune. Posso arrivare a questa soluzione solo se riconosco questo fenomeno nel preciso dato per cui le conoscenze del lettore incidono sui suoi errori di comprensione, escludendo così dalla ricerca di questa coreferenza tutta la parte successiva del brano. Qui la correzione sarebbe: Spiro ritiene che le conoscenze precedenti dei lettori influenzino i loro errori di comprensione non solo in situazioni sperimentali, ma anche e soprattutto in situazioni ecologicamente valide. Nell’ultimo esempio la ricostruzione del percorso di ricerca della coreferenza è concentrata su un’anafora che in un primo momento non sembra richiedere una ricostruzione relativamente complessa.


questo sembrano presupporre la fattibilità dell’introspezione, o esperienza introspettiva (frase finale). Se si mette in discussione il valore del risultato ottenuto con un tipo di metodo o di esperienza cognitiva,se ne dà per scontata l’esistenza o/e la fattibilità.

Le qualità della situazione educativa centrata sull’anafora problematica —

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Allen Ginsberg a San Francisco nel 1955. © Peter Orlovsky/Archive of Allen Ginsberg. ↓

Le caratteristiche delle anafore problematiche emerse dagli esempi determinano le qualità educative di una situazione didattica che sia centrata su questo tipo di anafora e con l’obiettivo di migliorare l’abilità di revisione della scrittura. Sono qualità educative sulla cui importanza c’è un consenso molto vasto pur nella pluralità dei linguaggi. Qui si adotterà il linguaggio della ricerca psicologica applicata all’educazione: problem solving, autoregolazione, motivazione intrinseca, metacognizione come controllo (monitoring) consapevole dei processi cognitivi. Tutti concetti che verranno ora applicati all’utilizzazione delle anafore problematiche per migliorare l’abilità della revisione della scrittura. Come si è già accennato, le anafore problematiche solitamente facilitano l’accesso alla consapevolezza di elementi

della coesione linguistica che normalmente vengono decodificati in modo automatico e quindi inconsapevole. Questa consapevolezza è favorita dalle domande qui esemplificate a proposito di ciascuna anafora, domande che nel contesto educativo dovrebbero essere ovviamente poste dall’insegnante, e alle quali l’allievo dovrebbe rispondere mediante una ricerca nel testo. Nel corso di tale ricerca viene anzitutto richiamata alla consapevolezza la singola anafora, ma subito dopo l’attenzione dell’allievo/revisore si estende a tutto il materiale linguistico. La situazione di problem solving favorita dalla domanda riguardante l’anafora problematica contagia, per così dire, l’intero testo circostante, e favorisce nel revisore quell’atteggiamento attivo, attento, che è uno degli obiettivi della stimolazione dell’abilità di leggere-per-correggere. In questo contesto, il principio di autoregolazione dell’allievo si combina con la predisposizione di standard e criteri in base ai quali la scrittura va esaminata, ed eventualmente corretta. Dal problem solving alla motivazione intrinseca: non si ha vero problem solving se il solutore non è stato incoraggiato a far proprio il problema (problem posing) e quindi a procedere nella ricerca con una motivazione che è intrinseca, perché intrinsecamente connessa con i ragio-


Questo recupero provvisorio del controllo consapevole di processi cognitivi che sono normalmente automatici e consistono nello stesso tempo in inferenze o ragionamenti è la caratteristica dell’approccio che ho già proposto e sperimentato a proposito della stimolazione della comprensione della lettura con conferme empiriche di fattibilità ed efficacia (Lumbelli 2009). Il passaggio provvisorio alla consapevolezza, in entrambi i casi – comprensione della lettura e revisione della scrittura –, crea le basi per raggiungere l’obiettivo finale di un’esecuzione automatica La situazione di problem corretta. Obiettivo solving favorita che viene raggiundalla domanda to attraverso una riguardante l’anafora serie di esperienze di ricostruzione problematica dei processi ricontagia l’intero chiesti dalla comtesto circostante, e prensione di un favorisce nel revisore nesso problemaquell’atteggiamento attivo tico come le anafore esemplificate. che è uno degli obiettivi È un caso di didatdella stimolazione tica tramite esempi dell’abilità di leggere(Renkl 1997; Swelper-correggere. ler 2006). Si tratta infatti di esempi di ragionamenti che, normalmente, avvengono automaticamente senza che la loro pertinenza possa essere valutata dalla mente che li esegue, ma possono diventare automaticamente corretti e pertinenti proprio grazie all’intervento educativo fondato sull’esperienza consapevolmente monitorata dall’allievo. Due componenti di questo approccio hanno particolare valore per la precipua stimolazione della abilità di revisione. Primo, lo standard per l’autovalutazione non deve riguardare il risultato dei processi di ricostruzione, come per esempio l’uso di frasi come “questo non è chiaro”, utilizzate in vari approcci di stimolazione dell’abilità della revisione (Bereiter, Scardamalia 1987; Schriver 1992). Ma i criteri devono riferirsi al percorso cognitivo che porta a quel risultato. Devono essere criteri che siano anche criteri per orientare l’esecuzione di quei processi stessi nel corso dell’istruzione. Secondo, bisogna assumere l’esistenza di inferenze che siano allo stesso tempo automatiche e dotate della complessità che è normalmente associata al problem

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namenti che permettono di individuare la coreferenza dell’espressione anaforica problematica: è una motivazione che consiste nel piacere di esercitare i propri processi mentali nella ricerca della soluzione del problema. Questo tipo di motivazione dà al contesto didattico un’impareggiabile qualità educativa che ha sinonimi più noti quali la libertà, l’autonomia, il piacere di apprendere o il carattere ludico dell’apprendimento. Tutti sinonimi che però corrono il rischio della vaghezza, e quindi di una scarsa realizzabilità. Nell’anafora problematica credo di aver trovato l’occasione felice per conciliare l’attività e l’autoregolazione dell’allievo con la formulazione precisa del ruolo dell’istruttore, che consiste: 1. nell’esaminare i testi scritti da revisionare, facendo attenzione ai frequenti richiami anaforici in modo da individuare quelli problematici; 2. nel ricavarne la formulazione della domanda-posizione-del-problema; 3. nel ricostruire il percorso di ricerca della coreferenza e quindi della ricerca della soluzione del problema. Quest’esame preliminare del testo dovrebbe rendere l’insegnante pronto a vigilare sulla esplorazione testuale dell’allievo e a dargli un sostegno pertinente nel caso la sua ricerca si blocchi arrivando a un punto morto. Con la trasformazione del compito di revisione della scrittura in situazione di problem solving si interrompe l’attività automatica che prevale sia nella lettura che nella scrittura delle persone esperte. La si sospende momentaneamente per illuminare con la consapevolezza le operazioni cognitive che il lettore e scrittore esperto è solito eseguire automaticamente, senza sforzo, con l’attenzione concentrata sul contenuto semantico che è il risultato di quei processi inferenziali. L’obiettivo didattico è di migliorare la componente della competenza di scrittura che consiste nella capacità di rivedere (leggere e correggere) il testo scritto ricostruendo il lavoro cognitivo richiesto per la sua comprensione,per poi valutare se la richiesta è adeguata o no all’abilità del destinatario. Pertanto occorre aiutare l’allievo a impadronirsi di parametri o criteri di valutazione, e a impadronirsene in modo consapevole, mediante un processo di apprendimento solido perché autoregolato.


solving, e cioè inferenze suscettibili di diventare consapevoli. Nel suo bilancio critico a proposito delle inferenze nella comprensione del testo, Kintsch (1998) definisce tre categorie che secondo lui non sarebbe corretto denominare inferenze, e una quarta categoria che sarebbe la sola a consistere in vere e proprie inferenze o ragionamenti. Ma il lettore, per Kintsch, quando s’impegna in questo quarto tipo di inferenza, affronta

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Approfondire —

J • C. Bereiter, M. Scardamalia, The Psychology of Written Composition, Erlbaum, Mahwah, New York 1987. • P. Boscolo, Psicologia dell’apprendimento scolastico, UTET, Torino 1997. •M. F. Ehrlich, Metacognitive Monitoring of Text Cohesion in Children, in H. van Oostendorp, S.R. Goldman (Eds.), The Construction of Mental Representations during Reading, Erlbaum, Mahwah, New York 1999, pp. 281-301. • M. Fayol, D. Alamargot, V. W. Berninger, Translation of thought to written text while composing, Psychology Press, New York-London 2012. • A. Garnham, Understanding Anaphora, in A. W. Ellis (Ed.), Progress in the Psychology of Language, vol. 3, Erlbaum, Hillsdale 1987, pp. 253-300. • M. A. K. Halliday, R. Hasan, Cohesion in English, Longman, London 1976. • J. R. Hayes, L. Flower, Identifying the organisation of writing process, in L. W. Gregg, E. R. Sternberg (Eds.), Cognitive processes in writing, Erlbaum, Hillsdale, New York 1980, pp. 3-30. • W. Kintsch, Comprehension. A paradigm for Cognition, Cambridge University Press, New York 1998. • L. Lumbelli, Fenomenologia dello scrivere chiaro, Editori Riuniti, Roma 1999. • L. Lumbelli, La comprensione come problema, Laterza, Bari-Roma 2009. • A. Renkl, Learning from worked-out examples. A study on individual difference, in «Cognitive Science» 21, pp. 1-29. • K. A.Schriver, Teaching writers to anticipate readers’ needs: a classroom-evaluated pedagogy, in «Written Communication» 9, 1992, pp. 179-208. • J. Sweller, The worked example effect and human cognition, in «Learning and Instruction» 16, 2006, pp.165-169.

un compito di problem solving e non di comprensione del testo. Questo compito, in quanto attività di ragionamento consapevole, bloccherebbe il processo di comprensione, ponendo il lettore in una situazione di problem solving. I processi di comprensione del testo sarebbero quindi irreparabilmente automatici e le inferenze non vi sarebbero incluse. L’assunzione della compatibilità di problem solving e processi di comprensione apre prospettive educative che l’assunzione di Kintsch renderebbe impraticabili. L’educabilità dell’abilità di eseguire determinati processi è resa possibile proprio dalla loro suscettibilità di essere richiamabili alla coscienza, pur essendo naturalmente eseguiti in modo automatico. Nel caso del lettore-revisore esperto, i processi che sono stati ricostruiti negli esempi di anafore problematiche sarebbero automatici, non intenzionalmente e consapevolmente monitorati. Neppure nel caso dell’allievo che deve essere aiutato a rivedere un testo, quei processi, corretti o no, sono eseguiti consapevolmente. È l’intervento educativo con la stimolazione della ricerca nel testo che dovrebbe produrre un cambiamento. È la difficoltà di identificare la coreferenza, insieme alla domanda-problema che serve a interrompere l’automatismo e a richiamare l’attenzione e la motivazione alla ricerca, creando le condizioni per una revisione autoregolata con ricostruzione consapevole dei processi. L’intervento educativo rende consapevole ciò che in natura è inconsapevole, automatico, facendone oggetto di analisi e valutazione.

Lucia Lumbelli ha insegnato pedagogia nelle università di Milano, Padova, Parma e Trieste (ove è professore emerito). Nei suoi studi ha attinto a vari settori della ricerca psicologica applicandola a diversi problemi di comunicazione educativa: dalla comprensione empatica dell’insegnante (Comunicazione non autoritaria, 1972) alla comprensione dell’allievo come specifico obiettivo didattico (La comprensione come problema, 2009), alle specificità della comprensione dei media audiovisivi rispetto alla comprensione della lettura (From film and television to multimedia cognitive effects, 2008).


Risorse digitali per la scrittura

di Marco Guastavigna

U

sare gli strumenti elettronici di scrittura a scuola fa bene o fa male? Questa la domanda più frequente, soprattutto sui media. Il dibattito è spesso ridotto alla bruta contrapposizione tra penna da una parte e tastiera dall’altra; i neo-apocalittici si schierano compatti per la prima tecnologia, mentre i neo-integrati sostengono unanimi la seconda. Impostata in questo modo, la discussione dimentica il fatto che l’Italia è molto lontana da una diffusione massiccia dei dispositivi digitali a scuola, dal momento che le politiche istituzionali degli ultimi anni hanno preferito orientarsi nella direzione dei bandi di finanziamento, percorsi concorrenziali da cui alcune unità scolastiche escono vincitrici, ma molte altre perdenti. Soprattutto, è estremamente superficiale, perché prescinde da un’analisi attenta e compiuta di ciò su cui esprime un sommario giudizio didattico e formativo,non importa se positivo o negativo. Lo scopo di questo contributo è perciò fornire ampi elementi di conoscenza sulla dotazione di risorse su cui può contare chi vuole scrivere su supporto e con strumenti digitali, per permettere una valutazione più precisa e circostanziata della questione e ragionare sulle conseguenze cognitive e culturali di una scelta in direzione del “digitale”, che non è soltanto operativa, ma anche e soprattutto professionale e intellettuale, oltre a proporre significativi spunti per la didattica della scrittura di testi.

Ideazione, progettazione, strutturazione del testo —

Qualsiasi buon word processor1 permette all’utente di assumere consapevolmente diversi punti di vista sul testo: per esempio, è sempre possibile visualizzare quanto si va scrivendo sotto forma di struttura, bozza o layout di stampa. Queste forme di presentazione sullo schermo corrispondono con ogni evidenza a diverse e cruciali fasi del processo di scrittura di un testo, rispettivamente definizione della scaletta, stesura e rifinitura grafico-formale (non va dimenticato infatti che un software di videoscrittura è una tecnologia orientata alla stampa, che utilizza un foglio di carta virtuale, in genere di formato A4).Tali fasi del processo, inoltre, sono proposte dall’ambiente di scrittura non in sequenza rigida, ma

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Quali sono le risorse su cui può contare chi vuole scrivere su supporto e con strumenti digitali? Conoscerle è il presupposto per riflettere in profondità sull’ampiezza delle implicazioni cognitive e culturali di una scelta in direzione del “digitale”, che non è soltanto operativa, ma anche e soprattutto professionale e intellettuale, oltre a proporre significativi spunti per la didattica della scrittura di testi.


come situazioni ricorsive, che possono richiedere più passaggi dall’una all’altra, a seconda delle esigenze operative e cognitive dell’utente: è evidente come tutti questi aspetti possano avere una significativa risonanza didattica. Vi sono poi numerosi altri strumenti destinati alla strutturazione logico-visiva del testo: attraverso la gestione delle titolazioni e delle numerazioni degli item, infatti, si possono assegnare diversi livelli gerarchici a capoversi e paragrafi e generare in modo automatico i sommari. Alcuni programmi sono addirittura in grado di importare e rielaborare file contenenti mappe mentali, la forma di schematizzazione più adatta al brainstorming, alla raccolta delle idee, grazie all’impostazione a raggiera2. Anche in questo caso è chiaro come tutte queste modalità possano essere impiegate in percorsi di acquisizione di tecniche per l’ideazione e la strutturazione di testi.

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Stesura e revisione immediata —

Chi, tra coloro che scrivono con frequenza, non ha apprezzato la funzione taglia-eincolla? Applicabile a singole parole, ma anche a interi capitoli di un libro in corso di stesura mediante un word processor,questa procedura valorizLa revisione – e za la plasticità assunta dal testo sul supporto questo è essenziale ai digitale. È davvero un fini didattici – diventa sollievo poter scrivere parte costitutiva e di getto, con la consasostenibile del processo pevolezza di poter vadi scrittura. riare in qualsiasi momento la disposizione del testo senza dover pagare pegno, come invece avveniva in precedenza sul supporto rigido, quando cambiare l’ordine della propria esposizione significava dover riscrivere tutto. Lo stesso vale per la cancellazione e per l’inserimento di nuove parti: il testo si stringe e si allarga senza colpo ferire. Del resto, facilitare la rielaborazione del testo è la caratteristica operativa fondamentale dei software di videoscrittura, nati allo scopo di rendere possibile procedere per perfezionamenti successivi nella redazione di un documento, in origine la lista dei comandi dei programmi da inserire nei computer, che andava via via testata e corretta. Appartengono alla stessa categoria operativa la possibilità di separare o riunire parti di testo, così come quella

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di copiarne e incollarne segmenti. Oppure giostrare con i rientri di inizio capoverso, gestire elenchi puntati e numerati, ricercare e sostituire segmenti testuali, agire con le risorse tipografiche e con quelle di impaginazione.Anche queste funzioni prevedono interventi sul testo progressivi e ricorsivi, ovvero di correggerlo e riadattarlo via via in funzione delle esigenze individuate e delle scelte fatte. La revisione – e questo è essenziale ai fini didattici – diventa così parte costitutiva e sostenibile del processo di scrittura: è una fase operativa e cognitiva intenzionale, a cui ricorrere in qualsiasi momento del lavoro di elaborazione del testo. Vanno considerati in questa prospettiva anche la segnalazione automatica di possibili errori grammaticali e ortografici e l’accesso a Thesaurus di sinonimi e contrari e a dizionari di altre lingue.

Supervisione, perfezionamento, integrazione —

Tutti gli ambienti destinati alla scrittura professionale presentano procedure per l’implementazione e la semplificazione di eventuali esigenze di supervisione: è possibile infatti effettuare interventi di revisione su testi altrui, che l’autore originale potrà successivamente accettare o rifiutare. Particolarmente interessanti sono i commenti, che possono contenere annotazioni, suggerimenti, indicazioni, correzioni e così via, che vengono introdotti a fianco del testo vero e proprio, senza incidere direttamente sulla stesura. Si tratta di una funzionalità particolarmente promettente sul piano della mediazione didattica – l’insegnante come supervisore del testo – perché mediante i commenti l’allievo può essere guidato e nel percorso di elaborazione del testo possono essere introdotti elementi di valutazione formativa. Se necessario, inoltre, si può procedere in modo automatico al confronto tra due versioni dello stesso testo, così come alla combinazione tra le revisioni di diversi supervisori in merito al medesimo documento. Né va dimenticata la possibilità che più autori condividano ed elaborino a distanza in modo cooperativo il medesimo testo utilizzando spazi cloud3 riservati, così come consentito da diversi fornitori di servizi sulla rete Internet. La didattica della scrittura può sfruttare in particolare


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Repertori testuali di riferimento —

Vi sono molti testi che hanno strutture logico-visive, formali o grafiche in larga misura fisse, riconosciute e ripetibili. Pensiamo non solo alle copertine dei fax o agli inviti, ma anche al Curriculum Vitae, alla relazione tecnica, così come a vari tipi di comunicazioni ufficiali, per esempio le lettere commerciali. I word processor offrono pertanto collezioni di modelli (templates), file pre-organizzati sul piano formale secondo criteri strutturali e visivi predefiniti, agendo sui quali si ottiene un documento di testo automaticamente conformato alle loro caratteristiche specifiche. Non solo: se l’utente realizza un proprio documento a cui assegna la valenza di modello ripetibile, lo può salvare con una procedura ad hoc ed esso andrà ad arricchire la sua collezione di template.

La didattica della scrittura di testi può quindi alimentarsi di archivi di riferimento collettivo, che aiutano e sostengono l’elaborazione di ciascuno e che possono essere alimentati dai contributi di tutti, trasformando il gruppo-classe in una sorta di laboratorio; l’insegnante che abbia prodotto esercitazioni efficaci può trasformarle in modelli, risolvendo una volta per tutte il problema della conservazione degli originali.

Revisione “sociale” del testo e scrittura controllata —

Certamente molti lettori conosceranno le funzioni di conteggio, che riportano il numero di parole, quello delle battute, delle righe e dei paragrafi, utili soprattutto in presenza di committenze di scrittura con vincoli di questo genere. Sono certamente di meno coloro che sono al corrente della possibilità di attivare in Microsoft Word le statistiche di leggibilità del testo, corollario operativo del controllo ortografico e grammaticale: questa procedura scansiona il testo e calcola gli indici Gulpease e Gunning Fog. Ampliando il campo delle risorse si può però fare molto di più, soprattutto quando l’obiettivo sia scrivere per farsi capire: ci sono strumenti aggiuntivi – ovvero non compresi nella struttura funzionale standard di un word processor – che consentono una valutazione qualitativa del testo e una sua revisione secondo una prospettiva

↑ Stephen King nel 1983.

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il fatto che questa modalità di scrittura collaborativa prevede, oltre ai già citati commenti da parte del supervisore/insegnante, anche la conservazione di tutte le progressive versioni del medesimo testo e l’evidenziazione di volta in volta delle modifiche: questo modo di operare crea una sorta di ambiente di incubazione e perfezionamento del prodotto. Funzioni specifiche aiutano poi nella gestione di fonti, citazioni e bibliografia, piè di pagina, intestazioni, numerazione delle pagine.


inclusiva. Stiamo parlando di semplificazione del testo e di scrittura controllata, esempi della quale sono consultabili in www. dueparole.it. Chi voglia rivolgersi in modo esplicito e intenzionale a una base molto larga di lettori, compresi coloro che posseggono competenze linguistico-cognitive limitate, dispone di varie opportunità. Una ventina di anni fa, allegato Quando si scrive si al volume Guida all’uso delle parole dovrebbe essere – autore Tullio De consapevoli di tutte Mauro – usciva per le opportunità a i tipi degli Editori disposizione. Riuniti il software Vocabolario di base, che conteneva una descrizione del vocabolario di base e analizzava secondo queste categorie lessicali un qualsiasi testo in formato digitale riversato nell’ambiente. Questo prodotto è scomparso dal mercato e in ogni caso funzionava solo con le versioni di Windows fino a XP compreso. Al suo posto è possibile utilizzare aciltesto4, software opensource5 multipiattaforma6 finalizzato all’adattamento dei testi scolastici secondo tre protocolli scientificamente definiti, che propongono interventi non solo di tipo lessicale, ma anche sulla strutturazione complessiva del testo e su vari parametri qualitativi7. Si tratta di risorse destinate soprattutto a sollecitare gli insegnanti sul piano professionale: ne parliamo altrove, sempre in questo numero de La ricerca.

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Conservazione, distribuzione, pubblicazione del testo —

Salvare un file: operazione che tutti compiamo con grande frequenza. Così come in tutti gli altri casi, in quello della scrittura vuol dire in primo luogo archiviare il nostro testo, conservarlo. Ma vuol dire anche poterlo riprendere in un momento successivo per continuare il lavoro, rivederlo, integrarlo, correggerlo. Anche in questo caso è evidente il vantaggio didattico di questo modo di operare, che facilita l’aspetto processuale della scrittura di testi. Il “salvataggio” sul supporto digitale (qualcuno lo chiama giustamente la “memoria”) è una funzione complementare della plasticità assunta dai prodotti intellettuali di tipo digitale, conseguenza della loro dematerializzazione. Essere pienamente consapevoli delle potenzia-

lità legate a questo passaggio – per altro brutalmente necessario se non si vuol perdere il frutto della propria fatica – è fondamentale per comprenderne fino in fondo la potenza. Possiamo infatti salvare infinite copie o versioni dello stesso testo sul medesimo supporto fisico; e anche riprodurre lo stesso file su differenti dispositivi. Oppure inviarlo come allegato a un messaggio di posta elettronica, a sua volta forma particolare di comunicazione di tipo testuale asincrona tipica dell’universo digitale arricchito dalle funzionalità telematiche. Tutte quelle fino a qui elencate sono forme di distribuzione del nostro lavoro, a cui va aggiunta quella più tradizionale, la stampa su carta, che toglierà al nostro prodotto la connotazione di plasticità. In modo molto semplice possiamo trasformare il nostro testo scritto in un file audio, rendendolo così ascoltabile oltre/invece che leggibile, con evidenti implicazioni inclusive, utili anche a scuola. La medesima valenza ha la capacità di alcuni dispositivi e applicazioni di leggere un documento mediante le proprie risorse di sintesi vocale. La filiera multimodale8 tipica della scelta operativa digitale è ulteriormente incrementata dalla disponibilità di stampanti braille e di altri strumenti destinati a consentire la fruizione del testo anche in particolari condizioni personali. Quando si scrive si dovrebbe essere consapevoli di tutte le opportunità a disposizione, a cui vanno aggiunte altre opzioni, per esempio quella di travasare con un semplice copia-e-incolla il proprio documento nello spazio di un blog, rendendolo così immediatamente pubblico e disponibile alla fruizione di un numero infinito di soggetti. È probabile che qualche lettore abbia esperito questa pratica in modo non del tutto consapevole riversando qualche proprio pensiero scritto su Facebook. Qualcun altro avrà già fatto l’esperienza di trasformare il proprio testo in un libro digitale, caratterizzato dalla capacità dinamica del formato utilizzato in questi casi – per esempio ePub – di adattare le dimensioni del testo e l’impaginazione alle caratteristiche impostate sul dispositivo di lettura, altra opzione con valenza inclusiva, in particolare per persone con difficoltà visive. Per ottenere questo risultato è sufficiente trasferire il proprio lavoro su una piattaforma Internet dedicata alla produzione di e-book. In questo


Incrementi e supporti cognitivi e culturali —

Da sempre il testo è accompagnato da immagini statiche. E questa funzione è sopravvissuta anche nel caso del testo digitale, che prevede l’inserimento di immagini da collezioni fornite insieme al software di scrittura o da qualsiasi altra fonte, ovviamente a patto che l’autore abbia risolto il problema del copyright. Analogamente, i migliori programmi di

videoscrittura offrono repertori standardizzati di rappresentazioni grafiche – per lo più di matrice culturale politecnica, ma impiegabili anche in altri contesti – utili per arricchire il documento di schematizzazioni e integrazioni visive, così come rendono molto semplice e intuitiva la realizzazione di tabelle. La dematerializzazione tipica del supporto digitale rende però possibile inserire e fruire direttamente dal documento anche filmati e contributi audio, forme di espansione del testo impensabili con i supporti precedenti, fatta salva la possibilità di citare un materiale delegando al lettore l’onere di procurarselo. La potenzialità più ricca del digitale è infatti certamente il link, ovvero la possibilità di collegare in modo attivo a una porzione del documento un contenuto residente a sua volta su supporto digitale, anche molto “lontano” dal documento medesimo: spaziamo infatti dalla realizzazione di rimandi dinamici all’interno di un unico testo, alla connessione tra più documenti,al collegamento con strutture anche complesse di dati, informazioni e conoscenze residenti sulla rete Internet, che diventano raggiungibili e immediatamente fruibili con un semplice clic del mouse o con un tocco del dito. Scrivere con strumenti digitali non può prescindere da questa peculiare modalità di costruzione del tessuto testuale, che va oltre quanto è possibile fare sulla carta, dove i richiami sono possibili, ma inerti e a carico del lettore. Con il La potenzialità più ricca link digitale siamo del digitale è certamente invece di fronte a il link, la possibilità di una sintassi operativa e cognitiva collegare in modo attivo estremamente faa una porzione del cile da realizzare documento un contenuto (Inserisci collegaresidente a sua volta su mento ipertestuale supporto digitale. è una funzione ormai standard di qualsiasi ambiente di scrittura) e molto potente sul piano culturale, forse la “novità” più promettente del trasferimento del testo (in tutte le sue articolazioni) su supporto digitale. Con un collegamento attivo, infatti, possiamo rendere disponibile al lettore una nota, un riferimento bibliografico anche molto ampio, così come una spiegazione, un’esemplificazione, una definizione, un approfondimento, un confronto

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caso, con ogni probabilità, si otterrà non solo un nuovo file conformato secondo le specifiche necessarie al tipo di fruizione appena descritto, ma – di nuovo – l’immediata pubblicazione in rete del proprio prodotto. La dematerializzazione del testo, insomma, ne rende molto facile la condivisione secondo diversi formati e tipologie; in precedenza abbiamo parlato di quella privata, riservata a pochi utenti; in questo paragrafo abbiamo invece accennato alle forme che prevedono la pubblicazione dei materiali, la loro raccolta in depositi destinati a qualsiasi utente della rete, come nel caso di Slideshare9 e Scribd10. Merita la nostra attenzione anche la procedura di esportazione dei documenti in formati diversi da quello originario: questa procedura – a cui in molti casi si accede mediante l’opzione salva con nome – consente di riprodurre il nostro testo in formati diversi, fruibili ed elaborabili da software diversi dall’ambiente di elaborazione originale. È questo un esempio di interoperabilità – la capacità dei dispositivi e delle applicazioni digitali di interagire sul piano operativo in modo completo, privo di vincoli di marchio e di limitazioni pratiche – e va sottolineato che comprende in particolare la possibilità di ricorrere al formato HTML, quello utile per rendere leggibile e fruibile un testo direttamente sulla rete internet, e PDF,la forma più semplice di realizzazione di un prodotto a impaginazione fissa e garantita. Tutte queste funzionalità possono contribuire alla già accennata trasformazione del gruppo classe in un laboratorio di scrittura aperto a ciò che è esterno all’aula e che quindi deve fare i conti con il fatto che le proprie attività possono avere varie tipologie di destinatari, a seconda della forma di pubblicazione e distribuzione utilizzata.


programmi finalizzati alla comunicazione aumentativa; OOo4Kids contiene un word processor destinato ai bambini, mentre Facilitoffice è pensato per semplificare OpenOffice, integrarlo con la sintesi vocale e facilitare l’uso nella scrittura di un dizionario visuale. NOTE

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↑ Dino Buzzati al tavolo da disegno.

con una posizione o prospettiva diversa e così via, arricchendo ampiamente la capacità logica, concettuale ed espositiva della nostra scrittura; starà poi al lettore valutare la situazione e decidere se (e quando) seguire il collegamento proposto. Microsoft Word offre poi una particolare forma di collegamento attivo, ovvero la possibilità di selezionare una porzione di testo a nostra scelta e di accedere direttamente ai contenuti di Wikipedia che la contengono. Un percorso didattico sulla scrittura non può non porsi l’obiettivo di rendere gli studenti capaci di usare in modo intenzionale queste risorse, che possono contribuire a estendere le potenzialità del testo in misura impensata sul supporto tradizionale e quindi a modificare in qualche modo la prospettiva generale, anche nella fase dell’ideazione e della strutturazione.

Ambienti particolari —

Fino a qui abbiamo parlato di strumenti destinati a un pubblico standard. Vi sono però anche software con particolari caratteristiche e destinazioni d’uso. Balabolka, per esempio, è un ambiente ottimizzato per chi desidera scrivere un testo e averne contestualmente o successivamente la lettura mediante sintesi vocale; Araword e Clicker sono esempi di

1. Preferiamo questa dicitura a “videoscrittura”, perché rende in modo efficace la dimensione cognitiva dell’uso di un software per scrivere; un ampio elenco di word processor è disponibile in https://en.wikipedia.org/wiki/ List_of_word_processors. 2. Cfr. Marco Guastavigna, Non solo concettuali. Mappe, schemi, apprendimento, I Quaderni della Ricerca 23; Loescher Editore, Torino 2015, p. 15 [disponibile in http://www.laricerca. loescher.it/quaderni/i-quaderni-della-ricerca/i-quaderni-della-ricerca-23.html]. 3. La metafora della “nuvola” indica la possibilità di utilizzare e condividere con altri utenti in modo dinamico e attivo risorse disponibili sulla rete Internet anziché sul proprio singolo dispositivo. 4. Maggiori informazioni sul software sono disponibili su http://www.sd2n.itd.cnr.it/index.php?r=site/scheda&id=5731. 5.Con questa espressione si definisce il software del quale gli autori – che ne detengono i diritti – rendono disponibile il codice sorgente; si tratta di programmi royalty free, per il cui utilizzo non è richiesto il pagamento di diritti d’autore. 6. L’espressione viene utilizzata per i software rilasciati per diversi sistemi operativi, nella fattispecie Windows, MacOSX e Linux. 7. I tre protocolli fanno riferimento a tre diversi livelli di difficoltà linguistico-cognitive (grave, medio, lieve) e sono descritti in http://handitecno.indire.it/content/index. php?action=readBancheDati&id=67&subact=buonePratiche&id_cnt=4756. 8. La multimodalità non va confusa con la multimedialità: l’espressione indica la possibilità di un documento elettronico di essere consultato in più modi, mediante diversi strumenti e canali comunicativi. 9. http://www.slideshare.net/. 10. http://www.scribd.com/.

Marco Guastavigna formatore, è stato insegnante nella scuola secondaria di secondo grado. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.


Conversazioni brevi. A scuola di epigramma nell’era digitale

di Cristina Nesi

«S

tile vibrato e racchiuso in un breve giro di parole»1. Con questa sintesi efficace, affidata al Discorso preliminare sopra l’epigramma (1812), Leopardi rivendica per il genere concisione e stringatezza strofica. In effetti, a un principio di sinteticità l’epigramma è sempre rimasto fedele anche quando nella letteratura italiana il doppio endecasillabo, creato sul distico elegiaco della classicità, non si è stabilizzato come univoca forma metrica e ha lasciato il posto a più versi e a più strofe. Certo, il distico non scompare, e basterebbe a ricordarcelo l’oltraggiosa poesia di Tommaseo alla morte di Leopardi («Natura con un pugno lo sgobbò / “Canta” gli disse irata: ed ei cantò»)2,ma le sperimentazioni metriche sono state così varie da arrivare all’epigramma monosillabico di Franco Fortini ne L’ospite ingrato secondo (1985): «Carlo Bo. No». Carlo Bo è il titolo e quel «No» si sposa bene alla struttura e al genere in questione per la rima tronca che si adatta perfettamente alla comicità, come sostiene Giorgio Bertone nel Breve dizionario di metrica italiana. Ovviamente,la brevitas non va confusa con la rapidità,che invece accomuna messaggi WhatsApp e post di Twitter o di Facebook e a ricordarci quanto la concisione sia buona regola della letteratura e sia stata affinata da tempi immemorabili basterebbe l’incipit di Sciascia alla Nota di chiusura de Il giorno della civetta: «Scusate la lunghezza di questa lettera - scriveva un francese (o una francese) del gran Settecento - perché non ho avuto tempo di farla più corta»3. Hemingway definiva questa dura disciplina del dire e del non detto Il principio dell’iceberg4, quel lasciar sommersi i sette ottavi di ogni parte visibile perché l’importante è quel che non si vede. E questo vale anche per un aforisma o per un epigramma, generalmente comprensibili a tutti perché usano «un linguaggio diretto», ma pur sempre un linguaggio «ellittico»5 con omissioni deducibili solo dal contesto.

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Facile e furbo, ma non disonesto, rintracciare nell’icasticità del moderno twit una discendenza dal componimento di cui furono maestri Simonide, Callimaco, Marziale, e anche tanti poeti e scrittori a noi contemporanei. Ma riconoscere tali nobili origini alla moderna pratica della brevitas significa anche non bollare quest’ultima (e in generale la semiotica dei nuovi modi di scrivere e comunicare) come priva di sostanza, ma accoglierla, insieme alla tradizione letteraria che reca, facendone stimolo per la creatività degli studenti.


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Se consideriamo che oggi i ragazzi comunicano per la maggior parte con 140 o 160 caratteri, le forme letterarie brevi per il principio di economia che le accomuna possono farli riflettere con maggior interesse sulla scrittura, sulla disposizione delle parole, su precisione e saturazione e soprattutto sulla capacità di dosare ad arte l’ironia. In fondo, che si scriva come gli antichi su una tavoletta cerata, su un rotolo di papiro,su una pergamena o,oggi, su un iPhone, il problema rimane sempre lo stesso: usare un metodo sintetico ed economico senza compromettere la comprensibilità del messaggio e dando, anzi, a quel messaggio la massima efficacia. Gli epigrammi, che «sono versi di conversazione - come scriveva Foscolo nel maggio 1795 - e vengono letti da tutte le condizioni»6, possono insegnare nel confronto dialettico con gli altri a costruire nuove dimensioni di senso perché sono poesie che si fanno capire e che allo stesso tempo stimolano repliche, motivo per cui fra le massime, gli aforismi, gli enigmi e gli epigrammi abbiamo scelto di lavorare proprio su questi ultimi. Quali autori e quali testi scegliere in una produzione fin troppo vasta? La crestomazia si è appuntata su tre tappe fondamentali del genere, nelle quali gli epigrammi di tipo celebrativo, funerario o erotico, come quelli dell’Antologia Palatina, così come gli epigrammi altamente evocativi sull’esempio di Catullo o caustici su ispirazione di Marziale, conoscono un rinnovato vigore nell’ambito della letteratura italiana. Ovviamente, la scelta di abbandonare il filo cronologico e l’enciclopedismo delle antologie scolastiche non comporta una rinuncia alla storicizzazione, che viene al contrario recuperata con forza a partire proprio da testi e da autori irrinunciabili, colti a grappolo alla stessa altezza cronologica in modo da facilitare la contestualizzazione. Vediamo in dettaglio i tre periodi scelti. La prima tappa importante, che segna la reviviscenza del genere, avviene in epoca rinascimentale. Di Pietro Aretino, di Machiavelli e di Ariosto si è occupata la quarta, insieme al periodo che segna il trapasso fra Settecento e Ottocento con il corpus di epigrammi di Alfieri, di Foscolo, di Manzoni e di Leopardi e con delle aperture interculturali sugli Xenia di Goethe e di Friedrich Schiller che mutuano il loro titolo dal tredicesimo libro degli Epigrammi di Marziale.

La terza tappa, affrontata dalla quinta, si colloca nel dopoguerra, periodo in cui l’interesse per questo genere si ravviva come dimostrano le ultime raccolte di Umberto Saba confluite nel Canzoniere o gli epigrammi di Alfonso Gatto e di Ennio Flaiano pubblicati nel 1959 sull’Almanacco del Pesce d’oro 1960, oppure le traduzioni di Marziale da parte di Cesare Vivaldi nel 1962 per Guanda e di Guido Ceronetti nel 1964 per Einaudi, traduzioni che rivelano una grande libertà personale. Del resto, la seconda metà del Novecento è scandagliata da un ampio ventaglio di umori, che oscillano dall’indignazione politica del Pasolini di Umiliato e offeso (1958) o dell’Ospite ingrato (1966-1985) di Franco Fortini alle graffianti ironie sociali degli Epigrammi (1961) di Fenoglio. Ci sono poi, gli innumerevoli attacchi personali fra poeti e scrittori. Per citarne solo alcuni potremmo ricordare Caproni contro Montale («Epigramma. Montale, / ciottolo roso,/ dal greto che più non risuona, ha tolto una canna / bruciata dal sole / e intesse liscosa canzone»), Fortini contro Calvino («1959. Cinico bimbo va Calvino incolume»), Giorgio Bassani contro la Ginzburg («A Natalia Ginzburg.Non ti piaccio eh? Figurati la tristezza / gli sbadigli se ti / piacevo»),Flaiano contro Bertolucci («I male informati. Quest’anno è andata male al poeta Bertolucci,/ Gli hanno tolto il premio Nobel per darlo a Carducci») o contro Ungaretti («Il celebre Ungaretti. Il celebre Ungaretti all’Università / della Poesia spiegava al buio la beltà / Venne il bidello in aula, l’interruttore girò / e il volto del poeta d’immenso illuminò»). Un caso a parte sono gli «epigrammi critici»,per usare una felice espressione di Mengaldo,che Fortini scrive in apertura o in chiusura di una trentina di medaglioni sugli scrittori contemporanei e nei quali l’illuminazione prevale sull’argomentazione. Fortini afferra «in un lampo anche quello che forse gli autori non hanno mai saputo di se stessi: “Arbasino sa bene che i suoi tic e le sue vivaci moine assumono senso solo se campite su eventi terribili”»7. Ci sono inoltre, gli epigrammi senza acrimonia e altamente lirici sulla caducità del tutto di Daria Menicanti, che nel 1960, cioè all’indomani della morte del marito Giulio Preti, comincia a scrivere il Canzoniere per Giulio e quelli degli Xenia di Montale, dedicati alla moglie Drusilla Tanzi morta nell’ottobre del 1963: sono piccole «iscrizioni–ricordo di una vita in


comune» che si riallacciano «sia al versante satirico degli epigrammi di Catullo e di Marziale, sia a quello celebrativo e funerario dell’Antologia Palatina»8. Come chiarisce Montandon, la struttura dell’epigramma è fatta di tre parti: «il titolo, l’attesa e la soluzione. Tutto converge verso la frecciata finale. Lessing lo descrive come un meccanismo binario di suspence e sorpresa. Diverso in questo dall’aforisma, che è contestualmente isolato e contiene solo l’ultima delle tre parti»9. Leggere d’emblée in classe alcuni epigrammi senza preliminari spiegazioni introduttive, talvolta senza preannunciare nemmeno il nome dell’autore, è un’esperienza che può imitare ciò che avveniva nei simposi dei latini, dove la recitazione dei testi satirici o d’argomento erotico serviva a intavolare la conversazione. Facciamo un esempio. Sembra Marziale, ma non lo è:

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[XCII] A Mezio, suo compagno d’armi Giuri che tu facesti scudo al duce E me teste solleciti? In coscienza, Mezio, non posso dir. Nella giornata Non fui mai teco, sempre fui col duce. 10 Il duce è davvero Mussolini e non siamo nel I secolo dopo Cristo, ma nel Novecento: l’epigramma è di Fenoglio, autore di un corpus consistente di componimenti,che saggiano vizi pubblici e privati di uomini e donne di Alba. Emerge subito l’ironia affidata al fulmen in clausola, cioè alla stoccata finale, e la tematica storica, che è una costante anche della letteratura aforistica da Guicciardini in poi11. Negli epigrammi di Fenoglio ci sono le tasse, i fascisti, i treni, i camion e si fumano le sigarette, dunque c’è un’Alba indubbiamente contemporanea, popolata però anche da Galli bellicosi, da centurioni, da matrone, da pirati, come se «la scelta di rifarsi alla poesia latina implicasse anche di riesumare nella sua interezza quel mondo»12. Fenoglio alza il dettato del quotidiano per acuire la discrepanza fra il lessico aulico e le azioni squallide dei personaggi.Le piccole meschinità quotidiane sollecitano il sorriso, in virtù di quella misura solenne che le riveste e la conseguenza è una città di «Alba sub specie antiquitatis» 13, come annota Gabriele Pedullà.

Sollecitati a memorizzare uno o più epigrammi di Fenoglio, gli studenti riescono a farlo facilmente. E questa è stata una priorità metodologica: recuperare la capacità di memorizzazione dei testi letterari brevi. Perché? Perché la Letteratura, come sistema semiotico di secondo grado, quindi sovrapposto a quello della lingua comunicativa,obbliga a sfruttare ogni precedente lettura per cogliere e padroneggiare tutti i sensi plausibili di una sequenza di enunciati linguistici. Per farlo, è necessario

↑ Ennio Flaiano.


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↑ Jack Kerouac legge Sulla strada dal rotolo originale, nel 1958. Foto di Fred DeWitt, © Historical Society of Central Florida.

che nella memoria riaffiorino precedenti letture,altrimenti viene a mancare quella rete di rimandi, di metamorfosi continue, di sedimentazioni,che consentono la piena comprensione di un testo letterario. Se oggi le letture dei ragazzi sono sempre di meno, ripartire dagli epigrammi, così appetibili e capaci di allontanare la lettura scolastica dalla noia, può consentire più facilmente alla memoria di trattenere la luce fulminea che si sprigiona dal dirompere dell’effetto ironico. Del resto, sono gli stessi motivi che hanno consentito agli epigrammi di Marziale di resistere per secoli nel loro vigore memorabile, come ha sempre ricordato anche Concetto Marchesi. E chiudiamo con un’esemplificazione di verifica delle competenze proposta in quinta a conclusione del percorso letterario sull’epigramma.

La prima domanda saggiava solo le Conoscenze: Dai una definizione dell’epigramma e spiega il significato dell’espressione “fulmen in clausula”. Per la Comprensione, seguendo il criterio di autore noto e testo non noto, è stato proposto l’epigramma di Montale Ho sceso dandoti il braccio non letto precedentemente in classe: A chi si rivolge il Poeta? A quali difficoltà fisiche si fa riferimento? Perché le «pupille offuscate» della donna vedono di più di quelle del Poeta? Da che cosa deduci che questo componimento è un epigramma? Per la Riappropriazione è stato chiesto di sottolineare analogie e differenze tra il testo di Montale dedicato alla Mosca e un secondo epigramma a scelta: o l’Epigramma per un verme di Daria Menicanti («Un verme tranquillo e bavoso / d’un


A Francesca, aspirante poetessa Se ti vedo a bocca aperta Ascoltare il Vate Marco, Non ho il male di vivere Ma tanto mal di stomaco. All’ora successiva Francesca avrebbe chiesto di leggere il suo epigramma, scritto nell’intervallo,e memore,a ben vedere,degli aculei di Franco Fortini contro Carlo Bo: Al nauseato Niccolò. Comunque la metti, è sempre un no. Evidentemente, aveva ragione Achille Campanile quando sosteneva che «Gli asparagi sono come gli epigrammi: tutto il buono è nella punta»14.

NOTE 1. G. Leopardi, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1969, v. I, p. 559. 2. G. De Robertis, Il Tommaseo, il Leopardi e Il Giordani, «Rassegna storica del Risorgimento», XXV, fasc. IV, 1938, p. 509. 3. L. Sciascia, Il giorno della civetta,Adelphi, Milano 2004, p. 60. 4. E. Hemingway, Il principio dell’iceberg: intervista sull’arte di scrivere e narrare, Il Melangolo, Genova 1996. 5. G. Ruozzi (a cura di), Epigrammi italiani: da Machiavelli e Ariosto a Montale e Pasolini, Einaudi, Torino 2001, p. X. 6. Lettera di Ugo Foscolo a Gaetano Fiornasini, in G. Ruozzi (a cura di), Epigrammi italiani: da Machiavelli e Ariosto a Montale e Pasolini, Einaudi, Torino 2001, p. XI. 7. P.V. Mengaldo, I lampi di un critico Fortini, epigrammi sui tic dei moderni, «Corriere della Sera», 17 gennaio 1997. 8. G. Ruozzi (a cura di), Epigrammi italiani.... cit., p. 280. 9. A. Montandon, Le forme brevi, Armando Editore, Roma 2001, p. 27. 10. B. Fenoglio, Epigrammi, Einaudi, Torino 2005, p. 94. 11. G. Ruozzi, L’esperienza ferita, in Scrittori italiani di aforismi: il Novecento, Milano, Meridiani Mondadori, 1997, v. II, p. XVII. 12.G.Pedullà,Amor de lonh,in B.Fenoglio,Epigrammi... cit., p. VIII. 13. Ivi, p. IX. 14. A. Campanile, Opere, Bompiani, Milano 1994, v. II, p. 632. Tratto dal QdR / Didattica e letteratura di prossima pubblicazione Le competenze dell’italiano, a cura di Natascia Tonelli.

Cristina Nesi fiorentina, è autrice con Maria Corti di Dialogo in pubblico (Rizzoli, 1995; ampl. Bompiani, 2006) e di una monografia su Sebastiano Vassalli (Cadmo, 2005). Ha curato per i Meridiani Mondadori gli Scritti scelti di Ottiero Ottieri (2009) e per Rizzoli l’opera omnia di Romano Bilenchi (1997), oltre a Il Capofabbrica (Rizzoli, 2002) e ad Amici e altri racconti (Bompiani, 1991). Ha raccolto prose inedite e rare di Alfonso Gatto, fra le quali Il pallone rosso di Golia (Bompiani, 1997) e L’Arno dalla sorgente al mare (San Marco dei Giustiniani, 2006). Per il Piccolo Teatro di Milano ha curato la mostra e il catalogo Il giacobino Federico Zardi (CLUEB, 2002). Ha collaborato a volumi collettanei e a riviste («Autografo», «Strumenti Critici», «Levia Gravia», «Griselda», «Il Caffè»).

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roseo infantile fa il traghetto / del viale. / Mi domando perché poi / mi faccia quasi tenerezza...Ah, sì: / è perché ti assomiglia, mio diletto») o Carletto di Umberto Saba (Il buon Carletto, come schedo un libro, / ne muta il prezzo a suo arbitrio. Poi quello / trascrive sui risguardi, mette a un lato / la scheda, sceglie lo scaffale; vada / o no, venduto (egli spera venduto). / La sua giornata in Libreria gli corre / rapida, che il lavoro non manca, / per lui, per me, per i suoi figli. Io grato / gli sono, e più che non creda. Ripenso / (questo non glielo dico ancora; temo / si offenderebbe; ha in odio i paragoni) / il canarino in gabbia affaccendato). Sempre per la Riappropriazione veniva anche chiesto di scrivere un epigramma, scegliendo o un ricordo fuggevole (di un assente o di un momento felice) oppure un ritratto ironico. Per la Valutazione, tenendo presente che nel Progetto Compita è ipotizzata come un doppio movimento di avvicinamento e di distanziamento del lettore dai classici, abbiamo chiesto: Tu cosa intendi per «lungo viaggio» e avresti usato come Montale il verbo «scendere» o preferito il verbo salire per esprimere le tue difficoltà nel cammino? Il giorno in cui la prova di verifica corretta è stata riconsegnata, gli studenti sono stati sollecitati a leggere in pubblico gli epigrammi scritti. Non tutti se la sono sentita, ma riportiamo l’epigramma di Niccolò che ha accettato di condividere il suo ritratto di Francesca, tutta presa dal suo ragazzo venticinquenne (Marco) e sfuggente per mesi in classe ai plateali e buffi approcci di Niccolò:


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“La pagina che non c’era”: lettura creativa e scrittura mimetica per lavorare con lentezza “Leggono Shakespeare?” chiese il Selvaggio mentre, diretti ai laboratori biochimici, passavano davanti alla biblioteca scolastica. “ Certamente no” rispose la direttrice arrossendo. “La nostra biblioteca - spiegò il dottor Gaffney contiene soltanto libri di referenza. Se i giovani hanno bisogno di distrazione, possono procurarsela al cinema odoroso. Noi non li abbiamo incoraggiati ad indulgere ai divertimenti solitari quali che siano”. (A. Huxley, Il mondo nuovo)

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di Raffaella Bosso e Francesca Di Fenza

L

a frase “i giovani non leggono più” echeggia come un mantra nelle aule scolastiche, nelle sale docenti, nelle trasmissioni radiofoniche, durante i colloqui scuola-famiglia, nelle conversazioni tra adulti sempre più allarmati. Per quanto nella sostanza veritiera, questa affermazione risulta riduttiva – se non rischiosamente autoassolutoria – per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto finisce per suggerire l’idea di una società inspiegabilmente scissa tra adolescenti sempre meno inclini alla lettura e una schiera di adulti forti lettori; sappiamo bene che le cose non stanno così: le recenti rilevazioni sulle competenze in lettura, scrittura e calcolo degli italiani in età lavorativa (dai 16 ai 65 anni) tratteggiano un quadro di diffuso analfabetismo funzionale. I giovani leggono dunque più o meno quanto i loro adulti di riferimento, ma sono monitorati in modo più sistematico e capillare. L’aspetto più scivoloso di questa interpretazione dei fatti è però probabilmente un altro: sembra che al progressivo,generale disinteresse per i libri corrisponda l’affermarsi di una communis opinio che attribuisce all’atto stesso di leggere virtù quasi taumaturgiche, senza considerare che ci sono molte modalità diverse di lettura e di scrittura, non tutte allo stesso modo fruttuose. Non sembra sufficiente, dunque, proporre liste di titoli, (de)portare gli alunni in biblioteca o in libreria, imporre di scrivere sintesi di libri, verificare l’avvenuta lettura attraverso questionari irti di trabocchetti oppure – pratica in cui chi insegna si imbatte purtroppo sempre più di frequente – promettere ai propri figli qualche banconota per ciascun volume letto. Volendo analizzare il fenomeno in modo più corretto e sistematico,si potrebbe piutto-


← Philip Roth alla residenza per artisti Yaddo nel 1968, © Bob Peterson/Time Life Pictures/ Getty Images.

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sto affermare che i giovani partecipano di una comune tendenza alla riduzione delle capacità di concentrazione, di ascolto, osservazione, riflessione; sembra che sia questo il prezzo da pagare per il vertiginoso aumento di dati ed esperienze a nostra disposizione e per l’estrema facilità di reperimento delle informazioni che hanno caratterizzato l’ultimo decennio. Si tratta probabilmente di un dato fisiologico, di una tendenza evolutiva della società con cui non possiamo non fare i conti; di fatto però la rapidità, la pluralità e simultaneità di stimoli,la tendenza a lavorare a ritmi accelerati, senza soffermarsi nell’osservazione dei dettagli, mal si accordano, se non con la lettura in generale, con quella che consideriamo “lettura utile”. La scuola ha forse il compito di adeguarsi alle tendenze del suo tempo; ma può anche assumersi la responsabilità, quando sembri opportuno,di “fare da controcanto alla

società”, per usare una bella formula del maestro Franco Lorenzoni, recuperando spazi alla lentezza, alla accuratezza, alla dimensione artigianale della fruizione e della produzione di testi, per quanto questa possa sembrare una battaglia di retroguardia. Diverse sono le attività promosse con questo fine nella scuola italiana negli ultimi anni, spesso sorte in modo spontaneo e senza una rete di coordinamento e comunicazione reciproca; noi ci abbiamo provato nel 2010 con “La pagina che non c’era”, un progetto che mira ad integrare la lettura con la produzione testuale,mettendo in pratica la modalità di trasmissione del sapere più naturale che esista, quella che si basa sull’imitazione. Il progetto nasce nell’Istituto “Pitagora”, una scuola secondaria di secondo grado in cui sono presenti vari indirizzi di studio, dal Liceo Classico all’Istituto Professionale;


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le attività ruotano intorno a un concorso di scrittura per ragazzi, che giunge quest’anno alla sua sesta edizione, rivolto a tutte le scuole secondarie di secondo grado presenti sul territorio nazionale. Ogni anno il Comitato Scientifico, composto da docenti,seleziona tre o quattro libri di recente pubblicazione: è un momento molto utile alla nostra crescita professionale, il punto di arrivo di una ricerca che in genere dura tutta l’estate e che ci porta a sperimentare, esplorare, scambiarci consigli, compulsare recensioni, leggere nuovi testi con gli occhi dei potenziali giovani lettori. Un’occasione di autoaggiornamento per molti versi ben più utile di tanti pretestuosi corsi di formazione. Scelti i libri,viene pubblicato il bando; i ragazzi devono leggere almeno uno dei testi e prepararsi all’incontro con gli autori, propedeutico alla fase produttiva del concorso, in cui dovranno inserire una “pagina che non c’era” in un punto qualsiasi del libro, imitandone lo stile e rispettandone la coerenza narrativa. La necessità di produrre un testo secondo regole Che si tratti di un testo precise spinge a narrativo, di un graphic una lettura attennovel, dell’illustrazione di ta e meditata e fa degli incontri con un libro di divulgazione scientifica, della creazione gli scrittori qualcosa di più di un di un falso documento “evento culturastorico, la questione non le”: si tratta di una è forse tanto leggere o tappa funzionale allo svolgimento non leggere, ma imparare di un lavoro, quaa osservare, riflettere, si un confronto lavorare con lentezza. tra maestro e apprendista in una bottega artigiana. Le domande vertono necessariamente su dati tecnici, scelte stilistiche, possibili alternative,caratteristiche minute di singoli personaggi; le risposte degli autori offrono possibilità di rilettura, spunti di riflessione su cui i ragazzi torneranno nei mesi successivi. Ma questi incontri costituiscono anche il pretesto per organizzare un festival, “Scrittori tra i banchi”, in cui si alternano laboratori di scrittura, produzione di testi poetici e in prosa, lettura, ascolto musicale, riflessione storiografica, il cui elemento comune è la centralità data alla fase produttiva caratterizzata dal metodo mimetico. Docenti della scuola e dell’università, studiosi, sceneggiatori, poeti,

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giornalisti si confrontano con i ragazzi e mettono in comune pratiche didattiche ed esperimenti di produzione; da questi incontri è nato il testo Dalle pagine al quaderno. Cinque anni di pagina che non c’era (Salerno, Arcoiris 2016), che si propone di offrire ai docenti spunti utili per costruire percorsi e momenti di didattica laboratoriale da sperimentare anche in orario curriculare. Verso la fine della primavera arrivano, a decine, le pagine scritte dai ragazzi. Il Comitato Scientifico si riunisce, con il difficile compito di selezionare le cinque pagine migliori per ciascun testo: anche questo è un momento di grande valore formativo per i docenti, in cui ci si confronta sui criteri di valutazione e sulle modalità di correzione, mettendo in pratica forme di lavoro comune che nella scuola sembrano sempre più limitate alla sterile correzione di test a risposta multipla imposti dall’alto. Le cinquine finaliste vengono poi inviate agli autori dei rispettivi libri: saranno loro a scegliere la pagina vincitrice, quella che ha colto lo spirito del loro lavoro producendo la più convincente e originale “variazione sul tema”. L’invito a essere originali pur all’interno di un processo mimetico è infatti la grande sfida che lanciamo ai nostri alunni: vincolati a una contrainte stringente, devono impadronirsi dell’armamentario retorico e stilistico dei loro modelli, ma poi andare oltre, compiere quello sforzo di immedesimazione e, insieme, di straniamento da sé che è alla base del processo letterario e trovare un spunto,un angolo in cui inserire il proprio contributo. Gli autori lo riconoscono spesso nelle loro motivazioni: la “pagina che non c’era” può aggiungere al testo elementi che loro non hanno voluto o potuto trattare, sviluppare suggestioni lasciate in sospeso, suggerire una chiave di lettura inaspettata. Non si tratta, naturalmente, di trasformare centinaia di ragazzi in aspiranti scrittori: la nostra ambizione è piuttosto quella di incoraggiarli in un lavoro di osservazione attenta, meditata riflessione, produzione non estemporanea ma sedimentata e ponderata, diluita nel tempo, che richieda pazienza e labor limae. Che si tratti di un testo narrativo, di un graphic novel, dell’illustrazione di un libro di divulgazione scientifica, della creazione di un falso documento storico (queste fino a ora le strade battute dal nostro progetto,


scuola

La pagina che non c’era Francesca Russo, Pasquale Scherillo, Gennaro Schiano, Enza Silvestrini, Paolo Trama, Marco Viscardi. • Il progetto è patrocinato dai Comuni di Napoli e di Pozzuoli e ha ottenuto due riconoscimenti nazionali: Premio Mibac 2012 come miglior progetto per la promozione della lettura e Premio Gutenberg 2013. Per la quinta edizione ha beneficiato del contributo del Forum delle Culture 2013 (bando Forum scuole). • Nel gennaio 2015 “La pagina che non c’era” si è costituita in Associazione per riuscire a coinvolgere un numero maggiore di scuole e per aprirsi alla società civile; l’organizzazione opera in rete con le associazioni “A voce alta” e “DiSciMus”. • Coordinamento e progettazione: Diana Romagnoli, Maria Laura Vanorio. • Comitato tecnico-scientifico e giuria scuole superiori: Brunella Basso, Raffaella Bosso, Delfina Curati, Giuseppe Girimonti Greco, Elisabetta Himmel. • Comitato tecnico-scientifico e giuria scuole medie: Fiorella Angelillo, Giovanna Callegari, Francesca di Fenza, Nunzia Meluccio, Concettina Rimedio. • Responsabili sezione scientifica: Andrea Baldassarri, Isabella Buono, Paola Cannada Bartoli. • Gestione del sito web e comunicazione: Giovanna Arnone, Giovanni Pipola. • Istituti promotori: I.S.S. “Pitagora” (Pozzuoli), I.C. “G. Falcone” (Napoli) , I.C. “F. Russo” (Napoli), I.C. “Oriani-Diaz” (Pozzuoli). • Hanno sostenuto e sostengono a vario titolo la nostra attività: la società di navigazione TTTLines, l’Hotel Vesuvio, la società City Sightseeing Napoli, le case editrici Feltrinelli, Chiarelettere, Mondadori, Clichy, BeccoGiallo, Adelphi. • Sul sito lapaginachenoncera.it le pagine finaliste e vincitrici, le motivazioni degli autori, la rassegna stampa e molto altro. • Per info: lapaginachenoncera@outlook.it.

69 Scuola / Il genere, la scuola e l’adolescenza

• Dal 2010 abbiamo organizzato sei edizioni del concorso, che ha visto la partecipazione di più di 60 scuole sul territorio nazionale; la giuria ha ricevuto più di 500 elaborati. • Gli autori che hanno partecipato a “La pagina che non c’era” sono: Andrea Bajani, Stefano Benni, Francesco D’Adamo, Maurizio de Giovanni, Ornella Della Libera, Fabio Geda, Giuseppe Genna, Viola Di Grado, Gaetano Di Vaio, Nicola Lagioia, Sergio Lombardi, Andrej Longo, Valerio Magrelli, Marco Malvaldi, Margherita Oggero, Valeria Parrella, Paolo Piccirillo, Luca Rastello, Antonio Scurati, Paola Soriga, Andrea Tarabbia, Maurizio Torchio, Raffaele Tripodi, Paolo Zanotti. • Le case editrici dei testi scelti per il concorso sono: Adelphi, Ad est dell’Equatore, Baldini Castoldi Dalai, Beccogiallo, Bompiani, Einaudi, e/o, Mondadori, Nutrimenti, Ponte alle Grazie, Rizzoli, Sellerio, Zanichelli. • Per la sezione scientifica “L’immagine che non c’era” abbiamo invitato: Amedeo Balbi, Andrea Baldassarri, Nicola Nosengo. • La sezione graphic novel “La tavola che non c’era” ha visto la partecipazione di Francesco Barilli e Manuel De Carli; Ciaj Rocchi e Matteo Demonte. • Hanno tenuto seminari e lezioni durante il festival “Scrittori tra i banchi”: Stefano Bises, Alessandra Coppola, Francesco de Cristofaro, Cristiano De Majo, Pier Paolo De Martino, Gabriele Frasca, Alessandro Gallo, Benedetta Gargano, Eugenio Lucrezi, Gianni Maffei, Luciana Mignola, Matteo Palumbo, Miriam Rebhun, Riccardo Rosa,


Scuola / I“La pagina che non c’era”

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↑ Albert Camus, fotografia di Henry CartierBresson, 1944, © Magnum Photos.

ma molte altre sono possibili) la questione non è forse tanto leggere o non leggere, ma imparare a osservare, riflettere, lavorare con lentezza.

La sezione scuole medie: sfide, metodi e risultati —

La scuola è uno spazio fisico e mentale dove esplorare apprendimenti diversificati. La normativa e la società di oggi sollecitano una preparazione significativa degli alunni attraverso la suggestione dell’insegnare per competenze. Le competenze elencate nelle Indicazioni nazionali per il curricolo sono quelle del cittadino europeo, in primis la comunicazione nella madrelingua, che travalica l’ambito disciplinare ed è uno strumento essenziale e necessario per la comprensione e la narrazione della realtà. Per raggiungere questo obiettivo la scuola si orienta verso esperienze significative come i compiti di realtà, per passare da un sapere tecnico e sequenziale a uno pratico e reticolare. Il progetto del concorso “La pagina che non c’era - sezione medie” nasce con l’obiettivo di mettere insieme queste sol-

lecitazioni: libri calibrati per i ragazzi, i cui protagonisti sono adolescenti, consentendo un processo di identificazione che è necessario nei lettori di questa età; la classe “spazio laboratorio” con la lettura collettiva in cui c’è cura per l’ascolto e attenzione al tono e alle pause. L’esplorazione del libro che continua a casa, perché in classe non si è conclusa la lettura del capitolo e il desiderio di leggere rimane. Il libro nella sua forma cartacea, portato con sé a scuola e mostrato con fierezza ai compagni:” Guarda io ce l’ho! Il mio ha la copertina cartonata!”, annusato come piace ai lettori analogici, ma anche letto online e visualizzato sulla LIM in digitale,catturando anche l’alunno meno interessato; o ancora il testo fruito mediante l’audiolibro, che consente ai non vedenti e ai dislessici di godere del brano senza l’ostacolo della decodifica lenta e difficile delle parole. Il percorso continua,si superano i limiti dell’aula e s’incontra l’autore con ragazze e ragazzi che hanno letto lo stesso libro e fanno domande, domande su domande, ormai l’autore è uno di loro. La sezione del concorso dedicata alle scuole medie presenta delle difficoltà pro-


fondamentale la volontà dei docenti di partecipare. Questo concorso non va considerato “altro” dalla didattica tradizionale, ma un’opportunità per agire un compito di realtà con gli ingredienti necessari.È un’occasione didattica costruita da persone che vivono la scuola in prima linea, sono in classe e toccano con mano quotidianamente le difficoltà di avvicinare i ragazzi alla lettura e alla scrittura, un mondo fatto di tempo e di gusto per la lentezza, distante dalla velocità della realtà liquida di oggi. Il cuore del concorso è la produzione di una nuova pagina del libro, seguendo i criteri di stile, di contenuto e di originalità. La scrittura per i ragazzi riveste un ruolo fondamentale di formazione; l’esercizio di stile richiesto, l’inventio, necessita di una manipolazione del testo al fine di una riappropriazione, nel contenuto e nella forma, stimola processi cognitivi di analisi,di comparazione e di rielaborazione e pone l’accento sul dato importante di consapevolezza della realtà. Il momento della premiazione è una festa per i ragazzi e per gli organizzatori è il punto di arrivo di un lungo lavoro fatto anche dalla lettura dei numerosi elaborati prodotti: è entusiasmante leggere tanti testi, immaginare ciascuno che riempie la pagina vuota, toccare con mano la creatività di ogni ragazzo, la sua energia mentale; è un lavoro faticoso ma ricco di emozioni.

Raffaella Bosso è docente di italiano e latino nei Licei, fa parte del comitato tecnico-scientifico de “La pagina che non c’era”. Ha conseguito un dottorato di ricerca in archeologia e si occupa soprattutto della ricezione dell’antico in età moderna, collaborando con soprintendenze e università. Ha curato diversi progetti sull’archeologia per la scuola.

Francesca Di Fenza è laureata in pedagogia, da vent’anni docente di italiano nella secondaria di I grado, insegna attualmente nell’I.C. “Giovanni Falcone” di Napoli. Ha lavorato nel settore informatico e ha approfondito gli studi delle Scienze Umane e delle ITC; collabora con il FADI, centro OPPI-MI, nell’attività di ricerca in campo educativo e di formazione. Fa parte del comitato tecnico-scientifico della sezione medie de “La pagina che non c’era”.

71 Scuola / “La pagina che non c’era”

prio per l’età dei ragazzi, preadolescenti curiosi di conoscere il mondo. È richiesta una cura particolare dei contenuti, del linguaggio e dei messaggi, che devono essere adeguati ai loro bisogni cognitivi ed emotivi. Quest’anno Fabio Geda ha raccontato di come ha scelto la storia di Enajat, il protagonista del libro, del fatto che si è innamorato di come lui gli ha raccontato la sua vicenda umana, di come riuscisse a raccontare un’esperienza drammatica sempre con leggerezza e speranza. Ha parlato del “rubare non solo lo sguardo, ma anche la lingua” delle atmosfere linguistiche orientali, del disegnare la pagina con scelte particolari,della costruzione del testo con la mancanza di punteggiatura, dell’importanza della lettura, che è una modalità non migliore, ma diversa di sedimentare una storia: il libro viene scritto due volte, una prima dall’autore e una seconda da chi lo legge. Alla fine ha dato dei consigli per aggiungere “la pagina che non c’era”: suggestiva è stata l’espressione “carotaggio”: per Geda raccontare storie vuol dire eseguire un carotaggio nella realtà: «prendere una storia ed entrarci in profondità affinché questa diventi simbolo di altre e scrivere la pagina mancante vuol dire entrare nel testo e aggiungere qualcosa, vedere un pezzettino di terreno che lui non ha visto e scriverlo». Altri scrittori sono rimasti nel cuore dei ragazzi, come Francesco D’Adamo, l’autore di Mille pezzi al giorno, che, come ha scritto Delfina Curati nella recensione per il nostro sito lapaginachenoncera.it, «è riuscito a parlare di tecniche narrative, mimesi stilistica, Bildungsroman e autodiegesi, senza mai pronunciare nessuna di queste parolacce da manuale». Il concorso è cresciuto e ha preso forza in questo: cercando di proporre belle storie da leggere; la produzione di narrativa per ragazzi, soprattutto di tipo scolastico, è purtroppo molto deludente: storie sminuite e banalizzate con messaggi retorici che non danno spazio alla riflessione e alla crescita intima e culturale del lettore. Leggere una storia ben costruita rimane nel profondo, è una esperienza significativa e questo andrebbe aggiunto ai dieci diritti del lettore di cui parla Daniel Pennac, l’undicesimo, un diritto speciale degli alunni: leggere a scuola un libro che rimanga nel cuore. Una buona storia è l’elemento necessario per la riuscita del percorso, ma è


racconti di scuola

Se una fontana si ammala di Giusi Marchetta

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Scuola / Se una fontana si ammala

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H

ai presente le gambe che tremano? Il cuore che non sta fermo, la voce che non sembra la tua e le mani che si nascondono dietro la schiena perché è lì che si annida ogni balbettare e loro non possono che stringersi l’un l’altra per farsi coraggio? È la poesia quando hai sette anni. Il tema è natalizio, ovviamente (Comm’è bell’ Natale a sera ‘ra viggilia, / è tutt’ n’allegria p’a nascita e’ Gesù), e tu sei in piedi su una sedia, cosa che ti rende ancora più nervosa. Credi che sia colpa dei parenti, per quanto il clima allegro e il fatto che la cosa si ripeta ogni anno ti portino a pensare che applaudiranno lo stesso alla fine, che tu ti blocchi o no. Poesia, applauso, mazzetta del nonno: è così che va o non sarebbe Natale. Eppure sei nervosa lo stesso e la poesia è solo un elenco di parole troppo lunghe e voragini improvvise in cui senti di inciampare ogni volta che finisce il verso, senza ricordare come inizia quello dopo. Così, quando in classe devi alzarti in piedi a sciorinare Il cinque maggio, non ti chiedi davvero che significa, cosa dice: ti attacchi alle rime come se fossero i binari e tu il treno, ci corri sopra come un razzo, altri due minuti e sarà finita. No, non sai niente della poesia se non che devi ripeterla dieci volte con il quaderno chiuso se vuoi andare a giocare con la coscienza a posto. Questo finché la maestra non ve ne insegna una senza rime. La imparate per il primo maggio e fa così: Nessuno ci ha offerto un lavoro. Con le mani in tasca e il viso basso stiamo in piedi all’aperto. E tremiamo nelle stanze senza fuoco. L’attesa è lunga. Chissà.

Non ti andrà più via dalla testa. E per anni, quando vedrai i disoccupati scioperare per strada o davanti alle fabbriche che hanno appena chiuso, ti verrà in mente una stanzetta buia e un uomo triste con le mani in tasca che fissa la porta chiusa.

Vent’anni dopo nella mia classe leggiamo La fontana malata. Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchette, chchch... È giù, nel cortile, la povera fontana malata; che spasimo! Sentirla tossire. È così triste. Il mio occhio allenato, la mia deformazione professionale scannerizzano i versi e visualizzano parallelismi, onomatopee, allitterazioni, anafore. I miei alunni no. Si concentrano invece su ogni suono trasformato in parola, descrivono la goccia che cade dalla fontana nel pozzetto d’acqua sottostante (clof), a terra (clop), su qualcosa di ferro, forse una grata (cloch). Adesso vedono la fontana nel cortile, la immaginano piegarsi in avanti, tossire come un essere umano, ed è così brutto che una fontana si ammali che non ha senso in questo momento puntare il dito contro le parole, distinguere una figura retorica dall’altra. Le notano questo sì, quasi tutte: individuano subito l’angoscia dei suoni che si ripetono, delle parole che ritornano; la stanchezza del tornare subito a capo, i versi che suonano allo stesso modo. Solo, non li chiamiamo allitterazione, anafora, enjambement, omoteleuto. Sono in prima media ed è la prima poesia che leggiamo insieme: è ancora presto. Non ci interessano la metrica, la biografia dell’autore. Ci interessa questa sensazione di tristezza e quest’idea luminosa, inquietante, che anche agli oggetti tocchi la stessa sorte degli esseri umani. Ci interessa la fontana che è una cosa materiale, banale, una visione ricorrente nelle strade o ai giardini, e ancora di più, che sia


→ Lo scrittore tedesco Michael Andreas Helmuth Ende a dieci anni, 1939, www. michaelende.de.

73 Scuola / Se una fontana si ammala

malata, perché questo la rende diversa, speciale: tra tutte le fontane, l’unica che sia come noi. A che serve la poesia? Chiede sempre qualcuno di loro. Non la capisco, fa eco un altro. Non si capisce. Forse per questo la prima cosa che dovremmo insegnare della poesia è il modo in cui anima il mondo attraverso le parole. Ma questo insegnamento dovrebbe essere graduale, accompagnato da una lettura libera del testo che si soffermi su quanto ha suscitato nei ragazzi. Spesso niente va detto: il senso di distacco da quanto viene letto in classe a volte è così accentuato, che pare che nulla li possa incuriosire o suggestionare. Per questo se vogliamo abituarli al salto tra reale e poetico dobbiamo giocare d’anticipo: assecondare alle elementari la tendenza dei bambini a interpretare la realtà in modo fantasioso, e non abbandonare tutto alle medie, come se di colpo la poesia diventasse qualcosa da tradurre necessariamente in prosa, o peggio, in un elenco di figure retoriche da indovinare. Prendiamo la fontana malata, invece, e parliamone. Leggiamola tossire, sentiamo che muore. Leggiamo Gozzano, Rodari, Moretti, Lamarque; passiamo dai canti curdi a quelli degli Indiani d’America. Scegliamo poesie che siano belle e comprensibili, che possano parlare davvero alla loro età e leggiamole senza preoccuparci degli aspetti più tecnici del testo. Insomma, almeno all’inizio, proviamo a mostrare veramente cos’è una poesia. Proponiamo esperimenti col linguaggio poetico: cerchiamo di capire perché fontana rotta è meno poetico di fontana malata. Scegliamo la parola o il verso che ci trasmettono una certa emozione. Leggiamo solo quella parola o quel verso, in successione. Smontiamo la poesia e facciamola risuonare in classe come una cosa sospesa, che non serve, è solo bella. Quello che staremo cercando, sotto l’apparenza di lettere e suoni, è quel senso di assoluto che ha rincorso il poeta, tentando di scoprire come riesce a ottenerlo. Potremmo accontentarci per il momento di dire questo ai nostri alunni: che lo fa suggerendo. Una fontana

gocciola e il poeta è poeta perché la sente tossire e suggerisce al lettore che sia malata. Poi potremmo divertirci un po’, trovare la poesia nell’accostamento di due parole, un oggetto e un modo d’essere tipicamente umano. Ecco che potrebbero venire alla luce un pallone nervoso; un fiore timido; un pupazzo di neve che suda, un fazzoletto che piange. Non si tratta di scrivere poesie ma di giocare col poetico. Mostrare di quest’arte l’aspetto difficile senza dimenticare quello bellissimo, dimostrando che non esiste solo quello che appare e che le parole giuste avvicinate nel modo giusto possono aiutarci a illuminare il lato nascosto del mondo.

Giusi Marchetta nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino, dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce.


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