RI13 - L’occhio attraverso il Muro. R. Lackenbach/The LIFE Picture Collection/Getty Images Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 12 anno 2017
La ricerca
Maggio 2017 Anno 5 Nuova Serie – 6 Euro www.laricerca.loescher.it
SAPERI
Le radici e i confini di un’idea
DOSSIER
L’Europa sui libri di testo
SCUOLA
N°12
Insegnare l’Europa
Cittadini e studenti in movimento
I QUADERNI I Quaderni della Ricerca sono agili monografie pensate come contributo autorevole al dibattito culturale e pedagogico italiano.
Prossime pubblicazioni
36 Logos e techne. Tecnologia e filosofia
a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari
37 Diventare cittadini europei
Idee, strumenti, risorse per un’educazione consapevole all’Europa a cura di Paolo Corbucci e Michela Freddano
I Quaderni della Ricerca sono online www.laricerca.loescher.it/quaderni.html
Per le copie cartacee rivolgersi in libreria o presso l’agente di zona www.loescher.it/agenzie
editoriale
Cosa (non) so dell’Europa
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iceva Hegel che “Ciò che è noto non è conosciuto”, intendendo che quando, nel processo della conoscenza, presupponiamo qualcosa come noto, inganniamo noi stessi e gli altri. È un monito epistemico, questo del filosofo tedesco, posto a fondamento di una rigorosa teoria della conoscenza. Ridotto ad aforisma, si è trasformato in un generico invito alla rinuncia alle facili scorciatoie verso verità di comodo. Spero di non scandalizzare nessuno ammettendo che, per me, il concetto di Europa (e di Europa unita, in specie) appartiene al dominio del noto, galleggiando per ciò stesso in una nebulosa indistinta di pigre verità assunte per osmosi e tautologiche petizioni di principio. Che l’Europa non sia un’entità geografica definita e rintracciabile su una carta geografica credo di averlo appreso relativamente di recente.Dalla scuola materna all’università so di aver ripetuto, più o meno a memoria, il giro d’orizzonte degli inesistenti confini, fatti per tre quarti di acqua salata, e per il rimanente di montagne, nemmeno tanto alte. Che ci fossero un’enorme nazione e una splendida città divise tra due continenti mi sembrava una curiosità capricciosa, frutto non tanto della volontà di qualche geografo quanto delle necessarie circonvoluzioni della Storia. Mi sbagliavo, evidentemente, ma lo facevo con ottime ragioni. Storiche appunto. Cosa poteva esserci di più vincolante e identitario di secoli di guerre e orrori? Come fosse un aspro cammino verso la conoscenza reciproca e la fratellanza, mi pareva che le vicende che si sono susseguite dalle guerre persiane ai giorni nostri non fossero altro che il particolare modo che le genti avevano trovato Nuove ragioni per amare per definire meglio se stesse in rapporto agli altri, e al territorio l’Europa: i miei figli, ai quali occupato. Il comune substrato culturale mi sembrava la testimonianza più salda di tale rapporto e di tale identità antropologica. auguro orizzonti più ampi di Avrei capito solo più tardi che non di un unico substrato si trattaquelli toccati in sorte a me. va,e che le matrici di quella che chiamiamo oggi identità europea e occidentale andrebbero ricercate in ambiti geografici e spirituali che occidentali non sono, e tanto meno “europei”. Europeista convinto, quale da sempre mi considero, ho vissuto questo processo dal “noto” al “conosciuto” come una messa alla prova personale e culturale. Ci ho impiegato del tempo, ovviamente, e la cosa mi è costata fatica e intimo dolore. Ma è stato anche un processo di indubitabile crescita morale e, a suo modo, “sentimentale”. Come quando si scoprono nuove ragioni per amare una persona che si credeva di conoscere bene e che ci ha riservato inattese sorprese. La si ama perché è quella persona, senza bisogno d’altro. Con l’Europa è lo stesso, almeno per me: amore assoluto e incondizionato. La ragione “nuova”? I miei figli, ai quali auguro orizzonti più ampi di quelli toccati in sorte a me, e volontà di confronto, libertà di movimento, passione conoscitiva, fervore dialettico, competenza linguistica, coraggio progettuale e convivenza pacifica. A loro cerco di instillare il dubbio sulle facili certezze di chi circoscrive i propri confini all’orto di casa o, peggio, rintraccia tra paralleli e meridiani i segni di ineluttabili destini e fatali missioni. A loro vorrei poter dare la scala che permetta di guardare ben al di là dei muri, ahimè non solo metaforici, che i miei coetanei oggi si affannano a erigere a difesa delle proprie paure. E devo dire che non mi sento solo in questa “missione”: sento la vicinanza dei molti che condividono questo mio punto di vista. Sento, soprattutto, la presenza di una scuola (e di tanti insegnanti!) che hanno voglia di trasmettere non un generico senso di appartenenza a un’indistinta comunità continentale, ma il valore del progetto culturale e umano più affascinante e grandioso che si possa immaginare: quello che vorrebbe far emergere, dalla consapevole diversità, il desiderio di un futuro condiviso e armonico.
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Sandro Invidia, direttore editoriale di Loescher.
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La ricerca Periodico semestrale Anno 5, Numero 12 Nuova Serie, Maggio 2017 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Loescher Editore Direttore responsabile Mauro Reali Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP Grafica e impaginazione Leftloft - Milano/New York Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)
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Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero David Abulafia, Adrian Armstrong, Elisa Biagini, Arnaud Brennetot, Franco Cardini, Remo Ceserani, Paolo Corbucci, Pier Virgilio Dastoli, Alessandro Fusacchia, Simone Giusti, Piero S. Graglia, Sandro Invidia, Giusi Marchetta, Carmelina Maurizio, Francesca Nicola, Joke Van der Leeuw Roord © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)
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Sommario Le radici e i confini di un’idea
saperi
scuola
Alle prese con l’ircocervo
56
Io sono un cittadino europeo
10
L’Europa: le radici e la storia
60
Progettare Erasmus
20
Allargare i confini
67
Uniti nella diversità
28
Diventare cittadini europei
70
Noi, Europa
32
Per una cittadinanza federale
36
Cinque poesie di Elisa Biagini
6
Piero S. Graglia
Franco Cardini
Remo Ceserani Paolo Corbucci
Alessandro Fusacchia Carmelina Maurizio Simone Giusti
Giusi Marchetta
Pier Virgilio Dastoli
L’Europa nei libri di testo
dossier 38
Come non insegnare l’Europa
41
L’Europa nei manuali: un’identità evanescente
Francesca Nicola
Arnaud Brennetot
46
Un testo di storia per gli studenti di tutta Europa? Joke van der Leeuw Roord
49
Un’Europa da reimmaginare
54
Il racconto dell’Europa fra ragione e sentimento
David Abulafia
Adrian Armstrong
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saperi
Alle prese con l’ircocervo Saperi / Alle prese con l’ircocervo
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Che bestia è l’Unione europea, oggi? Quanto è fantastica e chimerica e quanto, invece, realistica e necessaria? Come insegnarla a scuola? L’abbiamo chiesto a Piero Graglia, storico e specialista della storia delle relazioni internazionali. di Piero S. Graglia
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he cos’é l’Europa? Che cosa rappresenta lo sforzo di creazione di una comunità europea, economica e politica, che ha caratterizzato tutta la seconda metà del Novecento ed è tuttora in corso? E, soprattutto, una coscienza unitaria europea preesisteva rispetto alle ragioni economiche che hanno spinto verso l’integrazione dopo il secondo conflitto mondiale, oppure è stata in qualche misura creata e diffusa proprio grazie al processo di integrazione europea? Sono alcune delle domande che ci si deve porre quando ci si avvicina al problema di «insegnare l’Europa», cioè trasformare in narrazione condivisa con gli studenti un tema così sfuggente e così «originale» quale il processo di integrazione europea. Di volumi che affrontano la storia dell’integrazione europea ve ne sono ormai in circolazione moltissimi, verrebbe da dire quasi per tutti i gusti (storiografici).Alcuni sono traduzioni di studi diventati dei punti di riferimento per gli storici del settore (penso in particolare al volume di Mark Gilbert,Storia politica dell’Unione europea, edito da Laterza), altri sono ottime analisi, anche settoriali, comparse durante gli anni Novanta, dopo che la nascita dell’Unione europea (Ue) ha dato un innegabile rinnovato slancio alla «storia» della sua costruzione. Alcuni si collocano apertamente sul fronte della critica del processo di integrazione economica a volte con
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7 SAPERI / Alle prese con l’ircocervo
La Torre Eiffel durante la sua costruzione per la Esposizione Universale del 1889..
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Saperi / Alle prese con l’ircocervo
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motivazioni opponibili: il fronte che può essere definito in senso lato «progressista» sostiene che il processo è da criticare poiché è troppo poco democratico e lascia poco spazio alle forme della rappresentatività popolare e alla tutela dei diritti fondamentali nonché ai diritti relativi al lavoro e alle politiche sociali, ma ugualmente si sostiene che esso è da criticare anche per chi,dal fronte «conservatore»,lo considera lesivo di diritti acquisiti e intoccabili riposti all’interno dei poteri sovrani degli Stati nazionali. La cosa curiosa è che la stessa distinzione «progressisti» e «conservatori», così pregnante sul piano politico interno, viene svuotata di significato quando si passa a considerare lo scenario sovranazionale europeo: la critica della scarsa rappresentatività democratica può essere sostenuta sia dai progressisti sia dai populisti, e la perdita lenta e costante di sovranità che tale processo ha materialmente implicato da cinquant’anni a questa parte trova i suoi oppositori e i suoi critici in tutto l’arco politico, destra e sinistra insieme. La costruzione europea, in altre parole, è un animale politico e istituzionale che sfugge alle consuete distinzioni, e si pone su un piano del tutto nuovo, rendendo tuttora valido e significativo il cambio di prospettiva che si è avuto durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza,in tutta Europa: l’unità del continente, variamente declinata e immaginata, come unica risposta alla perdita di centralità della civilisation europea. Questi problemi devono essere ben presenti al docente che vuole affrontare il tema della narrazione storica. Prima di tutto, gli attori. Chi considerare? Per molti anni i governi hanno tenuto banco nell’organizzazione e nella promozione delle prime Comunità: dalla Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA, 1950-2012) a quelle fondate nel 1957 che poi si sono fuse nel pro-
getto dell’Unione europea, il ruolo dei governi è stato centrale, ma non esclusivo, almeno in una prima fase. Considerare solo le iniziative intergovernative metterebbe in ombra tutto il lavorìo, politicamente e ideologicamente significativo, svolto dai movimenti europeisti e – soprattutto – federalisti, nel periodo che va dal 1947 al 1955. Una sinergia difficile, quella tra movimenti e governi, ma non senza un profondo significato programmatico: nella prima dichiarazione che portò alla nascita della CECA, letta dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950, il tema della prospettiva della pacificazione e dell’unità politica dell’Europa occidentale è presente come promessa dei futuri «Stati Uniti d’Europa»; poi esso diventa meno pregnante dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (CED, 1950-1954) e infine resta come un riferimento ideale debole per tutto il resto della storia dell’integrazione. Merito dei movimenti? Senz’altro, ma non solo. Merito anche di un processo di «europeizzazione» delle società nazionali che ha sostenuto una retorica europeista che solo negli ultimi anni è stata messa in discussione dalle critiche degli euroscettici e dai nuovi sovranismi che sono fioriti, anche a sinistra, nel panorama politico europeo.
Una narrazione complessa e non univoca —
Come proporre una narrazione, quindi, che tenga conto di questi sviluppi? La dinamica del dialogo costruttivo tra décideurs della politica nazionale e movimenti federalisti che ha portato al mantenimento della prospettiva della unificazione politica non è una dinamica continua e lineare, ma non può essere elusa, pena diventare cantori dell’intergovernamentalismo cancellando del tutto le idealità del processo di integrazione. Già questo apre un problema significativo di costruzione di una narrazione storica che tenga nel giusto conto sia gli atti ufficiali sia quelli, meno visibili ma non meno importanti, che accompagnano i leader europei nelle loro scelte. E ancora: che dire dell’insieme di interessi che si sono costruiti attorno all’esistenza stessa delle Comunità e poi dell’Unione – interessi economici, finanziari, duri, tenaci, realizzatori – e che hanno trasformato nel tempo la natura stessa del processo di integrazione facendo emergere soprattutto il suo lato economico e ponendo in ombra le idealità originarie? Non è questo un altro campo interessante sul quale confrontarsi? Siamo passati dall’Europa dei mercanti raccontata da Jacques Le Goff all’Europa delle banche e dei finanzieri, dimenticando nel percorso narrativo tutta quell’Europa mancata – quella della cittadinanza e dei diritti – che pure il Parlamento europeo provò a proporre nel periodo 1980-1986, grazie all’impulso determinan-
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lo si è visto nel difficile rapporto con la Russia rispetto alle richieste di «europeizzazione» di alcune repubbliche ex-sovietiche (Ucraina e Bielorussia e Georgia in particolare) e lo si vede anche oggi nel caso della politica da adottare nei confronti dei movimenti migratori dal Sud del mondo.In tutte queste occaSiamo passati sioni l’Unione ha presentato dall’Europa dei mercanti un ventaglio di posizioni diraccontata da Jacques stinte,disgiunte,non di rado Le Goff all’Europa delle anche conflittuali tra i vari Stati membri, e riesce diffibanche e dei finanzieri. cile parlare di essa, a questo punto, come una «potenza civile»: semmai una potenza semplicemente priva del collegamento necessario tra dimensione economico-commerciale e consapevolezza delle responsabilità che da questo status discendono. Quale Europa a questo punto, insegnare? Forse l’unica risposta è quella di insegnare la complessità di un processo misto, nel quale si fondono idealità alte e interessi molto concreti, dialogo tra governi che hanno perso nel tempo alcune attribuzioni sovrane (come la moneta) e società civili abituate alla transnazionalità nei comportamenti di consumo, nella mobilità, nella percezione dell’altro e del «diverso». Non è facile, ma è possibile: si tratta di percepire l’Unione come uno spazio politico e sociale complesso, che ha prescisso dalle usuali distinzioni tra politica interna e politica estera e che ancora oggi fonde queste due dimensioni in una dinamica in continua evoluzione. Un compito appassionante, che coinvolge la storia delle relazioni internazionali e quella intellettuale, la storia dei partiti e dei movimenti e la storia sociale, la storia economica e commerciale e quella delle organizzazioni militari. Non c’è l’imbarazzo della scelta, c’è l’imbarazzo dei molti attori in gioco, e questo rende il tutto molto più interessante e appassionante di una histoire bataille.
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te rappresentato dal federalista Altiero Spinelli, risultando perdente. Il mercato unico, e la prospettiva di creazione di uno spazio economico europeo allargato anche ai Paesi dell’Est Europa in fase di transizione verso la «democrazia» dopo il 1989, ha paradossalmente soppiantato la storia di come questa transizione, voluta e sperata dall’Unione, abbia mancato in gran parte i suoi obiettivi. I Paesi dell’Est Europa oggi sono ancora gelosi custodi della sovranità nazionale duramente riconquistata dopo il dominio sovietico, e pensano all’Europa come a un vantaggio economico, non a uno spazio politico. Enorme problema di percezione rispetto alla «piccola Europa» occidentale, dove invece la retorica europeista poneva l’obiettivo della creazione dell’«homo europaeus» come uno dei suoi principali. Come raccontare questa diversa percezione, oggi, a studenti occidentali che si sentono giustamente prima europei e poi cittadini nazionali rispetto a giovani dell’Est che vedono nell’Europa soprattutto un’occasione, ma non percepiscono pienamente un’appartenenza a essa? E infine, quale ultimo punto sul quale confrontarsi parlando a studenti per i quali De Gasperi e Adenauer sono equivalenti più o meno a Carlomagno o a Napoleone, emerge anche il nodo fondamentale del ruolo internazionale che l’Unione, gigante economico e nano politico (si potrebbe aggiungere anche: verme militare) esita a svolgere a fronte di una crescente richiesta di presenza, soprattutto dopo il 1991, da parte degli Stati Uniti in questo senso. Questa rappresenta senza dubbio la parte più deprimente di un immaginario set di temi relativi alla storia del processo di integrazione europea: quando e come l’Unione ha tentato, senza riuscirci se non in maniera molto limitata, di dotarsi della capacità di affiancare al suo ruolo di «potenza civile» anche quello di «potenza regionale reale», cioè in grado di influire sui processi e le dinamiche geopolitiche a lei vicine. La definizione di «Europa potenza civile» è in parte fuorviante: introdotta nel dibattito storico da Mario Telò alla fine degli anni Novanta del XX secolo, essa mescola il tema della definizione dei diritti e dei valori fondanti dell’Unione con la sua capacità di rappresentarli verso l’esterno e, se necessario, difenderli e promuoverli. A riguardo gli storici delle relazioni internazionali non nascondono il loro profondo scetticismo riguardo alla definizione: si usa dire che influence is not government e questo vale anche – e, forse, soprattutto – nel campo delle relazioni internazionali: a un’Unione europea priva di fatto di un’unica voce e degli strumenti per fare una politica estera significativa, resta forse l’influence, ma il government delle situazioni di crisi e di conflitto resta affidato alla iniziativa e alla buona fede dei Paesi principali che si accollano il peso e la responsabilità di un eventuale intervento. Lo si è visto nel caso delle guerre civili nella ex-Jugoslavia,
Piero S. Graglia allievo di Gaetano Arfè, insegna Storia dell’integrazione europea e History of Regional Integrations all’università Statale di Milano, dove è professore associato. I suoi interessi vertono principalmente sul ruolo di alcuni personaggi nella costruzione europea, in particolare Altiero Spinelli (del quale ha pubblicato la biografia con Il Mulino nel 2008), Carlo Rosselli, Silvio Trentin, Ignazio Silone. Ha pubblicato anche il volume Unità europea e federalismo. Da «Giustizia e Libertà» ad Altiero Spinelli (Il Mulino, Bologna 1996), tre raccolte di scritti di Altiero Spinelli per il periodo 19411947, e la breve monografia L’Unione europea (Il Mulino, Bologna 2015 alla sua quinta edizione). Ha insegnato nelle università di Napoli Federico II, Firenze, ClujNapoca, Roma 3.
← Pagina a fianco: R. Delaunay, La Ville de Paris, la Femme et la Tour Eiffel, 1925, Galleria Dickinson, Londra-New York.
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Europa: le radici e la storia Ma l’Europa esiste in sé o può esistere solo in una volontà che, finora, non si è mai fortemente e maturamente espressa? È una realtà a tutt’oggi incompiuta o un sogno che non ha ancora trovato i suoi pensatori, i suoi poeti, i suoi martiri? 10 Saperi / L’Europa: le radici e la storia
di Franco Cardini
rapporto col suolo europeo. Sono profondamente convinto che questi differenti apporti si siano fusi in una realtà unitaria da cui è emersa la nostra comune cultura: quella delle cattedrali e delle università del Medioevo, della fede umanistica nel genio e nella libertà dell’uomo, dai quali sono scaturiti inimitabili frutti nelle arti e nel pensiero,nei valori comuni di fratellanza e di solidarietà che si sono espressi anche e nonostante le lunghe guerre e le dure lotte affrontate. E sono altresì convinto che tale realtà unitaria sia connaturata alle molteplici espressioni di un’infinita diversità che si esprime
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Monumenti italiani su una bancarella di souvenir, Roma. ↓
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hi scrive, nato nel 1940, ha ormai passato da qualche mese i 76 anni: almeno 55 dei quali trascorsi senza mai recedere da una profonda fede europeistica. L’Europa unita è stata, fin dalla mia prima giovinezza, il mio grande sogno e la mia massima aspirazione sul piano politico e culturale. Credo nell’Europa. Credo nella persistente vitalità delle sue profonde radici, che sono il cristianesimo, la civiltà ellenistico-romana, il successivo apporto dai popoli che nei secoli sono entrati in
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Una parte del mondo, un’espressione geo-culturale, un sinonimo di Occidente? —
E allora ricominciamo dal principio. E chiediamoci: che cos’è l’Europa? Secondo una lettura dell’orbe terraqueo propria dei Greci e da essi trasmessa ai Romani, essa è una delle tre parti del mondo dette “continenti”.Nei mappamondi medievali anteriori al XII secolo, l’immagine della terra tradotta in termini di geometria piana consisteva in un disco circondato da un anello d’acqua: l’Oceano. Tale disco era schematicamente l’ecumène, l’insieme delle terre emerse,e lo si doveva immaginare “orientato”,
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vale a dire con la parte alta rivolta a Est (e quindi la parte bassa a Ovest, la sinistra il Nord e la destra il Sud). Il disco appariva tagliato a metà da una linea orizzontale; mentre la metà superiore, che era l’Asia, restava integra, quella inferiore veniva a sua volta tagliata nel mezzo da un tratto verticale. I geografi hanno chiamato questi mappamondi “carte T-O”,in quanto effettivamente sagomate come una O maiuscola tagliata da un tratto orizzontale lungo il doppio del tratto verticale sottostante che divide la metà inferiore. Il tratto orizzontale rappresentava schematicamente i grandi fiumi russi a sinistra (la metà rivolta verso Nord) e il Nilo a destra (la metà rivolta verso Sud): i primi erano la frontiera tra Asia a Est e Europa a Nord-Ovest; il secondo la frontiera tra Asia a Est e Africa a Sud-Ovest. L’Asia era immaginata grande esattamente quanto Europa e Africa messe insieme, quindi il doppio di ciascuna di esse. Il tratto verticale, che dal centro del cerchio andava in basso, quindi verso Ovest, rappresentava il Mediterraneo. Al centro, appena sopra la confluenza dei tre tratti, si raffigurava Gerusalemme, centro del mondo, umbilicus mundi. Era un’immagine profondamente cristica (il cerchio simboleggiava la perfezione; la T era il Tau greco,la croce).Era anche pensata come “obiettiva”, “naturale”: non era forse ovvio pensare l’ecumène distinta in continenti? In realtà, tale visione era profondamente soggettiva: un mondo diviso in continenti può apparire tale solo se lo si considera stando al centro del Mediterraneo (i cinesi, la geografia dei quali influenzò i mondi indiano, persiano e arabo, concepivano l’ecumène come distinta in fasce climatiche in quanto tale essa appariva alla loro esperienza di viaggiatori e di navigatori). L’impero romano non era stato “europeo”, bensì
↑ Una mappa T-O da un’antica edizione delle Etimologie di Isodoro di Siviglia (VII secolo d.C).
SAPERI / L’Europa: le radici e la storia
nella pluralità degli idiomi, dei paesaggi, delle tradizioni,dei modi di sentire che la fanno somigliare, com’è stato felicemente detto, a un “arcipelago”: cioè a una grande catena montana sommersa le cime della quale emergono, come isole, ciascuna con la sua specificità diversa dalle altre ma con tutte le altre collegata alla base. Ma, come molti della mia generazione, e forse anche di quelle che l’hanno immediatamente preceduta e seguita, sono stato vittima di un’illusione e, forse, di una frode: troppo tardi ho compreso che quella realtà, nata all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso e faticosamente sviluppatasi come Unione europea, con tutte le sue complesse, costose istituzioni, non si sarebbe mai trasformata in unità politica. Il suo scopo era un’unità economico-finanziaria, una “Eurolandia”. Ci lasciammo a lungo ingannare. Sperammo a lungo che da quell’unità istituzionale se non più propriamente burocratica sarebbe sì nata una moneta unica, ma anche uno spirito comune, un progetto identitario. Capimmo presto però che non saremmo mai riusciti a essere un “popolo europeo”; nessuna delle nostre patrie si sarebbe mai trasformata in parte di una comune Patria Europea; non saremmo mai stati Popolo Europeo. Sintomo evidente di tutto ciò, il fatto che non si sia mai cercato di dotare le scuole dei Paesi aderenti all’Ue di manuali scolastici che, narrando una comune storia continentale, facessero germogliare e crescere quell’affetto per l’Europa sul quale avrebbe poi dovuto impiantarsi un solido senso civico. Se ciò fosse avvenuto a partire almeno dagli anni Cinquanta-Sessanta, oggi avremmo alcune centinaia di milioni di europei tra i venti e i sessant’anni seriamente educati a sentirsi figli di una stessa patria, membri di uno stesso popolo nonostante la molteplicità delle lingue e dei dialetti parlati e nonostante il peso di un passato fatto anche di lotte a sua volta parte di un patrimonio indelebile. Ma l’Europa esiste in sé o può esistere solo in una volontà che, finora, non si è mai fortemente e maturamente espressa? È una realtà a tutt’oggi incompiuta o un sogno che non ha ancora trovato i suoi pensatori, i suoi poeti, i suoi martiri?
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sione dell’islam – prima organizzando delle “monarchie romano-barbariche” (tale il nome con il quale ordinariamente esse sono indicate), quindi riuscendo anche grazie all’incontro fra Chiesa romana e regno franco a costituire una sorta di nuova res publica Romanorum e a espandersi intanto al di là degli antichi confini romani costituiti dal Reno e dal Danubio. In tal modo una compagine latino-celto-germanica – aggregata attorno all’uso del latino come lingua ufficiale, lingua colta e lingua giuridica e all’adozione della disciplina gerarchica e liturgica ispirata alle consuetudini della sede episcopale romana – andò gradualmente espandendosi, talora anche con i metodi di una colonizzazione agricola e guerriera,sulle terre abitate dagli slavi e dai baltici: i confini con l’impero romano d’Oriente (che i moderni hanno convenuto di definire “bizantino”) erano, in un’area incerta sita tra la Vistola e il Don, quelli d’un’evangelizzazione dei locali gestita ora dai latinofoni fedeli alla Chiesa e alla liturgia romane, i quali guardavano al regno di Germania, ora dagli ellenofoni fedeli alla Chiesa e alla liturgia greche, i quali guardavano a Bisanzio. Di qua la res publica Romanorum, che guardava alle due auctoritates concettualmente universali dell’imperatore romano-germanico e del papa, peraltro interessate fra XI e XVI secolo da una serie di reciproci conflitti mentre, protette e sostenute ora dall’una ora dall’altra di esse, si andavano dislocando potestates regie, signoriali e col tempo addirittura cittadine consapevoli di una condivisa unità di fondo ma al tempo stesso fiere delle loro
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Souvenir dell’Italia su una bancarella, Roma. ↓
circummediterraneo: Roma a parte, le sue altre grandi metropoli erano tutte asiatiche o nordafricane. Ma nel Medioevo occidentale prevalse più tardi l’idea che solo l’Europa fosse un continente totalmente cristiano. E un continente guerriero. Tre piccoli candelieri in bronzo dorato conservati nella cattedrale di Hildesheim e risalenti al XIIXIII secolo rappresentano le allegorie femminili dei tre continenti: l’Africa, il luogo magico delle scienze e dei misteri – l’Egitto – è circondata dagli strumenti della scienza e del sapere, come sfere armillari e astrolabi; l’Asia, la terra delle gemme e degli aromi, è raffigurata come una prospera mercantessa; l’Europa è un’armata vergine guerriera. I tre candelieri sembrano profeticamente alludere al futuro di un mondo che, di lì a poco, l’Europa avrebbe conquistato. Europa cristiana e bellicosa, quindi. E, fino dai tempi di Teodosio e poi degli imperatori romano-germanici di stirpe sassone, abituata a sentirsi anche Occidente. Ma la parola “Europa”, tuttavia, non era usata nel mondo medievale per qualificare alcuna unità civica o concettuale. Le genti uscite dalla sistemazione teodosiana dell’impero e arricchite dall’incremento dei popoli “barbarici” delle Völkerwanderungen avevano risposto al vanificarsi delle istituzioni imperiali della pars Occidentis – mentre la porzione d’Africa già affidata a Onorio si era andata distaccando decisamente da loro, insieme con gran parte della Spagna, fin dall’VIII secolo quando era stata interessata dall’espan-
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cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la Constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna il superamento della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposte e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane. D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò dal canto suo la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo.Augusto riprendeva, contro Antonio deciso sostenitore di Cesare, quella ch’era stata la linea di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati. Lo scisma d’Oriente del 1054 avrebbe fatto il resto: e nonostante vari tentativi di riunione gli universi cattolico e ortodosso-orientale sarebbero restati,fino a oggi,divisi.
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rispettive specificità e diversità e tutte comunque solidamente ed esclusivamente insediate entro i confini del continente europeo; di là la Basiléia ton Romáion, il cui territorio, almeno fino all’XI secolo circa, interessò politicamente (e ancor più demograficamente e culturalmente) parte della penisola italica – l’area adriatica, il Meridione peninsulare, le due grandi isole – mentre occupava stabilmente Balcani e Anatolia ed estendeva la sua influenza fino ai principati variago-slavi della Rus’ a NordEst, a quelli armeno e georgiano della regione caucasico-caspiana a Est. Si andavano in altri termini configurando l’Europa cattolica e l’Eurasia ortodossa, che a partire dal Tre-Quattrocento sarebbe stata in parte fagocitata dal sultanato ottomano o si sarebbe progressivamente accorpata all’egemonia dei granprincipi di Moscovia. A questo punto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava ai primi dell’Ottocento Novalis, ovvero di Europa cristiana – Die Christenheit oder Europa –, non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico-ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva profondamente ridefinito. La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita, si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” –, dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia,aspiravano invece a un equilibrio nuovo, a un mondo rinnovato nel quale Urbs e Orbs coincidessero e nel quale il messaggio di Alessandro Magno, che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano, si traducesse in una nuova sintesi. La linea che oppone Silla e Pompeo da una parte agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare dall’altra è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare, che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal cristianesimo) è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici
Cristianità e islam, Europa e Asia —
All’indomani della prima crociata, quindi ai primi del XII secolo, il cronista Fulcherio di Chartres – testimone radicatosi in seguito ad essa nella nuova compagine del regno di Gerusalemme –,osservava: “…Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali… perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?”. È evidente che Fulcherio usava le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini “Oriente” e “Occidente”, “orientale” e “occidentale” acquistavano, nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano. Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come testimoniano alcuni cronisti delle crociate, crebbe il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si sarebbe presentato con virulenza all’atto della quarta crociata. Verso la metà del Duecento le conquiste eurasiati-
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che dei Tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto però richiuso su se stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi da un lato, dall’altro una casuale scoperta compiuta grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a Ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto. La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni. Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata. Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi Paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele.Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza – fino ad allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo. Frattanto l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di cristianità avversa all’islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle cui conseguenze, Dopo le scoperte forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano geografiche, l’esperienza, consapevoli. L’Europa era fino ad allora considerata propriamente la sede – patestimone infido tria e domus – della cristiae consigliere poco nità, identificabile con la attendibile, diveniva la christiana religio: si poteva pertanto stimare cristiano via regia alla conoscenza. chiunque fosse ritenuto Senza Colombo non si europeo, come Enea Silvio capisce Galileo. aveva già dichiarato nella Prefazione alla sua Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era già imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare già in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa. Un’identità nella quale tuttavia l’Europa stava,per così dire,assorbendo la cristianità,preparandosi ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale. Rispetto ad essa, l’islam
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andava assumendo il ruolo dell’“Altro”, dell’avversario necessario come elemento di distinzione-opposizione in un processo di definizione identitaria.
Dalla cristianità europea all’Occidente/Modernità —
Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latinogermanica (ormai del resto lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il Medioevo, quindi non più definibile in quanto “cristianità latina”), questa si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i Greci (la cui cultura è considerata ormai la radice profonda dell’Europa moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva allora – l’ha definito bene Carl Schmitt – quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme tuttavia da una comune Weltanschauung economico-politica di un’“economia-mondo” – l’egemonia all’interno della quale è tuttavia contesa. Il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche – nessuna delle quali rinunzia al suo ecumenismo, ma ciascuna delle quali ha un suo ruolo di fronte allo Stato o agli Stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono– gli offriva il movente nobile (non vogliamo dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi. Nell’accezione moderna, la parola “Occidente” rinvia quindi a nuovi contenuti: essi nacquero allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV-XVI l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si spostò sulle rive dell’Oceano Atlantico, e mentre l’affermazione dello stato assoluto apriva la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugurava il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si andava preparando la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo. Intanto, l’Europa assisteva a una frattura interna, quella della Riforma protestante, che approfondiva e accelerava il suo processo di differenziazione interna mentre apriva la strada a un altro processo, essenziale alla costruzione della Modernità: quello “di secolarizzazione”, che insieme con l’affermarsi degli Stati assoluti riduceva fino a vanificarlo il senso di universalità che aveva pervaso di sé l’Europa medievale ancora legata ai luminaria del papato e dell’impero. La Christianitas europea – che si era in parte allontanata dalla Chiesa romana mentre nei Paesi che pur le erano restati fedeli avanzava il processo di secolarizzazione e quindi di progressiva, irreversibile distinzione (accompagnata da
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Lo “scontro” fra Oriente e Occidente
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un ampio contenzioso giurisdizionale e da una crescente reciproca ostilità politico-culturale) tra compagine ecclesiale e strati egemonici della società civile – si andò dissanguando tra Cinque e Seicento in feroci guerre di religione, finché, con i trattati di Westfalia e dei Pirenei del 1648-59, si pervenne alla mutua inter christianorum tolerantia che, fondandone alfine la convivenza, sanciva tuttavia definitivamente l’avvenuto divorzio dai Paesi protestanti. La laicizzazione, imposta ai riformati sin dall’inizio del movimento protestante, si affermò dai Paesi cattolici attraverso la progressiva limitazione ed emarginazione della Chiesa nel campo dei poteri e delle prerogative di tipo giurisdizionale e politico. Successivamente, con il cosiddetto “dispotismo illuminato” e poi con la Rivoluzione francese, sarebbe stato chiaro che ormai non si poteva più parlare dell’Europa come cristianità. Senza dubbio,intanto,il continente europeo,che sempre più amava definirsi come Occidente,elaborava con Locke e con Voltaire l’idea di tolleranza; e di lì a poco avrebbe scoperto, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accettato – unico forse tra le civiltà umane – di non pensare più a se stesso come al centro del mondo. È non meno vero però che, con la parallela elaborazione della cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fin dal grande romanzo egizio prima, ellenistico poi – avrebbero scoperto di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco, il persiano, l’indiano, il centroasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico1, il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…)2. Ma vero è altresì che, nel contempo, l’Occidente avrebbe elaborato con il colonialismo – anche in ciò unico tra le civiltà umane – un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio. V’è di più. L’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale secondo alcuni l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata in realtà al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa da Jefferson a Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà 3; l’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha annunziato che fine e diritto dell’uomo è la ricerca della felicità su questa terra.
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Eppure non si è ancora esaurito, anzi subisce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre greco-persiane, quindi le contese tra Romani e Parti, poi quelle tra Sasanidi e Bizantini,e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia. La “guerra fredda” si potrebbe considerare secondo alcuni la terza guerra mondiale; infine oggi quella che l’amministrazione statunitense dopo l’11 settembre 2001 definì la War Against Terror e che oggi continuerebbe
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con al-Qaeda e il Daesh sarebbe da considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico”, e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato, verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con le guerre tra Greci e Persiani. È logico che, da questo punto di vista, le offensive orientali di varia origine siano state intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa. E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso e della civiltà resta,kiplinghianamente,«il fardello dell’uomo bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of lífe e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze. Ma quest’Occidente corrisponde ormai a un concetto che in apparenza è antico, mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi della prima metà del Novecento: quello di “civiltà occidentale”. Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione occidentale, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere più umano4, la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato forse, ma certo importante. Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli Stati assoluti – i quali avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto
essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita, la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e isole vergini, Rousseau e Bernardin de SaintPierre). L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare. L’Occidente è il mostro marino Leviathan, contrapposto all’Oriente massa continentale, mostro terrestre Behemoth.
Ma l’Europa è ancora Occidente? —
Per questo l’Occidente – come espressione politico-culturale –, a onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una inidentità imperfetta. In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro Paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che dopo il 1945 il bipolarismo del “sistema di Yalta”, proponendo una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a Ovest e in un “mondo socialista” a Est secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa, praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica –, e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia oggi una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlantico-centrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi5 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico-materiale-esistenziale dell’Europa occidentale6, oppure nuovo Occidente americo-australiano-giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Eu-
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Fine del «vecchio ordine», quello della novalisiana Chistenheit oder Europa: le cattedrali, le università, il Sacro Romano Impero. Già Goethe si chiedeva se (e come) stesse ancora in piedi, il buon vecchio Santo Impero, e più tardi, nei Nürnberger Meistersinger, Wagner esclamava che l’impero tedesco poteva anche finir a gambe all’aria purché ben salda restasse la sublime arte tedesca. Ma fine anche dell’Europa napoleonica e napoleonide, fondata sull’esportazione lacunosa e apparente degli ideali rivoluzionari, sulla federazione imperfetta dei regni e di repubbliche tenuta insieme dai molti parenti e affini che l’imperatore doveva sistemare, dall’ingegneria costituzionale dei suoi giuristi, dal gioco in borsa e dalla ben odiata macchina fatta di coscrizioni militari, guerre continue, sviluppo industriale, commesse militari e tirannide burocratica che costituivano l’ossatura del regime gestito da quell’ufficiale còrso d’artiglieria che pur aveva dato – e non bisogna mai dimenticarlo – un senso storico reale e concreto alla Rivoluzione francese: così come, un secolo e qualcosa più tardi, Stalin avrebbe dato alla Rivoluzione bolscevica l’unico plausibile senso storico ch’essa abbia mai avuto. E fine altresì di tutte le società europee e eurocentriche “delle nazioni”, dal “concerto” nato nel Congresso di Vienna fino alla “Lega” scaturita dalla necessità di mantener ben fermi i risultati di quei trattati di Versailles del 1918 che la loro stessa ingiustizia profonda rendeva fragile e forieri, più che di una stabile pace futura, di nuove guerre. Aggiungiamo in sordina che l’hanno sognata in
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ropa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo? Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto dell’Umanesimo e dell’Illuminismo7, o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi, in ultima analisi, alla sua forza (e alla volontà di potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava)8: a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo. Ma se queste considerazioni hanno un minimo di plausibilità, ne consegue che ormai tra Europa e Occidente c’è un divorzio irreversibile, che dovrebbe condurre all’impossibilità obiettiva, per noialtri europei, di continuar ad autodefinirci attraverso l’epiteto – del resto per sua natura ambiguo – di “occidentali”. Ed eccoci, dinanzi all’incalzare dell’Occidente/ Modernità, alla Finis Europae. L’aveva già preconizzata, circa un secolo e mezzo fa, il principe di Metternich: «L’Europa muore: sono in buona compagnia». Ma ancor prima, dall’orizzonte pallido e acqueo di Sant’Elena, l’aveva scrutata Napoleone.
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tanti, l’Europa, anche dopo il palese fallimento della pace ingiusta di Versailles: Coudenhove-Kalergi,Altiero Spinelli, ma anche – ebbene sì – Pierre Drieu La Rochelle. Solo che si trattava sempre di concetti di Europa l’uno molto diverso dall’altro, inconciliabile con l’altro. Europa unita, sì: ma quale Europa? In quali rapporti con gli Stati nazionali che la componevano (e quali erano questi Stati)? Sulla base di quale assetto socioeconomico?
L’Europa è morta, viva l’Europa! —
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L’Europa muore, sta morendo, è già morta: Napoleone, Metternich, Drieu La Rochelle e Cioran sono tragicamente d’accordo. E chi ha creduto di farla rivivere – o vivere tout court – nell’escamotage della CECA poi divenuta CEE, mai approdata alla CED (una “Comunità Europea di Difesa” bocciata nel ’53 dalla convergenza tra destre nazionaliste e sinistre socialcomuniste e malamente sostituita dalla NATO, forza anti-europeista per eccellenza) e infine approdata all’Ue si sbagliava. Ma allora che cos’hanno mai fatto Schumann, Adenauer, De Gasperi? Hanno pronunziato un nome vuoto? Hanno evocato un pallido fantasma? Si sono illusi di poter proporre una rifondazione spiritual-continentale? Di Europa si parla fino dai tempi di Erodoto: è il nome di una mitica fanciulla fenicia rapita e amata da Zeus e di un continente,
di una parte del mondo antico: dall’età carolingia fino al XVIII secolo è stata in un modo o nell’altro sinonimo della cristianità latino-germanica. Nel suo libro L’armonia nel mondo. Miti d’oggi, edito da Rizzoli, Pietro Citati ripubblicò nel 1999 un articolo del 1986 dedicato a una sua visita alla minuscola chambre de bonne nella quale a Parigi viveva Cioran. «Lui parla e sorride, ride a bocca aperta, gioiosamente. È candido e demoniaco. Niente è più piacevole che ascoltare ridere questo disperato. Non può fare a meno di parlare di un argomento che gli sta a cuore da quaranta anni: la decadenza dell’Europa. Scuote la testa, desolato e felice: - L’Europa è finita -». Commentava trent’anni or sono Citati: «Chi potrebbe dar torto a Cioran? La storia dell’Europa non è che una lunga decadenza».Anche questo era già stato detto: in un certo senso, l’aveva sostenuto Hegel chiamando quell’Europa-Occidente «sera del grande giorno iniziato ad Oriente». La fine (e il fine) di un’Europa-Occidente di cui, con un Kulturpessimismus goethiano-nietzschiano opposto al senso della storia hegeliano, Spengler aveva potuto parlare di un “tramonto dell’Occidente” ch’era, appunto, tramonto dell’Europa. Ma le cose, da allora, sono cambiate. Dai primi del Novecento nella sostanza, dalla seconda metà del secolo nella realtà evidente e condivisa, la leadership mondiale – sia pur assoluta e per più versi “imperfetta” – è spettata indubbiamente agli Stati Uniti d’America: dal canto loro, e nei loro ambienti politici e culturali di élite, ben consapevoli di essere quel che fin dall’Ottocento i “bramini” di Boston e costituzionalisti “neosassoni” (i John Adams, i Cabot-Lodge, i Fiske) si proclamavano: eredi e discendenti del “miglior sangue d’Europa”. Non si è ancora riflettuto abbastanza sul dato obiettivamente anti-europeo costituito dall’invenzione rooseveltiano-staliniana della “Cortina di Ferro”, che favoriva certo gli interessi egemonici dell’Unione Sovietica, ma al tempo stesso vanificava l’Europa – che divideva in due parti – e legittimava un equilibrio favorevole agli Stati Uniti, che avevano già in parte fagocitato il continente americano favorendone e determinandone la de-ispanizzazione, quindi la de-europeizzazione (con scelte in molti casi di autentica aggressione colonialistica: com’era accaduto al tempo delle guerre messicane contro il Messico del Santa Ana prima, di Massimiliano d’Asburgo poi, di Porfirio Diaz infine; o della guerra di Cuba; o delle molte successive ingerenze nella situazione panamense; o delle sistematiche forme di sostegno ai regimi dei gorilas accompagnate dall’offensiva contro un Vargas in Brasile o un Perón in Argentina). Oggi però, nel mondo, l’assenza europea – alla quale gli Stati Uniti d’America hanno assiduamente lavorato dal 1945 a oggi, sfruttando cinicamente e sistematicamente l’alibi anticomunista – si fa
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sentire. Certo, è finita l’era dei blocchi egemonici intraeuropei. All’Europa finita di Metternich e di Cioran, all’”Europa-Nazione” mai nata di Drieu La Rochelle, dovrebb’essere giunta l’ora di sostituire un’Europa comunitaria che dalle preoccupazioni prevalentemente economico-finanziarie passi alla volontà di pensare e di agire in termini anche politici, diplomatici, se occorre militari. Finché non cominceremo a entrare in quest’ordine d’idee, l’Europa unita non uscirà dall’infanzia. Morrà come una vecchia bambina: e tutto il mondo subirà le conseguenze negative della sua mancanza.
Un nuovo Anno Zero? —
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A questo punto rieccoci al vecchio interrogativo leniniano: “Che fare?”. In un pamphlet che avrebbe forse dovuto essere un dialogo, ma che si risolveva in due monologhi contrapposti, Giuliano Amato ed Ernesto Galli della Loggia – pur convenendo “non solo che il progetto europeo vada proseguito (Euro incluso, per ciò che riguarda l’Italia), ma che ciò vada fatto mettendosi su una strada diversa da quella del passato” – percorrevano rispettivamente una via molto diversa se non opposta: il primo sosteneva che esso debba esser portato avanti superando la frattura tra Nord e Sud, tra Paesi creditori e Paesi debitori, sconfiggendo la crescente ostilità dei populismi anti-europei, il secondo riteneva necessario eliminare l’equivoco dell’“ideologia europeista” facendo ripartire un’Europa fondata su identità, condivisione e storia comune9. Tuttavia, quel pur denso e interessante dibattito, svoltosi due-tre anni fa, appare ormai desueto. Oggi molte cose sono cambiate, ma non siamo in grado di dire quanto definitivamente e in che misura. Siamo letteralmente “in mezzo al guado”. La dimensione dell’incombente crisi epocale si è ormai palesata in tutta la sua potenza col “vertice di Davos”, con la parata della sessantina circa di soggetti familistici e lobbistici nelle mani dei quali si concentra la maggior parte della ricchezza – fisicamente conservata off shore, quando non sia puramente virtuale – in un mondo caratterizzato dalla più spaventosa sperequazione e dal gigantesco dilatarsi dell’impoverimento. D’altro canto le recenti esternazioni del neopresidente Trump a proposito della NATO (uno smantellamento o un ridimensionamento della quale potrebbe tuttavia presentarsi, paradossalmente, come una buona occasione per l’Europa, se non altro consentendole di recuperare un po’ di sovranità) e il suo sia pur problematico avvicinamento sia alla Russia di Putin, sia all’Inghilterra del Brexit, potrebbero condurre, come si dice, a un enorme “allargamento dell’Atlantico”: e ciò potrebbe costituire un’inedita possibilità obiettiva di ridefinizione del progetto unitario europeo. NOTE
1. Cfr. V. Pinto, Sein una Raum, L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky,«L’Acropoli»,2,marzo 2004, pp.203-24. 2. Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a T. Hentsch,L’Orient imaginaire,Les Editions de Minuit,Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in C. Fleury, Dialoguer avec l’Orient, CNRS Eds, Paris 2003. 3. Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, M&B Publishing, Milano 2002. 4. Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile forse,tuttavia documentati e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it. Marco Tropea, Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Fayard, Paris 2003. 5. La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante comunque il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la tradizione europea nei valori del nuovo mondo,tr.it.,Mondadori, Milano 1996, e a L. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Le lettere,Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna e hanno trovando adepti anche in Italia all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, «Percorsi», 4, gennaio 2004, pp.13-54. 6. Cfr.AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XXe siècle,dir.P.D.Barjot et C.Réveillard,Presse de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2002. 7. Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma-Modernità (con un cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un Medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Fayard, Paris 2002. 8. Sull’Oriente come volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2002. 9.G.Amato,E.Galli della Loggia,Europa perduta?,Il Mulino, Bologna 2014, p. 8 e passim.
Franco Cardini è professore emerito di storia medievale presso l’Istituto di Scienze Umane e Sociali (Firenze, oggi aggregato alla Scuola Normale Superiore di Pisa). Ha insegnato in varie università italiane ed estere. I suoi interessi sono principalmente rivolti ai rapporti fra Europa e mondo musulmano e alla storia dell’orientalismo.
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Nel 2013, invitato a tenere una lezione magistrale alla quarta edizione del convegno “Le storie siamo noi” (Grosseto, 6-7 settembre), Remo Ceserani proponeva agli studiosi e ai docenti di letteratura di superare le consuete frontiere nazionali, situando la cultura italiana nel contesto dell’Europa e della più ampia comunità mondiale. Si pubblica di seguito il testo dell’intervento. di Remo Ceserani
C → Pagina a fianco: R. Delaunay, Ritratto del poeta Philippe Soupault, 1922, Musée National d’Art Moderne, Parigi.
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redo che sia giunto il momento di studiare la cultura e la letteratura italiane al di là delle solite frontiere, nel contesto non solo dell’Europa, ma anche della più ampia comunità mondiale.Basta una breve scorsa alle vicende nei secoli di molti uomini di cultura italiani per capire che i rigidi canoni nazionali imposti dalla tradizione scolastica, sulla base del grande modello desanctisiano (Ceserani 2011a), non sono più sostenibili. Non sappiamo, per esempio, se Dante abbia davvero soggiornato a Parigi, anzi è molto probabile che la notizia data da Giovanni Villani che «Dante andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo» (notizia, quanto a Parigi, ripetuta da Giovanni Boccaccio) sia frutto di fantasia e di volontà di accrescere la fama e il prestigio di un grande concittadino,ma è anche vero che,nei limiti consentiti dalle strettoie dell’esilio, Dante ebbe una visione culturale e politica molto ampia, oggi si direbbe europea, anche se conservatrice, e che la sua trasformazione in «padre della patria» (da fiorentino in esilio a italiano) è stata un’operazione ideologica del Risorgimento. Ha scritto Amedeo Quondam, in un libro sulla discussa italianità di Petrarca: Dante: poeta di una poesia forte, virile, profetica, politica, civile. Dante poeta esule, mai incline al compromesso: come tanti esponenti dell’avventura risorgimentale. L’efficacia di questa interpretazione dantesca è subito formidabile, perché si proietta sul presente, connotandone le drammatiche vicende, disponibile a un immediato riuso e consumo attualizzanti, in chiave tutta ideologica (2004, p. 57).
Petrarca, appunto, il quale è pur vero che scrisse una canzone All’Italia, citata, non a caso, da Machiavelli nella conclusione del Principe, e letta e commentata in tutte le scuole italiane dopo il Risorgimento, ma sarà bene ricordare che l’Italia di cui parla la canzone è immagine tutta letteraria, nutrita soprattutto di storia romana e di una visione che anch’essa potremmo chiamare europea. Va anche ricordato che la vita di Petrarca si svolse in parte a Avignone e Valchiusa, fuori dai confini italiani, e che egli non riuscì mai a mettere radici (e relative adesioni politiche) in luoghi e istituzioni della penisola, oscillando fra Napoli, Roma, Parma,Venezia, Milano e i Colli Euganei, ogni volta scegliendo in quei luoghi un domicilio provvisorio, possibilmente ameno e solitario. Boccaccio, a sua volta, non solo prese per buona la leggenda di un viaggio di Dante a Parigi, ma addirittura inventò la favola di una sua improbabile ma prestigiosa nascita proprio a Parigi, invece che a Firenze, o peggio a Certaldo, paese di cipolle. Anche lui, inoltre, si nutrì di un’ampia cultura non solo umanistica sovranazionale (latina e anche, almeno come aspirazione, greca), fortemente legata alle migliori tradizioni francesi apprese alla corte angioina, dove ebbe luogo la sua formazione. Quanto al movimento umanistico, forse un po’ troppo rigidamente identificato da Eugenio Garin con una specifica tradizione fiorentina, da lui definita «umanesimo civile», va ricordato che esso fu un movimento schiettamente internazionale, con la partecipazioni di intellettuali tedeschi, francesi, spagnoli, cechi, i cui nomi originali stranieri erano mascherati dalla trascrizione latina, e che quegli intellettuali ebbero strumenti efficaci di confronto e costruzione di comuni interessi, come i fitti
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Una comunità nomade: i letterati —
I secoli fra Sei e Settecento abbondano di personaggi italiani che, per una ragione o per l’altra, furono costretti ad andare oltre frontiera (nessuno, allora, si fermava a Chiasso): filosofi come Bruno, intellettuali irregolari, seguaci della riforma luterana o calvinista costretti a sfuggire dalle grinfie dei tribunali ecclesiastici, e poi musicisti, uomini di teatro, cortigiani, diplomatici, avventurieri. Oltre a Cagliostro (che, fra le tante imprese e i tanti imbrogli, compiuti in tutta Europa, ordì anche una truffa ai danni di un fabbro palermitano sciocco e avido, di nome Marano) o Casanova (la cui Histoire de ma vie fu scritta in francese negli ultimi anni vissuti da Casanova in Boemia e pubblicata solo nel 1960-62), sarebbe importante riportare alla ribalta personaggi come Ferrante Pallavicino, feroce libellista, autore di un romanzo noto in tutta Europa come Il corriere svaligiato (1640), decapitato nel 1644 ad Avignone su ordine delle autorità pontificie, o come Gian Paolo Marana (il cui nome è stato ripreso da Calvino in Se una notte d’inverno): genovese, Marana ebbe una vita piena di intrighi e congiure, fu storico alla corte del re di Francia e nel 1684-86 pubblicò in francese e in italiano il romanzo epistolare L’esploratore turco, precursore delle Lettres persanes di Montesquieu, che fu tradotto in molte lingue. Gli illuministi italiani fecero parte di una rete internazionale di intellettuali, spesso in dialogo con i loro colleghi di oltralpe come l’abate Ferdinando Galiani,spiritoso protagonista dei salotti parigini e autore del trattato Della moneta, o Cesare Beccaria, i cui Delitti e delle pene, stampato in italiano a Livorno nel 1764, fu subito ristampato in francese con le note di Diderot e un commento di Voltaire e in francese fu letto in tutta Europa e
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scambi epistolari, e luoghi di incontro e confronto di opinioni, come i concili di Basilea e di Costanza, dove ebbero ampia possibilità di discutere le interpretazioni dei testi classici e promuovere la scoperta di manoscritti, come avvenne con il De rerum natura, ritrovato nel 1417 nel monastero di Fulda, in Germania, da Poggio Bracciolini (Greenblatt 2012). Si pensi a un personaggio come Enea Silvio Piccolomini che, prima di venire eletto papa con il nome di Pio II,ha viaggiato in lungo e in largo sul nostro continente, ha toccato la lontana Scozia, ha avuto un figlio in una città delle Fiandre da una donna inglese e ha addirittura scritto un’opera storico-geografica intitolata De Europa, rimettendo in circolazione il nome a suo tempo originario della Grecia e delle sue storie mitologiche. Le pagine dei suoi Commentarii, scritte in un latino nel quale si avverte la presenza dell’arguzia senese e toscana, dovrebbero essere lette nelle nostre scuole, in buona traduzione, accanto a quelle di Machiavelli e di Guicciardini.
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in America. Ci sono, naturalmente, i casi più noti e più presenti nelle antologie scolastiche di Goldoni, Verri, Alfieri, Foscolo. Goldoni visse a Parigi dal 1762 al giorno della morte nel 1793, dove fra l’altro insegnò l’italiano ai figli del re,e in francese scrisse, oltre ad alcune commedie, i Mémoires. Centrale, per capire la rete di rapporti culturali e linguistici che collegò l’Italia alle altre principali realtà europee fra Sette e Ottocento (Folena 1983) è la vicenda musicale: basta ricordare che mentre Mozart compose alcuni dei suoi capolavori in italiano (fra cui il Don Giovanni,messo in scena a Praga nel 1787,su libretto di un altro italiano vagabondo, Lorenzo Da Ponte, che trascorse la seconda parte della sua vita in America), Gioacchino Rossini, che quando era studente di composizione a Bologna veniva chiamato «il tedeschino» per la sua passione per la musica di Haydn e di Mozart, arrivato a Parigi nel 1823, vi trascorse il resto della vita e in francese compose alcuni dei suoi capolavori. Nel periodo del Risorgimento, le vicende politiche che spinsero molti italiani all’esilio o alla residenza all’estero (Foscolo a Londra, Mazzini in giro per l’Europa, Gioberti a Bruxelles e Parigi, De Sanctis a Zurigo, Cattaneo a Lugano) e che ispirarono a molti intellettuali europei simpatia e sostegno per la causa italiana, i rapporti interculturali si fecero anche più intensi, così come l’intreccio delle esperienze, anche linguistiche e letterarie. Ricordo soltanto, perché esemplare, il caso del patriota mazziniano Giovanni Ruffini, che andò in esilio prima a Edinburgo poi a Parigi e scrisse in inglese quattro romanzi, fra cui due molto popolari, ispirati in parte a vicende dell’autore o dei suoi fratelli, anch’essi mazziniani: Lorenzo Benoni (1853) e Dottor Antonio (1855). Ruffini, che a Parigi scrisse anche due libretti per Gaetano Donizetti, scrisse i romanzi in inglese, avvalendosi molto probabilmente della collaborazione di due amiche e amanti, anch’esse scrittrici: Cornelia Turner e Henrietta Camilla Jenkins; la quale Jenkins, a sua volta, pubblicò nel 1861 a Lipsia presso Taichnitz il romanzo Who Breaks, Pays (Italian Proverb), in cui viene in parte rappresentata la storia di Giovanni Ruffini, nei panni di un esiliato italiano a Parigi, dove è protetto da una signora anglo-francese (la Turner) e incontra, amandola, una giovane inglese (la Jenkins). Nel libro della Jenkins è descritto un incontro con Gioberti a Parigi e si discute dei Promessi sposi e della Divina commedia. Difficile stabilire se queste opere appartengono alla letteratura inglese o a quella italiana, o francese, o europea. Dopo l’unificazione del Paese e nel corso del Novecento l’intreccio si è fatto così fitto e frequente che non posso qui che darne soltanto un’idea frammentaria: i tanti intellettuali italiani attratti verso le capitali della cultura: Parigi, Vienna, Londra, Berlino e più tardi New York; poeti come Ungaretti, nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, trasferito
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Egemonie alternate e confini che si allargano —
Mi preme soltanto sottolineare due aspetti generali del fenomeno di cui sto parlando. 1) Nella complicata storia della cultura nei Paesi europei attraverso i secoli, non è difficile stabilire momenti e periodi in cui la cultura di una delle aree linguistiche risultò egemone ed esercitò un forte influsso sulle altre. Nel periodo del risveglio dopo il Millennio, furono egemoni, oltre alla cultura latina persistente, anche le nuove forme poetiche e le nuove concezioni dell’amore provenzali e le narrazioni epiche e romanzesche francesi (nelle quali erano presenti elementi derivanti dalla concezione occitanica e cortese della vita e dell’amore, arricchita di elementi della gnosi e dell’erotismo arabo e altri derivanti dal gusto celtico per l’avventura, la dismisura e la potenzialità trasfigurante del sacrificio e della sconfitta e altri ancora, derivanti dalle tradizioni germaniche e celtiche dell’ideologia cavalleresca e della fedeltà di appartenenza al clan e al ceto nobiliare). Dante ha dato una poderosa sintesi di tutti questi temi
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e fermenti, inaugurando un periodo di egemonia della cultura italiana su gran parte dell’Europa: un’egemonia a cui hanno contribuito per parte loro Petrarca per la tradizione lirica e Boccaccio per la tradizione novellistica. Con Ariosto e Machiavelli e gli scrittori e artisti italiani del Rinascimento l’egemonia italiana ha toccato il suo punto più alto, mentre quando Tasso scrisse tormentosamente il suo grande poema la situazione in Europa era ormai assai più complessa: la Riforma aveva introdotto una divisione ideologica destinata a produrre effetti molto profondi; la scena culturale aveva visto affacciarsi nuovi protagonisti: dalla Francia Rabelais inventore di un nuovo linguaggio e Montaigne inventore di una nuova capacità di autoriflessione, e più tardi Racine, Corneille e Pascal; dalla penisola iberica Miguel de Cervantes con le imprese fantastiche e demistificanti di don Chisciotte, Luis de Camões con le storie epiche delle imprese marinare verso i nuovi mondi; dall’Inghilterra il teatro nuovo di Shakespeare, fatto di poesia e grandi passioni, e il grande poema protestante di Milton. L’egemonia italiana si stava gradualmente sgretolando. Nel Settecento i due Paesi egemoni, fra loro contrapposti in molti modi (come ci ricordano le Lettres anglaises di Voltaire), furono la Francia e l’Inghilterra: egemoni l’uno nell’elaborazione delle idee, nella teoria sociale e nella polemica intellettuale e politica, l’altro nella creazione della filosofia sperimentale, della scienza economica e di un nuovo genere di letteratura borghese: il romanzo moderno. Con l’Ottocento la scena europea si è complicata: alle nazioni culturalmente egemoni come la Francia e l’Inghilterra, soprattutto la prima con la grande tradizione del romanzo, da Stendhal a Balzac a Flaubert a Zola, e con la fondazione della poesia moderna con Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, si sono aggiunte la Germania con Goethe, i grandi poeti e filosofi romantici, le voci innovative di Schopenhauer e Nietzsche, l’America del Nord e del Sud e la Russia con grandi figure di scrittori come Puškin, Gogol, Tolstoj e Dostoevskij, le cui opere hanno avuto una grande diffusione in tutta Europa. L’Italia ha timidamente partecipato al concerto europeo soprattutto con Manzoni e Leopardi e tuttavia il romanzo di Manzoni, così come l’alta poesia e il forte pensiero di Leopardi,hanno stentato a farsi conoscere all’estero: Goethe fu tra i primi ammiratori dello scrittore lombardo, a Leopardi dedicò grande attenzione Sainte-Beuve, ma una bella traduzione in inglese dei Canti di Leopardi, a cura di Jonathan Galassi, si è avuta soltanto di recente (2011), e ancora più recente è una traduzione completa dello Zibaldone, a cura di Michael Caesar e Franco D’Intino (2013). La lettura dei Canti in inglese ha spinto il noto critico e divulgatore Harold Bloom, in un nuovo libro sul canone occidentale (2011) a introdurre Leopardi nell’Olimpo dei grandi
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a Parigi per farvi il suo apprendistato, passato poi in Italia durante la prima guerra mondiale e andato poi come professore all’Università di San Paolo in Brasile e infine a Roma; storici o filosofi o letterati o economisti o scienziati come Salvemini, Prezzolini, Borgese, Momigliano, Dionisotti, Modigliani, Fermi finiti in America, Inghilterra, Svizzera in un grande intreccio di esperienze e rapporti (Borgese, in America, sposò una figlia di Thomas Mann); giornalisti e corrispondenti di guerra e di pace dai più diversi Paesi (Alvaro a Berlino al tempo della repubblica di Weimar, dove conobbe Walter Benjamin; Emanuelli in Russia e Cina; Manganelli viaggiatore in India e Maraini residente in Giappone e tanti altri che per conoscere il mondo,girare film – come fecero Antonioni, Pasolini e Bernardo Bertolucci – tradurre poesie e romanzi; tutti superarono sistematicamente le nostre frontiere). Vanno aggiunti, naturalmente, anche scrittori come Pavese e Vittorini che, senza essere mai stati davvero in America (come invece fecero Soldati, Cecchi e Piovene) si nutrirono dei miti culturali di quel Paese; e infine Calvino, che in modo esemplare tracciò il percorso dello scrittore italiano contemporaneo: dall’impegno, anche politico, nel nostro Paese, al lavoro editoriale e creativo presso la casa editrice Einaudi a Torino e Roma, al soggiorno parigino negli anni 1967-1980 in cui condivise le esperienze dello strutturalismo, della narratologia e dell’OuLiPo, ai due importanti viaggi negli Stati Uniti, nel 1959 e nel 1975, preludio al viaggio del 1985 che la morte improvvisa non gli consentì di realizzare e per cui aveva preparato le Lezioni americane, per le Norton Lectures a Harvard.
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di tutti i tempi. Abbastanza tarde sono state anche le traduzioni in tedesco di Nievo e in inglese dei Malavoglia di Verga, nonostante ci si fosse impegnato, per Verga, nientemeno che D. H. Lawrence. Nel Novecento e nel periodo della piena modernità, i Paesi egemoni restarono più o meno gli stessi, con la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi di lingua tedesca, gli Stati Uniti in posizione privilegiata, le città-capitali essendo Parigi, Londra, Berlino, Vienna,New York,gli autori più affermati essendo Proust, Gide, Camus, Sartre, e poi Conrad, Joyce, Virginia Woolf, e poi Thomas Mann, Kafka, Musil, e poi Hemingway e Faulkner. Ci fu anche un progressivo allargamento delle zone di influenza negli altri continenti,in parallelo con le avventure del colonialismo. L’Italia si è andata progressivamente allineata a questo movimento, esprimendo anch’essa scrittori appartenenti pienamente alla modernità, come Pirandello,Svevo e parecchi altri.Diversa la situazione dopo la svolta di metà Novecento e il passaggio dalla modernità solida a quella liquida (Ceserani 2013). In questo periodo, molto complesso, a cui qui posso solo accennare, si è assistito a un indebolimento dei tradizionali centri della produzione culturale dominante e alla scomparsa di molte frontiere, alla forte capacità espansiva della cultura statunitense in tutte le sue ramificazioni mediatiche e con tutti i nuovi mezzi tecnologici,ma anche a un allargamento straordinario delle aree interessate, con effetti importanti di decentramento. Per questo un libro molto importante come quello dello studioso francese Pascale Casanova sulla letteratura mondiale (1999) risulta non privo di contraddizioni, come è stato fatto notare in un bel saggio da Christopher Prendergast (2001): Casanova, pur avendo l’intento Dal punto di vista commendevole di proporre generale storiografico e uno sguardo globale a quella delle fasi principali della che chiama «la repubblica mondiale delle lettere» constoria delle egemonie culturali, quello che si può tinua, magari senza renderconto, a considerare la disegnare è un processo di sene Francia e Parigi al centro di progressivo allargamento quella repubblica. Il panorae mescolamento delle ma è diventato ormai molto ricco e differenziato e ai lingue e delle culture. nomi di alcuni importanti scrittori statunitensi detti «postmoderni» come Pynchon e DeLillo si affiancano scrittori di tutto il mondo, britannici, irlandesi, tedeschi, est-europei, asiatici, africani, sudamericani e anche italiani, come Calvino, Tabucchi e Eco. Dal punto di vista generale storiografico e delle fasi principali della storia delle egemonie culturali, quello che si può disegnare è un processo di progressivo allargamento e mescolamento delle lingue e delle culture: i casi di un Conrad che partendo dalla Polonia mette radici prima in Francia per poi diventare un grande scrittore inglese, profonda-
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mente e anche ideologicamente intriso di cultura anglosassone; o quello di Nabokov che lascia la sua Russia zarista per andare a vivere a Berlino e scrivere in tedesco e poi trasferirsi negli Stati Uniti e diventare un grande scrittore americano,o quello straordinario di Paul Celan che, nato in una città al suo tempo appartenente alla «Grande Romania», da famiglia ebrea di lingua madre tedesca, ha scritto poesie giovanili in romeno, poi si è trasferito a Parigi, quasi mai toccando il suolo della Germania, ma ha scelto di scrivere le sue straordinarie poesie in tedesco, la lingua degli aguzzini nazisti dei suoi genitori; questi casi si moltiplicano, sulla scena mondiale, e anche su quella italiana, all’infinito, prima isolati (esempio: Pressburger), poi sempre più numerosi in seguito alle ondate immigratorie. 2) C’è poi, per l’Italia, una questione che è condivisa da altri Paesi, ma che ha un’importanza particolare per noi: l’esistenza, fin dal tempo dei Romani e della prima unificazione politica estesa a quasi tutta la Penisola, di frontiere interne, oltre a quelle esterne. Si tratta di frontiere linguistiche, culturali, religiose (Cristo si è fermato a Eboli), di costume, di organizzazione teatrale. Esse non seguono le frontiere stabilite artificiosamente dalle divisioni amministrative (regioni, province) dello stato unitario e tantomeno corrispondono a immaginarie regioni padane; sono spesso più ristrette, municipali, e fanno riferimento a numerose città-capitali, che con la loro stessa esistenza dimostrano quanto sia stato artificioso (e ideologico) puntare su Roma-capitale seguendo il modello accentrato di Parigi. La situazione geografico-culturale dell’Italia va tenuta attentamente presente anche nelle sue contraddizioni: per esempio nel contrasto fra la molteplice, differenziata e persistente a lungo presenza di tante parlate dialettali (spesso usate da scrittori grandi e minori per il teatro, da Goldoni a De Filippo, e per la poesia, con poeti grandissimi come Porta, Belli e tanti del Novecento, e per contro una lingua italiana letteraria riservata a fasce ristrette di parlanti e dall’altra parte le spinte nazionaliste, che hanno portato, per esempio, in Dalmazia e Tirolo del Sud, a campagne ingenue e goffe di italianizzazione dei nomi di persone, monti, villaggi).
La geocritica e il rifiuto del nazionalismo letterario —
Gli storici dell’arte sono abituati a ragionare in termini di «scuole», botteghe e tradizioni locali: la scuola senese, quella fiorentina, quella veneziana, l’officina ferrarese. Si tratta di un metodo di ricostruzione storica che tiene conto del fatto che, finché non sono venuti i musei, con le loro sale specializzate (pittura veneta, i fiamminghi), le mostre e le riproduzioni a stampa, i quadri non giravano,e per vedere un Piero della Francesca o un
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Giorgione bisognava poter visitare una chiesa di Arezzo o di un paesino di campagna o poter entrare in un palazzo nobiliare. Diversa la circolazione dei libri. Per questo i tentativi di adottare lo stesso sistema e parlare di «linea lombarda» o «tradizione poetica ligure» o «letteratura triestina mitteleuropea» o «letteratura siciliana» non sempre hanno dato buoni frutti. Ricordo che un giorno, in visita a Londra a Carlo Dionisotti,vidi sul suo tavolo alcuni volumi della collana Letteratura. Regioni d’Italia, Storia e testi, pubblicata dalla Scuola di Brescia e diretta da Pietro Gibellini. Dionisotti, pur pioniere di un’attenzione per la geografia storica dell’Italia, scuoteva la testa. Pensava al suo Bembo, umanista veneziano che abbandonò la sua regione per andare prima a Ferrara e Urbino e poi alla Corte papale e lì proporre una visione accentratrice della lingua e della letteratura del nostro Paese. Forse Dionisotti pensava ai tanti umanisti e letterati che vissero una vita errabonda passando di luogo in luogo, in Italia e all’estero. Pensava, e me lo disse esplicitamente,agli allievi di un nostro liceo figli di qualche funzionario statale, professore o rappresentante di commercio, che si trovassero a studiare in prima liceo a Sassari il volume sulla letteratura sarda (di Giovanni Pirodda), in seconda liceo a Torino quello sulla letteratura piemontese (di Giovanni Tesio) e in terza a Campobasso quello sulla letteratura del Molise (di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli).Diverso discorso andrebbe fatto per l’impresa recente dell’Atlante della letteratura italiana, a cura di Luzzatto e Pedullà (2010), che si avvale dei più recenti esperimenti di geocritica (Westphal 2009). Proprio ai metodi e agli esperimenti della geocritica e al rifiuto teorico dell’utilizzo della letteratura per fondare o rafforzare l’identità nazionale dei nostri Paesi si ispirano tre opere importanti, che si rivolgono non certo al pubblico scolastico, ma al più ampio pubblico della divulgazione culturale. Alludo a una storia delle letterature dell’Europa centro-orientale (Cornis-Pope, Neubauer 20042010), a una delle letterature della penisola iberica, senza più distinzione fra Spagna, Portogallo, Catalogna, Paese basco e altre aree linguistiche e culturali (Cabo Aseguinolaza, Abuín Gonzales, Domínguez, 2010-) e a una di tutte le letterature dell’America meridionale, considerando insieme le culture degli indios, delle ex-colonie spagnole, di quelle portoghesi.Ho analizzato queste opere in un saggio apposito (2013a), che uscirà anche in versione più ampia sulla rivista online dell’Associazione italiana di letterature comparate «Between» [il saggio, dal titolo Nuove storie letterarie sovranazionali sulla scena mondiale, è consultabile all’indirizzo http://ojs.unica.it/index.php/between/article/ view/1045/810, N.d.R]. Si tratta di opere pionieristiche, che possono aprire la strada a nuove forme di studio della letteratura, non più su base nazionale, e quindi anche di insegnamento scolastico.
A scuola? Programmi, strategie, scelte —
A questo punto mi si può muovere un’obiezione: ma come, già abbiamo da fare a scuola, in pochi anni e con poche ore a disposizione, un percorso storico molto lungo, che per la letteratura italiana è più lungo di quello di altri Paesi europei e per di più inizia con le opere di maggiore importanza letteraria, ma anche difficili da leggere per ragioni linguistiche e culturali, e tu mi vieni a proporre un percorso europeo e addirittura mondiale! Come possiamo fare? Provo a rispondere: secondo me è questione di programmazione e strategie conoscitive.Si tratta di fare delle scelte e di farle cercando di dare un senso dell’inquadramento storico generale e poi di fare approfondimenti mirati, su base tematica e su base interculturale. Puntando soprattutto sui confronti con le altre letterature (collegandosi con i professori di lingua straniere,il cui ruolo nella
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• G. Benvenuti, R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, Il Mulino, Bologna 2012. • H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, CDE, Milano 1996. • H. Bloom, Anatomia dell’influenza. La letteratura come stile di vita, Rizzoli, Milano 2011. • H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1979. • F. Cabo Aseguinolaza, A. Abuín Gonzales, C. Domínguez (a cura di), A Comparative History of Literatures in the Iberian Peninsula, Amsterdam, Benjamins, 2010, vol. I. • P. Casanova, La république mondiale des lettres, Seuil, Paris 1999. • P. Casanova, Literature as a World, «New Left Review», 2005, 31, pp. 71-90. • R. Ceserani, La storia della letteratura italiana come romanzo, in «Quaderns d’Italià», Barcelona, n. 16 ‘Francesco De Sanctis (1818-1883). La storia della letteratura italiana, ancora?’, 2011a, pp. 11-19. • R. Ceserani, La scelta fra identità e appartenenza e fra assimilazione e integrazione, in «Scritture migranti», 2011b. 5, 2011, pp. 43-56. • R. Ceserani, Che posto ha la letteratura italiana nel nuovo sistema-mondo?, in «Esperienze letterarie», XXXVII, 4, numero speciale su «Le discipline letterarie e linguistiche in Italia fra Università e nazione (1861-2011)», 2012a, pp. 5-75. • R. Ceserani, Dal conflitto al dialogo fra le lingue e le culture, in: T. Wada, S. Colangelo (a cura di), Culture alle specchio. Arte, letteratura, spettacolo e società tra il Giappone e l’Europa, I libri di Emil, Bologna 2012b, pp. 15-27. • R. Ceserani, Nuove storie letterarie sovranazionali sulla scena mondiale, in «Fictions», XII, 2013a, pp. 13-28. • R. Ceserani, La maledizione degli ismi, in «Allegoria», 65-66, 2013b, pp. 191-213. • R. Ceserani, La crisi della scuola e il nuovo sistema dei saperi, di prossima pubblicazione in «La ricerca», 2013c. Quaderno a cura di Natascia Tonelli. • G. Contini, Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzevirî (1968-1987), Einaudi, Torino 1989. • M. Cornis-Pope, J. Neubauer (a cura di), A History of the Literary Cultures of East-Central Europe, 4 voll., Benjamins, Amsterdam 2004-2010. • G. Folena, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983. • S. Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea, Milano, Rizzoli, 2012. • G. Leopardi, Canti, a cura di F. Jonathan Galassi, Strauss and Giroux, New York 2011. • G. Leopardi, Zibaldone. The Notebooks of Leopardi, a cura di M. Caesar e F. D’Intino, Penguin, London 2013. • F. Longo, Il viaggio di Dante a Parigi. Un mito biografico, in «Studi e testi italiani», 2006, 18, pp. 31-77. • S. Luzzatto, G. Pedullà (a cura di), Atlante della letteratura italiana, Einaudi due volumi finora usciti, Torino 2010. • G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Il Mulino, Bologna 1987. • G. Mazzacurati (a cura di), Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Nistri-Lischi, Pisa 1990. • S. Micali (a cura di), Cospirazioni, trame. Quaderni di Synapsis II, Atti della Scuola Europea di Studi Comparati. Bertinoro, 26 agosto-1 settembre 2001, Le Monnier, Firenze 2001. • C. Prendergast, Negotiating World Literature, «New Left Review», 8, pp. 100-121, poi in IDEM, Debating World Literature, London-New York, Verso, 2001, pp. 1-25. • A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004. • L. Sannia Nowé, M. Virdis (a cura di), Naufragi, Atti del convegno di studi – Cagliari, 8-10 Aprile 1992, Bulzoni, Roma 1993. • M. Valdés, D. Kadir (a cura di), Literary Cultures of Latin America, Oxford University Press, New York 2004. • B. Westphal, Geocritica. Reale – Finzione – Spazio, Armando, Roma 2009.
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uso nelle varie lingue europee e le loro interferenze (sonetti di Petrarca, per esempio, con sonetti di Ronsard, Shakespeare o Góngora), oppure ancora, se si ha sufficiente tempo e impegno, all’uso della prima persona autobiografica da Sant’Agostino a Dante a Montaigne a Rousseau ai moderni e postmoderni, all’uso della terza persona onnisciente nei classici romanzi di Manzoni o Balzac, all’uso della terza persona del narratore nascosto caro a Henry James,ad alcuni curiosi esempi di uso della seconda persona, per esempio nella Modification di Butor, in un racconto di Tabucchi e in parecchie sperimentazioni contemporanee – con tutta una serie di possibili ricadute sulle rappresentazioni della soggettività. Potrei fare molti altri esempi. Quanto alla questione del canone e al modo in cui esso si è realizzato nei grandi libri o nelle antologie, mi pare chiaro che si tratti di un’operazione, tipica di istituzioni come le Chiese o le scuole, esplicitamente o implicitamente autoritaria, tendente a imporre valori religiosi o morali o estetici ai propri lettori e consumatori. Ci sono sia canoni rigidi e prescrittivi, sia canoni molto personali e al limite dell’idiosincratico, come quello proposto da Bloom (1996, 2011), sia anticanoni o tradizioni alternative, come per esempio quella dell’«espressionismo linguistico» proposta da Gianfranco Contini (1989), che punta, in alternativa alla linea classica, a quella che va da Dante a Gadda passando per gli irregolari, i dialettali, gli anticonformisti della nostra letteratura, oppure quella che propone,per il periodo della modernità, di declinare la tradizione dello «sternismo», suggerita da Giancarlo Mazzacurati (1987, 1990), che va dal Foscolo didimeo a Pirandello. Ma se accettiamo l’idea di abbandonare i canoni nazionali più o meno tradizionali, cosa facciamo? Mettiamo su una commissione a Bruxelles o a Strasburgo, che cerchi di stilare la lista degli autori dei 28 Paesi che possano costituire il canone della letteratura europea (lasciando fuori la Svizzera, la Russia e gran parte dei Paesi del Mediterraneo e altri che non ne fanno parte)? È evidente che sarebbe un’operazione suicida. In ogni caso mi pare che sia finito il periodo dei canoni, che ha avuto il suo ultimo momento glorioso al tempo della modernità solida (come istituzione, appunto, assai solida), e che ora si debba pensare a scelte più elastiche e più sensate.
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programmazione scolastica va aumentato e fortemente migliorato) e con le altre forme espressive: le arti, il teatro, la musica, il cinema. Faccio qualche esempio. Prendiamo la Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti (1530) di Luigi Da Porto, come racconto novellistico tipico della società signorile, con precedenti in Boccaccio e altri, e come anticipo tematico dell’amore romantico. Si può istituire con quel testo una serie di confronti significativi, con la Giulietta e Romeo di Shakespeare, con le trascrizioni romantiche e moderne, con le trascrizioni sinfoniche e operistiche, da Čajkovskij a West Side Story di Bernstein, con qualcuno dei film che ne sono stati tratti. Oppure prendiamo il tema della cospirazione e della congiura (Micali 2001): possiamo partire dal racconto biblico della congiura di Assalonne contro re David, per passare al racconto di Tacito della congiura di Bruto e Cassio contro Cesare, alle pagine di Machiavelli, al Giulio Cesare di Shakespeare e a qualche trascrizione filmica e musicale, alle pagine di storici e tragediografi sulle congiure dei Baroni, dei Fieschi e di altre famose del mondo antico e moderno, al racconto che Riccardo Bacchelli ci ha dato della congiura di Don Giulio d’Este e del coinvolgimento di Ariosto, ai saggi di Hofstadter sulla paranoia cospiratoria come malattia delle democrazie contemporanee (trilaterale, P2 ecc.) ai romanzi postmoderni di Pynchon, DeLillo, Eco. Oppure ancora prendiamo il tema del naufragio, partendo da quello classico di Ulisse nell’isola dei Feaci, raccontato nell’Odissea e in tanti altri testi, per poi passare alla novella di Landolfo Rufolo nel Decameron, ai romanzi e ai poemi cavallereschi, alla storia di Sindbad nelle Mille e una notte, alla Tempesta di Shakespeare e al Robinson Crusoe di Defoe, tutt’e tre ritrascritte e variate in molte forme, tanto da dare origine alle riflessioni filosofiche di Hans Blumenberg (1979) e un genere letterario, quello delle Robinsonaden (fino al bellissimo Vendredi di Michel Tournier), e perfino a un genere di barzelletta della “Settimana enigmistica”, con l’omino solo su un’isola deserta, una palma e le più diverse situazioni comiche, per poi passare all’Infinito di Leopardi, al Gordon Pym di Poe, al Moby Dick di Melville, al Pinocchio di Collodi,ai Malavoglia di Verga,alle poesie, ai film, alle metafore sul naufragio del Titanic (fra cui un bel poemetto di Enzesberger), al Signore delle mosche di Golding, a qualche romanzo o film di fantascienza. Se si vogliono fare dei percorsi alternativi, dedicati non ai temi ma ai modi, ai generi e alle forme letterarie,si può,per esempio,mettere a confronto il sistema semantico prodotto dalla rima nelle canzoni, per esempio, di Petrarca, con quello tipico invece della sestina,da Dante allo stesso Petrarca agli imitatori moderni fino a Franco Fortini, o anche fissare le differenze fra i sistemi metrici in
Remo Ceserani è stato professore di Letterature comparate all’Università di Bologna. Per Loescher ha progettato e scritto insieme a Lidia De Federicis Il materiale e l’immaginario.
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Di prossima pubblicazione nei Quaderni della Ricerca, il volume Diventare cittadini europei intende fare il punto sulla dimensione europea nella educazione alla cittadinanza. La presentazione che segue ne anticipa i contenuti. di Paolo Corbucci
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omandarsi perché è importante che la scuola si occupi anche di cittadinanza europea, insieme ai suoi tanti altri compiti, significa interrogarsi sul futuro dei giovani, quelli di oggi e di domani,e cercare una risposta nei valori che vogliamo difendere e costruire per loro, per la loro vita.Al fondo dell’idea di cittadinanza europea, collocata negli incerti scenari contemporanei, vi sono, tra gli altri, i valori della pace, della convivenza e del dialogo,della reciproca comprensione e dello sviluppo, della giustizia sociale e dell’incontro tra culture diverse. Una proiezione verso il futuro, e quindi verso condizioni di cittadinanza globale, che mantenga però la memoria della storia. Come ricorda Filippomaria Pontani1, già Strabone ai tempi di Augusto scriveva che “È dall’Europa che si deve cominciare, perché è multiforme (…) I popoli [europei] possono scambiarsi benefici l’un l’altro: gli uni vengono in soccorso con le loro armi, gli altri con i loro raccolti, le loro conoscenze tecniche, la loro formazione morale. Sono evidenti anche i reciproci danni, quando non si portano aiuto gli uni agli altri”2. Memoria quindi delle divisioni e dei “reciproci danni”, quando l’Europa ancora non c’era,ma anche di un’Utopia antica e feconda. Per evitare altri danni, e non solo agli europei, ma all’umanità intera.
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solo apprendimento di saperi, di discipline, possedere capacità e abilità, saper pensare… Intelligenza è anche operare con giustizia. Essere ammirevoli come esseri umani”, ci insegna Howard Gardner4. Tanto più questo deve valere per i cittadini europei, che dovranno operare per superare le divisioni e per creare inclusione sociale, davanti soprattutto al fenomeno delle migrazioni. La Raccomandazione del Parlamento Europeo del 18 dicembre 2006 delinea quelle competenze chiave – una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate al contesto – necessarie “per la realizzazione e lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione”; in particolare, quelle più funzionali alla cittadinanza europea sono le conoscenze, le abilità e le attitudini legate alle competenze sociali e civiche. Tra di esse vi è il riferimento a come l’identità culturale nazionale interagisca con l’identità europea, ma ce ne sono anche altre che riportano la riflessione sui valori della cittadinanza europea: negoziare; creare fiducia; sviluppare attitudine alla collaborazione; avere interesse per lo sviluppo socioeconomico e la comunicazione interculturale; apprezzare la diversità; rispettare gli altri; superare i pregiudizi; conoscere e fare propri i concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, diritti civili; impegnarsi con gli altri nella sfera pubblica; maturare solidarietà e interesse per risolvere i problemi che riguardano la collettività.
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Per questi obiettivi la scuola può fare molto. Da qui l’idea di un libro, un nuovo Quaderno della Ricerca (curato insieme a Michela Freddano), che raccolga, senza tesi precostituite, esperienze, proposte e risorse da usare in classe,con gli studenti,per progettare percorsi didattici e individuare metodologie efficaci; per discutere, confrontarsi e affrontare problemi cruciali per l’idea di cittadinanza europea. Come quelli che si è posto Roberto Antonelli3 riguardo all’esistenza o meno di una letteratura europea: “In che senso e in che limiti si può parlare di ‘Letteratura europea’ per un complesso che non si esprime in una sola lingua? E se esistono elementi unitari, in che modo si compongono con le diversità dei singoli componenti? A quale tipo di lettura e di fruizione rimanda un complesso eventualmente caratterizzato da una miscela di elementi unitari e di diversità linguistiche e formali? Insomma e infine, la “Letteratura europea” è la somma delle varie letterature nazionali, senza nessun attraversamento e nessuna aggiunta a quanto preesiste nelle singole parti staccate, o è qualcosa di unitario, qualcosa di più rispetto alla diversità delle sue componenti?”. Un Quaderno per interrogare quindi il mondo della scuola su come diventare cittadini europei, a partire dalle domande a cui diversi autori hanno cercato di rispondere: qual è la storia dell’idea di cittadinanza europea? Esistono delle radici culturali europee? Può esserci una lingua dei cittadini europei? Cosa fa la scienza per la cittadinanza europea? Come immaginare la costruzione sociale di un progetto di convivenza? Come passare dall’idea di cittadinanza europea a quella di cittadinanza globale? Quali interventi di formazione professionale servirebbero ai docenti per costruire percorsi di educazione alla cittadinanza? Dove collocare questi ultimi all’interno dei curricoli scolastici e dell’offerta formativa delle scuole? E ancora: quali competenze specifiche richiede l’esercizio effettivo della cittadinanza europea? Oppure: quali risorse e strumenti, di vario genere, sono già a disposizione dei docenti per progettare e praticare percorsi di educazione alla cittadinanza europea? Il Quaderno della Ricerca intende sostenere l’impegno didattico degli insegnanti nello sviluppo delle competenze di cittadinanza, quella europea in particolare, con l’obiettivo di suscitare interesse e senso di responsabilità tra i giovani per il loro futuro, di fornire conoscenze e attivare comportamenti e partecipazione, nelle classi e aule-laboratori del futuro, come sono quelle scolastiche, e fuori dalla scuola, nei diversi contesti sociali. Per questo c’è un nesso inscindibile tra gli obiettivi della cittadinanza europea e una scuola che voglia non soltanto informare sull’Europa, ma che punti a dare competenze e strumenti per esercitare comportamenti attivi ispirati a quei valori e sostenuti dalla conoscenza, dal sapere. “Intelligenza? Non è
Un’agenda europea poco condivisa —
Più di recente, la Commissione Europea ha adottato, nel giugno del 2016, la New Skills Agenda for Europe,che prevede una revisione della Raccomandazione sulle competenze chiave, con un accento su abilità più elevate e complesse, sulla promozione della mentalità e delle competenze imprenditoriali per l’innovazione,sulla creatività e sul pensiero critico. Quanto si conosca e sia penetrato nelle scuole di questi documenti, e quanto soprattutto si stia facendo per tradurli in pratiche didattiche reali, è un problema che dovremmo porci. A partire da una riflessione sull’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, indicato spesso come riferimento e spazio ideale per la praticabilità di percorsi di educazione alle cittadinanze in genere (compresa quindi quella europea), ma nello stesso tempo condannato nei fatti,per ora,a una dimensione ai limiti della marginalità, se non dell’assenza. Eppure, come ricorda nel Quaderno anche Luciano Corradini, “Cittadinanza e Costituzione”, erede ugualmente poco fortunata dell’“Educazione civica”, è stata inserita negli ordinamenti scolastici prima da una legge del 20085 e poi soprattutto dai tre Regolamenti – per gli istituti professionali, per gli istituti tecnici e per i licei6 – di riordino della scuola secondaria di secondo grado, nel 2010, e dalle Indicazioni nazio-
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nali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, nel 20127. In attesa di possibili mutamenti delle condizioni di effettiva praticabilità dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, rimane attuale e utile il Documento d’indirizzo del 4 marzo 2009, con i suoi ripetuti riferimenti ai principi e ai documenti europei: insieme a una circolare dell’anno successivo8 indica agli insegnanti un possibile sillabo di contenuti formativi finalizzati all’educazione alla cittadinanza, compresa quella europea. Un contributo all’elaborazione di un sillabo aggiornato, da utilizzare nella pratica didattica, è inoltre già nelle indagini internazionali sull’Educazione Civica e alla Cittadinanza (ICCS - International Civic and Citizenship Education Study), condotte dall’International Association for the Evaluation of Educational Achievement (IEA), su cui nel volume si soffermano in particolare Laura Palmerio ed Elisa Caponera. Anche nell’ultima ricerca IEA, i cui risultati saranno resi noti nell’autunno di quest’anno, si ribadisce la necessità di integrare le conoscenze (per puro esempio: la dimensione europea e internazionale delle principali questioni economiche, politiche e sociali; i diritti e i doveri dei cittadini; le carte costituzionali e i documenti europei fondanti; il funzionamento degli istituti e le prospettive dell’Unione europea) con abilità e competenze frutto dell’elaborazione critica e dell’applicazione in contesti reali. Anche negli altri Paesi è avvertita quindi l’urgenza di interventi didattici che suscitino comportamenti responsabili ispirati ai valori della cittadinanza europea, e quindi ai principi della
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Diventare cittadini europei: Idee, strumenti, risorse per un’educazione consapevole all’Europa A cura di Paolo Corbucci e Michela Freddano
democrazia nei diversi contesti con cui i giovani interagiscono – a partire, come nel caso dei bambini della scuola dell’infanzia e primaria – dalla stessa vita della classe, per puntare, gradualmente, alla dimensione europea della cittadinanza e a quella globale. In ogni caso le diverse indagini, e anche un provvisorio bilancio complessivo, possono confermare che non siamo all’anno zero.Importanti esperienze ben note alle scuole stanno dando da tempo un contributo determinante all’acquisizione, tra i giovani, di una cultura dell’appartenenza all’Europa; basterà ricordare gli effetti prodotti sui giovani nel corso degli anni dal programma Erasmus (ne parla Giulio Saputo nel Quaderno della Ricerca di prossima pubblicazione), progetto eponimo per definire quasi un’intera generazione; oppure si deve ricordare la spinta in oltre il 60% delle scuole italiane che viene dalla diffusa partecipazione alle attività di eTwinning, «il più importante strumento per creare lavoro cooperativo tra i differenti sistemi educativi europei»9 e per educare ai valori della cittadinanza attraverso « the philosophy of project» così sintetizzata da Jonathan Hill: «Small action big change»10 . Le apparentemente piccole azioni, in questa visione, sono infatti gli interventi messi in atto dai docenti e dai sistemi scolastici, e il grande cambiamento conseguente è rappresentato dalla conquista da parte dei giovani di un effettivo senso di appartenenza all’Europa,dall’acquisizione vitale, e non solo giuridica, della cittadinanza europea.
Un Accordo di Programma per la formazione dei docenti —
Consapevoli che questo obiettivo andasse perseguito con più decisione, quattro istituzioni – la Commissione Europea in Italia, il Ministero dell’Istruzione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Parlamento Europeo in Italia – hanno dato vita nel gennaio del 2015 a un progetto, contenuto in un Accordo di Programma 11 , che ha avviato un’iniziativa congiunta per la formazione dei docenti italiani sul tema della cittadinanza europea. I firmatari, in accordo con i rispettivi ruoli, hanno condiviso “l’obiettivo di fornire agli insegnanti italiani la conoscenza e gli strumenti necessari per sviluppare la dimensione dell’educazione civica europea nelle scuole”, con la convinzione che un piano di formazione mirato e generalizzabile è indispensabile per portare a sistema tanti interventi frazionati; le diverse variabili che interagiscono con azioni di formazione alla cittadinanza europea sparse e contingenti mettono infatti in dubbio la loro stessa efficacia e la ricaduta complessiva sull’intero sistema scolastico. L’Accordo ha prodotto la sperimentazione di un progetto di formazione per i docenti elaborato e verificato dal basso, con la partecipazione di
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NOTE 1. In un intervento letto a Cividale del Friuli il 22 ottobre 2016 al teatro “A. Ristori” e inserito nel Quaderno della Ricerca Loescher che questo articolo anticipa.
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2.Strabone,Geografia II 5,226; trad.F.Cordano – G.Amiotti, Tored, Tivoli 2013. 3. Roberto Antonelli è stato professore ordinario di Filologia romanza all’Università di Roma «Sapienza» ed è socio nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei e e membro del Consiglio di Presidenza. 4. In Sapere per comprendere, Feltrinelli, 1999. 5. La legge 169 del 30 ottobre 2008 che ha convertito il decreto-legge 137 del 1 settembre 2008. 6. D.P.R. 87 del 15 marzo 2010; DPR 88 del 15 marzo 2010; DPR 89 del 15 marzo 2010. 7. D.M. 254 del 16 novembre 2012. 8. C.M. n. 86 del 27 ottobre 2010. 9. Giudizio di Marc Durando, Direttore di European Schoolnet, durante l’“High-Level Meeting on active citizenship and tolerance. How can eTwinning tools contribute to implementing the Paris Declaration”, tenutosi a Bruxelles il 22 ottobre 2015. 10. Jonathan Hill, allora Capo di Gabinetto del Commissario Navracsics, nella sua Introduzione alla Dichiarazione di Parigi, nel sopra citato High-Level Meeting on active citizenship and tolerance. How can eTwinning tools contribute to implementing the Paris Declaration, Bruxelles, 22 ottobre 2015. 11. Accordo di Programma “La dimensione europea nell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione” sottoscritto il 20 gennaio 2015 a Roma dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, dal MIUR - Direzione generale per gli Ordinamenti scolastici, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Politiche Europee, dall’Ufficio per l‘Italia del Parlamento Europeo. 12. Cfr. innanzitutto l’art. 1 comma 124 della legge 107 del 13 luglio 2015, la Direttiva Ministeriale n. 170 del 21 marzo 2016, la nota MIUR n. 2915 del 15 settembre 2016 e il Piano Nazionale per la Formazione dei Docenti 20162019 presentato il 3 ottobre 2016. 13. Il PON Scuola 2014-2020 stato presentato il 31 gennaio 2017; si basa su 10 azioni e filoni di intervento ed è finanziato con 830 milioni di euro destinati ai singoli bandi relativi ai dieci temi individuati dal Ministero: competenze di base,competenze di cittadinanza globale,cittadinanza europea, patrimonio culturale artistico e paesaggistico, cittadinanza e creatività digitali, integrazione e accoglienza, educazione all’imprenditorialità, orientamento, alternanza scuola-lavoro, formazione degli adulti.
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insegnanti di diversi ordini di scuola, di esperti e di rappresentanti delle istituzioni in partenariato. La terza parte del Quaderno della Ricerca illustra il progetto, finanziato e sostenuto dall’Ufficio di rappresentanza in Italia della Commissione Europea, come esempio modellabile per un intervento più ampio, che parta dalle ipotesi conclusive. Queste ultime sono state il frutto di una sequenza di fasi: analisi dei bisogni, progettazione degli obiettivi e del percorso, ricerca, confronto, elaborazione per gruppi, applicazione di verifica su un gruppo di confronto, revisione e valutazione degli esiti, riscrittura del progetto iniziale. Gli effetti prodotti sulla formazione e sulla crescita professionale dei docenti, rispetto agli obiettivi, sono presentati e discussi nel Quaderno da Michela Freddano. La possibilità di tradurre il modello di formazione scaturito dall’Accordo di programma del 2015 in un’azione più ampia a livello nazionale appartiene alle scelte delle istituzioni e all’autonomia scolastica, ma ha fin da ora un sostegno concreto da una parte nell’impulso dato alla formazione dei docenti da alcune norme recenti12 e, dall’altra, nei mezzi specifici destinati anche alle competenze di cittadinanza europea messi a disposizione dal Piano Operativo Nazionale (PON) Scuola 2014-201013 di cui riferiscono Anna Maria Leuzzi e Giovanna Grenga nella parte dedicata alle esperienze e alle risorse. I fondi del PON Scuola rappresentano uno strumento decisivo di raccordo operativo tra obiettivi generali di sistema e l’autonomia scolastica, ma a questo strumento devono accompagnarsi altre misure e considerazioni altrettanto strategiche. Per esempio, sarà essenziale continuare a costruire comunità di docenti e di studenti permeabili, circuiti quindi di scambio di esperienze, di pratiche, di proposte. A garanzia di sviluppi fruttuosi dovrebbe valere il riferimento più che all’Unione europea così come realizzata finora, ai valori che identificano l’Europa, all’esempio di chi ha creduto nei suoi ideali e nella sua necessità. Inoltre serve anche il dissenso, oltre che il dibattito, sull’Europa per costruire cittadinanza, perché crea confronto, approfondimento, scoperte, consapevolezza e coinvolgimento, attraverso il principio cardine del dialogo. Si tratta infine di superare un certo “presentismo”, dettato dai pressanti problemi attuali e dalla prepotente spinta dei social media, e di guardare sia alla memoria storica sia agli scenari contemporanei, domandandosi per esempio come sarebbe il futuro senza Europa; con un approccio controfattuale, chiedersi quindi cosa significherebbe non essere più cittadini europei.
Paolo Corbucci già docente di Lettere e preside nelle scuole superiori, dal 2011 lavora al MIUR, dove segue le iniziative che riguardano l’insegnamento e la promozione dell’italiano, le attività relative a Cittadinanza e Costituzione e all’educazione europea, i progetti sulla cittadinanza – in collaborazione con la Camera, il Senato, il Ministero della Difesa –, gli ordinamenti liceali, l’Esame di Stato, l’educazione economica e finanziaria, l’alternanza scuola-lavoro. Ha curato l’elaborazione per l’Italia dei Supplementi Europass al Certificato; è docente del Master in Management dei Beni Culturali dell’Università di Roma Tre.
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Per una cittadinanza federale
di Pier Virgilio Dastoli
La ricerca / N. 12 Nuova Serie. Maggio 2017
Saperi / Per una cittadinanza federale
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È arrivato il momento di avviare un processo di rifondazione dell’Unione europea, necessaria non soltanto per permettere il suo ampliamento, ma anche per darle i mezzi per rispondere ai più gravi problemi di quest’inizio di secolo. Ancora un’anticipazione del prossimo Quaderno della Ricerca, Diventare cittadini europei.
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ll’inizio ci furono soltanto dei codici di doveri: il Codice di Hammurabi del diciassettesimo secolo a.C., i Dieci Comandamenti del tredicesimo secolo a.C. e le Dodici Tavole della Legge del quinto secolo a.C.. Dovere e diritto, si diceva, sono come padre e figlio: non c’è padre senza figlio ma è il padre che genera il figlio e il dovere viene prima del diritto.Più tardi ci fu la rivoluzione copernicana delle dichiarazioni dei diritti fondamentali. Copernico “fece girare” i pianeti intorno al Sole: il Bill of Rights del 1689, la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati americani del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 1789 fecero del cittadino il perno dei sistemi giuridici moderni. Non più sudditi e dunque sottomessi all’autorità pubblica, ma stato giuridico soggettivo che attribuisce alla persona diritti civili e politici. La cittadinanza, nell’antica Grecia, era inizialmente legata al vincolo di appartenenza a una città, ma già negli “Stati federali”, come la Lega Achea, i cittadini avevano una doppia cittadinanza: quella federale e quella municipale. Nell’antica Roma la civilitas designava l’appartenenza alla civitas, ma progressivamente la cittadinanza romana fu estesa prima a tutti gli abitanti della penisola e poi – con la Costituzione Antoniniana del 212 d.C. – a tutti i “liberi” dell’Impero. I diritti dei cittadini,affermati nelle costituzioni nazionali, sono ora riconosciuti e proclamati al di là delle frontiere nazionali, e la dottrina del diritto internazionale ne è stata sconvolta perché ogni individuo è divenuto un soggetto della comunità internazionale, mentre prima lo era solo negli
Stati-nazione sovrani. Questo percorso – di valori e di diritti – è stato segnato da cinque tappe, che è utile ricordare oggi per far capire l’evoluzione del concetto di cittadinanza: • la costituzionalizzazione dei diritti,e cioè la loro iscrizione nelle Costituzioni nazionali e dunque l’affermazione del loro carattere vincolante e della loro “giustiziabilità”; • l’ampliamento del loro campo di azione dai diritti civili, politici e del cittadino ai diritti economici, sociali e culturali; • l’universalizzazione dei diritti e cioè il loro riconoscimento a livello internazionale e la loro protezione al di là della cittadinanza statuale; • la specificazione dei diritti e cioè la loro affermazione riguardo al genere (uomo/donna/orientamento sessuale),le fasi differenti della vita (bambino/anziano), delle condizioni di speciale difficoltà (malato/portatore di handicap); • la protezione dei diritti collettivi che concernono lo sviluppo della democrazia locale e della democrazia partecipativa,i diritti delle minoranze, i diritti dei popoli e l’affermazione di importanti diritti economici e sociali. In questo percorso si colloca come ultimo tassello di un mosaico ancora da completare la Carta dei diritti dell’Unione europea, adottata a Nizza nel dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre di nove anni dopo. Essa mette sullo stesso piano i diritti della prima generazione (civili e politici) con quelli dell’ultima generazione (economici e sociali) valorizzando “in linea di principio” questi secondi diritti. Essa appare inoltre “costituzionalmente” superiore al Trattato di
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compagnia con molti Paesi della cosiddetta “nuova Europa”, come la Bulgaria e la Romania. Secondo l’Eurostat esistono, dunque, nell’Unione europea, quarantuno milioni di cittadine e cittadine in stato di grave deprivazione materiale disegualmente distribuita fra regione e regione, aree interne rurali e zone industriali, Stati del Nord e Stati del Sud, Stati centrali e Stati periferici. La povertà, ovvero l’impossibilità di accedere ad alcuni beni immateriali e materiali essenziali, è tuttavia solo una parte del problema, perché il dato più significativo per le istituzioni europee, nazionali e locali, dovrebbe essere quello relativo all’esclusione sociale,in cui alla grave deprivazione materiale si aggiungono la povertà monetaria e il basso o inesistente livello di attività lavorativa in un nucleo familiare. Chi vive in uno stato permanente e potenzialmente irreversibile di esclusione sociale diventa un non-cittadino, creando così una situazione di palese violazione dei trattati i quali, pur avendo limitato la lotta alla povertà ai soli rapporti dell’Unione con il resto del mondo senza inserirla fra le politiche interne, hanno tuttavia affermato l’eguaglianza dei cittadini oltre a quella degli Stati fra i valori fondanti della stessa Unione. Contrariamente ad altre epoche della storia dell’Europa, in cui il diritto prevedeva e regolamentava la distinzione fra cittadini e non cittadini, l’evoluzione con la Carta dei diritti del livello di protezione dei diritti nell’Unione e l’obbligo degli Stati membri di rispettare trattati e convenzioni internazionali cui essi hanno aderito (come la Carta sociale riveduta di Torino del Consiglio d’Europa) ha eliminato la distinzione fra cittadini e non-cittadini, poiché l’universalizzazione dei diritti (“il diritto di avere diritti”) coinvolge oggi
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Lisbona, perché l’Unione trova le sue fondamenta nel rispetto dei diritti riconosciuti nella Carta, e dunque sono le norme del Trattato (e soprattutto quelle sul funzionamento dell’Unione) che devono esser conformi alla Carta. Abbiamo detto “in linea di principio” perché i diritti economici e sociali fanno parte della categoria di quelle che, al tempo dell’Assemblea costituente, furono definite norme programmatiche, che richiedono un ruolo attivo da parte delle autorità pubbliche. Possiamo dunque parlare di una valorizzazione “in linea di principio” perché la crisi prima finanziaria e poi economica scoppiata dieci anni fa ha provocato la devastazione della dimensione sociale dell’Unione europea, mettendo in secondo piano la protezione dei diritti e privilegiando la dimensione dell’economia e della finanza. Ogni anno, gli istituti nazionali di statistica forniscono numeri e percentuali dei poveri in Europa (o, meglio, nell’Unione europea), ma i numeri e le percentuali – basati su indicatori che hanno la pretesa di avere un fondamento scientifico – non danno una misura politicamente ed economicamente significativa dei cittadini e delle cittadine che vivono in uno stato permanente di esclusione sociale. Se ci si affida all’Eurostat, e cioè all’Ufficio statistico dell’Unione europea, che fonda numeri e percentuali su quella che viene chiamata “grave deprivazione materiale” ovvero l’incapacità di poter disporre di beni comuni essenziali, i cittadini e le cittadine che vivono in questa situazione, e che rischiano di rimanerci irreversibilmente senza l’intervento delle autorità pubbliche, sarebbero percentualmente diminuiti in tutta l’Europa occidentale – nonostante la permanenza irrisolta della crisi – con l’eccezione dell’Italia, che è in cattiva
H. Rousseau, La Torre Eiffel al tramonto, 1910, Houston Museum of Fine Arts. ↓
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→ R. Dufy, La Tour Eiffel, 1935, collezione privata svizzera.
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Saperi / Per una cittadinanza federale
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tutte le persone che – a qualunque titolo – stanno all’interno del territorio dell’Unione, a partire dal primo dei diritti, che è quello fondato sulla dignità umana (art. 1 della Carta dei diritti). Poiché la mancanza di beni comuni materiali e immateriali che ha colpito l’Unione europea negli ultimi nove anni ha creato un gap intollerabile fra i valori essenziali e la realtà delle politiche comuni, è urgente e necessario fornire idee e proposte (si diceva una volta “un piano”) per superare questo dislivello,al fine di abolire la categoria dei “non-cittadini”. Se si accetta il punto di vista secondo cui la democrazia è il luogo in cui vengono garantiti beni comuni, la riflessione e le proposte devono andare nella direzione di ridefinire la cittadinanza europea alla luce del diritto alla dignità umana. In questo spirito, essa non può che essere transnazionale, andando al di là dei limiti in cui essa è stata concepita prima dal Trattato di Maastricht e poi confermata nei trattati successivi, fino al Trattato di Lisbona. La Carta dei diritti dell’Unione europea come fonte di interpretazione costituzionale al di sopra dei trattati, così come appare sempre di più grazie allo sviluppo del “federalismo giudiziario”, rappresenta lo strumento principale per dare sostanza alla cittadinanza transnazionale, e la sua piena applicazione consente di evitare la divisione della società in cittadini e non-cittadini. È arrivato il momento di avviare un processo di rifondazione dell’Unione europea: questa rifondazione è necessaria non soltanto per permettere il suo ampliamento, ma anche per darle i mezzi per rispondere ai più gravi problemi di quest’inizio di secolo. Senza questa rifondazione l’Unione rischia
di diventare una zona di libero scambio senza regole e dunque senza solidarietà. Nessuno Stato europeo può illudersi di riuscire ad affrontare da solo le grandi sfide globali: mondializzazione degli scambi e/o possibili crisi economiche e finanziarie globali; le diseguaglianze e la povertà, il cambiamento climatico, il degrado ambientale e le politiche energetiche; le dinamiche dei mercati finanziari, la fiscalità e la sua elusione; i crescenti flussi migratori, le politiche dell’asilo e dell’integrazione; la lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale. E nessuna azienda europea, confidando solo nelle anguste risorse e nelle politiche nazionali, può competere con successo contro i giganti dell’economia globale. L’obiettivo, l’esplicito traguardo della prossima riforma non può che essere una federazione europea: non un super-Stato, bensì una Comunità federale. È difficile, probabilmente impossibile, arrivarci emendando gli attuali Trattati: va predisposto un nuovo Trattato che doti tale entità delle opportune competenze esclusive, in tutti i settori dove l’azione dei singoli Stati risulti inadeguata, delineando un vero sistema costituzionale che le consenta di esercitare tali competenze con efficacia e metodo democratico. A queste modifiche dell’assetto costituzionale dovrà accompagnarsi l’introduzione di una vera e propria cittadinanza europea federale,svincolata e autonoma dalle cittadinanze nazionali così come, del resto, avviene in tutti i sistemi federali.
Pier Virgilio Dastoli è presidente del Movimento Europeo in Italia.
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saperi
La curiosa storia della bandiera europea Perché sulla bandiera dell’Europa vi sono dodici stelle dorate disposte in cerchio su uno sfondo blu? È una domanda legittima perché nel 1955, quando l’emblema fu adottato, gli Stati membri dell’Unione erano quindici. La risoluzione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa riunito a Parigi l’8 dicembre offriva questa spiegazione: «Sullo sfondo blu del cielo del Mondo occidentale, le stelle rappresentano i popoli dell’Europa in un cerchio, simbolo di unità. Proprio come i dodici segni dello zodiaco indicano l’intero universo, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa, compresi quelli che non possono ancora partecipare alla costruzione dell’Europa nell’unità e nella pace».Il numero dodici fu quindi motivato come «simbolo di perfezione e completezza» e il campo blu come un richiamo al cielo di Ponente, in opposizione alla simbologia del Sol Levante con cui si indica l’Oriente. Trent’anni dopo però si è scoperta una storia diversa. Superati ormai gli ottant’anni, il grafico alle dipendenze dell’ufficio stampa del Consiglio il cui progetto era risultato vincente fra i 101 presentati si decise a confessare le vere motivazioni delle sue scelte. Si chiamava Arsène Heitz, un belga nato a Strasburgo nel 1908, cattolico fervente e particolarmente devoto alla Madonna, la cui Medaglia Miracolosa che portava sempre al collo era stata per lui fonte di ispirazione. Questa medaglia, detta anche Medaglia delle Grazie o Medaglia dell’Immacolata, fu realizzata nel 1830 in base alle indicazioni di santa Caterina Labouré, una novizia nel convento delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli in
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rue de Bac a Parigi, istruita in tal senso dalla Madonna stessa durante la prima delle sue apparizioni nell’epoca contemporanea, antesignana di quelle di Lourdes e Fatima. Su un lato della medaglietta, in effetti, compare la figura della Madonna come la vide Caterina Labouré, con il manto blu, un’aureola stellata e, sotto i piedi, un serpente, simbolo del male; dall’altro le dodici stelle circondano una croce sormontata da una M ad indicare la Madonna. Ma neppure questa sembra essere l’immagine originaria. Come ha spiegato René Laurentin, il teologo francese esperto in apparizioni mariane, la visione di suor Caterina fu probabilmente l’epifania di un celebre passo del dodicesimo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una Donna vestita di Sole, con la Luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». La bandiera europea nasconde quindi un criptico messaggio simbolico mariano? È frutto di un intrico teologico in stile Dan Brown? Sembra pensarlo ad esempio René Laurentin, che vede nella vicenda un segno della Provvidenza divina e più in particolare dell’impegno diretto della Madonna per la salvezza del mondo contemporaneo, un’evidenza a suo avviso confermata dal fatto che l’8 dicembre, il giorno in cui nacque la bandiera, è anche la festa della Immacolata Concezione di Maria. Un altro intellettuale cattolico, Vittorio Messori, si è chiesto se questa non sia «una di quelle ironiche astuzie della Storia di cui parlava Hegel», mentre sul fronte laico, il filosofo Michel Onfray vi ha scorto un subdolo attentato clericale alle istituzioni comunitarie,particolarmente grave in Francia,dove la legge vieta l’esposizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici. Per quanto futile, il dibattito divenne accanito nei primi anni del nuovo Millennio, nella fase di elaborazione della Costituzione europea, giustificando così una ricerca storica specifica. In extremis fu raccolta la testimonianza di Paul M. G. Lévy, direttore negli anni Cinquanta dell’ufficio stampa del Consiglio d’Europa. Risulta che fu la Germania a opporsi a una bandiera con quindici stelle, perché a quell’epoca uno dei membri era la Saar, un territorio tedesco ancora occupato dai francesi. Per analoghi motivi l’ipotesi di quattordici stelle fu bocciata dalla Francia, mentre il tredici fu scartato per l’impossibilità di proporlo nei Paesi mediterranei, dove è forte la convinzione che porti sfortuna. Contò quindi più la Provvidenza o la scaramanzia?
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Saperi / Cinque poesie di Elisa Biagini
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Cinque poesie di Elisa Biagini La prima poesia, tratta da L’ospite, ha il titolo in inglese ed è in lingua italiana. La seconda, in inglese, proviene dalla sezione La sorpresa nell’uovo, contenuta in Nel bosco. La terza è tratta dal libro Da una crepa, dalla sezione Dare acqua alla pianta del sognare (dialogo con Paul Celan): un “esperimento di dialogo attivo con un poeta amato”, spiega l’autrice, “testi costruiti intorno a singoli versi del poeta tedesco, allontanati dal contesto originario e usati come micce per scatenare una nuova deflagrazione poetica”. Le ultime due poesie, Calamita e Magnet, l’una il testo a fronte dell’altra, sono inedite.
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don't talk with strangers Nonna, mano di lupo, apri la tua voce, apri la mia gola per riempirmi anche meglio di cibo, per usarmi le corde per stendere i panni, per fare di me aruspicina: e che tutto sia in tono (da vera signora), il sugo di pomodoro, il sangue, i miei calzini.
*** I’ll put an egg inside for later–in a never-searched pocket–, a cut tongue that waits for me: the last thing I’ll eat before I go.
*** C’è uno che ha i miei occhi1 li strizza come spugna dopo i piatti, li tira come lenzuoli, li incastra a fermare le porte e da qui ogni passaggio è amaro, come di un vento che ti soffia dritto in bocca.
1 Es ist einer, der hat meine Augen
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Magnet
1. richiamata con quest’osso di rame: suono condotto nel tempo, liberato di radici e verbi in un’unica scossa.
1. summoned with this copper bone: sound carried through time, freed of roots and verbs in a single shake.
2. sotto il tiglio che ronza un arrivo la tua ombra spinge una terra rossa, ricopre ogni parola.
2. under the linden that hums an arrival your shadow pushes a red earth, covers every word.
3. alla cava del respiro cerco pietre color della gola, per fermare le tegole.
3. at the quarry of breath I dig for gullet-colored stones to block the roof tiles
(la roccia e il suono del suo farsi)
(the rock and the sound of its making)
“we are the wilderness” S. Howe
“we are the wilderness” S. Howe
Gerfalco, 1-11 luglio 2016
Gerfalco, 1-11 luglio 2016
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Calamita
Elisa Biagini ha pubblicato sette raccolte poetiche, alcune delle quali bilingui – fra cui L’ospite (Einaudi, Torino 2004), Fiato. parole per musica (Edizionidif, 2006), Nel bosco (Einaudi, Torino 2007), The Guest in the Wood (Chelsea editions, 2013-2014 Best Translated Book Award) e la recente Da una crepa (Einaudi, Torino 2014). Le sue poesie sono tradotte in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese, giapponese, croato, slovacco, russo, sloveno, arabo, serbo e cinese. Ha collaborato e collabora con artisti di varie discipline: musicisti, coreografi, artisti visivi.
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dossier
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Dossier / Come non insegnare l’Europa
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Come non insegnare l’Europa Le incertezze e le incongruenze nel presentare l’Europa sui testi scolastici hanno pesato nel dibattito inglese sulla Brexit. di Francesca Nicola
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i solito in questi Dossier traduciamo riflessioni di autori stranieri, nell’idea che un punto di vista diverso possa contribuire a chiarire i problemi che troviamo a casa nostra. Se questo approccio a volte ha funzionato, in questa occasione, relativamente cioè al problema di se e come il processo di unificazione europeo vada spiegato nelle scuole, si rivela inadeguato. In nessun Paese esiste una pedagogia dell’Europa: non vi sono all’estero buone pratiche o soluzioni didattiche efficaci per risolvere un problema la cui complessità è testimoniata da questo numero della Ricerca. La moltiplicazione dei punti di vista,anzi,diventa in questo caso una difficoltà ulteriore, quasi la sanzione definitiva dell’irresolubilità di certe questioni. Ad esempio quello di offrire agli studenti di tutto il continente un manuale scolastico di storia europea, capace cioè di andare oltre la dimensione nazionale, un’opportunità che se fosse stata messa in atto mezzo secolo fa, alla nascita dell’Unione, avrebbe probabilmente cambiato la storia del continente, come suggerisce Franco Cardini in questo numero della Ricerca.Perché questa meta rimanga ancora oggi irraggiungibile lo spiega l’articolo di Joke van der Leeuw Roord,segretario di EUROCLIO, l’associazione europea degli insegnanti di storia creata nel 1992 dal Consiglio di Europa proprio per favorire la crescita della consapevolezza di una comune appartenenza a partire dalle scuole. Risulta che in realtà sono falliti persino tutti i tentativi di proporre una visione storica unificata a livello re-
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La piazza centrale al parco Mini Europe di Bruxelles.
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→ Il campanile di San Marco e la torre Eiffel al parco Window of the World a Shenzhen, Cina.
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Dossier / Come non insegnare l’Europa
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gionale, specialmente nelle aree problematiche dei Balcani e delle Repubbliche ex sovietiche. Ancor meno confortante è il resoconto fornito da Arnaud Brennetot su come l’Europa è presentata nei testi di geografia politica di diversi Paesi, sia europei sia extraeuropei. Conta non tanto una comprensibile diversità degli approcci, quanto il fatto un po’ paradossale che da una parte l’Europa sia sempre presentata come un’evidente realtà geografica, dall’altra però non vi sia consenso su quali siano i suoi confini fisici. E ancor più incongruente, ma non per questo meno frequente, è presentarla al contempo sia come il risultato pressocché inevitabile di un’evoluzione storica sia come un progetto innovativo funzionale a una rottura con il passato. L’utilità di questo Dossier è in realtà di tipo negativo: spiega come non si dovrebbe insegnare l’Europa, o comunque ciò che non va nel modo in cui oggi generalmente la si insegna. A partire dal non prendere in seria considerazione le argomentazioni contrarie. Da questo punto di vista, infatti, la storia recente mette a
disposizione un’esperienza preziosa, se pur negativa, un vero catalogo degli errori possibili.Mi riferisco al lungo dibattito che ha portato in Inghilterra alla scelta di uscire dall’Unione europea, dibattito durante il quale ampio spazio mediatico hanno avuto sia le prese di posizione di storici, accademici e insegnanti, sia argomentazioni attinenti a come l’Europa è spiegata nei testi scolastici, nell’assunto che tale presentazione sia in qualche modo decisiva per la narrazione che l’Unione fa di se stessa. Non per caso le incongruenze segnalate da Brennetot sembrano imparentate alle argomentazioni di David Abulafia, lo storico ex accademico di Cambridge e strenuo sostenitore della Brexit che abbiamo scelto per dare voce alle tendenze critiche.Una scelta causata dall’autorevolezza del personaggio, ben noto anche in Italia per i suoi studi sul Mediterraneo e sulla storia del nostro Mezzogiorno, per i quali nel 2003 ricevette dal presidente Ciampi l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana. L’esimio professore ha le sue idee: l’Europa è un mito, anzi molti miti, e Carlo Magno fu uno
sterminatore seriale. Si può non condividere. Di fatto, l’articolo che pubblichiamo è diventato il manifesto di Historians for Britain, un combattivo gruppo di accademici favorevoli alla Brexit che ha avuto ampio spazio mediatico nel recente dibattito. Chi vuole approfondire le loro ragioni può farlo al sito historiansforbritainineurope.org. Naturalmente ci sono stati altri accademici inglesi – molti – che non hanno condiviso; alcuni si sono organizzati nel gruppo Fog in the Channel: Continent Cut Off (Nebbia sul canale: continente isolato). Fra tutte le argomentazioni da loro avanzate, spesso molto dettagliate nella ricostruzione storica, abbiamo scelto la breve riflessione, d’ordine più semiotico che storico,di un linguista, Adrian Armstrong. Nonostante questi sia un fervente europeista, è più critica che costruttiva, ma anche più realistica, alla luce del risultato referendario.
Francesca Nicola è dottore di ricerca in Antropologia presso l’Università Bicocca di Milano.
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L’Europa nei manuali: un’identità evanescente Una ricerca sulla descrizione dell’Europa in venti manuali scolastici di geopolitica editi in tutti i continenti mette in luce non poche incongruenze e un forte deficit nell’approccio critico.
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a mia ricerca ha preso in esame la rappresentazione dell’Europa e dell’Unione europea in venti manuali di geografia politica per studenti delle scuole secondarie di otto Paesi sparsi in tutti i continenti: Stati Uniti (6 testi), Francia (5), Russia (1), Brasile (4), India (1), Malta (1), Guinea (1) e Burkina Fasu (1). Ho inoltre considerato Esploriamo l’Europa, l’opuscolo didattico per gli insegnanti disponibile dal 2010 sul sito ufficiale dell’Unione europea. Anticipando in sintesi le conclusioni, va detto che l’approccio comune a tutti questi testi sta nel trattare l’Europa come un’entità reale e già costituita, riducendola però a una lista di aspetti strutturali (i rilevi geografici, gli aspetti climatici e demografici, le tradizioni culturali, le attività economiche e così via), il cui unico punto comune sta nell’essere collocati in un’area convenzionalmente determinata. Questo approccio facilita l’insegnamento sul piano didattico e riduce il rischio di introdurre temi politicamente controversi, ma ha lo svantaggio di presentare l’Unione eu-
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ropea come un progetto politicamente incompleto.
L’approccio tradizionale: l’Europa come continente
— Nei manuali di geografia politica, l’Europa è molto spesso raffigurata come un continente, vale a dire un insieme di elementi apparentemente naturali che si suppone circoscrivano e definiscano una regione del mondo più grande degli Stati-nazione. Ma il concetto di continente appartiene alla tradizione della geografia classica, perché implica una naturalizzazione essenzialista dello spazio: si riferisce all’idea di un mondo strutturato dalla presenza di realtà fisiche su scala regionale che il lavoro scientifico dovrebbe individuare, descrivere e spiegare. Questa naturalizzazione dei confini è spesso usata per reificare l’identità dell’Europa, di cui si parla come una realtà regionale specifica, chiaramente e rigorosamente delimitata in base a criteri fisici. Il più delle volte la si presenta come una penisola circondata da tre aree marine, il Mediterraneo al Sud, l’Oceano Atlantico a Ovest e la frangia
meridionale dell’Oceano Artico a Nord. Ciò pone naturalmente il problema delle isole (Baleari, Canarie, Corsica, Sardegna, Sicilia, Creta e Cipro), sistematicamente indicate come una parte dell’Europa nonostante il fatto ovvio che siano fisicamente separate dal cosiddetto continente europeo e a volte abbastanza lontane da esso, come Cipro o le Canarie. Analoghe considerazioni andrebbero fatte
Dossier / L’Europa nei manuali: un’identità evanescente
di Arnaud Brennetot
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Il concetto di continente appartiene alla tradizione della geografia classica, perché implica una naturalizzazione essenzialista dello spazio.
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per la Gran Bretagna, l’Irlanda e l’Islanda, anche se nessuno dei testi considerati prende in esame tali questioni. Ciò che invece differenzia le carte geografiche è il luogo scelto per fissare il confine orientale dell’Europa. Nella maggior parte dei manuali, gli Urali sono artificialmente evidenziati da una serie di tratteggi a suggerire l’esistenza di una barriera naturale. Al contrario, i monti del Caucaso sono a volte omessi,
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permettendo così di includere il territorio turco nel continente europeo. Questa naturalizzazione dello spazio non considera il fatto che i continenti sono eminentemente costruzioni intellettuali, inventate nel passato da geografi europei per scopi politici e riproposte poi di generazione in generazione per giustificare la visione di ciò che l’Europa e il mondo dovrebbero essere (Grataloup, 2010).
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L’importanza degli Urali: un enigma geopolitico
— Va quindi ricordato che l’abitudine di porre il confine orientale dell’Europa sui monti Urali deriva da una tradizione inaugurata dal geografo russo Vasily Tatishchev (1686-1750) all’inizio del Settecento per sostenere il progetto geopolitico di Pietro il Grande di saldare il suo impero ai destini europei (Foucher 1998, 1999 Lévy 1997). Il fatto che la natura storica di questa deliberazione sia omessa in tutti i testi esaminati può essere interpretato come una forma di opportunismo pedagogico: è più conveniente attenersi a un’uni-
“L’abitudine di porre il confine
orientale dell’Europa sugli Urali deriva da una tradizione inaugurata dal geografo russo Vasily Tatishchev per sostenere il progetto geopolitico di Pietro il Grande. La ricerca / N. 12 Nuova Serie. Maggio 2017
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ca visione dell’Europa e chiedere agli alunni di imparare luoghi e nozioni geografiche, piuttosto che discutere criticamente la fondazione politica e ideologica delle teorie dominanti. Ho trovato tuttavia un’eccezione, un testo di storia della geografia edito in Francia nel 2006 dalla casa editrice Hatier, il Manuel de Première pour classes européennes. Vi si spiega, in modo esemplare per la sua semplicità, che: «da un punto di vista geografico, l’Europa è una penisola
asiatica i cui limiti sono difficili da impostare, in particolare sul versante orientale. Già nel Settecento, i geografi, spinti dallo zar russo Pietro il Grande,hanno stabilito gli Urali come confine orientale del continente, anche se questa definizione è ancora oggetto di molte discussioni». L’attualità di queste discussioni politiche, del resto, appare evidente anche da un confronto fra i libri di testo. In un manuale francese, i limiti orientali sono rimarcati con una stretta linea rossa e in quelli brasiliani da una traccia altrettanto immaginaria e definitoria. È un approccio molto diverso dalla mappa geografica proposta agli insegnanti sul sito web dell’Europa, in cui nessun confine fisico è chiaramente sottolineato a rischio di creare confusione, dato che nella cartina appaiono anche il Nord Africa e il Mar Caspio. Ancor più notevoli sono le differenze nei libri di testo americani. Alcuni non comprendono nella rappresentazione dell’Europa né la Turchia né tutti i Paesi nati dal crollo dell’URSS: le Repubbliche baltiche, la Bielorussia, l’Ucraina e la Moldavia sono considerate a parte, poste in un’area geografica intermedia sotto l’influenza russa. Ma quasi al contrario, in un testo pubblicato da Glencoe, McGraw e Hill la demarcazione dell’Europa esclude solo la Russia, e questo è l’unico caso in cui la definizione geografica dell’Europa viene fatta coincidere con la sua attuale dimensione istituzionale, a costo di prescindere dalla ricerca di uno specifico limite naturale. Ancora diversa è l’immagine dell’Europa presentata sul manuale russo: il suo confine geografico non è collocato sugli Urali ma in una traccia che separa la Polonia, la Romania e gli altri Paesi occidentali dalla Russia, la Bielorussia, l’Ucraina e la Moldavia sul lato orientale. La prima area è etichettata come «Europa straniera» e tutta la rappresen-
tazione suggerisce l’esistenza di un’altra entità europea, posta sotto l’influenza del potere russo, che comprende l’Ucraina, la Bielorussia e la Moldavia.
Il problema della Turchia
— L’indeterminatezza dei confini naturali e l’uso politico delle caratteristiche geografiche appaiono anche nelle rappresentazioni del Bosforo, considerato come il confine naturale del Sud-Est europeo da coloro che si oppongono all’ingresso della Turchia nell’Ue in base alla considerazione che la maggior parte del territorio di questo Stato si trova in Asia. Un argomento, questo, molto usato a livello politico. In realtà, l’incertezza del rapporto fra Turchia e Unione europea appare con chiarezza nel modo in cui questo Stato è rappresentato nei libri di testo. La soluzione più frequente sta nell’attribuirgli due diversi colori, suggerendo così implicitamente che nel Mar di Marmara passi un’invisibile ma reale confine fra Europa e Asia. Alcuni testi francesi tracciano tale confine con una pesante linea rossa, per evidenziare così come la Turchia asiatica sia chiaramente separata dall’Europa. Nei manuali russi e americani, però, anche il territorio turco al di qua del Bosforo, di solito considerato europeo, è chiaramente escluso dal continente e collegato invece al Medio Oriente. L’omissione del fatto che i suoi confini orientali possono essere stabiliti solo con una decisione politica favorisce l’idea che l’Europa sia una reale entità fisica e geografica. È una visione imperfetta, ma costantemente ripetuta, del resto ben presente anche nei testi dei Paesi non europei e radicata in una tradizione storica che risale al Medioevo. I libri di testo hanno una grande responsabilità nel perpetuarsi di questo luogo comune nell’immaginario politi-
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La narrativa storica fra unità e diversità
— Un’altra tendenza molto presente nei manuali è utilizzare vari elementi storici per integrarli in una narrazione provvidenzialistica che fa dell’Europa il prodotto di certi principi essenziali rivelatisi nel corso del tempo. È una lettura teleologica della storia che trasforma alcune caratteristiche del passato in elementi costitutivi o definitori dell’attuale identità europea. Secondo questo approccio, il patrimonio culturale greco-latino e quello giudaico-cristiano si sarebbero mischiati in una civiltà originale, il cui emergere sarebbe legato a uno spostamento del potere geopolitico dal Mediterraneo all’Atlantico del Nord (Braudel, 1979). Questa visione retrospettiva di una Europa spontaneamente emersa come risultato di tendenze storiche di lunga durata è spesso basata su una ricostru-
zione selettiva che enfatizza il ruolo di strutture economiche, politiche, religiose o artistiche per giustificare la graduale affermazione di un’unica entità geografica. Ma se da una parte questa narrativa storica cerca di attribuire un fondamento unitario all’Europa, dall’altra esiste anche un approccio contrario che ne valorizza invece le diversità interne e strutturali. I libri di testo insistono molto su questo aspetto presentando tutti numerose mappe, cartine, fotografie e dati concernenti sia le diversità naturali (rilievi, clima, fauna, vegetazione) sia le differenze linguistiche e religiose, l’ineguale distribuzione della ricchezza e dei flussi migratori, la permanenza di tradizioni locali e del folklore locale. In sostanza, questo approccio rappresenta l’Europa come un patchwork multi-dimensionale: la mancanza di unità culturale, religiosa e linguistica incoraggia i libri di testo a rap-
↑ Il palazzo di Westminster e l’Atomiun al parco Mini Europe di Bruxelles.
Dossier / L’Europa nei manuali: un’identità evanescente
co-sociale: va notato infatti che, quando intendono specificare la realtà dell’Europa aggiornando più o meno inconsciamente il paradigma eurocentrico ereditato dalla tradizione occidentale moderna, molti uomini politici si rifanno proprio a queste rappresentazioni convenzionali, sostenendo che gli alunni di tutto il mondo già a scuola apprendono tali supposte ovvietà. Di fatto, comunque, l’uso politico di questi confini “naturali” può essere funzionale a strategie diverse. Durante la guerra fredda, il presidente francese De Gaulle insisteva sull’immagine di un’Europa estesa dall’Atlantico agli Urali per contestare le politiche egemoniche portate avanti dagli Stati Uniti nell’Europa occidentale. Oggi invece, per lo meno nei manuali scolastici esaminati, la naturalizzazione dei confini appare soprattutto un modo per reificare la realtà europea depoliticizzandone l’identità.
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La torre Eiffel di Las Vegas, Texas. ↓
trascura così il fatto, più volte messo in luce da Amartya Sen (2005, 2007), che l’eredità dell’Antica Grecia e le pratiche democratiche sono condivise con altre tradizioni culturali, presenti ad esempio nei Paesi arabi o in India. E lo stesso si può dire per l’eredità del mondo romano e della tradizione giudeo-cristiana, di cui l’Europa non ha affatto il monopolio esclusivo. La permanenza di queste forme di etnocentrismo non incoraggia gli studenti a prendere coscienza dei dibattiti storiografici ed evita di considerare la varietà delle interpretazioni della storia globale oggi presenti nel resto del mondo. Sotto questo aspetto, è interessante il confronto con le visioni fornite da manuali extraeuropei. L’approccio provvidenzialistico della storia d’Europa è condiviso da tutti i testi statunitensi.Qui l’Europa si presenta come depositaria di un
complesso patrimonio di civiltà e al contempo una reazione ai suoi errori del passato (imperialismo, razzismo, Olocausto); è la speranza di un futuro felice fondato su pace, diritti umani e democrazia. Ma nel manuale indiano la visione dell’Europa, senza essere esplicitamente critica, è di certo meno attraente. Appare come una potenza imperialistica che ha conosciuto il suo apice tra il Settecento e la metà del Novecento, un’epoca in cui ha realizzato l’integrazione di diverse regioni del mondo in un unico mercato globale sotto il suo dominio. Ma si nota anche che dal tramonto dell’imperialismo e del colonialismo, il suo ruolo è diventato molto meno importante nel contesto globale.
L’Europa come progetto politico
— Dopo aver analizzato l’Europa come un continente e delinea-
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Dossier / L’Europa nei manuali: un’identità evanescente
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presentare la diversità come la caratteristica essenziale dell’identità europea, associandola così al valore della tolleranza. In questo modo, però, l’analisi scientifica si trasforma implicitamente in un discorso ideologico sulle virtù della differenza, degli scambi culturali e della complementarità fra gruppi sociali. Da un insieme di dati oggettivi e determinazioni naturali, l’Europa si trasforma in un’entità geografica che realizza le ambizioni sociali e politiche del multiculturalismo. Il testo del Burkina Fasu è particolarmente esplicito nell’associare l’Europa ai valori filosofici della democrazia, del pluralismo e del rispetto dei diritti umani. Combinandosi fra loro,queste interpretazioni selettive della storia vogliono suggerire l’idea che l’Europa sia emersa da un processo storico lineare e provvidenziale il cui fine sta nell’affermazione dei valori liberali. Si
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quasi sempre assente o non sufficientemente trattato. Ne risulta un’immagine depoliticizzata della Ue, pacificata al suo interno e in alcuni casi addirittura romanzata. Da questo punto di vista, tuttavia, è interessante notare una forte differenza tra la maggior parte dei manuali scolastici esaminati e l’opuscolo Esploriamo l’Europa a disposizione degli insegnanti sul sito web della Ue. Qui, infatti, si sottolinea espressamente l’importanza delle norme neoliberiste di governo e si insiste sui valori della stabilità monetaria, della concorrenza e della libera imprenditorialità.
Un deficit nell’approccio critico ai temi europei
— Funzionale alla sterilizzazione politica tipica dei manuali è anche l’enfasi su simboli astratti e disincarnati per via della loro innocenza ideologica e della lontananza dal confronto politico attuale. La bandiera europea, le foto di monete e banconote, i palazzi europei di Bruxelles e Strasburgo sono comunemente utilizzati per incarnare un’immagine unificante e non conflittuale dell’Europa. Anche le varie fasi dell’allargamento della Ue sono spesso illustrate con grafici che suggeriscono lo sviluppo di una grande avventura e la crescita del progetto europeo. Notevole, comunque, è il fatto che questa celebrazione di una ritrovata armonia all’interno della costruzione europea sia diffusa tanto nei Paesi del continente quanto nei manuali pubblicati in Brasile, in India o negli Stati Uniti. In sostanza, i programmi di studio e i libri di testo europei forniscono una visione allo stesso tempo entusiasta e normativa di ciò che l’Unione europea è e deve essere. Gli studenti non sono incoraggiati a discutere o criticare il federalismo o il neoliberalismo delle politiche che hanno caratterizzato l’integra-
Approfondire —
J • F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XV-XVIII siècles, Armand Colin, Paris 1979. • F. Denord, L. Schwartz, L’Europe sociale n’aura pas lieu, Raisons d’agir, Paris 2009. • M. Foucher, Fragments d’Europe. Atlas de l’Europe médiane et orientale, Fayard, Paris,1998. • M. Foucher, La République européenne, entre histoires et géographies, Belin, Paris 1999. • C. Grataloup, L’invention des continents, Larousse, Paris 2010. • J. Lévy,Europe: Une Géographie, Hachette, Paris 1997. • A. Sen, La démocratie des autres, Pourquoi la liberté n’est pas une invention de l’Occident, Payot, Paris 2005.
zione politica dal 1950 (Denord 2009). Va notato, infine, che l’euroscetticismo non è del tutto omesso in questi testi, anche se le sue ragioni non sono mai analizzate in modo approfondito, suggerendo l’idea che la sfiducia nella Ue sia dovuta o all’ignoranza dei suoi obiettivi,o alla resistenza dei nazionalismi novecenteschi o alla riemergenza dei localismi etnici.
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to la necessità storica della sua unificazione, alcuni manuali aggiungono una sezione in cui la considerano esplicitamente come un progetto politico in costruzione. Prima ancora di entrare nel merito di tale progetto,va notata la contraddittorietà di questa sequenza espositiva: o l’Europa è un’entità predefinita, sia per natura sia come esito di una storia plurisecolare, oppure è lo spazio in cui si tenta di costruire un innovativo progetto politico. Non può essere considerata allo stesso tempo come una realtà già esistente e un orizzonte di ambizioni politiche ancora da definire. È una contraddizione epistemiologica in cui pure cade la maggior parte dei testi esaminati, dimostrando così un’inerzia educativa spiegabile sia con la tendenza a evitare le implicazioni politiche più scottanti delle conoscenze geografiche, sia con la propensione, del resto ben radicata nello stesso progetto europeo, a evitare i conflitti ideologici (Denord,2009;Foucher,1999). Quando però entrano nel merito degli obiettivi strategici dell’Unione, i testi scolastici mostrano in genere una significativa reticenza. Va ricordato che già dagli anni Cinquanta la costruzione della Ue si è basata su tre diversi tipi di liberalismo: 1) la promozione della pace e dei diritti umani, conformemente alla tradizione liberal-egualitaria; 2) il rispetto per la tolleranza, in coerenza con i principi del multiculturalismo; 3) lo sviluppo di un’economia di mercato in base alle norme dell’ordoliberismo tedesco, fondato sul libero scambio delle merci, la stabilità monetaria, l’abolizione di ogni ostacolo alla concorrenza e l’assunzione da parte dello Stato di un ruolo di mero garante delle regole. Ebbene, nei libri di testo solo i primi due obiettivi sono ben evidenziati mentre il terzo è
Tratto da: Arnaud Brennetot,Europe representations in text books,in «HAL Archives-ouvertes», 2011, https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00648767. Traduzione di Francesca Nicola. Arnaud Brennetot è maître de conférences in Geografia presso la Università di Rouen e membro della UMR IDEES, un organismo di ricerca afferente al Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS).
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Un testo di storia per gli studenti di tutta Europa?
di Joke van der Leeuw Roord
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La presidentessa di EUROCLIO, l’Associazione Europea degli Insegnanti di Storia, spiega le ragioni per cui questo obiettivo rimane ancora oggi un’utopia.
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a nostra associazione, EUROCLIO, è una fondazione con sede a L’Aia che riunisce più di settanta organizzazioni locali di docenti di storia ed educazione civica sparse in tutto il continente europeo. Si occupa di facilitare l’introduzione delle più recenti innovazioni didattiche nell’insegnamento della storia, dello sviluppo dei curricola scolatici, della formazione degli insegnanti, del controllo della qualità dei libri di testo e dei materiali per i docenti. Già dall’epoca della sua fondazione, nel 1993, EUROCLIO aveva la consapevolezza che, al di là delle specifiche differenze nazionali, l’insegnamento della storia non era supportato da una comune coscienza europea. Tutt’altro: all’inizio degli anni Novanta i testi scolastici di alcuni Paesi presentavano ancora un inconfondibile approccio nazionalistico. La controprova venne in quegli anni del terzo convegno internazionale di EUROCLIO, dedicato all’analisi della conferenza di Potsdam del 1945, in cui gli insegnanti non riuscirono a superare le divergenze nazionali sulla valutazione di quell’episodio storico. Ciò nonostante, la strategia dell’organizzazione era in quel
periodo finalizzata a sviluppare la coscienza dell’importanza dell’insegnamento della storia senza per questo tentare di introdurre elementi di generalizzazione universalmente validi. EUROCLIO si limitava a diffondere buone pratiche didattiche, così come auspicato dalle Raccomandazioni per i Professori di Storia emanate nel 2001 dal Consiglio d’Europa. Un lavoro compiuto di concerto con EUstory,il progetto nato nel 2001 su iniziativa della Fondazione Körber di Amburgo, diventato ora una rete di ventidue fondazioni, finalizzato a promuovere l’educazione alla democrazia e alla cittadinanza europea attraverso lo studio della storia contemporanea. Questi interventi di ordine didattico generale si dimostrarono però del tutto inadeguati. Dalle inchieste periodicamente condotte da EUROCLIO risultò che a partire dal 2000 l’interesse politico per un approccio storiografico di tipo nazionale era andato crescendo nei curricola scolastici di molti Paesi, con una conseguente diminuzione d’interesse per le tematiche europee. Divenne quindi evidente la necessità di un impegno politico in favore di progetti che ponessero la dimensione europea direttamente al centro dell’insegnamento.
La revisione critica dei manuali
— Se esaminiamo retrospettivamente quanto è stato fatto in questo campo, bisogna in primo luogo citare il lavoro di comitati per la revisione dei manuali operanti in Paesi con una storia fortemente apparentata. Vi sono stati due importanti esempi storici di questo tipo di attività. Il primo è stata la Commissione Franco-tedesca per le Questioni Controverse nella Storia d’Europa, creata nel 1951. Il secondo è stato il Comitato Polacco-tedesco, che nel 1975, dopo un lavoro molto lungo e contrassegnato da amare controversie, ha messo a punto le Raccomandazioni per gli estensori dei manuali di geografia e storia nella Repubblica Federale Tedesca e in Polonia. Un lavoro importante, anche se l’implementazione effettiva di queste raccomandazioni era lasciata alla discrezione degli autori e degli editori. L’attività di questi comitati è stata poi recepita dall’Istituto per la Ricerca Internazionale sui Libri di Testo, con sede a Braunschweig in Germania. Dedicata a Georg Eckert, un pedagogista tedesco attivo nella resistenza contro il nazifascismo, questa fondazione svolge analisi sui
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manuali scolastici di numerose discipline in Paesi sparsi in tutto il mondo ed ha come eminente scopo statutario quello di offrire alle autorità politiche ed educative suggerimenti per far sì che i testi scolastici diventino uno strumento efficace nel superare le barriere sociali e le incomprensioni fra gli Stati.
Le pubblicazioni sovranazionali
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Tessalonica, dove si trova la sede del Centro, sono per ora pubblicati in inglese, anche se si spera di renderli disponibili in tutte le lingue parlate nella regione. Per costituire un gruppo di lavoro variegato ma coeso, gli autori, tutti accademici universitari, hanno lavorato assieme a insegnanti di storia nei licei locali.Anche in questo caso, tuttavia, i risultati sono notevoli solo
La torre dell’orologio del Palazzo di Westminster al parco Window of the World a Shenzhen, Cina. ↓
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— La vera sfida nella didattica della storia sarebbe però produrre manuali scolastici e risorse per gli insegnanti di tipo sovranazionale. Ma questa è una questione molto complessa, in cui entrano in gioco numerose variabili. La prima è che gli esperti del Consiglio Europeo si sono sempre opposti all’idea di un testo comune per tutti i Paesi dell’Unione, anche se d’altra parte, seguendo un approccio denominato “costruire la fiducia è importante”, lo stesso Consiglio Europeo si è fatto promotore di due testi unificati a livello regionale, relativi cioè ad aree particolarmente problematiche. Il primo, pubblicato nel 1999 con il titolo History of the Baltic Countries, descrive la storia di Estonia, Lettonia e Lituania. Ben disegnato, pensato per un vasto pubblico e tradotto in tutte le lingue locali (estone, lettone, lituano e russo) oltre che in tedesco e in inglese, offre informazioni sia sulla storia dei Paesi baltici sia sul rapporto fra questi e il resto dell’Europa. Dal punto di vista dei contenuti, però, non è stato un successo, soprattutto perché si è voluto mantenere la scansione cronologica tipica dei manuali tradizionali e ciò ha di fatto impedito agli autori di sviluppare una visione comune, dato che le tappe decisive della storia lituana sono cronologicamente sfalsate rispetto a quelle dei Paesi confinanti. Un insuccesso che ha insegnato come per questo
tipo di testi sia preferibile un approccio tematico, più duttile e efficace nel delineare la mappa delle diversità e delle appartenenze comuni. Il secondo testo pubblicato dal Consiglio d’Europa è stato The Black Sea, A history of Interaction, del 2004, un’attrattiva opera di divulgazione, sfortunatamente però disponibile solo in inglese, che tenta di unificare le vicende di Bulgaria, Georgia, Moldavia, Romania, Russia, Turchia e Ucraina. Anche in questo caso, però, nonostante lunghe discussioni,gli autori non sono riusciti ad abbandonare l’approccio tradizionale e sviluppare quindi un testo veramente condiviso; un insuccesso dovuto anche alla carenza di risorse economiche e ai lunghi tempi di esecuzione, due variabili veramente importanti in progetti internazionali e multilinguistici di questo tipo. Il risultato è un miscuglio di capitoli dedicati a tematiche nazionali presentate in un mero ordine cronologico. Nonostante queste critiche, rimane l’eccezionalità di queste pubblicazioni, uniche nel loro genere per aver messo a confronto insegnanti di storia in aree geografiche in cui non esiste una tradizione di confronto culturale e anzi le relazioni fra gli Stati sono spesso altamente conflittuali, come nel caso del Caucaso.
Testi scolastici per la riconciliazione
— Importante è stato anche il lavoro del Centro per la Democrazia e la Riconciliazione nel Sud Est europeo (CDRSEE), che sin dalla sua fondazione alla fine degli anni Novanta si interessa in particolare del ruolo giocato dai libri di storia scolastici nell’area dei Balcani. A partire dal 2005 ha prodotto tre testi di storia regionale: The Ottoman Empire; Nations and States in Southeast Europe; The Balkan Wars and TheSecond World War. Tutti editi a
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dal punto di vista meramente quantitativo, perché i testi sono corredati da una grande quantità di materiali, risorse e attività didattiche riguardanti la storia dell’area balcanica nel suo
“Dopo lunghe discussioni, per le note comuni nei testi multi linguistici si è deciso di usare il latino. „
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complesso. Rispetto alla qualità dei contenuti, invece, non si può dire che i singoli capitoli,affidati ognuno a un autore, riescano a integrarsi proponendo una visione comune dei fenomeni. Ciò nonostante, nei primi anni l’uso di questi testi nelle scuole balcaniche è stato ostacolato dalle autorità politiche locali e osteggiato dall’opinione pubblica. Le resistenze hanno cominciato a venir meno solo dopo il 2007, tanto che l’ultima e recente edizione non ha suscitato ulteriori polemiche.
Problemi linguistici quasi insuperabili
— Anche EUROCLIO ha prodotto testi a uso scolastico su scala sovranazionale. Il primo, New Ways to The Past, è stato pubblicato nel 2000 in estone, lettone e russo.Affronta due grandi questioni: la storia dei totalitarismi europei dal 1920 al 1940, affidata a un gruppo di insegnanti dell’Estonia, e il racconto delle conseguenze del regime sovietico sui Paesi del Baltico dal 1945 al 1991, affidato ai lettoni. Nonostante questa ripartizione tematica dei compiti e una revisione durata ben due anni, il risultato non è riuscito a superare i punti di vista nazionali. Un secondo testo elaborato a cura di EUROCLIO tra il 2000 e il 2003 riguarda l’area dei Balcani: Change and Continuity in Everyday Life in Albania, Bulgaria and Macedonia 1945-2000, disponibile in albanese, bulgaro, macedone e inglese. In questo caso si è scelta
una diversa strategia editoriale, affidando ogni capitolo a esperti di tutti gli Stati coinvolti: Albania, Bulgaria e Macedonia. Nel 2003, infine, EUROCLIO ha prodotto Ordinary People in an Extraordinary Country, EveryDay Life in Bosnia and Herzegovina, Croatia and Serbia, una serie di venti lezioni sulla storia della Iugoslavia dal 1945 al 1990, proposte come testo scolastico comune per Bosnia, Erzegovina, Croazia e Serbia. L’obiettivo era fornire un comune punto di vista sulla storia della Jugoslavia, un Paese che ormai non esiste più. Il risultato in questo caso può essere considerato positivo, dato che si è raggiunto un punto di vista unitario su alcune questioni altamente controverse, quali la violazione dei diritti umani durante la guerra, le atrocità commesse dai comunisti durante il secondo conflitto mondiale e la questione del Kosovo. Problemi seri sono invece nati a proposito della lingua. Dopo lunghe discussioni si è deciso di usare per i testi autoriali le lingue nazionali (bosniaco,croato e serbo) e di lasciare i documenti storici di corredo nella loro lingua originale,aggiungendo note esplicative in latino.
La storia d’Europa (che non c’è)
— Bisogna comunque ricordare che tutti i testi sinora considerati non sono in nessun caso veri e propri manuali scolastici ma materiali didattici a uso degli insegnanti. È un limite che ha soprattutto cause legali, perché in molti Paesi europei le pubblicazioni bi-multilinguistiche non sono ammesse dalle autorità scolastiche come libri di testo per gli studenti. È una regola, questa, che finora ha visto una sola ma importante eccezione: il manuale Modern History after 1945: Histoire/Geschichte, Europa und die Welt seit 1945, pubblicato a Lipsia in
edizione tedesca e francese e oggi usato come testo scolastico in numerosi istituti di entrambe le nazioni. Vi è stato sinora un solo tentativo di sviluppare un testo scolastico di storia su scala europea. Risale al 1992 e fu promosso non da un’istituzione ma da un banchiere francese, Ferdinand Delouche, il quale prese l’iniziativa di organizzare un gruppo di dodici storici in rappresentanza di altrettanti Stati europei. Il risultato è Storia dell’Europa. Popoli e Paesi, in francese nell’edizione originale, la lingua che tutti gli autori hanno convenuto di utilizzare. Organizzata secondo i tradizionali metodi didattici, senza l’ambizione di introdurre novità metodologiche, è stata un grande successo editoriale, tanto da essere stata tradotta in quindici lingue. Ma proprio in queste traduzioni si può rilevare la sopravvivenza di antiche abitudini patriottarde. L’esame comparativo eseguito dall’Istituto Eckert ha mostrato infatti piccole ma significative differenze: alcune immagini sono diverse, certe edizioni riportano determinate affermazioni e altre no. Attraverso l’adattamento linguistico riemergono a tratti l’orgoglio nazionale e un amor patrio che enfatizza le glorie e sottace le colpe storiche. Tratto da: J. van der Leeuw Roord, A common textbook for Europe? Utopia or a Crucial Challenge?, in P. Bauer et al., Geschichtslernen, Innovation und Reflexion, Centaurus, Herbolzheim 2008. Traduzione di Francesca Nicola.
Joke van der Leeuw Roord insegnante di storia e presidente dell’Associazione Olandese degli Insegnanti di Storia, dal 1993 è “special advisor” di EUROCLIO, l’Associazione Europea degli Insegnanti di Storia, che ha contribuito a fondare.
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Un’Europa da reimmaginare Uno dei più eminenti storici inglesi, ben noto in Italia per i suoi studi sul Mediterraneo, esprime tutti i suoi dubbi sulla reale esistenza di una comune vicenda europea. È il testo su cui lo scorso anno, in occasione della Brexit, si è sviluppato un intenso dibattito fra gli storici inglesi.
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l titolo di questo intervento fa spudoratamente il verso a un saggio uscito recentemente, Imagining Europe: Myth, Memory, and Identity. I due autori, Chiara Bottici e Benoît Challand (2013), che non a caso risiedono a New York, non danno affatto per scontato che l’identità europea esista da già secoli, occupandosi invece di studiare i modi in cui potrebbe oggi essere forgiata. Presuppongono, in altre parole, che tale processo di forgiatura debba ancora essere compiuto e precisato, al fine di soddisfare le aspirazioni di coloro che cercano un’unione sempre più stretta tra gli Stati. Non tutti i sostenitori del progetto europeo, pertanto, possono essere accusati di ignorare il problema di chiarire cosa leghi insieme gli abitanti dei Paesi posti all’estremità occidentale del continente eurasiatico. Chiaramente, questo legame non è il linguaggio. È possibile rivolgersi al passato e parlare di una storia condivisa, tale da includere una comune identità culturale, espressa, per esempio, nelle tradizioni religiose? O invece il progetto europeo è tutto proiettato nel futuro, nella creazione di una prospera comunità
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il cui successo è radicato nell’esistenza di un governo centrale attivo nella difesa degli interessi economici europei contro le sfide dei nemici commerciali e industriali, non solo gli Stati Uniti ma anche la Cina e gli altri Paesi BRICS?
Le peculiarità del modello svizzero —
In un recente saggio, Jürgen Habermas (2011), un illustre pensatore contemporaneo, ha insistito sul fatto che si può perseguire l’obiettivo di un’identità politica comune dell’Europa pur riconoscendo le diverse tradizioni culturali che la compongono. Habermas, un filosofo molto conosciuto per i suoi scritti sulla sfera pubblica, auspica la nascita di un patriottismo costituzionale europeo, basato sull’introduzione di referendum popolari e di pratiche capaci di coinvolgere efficacemente i cittadini nelle decisioni degli organi centrali della Ue. Noto subito che se da una parte si può mettere in dubbio la validità della nozione di patriottismo costituzionale, dall’altra non si può non concordare con ciò che l’appello di Habermas sembra implicare, che cioè di
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di David Abulafia
fatto esiste oggi un deficit democratico nel sistema decisionale europeo. Chiediamoci comunque se sia praticabile una democrazia europea di tipo svizzero come Habermas vorrebbe. La risposta è negativa. Il modello svizzero funziona solo perché è applicato a un Paese molto piccolo e strutturato in Cantoni largamente autonomi addirittura minuscoli. Questi Cantoni, inoltre, sono il prodotto di una storia costituzionale che risale al Duecento e che ha generato una cultura politica molto particolare. Ebbene, una volta ho sentito un eminente
“I libri di testo scolastici tentano
di presentare la storia dell’Europa come impresa comune, ma ciò comporta una notevole distorsione del passato implicando l’assunzione di indimostrabili pregiudizi.
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politico austriaco ammettere pubblicamente che non ha molto senso per i cittadini scegliere i commissari e gli altri funzionari europei, dal momento che non hanno idea di chi siano queste persone provenienti da Paesi diversi dal loro. A differenza di quella svizzera,
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la storia dell’Europa è fondata sulla divisione. Lo dimostra il fatto che il principale obbiettivo dei padri fondatori della CEE era la creazione di uno spazio in cui la guerra tra vicini (in particolare tra Francia e Germania) non sarebbe più stata possibile. Gli autori di Imagining Europe interpretano quest’evidenza come una mera difficoltà nel basarsi sul passato quando si cerca di costruire un’identità europea. Maldestramente affermano che «chi siamo stati come europei non è così cruciale come rispondere alla domanda di chi vogliamo essere» (Bottici e Chaland, p. 37). La mia preoccupazione è che ci venga detto non tanto chi vogliamo essere,ma chi dobbiamo essere.
Le dubbie origini comuni —
La ricerca di comuni radici europee è uno dei temi su cui più ci si impegna a Bruxelles e nelle altre capitali della Ue. Lo dimostrano i libri di testo scolastici, che tentano di presentare la storia dell’Europa come impresa comune. È appena il caso di dire che ciò comporta una notevole distorsione del passato implicando l’assunzione di due indimostrabili pregiudizi: che un senso di identità europea esista da secoli e che nella storia di quest’area si possa leggere una tendenza all’unificazione. È vero che il mito di Europa risale alla Grecia antica, ma analizzandolo troviamo un dio lussurioso, Zeus, che stupra una principessa fenicia, vale a dire libanese. Non riguarda quindi quell’area geografica chiamata oggi Europa. Va poi considerato che dal punto di vista storico la nozione di continente europeo è stata elaborata in rapporto con il Mediterraneo. E in effetti, da questa prospettiva l’Europa ha veramente l’aspetto di un continente; non appare per quello che realmente è, cioè una penisola che sporge dell’Asia e si sviluppa a Nord dell’Africa.
Del resto, analizzando il modo in cui percepiamo i continenti, Martin W. Lewis e Kären Wigen (1997) hanno messo in luce l’importanza dei presupposti culturali oltre che delle determinazioni geografiche. L’isola di Cipro, ad esempio, anche se è più vicina all’Asia, è generalmente inclusa nell’elenco dei Paesi europei perché la sua popolazione è a maggioranza di origine greca. Si presume anche che le Canarie non appartengano all’Africa ma all’Europa, dal momento che sono state governate dalla Spagna e a partire dalla fine del XV secolo abitate in gran parte da emigrati provenienti dalla penisola iberica. Ma se applichiamo sistematicamente questo approccio, l’identità geografica dell’Europa diventa evanescente, perché tutte le maggiori isole del Mediterraneo in certe fasi della storia sono state governate o colonizzate da popolazioni provenienti dall’Africa o dall’Asia, anche se tutte oggi fanno parte di Stati europei grandi e ben consolidati, molto più di Cipro (ovviamente un problema politico particolare) e di Malta, la cui europeità cattolica è compromessa dal fatto che i suoi abitanti parlano un dialetto proveniente dall’arabo maghrebino.
Il peso delle religioni —
L’Armenia è più europea dell’Azerbaijan? Entrambe partecipano all’Eurovision Song Contest [in Italia noto come Eurofestival], un buon test di europeità che però include anche Israele.E che svela nel suo funzionamento la mancanza di un’identità culturale comune, perché in questo concorso, come in tutti quelli organizzati a livello sovranazionale, le votazioni popolari sono sempre determinate dalla lealtà regionale: gli scandinavi o gli slavi votano sempre in massa per i propri cantanti, anche quando le performance degli altri sono migliori. In breve: su
grande scala i continenti hanno confini sfocati e nel caso dell’Europa dell’Est questi non esistono affatto. Forse l’Armenia è più europea perché da sempre cristiana, mentre l’Azerbaigian è prevalentemente musulmano? Negli anni in cui è stata fondata l’Unione europea si è molto discusso della sua antica identità cristiana, sia cattolica sia protestante, successivamente estesa a quella ebraica, tanto che oggi l’ossimoro giudeo-cristianesimo è diventato un termine di uso comune. Ma allora dove collocare la Turchia, che in ogni caso contiene l’unica città del mondo estesa fra due continenti e ha una storia molto intrecciata con quella dell’Europa sud-orientale? Oggi l’adesione della Turchia alla Ue riscuote meno consensi del passato, sia perché questa espansione porterebbe l’Europa a confinare con Paesi come l’Iraq e l’Iran, sia per l’accentuarsi della diversità culturale sottolineata dal nuovo ottomanismo del presidente Erdoğan. In questo quadro, l’Unione per il Mediterraneo, l’organizzazione intergovernativa lanciata nel 2008 dal presidente francese Sarkozy che raggruppa 43 Paesi che si affacciano su questo mare, è stata solo un’inadeguata concessione per accontentare i Paesi nordafricani che ambiscono a entrare nella Ue, la cui ammissione è però preclusa dalla posizione geografica, dalla religione e, non ultimo, dal timore di un ulteriore immigrazione di massa, non solo dalla Turchia ma dal Marocco e altri Paesi mediterranei. In realtà, sarebbe auspicabile il rafforzamento dei forum e degli strumenti di confronto fra Paesi del Mediterraneo normalmente non abituati a coordinarsi fra loro, specialmente su questioni ambientali. Finora, però, i risultati sono stati deludenti. Come ho evidenziato io stesso nel mio saggio sulla storia del Mediterraneo (2010),i veri
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motivi che potrebbero permettere la creazione di questa organizzazione sono stati distorti e oscurati, anche se va ammesso che organismi intergovernativi come l’Unione per il Mediterraneo hanno il merito di promuovere la pace e il commercio senza interferire nella sovranità dei singoli Stati.
Ma Carlo Magno fu uno sterminatore seriale —
È il momento di ammettere che non si può attribuire al passato la percezione dell’europeità. Il Sacro Romano Impero comprendeva in tutto o in parte un buon numero di Paesi europei (Germania, Austria, Repubblica Ceca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Svizzera, Italia)
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ma la capacità degli imperatori di intervenire negli affari dei sudditi era molto limitata al di là delle terre che costituivano il patrimonio di famiglia su cui effettivamente governavano: le terre degli Hohenstaufen nei secoli XII e XIII, poi quelle del Lussemburgo nel XIV secolo e degli Asburgo nella maggior parte del tempo seguente. Ma non mancano le pretese di retrodatare la supposta nascita dell’identità europea addirittura all’VIII secolo. Per me rimane un mistero incomprensibile come un’eminente storica quale Rosamond McKitterick (2008) possa dedicare un saggio sulla formazione dell’identità europea a quello sterminatore di massa medievale che fu Carlo Magno.
La Grecia antica non è quella moderna —
Poi c’è l’idea che le radici della civiltà europea non risalgano solo al giudaismo e al cristianesimo,ma alla Grecia antica.L’europeità sarebbe quindi costituita da un modo razionalistico di pensare il mondo che affonda le sue radici in Platone e Aristotele (nonostante le loro indubbie divergenze), nella scienza e nell’arte greche, oltre che nella rinascita classica (accompagnata dall’uso del termine Europa) avvenuta in Italia nel XVI secolo. L’idea dell’esistenza di questo senso di comune appartenenza risalente all’antica Atene non è nuova, perché ne parlava già Denys Hay (1957) più di mezzo secolo fa. Ma in anni
↑ Il castello medioevale al parco Mini Europe di Bruxelles.
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Il Colosseo e il Partenone al parco Window of the World a Shenzhen, Cina. ↓
va dimenticato che gli storici della scienza islamica insistono molto sul fatto che sia stato l’islam, ancora più di Bisanzio, a conservare e ampliare le conquiste dell’antica Grecia. Questo argomento è stato enfatizzato da J. Al-Khalili (2012) forse più del dovuto, ma serve a ricordare che uno dei più grandi Stati europei, la Spagna, e il suo vicino, il Portogallo,sono stati per lungo tempo sotto il dominio islamico ed erano sede di una fiorente cultura capace di unire ebrei, cristiani e musulmani in imprese intellettuali comuni.
Il ruolo egemonico della Germania —
Resta poi il problema che i confini dell’Europa tendono a scivolare via.Norman Davies,l’eminente storico della Polonia (1996) ha tentato di riconfigurare la storia dell’Europa prendendo finalmente in giusta considerazione le terre ad Est della Germania, che di solito tendono a essere ignorate. Ma nonostante questo proposito, la sua analisi
storica di quelle parti d’Europa che a lungo si sono trovate sotto il dominio turco (Paesi come l’Albania, Bulgaria e Romania) che o sono o sperano di diventare membri della Ue, è stata ben più esile e insufficiente del suo trattamento dell’Europa cattolica e protestante. Altri storici hanno posto al centro della storia europea un territorio specifico. Brendan Simms (2013) ha individuato nelle terre tedesche del Sacro Romano Impero il fulcro delle lotte per il dominio su ampi tratti del continente, dal XV secolo in poi. Inevitabilmente, però, questo approccio non gli permette di tenere in giusto conto le parti più occidentali dell’Europa, anche se gli consente di giungere, nei capitoli finali, a giustificare il ruolo della Germania del dopoguerra nella creazione di una nuova Europa (di cui è uno strenuo sostenitore). Questa, naturalmente, è una delle questioni più controverse tra i commentatori dell’Europa contemporanea: è difficile stabilire in che misura la Ue abbia ridato alla
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recenti è stata enfatizzata per giustificare l’adesione prematura della Grecia alla Comunità europea nel 1981 e senza dubbio ha influenzato anche la decisione di permettere a questo Paese di adottare l’Euro, quando pure aveva ancora molta strada da percorrere prima di ottemperare alle condizioni richieste. Non c’è bisogno di insistere sulle conseguenze disastrose di questo atteggiamento, sia per l’eurozona sia per la Grecia stessa (anche se ci si può consolare con l’idea che, se veramente la civiltà greca si pone alla base di un patrimonio comune europeo, allora guadagna forza la tesi che i marmi del Partenone possono benissimo stare a Londra come ad Atene). D’altra parte si può mettere in dubbio la continuità culturale dalla Grecia antica alla civiltà bizantina e poi dal dominio ottomano alla Grecia moderna pur senza accettare l’argomento estremistico di coloro che negano che i greci contemporanei siano in gran parte discendenti da quelli antichi. E neppure
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D’altra parte, è certamente interessante che un autore di origine ebraica,quale sono io stesso,non abbia difficoltà a riconoscere come la Germania del ventunesimo secolo abbia fatto i conti con il suo impressionante passato e abbia ricostruito un Paese senza relazioni con il precedente nazismo (e il comunismo,per quanto riguarda l’Est).
L’insularità inglese —
In conclusione, l’Europa non è un mito, ma molti miti. Miti radicati in un’idealizzazione del passato classico, in fantasie su figure come Carlo Magno,in mutevoli concezioni riguardo a ciò che sia l’Europa e dove si trovi il suo centro di gravità. Notiamo comunque, per finire, che sia assumendo, insieme a Bolaffi e Simms, che il centro di gravità dell’Europa si trovi in
Approfondire —
J • D. Abulafia Il Grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano 2010. • J. Al-Khalili, Pathfinders: the Golden Age of Arabic Science, Penguin Books, London 2012. • A. Bolaffi, Cuore tedesco: il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Donzelli editore, Roma 2014. • C. Bottici, B. Challand, Imagining Europe: Myth, Memory, and Identity (Cambridge 2013). • N. Davies, Europe: a History , Oxford University Press, Oxford 1996. • J. Habermas, Zur Verfassung Europas: ein Essay, Suhrkamp, Berlin 2011. • D. Hay, Europe: the Emergence of an Idea, University Publications, Edinburgh 1957. • M. W. Lewis, K. Wigen, The Myth of Continents: a Critique of Metageography, University of California Press, Berkeley e Los Angeles 1997. • R. McKitterick, Charlemagne: the Formation of a European Identity, Cambridge University Press, Cambridge 2008. • J.C. Piris, The Future of Europe: towards a Two Speed EU, Cambridge University Press, Cambridge 2012. • B. Simms, Europe: the Struggle for Supremacy, 1453 to the Present, Basic Books, London 2013.
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Germania, sia assumendo che stia nella Ue con sede a Bruxelles, il Regno Unito non rimane in alcun modo coinvolto. Come evidenziano tutti i saggi che ho citato, l’Inghilterra ha partecipato intensamente alla storia del continente europeo (anche se questo per gran parte del Medioevo fu governato dalla Francia), ma ha anche sviluppato una propria cultura politica distintiva, beneficiando in misura significativa della sua posizione isolata. Non è questa condizione ad aver creato l’insularità. Le tesi sostenute dagli autori di Nebbia nel canale: il continente è isolato [il sito web creato dagli storici contrari alla Brexit, N.d.T.] travisano il rapporto fra Gran Bretagna e l’Europa. Ma è chiaro che un Paese con una cultura politica così distintivamente propria e con una storia ricca di continuità non si sente a proprio agio a fianco dei colleghi dell’Unione europea. Questo carattere distintivo deve essere riconosciuto dalla Ue, come parte di un più ampio programma di riforma radicale dell’Unione. Come sostiene Jean-Claude Piris nel suo saggio sul futuro del continente (2012), l’offerta del supermercato europeo non dovrebbe essere «una taglia adatta a tutti».
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Germania una posizione dominante nell’Europa occidentale, visibile, per esempio, nelle posizioni del governo tedesco sulla gestione della crisi che colpisce l’Euro, da alcuni raffigurato come una reincarnazione del Marco. E d’altra parte la crescente forza economica e politica della Germania nella Ue non sempre è valutata negativamente. In un saggio dal significativo titolo Cuore tedesco, lo storico italiano Angelo Bolaffi (2014) ha presentato la rinascente Germania come l’esempio da seguire per gli altri Paesi europei, l’Italia in particolare. La Germania è, a suo avviso, un Paese modello. Il suo ruolo,infatti,starebbe nel fornire una leadership, assumere una posizione di egemonia salvando così l’Unione.Non sorprende che questo libro sia stato subito tradotto in tedesco ed abbia avuto un buon successo in Germania.
Tratto da: D. Abulafia, Re-imagining Europe, in «‘European Demos’: an historical myth?», in “Historians for Britain”, 2016, pp. 7-15, www.historiansforbritain.org. Traduzione di Francesca Nicola.
David Abulafia è stato professore di Storia del Mediterraneo all’Università di Cambridge. Fra i suoi testi più noti tradotti in italiano vi sono: Federico II. Un imperatore medievale (Einaudi, Torino 1990), Le due Italie. Relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i comuni settentrionali (Guida Editori, Napoli 1991).
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Il racconto dell’Europa fra ragione e sentimento
di Adrian Armstrong
La ricerca / N. 12 Nuova Serie. Maggio 2017
Dossier / Il racconto dell’Europa fra ragione e sentimento
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Quale tipo di narrativa contraddistingue oggi la rappresentazione che l’Europa offre di se stessa? Per quanto importanti, le motivazioni razionali e utilitaristiche sono sufficienti a sostenere un progetto politico di tale portata? Forse no, come dimostra il confronto con una narrazione di successo: il sogno americano.
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I
n una conferenza al Palazzo Bellevue a Berlino il 22 febbraio 2013, dopo aver incoraggiato gli europeisti a impegnarsi attivamente nel «plasmare una Europa migliore», il presidente tedesco Joachim Gauck [in carica fino a marzo 2017, N.d.R.] ha osservato che «non c’è una narrazione generale in grado di conferire all’Europa la sua identità».È un’affermazione che solleva alcune questioni. Quale potrebbe essere tale narrativa? Chi ne sarebbero i protagonisti? Cosa li potrebbe motivare? In gioco vi è la possibilità stessa di una “narrazione europea”,e con questo intendo un racconto capace di esprimere fiducia e impegno verso un’Unione europea forte, indifferentemente dal fatto che tale forza sia collocata nell’integrazione economica, nell’armonizzazione giuridica o in qualsivoglia altro obbiettivo strategico.
Una storia comune o un mito di fondazione? —
Il discorso del Presidente Gauck mostra quanto sia difficile
rispondere a queste domande e, di conseguenza, formulare una descrizione convincente di cosa si intende con Europa. Proseguendo nella sua analisi, egli afferma che una narrazione europea dovrebbe legare le persone attraverso una «storia comune» o un «mito fondatore». Mi sembra che dietro questa idea vi siano due presupposti. In primo luogo, si dà per scontato che si possa effettivamente raccontare una storia condivisa e che questa comune biografia potrebbe unire i cittadini europei,se solo si riuscissero a trovare i fatti rilevanti su cui fondarla.Tuttavia, il recente dibattito storiografico sviluppatosi in occasione del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale ha dimostrato che per qualsiasi società è impossibile identificare una storia comune o un mito fondatore senza distorcere grossolanamente l’effettiva realtà storica, sempre molto più complessa e variegata. Se questo è il prezzo di una narrazione condivisa, siamo autorizzati a chiederci se ne vale la pena. In secondo luogo, si presume che una vi-
sione dell’Europa debba essere radicata negli eventi passati.Eppure, una narrazione non deve per forza riferirsi al passato. Può anche raccontare cosa potrebbe accadere. Di questo tipo, ad esempio, è il racconto politico probabilmente più influente nell’epoca contemporanea, il cosiddetto “sogno americano”, così come è stato formulato per la prima volta da James Truslow Adams: «il sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più ricca e più piena per tutti, con la possibilità per ognuno di realizzare se stesso in base alle proprie capacità».
Il paragone con il sogno americano —
Il successo dell’american dream, considerato come una narrazione politica, dovrebbe suggerire agli europeisti una pausa di riflessione, perché le storie che essi mettono in campo sono quasi completamente diverse. In primo luogo, le narrazioni europee fanno appello soprattutto alla razionalità dei cittadini, all’interesse personale che dovrebbe essere favorito da una
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Passato e futuro non sono interscambiabili
— Va poi considerato che oggi, quando cerca di attingere alle emozioni, il racconto dell’Europa è sempre rivolto al passato. Anche questa tendenza è ben esemplificata dal presidente Gauck. Ricordando le conseguenze del secondo conflitto mondiale, egli afferma che:
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«Non dimenticheremo mai che, dopo la guerra, l’incrollabile convinzione sia dei politici sia della gente comune poteva essere espressa in due parole: mai più». È quella che potremmo chiamare una narrazione “all’indietro”: ci invita a non ripetere gli errori del passato. Il sogno americano, al contrario, è una narrativa rivolta in avanti: ci invita a muoversi verso risultati futuri e desiderabili. Si potrebbe supporre che le narrazioni proiettate sul futuro siano più potenti se non altro perché l’impatto emotivo di quelle rivolte al passato finisce sempre con indebolirsi nel tempo: il “Mai più” di cui parla il presidente federale non può avere per i millennials la stessa forza che aveva per i giovani del 1950. E d’altra parte, quando si rivolgono al futuro, le narrative europee non riescono a uscire dalla mera dimensione dell’opportunità razionale: gli argomenti riguardano quasi sempre l’opportunità di creare un blocco economico come garanzia di prosperità e sicurezza, senza la capacità di introdurre ulteriori elementi emozionali.
Fare appello alle aspirazioni individuali —
Infine, un difetto delle narrative europee sta nel sussumere l’individuo nella collettività. Il presidente Gauck sfiora questo aspetto del problema quando auspica che «la futura Europa mitighi i timori dei cittadini e dia loro possibilità di azione». È un approccio che fa dipendere la prospettiva individuale da un quadro politico ampio e troppo lontano dai singoli. Una narrazione politica efficace deve invece fare appello soprattutto alle aspirazioni degli individui, anche se deve allo stesso tempo delineare un contesto politico più ampio che permetta la loro realizzazione. È quanto riesce a fare l’ideologia del sogno americano, che certo comporta una
dimensione collettiva oltre che individuale, ma che sicuramente deve la sua perenne popolarità alla capacità di rivolgersi ad “ognuno” piuttosto che un più ben impersonale “tutti”. Tutto ciò non è facile a livello di politica nazionale e diventa esponenzialmente più difficile
“Le narrazioni proiettate sul
futuro sono più potenti se non altro perché l’impatto emotivo di quelle rivolte al passato finisce sempre con indebolirsi nel tempo.
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quando sono coinvolti 28 Paesi. È quindi impossibile formulare una narrativa europea che parli alle speranze degli individui sparsi in un intero continente? Forse. Ma è proprio questa la domanda giusta da porsi? Le popolazioni e gli individui che oggi abitano in Europa possiedono valori diversi in relazione a identità molteplici e spesso in competizione: nazione, regione, generazione, etnia, religione, classe, genere, sessualità. Ma una narrazione politica efficace e unitaria può toccare solo una piccola parte di tale complessità. Più che un singolo racconto, gli europeisti dovrebbero forse mettere a punto un’intera antologia.
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convergenza di provvedimenti economici e politici. Il modo in cui il Presidente Gauck narra le origini e lo sviluppo dell’Unione europea è un classico esempio di questo atteggiamento, che del resto si ricollega al pensiero di Jean Monnet, secondo il quale l’Europa avrebbe dovuto essere «una comunità razionalmente vantaggiosa per tutti gli Stati membri». Attualizzando questo principio, il presidente tedesco vede nella globalizzazione dell’economia la motivazione principale del progetto comunitario, perché «solo se unita l’Europa ha oggi qualche possibilità di agire nel mondo con un ruolo protagonista». Il fatto è che le attuali ricerche sui processi psichici sottostanti il pensiero politico, ad esempio le analisi condotte dal linguista statunitense George Lakoff, dimostrano che sono le emozioni ad avere un carattere fondante, non la razionalità pura. Poche persone crederebbero al sogno americano se calcolassero razionalmente le probabilità del suo realizzarsi; ma non è questo il punto.Il punto decisivo sta nella capacità di una narrazione di articolare una speranza. Per gli europeisti, quindi, la sfida sta nel formulare una visione dell’Europa che abbia una portata emotiva paragonabile a quella del sogno americano. E in fondo questo è l’unico modo per vincere le narrazioni nazionaliste degli euroscettici, spesso caratterizzate da un alto tasso di emotività.
Tratto da: A. Armstrong, Chasing the Tale. The European People struggle with their Identity, in “The European.eu”, maggio 2014, http:// en.theeuropean.eu. Traduzione di Francesca Nicola.
Adrian Armstrong è professore di Letteratura francese al Queen Mary College, presso l’Università di Londra. Tra i suoi campi di specializzazione vi sono la letteratura medievale e la poesia dei cosiddetti “grands rhétoriqueurs”.
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Io sono un cittadino europeo
Scuola / Io sono un cittadino europeo
SCUOLA
Fino al dicembre dello scorso anno Alessandro Fusacchia è stato Capo di gabinetto del Ministro dell’Istruzione: una posizione ottimale per rispondere alle nostre domande su come l’Europa dovrebbe essere insegnata nelle scuole. intervista ad Alessandro Fusacchia a cura di Francesca Nicola
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D: Sul suo profilo Twitter lei si definisce, prima di tutto, un «cittadino europeo». Eppure, in tempi di euro-scetticismo, c’è chi sostiene che l’insegnamento dell’Unione europea non dovrebbe essere neppure presente a scuola. Cosa ne pensa? R: Penso che insegnare l’Ue sia non solo giusto, ma doveroso.A condizione di non fare dell’Unione europea un insegnamento burocratico, noioso, che disamora gli studenti invece di appassionarli. Credo che serva, anzitutto, raccontare gli ultimi sessant’anni di storia. La mia generazione – quella dei trenta-quarantenni – è cresciuta convinta che alcune cose appartenessero alla retorica dei nonni e dei genitori: la pace, la possibilità di muoversi liberamente o di studiare in un’altra città europea sentendosi a casa. Abbiamo dato tutto questo per scontato e ci stiamo invece accorgendo che scontato non lo era affatto. Ci sono Paesi come il Regno Unito che stanno andando maldestramente contro la storia.Altri Paesi che rischiano di costringerci a riviverla – quella parte di storia del Novecento che ci piace di meno – visto che stanno scivolando
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Il presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz consegna a Malala Yousafzai il Premio Sakharov per la Libertà di Pensiero, Strasburgo, 20 novembre 2013.
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pericolosamente e potrebbero arrivare presto a rimettere in discussione alcuni cardini della democrazia liberale. E poi non c’è praticamente più nessun Paese in Europa in cui qualcuno non si alzi la mattina con l’idea di costruire un muro. Ecco, l’antidoto migliore per evitare di ripetere gli errori del passato è sempre stato quello di conoscerli, questi errori. Solo che l’insegnamento della storia bisogna farlo non (solo) con l’ennesimo libro di testo, ma con modalità e format partecipati che siano in grado di ottenere l’attenzione dei ragazzi. Di impressionarli nel senso originale di afficĕre. E sapendo che l’insegnamento della storia non basta.
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Scuola / Io sono un cittadino europeo
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D: Cos’altro serve, allora? R: Dobbiamo aiutare i ragazzi a diventare consapevoli delle opportunità di crescita che offre oggi essere cittadini europei. Per farlo, serve una scuola che consenta loro non solo di imparare nelle forme più tradizionali di trasmissione orale – attraverso l’insegnamento o il racconto – ma di fare esperienze fisiche. Ci sono mille progetti concreti, e diversi, che si possono sviluppare. Ma penso che una parola chiave attorno a cui far ruotare tutto sia mobilità. Servono periodi da trascorrere in una scuola di un’altra città europea – meglio se di provincia –; serve fare in modo che gli scambi diventino la regola e non l’eccezione, soprattutto per i ragazzi con alle spalle famiglie con meno possibilità economiche; serve scommettere sulla quotidianità in un
altro Paese europeo come strumento di emancipazione. Posso provocare? Se crediamo nell’Europa e vogliamo rilanciarla, evitiamo di insegnare l’Unione europea costringendo i nostri studenti a ore di studio dei meccanismi complessi delle istituzioni comunitarie. Evitiamo di parlare di Bruxelles, e parliamo invece di cosa accade in Grecia, in Spagna, in Francia. Non ci sono scorciatoie: se vogliamo ritrovare un senso di appartenenza verticale, dobbiamo concentrarci su un grande lavoro di aggregazione orizzontale. Facendo venire ai nostri ragazzi di Lecce, Cagliari, Rieti o Cuneo la voglia di scoprire cosa stanno facendo i loro coetanei a Lione, Malaga, Amburgo o Bucarest. La voglia di crescere insieme a loro. Di connettersi. Di imparare gli uni dagli altri.E le istituzioni – nazionali ed europee – hanno il dovere di investire fino all’ultimo euro in questo. D: Quali sono gli impegni più urgenti, i rischi maggiori da evitare e la direzione in cui procedere per un’educazione alla cittadinanza europea? R: La cittadinanza europea è uno strumento potente. Ma dobbiamo riempirla di senso. Da quando è stata inventata – 25 anni fa con il Trattato di Maastricht – è rimasta una creatura fragile, che non è mai riuscita a creare un vero senso di appartenenza ad una comunità più vasta di quella nazionale. Al contrario, oggi rischiamo pericolose retromarce. Basta vedere ciò che sta accadendo ai conti-
→ Cittadini francesi osservano la nuova mappa dell’Europa nel novembre 1918, fotografia di B. Wallace, Indipendence Park Library, Philadelphia.
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D: Che ruolo devono avere gli insegnanti per la riuscita di tutto questo? R: Le rivoluzioni del passato si sono fatte spesso contro i professori. Ma io credo che oggi non esista rivoluzione possibile senza di loro, senza la ricostruzione di un patto sociale tra famiglie e insegnanti che metta al centro i ragazzi.Perché oggi tutto cambia estremamente in fretta e sono loro che – con il loro lavoro quotidiano – alleveranno i cittadini di domani e decideranno quindi in che mondo vivremo tra 20 o 30 anni. La scommessa è fare in modo che si sentano sul palco, non in platea. Bisogna dare loro strumenti, e il primo strumento non può che essere la loro stessa formazione. Contestualmente, bisogna dare loro risorse e liberarli da troppa burocrazia scolastica, perché possano portare avan-
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ti agilmente il loro progetto educativo. Certo, riducendo il rischio sempre presente di scuole che diventano progettifici, collezioni di cose piccole e poco stimolanti per gli studenti, che operano per comportamenti stagni e «riserve di caccia» invece che con l’ambizione di costruire piattaforme abilitanti dentro le scuole. Stimolando quindi i docenti a pensare in grande, in lungo, in rete. Bisogna fare in modo che lavorino in team, e sempre più in team diversi, non solo in quelli precostituiti a cui magari si sono abituati nel corso degli anni. Il Paese ha un tremendo bisogno di migliaia di docenti che abbiano – loro per primi – fame di imparare e di migliorarsi. Chiunque di noi ha sempre moltissimo da imparare. Abbiamo bisogno di insegnanti che diventino spugne in grado di trovare e assorbire stimoli nuovi, di rielaborarli, di riproporli ai loro studenti. E qui, ancora una volta, la dimensione europea è fondamentale. Ogni docente, nel corso della sua carriera – e chiaramente prima questo avviene, meglio è – dovrebbe fare un’esperienza in una scuola di un altro Paese europeo: e dovrebbe farla adeguatamente formato prima della partenza, finanziariamente sostenuto (assieme ai figli che magari si trasferiscono per un anno a frequentare una classe diversa della stessa scuola) durante il periodo fuori Italia, e soprattutto messo nelle condizioni di restituire ciò che ha appreso una volta rientrato nella sua città di partenza. Quanto cresceremmo come sistema scolastico! Che balzo in avanti faremmo come Europa unita.
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nentali che si trovano nel Regno Unito. La cittadinanza europea può essere molto di più che non un titolo quasi onorifico. Molto di più che non il voto alle elezioni comunali in un Paese diverso da quello della propria nazionalità, o la protezione consolare fuori dall’Europa. Oggi abbiamo la possibilità di trasformare la cittadinanza europea in un veicolo di opportunità, e l’istruzione può fare molto a riguardo. Perché conta imparare matematica, italiano o storia, ma conta altrettanto sviluppare quelle competenze trasversali che aiuteranno le generazioni più giovani a leggere le trasformazioni del mondo di domani; a diventare aperti, curiosi, capaci di sentirsi a proprio agio in contesti profondamente diversi dal loro specifico contesto di partenza. Esiste anche un tema di inclusione scolastica, di lotta contro la dispersione e l’abbandono, di avversione a qualsiasi forma di discriminazione. Storicamente, gli Stati sono sempre stati gelosi in materia di istruzione. E invece mi pare sia proprio questo il nuovo campo dove ci giochiamo la possibilità di costruire nei prossimi anni società porose, che si nutrono di diversità. Sono convinto che l’emancipazione dei nostri ragazzi sarà in futuro sempre più correlata – in maniera inversamente proporzionale – all’isolamento della singola scuola che frequenteranno. Isolamento rispetto a reti di conoscenza e progettualità che dovranno diventare velocemente, e strutturalmente, reti europee.
Alessandro Fusacchia dopo gli studi tra Gorizia, Parigi, Bruges e Fiesole, ha lavorato come ghost-writer di Emma Bonino e ha fatto parte della squadra della Presidenza del Consiglio che ha gestito il G8 de L’Aquila nel 2009. Dopo un periodo a Bruxelles presso il Consiglio dell’Unione europea, cinque anni fa è rientrato in Italia per occuparsi di innovazione con l’allora Ministro dello Sviluppo economico. Successivamente è stato consigliere per la diplomazia economica di Emma Bonino durante il suo mandato come Ministro degli Affari esteri. È stato presidente dell’associazione RENA e ha scritto tre romanzi – l’ultimo, I solitari, pubblicato da Cooper nel 2016.
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Progettare Erasmus Come realizzare un buon progetto di mobilità nella scuola? Lo chiediamo a Carmelina Maurizio, insegnante e valutatrice Erasmus. di Carmelina Maurizio
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La biblioteca antica del Saint John College a Oxford. ↓
a oltre trent’anni chiunque senta dire “Erasmus” associa il nome allo scambio studentesco, al viaggio e ai valori europei. La storia di questo progetto, che da molti anni è alla base della mobilità di giovani e studenti, deve la sua origine alle intuizioni della docente e pedagogista Sofia Corradi, che già alla fine degli anni Sessanta cominciò a divulgare l’idea in ambito istituzionale, prendendo in considerazione, dapprincipio, il mondo degli studenti universitari. Il 1987 è l’anno in cui venne per la prima volta messa in atto la pratica dello scambio: da allora, come vedremo, i numeri delle partenze, dei Paesi coinvolti, dei successi formativi sono andati sempre crescendo. Nel corso del tempo la mobilità ha poi riguardato anche le scuole primarie e secondarie e si sono aggiunti altri percorsi, dedicati alla formazione del personale docente e dirigente della scuola, diventando il motore del Lifelong Learning Programme, il programma europeo per l’apprendimento permanente. Dal 2014, infine, tutta la progettualità europea di mobilità si è ulteriormente trasformata, integrando i percorsi precedenti in Erasmus+1. Chiunque sia partito o abbia partecipato per brevi o lunghi periodi a uno a più dei progetti Erasmus ha riportato nelle scuole, all’università e negli ambiti istituzionali di riferimento una ventata di energia positiva e costruttiva, e per molti la presenza nel curriculum vitae tra le proprie esperienze pregresse di uno scambio europeo ha fatto la differenza nella ricerca del lavoro, nelle scelte personali, diventando un’attitudine, un modo di vivere che si tramanda di generazione in generazione.
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Erasmus: cenni storici e dati —
Erasmus nasce dunque ufficialmente nel 1987, l’anno in cui i primi studenti iniziarono ad ampliare la loro formazione universitaria andando a studiare nei Paesi europei partecipanti. Il primo “restyling” al progetto venne apportato nel 1995, con la nascita del progetto Socrates/ Erasmus, che si rivolgeva sempre agli studenti universitari, per facilitare il loro effettivo spostamento in un’università straniera,e prevedeva che anche i docenti potessero insegnarvi, con riconoscimento finale del percorso da parte dell’Ateneo di provenienza. In questo modo sono partiti nel corso di 20 anni circa un milione di studenti. Nel 2006 è nato il nuovo programma, Lifelong Learning Programme (LLP), che racchiudeva in sé tutti i programmi e i progetti di cooperazione per i settori dell’istruzione e della formazione. Tra questi c’erano i sottoprogrammi di mobilità Comenius (per le scuole, con la possibilità di usufruire della Formazione in Servizio per i docenti), Erasmus (per l’istruzione superiore), Leonardo da Vinci (per l’Istruzione e formazione professionale) e Grundtvig (per gli adulti), tutti coordinati direttamente dagli Stati membri. Inoltre completavano la ricca serie di proposte un Programma Trasversale e il Programma Jean Monnet, azioni che intendono “incoraggiare e diversificare le tematiche legate all’Unione europea nei curricula proposti dagli Istituti di Istruzione Superiore ai propri studenti, innal-
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zare la qualità della formazione professionale su tali tematiche, attraverso moduli ad esse dedicate o estendendole a nuove materie, stimolare l’impegno dei giovani accademici nell’insegnamento e nella ricerca in tale ambito, favorire il dialogo tra il Nel 2014 è nato mondo accademico e i responsabili politici, Erasmus+, il cui ciclo al fine di migliorare la di vita è di sette anni governance delle polie che raccoglie tutte le tiche dell’Unione”2 sui esperienze di mobilità in temi europei del proun unico contenitore. cesso di integrazione e sulla ricerca negli istituti di istruzione superiore, coordinati dalla Commissione Europea. A partire dal 2014 è nato Erasmus+3, il cui ciclo di vita è di sette anni (durerà fino al 2020) e che raccoglie tutte le esperienze di mobilità in un unico contenitore, con proposte di scambio, studio, partenariati, tirocini, job shadowing4, formazione in servizio.
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Erasmus+ —
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I potenziali partecipanti – dalle scuole di ogni ordine e grado alle università, alle associazioni di volontariato e a quelle che provengono dal mondo dello sport, dagli alunni più piccoli della primaria agli adulti delle organizzazioni no-profit – hanno l’opportunità di proporre candidature, che saranno valutate per ricevere i finanziamenti per la mobilità. Quali sono le carte da avere per ottenere non solo l’approvazione delle Agenzie Nazionali a ricevere i finanziamenti per le partenze, ma anche avere l’opportunità di entrare nel canale europeo dei partenariati? Parleremo di seguito di Erasmus e di Erasmus+ in chiave diacronica e sincronica, per scoprire le potenzialità, spesso poco note, del più importante progetto di mobilità del mondo, e capire quali sono le chiavi del successo per realizzare una candidatura efficace.
Il programma5 combina e integra tutti i meccanismi di finanziamento attuati dall’Unione europea fino al 2013,permette di avere una visione di insieme di tutte le opportunità e mira a facilitare l’accesso a esse. Le attività possibili sono: • le azioni chiave KA1, KA2, KA36; • le attività Jean Monnet; • lo sport; • le attività transnazionali. Ci sono inoltre i vari settori all’interno dei quali Erasmus+ individua delle priorità di azione, in merito alla tipologia delle attività stesse e soprattutto considerando destinatari e beneficiari. C’è il settore scuola, che prevede mobilità per l’apprendimento, partenariati strategici eTwinning, il settore dedicato all’università, vero successore dei primi Erasmus, e vi sono anche aree dedicate alla formazione, alla gioventù e allo sport, agli adulti e alla ricerca. In un quadro così articolato e complesso, non sono pochi gli ostacoli che incontra chi vuole presentare una candidatura per le azioni sin qui indicate, coerentemente con i propri profili di studio e professionali. L’Agenzia Nazionale INDIRE7, sia attraverso le pagine del sito ufficiale, sia attraverso materiali multimediali e seminari e
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incontri in tutta Italia per la promozione del programma, fornisce indicazioni aggiornate e istruzioni per l’uso, al fine di favorire al massimo la partecipazione dei cittadini italiani alla ricca progettualità Erasmus +: uno sguardo ai moduli per l’application, ai materiali messi a disposizione, ai tutorial e ai manuali può fornire importanti indicazioni per aumentare le chance di successo. Tra i potenziali beneficiari delle azioni in un settore importante, che in questo caso si muove per la prima volta in modo In Italia vengono significativo e mirato, mediamente promosse c’è la scuola, che può e quindi finanziate più organizzare mobilità, partenariati e scambi o meno il 10% delle anche virtuali con mocandidature proposte: dalità, temi e strumensi va dal 9% del 2014 ti che saranno l’oggetto e del 2015 al 12% di questa non esaustiva del 2016. descrizione dei passi da compiere per realizzare un buon progetto. Prima di Erasmus+, la mobilità del personale docente per la formazione era un percorso individuale, con la candidatura fatta dal singolo insegnante; in alternativa si muovevano classi e docenti di un singolo istituto; ancora, si creavano partenariati e reti tra scuole. Con le azioni KA1 e KA2 il mondo della scuola ha accesso a diversi percorsi di scambio europeo, che mirano – come vedremo – a privilegiare azioni significative dell’istituto che si candida,con una prospettiva di tipo internazionale, volta a potenziare le politiche educative nazionali ed europee.
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Progetti per la mobilità del personale scolastico —
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Gli obiettivi Erasmus+ per la mobilità scolastica, così come declinato dal documento che illustra le azioni KA1 e KA2 e secondo il quadro strategico “Istruzione e formazione 2020”8, sono: • migliorare le competenze del personale della scuola e rafforzare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento; • ampliare la conoscenza e la comprensione delle politiche e delle pratiche educative dei Paesi europei; • innescare cambiamenti in termini di modernizzazione e internazionalizzazione delle scuole; • creare interconnessioni tra istruzione
formale, non formale, formazione professionale e mercato del lavoro; • promuovere attività di mobilità all’estero per gli alunni e lo staff delle scuole, anche a lungo termine; • accrescere le opportunità per lo sviluppo professionale e per la carriera del personale della scuola; • aumentare la motivazione e la soddisfazione nel proprio lavoro quotidiano9. Vedremo ora i punti fondamentali da tenere in considerazione nella presentazione di un progetto, e i difetti da evitare che potrebbero determinare una bocciatura o l’attribuzione di punteggi non sufficienti a ottenere il finanziamento. Le indicazioni che verranno date qui di seguito cambiano in base all’azione per cui ci si candida, con focus specifici sui soggetti della mobilità, sui risultati di apprendimento attesi e sui numeri e le cifre; si tratta pertanto di spunti di riflessione e di idee, che in una prospettiva molto ampia possono essere prese in considerazione da tutti coloro – scuole e associazioni – che volessero lanciarsi nell’avventura europea. Prima di procedere, va detto che in Italia viene mediamente promosso e quindi finanziato più o meno il 10% delle candidature proposte: si va dal 9% del 2014 e del 2015 al 12 % del 2016 (dati Indire). Addestrarsi e formarsi per acquisire le giuste competenze per la presentazione di una candidatura di successo potrebbe quindi essere una strada da intraprendere quando si comincia a pensare di sottoporre un progetto.
Azione KA1 —
L’azione chiave KA1 riguarda i progetti di mobilità per la formazione del personale della scuola, per la crescita professionale e lo sviluppo di nuove competenze,rivolte sia ai docenti sia ai dirigenti scolastici,ma anche agli amministrativi e ai direttori dei servizi generali amministrativi DSGA, che per la prima volta sono coinvolti in percorsi formativi di respiro europeo, con una visione internazionale globale dell’istituzione scolastica in cui lavorano10. 1) Prima di presentare un’application per l’azione KA1, la scuola o un consorzio di scuole, coordinate dal locale Ufficio Scolastico, devono seguire alcune procedure preliminari, che prevedono l’Eu login attraverso il sistema di autenticazione della Commissione Europea (ex ECAS),
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di interesse e con quali risultati ed è sicuramente una strada efficace per avviare contatti,cercare partner e creare reti”11.La banca dati viene aggiornata automaticamente con le sintesi di tutti i progetti approvati subito dopo la firma dell’accordo finanziario da parte dei beneficiari: l’inserimento dei risultati dei progetti nella piattaforma di disseminazione, infatti, è un obbligo contrattuale per tutti i partenariati strategici e i progetti realizzati nell’ambito dell’azione AK2, mentre è per ora facoltativa per i progetti nell’ambito dell’azione AK1.Molto utile si rivela infine la piattaforma eTwinning12, che può essere utilizzata prima della redazione del Piano di Sviluppo Europeo, per trovare partner e agenzie formative in tutti i Paesi europei, potenziali destinazioni dei proponenti; può essere anche considerata come uno strumento prezioso per la preparazione dello staff in partenza e anche durante e dopo il viaggio di formazione, poiché consente di avere contatti costanti con l’istituto estero ospitante. 4) La prima parte del modello di application chiede ai proponenti di inserire il progetto13 all’interno di un Piano di Sviluppo Europeo che riguarda strategicamente l’intero istituto. Ciò comporta che: • si dovrebbe sempre indicare come le mobilità del personale sono inserite in un piano scolastico ampio; • si dovrebbe specificare che le mobilità siano rilevanti per i singoli partecipanti e per l’intera istituzione;
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seguita dalla registrazione in URF, Unique Registration Facility, il portale europeo del partecipante per ottenere il codice PIC identificativo di ogni organismo valido per tutte le candidature Erasmus+; se l’istituto, per precedenti candidature, è già autenticato al sistema europeo, già registrato in URF ed è in possesso di un codice PIC, non è necessario ripetere la procedura, esso resta infatti valido per ogni nuova candidatura Erasmus+. Successivamente si scarica l’e-form, che va compilato e inviato online, rispettando puntualmente la scadenza, indicata con chiarezza all’atto della candidatura. 2) Tra i primi passi da compiere, oltre a quelli formali appena indicati, può essere molto utile creare un gruppo dedicato all’interno dell’istituto scolastico, che abbia soprattutto l’obiettivo di seguire e curare il progetto in tutto il suo ciclo di vita: dalle attività da compiere alla selezione del personale in mobilità, dalla preparazione prima delle partenze al follow-up. 3) Altrettanto utile può essere confrontarsi preventivamente con le esperienze già realizzate nell’ambito dell’azione KA1, consultando la piattaforma online ec.europa.eu/programmes/erasmus-plus/ projects/. Essa rappresenta sicuramente un punto di partenza “per trovare ispirazione, capire cosa è già stato realizzato intorno a una certa tematica,quali sono le organizzazioni che a livello nazionale ed europeo hanno attivato progetti nell’area
La biblioteca del Trinity College, Dublino, Irlanda. ↓
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• si dovrebbero programmare le partenze sin dall’inizio dell’anno scolastico, al fine di poter verificare meglio la ricaduta; • si dovrebbe individuare con estrema coerenza, tra quelle previste, il tipo di attività funzionale per il proprio istituto scolastico: corso strutturato, job shadowing,attività di insegnamento. Per quel che riguarda gli aspetti del progetto, ai proponenti si richiede di declinare con estrema puntualità e coerenza la tematica gli obiettivi dell’azione; ogni anno all’interno della Guida al Programma vengono indicate le tematiche prioritarie, per esempio per il 2017 sarà data particolare attenzione a sostenere quei progetti che hanno al centro la formazione dei docenti su tematiche interculturali, relative all’insegnamento dell’italiano L2, rivolte soprattutto a migranti, a rifugiati e a minori non accompagnati. Non va assolutamente trascurato, inoltre, Il valore aggiunto di dichiarare in dettaeuropeo dovrebbe glio come verrà svolta la preparazione all’atessere trasversale a tività di formazione tutto il progetto: il (per esempio corsi di respiro internazionale lingua e cultura del/i va costantemente Paese/i scelti per la affermato e motivato. formazione all’estero). Il valore aggiunto europeo dovrebbe essere trasversale a tutto il progetto: il respiro internazionale va costantemente affermato e motivato, per esempio spiegando la scelta delle destinazioni, indicando esplicitamente come e quando disseminare i risultati raggiunti in contesto europeo tramite il contatto con i partner, la permanenza presso una scuola/agenzia formativa che ha una forte tradizione internazionale nella sua offerta, ma anche realizzando, tramite le tecnologie per esempio,azioni di diffusione del progetto anche a livello territoriale. Alcune scuole, per esempio, creano pagine Facebook dedicate, blog e forum attivi prima, durante e dopo la partenza. Erasmus+, inoltre, mette a disposizione dei potenziali partecipanti il portale School Education Gateway14,all’interno del quale non solo si trovano molte informazioni sui potenziali partner e sulle scuole o sulle agenzie formative da contattare, ma è soprattutto il luogo virtuale all’interno del quale i partecipanti (vedi punto 3) pubblicano e condividono la loro esperienza. In altri casi le scuole che hanno
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avuto una mobilità creano sul proprio sito una pagina dedicata a Erasmus+, per rendere pubblica e visibile per chiunque la propria esperienza internazionale. È molto importante anche dichiarare con precisione e chiarezza quali sono i risultati attesi, alla luce e coerentemente con quanto progettato nella prima parte dell’application, e soffermarsi sull’impatto atteso sulla scuola nella sua totalità. A questo si collega la parte finale del modulo di candidatura,che chiede ai proponenti di esplicitare nel dettaglio le modalità di valutazione del progetto e le fasi della disseminazione. Quest’ultima è spesso il tallone di Achille di molti progetti, che non insistono sufficientemente sul valore della condivisione di buone pratiche e dell’esperienza vissuta con la mobilità. Punti a favore si acquisiscono proprio dimostrando, negli intenti, di collocare l’azione progettuale a livello territoriale, coinvolgendo gli studenti e le loro famiglie, ma anche le associazioni e i media. Spesso i proponenti riassumono in poche parole cosa intendono fare e descrivono il follow-up in modo sbrigativo. Il budget viene calcolato in base a parametri internazionali, che si rifanno a dati standard che prevedono costi e spese in base alle distanze, al Paese di destinazione e naturalmente alle attività che si intendono svolgere. Questo rende la fase economica del progetto paradossalmente semplice: l’application infatti calcola in automatico gli importi. La precisione e l’accuratezza di chi propone la candidatura sono però importanti soprattutto in questa fase, in cui si devono evitare incoerenze (come dichiarare che partirà un certo numero di persone e poi in fase di calcolo ne compaiono meno o più, oppure inserire nella somma dei costi anche eventuali spese che si sosterranno per scambi con i partner di progetto o per visite in Italia di docenti coinvolti nell’azione). A volte i valutatori, pur dando un buon punteggio al progetto nel suo insieme, riducono il budget proprio laddove emergono dati incoerenti o non ammissibili.
I valutatori e i criteri di valutazione —
Le singole candidature vengono valutate in una prima fase dall’Agenzia Nazionale, che si preoccupa di una valutazione formale e attua in questo modo una
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CRITERI DI VALUTAZIONE
PUNTEGGIO MASSIMO PER AZIONE Azione KA1 30
Qualità dell’idea di progetto
40
Qualità del gruppo che lavora al progetto e accordi per la cooperazione (KA2)
non valutata
Impatto e disseminazione
30
Totale
100
prima scrematura rispetto ai numeri di application giunte; segue poi la valutazione da parte esperti esterni, selezionati con regolare bando pubblicato sul sito dell’Indire-Agenzia Nazionale,i quali, una volta vinto l’incarico, sono costantemente formati e aggiornati dall’agenzia. I valutatori lavorano individualmente per tutti i progetti che hanno un budget al di sotto di una somma stabilita dalla Commissione Europea (intorno e sotto i 60.000 euro),mentre per quelli che hanno costi elevati la valutazione viene fatta da due diversi valutatori in team. La validazione delle valutazioni avviene in una giornata interamente dedicata a questo, quando tutti i valutatori fanno un ultimo e finale controllo prima di passare i progetti nuovamente all’Agenzia Nazionale, che provvede a un’ulteriore revisione formale. I progetti entrano poi a far parte di una graduatoria ufficiale, pubblicata sulla pagina del sito della sezione italiana dell’Erasmus+ e, come già scritto, tra coloro che raggiungeranno le prime posizioni ci sono i progetti vincitori del finanziamento, che in Italia negli ultimi anni sono circa il 10% dei proponenti.
Conclusione —
Abbiamo sin qui visto che presentare un progetto europeo per la mobilità del personale è un’azione corale di tutta l’istituzione scolastica, che spesso all’atto della candidatura incontra da un lato l’entusiasmo di coloro che si faranno carico dell’intero ciclo di vita del progetto, dall’altro si misura con criticità e ostacoli. In molti casi, le stesse scuole che non hanno rice-
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vuto il finanziamento per la partenza e alle quali i valutatori inviano una dettagliata spiegazione dei punti di forza e di criticità del progetto “non ammissibile” al finanziamento, riprovano con ulteriore motivazione a riproporre la candidatura alla prima occasione utile; altre volte invece il progetto, soprattutto quando diventa realtà, cambia totalmente e fa crescere l’intera scuola, creando reti virtuali a livello internazionale, diventando nel territorio un punto di riferimento per la diffusione dei valori europei. Vale la pena ricordare ancora una volta che fare un buon progetto significa soprattutto saper declinare con accuratezza, profondità e coerenza bisogni autentici e aspettative sostenibili. Partecipare dunque alla progettualità Erasmus+ rappresenta in ogni caso un’importante, e spesso unica, opportunità di mettersi in gioco, di rendere la routine scolastica più motivante e stimolante e dare davvero un “plus” alla propria professionalità.
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Rilevanza del progetto
NOTE 1.Si usano entrambe le diciture per il programma: Erasmus Plus e Erasmus+. 2. Il programma Jean Monnet è stato ereditato da Erasmus+ nella sua integrità, da LLP, http:// www.erasmusplus.it/jean-monnet/ 3. Sito ufficiale italiano: http://www.erasmusplus.it/erasmusplus/erasmus/. 4. Il job shadowing, ovvero “lavoro ombra”, è un’attività di formazione di tipo più informale che si svolge solitamente in una scuola o in un’organizzazione che si occupa dell’istruzione scolastica (ad esempio una ONG o un’autorità pubblica). Molte sono le attività
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che si possono svolgere durante il periodo di job-shadowing:- osservazione;- insegnamento nella propria lingua /nella lingua di unicazione/nella lingua del Paese ospitante;- scambi di esperienze con i colleghi stranieri;- acquisizione di nuove strategie di insegnamento, di valutazione. Il job-shadowing, dunque, è un’occasione per fornire ai partecipanti competenze, tecniche e metodi da applicare concretamente nell’attività didattica e per
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Approfondire —
J • AA.VV., Generazione Erasmus. L’Italia delle nuove idee, Franco Angeli, Milano 2010. • G. Bettin Lattes, M. Bontempi, Generazione Erasmus? L’identità europea tra vissuto e istituzioni, Firenze University Press, Firenze 2008. • S. Corradi, Programma Erasmus+. La mobilità internazionale degli studenti universitari, Dip. Studi Processi Formativi, 2015. • A. Faraldi, Generazione Erasmus, ed. Aliberti, Reggio Emilia 2008. • L. Vecchio, Quando Lorenzo visse a Barcellona, A&B, Roma 2008. • E. Vian, Diario di un Erasmus, La riflessione, Cagliari 2010.
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Sitografia
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• http://it.statisticsforall.eu/maps-erasmus-students.php • http://www.indire.it/2017/01/20/stati-generali-della-generazione-erasmus-primo-consiglio-italiano/ • http://www.erasmusplus.it/ • http://www.indire.it/ • https://archivio.pubblica.istruzione.it/ news/2001/prot1598_01.shtml • http://www.erasmusplus.it/scuola/mobilita-scuola-ka1/, http://www.erasmusplus.it/ universita/istruzione-superiore/ http://www. erasmusplus.it/formazione/formazione-e-insegnamento-per-lo-staff/ • http://193.43.17.8/content/index. php?action=bandi-di-concorso&id=14636 • http://www.schooleducationgateway.eu/it/ pub/teacher_academy/catalogue.cfm • http://www.erasmusplus.it/scuola/etwinning-per-la-scuola/
favorire lo scambio di esperienze e buone pratiche. Inoltre questa esperienza stimola l’uso delle lingue straniere, il lavoro di gruppo e la collaborazione fra insegnanti di Paesi diversi, contribuendo a realizzare concretamente la tanto auspicata dimensione europea. 5. Approvato con il Regolamento Ue n. 1288 del 2013. 6. Nel sito ufficiale, la pagina dedicata alle attività possibili (http://www.erasmusplus. it/erasmusplus/struttura/) declina in maniera dettagliata l’intero programma; da qui in avanti si parlerà alternativamente di “Azione Chiave” o di KA (Key Action) senza nessuna differenza di significato. 7. http://www.indire.it/. 8. All’indirizzo http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV:ef0016 si trova il documento in più lingue che illustra le politiche europee fino al 2020. 9. http://www.erasmusplus.it/scuola/opportunita-per-la-scuola/ è la pagina del sito ufficiale dedicata alla descrizione delle azioni KA1 e KA2. 10. Fino al 2006 il personale non docente aveva a disposizione borse di mobilità erogate dalla Commissione Europea, secondo il Programma Arion/Socrates: https://archivio.pubblica. istruzione.it/news/2001/prot1598_01.shtml. 11.Dalla pagina web http://www.erasmusplus. it/progetti-risultati-2/, importante riferimento per chi si approccia alla candidatura. 12. Il portale italiano è http://etwinning.indire.it/. 13. Il Piano di sviluppo Europeo (European Development Plan) è parte integrante del modulo di candidatura, nel quale si devono descrivere i bisogni educativi e formativi della propria scuola, prevedendo l’impatto che la formazione del personale in ambito europeo avrà sui singoli partecipanti e sull’istituzione nel suo complesso. 14. http://www.erasmusplus.it/scuola/school-education-gateway-2/. 15 La tabella fa parte del manuale del valutatore, Guide for Expert on Quality Assessment, 2017.
Carmelina Maurizio vive a Torino. Insegnante di inglese nella scuola secondaria, è anche docente a contratto presso l’Università di Torino e l’Università di Genova. È formatrice per l’inglese nel Piano Nazionale del Miur per i docenti della scuola primaria nonché per il Piano Nazionale Scuola Digitale. Si occupa di insegnamento e bisogni educativi speciali e di didattica con le TIC. Collabora con diverse case editrici scolastiche, ed è valutatore Erasmus.
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Uniti nella diversità Le lingue, l’intercultura, la traduzione a scuola. di Simone Giusti
L’
Unione europea è un organismo internazionale che si è posto fin dal principio il problema della tutela delle lingue e del loro migliore utilizzo al fine di facilitare la comprensione reciproca tra i cittadini dei differenti Stati nazionali. Il motto dell’Unione europea è “Unita nella diversità”. Esso sta ad indicare che, attraverso l’Unione europea, gli europei operano unitamente per la pace e la prosperità e che le molte e diverse culture,tradizioni e lingue presenti in Europa costituiscono la ricchezza del continente. L’Ue, quindi, nel mondo globalizzato in cui domina la tendenza all’omologazione linguistica, non può accettare l’idea di una sola lingua franca (l’inglese) e cerca di favorire la salvaguardia delle cosiddette lingue minoritarie (ad esempio, in Italia esistono dodici lingue minoritarie riconosciute: albanese, greca, franco-provenzale, sarda, tedesca ecc.) e l’apprendimento delle lingue nazionali dei Paesi confinanti, in modo da favorire la reciproca conoscenza tra popoli che storicamente hanno avuto rapporti conflittuali. In questo contesto, assume un ruolo fondamentale, accanto all’insegnamento delle lingue straniere, il più generale atteggiamento della scuola e degli insegnanti nei confronti del plurilinguismo, del multilinguismo e della traduzione, un fenomeno finora sottovalutato.
Per quanto la letteratura italiana offra più di uno spunto per indagare e praticare il plurilinguismo e il multilinguismo,e nonostante la presenza di alunni di madrelingua non italiana nella grande maggioranza delle aule scolastiche, la scuola – che secondo i buoni
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Una lingua più una lingua non fanno intercultura —
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L’insegna multilingue del Parlamento europeo a Bruxelles, ©Getty. ↓
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propositi dei linguisti avrebbe dovuto già dagli anni Settanta del secolo scorso insegnare l’italiano standard almeno rispettando i diversi retroterra linguistici degli allievi – ha più di qualche difficoltà a far incontrare le lingue in uno stesso spazio nello stesso momento, a farle coagulare in una didattica che sia davvero pluri e multilingue, a creare spazi di coesistenza e di meticciamento, a riflettere sulle conseguenze dello spaesamento che inconsapevolmente è costretto a sperimentare ogni nuovo cittadino. Lo studio delle lingue straniere è fino a oggi rimasto separato per compartimenti stagni: l’ora di italiano, l’ora di inglese e l’ora di francese, tedesco o spagnolo si susseguono senza mai incontrarsi. L’insegnamento dell’italiano, affidato a docenti laureati in Lettere che, almeno per la scuola secondaria, hanno conoscenze specifiche di letteratura italiana e di lingua e letteratura latina, oltre che di storia e di geografia, è focalizzato soprattutto sulla comprensione di testi letterari, come attestano i manuali scolastici e come richiesto dalle prove di italiano somministrate ogni anno obbligatoriamente dall’INVALSI agli studenti che sostengono l’esame di Stato al termine della scuola secondaria di primo grado. E anche quando i testi letterari sono scritti in una lingua diversa dall’italiano, nei libri Lo studio delle di testo – e, quindi, si lingue straniere è suppone, nella pratiche didattiche più rimasto separato per diffuse – essi sono compartimenti stagni: presentati direttal’ora di italiano, l’ora mente in traduzione, di inglese e l’ora di senza peraltro che francese, tedesco o sia dato conto dell’ispagnolo si susseguono dentità del traduttore, tenuto spesso senza mai incontrarsi. nascosto, come l’atto stesso del tradurre, agli allievi. In linea con le abitudini dei cittadini italiani, i quali usufruiscono quotidianamente di dosi massicce di opere dell’ingegno tradotte o doppiate, anche gli studenti sono avvezzi all’uso di libri di letteratura sostanzialmente monolingui, che non recano traccia degli incontri tra le lingue, non contengono opere con il testo a fronte e non affrontano il tema della traduzione. D’altronde, anche quando si traduce, nella scuola italiana, si cerca di farlo in modo da negare all’alunno lo status di
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traduttore, come se si trattasse di un mero esercizio logico e senza tener conto della storicità dell’evento, quindi senza mettere a frutto le potenzialità educative di un incontro che a tutti gli effetti potremmo definire interculturale (si pensi all’utilizzo “neutro” della parafrasi,una traduzione intralinguistica, che anche quando è presente nei libri di testo non è mai accompagnata dal nome del “traduttore”). Nella scuola secondaria di secondo grado italiana è stato di recente introdotto l’insegnamento integrato di contenuti e lingue, il cosiddetto CLIL (Content and Language Integrated Learning), che prevede, in estrema sintesi, l’insegnamento di una disciplina non linguistica (la matematica, la storia, ecc.) in una lingua straniera. Si tratta di un metodo dalle grandi potenzialità, poiché richiede a docenti delle diverse aree disciplinari di«ripensare il ruolo della lingua da loro utilizzata in classe, in particolare dell’italiano» (Lopriore,2014,p.11),che in qualche modo cessa di essere un elemento “naturale”, un mezzo di comunicazione neutro da usare in modo spontaneo, e diventa, o meglio può diventare, una delle culture e uno degli artefatti di cui dispongono gli abitanti di una scuola. Tuttavia, l’introduzione di questa metodologia comporta il rischio di una banalizzazione del ruolo della lingua, utilizzata da madrelingua italiani che si sono laureati in Italia e che,con tutta probabilità, hanno appreso in Italia la lingua straniera (la cui padronanza è attestata da una certificazione di livello C1), ma che non necessariamente hanno quella sensibilità verso la lingua e la cultura di altri popoli (e del proprio) che può contribuire in modo concreto alla costruzione di una competenza interculturale «intesa come la capacità di ricostruire le diverse prospettive culturali all’interno dei contenuti culturali» (Ricci Garotti,2014,p.28). Insomma: rimane il fatto che a scuola le lingue non si incontrano, non dialogano, non si mescolano. E la traduzione, che fa dell’incontro tra le lingue e della negoziazione dei significati una pratica quotidiana e un modo di vivere, è utilizzata principalmente al fine di occultare l’alterità, come esercizio linguistico basato sulla mobilitazione di competenze logiche, analitiche. Ma è vedendo gli altri – ci insegna l’approccio interculturale – che «vediamo quanto siamo strani “noi stessi”», e quindi «incominciamo a prendere
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Per una didattica del testo tradotto e della traduzione —
La scuola italiana, dopo aver sviluppato un dibattito ricco e proficuo, sembra aver abbandonato la strada dell’educazione interculturale. Ciononostante, è necessario che la comunità professionale dei docenti dell’area linguistica, con il supporto del mondo della ricerca e dell’editoria, sia consapevole delle potenzialità educative della traduzione. Per prima cosa, se pensiamo alla traduzione come «una delle forme principali di circolazione del sapere» (Benvenuti 2012, p. 149) possiamo riflettere sull’importanza della conoscenza delle politiche di traduzione, della loro storia e delle loro pratiche al fine di comprendere il funzionamento dei processi di selezione e di trasmissione nel tempo delle opere letterarie da parte di determinati gruppi sociali. Il filosofo Jean-Marie Schaeffer ha insistito sulla necessità di distinguere, nell’ambito degli studi letterari, una prospettiva descrittiva da quella propriamente normativa. Soprattutto, sostiene Schaeffer (2014),è fondamentale non confondere l’una con l’altra e, in particolare, acquisire consapevolezza, nella didattica e nella ricerca, del duplice e distinto ruolo
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della letteratura all’interno dei sistemi educativi: una funzione cognitiva, basata sulla fruizione delle opere e sulla loro “attivazione” nella mente dei singoli lettori, e una funzione sociale, basata su processi di selezione e di trasmissione delle opere. In questa prospettiva assume un ruolo fondamentale lo studio delle politiche e delle pratiche della traduzione e del traduttore come mediatore culturale. E diventa necessario cominciare dal rendere visibile la pratica della traduzione, diffusissima nei libri scolastici, i quali fanno largo uso di opere delle diverse letterature del mondo, ma perlopiù invisibile. I testi tradotti che vengono utilizzati nell’ambito della didattica della letteratura hanno bisogno di essere presentati come risultato di un incontro tra due lingue e due poetiche, la poetica dell’autore e la poetica del traduttore (Buffoni 2007, p. 19). Solo in questo modo è possibile contrastare la tendenza all’omologazione linguistica e culturale promossa dall’industria dei contenuti dando l’illusione che ogni testo tradotto sia un originale (Venuti, 1995, p. 21). Questo nascondimento subdolo, che danneggia il traduttore come intellettuale e come professionista, svela un’intenzione di assimilazione e integrazione linguistica e culturale che esclude di fatto il dialogo interculturale. La traduzione, per diventare un atto consapevole di ospitalità (Prete, 1996), ha bisogno di svelare il traduttore e il
↑ Pubblica lettura di quotidiani cinesi.
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in mano la nostra cultura come qualcosa di cui siamo responsabili» (Mantovani, 2004, p. 101).
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suo progetto linguistico e culturale, di rendere visibile la differenza tra le due opere, le due lingue e le due culture messe in relazione dal traduttore. Rendere la traduzione visibile «è in primo luogo una scelta politica che sostiene l’intenzione di costruire il dialogo interculturale su basi non imperialiste» (Benvenuti,2012,p. 151). Inoltre, dal momento in cui l’editoria mondiale è sempre più dominata dalla lingua inglese, “la traduzione può costituire una pratica concreta di difesa della diversità culturale dinanzi ai rischi della standardizzazione e del dominio crescente dell’inglese» (Benvenuti, 2012, p. 148).
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Approfondire —
J • G. Benvenuti, Letterature e identità in traduzione, in Giuliana Benvenuti, Remo Ceserani, La letteratura nell’età globale, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 143-62. • F. Buffoni, Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e sull’essere tradotti, Interlinea, Novara 2007.• • S. Giusti, Commentare il testo tradotto. Il caso di Les Cloches di Apollinaire nella versione di Caproni, in «Autografo», n. 52, 2014, pp. 95-108. • L. Lopriore, CLIL: una lingua franca, in «La Ricerca», n. 6, giugno 2014, pp. 6-11. • G. Mantovani, Intercultura. È possibile evitare le guerre culturali?, Il Mulino, Bologna 2004.
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• A. Prete, L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Manni, Lecce 1996.
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• F. Ricci Garotti, Aspetti e problemi della ricerca, in «La Ricerca», n. 6, giugno 2014, pp. 24-29. • J.M. Schaeffer, Piccola ecologia degli studi letterari. Come e perché studiare la letteratura?, tr. it. M. Cavarretta, Loescher, Torino 2014; edizione originale Petite écologie des études littéraires. Pourquoi et comment étudier la littérature?, Marchaisse, Paris 2011. • L. Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, tr. it. M. Guglielmi, Armando, Roma 1999; edizione originale The Translator’s Invisibility: A history of translation, Routledge, London 1995.
Come già affermato ed esemplificato altrove, sarebbe possibile, per esempio, inserire nella didattica della lingua e letteratura italiana la pratica del commento al testo tradotto (Giusti, 2014). Si tratta, in particolare, di tentare l’interpretazione del testo tradotto come «risultato di una interazione verbale con un modello straniero recepito criticamente a attivamente modificato» (Buffoni, 2007, p. 15), in modo tale da mettere i docenti e gli studenti in grado di toccare con mano – utilizzando metodi e strumenti cognitivi a loro noti, quali la comprensione del testo, la metrica o la narratologia, la storia letteraria – il dialogo interculturale tra due testi, e dunque il ruolo di mediatore culturale svolto dal traduttore. Infine, allo scopo di simulare la condizione di spaesamento che si trova a sperimentare ogni traduttore quando si espone all’incontro con un’altra lingua, sarebbe opportuno favorire pratiche di traduzione che non siano strumentali all’apprendimento di una lingua straniera, ma che siano focalizzate sull’apprendimento della lingua d’arrivo, la madrelingua,e sull’osservazione dei cambiamenti che l’atto del tradurre comporta per il soggetto che traduce. Se non è possibile “medicare” le ferite dello spaesamento, sia concesso almeno credere alla possibilità di attenuare i dolori – e le tentazioni di fuga – che le ferite ancora oggi possono provocare.
↑ L. Weiner, From One Language to Another, 1969, Amsterdam.
Simone Giusti insegnante e saggista, scrive per «La ricerca» e dirige insieme a Natascia Tonelli la collana «QdR / Didattica e letteratura».
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racconti di scuola
Noi, Europa di Giusi Marchetta
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Qualche settimana fa ho incontrato alcuni lettori in una libreria. Il discorso si è spostato sulle letture che consiglio ai miei studenti. La mia lista è ampia, in continuo aggiornamento: comprende tutti i generi, romanzi e racconti, testi classici e moderni. Nelle mie classi ci sono dodicenni di origine rumena, moldava, nordafricana, senegalese. Sono tutti nati a Torino. Non c’è quasi mai un’imposizione nelle letture: scelgono un libro dalla lista, lo leggono, ne parlano in classe. Conoscono Patrick Ness, Siobhan Dowd,Agata Christie, sir Arthur Conan Doyle,J.K.Rowling,Nadine Murail,Alan Stratton,Neil Gaiman,Sabrina Rondinelli, Nadia Terranova, Marta Barone, Giovanni dal Ponte, Fabio Geda, Niccolò Ammanniti. – E gli africani? – mi chiede qualcuno in libreria. – Cosa gli fai leggere? Ho provato a scorrere mentalmente la mia lista e ci ho trovato libri sull’immigrazione e il razzismo, Malala, Mandela e Martin Luther King. Nessun autore africano o asiatico che potessi ricordare. – Come faranno ad avere un legame con le proprie origini se non leggono più le storie della propria cultura? – ha incalzato la signora. E come faranno, ho pensato, a ritenere il loro Paese d’origine qualcosa di diverso da un posto che non gli ha offerto niente? Ho promesso che avrei rimediato.
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La parola d’ordine nella scuola moderna è inclusione. Un concetto all’apparenza facile e facilmente condivisibile. Una scuola accogliente, a misura di tutti: stranieri, diversamente abili, alunni con disturbi dell’apprendimento, problemi economici o comportamentali. Tutti accolti da un’istituzione che garantisca a ciascuno di loro un percorso didattico alla propria portata, che ne sviluppi le potenzialità attraverso strumenti adeguati e che gli dia un’educazione improntata al rispetto di se stessi e degli altri. Una scuola diversa e insieme comune che sappia parlare a persone diverse e che al tempo stesso hanno bisogno di sentirsi parte di una realtà comune, in cui poter lavorare, in cui rispecchiarsi. Intanto, ciclicamente, un attentato in una capitale europea spacca la società in “noi e loro”.Una circolare richiede un minuto di silenzio nelle classi a un’ora stabilita con la stessa automaticità con cui si pretende la condanna del terrorismo da parte dei nostri concittadini musulmani.Vogliamo essere rassicurati che siamo tutti dalla stessa parte: la nostra.
Scuola / Noi, Europa
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on più Italiani, Francesi, Spagnoli, Marocchini, Congolesi, Pakistani. Europei. Siamo sempre stati qui o ci siamo arrivati attraverso il mare o in aereo e adesso l’Unione europea ci ha accolto, bene o male, e ci ha assegnato un posto e un’identità. Nelle nostre strade si incrociano lingue e dialetti, nelle case si celebrano riti e si rispettano usanze che ci hanno seguito per chilometri. Andiamo a scuola e impariamo l’italiano e un’altra lingua europea; impariamo la storia di chi ha colonizzato il nostro Paese; leggiamo fiabe con principesse bionde che una matrigna invidiosa ha imbruttito per sempre scambiando la loro pelle candida con una carnagione scura come la terra.
Ho promesso che avrei rimediato. Ho ammesso con i miei studenti che tutti gli autori africani e asiatici che conosco scrivono libri per adulti e che mi informerò per trovare qualcosa di adatto a loro che racconti questa parte del mondo con la propria lingua.Loro mi hanno chiesto preoccupatissimi se i libri saranno sempre in italiano: solo due tra i marocchini parlano l’arabo, ma di leggerlo e scriverlo non c’è verso. Europei, dunque, ma anche qualcosa di più: cittadini di un’entità politica senza veri confini, che si riconosce in una Dichiarazione dei diritti condivisa e nella possibilità concreta di essere trattati come il compagno o la compagna di banco. Ma per arrivare a questo dobbiamo essere pronti a guardare alla nostra storia e alla nostra cultura senza pensare che basti spiegarle e imporle. Affrontare colonialismo e schiavismo con tutte le loro orrende conseguenze; condannare assieme al terrorismo la guerra e il traffico d’armi di cui i nostri Paesi sono responsabili; aprire il nostro sguardo a un Mediterraneo che dovrebbe essere un ponte e invece è un cimitero. C’è molto da fare, molto da sbagliare.
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↑ Particolare del Muro di John Lennon, Praga.
Affrontando senza paura il compito di associare un’immagine e uno slogan a Imagine di John Lennon, Soheil ha mostrato alla classe il suo mashup di bandiere dal titolo: Tanti popoli una sola bandiera. Gli ho fatto notare che nel suo disegno c’erano rappresentati solo Paesi europei. – Non hai messo neanche il Marocco – ho detto. – Non ci ho pensato – ha detto lui. Noi insegnanti, invece, dobbiamo pensarci. È necessario che la scuola si ponga l’obiettivo di includere senza schiacciare. Non possiamo permetterci di semplificare i rapporti tra culture diverse senza considerare le implicazioni di questa convivenza, imponendo un’identità comune cui adeguarsi, spinti dalla paura di perdere la nostra. Mi ritrovo a sorprendermi,comunque,davanti a fenomeni che esistono e hanno poca rilevanza mediatica: la voglia di esprimersi e di emergere delle ragazze di ogni etnia, il conseguente supporto della famiglia; l’abitudine a percepirsi come parte della collettività in cui si è nati a prescindere dalle origini familiari; l’esistenza di una comunità virtuale trasversale a ragazzi della stessa età e priva di pregiudizi che suonano vecchi o riservati agli stessi emarginati del mondo adulto (zingari e Rom, ad esempio).
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La settimana scorsa, chiacchierando, Moahmed ha concluso un aneddoto con un nordico “bòn”: un’esclamazione spontanea, di cui non c’è traccia nel passato dei suoi antenati, nelle città in cui sono nati i suoi nonni e i suoi genitori, ma che, stranamente, non stona in mezzo al suo accento piemontese come invece stonerebbe pronunciata nella mia parlata campana. Mi ha fatto effetto sentirlo: mi sono chiesta se fosse una conquista o una rinuncia, se non potesse significare entrambe le cose. Più semplicemente, forse, è la prova che è possibile trovare una lingua comune in cui dire cose diverse o celebrare in silenzio sia le vittime dell’odio che quelle della nostra indifferenza o della nostra politica. È evidente però che per un numero così alto di vittime un minuto al giorno non basterebbe e forse, è proprio questo il problema. Giusi Marchetta nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino, dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce.
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