La ricerca 13 - Obbligo o verità?

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La ricerca

RI14 - Orson Welles , il 30 ottobre del 1938 negli studi della CBS interpreta il radiodramma La guerra dei mondi. Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 13 anno 2017

Novembre 2017 Anno 5 Nuova Serie – 6 Euro www.laricerca.loescher.it

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I

n contatto diretto e quotidiano scambio con i suoi lettori, per ampliare le prospettive, accogliere le notizie più attuali in tempo reale, arricchire il dibattito, captare e rilanciare nuovi argomenti. Il sito contiene gli articoli scritti per La ricerca cartacea e il pdf scaricabile, articoli di attualità, istruzione, cultura, la sezione Scritto da voi, un’area dedicata alle normative riguardanti l’istruzione e tutti i Quaderni della Ricerca.

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N°13

SAPERI

Attendibilità, autorevolezza e democraticità in rete

23/10/17 16:12

DOSSIER

Fake news e cultura giovanile

SCUOLA

Smartphone, navigazione sicura e fact-checking

30/10/17 12:35


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RI14 - Orson Welles , il 30 ottobre del 1938 negli studi della CBS interpreta il radiodramma La guerra dei mondi. Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 13 anno 2017

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editoriale

Virtualmente umani

Q

ualche settimana fa è capitato un fatto “increscioso”. Un sedicente giornalista ha dedicato una pagina del suo quotidiano alla denuncia dell’indottrinamento politico che staremmo tentando con un nostro testo per le scuole medie. Con abile perizia liquidatoria, l’articolista sfoglia il testo, si ferma su un approfondimento di quattro pagine, ne estrapola un paragrafo di dieci righe, si concentra sul titolino e grida allo scandalo. La cosa ci lascerebbe indifferenti, se non fosse che nel pezzo si dà conto anche del malumore che serpeggerebbe, a causa nostra, nella classe docente di quella provincia italiana (e chissà poi perché di quella…). Proviamo a indagare tramite i nostri rappresentanti di zona, ma nessuna lamentela sembra aver turbato la didattica del territorio. Tutto tace. Anzi no. Perché l’articolo, postato in rete, suscita l’immediata proliferazione di commenti da parte degli affezionati lettori del quotidiano, i quali si spingono fino a dove sono soliti, cioè al complotto giudaico. In casa editrice si diffonde un certo allarme, per il timore che il fenomeno possa ingigantirsi. Personalmente sono in apprensione: conosco bene il testo e so che le insinuazioni sono infondate, ma come dimostrarlo? E a chi? E dove? In effetti, quando quella sera esco dalla casa editrice per tornare a casa mi accorgo di avere un fare un po’ guardingo: come se, camminando per la strada, mi aspettassi di incontrare qualcuno intenzionato a chiedermi conto dei fatti. Ovviamente, nulla accade: a nessuna delle persone che frequento è noto l’accaduto. Se provo a parlarne io, a nessuno sembra che la cosa interessi poi tanto (“ah, ma va?!”, “ma pensa!”). L’apprensione mi passa. Fino al giorno dopo, quando, acceso il computer, mi ritrovo oggetto di mail e di post, lamentele e insulti. Dedico l’intera giornata, in accordo con il nostro ufficio stampa, a rispondere alle Con chi posta insulti sui social è une e agli altri, con esiti diversi. Con chi ha postato insulti sui soimpossibile ogni dialogo. Non prova cial è impossibile ogni dialogo. Non solo non prova nemmeno ad nemmeno ad argomentare, replica argomentare, ma replica ai chiarimenti con un crescendo di violenza verbale che da solitario sfogo si fa appello all’assembramento ai chiarimenti con un crescendo di squadristico. Abbandono ogni velleità di civile colloquio. Spengo il violenza verbale. computer e sono di nuovo preoccupato. Penso che questa volta ne parleranno i TG, si organizzeranno sit-in di protesta e forse si arriverà allo scontro fisico… e invece, nulla. La cosa sembra continuare a non interessare a nessuno. Ogni tanto riaccendo il computer, e ascolto il vociare della rete. Spengo, ed è silenzio. Passano ancora un paio di giorni, e tutto sembra di nuovo sopito. Finché un collega di un altro ufficio mi ferma sulle scale e mi chiede: “Ma che avete combinato, in redazione?”. “Perché?” chiedo. “Il comunicato?!”. “Quale comunicato?”. “Ti mando il link!”. Arriva, ci clicco su e mi ritrovo alla pagina di un altro giornale locale che racconta di come una nota formazione neofascista sia venuta sotto la nostra sede ad attaccare manifesti di protesta. Corro fuori, ma non c’è nulla. Rientro in sede e mando una mail a tutti, per chiedere chi ne sappia qualcosa. Nessuno. Eppure l’articolo parla chiaro, con tanto di foto che mostra i manifesti appesi. Mistero. Finché a qualcuno non viene il sospetto e va a chiedere alla portinaia del palazzo.L’arcano si scioglie: la donna, infatti, la mattina molto presto, come di consueto, esce a pulire androne e marciapiedi; vede i manifesti; li classifica per ciò che sono,li stacca e li butta.Così, mentre in rete il post ridà la stura all’universo parallelo intriso di complotti, congiure e crociate, la realtà prosegue imperturbata il suo quieto cammino di concretezza, ignorando le sciocchezze e restituendo al pattume il vociare indistinto di quell’umanità virtuale.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Loescher.


La ricerca Periodico semestrale Anno 5, Numero 13 Nuova Serie, novembre 2017 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Loescher Editore Direttore responsabile Mauro Reali Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP Grafica e impaginazione Leftloft - Milano/New York Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero Maurizio Abbati, Olimpia Affuso, Battista Gardoncini, Simone Giusti, Marco Gui, Sandro Invidia, Gabriela Jacomella, Marco Labbate, Paola Limone, Regina Marchi, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Anna Piseri, Annachiara Scalera, Stanford History Education Group, Paolo Vitale © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)


Sommario Attendibilità, autorevolezza e democraticità in rete

saperi

scuola

Non dire il falso, che tanto ci credo

52

Smartphone a scuola?

13

Scienza e verità

58

Tutti a scuola di fact-cheking

18

La falsificazione della storia

63

Alla ricerca di informazioni scientifiche

23

Il messaggio ambientale fa rete

66

Per navigare in acque sicure

29

L’ho letto su internet

70

Studenti autori e redattori

72

Otto poesie del MeP

6

Olimpia Affuso

Battista Gardoncini Marco Labbate

Maurizio Abbati

Paolo Vitale e Anna Piseri

Fake news e cultura giovanile

dossier 34

Volevamo la fantasia al potere. C’è andata Ubaldo Nicola

37

Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online Stanford History Education Group

43

Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica Regina Marchi

48

La credulità in America Francesca Nicola

Marco Gui e Simone Giusti Gabriela Jacomella Paolo Vitale

Paola Limone

Redazione «La ricerca»


saperi

Saperi / Non dire il falso, che tanto ci credo

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Non dire il falso, che tanto ci credo Come si è passati dai rumors alle fake news? Una sociologa indaga gli aspetti del fenomeno delle “voci che corrono” nell’era di internet. di Olimpia Affuso

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

I

l mondo sociale è da sempre attraversato da racconti in cui l’intreccio tra verosimile e perturbante dà luogo alle più straordinarie e fantasiose narrazioni incontrollate. Usate per delegittimare avversari politici e concorrenti di mercato o per cercare di gestire fatti ignoti, capaci di risvegliare l’opinione pubblica e spesso anche di attivare forme di contro-potere, le voci sono in grado di lasciare nella mente collettiva impressioni e sensazioni indelebili. E sono tanto suggestive da risultare spesso più persuasive di tutte le successive spiegazioni volte a confutarle in base a qualche principio di scientificità. Se il passaggio di bocca in bocca è stato a lungo il veicolo principale di questo intrigante sistema di narrazioni collettive, l’avvento dei media ha reso via via il fenomeno sempre più ampio, capillare ed esteso. Tanto che la rete di trasmissione mediale delle voci le porta oltre la propria collettività, fino a raggiungere i continenti più lontani; al punto che i loro effetti hanno oggi ricadute globali e sono temutissimi perché tendono a sfuggire al controllo della politica e delle istituzioni. In questo contributo metterò in luce alcuni aspetti del fenomeno delle “voci che corrono”1, per


7 SAPERI / Non dire il falso, che tanto ci credo

C. Cook, Lampadine, neon art wallpaper, 2012.


Saperi / Non dire il falso, che tanto ci credo

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arrivare a cogliere come esso possa apparire ogni volta diverso, per esempio a seconda del canale a cui si appoggia, ma che è in qualche modo sempre uguale, per il fatto di esprimere un’intelligenza collettiva capace di manifestare un pensiero fantasmagorico ma spesso convincente. Prima di entrare nel cuore del ragionamento, può essere utile che racconti come il fenomeno delle voci sia entrato nei miei interessi di ricerca, veramente per caso, in un momento particolare della mia vita, quando, con l’idea di fare il dottorato di ricerca, stavo approfondendo i miei studi in sociologia della comunicazione. Era il 12 novembre 2001. Mi trovavo in centro, a Cosenza, la città in cui vivo, per fare delle spese. Erano le 18.30, eppure stranamente tutti i negozi stavano chiudendo. Pensai a un’ordinanza comunale per qualche particolare occasione. Quando però chiesi spiegazioni alla proprietaria del negozio in cui ero, quella si stupì non poco della mia domanda e mi disse: “Come, non lo sa? Stasera e nei prossimi giorni ci saranno delle scosse fortissime. È previsto un terremoto violentissimo che entro il 20 novembre staccherà la Calabria dal resto d’Italia”. Decisi immediatamente che non potevo farmi sfuggire quell’occasione e, imitando lo studio di Edgar Morin del 19692, dedicai i giorni successivi a raccogliere testimonianze e racconti da chiunque incontrassi, per strada, al bar, amici, conoscenti. Io non avevo saputo nulla, eppure intorno a me un’intera città aveva ricevuto – dalle più svariate fonti (dal telegiornale, dal dipartimento di ingegneria dell’università della Calabria, da una donna carismatica famosa per le sue profezie, e così via) – la notizia di quella catastrofe imminente 3. Se il passaggio di bocca Una notizia che, allo stesso in bocca è stato a lungo modo in cui era arrivata e si era diffusa – improvvisail veicolo principale di mente –, così svanì, lascianquesto intrigante sistema do dietro di sé nient’altro di narrazioni collettive, che un leggerissimo sospil’avvento dei media ha ro di sollievo. reso via via il fenomeno Qualche anno dopo,quella voce di «un catastrofico sempre più ampio, terremoto imminente» è capillare ed esteso. tornata. Ma ha assunto una forma nuova,legata allo sviluppo e al ruolo dei new media e di internet4.Sicché,essa non ha riguardato solo una città e un singolo momento, ma è durata oltre un anno, colpendo diverse zone d’Italia: prima Arezzo, a fine gennaio 2010; poi Napoli, intorno al 12 marzo 2010; quindi Roma, dove il terremoto catastrofico sarebbe dovuto avvenire l’11 maggio 2011. La voce ha assunto via via dimensioni tali da spingere l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia a intervenire e a organizzare una comunicazione mirata, per placare il panico e ristabilire la tranquillità collettiva.

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D’altro canto, quella delle voci su catastrofici terremoti non è certo una novità. Si può anzi dire che sia una delle più tipiche narrazioni collettive. L’imprevedibilità del terremoto è, soprattutto in aree che ne sono da sempre colpite, il fondamento stesso del bisogno che il gruppo sociale avverte di liberarsi dall’angoscia di sentirsi condannato a un rischio quasi ineluttabile. La paura di un evento imprevedibile, ma in futuro altamente probabile,spiega questo tipo di narrazioni. E spiega pure che c’è una certa intelligenza collettiva dietro racconti di questo tipo, come se la collettività, ogni tanto, facesse una specie di esercitazione spontanea alla gestione del rischio. Se guardiamo, più in generale, alla storia delle voci ci accorgiamo però che il motivo per cui “corrono” e persuadono non è sempre riconducibile al bisogno di esorcizzare e di gestire una paura.A volte la rumeur nasce per capire, o per scandalizzare; a volte per danneggiare (tanto che ci si può anche uccidere per delle voci) o, al contrario, per sedurre e convincere. Nella maggior parte dei casi le voci esprimono convinzioni arcaiche. Ma assai spesso sono un modo per stimolare un sapere che si desidera fare emergere e affermare. Se ritorniamo alla nostra voce sui terremoti, non sarebbe del tutto errato pensare che si esprima, attraverso di essa, anche il desiderio collettivo di spingere la scienza verso la sperimentazione di tecniche di misurazione sempre più precise e sofisticate, in direzione, perché no, di una sempre maggiore prevedibilità del fenomeno tellurico. Ma proviamo a vedere qualche altro caso. Il 22 novembre 1963, negli USA, a Dallas, fu assassinato John Fitzgerald Kennedy. La commissione incaricata di indagare su questa vicenda dichiarò categoricamente, attraverso quello che passò alla storia come rapporto Warren, che l’assassino era stato Lee Harvey Oswald e che aveva agito di propria iniziativa e da solo. Nonostante ciò, fin dal primo momento dell’attentato, in tutto il mondo si era diffusa l’idea che ci fossero altri cecchini a Dallas quel giorno, e che questo omicidio fosse parte di un complotto di proporzioni più ampie che implicava forse Fidel Castro, forse la CIA – quindi non certo opera di un singolo uomo5. Ed ecco che questa narrazione fa sorgere una domanda immediata: quale tra le due versioni, quella ufficiale del rapporto Warren e quella del complotto, è la notizia e qual è la voce? E, dunque: qual è lo statuto di verità accreditato? Distinguiamo da questo appena descritto ancora un altro tipo di rumor, di cui è un esempio famoso la rumeur d’Orléans studiata da Morin, diffusasi nel 1969 (e che aveva circolato in modo simile qualche anno prima a Rouen), secondo la quale, in sei negozi di ebrei, sarebbero sparite diverse giovani donne, rapite nei camerini di prova, e che, negli scantinati di quei negozi, la polizia avrebbe trovato due o tre di loro legate e pronte per essere vendute in un giro di


← BE AFRAID OF THE ENORMITY OF THE POSSIBLE, Art Basel Miami beach Convention Center, 2015.

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loro modo di procedere ci sono due errori. Il primo riguarda il fatto che,per avvalorare la loro tesi,i due studiosi fanno solo esempi di notizie false, anche se il rumor non nasce necessariamente solo intorno a notizie false, e nemmeno sempre la circolazione fa perdere l’informazione: molto spesso, invece, le informazioni più importanti vengono conservate e addirittura preservate dalla distorsione. Il secondo errore, che è strettamente legato al primo, consiste nel fatto che i due studiosi non colgono una questione di fondo rispetto al timore del Governo americano, ossia che se il rumor fosse sempre falso non ci sarebbe nessun motivo di preoccuparsene10. Invece, è proprio perché può rivelarsi vero che il rumor disturba, soprattutto in tempo di guerra. Prova ne è il fatto che il Governo avesse attivato una task force per neutralizzarlo. Questi due errori hanno fatto sì che Allport e Postman definissero il rumor come proposizione legata ai fatti del giorno, destinata a essere creduta, propagandata da persona a persona, in genere attraverso il passaparola, senza che esistano dati concreti della sua veridicità11.Ma si tratta di una definizione che porta ad arenarsi, per l’impossibilità di chiunque di ottenere dati concreti sulla veridicità e poter distinguere tra voci e altre informazioni. D’altro canto, la sensazione di pericolo che i Governi e le istituzioni avvertono di fronte alle voci non sta solo nel fatto che possano essere vere. Sta innanzitutto nel fatto che, nel gioco tra vero e falso, esse risultino come una sorta di attentato allo statuto epistemologico della verità. Ma vi è anche un altro problema: dal momento che nessuno può mai garantire fino in fondo che i fatti siano verificati, il regime in cui si entra con le voci è lo stesso che investe qualunque tipo di notizia o informazione: anch’esse si diffondono in base alla fiducia nelle

SAPERI / Non dire il falso, che tanto ci credo

tratta delle bianche6. La rumeur è di grandi dimensioni e i negozi sono costretti a chiudere,nonostante la mobilitazione di tutte le agenzie di informazione e nonostante la sensazione immediata di tutti che si tratti di una storia senza alcun fondamento. Voci come questa sono più simili a delle leggende che a delle notizie, eppure hanno effetti reali. Se facciamo ancora un passo indietro, troviamo che l’interesse delle scienze sociali per questo genere di narrazioni nasce in un momento particolare e in un contesto a sua volta specifico: l’America degli anni Quaranta del Novecento. È il momento in cui, a seguito dell’attacco giapponese di Pearl Harbour, iniziano a diffondersi rumors sulla Seconda guerra mondiale. Il Governo, dichiarando di essere preoccupato per l’impatto che essi possono avere sull’umore delle truppe e sulla riuscita della guerra e, più in generale, sul sentimento di unità nazionale, decide di istituire dei comitati per contrastarli. Proprio in quel clima sorge l’Office of War Information al cui interno i ricercatori americani costruiscono un modello per controllare e screditare il flusso delle voci, lanciando una campagna che sensibilizzi la popolazione a comportarsi da buoni cittadini e non diffondere rumors7. Parallelamente a questa campagna, il più grande lavoro degli studiosi consiste nell’arrivare a dare una definizione del rumor. Per Knapp, che si può considerare il primo studioso di questo tipo di narrazioni, il rumor è una dichiarazione destinata a essere creduta, riferita all’attualità e diffusa senza verifica ufficiale8. Qualche anno dopo, Allport e Postman si incaricano di dimostrare che, inevitabilmente, qualunque notizia, nel passaggio di bocca in bocca subisce una distorsione che la allontana dalla verità9, e per dimostrarlo fanno molti esempi di rumors. Kapferer ha però messo in rilievo che nel


fonti. Poiché le fonti delle voci sono ben altre che quelle ufficiali (amici parenti, colleghi, testimoni che si dichiarano oculari o direttamente colpiti dai fatti), ma sono spesso ritenute più credibili, perché percepite come libere da interessi di potere e unicamente sostenute da motivazioni altruistiche, ecco che la situazione è assai temuta, soprattutto dalle istituzioni e dalle fonti ufficiali.

Quindi vennero le fake news —

Se definiamo il rumor come “informazione non verificata” perdiamo di vista che questa è la condizione tipica del pubblico di fronte a qualsiasi notizia. E, soprattutto, che esso genera effetti reali quando è ritenuto vero, a prescindere dal fatto che lo sia realmente. Questo perché la nozione di “notizia verificata” si basa sul consenso sociale, tanto che la stessa realtà «è essenzialmente sociale. Per il lettore de ‘L’Humanitè’ ciò che dichiara ‘Le Figaro’ non è realtà, e viceversa. Non esiste una realtà che sia campione di verità, bensì esistono diverse realtà»12. Significa che il confine tra informazione e rumor è tutt’altro che oggettivo e si stabilisce in base alla percezione e convinzione personale di ognuno. Come può essere testimoniato, per esempio, dal fatto che il gradimento popolare di Ronald Reagan non fu messo in discussione nemmeno dal ben reale, e grave, scandalo Iran-Contras13. Ecco che, per comprendere il rumor, diventa centrale comprendere che esso viene percepito per la sua esistenza più che per la sua essenza. L’etichetta

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Saperi / Non dire il falso, che tanto ci credo

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→ R. Mason, Do You Hear Yourself Speak? AKA What?, neon e alluminio, galleria Lights of Soho, Londra, 2017.

di voce o di informazione non è attribuita prima di prestare fede alla notizia ma dopo che essa si è diffusa. Un processo che oggi si rende ancora più esplicito attraverso l’uso di due nuovi termini: fake news e post-verità. Le fakes sono come rumors nell’era di internet. Sono, allo stesso modo delle voci, notizie che nascono per dare risposta a bisogni collettivi di conoscenza, elaborazione e controllo di fenomeni che incuriosiscono o preoccupano. Come i rumors, si realizzano nel loro circolare per mezzo di un canale comunicativo. Se prima questo canale era, appunto, la voce, che, con il passaggio di bocca in bocca, traduceva una storia in una informazione suggestiva e credibile, col tempo altri mezzi di comunicazione sono entrati nel processo. Fino a che, anche attraverso una radicalizzazione dell’influenza dei nuovi media, queste notizie enigmatiche hanno colonizzato la sfera pubblica,e,contemporaneamente alla percezione di poter accedere a un’informazione più articolata e partecipata, si è prodotto un generale disorientamento, per il proliferare di smentite, confutazioni e dichiarazioni di falsità. Con il significativo effetto che, da un lato, si è incrinata la più generale fiducia nell’attività delle agenzie di informazione; dall’altro, sono nati nuovi demagoghi che, per giustificare a se stessi e alle proprie cerchie le pratiche di propagazione delle fake, fanno appello all’idea che sono i fondamenti della verità a essere decaduti e che una cosa, se ampiamente diffusa, ha comunque presa sull’audience e una sua legittimità.


conteneva alterazioni e falsificazioni della storia anamnestica dei pazienti allo scopo di supportare un brevetto per un sistema di vaccinazioni singole per ogni malattia, che non esisteva in commercio. Così come non basterà dimostrare che gli effetti della sconsideratezza di Wakefield avrebbero avuto conseguenze molte serie, come nuove epidemie di morbillo. Lo scandalo è mondiale: gli altri co-autori firmano una dichiarazione con cui ritrattano le conclusioni del lavoro. Ma l’imprinting è tale che è tutto il resto, ora, a sembrare una fake, compreso il fatto che l’Ordine dei medici inglese riconosce Wakefield colpevole di una trentina di capi d’accusa, tra cui disonestà e abuso di bambini con problemi di sviluppo.

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Now print! —

Dunque, le voci preoccupano: perché possono delegittimare istituzioni e governi, ma ancora di più perché possono generare comportamenti che mettono in pericolo la vita dei cittadini. E preoccupano perché mettono a nudo, privandolo di qualunque nutrimento riflessivo e autocritico, un meccanismo primordiale della specie. Si tratta di qualcosa che alcuni psicologi sociali,analizzando il processo tramite il quale si strutturano i ricordi di alcuni eventi – le “flashbulb memories” –, hanno definito in un modo suggestivo: now print! Ovvero: adesso stampa! Un meccanismo attraverso cui gli individui Le fakes sono come fissano il ricordo di un evenrumors nell’era di internet. to, o di una notizia relativa a un evento che ritengono Sono, allo stesso modo pericoloso per la specie, e delle voci, notizie che lo conservano in memoria nascono per dare risposta inalterato e inalterabile, e a bisogni collettivi di in più contribuiscono a riconoscenza, elaborazione produrlo parlandone con 15 tutti . Per cui l’informazioe controllo di fenomeni ne non potrà mai più esseche incuriosiscono re modificata e nemmeno o preoccupano. dimenticata. Tale meccanismo mette in discussione l’idea che ci si possa appellare all’autorevolezza di una fonte, perché aiuta a comprendere che la dinamica del rumor/fake è indipendente dal problema dell’autenticazione. Semmai, il now print! ci aiuta a comprendere il legame sempre più stretto cheil rumor/fake ha con il tentativo collettivo di rispondere tutti insieme a bisogni, anche legati ad esperienze personali, rispetto ai quali si percepisce un deficit di tutele da parte delle istituzioni, politiche e scientifiche. Tanto che slogan come quello della post-verità diventano confortanti, perché danno la sensazione di una comunicazione che, nell’andare oltre lo statuto della verità, apre alla creatività e alla resistenza. E, in risposta, i governi si trovano costretti a legiferare per i limitare gli effetti dannosi delle

SAPERI / Non dire il falso, che tanto ci credo

Si tratta di un panorama in cui le nuove tecnologie, attraverso il meccanismo del filter bubble e dell’echo chambers, fanno sì che ognuno continui a rimanere come in un bolla dove riceve e trova solo informazioni che rafforzano e nutrono i suoi interessi e le sue opinioni14. E, al contempo, si afferma la convinzione che ciò che interessa ai cittadini, tanto più nell’epoca della post-verità, non è che una notizia sia verificabile, ma che sia capace di soddisfare criteri di gradimento e condivisibilità, il più possibile pluralistici e sganciati da meccanismi di legittimazione istituzionale, come nei termini di una nuova (ma chiaramente malintesa) autenticità. E in ciò si gioca la delegittimazione, anche ideologica, dei principi della conoscenza e delle sue agenzie. Ecco allora che il termine fake, esasperando una delle accezioni di rumors, sposta l’attenzione dal comportamento collettivo al suo risultato. Per cui, se rumor indica l’insieme delle voci che corrono di bocca in bocca in bocca, o di media in media, e che si trasformano in questo correre grazie all’azione di tutti, fake indica ciò che risulta al termine della corsa: ovvero,che si è prodotta un’informazione errata. Come dire che fake è una notizia falsa,e che di fronte a essa non si deve fare altro che discutere di questa stessa falsità, nei più virtuali e reali modi possibili. È tutto molto evidente se facciamo riferimento al caso eclatante della notizia che il vaccino trivalente genera l’autismo. La notizia si diffonde alla fine degli anni Novanta quando il gastroenterologo inglese Wakefield sostiene, in un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet, un nesso tra il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia e l’autismo nei bambini. In quel momento, e in quei termini, piuttosto che di una fake sembra trattarsi di un’eclatante notizia in campo medico. Qualcuno è cauto, ma l’informazione si presenta come l’esito di uno studio in cui vengono descritti casi di 12 bambini affetti da autismo dopo essere stati vaccinati per morbillo, parotite e rosolia. Solo quando autorevoli ricerche scientifiche di importanti istituti e organizzazioni medico-sanitarie, come l’Institute Of Medicine of the National Academies americano e l’Organizzazione mondiale della sanità, dichiareranno che non esiste alcuna correlazione tra vaccini e autismo, quella che appariva una importante notizia viene rubricata come fake.È urgente,dunque,sgombrare il campo da qualunque espressione semantica che conservi il dubbio di una verità, anche perché la popolazione comincia a non vaccinare più i bambini. Ma ormai è tardi. L’opinione pubblica ha avuto il suo imprinting. E, come nella tradizione dei più classici rumors, le smentite non fanno che alimentare la notizia, nella convinzione che enormi altri interessi si celino dietro le smentite. Non basterà dire, grazie a un’inchiesta giornalistica condotta sul Sunday Times, che l’articolo di Wakefield, oltre a difetti scientifici,


Saperi / Non dire il falso, che tanto ci credo

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↑ D. Boel, TRUTH = FREEDOM?, neon, 2012, Bruxelles.

fake, come è accaduto quest’estate in Italia, quando si è reso obbligatorio, per l’iscrizione a scuola, il completamento del ciclo delle vaccinazioni per i ragazzi fino a dodici anni. Dunque,l’informazione dal basso è inarrestabile (e ci si deve fare i conti), soprattutto per l’effetto dirompente dei social e di internet, e sembra, a molti, avere grandi potenzialità, perché, nella pluralità e infinità dei tagli e dei punti di vista, risulta capace di stimolare forme di partecipazione più libere da quel rischio di controllo a cui deve sottostare in generale la conoscenza ufficiale. Ma la situazione è più complessa. Perché, da un lato, la realtà della comunicazione aperta oggi dai social e da internet non è ancora in grado di cogliere le interconnessioni sottese alla vita sociale, politica ed economica degli uomini. Dall’altro, non ci riesce più nemmeno l’infrastruttura classica della conoscenza, che pur ci si avvicina, per vocazione e per storia. Più che altro sembra, essa stessa, imbrigliata negli effetti scomodi della post-verità, finendo per essere unicamente impegnata a inseguire le bufale.

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

NOTE 1. “Voci che corrono” lo prendo in prestito dalla prima traduzione in italiano, di Laura Guarino, del 1988, del saggio di Jean-Noël Kapferer,Rumeurs. Les plus vieux media du mond, Editions du Seuil, Paris1987. 2. E. Morin, La Rumeur d’Orleans, Editions du Seuil, Paris, 1969. 3. O. Affuso, Falsi terremoti, vere paure. Come una diceria diventa realtà, in «Daedalus. Quaderni di storia e scienze sociali», 17/2002, pp. 67-90. 4. Tra ciò che cambia vi è quello che potremmo chiamare il periodo di ritorno di una voce. Fino all’avvento di internet, diciamo circa i primi anni Duemila, un rumor come questo tornava a diffondersi più o meno ogni 10 anni. Si v. la ricostruzione di focus: https://www.focus.it/ scienza/scienze/terremoti-leggende-metropolitane-roma-11-maggio-2011-metropolitani-541224-1554 (consultato il 27 settembre 2017). Oggi, invece, una voce riemerge e ricomincia a circolare secondo un altro meccanismo che è stato definito di local vira hoax, per cui un’unica notizia falsa (hoax) si diffonde in varie comunità, più o

meno nello stesso periodo, cambiando solo la città in cui si produce il fatto. Cfr. G. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Milano-Udine, Mimesis, 2017, pp. 65 e ss. 5. Cfr. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, trad. it. Armando, Roma, 2012. 6. Morin riuscì a organizzare in tempi brevissimi un’osservazione di quello che stava succedendo a Orléans, consegnando alle scienze sociali uno dei pochi studi su una diceria mentre è in atto. V. E. Morin, La Rumeur d’Orleans, cit. 7. Cfr. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit. 8. R. Knapp, A Psychology of Rumor, in «Pubblic Opinion Quarterly», 8 (1), 1944, pp. 22-37. 9. G. W. Allport, L. Postman, An Analysis of Rumor, in «Pubblic Opinion Quarterly»,10,inverno 1946-1947,pp.501-517. 10. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit., pp. 35-37. 11. G. W. Allport, L. Postman, An Analysis of Rumor, cit. 12. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit., p. 47. 13. Cfr. M. Schudson, Ronald Reagan Misremembered, in D. Middleton, D. Edwards (a cura di), Collective Remembering, Sage, London, 1990, pp. 108-119. 14. G. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, cit., pp. 41-42. 15. R. Brown, J. Kulik, Flashbulb memories, in «Cognition», 1977, pp. 73-99.

Olimpia Affuso PhD in Sociologia, attualmente insegna Sociologia generale all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e Comunicazione pubblica e istituzionale all’Università della Calabria, dove coordina “Ossidiana. Osservatorio sui processi culturali e la vita quotidiana” del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Le sue ultime ricerche riguardano la memoria, la teoria sociale e i processi comunicativi. Tra i suoi libri: Memorie in pubblico (Mimesis, Milano, in stampa); Amor sacro e Amor profano (a cura, con E. G. Parini; Pellegrini, Cosenza, 2017); Sfera pubblica: il concetto e i suoi luoghi (a cura, con P. Jedlowski; Pellegrini, Cosenza, 2010).


Scienza e verità Il web ha profondamente modificato il modo di raccontare la scienza. Le fonti di informazione si sono moltiplicate, ma nell’era della post-verità non è sempre facile distinguere i contenuti validi dalle fake news. Le riflessioni della redazione di TGR Leonardo, l’unico telegiornale scientifico italiano.

I

l telegiornale scientifico TGR Leonardo va in onda dal 1992 su RAI 3.Guardare alle idee che lo hanno ispirato e ai modelli organizzativi che la redazione si è data nel corso degli anni significa anche osservare da un punto di vista privilegiato l’evolversi del rapporto tra media e scienza nell’era digitale, perché è proprio a partire dalla fine degli anni Novanta che il web ha profondamente modificato il modo di lavorare dei giornalisti e le aspettative del pubblico nei loro confronti: una trasformazione inizialmente graduale e oggi tale da porre problemi nuovi e per molti versi inaspettati. Tra gli altri, quello delle fake news, e dei modi per difendersi dalla loro diffusione. TGR Leonardo va in onda alle 14.50, dal lunedì al venerdì e da ottobre a maggio, con una sospensione dovuta ai palinsesti estivi, e propone al suo pubblico quindici minuti al giorno di informazione scientifica, ambientale e sociale. La formula è quella del quotidiano che insegue l’attualità e lavora con i ritmi veloci imposti dalla cronaca. A titolo di esempio, il nome del vincitore del premio Nobel per la fisica, tradizionalmente diffuso dall’accademia delle scienze svedese alle 11.30 del mattino, deve essere pubblicato il giorno stesso. Dunque il giornalista incaricato ha solo tre ore di tempo per confezionare un servizio che vada oltre il semplice annuncio di un telegiornale generalista e approfondisca l’argomento. Un compito impossibile senza le competenze specifiche di una redazione specializzata, che la Testata Giornalistica Regionale creò a Torino nel 1992 distaccando dalla redazione regionale un piccolo nucleo di giornalisti nel quadro di una bella e oggi quasi dimenticata idea di decentramento produttivo.

I primi redattori di TGR Leonardo dovettero affrontare problemi non da poco. Avevano un generico interesse per i temi scientifici e tecnologici, ma non avevano una specifica formazione scientifica. Fecero di necessità virtù, e scelsero di affrontare la sfida con gli strumenti tipici del giornalista professionista: la curiosità, la capacità di costruirsi una affidabile rete di relazioni, la voglia di parlare a un pubblico vasto, senza troppi tecnicismi. Il web muoveva i primi passi. Google sarebbe arrivato soltanto alla fine degli anni Novanta. Si lavorava con le riviste scientifiche e le enciclopedie, con il telefono e soprattutto – per dirla con una frase cara ai cronisti del tempo – consumando la suola delle scarpe. Divenne anche chiaro che un telegiornale scientifico aveva bisogno di immagini non facilmente reperibili nei normali circuiti televisivi. Le classiche riprese dei microscopi e delle pipette di un laboratorio non bastavano: servivano immagini dal mondo, animazioni, grafici e tabelle. E poiché accadeva spesso che si trattassero temi di carattere più generale, come le tecnologie e l’ambiente, fu necessario costruire un repertorio in grado di far fronte alle necessità dell’ultima ora. Le migliaia di cassette raccolte nel corso degli anni, catalogate per argomento, sono attualmente in fase di digitalizzazione e rappresentano un patrimonio unico in Italia.

A chi rivolgersi? Agli ignoranti curiosi —

A chi parlava e parla la redazione? Fin da principio fu chiaro che gli scienziati in quanto tali non erano né interessati né raggiungibili: nel chiuso dei loro laboratori parlavano un linguaggio troppo specia-

SAPERI / Scienza e verità

di Battista Gardoncini

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listico per pensare alla televisione come strumento di informazione e dialogo. La messa in onda su una rete generalista suggerì la ovvia risposta.Troppo breve per raccogliere un pubblico proprio, TGR Leonardo si rivolse a chi era sintonizzato su RAI 3 a quell’ora,e quindi agli spettatori dei telegiornali locali e nazionali che lo precedevano nel palinsesto.

Saperi / Scienza e verità

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↑ Un’immagine dalla sigla televisiva del TGR Leonardo.

Spettatori generici, non particolarmente attratti dai temi scientifici, ma curiosi del mondo e disposti a restare davanti al televisore per saperne di più su argomenti trascurati dal mainstream delle notizie, oppure per scoprire che dietro alle notizie ascoltate in precedenza si nascondevano problemi e risvolti inaspettati. L’avere individuato questo tipo di pubblico come proprio target di riferimento ha portato TGR Leonardo nel corso degli anni a allargare il ventaglio degli argomenti trattati. Non solo scienza, dunque, ma tecnologia, ambiente, cultura, economia, problemi sociali. E molta cronaca, trattata dal punto di vista specifico della trasmissione. Due esempi per tutti. I dati macroeconomici sono spesso al centro del dibattito politico. Pochi, però, spiegano le tecniche statistiche usate per raccoglierli, o le controversie teoriche sulla idoneità del PIL, il prodotto interno lordo, per misurare il benessere di una nazione. La propaganda bellica ha fatto delle armi intelligenti uno dei suoi cavalli di battaglia, ma raramente l’opinione pubblica è stata informata sulle caratteristiche tecniche e i margini di errore che le rendono molto meno intelligenti di quanto si creda.

Spiegare la scienza in 25 righe —

L’altro problema che i redattori di TGR Leonardo dovettero affrontare fu quello del linguaggio. Un servizio di telegiornale dura in media un paio di minuti, che corrispondono a un testo di circa 25

righe. Molte meno quando nel servizio compaiono anche le voci degli intervistati. Spiegare argomenti complessi nello spazio che sulla carta stampata viene normalmente riservato a una breve notizia di cronaca non è facile, anche perché la televisione impone una struttura del discorso semplificata: a differenza del lettore, lo spettatore non ha la possibilità di rileggere quando non capisce qualcosa. La capacità di sintesi è ovviamente fondamentale, ma a volte non basta. Ci sono argomenti, come la matematica, che a causa dell’elevato livello di astrazione non si prestano a una trattazione televisiva. Altri sono così specialistici da risultare di scarso interesse per il grande pubblico, e dunque li si può affrontare soltanto inquadrandoli in un contesto più generale,cercando di evitare il rischio delle semplificazioni eccessive e quello, strettamente connesso,del sensazionalismo.Troppe volte giornali e televisioni hanno annunciato molecole miracolose in grado di sconfiggere il cancro, quando in realtà si trattava di ricerche di base ben lontane dal risultare efficaci a livello clinico. Il format, la scelta dei contenuti, l’attenzione al tipo di pubblico e lo sforzo per raggiungerlo con un linguaggio semplice che non rinunci al rigore sono rimasti al centro delle preoccupazioni di TGR Leonardo per tutta la durata della sua venticinquennale presenza in palinsesto. Ma in un quarto di secolo nel mondo sono intervenute profonde trasformazioni, e l’era della comunicazione digitale ha introdotto cambiamenti nel modo di lavorare della redazione e nel rapporto che si è venuto a creare con il pubblico. Non si tratta soltanto di una rivoluzione tecnologica. Con il web, e in particolare con i social, è crollata la barriera che separa chi produce informazione – una condizione che in Italia è addirittura sancita dall’esistenza di un ordine professionale – e chi la consuma, comperando i giornali, ascoltando la radio o guardando la televisione. Oggi chiunque può mettere in rete i suoi contenuti con costi accessibili: può dare notizie, rilanciarle, diffondere idee e criticare quelle altrui, mobilitare le coscienze per sostenere cause più o meno nobili. Il numero di chi lo fa è in continua crescita, mentre la carta stampata è entrata in una crisi probabilmente irreversibile. Le ultime rilevazioni sulla diffusione dei principali giornali italiani sono drammatiche: Repubblica scende sotto le 200 mila copie e torna ai livelli di 35 anni fa. La Stampa è ferma alle 120 mila copie. Il Corriere della Sera a 205 mila. Quanto alla televisione, quella generalista sta per essere soppiantata da chi offre contenuti on demand fruibili su tablet e telefonini. Su piattaforme come Netflix, Apple, Google e Amazon l’utente ha un ruolo attivo, perché si costruisce un proprio palinsesto, fruibile in qualsiasi momento della giornata, e lo può integrare con informazioni provenienti da altre fonti.


Vantaggi e danni della rivoluzione informatica —

I nuovi esperti e la irresponsabilità della rete —

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E il pubblico? Dalla rivoluzione digitale ha tratto indubbi vantaggi, primo fra tutti quello di essere più informato. Nessuno può pensare di tornare indietro, al mondo asfittico della informazione appannaggio di pochi giornali e di pochi canali televisivi. Ma sulla qualità delle informazioni disponibili occorre fare una seria riflessione, perché quei giornali e quelle televisioni, con tutti i loro limiti, erano comunque prodotti da personale qualificato, che ne rispondeva a un direttore e aveva gli obblighi deontologici legati all’appartenenza a un ordine professionale. Almeno in teoria un giornalista era – e ancora è – come un medico, un ingegnere, un avvocato. Dovrebbe avere competen-

ze specifiche riconosciute, e dovrebbe applicarle in modo corretto nello svolgimento del suo lavoro. Corretto – si badi – non significa oggettivo, ma onesto.Un giornalista non può mentire e deve mettere il suo pubblico nelle condizioni di distinguere tra il fatto e le diverse possibili interpretazioni. Ma bisogna aver chiaro che nel giornalismo l’oggettività non esiste, e quando viene proclamata nasconde in genere qualche condizionamento a qualche forma di potere.Chiunque scriva lo fa sulla base della sua visione del mondo, della sua cultura,

SAPERI / Scienza e verità

Come in tutte le rivoluzioni, gli scenari sono in rapida evoluzione e ci sono pro e contro. Vediamo innanzitutto quello che è cambiato per la redazione di TGR Leonardo. Tra i pro c’è la possibilità di avere accesso in tempi rapidissimi alla sterminata mole di informazioni e dati grezzi disponibile sul web, e quella altrettanto immediata di potersi mettere rapidamente in comunicazione con chiunque in qualunque parte del mondo per ricevere o trasmettere questi dati. Tra i contro c’è che la rapidità è diventata essenziale per essere competitivi.Abbiamo visto che per la televisione la rapidità è sempre stata importante. Ma oggi perfino il redattore di un quotidiano cartaceo o di una rivista è costretto ad anticipare i tempi per la pagina web del giornale, Twitter o Facebook. Dunque diminuisce il numero dei giornalisti che si dedicano con la calma necessaria a una inchiesta o un approfondimento, e aumenta il numero di quelli che lavorano al computer confezionando notizie prese dalla rete. Lo si può fare più o meno bene, ma c’è un evidente rischio di omologazione, perché i risultati dipendono dagli algoritmi elaborati dai motori di ricerca, che non sono sempre in grado di portare nelle pagine iniziali i risultati più significativi. Quello che viene trovato, poi, è spesso un contenuto messo in rete dal soggetto interessato. Un elemento che in tempi passati avrebbe suscitato l’istintiva diffidenza di ogni giornalista, e su cui oggi si tende a sorvolare. Torniamo all’esempio citato, l’assegnazione del Nobel per la fisica. La fonte primaria di tutti i telegiornali e i giornali interessati, compreso TGR Leonardo, è da qualche anno a questa parte il sito ufficiale del premio, www.nobelprize.org, che annuncia in diretta il nome del vincitore e mette a disposizione una ricca documentazione fruibile a più livelli, dal comunicato riservato alla informazione generalista ai materiali più complessi per chi vuole approfondire.Tutto molto bello,e soprattutto molto comodo. Ma è ovvio che, avendo deciso di premiare un certo ricercatore, il comitato per il Nobel non ha alcun interesse a mettere in evidenza le possibili controversie suscitate dal suo lavoro, o i conflitti che potrebbero averlo visto protagonista. Nel 2008 furono premiati con il Nobel due giapponesi, Kobayashi e Maskawa, per una ricerca sulla fisica delle particelle che si basava in gran parte su una teoria elaborata dal fisico italiano Nicola Cabibbo, con cui avevano collaborato. La mancata assegnazione del Nobel a Cabibbo fu vista come una palese ingiustizia da molta parte della comunità scientifica internazionale. È probabile che venticinque anni fa un giornalista di TGR Leonardo avrebbe messo in luce questo aspetto fin dal primo momento, perché per realizzare il servizio si

sarebbe messo in contatto con un fisico qualificato conosciuto personalmente nel corso del suo lavoro. Invece il telegiornale ne parlò soltanto il giorno successivo, quando in redazione arrivarono i primi comunicati di protesta. Una agenda ben fornita e il contatto diretto con le fonti erano parte essenziale del bagaglio professionale di ogni buon giornalista. Oggi vengono a volte trascurati perché Google è più comodo. Ma il risultato sono i giornali e i telegiornali fotocopia, che allontanano il pubblico anziché invogliare alla lettura e all’ascolto.

↑ Fotogramma da una trasmissione del TGR Leonardo.


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delle sue idee politiche e sociali. Lo stesso accade per chi dirige una redazione, per chi costruisce le scalette di un telegiornale, per chi impagina e titola gli articoli di un quotidiano. La gerarchia delle notizie è sempre arbitraria. Nell’era del web i giornalisti hanno perso lo straordinario privilegio di essere gli unici a decidere che cosa è degno di essere reso pubblico e che cosa non lo è. Chiunque lo desideri lo può fare. Bastano un computer e una connessione in rete per aprire un blog, una radio è alla portata di tutti, diffondere un video girato con il telefonino è semplicissimo. Ma non basta essere mossi dalle migliori intenzioni per essere buoni giornalisti,ed è fin troppo facile immaginare che cosa può accadere – e purtroppo accade sempre più spesso – quando queste buone intenzioni non ci sono. Tra i tanti esempi che si possono fare, la controversia sull’efficacia e i rischi dei vaccini è particolarmente significativa. Nel 1998 fu pubblicata sull’autorevole rivista The Lancet una ricerca del medico inglese Andrew Wakefield, che sosteneva l’esistenza di un nesso tra l’insorgere dell’autismo e la vaccinazione trivalente per il morbillo, la parotite e la rosolia. Sulla correttezza di questa ricerca la comunità scientifica ebbe da subito molti dubbi, confermati da successive indagini e ricerche. Nell’era del web i The Lancet ritirò l’articolo, giornalisti hanno perso Wakefield venne accusato il privilegio di essere gli di frode e nel 2010 fu addirittura radiato dall’ordine unici a decidere che cosa dei medici inglese. Questo è degno di essere reso però non ha impedito la pubblico e che cosa non lo diffusione delle sue idee, è. Chiunque lo desideri lo periodicamente riproposte può fare. in rete dagli avversari dei vaccini, che sono numerosi e aprono continuamente nuovi fronti di conflitto con la scienza ufficiale. Molti genitori, spaventati, rifiutano di vaccinare i figli, e in alcuni Paesi i casi di morbillo stanno aumentando in modo preoccupante. Tutti i tentativi di spiegare che la componente di rischio presente quando ci si sottopone a una vaccinazione è statisticamente molto meno significativa delle possibili complicazioni del morbillo vengono semplicemente ignorati, o sbeffeggiati sul web da improvvisati esperti.

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Quale scienza nell’epoca della post-verità? —

Come ha sottolineato l’Oxford English Dictionary proclamandola parola dell’anno nel 2016, siamo nell’epoca della cosiddetta post-verità, che non è una esclusiva del web, ma ha trovato nel web il suo terreno ideale. Coniato da alcuni studiosi negli anni Novanta per descrivere un mondo dove l’apparenza cominciava ad avere più importanza

della sostanza delle cose, il termine post-verità è diventato di uso comune con la diffusione della rete e dei social: luoghi dove chiunque può dire la sua senza filtri e senza controlli, e il valore di una qualsiasi affermazione non dipende dalla aderenza alla realtà, ma dal numero delle visualizzazioni e dai “mi piace” ottenuti. Campi d’azione perfetti, dunque, per la diffusione delle fake news e per il gioco vecchio come il mondo di orientare il consenso dell’opinione pubblica attraverso la manipolazione scientifica della verità. Che il web alimenti le fake news è un dato di fatto. Ma il legame non è esclusivo. Facciamo un passo indietro, e pensiamo ai comunisti che mangiavano i bambini, cosa ovviamente non vera, anche se nelle grandi carestie degli anni Venti e Trenta in Unione Sovietica furono registrati alcuni episodi di cannibalismo, rilanciati in chiave antibolscevica dalla stampa occidentale. Ricordiamoci anche di Saddam Hussein, che secondo Bush e Blair, sostenuti da quasi tutti i più importanti organi di informazione occidentali, nascondeva armi di distruzione di massa. Una colossale montatura, che ha giustificato agli occhi dell’opinione pubblica l’invasione dell’Iraq e ha cambiato la storia del mondo. Le notizie false, distorte e fuorvianti, ai fini di lotta politica o per vantaggi personali, sono da sempre parte del mondo della comunicazione, dove la disinformazione è una tecnica riconosciuta e accettata, con i suoi specialisti e le sue regole. E sempre lo saranno. È vero invece che nel mondo digitale e globalizzato la disinformazione non è più una prerogativa dei governi o dei soggetti privati forti abbastanza da controllare direttamente giornali, radio, televisioni, oppure di condizionarli con i loro efficienti uffici stampa e con il rubinetto della pubblicità. Oggi chiunque può diffondere in rete,senza filtri,le sue menzogne, che altri, per ingenuità o malafede, rilanceranno sui social in una catena che nessuna smentita o ragionevole obiezione sembra in grado di fermare. Bastano questi problemi a giustificare limitazioni degli spazi individuali di espressione, o peggio ancora interventi di tipo censorio? È giusto, ad esempio, attribuire ai gestori dei social la responsabilità di quello che viene pubblicato dagli utenti, invitandoli a rimuovere i contenuti “falsi” sulla base di criteri non ben definiti? La Germania ha approvato una legge che prevede multe salatissime per le piattaforme che non rimuovano entro 24 ore dalla segnalazione i contenuti calunniosi e diffamatori. Ma siamo proprio sicuri che le segnalazioni siano sempre corrette, e fatte nel superiore interesse della verità? È appena il caso di ricordare i ridicoli incidenti nei quali è incorso Facebook rimuovendo immagini di donne che allattano perché qualche misterioso algoritmo le ha ritenute pornografiche. Sempre Facebook ha proposto una


← Fotogramma da una trasmissione del TGR Leonardo.

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Le bufale d’oggi non sono più come quelle d’una volta —

In Italia quelle che il resto del mondo chiama fake news vengono impropriamente definite “bufale”, adottando un modo di dire tipicamente giornalistico che aveva in origine un significato diverso: prendeva una bufala il giornalista che in buona fede, senza i dovuti controlli, dava una notizia falsa credendola vera, ma non aveva l’intenzione di ingannare il suo pubblico. Insomma, era uno sprovveduto che non sapeva fare il suo mestiere. Oggi anche i meno sprovveduti rischiano l’infortunio professionale, perché nella enorme quantità di dati che si si trovano in rete è difficile orientarsi. I falsi più smaccati sono in genere riconoscibili. Ma c’è tutta una zona grigia di notizie rilanciate senza i dovuti controlli, errori riconosciuti come tali riproposti a distanza di tempo come verità assolute,incomprensioni e fraintendimenti.Qui la possibilità di sbagliare è sempre in agguato. Fece scuola, un paio di anni fa, l’allarme lanciato da alcuni organi di informazione, sull’elevato rischio di tumori al colon retto per i consumatori

di carni rosse e insaccati, che scatenò una vera e propria psicosi e un calo dei consumi di carne. La redazione di TGR Leonardo fece il suo mestiere e si mise in contatto con l’epidemiologo Paolo Vineis, che aveva coordinato gli studi per conto dell’IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Risultò che una relazione c’era, ma i dati andavano interpretati. In particolare era fuorviante dire che un consumatore di carni rosse e insaccati aumentasse del 20% la sua possibilità di ammalarsi, come frettolosamente veniva scritto sul web. Secondo Vineis,i dati dimostravano semplicemente che cinque persone su cento nel corso della vita si sarebbero ammalate di tumore del colon retto a prescindere dal consumo di carne. Immaginando un consumo giornaliero di 50 grammi di carni e insaccati, si poteva pensare che la percentuale sarebbe aumentata del 20%, e cioè che si sarebbero ammalate 6 persone ogni cento. Un dato statisticamente significativo, ma molto meno preoccupante. E non tale, sempre secondo Vineis, da giustificare l’allarme planetario che ne era seguito. Risalendo alla fonte primaria la redazione di TGR Leonardo ha evitato di ripetere l’errore commesso da molti altri organi di informazione. Una rapida ricerca su Google dimostra però che ancora oggi molti giustificano il loro rifiuto delle carni rosse e gli insaccati non come una legittima scelta alimentare, ma citando in modo inesatto i risultati di quella ricerca. Lo stesso accade in molti altri campi. Ed è per questo che il web ha più che mai bisogno di una informazione corretta, rispettosa dei fatti e aperta al confronto. Le sue distorsioni non si combattono con le regole imposte dall’alto, ma valorizzando i prodotti di qualità e educando al loro uso, a partire dalla scuola. Battista Gardoncini giornalista, è stato curatore del TG Leonardo.

SAPERI / Scienza e verità

collaborazione con un network internazionale specializzato in fact-checking, con l’obiettivo di arrivare a una sorta di bollino di “non attendibilità” per le notizie dubbie, ma non ha reso noti i criteri di giudizio che verrebbero utilizzati. D’altra parte, a quale titolo sarebbe lecito intervenire in assenza di una palese violazione di legge? Una esperienza italiana – il caso degli insulti alla Presidente della Camera Boldrini, i cui autori sono stati identificati da una rapida indagine della polizia postale – ha dimostrato che in presenza di reati come la diffamazione gli strumenti investigativi e giudiziari esistenti sono efficaci: basterebbe aver la voglia e i mezzi per applicarli. Credere nelle scie chimiche è stupido, ma non è un reato.


La falsificazione della storia Il rapporto tra verità e storia è tanto profondo quanto problematico: si pensi ai «revisionismi» che da almeno un ventennio hanno preso possesso dello spazio pubblico, appoggiandosi sulla reticenza della narrazione dominante nell’affrontare aspetti scomodi. 18 Saperi / La falsificazione della storia

di Marco Labbate

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ontrariamente a quanto piace spesso scrivere agli editori sulle fascette, nessuna storia può definirsi vera. Il rapporto tra verità e storia è tanto profondo quanto problematico. Se ne rintraccia l’origine nella duplice dimensione che Hegel attribuisce alla storia: gli eventi accaduti (res gestae) e la loro narrazione (historia rerum gestarum). Proprio mentre si fa più stretto il rapporto tra giurisdizione e storia, fino alla determinazione delle «verità» storiche tramite lo strumento legislativo, diventa necessario ribadire come la ricerca morda il freno quando si cerchi di ingabbiarla nella certezza deduttiva di uno Sherlock Holmes o di un Porfirij Petrovic1. Nell’intervento scritto in occasione del processo ad Adriano Sofri, Carlo Ginzburg sottolineò come lo storico non possa proporsi come giudice: solo nei regimi totalitari, dove svolge il ruolo di propagandista o di ideologo può ergersi a depositario di una verità ufficiale2. Con l’investigatore e con il magistrato lo storico condivide un metodo, il paL’uomo sembra aver radigma indiziario, e uno sviluppato un interesse scopo, la ricerca della verità. a falsificare la storia non Ma radicalmente diversa è meno formidabile di quello la definizione stessa della verità: risolutiva e vincodi scoprirla. lante quella scaturita da un processo giudiziario, provvisoria e parziale quando emerge da una ricerca storica. L’ambivalenza della relazione tra storia e verità si inquadra anche nella prospettiva dell’esule, con cui Siegfred Kracauer ritrae lo storico, conteso tra il passato che esplora e il presente che vive3: egli abita in un’extraterritorialità dalla quale può fissare, sul passato che non gli appartiene, quello sguardo critico che viene da un difetto di immedesimazione e permette di esaminare un’epoca passata

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

con il nitore negato dall’eccessiva vicinanza ai contemporanei. Nell’allegoria hegeliana Kronos, il dio tempo che divora i suoi figli, è dominato da Zeus, dio della politica, che attraverso la fondazione dello Stato trasforma in storia tutto ciò che Mnemosine, dea della memoria, ha raccolto dal passaggio devastante del tempo. Le anguste cateratte del testo di Hegel, volte ad attribuire il potere della storia al potere politico e la capacità di comporre la storia alla codificazione scritta (e dunque solamente alle culture capaci di ciò) sono state rotte dal processo di «democratizzazione» e «universalizzazione» intrapreso dalla ricerca storica. Ma rimane valida la suggestione che il mito di Hegel ancora suscita nel definire il peculiare rapporto tra storia e presente: non solo il passato serve a spiegare l’oggi secondo l’assunto tucidideo, ma lo storico ricostruisce il passato con gli elementi sopravvissuti nel presente. È la grande lezione di Marc Bloch4. La ricostruzione storica di un evento è dunque un modello da laboratorio che tenta di approssimarsi all’accadimento storico e di comprenderlo. Inoltre, poiché la somma degli elementi superstiti rimane inadeguata alla loro diffusione, lo storico li seleziona e li rinarra. La ricerca storica non può dunque essere dogmatica. Ma nemmeno discrezionale. È una forma di narrazione e di scrittura del passato, che risponde alle regole di un mestiere (e di un’arte): l’identificazione di un «dato fattuale» verificato da una fonte; la definizione del suo contesto; il confronto con gli studi precedenti. La storia tende incessantemente a rivedere le proprie acquisizioni: la scoperta di fonti inedite che gettano una luce diversa sugli eventi, l’intuizione di nuovi paradigmi interpretativi appartengono al naturale dispiegarsi della ricerca. Al tempo stesso gli studi passati possono essere discussi, contestati, ma mai ignorati. Poiché nessuno storico può ambire ad una ricerca universale, il dialogo con la


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Il perché di un falso —

Conoscenza del contesto, delle fonti e della storiografia sono dunque i tre elementi indispensabili per analizzare un evento storico con la volontà di capirlo. La falsificazione della storia interviene su uno o più di questi aspetti. Il processo è antichissimo. L’uomo sembra aver sviluppato un interesse a falsificare la storia non meno formidabile di quello di scoprirla5. Perché questo avviene? La storia non è mai neutra: questa interagisce con memorie singole e collettive che possono suscitare emozioni e dolori, essere conflittuali e divisive. Nel momento in cui si iscrivono nello spazio pubblico, i ricordi sono sottoposti ad una pressione della comunità: esistono memorie ufficiali, istituzionalizzate, protette dagli Stati e memorie deboli, sotterranee, per-

seguitate.Storia e memoria entrano in collisione in un terzo spazio comune nel quale si affrontano e si influenzano. Nella stessa misura in cui forniscono materiale alla storia le memorie cercano di accreditare il proprio carattere peculiare sul resto della storia, obnubilando tutti gli elementi che possono offuscare la narrazione desiderata.Al tempo stesso la storia serve alla rappresentazione pubblica (e alla legittimazione) di un potere, di una nazione, di una fede, di un’idea, dei principi attorno a cui una comunità si raccoglie. La sua sottomissione a una necessità ideologica insinua la tentazione di creare fonti compiacenti o una determinata discrezionalità nella loro interpretazione. Se ci limitiamo a considerare la costruzione della nazione moderna ne ritroveremo le fondamenta in quel patto tra memoria e oblio delineato da Renan. L’anamnesi del rimosso, tuttavia, può a sua volta farsi ossessione della memoria6 e riemergere in contronarrazioni che rifiutano la narrazione egemone per un’altra, latrice di memorie e valori e contrastanti. In maniera ancor più pervicace, la memoria alternativa ricorre ad una medesima contraffazione dei dati. Il campo di scontro non è però il passato, ma il presente. Si pensi ai «revisionismi» che da almeno un ventennio hanno preso possesso dello spazio pubblico,appoggiandosi sulla reticenza della narrazione dominante nell’affrontare aspetti scomodi. Per tutti vi è un obiettivo predeterminato che ha un forte radicamento in una finalità politica attuale: l’equiparazione tra Resistenza e Repubblica di Salò o la pseudo storia neoborbonica, giusto per citare

↑ Questo affresco del XIII secolo nella cappella dell’oratorio di san Silvestro, a Roma,celebra la donazione di Costantino, un falso storico elaborato tra VII e IX secolo per giustificare la nascita dello Stato della Chiesa.

SAPERI / La falsificazione della storia

storiografia e la fiducia nei risultati raggiunti sono aspetti essenziali del metodo storico. L’adesione dello storico a un metodo non significa tuttavia che questo sia perfettamente neutrale o indifferente rispetto al corredo etico che accompagna gli eventi storici. Né che sia portatore di una moralità superiore: anch’egli è corruttibile da molte sirene, in primis quella del mercato. Semplicemente, lo storico che mette onestamente in atto il metodo della sua disciplina non può essere al servizio di una finalità precostituita. È una creatura bicefala, libera e serva: assolutamente libero nel porre le domande alle fonti, ma vincolato alle parole dei documenti nel definire le risposte.


i casi più eclatanti, perseguono nel primo caso un superamento delle istituzioni repubblicane e della Costituzione, nel secondo un’opposizione alla preponderanza economica del Nord Italia, attraverso la contronarrazione di un Sud negletto, la cui cifra principale è il carico di sofferenze e abusi subiti. In gran parte della pubblicistica revisionista, il dibattito storiografico non viene quasi mai preso in considerazione, se non per delegittimarlo in un’entità che volutamente nasconde «la vera storia». L’obiettivo è la negazione del Risorgimento e della Resistenza, le due mitologie fondative della Repubblica italiana, e dunque dei valori che reggono il presente.

20 Saperi / La falsificazione della storia

Come si falsifica la storia —

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

L’edizione italiana dei Protocolli dei Savi anziani di Sion. ↓

Un processo di falsificazione della storia può avvenire in due modi: attraverso la falsificazione del dato fattuale oppure del contesto storico. La contraffazione del dato fattuale è il procedimento più noto: può essere attuato tramite la fabbricazione di dati fittizi o attraverso la negazione di dati reali (esempio eclatante è il negazionismo). L’adulterazione di un documento è fatto diffuso fin dall’antichità: allora poteva anche procedere da un minor scrupolo filologico per cui si riteneva accettabile l’operazione di colmare un vuoto attraverso la costruzione di un falso verosimile. Il falso novecentesco nasconde invece un fine, politico o economico. Le operazioni possono essere raffinate e sofisticate (si pensi al testamento di Deng Xiao Ping: vero o falso che sia testimonia la partecipazione alla sua

stesura dell’ala innovatrice del Partito comunista cinese).Altre volte sono più grossolane come il caso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion o dei falsi diari di Mussolini7. Comunque sia, il falso partecipa al tempo storico in cui nasce, e dietro la sua creazione molto si può intuire: sia delle motivazioni che presiedono alla sua produzione,sia dei contesti che lo recepiscono e diffondono. Allo stesso modo la sua improvvisa riviviscenza, anche dopo la dimostrazione della sua falsità, ci dice molto del tempo storico in cui questo accade. Il falso storico è il più delle volte un documento interamente inventato o distorto da un originale autentico. Ma può anche essere qualcosa di immateriale, come la messa in circolazione di una voce che si radica nella memoria collettiva fino ad essere accettata come verità. Un esempio è la leggenda nera dei comunisti che mangiano i bambini: Stefano Pivato le ha dedicato una documentatissima opera che ne ricostruisce la genesi nelle grandi carestie dell’Unione Sovietica e ne segue lo sviluppo e l’utilizzo politico, nei manifesti, attraverso la carta stampata, fino al suo utilizzo nel discorso pubblico da parte di Silvio Berlusconi8. Nei casi di falsificazione del contesto, i dati fattuali sono riprodotti correttamente, mentre ciò che viene adulterato è il «contorno». Si pensi ad esempio alla narrazione che accompagna il ricordo degli eccidi nelle foibe, perpetrati nei confronti degli italiani, e del successivo esodo negli anni che vanno tra il 1945 al 1947; porta il carico di decenni in cui gli occhi sono rimasti chiusi su quelle sorti atroci, tuttavia non può rappresentare una riparazione il suo inserimento nel mito acritico degli «italiani brava gente», che omette il programma di distruzione dell’identità slovena e croata perseguita sotto il generale Roatta, la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Jugoslavia, il clima di violenza instaurato dal fascismo nelle campagne istriane, gli eccidi perpetrati sulle popolazioni slave da truppe naziste e fasciste9. Anche i paradigmi di «memoria condivisa» o di «storia scritta dai vincitori», cari a una rilettura svalutante della Resistenza, rappresentano processi di falsificazione del contesto. Come scrive Sergio Luzzatto, una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione della dimenticanza 10. Quando nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha commemorato indiscriminatamente «tutte» le vittime della guerra, ebrei, soldati, partigiani, e «ragazzi di Salò» ha rimosso, in nome dell’uguaglianza nella morte, la disuguaglianza nella vita. Altra cosa è la storia condivisa, ovvero la definizione comune del territorio storiografico, nel quale però le differenze non possono essere annullate11. Similmente la definizione del campo storico dell’antifascismo in vincitori che scrivono la storia e vinti che la subiscono rappresenta una fittizia semplificazione


della complessità delle relazioni. Sono vincitori gli ebrei ammazzati nei campi di sterminio? Sono vinti quegli apparati funzionali al regime e capaci di riciclarsi durante la Repubblica? Se vi sono dei vinti, questi sono le classi subalterne, le donne, le minoranze,il cui ingresso nell’analisi storiografica ha scontato un lungo ritardo.

Il «revisionismo», una falsificazione che fa tendenza —

La storia di fronte ai social network: una sopravvivenza problematica —

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Beato sarà quel Paese che saprà dialogare con la critica storica nel definire la propria rappresentazione pubblica della storia. Oggi è certamente impresa ardua per la storiografia interagire con uno spazio pubblico che sembra tendere ad un’inarrestabile semplificazione. La rete ha fornito strumenti di inaudita potenza per comunicare e divulgare la storia: documentari, archivi online, documenti digitalizzati. Al tempo stesso ha favorito una formidabile moltiplicazione di fake-news (e fake-photo) di gran presa sull’immaginario collettivo14. Nel rapporto tra velocità e nuovi media, la complessità di piani su cui si muove l’analisi storica è meno performante rispetto a parole gridate e spettacolari, mentre, ancor più che in passato, il valore conferito all’opinione, sulla base del gusto, smarrisce altri criteri di valutazione quali l’autorevolezza, o il tempo proPiù che inventare, fuso in una ricerca. L’idea che il revisionismo ricicla lo storico occulti la storia e il materiali già noti, blogger intrepido o il giornalista coraggioso sveli la frode facendo leva sulla forza diventa una narrazione alla pore l’immediatezza del tata di tutti. Se pochi anni fa linguaggio. solo alcune agenzie avevano la forza di imporre una falsa notizia, oggi questa possibilità è parcellizzata da una diffusione virale. Si pensi al caso scoppiato attorno alla proposta di una lapide a Giuseppina Ghersi, uccisa durante i giorni della Liberazione. La divulgazione dei particolari raccapriccianti di un omicidio atroce ha immediatamente colonizzato le piattaforme del web con diatribe feroci. Eppure, l’assassinio di Giuseppina Ghersi è alquanto nebuloso. Narrazioni estemporanee e fittizie, tutt’altro che candide, hanno pensato di sopperire al silenzio delle fonti, divulgando dettagli per i quali manca un aggancio con i documenti ad oggi noti15. Ed è certamente l’emblema di un distorto rapporto con la storia che la proposta di una lapide abbia preceduto una ricostruzione, che definisse, con la precisione consentita dal presente, le responsabilità, i moventi

SAPERI / La falsificazione della storia

Il «revisionismo» - termine ambiguo e sfuggente, o meglio usurpazione di una parola per conferire autorevolezza a tesi che spesso non ne hanno rappresenta il più noto processo di falsificazione della storia oggi in atto12. Potremmo dire che il «revisionare» è connaturato all’indagine storica. Tuttavia, per il modo in cui si è strutturato nello spazio pubblico, il revisionismo oggi si configura come un’operazione antitetica alla ricerca storica, a partire dalla narrazione che dà di sé. La comunità degli storici è avversata come un’entità imperscrutabile e un potere oppressivo che permette l’accesso ad alcune memorie e ne occulta altre. Contro di essa si batte il revisionista, sorta di Robin Hood che restituisce al popolo la memoria di cui è stato privato. Più che inventare, il revisionismo ricicla solitamente materiali già noti, facendo leva sulla forza e l’immediatezza del linguaggio. I revisionisti rifiutano spesso l’elemento cardine, la nota; ovvero lo strumento che rappresenta il legame con la fonte, simbolo di un’«accademia», alla quale oppongono un’opera pensata per il «popolo». Frequente è l’indugio in un’aneddotica che può suscitare l’attrazione di un’ampia fetta della popolazione. Nel caso del revisionismo sul regime fascista, l’assoluzione del capo e della classe dirigente si accompagna spesso al dettaglio voyeuristico che ben si adatta alla neutralizzazione di un ritratto benevolo e umano13. L’abisso che separa ricerca storica e revisionismo è solo all’apparenza netto. Talvolta la frattura si colloca dentro la stessa storiografia.È l’abisso che divide l’elaborazione innovativa della Resistenza come simultanea compresenza di tre guerre (di liberazione, di classe e civile) condotta da Claudio Pavone dagli espedienti di Pansa, che abbondano di quelle strumentalizzazioni della storia da lui stesso condannate ancora all’inizio degli anni Novanta. Eppure il passato di Pansa è quello di un discepolo attento ed efficace del metodo storiografico: la sua è dunque la deliberata scelta di un abbandono. Lo spazio che il revisionismo ha saputo ricavarsi non può tuttavia essere disgiunto dalla prima patologia della memoria provocata dall’ideologizzazione dell’antifascismo. Anch’esso ha avuto inevitabili riflessi deteriori sulla ricerca storica,

nella misura in cui la denuncia del fascismo ha prevaricato l’analisi del fenomeno. Il conflitto tra una «storia ufficiale» dell’antifascismo e una «storia revisionista» che utilizza strumenti di contraffazione ancora più radicali, per quanto non equiparabili, poiché sostenute da valori radicalmente diversi, rappresenta una contrapposizione tra falsificazioni che si contendono lo spazio pubblico e si alimentano reciprocamente. Esiste una terza storia, quella critica, ma muovendosi sul piano della complessità il suo accesso allo spazio pubblico rimane difficile e limitato.


→ Molti quotidiani e innumerevoli siti web documentano la storia di Giuseppina Ghersi con questa immagine. Ma è un falso, perché non si sa chi sia questa ragazza. Secondo l’archivio Getty Images questa fotografia fu scattata a Milano il 16 maggio 1945, quindi in un’altra città e un mese prima della esecuzione di Giuseppina Ghersi.

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e il contesto dell’omicidio. Non sarebbe che un nuovo monumento al falso storico, un nuovo sfregio, a distanza di settant’anni, sulla vita e morte di una ragazza.

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NOTE 1.Per un approfondimento del rapporto tra storia e verità rimando al saggio di Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre corte, 2006 al quale questo incipit è debitore. 2. C. Ginzburg, Spie, radici di un paradigma indiziario in Id, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino, 2014. 3. S. Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Alessandria, 1985. 4. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico,Torino, Einaudi, 1969, pp. 38 e ss. 5. Si veda L. Canfora, La storia falsa, Milano, Rizzoli, 2009. 6.H.Roussou,Le syndrome de Vichy: de 1944 à nos jours, Paris, Editions su Seuil, 1990. 7. M. Franzinelli, Autopsia di un falso: i diari di Mussolini e la manipolazione della storia,Torino, Bollati Boringhieri, 2011. 8. S. Pivato, I comunisti mangiano i bambini: storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013. 9. E. Gobetti, Alleati del nemico: l’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma Bari, Laterza, 2013; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-43), Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 10. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Einaudi, 2004. 11. Cito solo per la sua valenza esemplare G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Roma,

Donzelli, 2005. 12. Opere fondamentali sull’analisi del revisionismo sono le collettanee di A. Del Boca (a cura di), La storia negata: il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza, 2009 e E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo: rimozioni, revisioni, negazioni, Roma, Laterza, 2000. 13. Precursori del revisionismo possono essere individuati in I. Montanelli, Il buonuomo Mussolini, Milano Editori Riuniti,1947 e P.Monelli,Mussolini piccolo borghese, Garzanti, 1950. 14. Rimando come esempio al reportage fotografico di Piero Purini sui falsi fotografici sulle foibe e sul loro uso pubblico, Come si manipola la storia attraverso le immagini: Il Giorno del Ricordo e i falsi fotografici sulle foibe in https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/ come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/. 15. Si veda l’articolo del collettivo Nicoletta Bourbaki, Il caso Giuseppina Ghersi. Incongruenze, falsi e zone d’ombra (Una prima ricognizione) all’indirizzo: https://www. wumingfoundation.com/giap/2017/09/il-caso-giuseppina-ghersi-1/.

Marco Labbate è dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assistente di storia contemporanea presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino. Collabora con l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, con l’Istituto di Storia contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino e con il Centro studi “Sereno Regis” di Torino. Per Ediesse ha pubblicato nel 2016 il libro Là sotto nell’inferno. Da Pesaro a Marcinelle.


Il messaggio ambientale fa rete Viaggio nel labirinto social green dell’eco-comunicazione: un percorso multidisciplinare che “eco-sensibilizza” le coscienze.

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← Foto 1. Uno dei pannelli dell’opera di Claudia Jaguaribe, terza classificata al concorso fotografico The Syngenta Photography Award – Exploring Global Challenges, edizione 2017.

«L

’uomo è parte della natura, e ogni guerra contro di essa è inevitabilmente una guerra contro se stesso» ci ricorda Rachel Carson, la biologa e zoologa statunitense autrice di numerosi libri tra cui il best seller Silent Spring (Primavera Silenziosa, 1962), tradizionalmente classificato come il primo “manifesto globale” del movimento ambientalista. Le parole della Carson colpiscono per la loro modernità e forza comunicativa che lega al campo semantico della “guerra” un tema

diametralmente opposto. L’“ambiente” è infatti da sempre “metafora positiva” – di vita, sopravvivenza, nutrimento, energia, biodiversità, futuro. Un sistema complesso, di cui siamo parte integrante, che ci pone in relazione con tutto ciò che “ci sta attorno” come ci suggerisce la sua stessa etimologia derivante dal verbo latino ambire. Ogni nostra azione è influenzata dai fenomeni naturali e, allo stesso tempo, è in grado di influenzare l’ambiente che ci circonda: quell’ecosistema Terra formato da organismi viventi e da sostanze non viventi strettamente interconnessi tra loro e in grado di interagire. Come sarebbe il mondo senza il

SAPERI / Il messaggio ambientale fa rete

di Maurizio Abbati


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↑ Foto 2. Campagna di Sensibilizzazione ambientale promossa dalla Commissione Europea – Ferdi Rizklyanto 2011.

canto festoso degli uccelli che, soprattutto in primavera, rallegrano le nostre giornate? Questo è lo spunto di riflessione che il best seller di Rachel Carson ha lanciato alla comunità mondiale, in un’epoca caratterizzata, nel mondo occidentale, dal boom economico e dalla massima industrializzazione dei processi produttivi, sinonimo di benessere ma anche fonte di “inquinamento ambientale”. Si ponevano così le basi di quella “quieta rivoluzione”1 del pensiero occidentale proiettato a una visione non più antropocentrica ma olistica del pianeta Terra, che porterà, dopo qualche anno, alla nascita del concetto stesso di sviluppo sostenibile2. Al di là del fatto storico appena ricordato, ciò che sorprende è la straordinaria forza che scaturisce dall’atto comunicativo,sia esso diretto a influenzare un gruppo ristretto di persone (comunicazione privata) o a fornire un servizio di pubblica utilità (comunicazione pubblica). Una parola, un’immagine,un video,un’info-grafica3,un simbolo,un logo e persino una struttura architettonica o un oggetto di design sono potenziali strumenti, ovvero media, di un “messaggio ambientale”. «Solo per il fatto che non lo puoi vedere, ciò non vuol dire che non ci sia»: questo il messaggio sintetico di una nota campagna di sensibilizzazione promossa dalla Commissione Europea (foto 2) per attirare l’attenzione dei cittadini dell’Unione Europea sulla questione dell’inquinamento delle acque marine per opera di rifiuti di natura umana (= “antropica”), noto con il termine inglese di marine litter4.

Anche se il testo scritto non fa diretto riferimento alla “criticità ambientale”, il lettore è facilmente portato ad associare il messaggio al mondo naturale. L’immagine proietta il pubblico in una dimensione ben conosciuta ai più per il fatto stesso di averla vissuta personalmente. Una spiaggia, le onde che vi si infrangono e la vastità del panorama marino inducono a seguire la linea dell’orizzonte. Dal punto di vista semiotico, tale situazione riconduce a sensazioni di benessere, rilassatezza, svago, pace dei sensi e contatto con una “natura pura”. E questo non è un caso. I comunicatori hanno voluto ricreare un’atmosfera conosciuta a un pubblico globale per aumentarne l’efficacia comunicativa. “Comunicare l’ambiente” richiamando argomenti che possiamo sperimentare nel nostro vissuto quotidiano è infatti uno dei primi aspetti da tenere in considerazione per poter essere efficaci. Ma ciò non è sufficiente ad attirare l’attenzione del pubblico se non si introducono elementi, verbali, visivi o misti, capaci di invogliarlo ad approfondire le questioni che sottendono un determinato problema legato all’ambiente. In pratica, dobbiamo creare un qualcosa che possa catalizzare l’attenzione del destinatario del nostro messaggio, non per vendere un determinato prodotto o servizio, scopo principale del marketing commerciale, ma per aumentare il suo livello di consapevolezza ambientale.

La comunicazione ecologica e i suoi disturbi —

Tornando al nostro esempio, l’“elemento calamita” è, nel nostro caso, visivo, più che verbale. Al centro dell’immagine,un bambino,sineddoche della nuova generazione, futura erede dell’ecosistema Terra, solleva simbolicamente la superficie del mare come fosse una “coperta naturale” che nasconde un vaso di Pandora da cui scaturiscono gli effetti dell’impatto umano sull’ambiente: una discarica che giace sul fondo del mare, in cui si distinguono chiaramente alcune bottiglie di plastica che connotano il più ampio problema dello smaltimento dei rifiuti. Il processo di comunicazione che consente a chi crea il messaggio ambientale (emittente) di trasmetterlo a chi lo riceve (destinatario) attraverso le forme e i mezzi (media) più adeguati dipende dunque da molteplici fattori che possono influire in maniera rilevante sulla comprensione finale o meglio sulla “decodifica dell’eco-messaggio”. La reazione emotiva, ovvero la percezione del pubblico alla campagna di sensibilizzazione sopra descritta, può inoltre variare a seconda di una molteplicità di elementi e situazioni, come il grado di conoscenza della problematica ambientale, ogni influenza esterna legata all’appartenenza a un determinato gruppo sociale,il momento storico in cui


giungla mediatica, i motori di ricerca e i social media influiscono sulle scelte degli internauti, selezionando notizie, informazioni ed elementi multimediali. Le reti sociali e il microblogging7, in particolare, sono divenute le principiali fonti di informazione in considerazione del loro utilizzo in vari campi. Essere presenti sulla rete web o sui social media, però, è sufficiente per dare credito ai contenuti del messaggio ambientale? La domanda non può avere una risposta totalmente positiva. Premesso che sarebbe un errore generalizzare e considerare a priori infondati i messaggi ambientali pubblicati online, saper scegliere le fonti di informazione sicure rispetto a quelle non affidabili è un obiettivo essenziale ma non sempre facile da realizzare. Il self-service mediatico del web, infatti, trasferisce interamente sul singolo utente la responsabilità di selezionare i contenuti da visualizzare e quelli da scartare. Il tema della qualità dell’informazione e della Comunicazione Ambientale è sempre più attuale in Italia8. La mancanza di un organo di controllo (authority) che monitori la qualità dei contenuti pubblicati sul web aumenta poi il rischio di incorrere in bufale mediatiche9 o in casi di greenwashing10 che continuano a circolare in rete anche quando viene smentita la loro veridicità. Sensibilizzare efficacemente l’opinione pubblica sulle tematiche ambientali non significa, dunque, inviare messaggi allarmistici o catastrofici, ma saper diffondere i valori sostenibili e le buone pratiche eco-compatibili attraverso forme e strumenti di comunicazione in grado di “coinvolgere il pubblico” e “suscitarne emozioni”.

Dare voce agli alberi —

60 + Earth Hour, “60 + l’Ora della Terra” (foto 3), la campagna di sensibilizzazione lanciata dal WWF nel 2007, per esempio, si basa su di un semplice

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viviamo o persino lo stato fisiologico, psicologico e caratteriale del destinatario dell’eco-messaggio. Il comunicatore ambientale, dunque, non può ignorare a priori i potenziali “fattori devianti” che minacciano la corretta comprensione del messaggio in fase di sua ricezione. Ciò che viene definito a livello semiotico-pragmatico come “disturbo della comunicazione”, o meglio “rumore” (noise). Questo termine assume qui un significato metaforico indicando quei fattori che interferiscono nel processo comunicativo. Chi comunica l’ambiente, inoltre, deve anche fare i conti con un linguaggio ambientale ricco di tecnicismi e concetti, a volte ancora oggetto di studio, che necessitano dunque di essere spiegati al pubblico in maniera il più possibile oggettiva. Su queste premesse, l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environmental Agency) ha creato il dizionario enciclopedico: Generalized Multilingual Environmental Thesaurus (GEMET)5. Un autorevole sistema organizzativo e conoscitivo (= “Knowledge Organization System” – KOS) in grado di aumentare l’eco-consapevolezza del grande pubblico nell’area semantica legata ai termini “ambiente” e “sviluppo sostenibile”. Non sempre tuttavia, i contenuti ambientali trasmessi dai media sono “quantificabili”, ovvero tracciabili, soprattutto quando vengono veicolati dalla rete mondiale, il web. I media tradizionali e di nuova generazione 6 associano spesso i termini ambiente e sviluppo sostenibile ad alcune delle questioni che più minacciano la vivibilità del nostro pianeta: inquinamento, cambiamenti climatici, sovra-popolazione, gestione insostenibile dei rifiuti, perdita di biodiversità, deforestazione, acidificazione degli oceani, riduzioni dell’ozono stratosferico, piogge acide, scioglimento dei ghiacciai, organismi geneticamente modificati, solo per citarne alcune. Ma ridursi a comunicare l’ambiente nelle sole fasi di emergenza, anche se espressione dell’irrinunciabile diritto all’informazione, può contribuire, in caso di esagerata insistenza sugli effetti tragici e catastrofici, ad aumentare un senso generalizzato di malessere sociale e di pessimismo cronico. La comunicazione ambientale dovrebbe, al contrario, valorizzare maggiormente gli aspetti positivi. Sempre più numerosi sono, infatti, i progetti, le buone pratiche e le azioni in materia di economia sostenibile (Green & Circular Economy), marketing verde, eco-tecnologia, bio-architettura, eco-design, arte sostenibile, fotografia naturalistica o ambientale, alimenti biologici, benessere ambientale e naturale. La nascita di internet nel 1991 e delle reti sociali (Facebook, Twitter, Google, Instagram, Linkedin, Whatsapp ecc.), negli anni a seguire, ha generato un autentico impatto tsunami sull’informazione e sulla comunicazione ambientale. In questa

Foto 3. Logo della campagna di sensibilizzazione ambientale 60+Earth Hour promossa dal WWF. ↓


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gesto, quello di spegnere la luce, connotandolo di un significato ecologico che coinvolge la comunità mondiale. Per volontà degli stessi promotori-comunicatori, questa azione assume un significato simbolico di grande impatto: manifestare insieme contro i cambiamenti climatici. Ecco dunque che ogni anno il mondo intero si mobilita oscurando per un’ora i monumenti simbolo della civiltà umana.Un black out programmato che si tinge di verde, a cui tutti noi possiamo aderire. Su un “gesto” altrettanto semplice, ma essenziale, si basa un recentissimo progetto che mette la più alta tecnologia al servizio di uno degli esseri viventi più significativi del nostro ecosistema: l’albero. La presenza di aree verdi nei grandi centri urbani,infatti,assume oggigiorno un ruolo sempre più vitale in considerazione della straordinaria capacità di questi “polmoni” verdi di assorbire anidride carbonica (CO2) e altri inquinanti, e di produrre in cambio ossigeno (O2). Su queste premesse, i ricercatori del Senseable City Lab del Massachusetts Institute of Techno-

↑ → Foto 4 e 5. Progetto Treepedia © MIT Senseable City Lab, particolari del software.

logies – MIT, un’eccellenza mondiale in tema di innovazione tecnologica amica dell’ambiente, hanno elaborato il progetto Treepedia (foto 4 e 5), in partnership con il “World Economic Forum”11. «Sono convinto che le tecnologie digitali possano aiutarci a sviluppare un rapporto migliore con l’ambiente in cui viviamo», afferma con assoluta convinzione l’architetto e ingegnere Carlo Ratti, direttore del celebre Laboratorio di ricerca tecnologica. Questa piattaforma virtuale online, liberamente accessibile, consente una vera e propria mappatura delle chiome degli alberi in alcuni dei più significativi centri urbani12 grazie a un algoritmo in grado di decifrare le informazioni elaborate dal celebre Google Street View13. Il Green View Index – GVI (Indice Verde di Visualizzazione) rappresenta un innovativo strumento di comunicazione che, fornendo dati confrontabili, “dà voce” agli alberi. Il forte messaggio ambientale sotteso al progetto apre le porte a uno sviluppo social e open source14 di Treepedia che consentirà presto ai cittadini internauti di mappare dal vivo le aree verdi delle loro città. Il comunicatore ambientale non deve, a nostro giudizio,mai perdere il suo ruolo divulgativo didattico che lo trasforma così in mediatore privilegiato tra il grande pubblico e gli “esperti dell’ambiente”15. E questo è ancora più evidente quando a comunicare l’ambiente è un docente. Anche il mondo scolastico e quello accademico sono fortemente influenzati dalle nuove forme di comunicazione offerte dal cosiddetto “web 2.0”. L’interattività, l’universalità, la multimedialità e la semplicità di uso dei social media viene oggi ampiamente utilizzata dallo studente o dal ricercatore che adatta le funzionalità ai propri bisogni sia per “creare rete” che per scopi formativi.


Tutte le qualità del comunicatore ambientale —

Sulla base delle riflessioni finora fatte, potremmo dunque affermare che l’efficacia della comunicazione ambientale è sinonimo di: qualità e chiarezza dei contenuti; tracciabilità delle fonti; multidisciplinarietà; condivisione del messaggio ambientale; rendicontazione dello “stato di salute” dell’ambiente che ci circonda; pianificazione della filiera comunicativa per scenari di medio-lungo termine; predisposizione di percorsi didattici che facilitino l’individuazione delle fonti online attendibili, nonché partecipazione di tutte le parti interessate e capacità di ascolto dei loro feedback. In quest’ottica, la specializzazione professionale unita alla pratica sul campo rappresentano quel binomio virtuoso che responsabilizza il rapporto tra il comunicatore ambientale e il proprio pubblico, anche in virtù dell’etica cui è legato per appartenenza professionale. Non dimentichiamo, infatti, che «l’ambiente che sperimentiamo e che possiamo influenzare è in gran parte frutto di come ci predisponiamo a rappresentare il mondo» (James Cantrill e Christine Oravec, 1996)16. Comunicare l’ambiente presuppone responsabilità, consapevolezza e partecipazione alla “causa ambientale”. Basarsi su fonti affidabili è il primo passo per garantire la conservazione della biodiversità, come sottolineano le opere della fotografa brasiliana Claudia Jaguaribe (foto 1 e 6) che trasformano la giungla amazzonica in scaffali di una “eco-libreria”, metafora dell’“ecosistema Terra”.

NOTE 1. Seguendo la definizione di Nick Robins, co-direttore del programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, intervista del 3 giugno 2016,a cura di United Nations Regional Information Centre for Western Europe, UNRIC. 2. Il concetto di Sviluppo Sostenibile viene definito per la prima volta nel 1987 dal Rapporto Our Common Future (Il futuro di tutti noi), noto come Rapporto Bruntland dal nome di Gro Harlem Bruntland, il presidente della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo che presentò tale documento programmatico. «Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Il Rapporto è tutt’ora considerato una linea guida fondamentale che contiene i valori chiave di Ambiente e Sviluppo Sostenibile.Nel 1989,dopo un lungo dibattito interno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise di organizzare una Conferenza Mondiale dei Capi di Stato su Ambiente e Sviluppo che si svolse a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. Questo incontro internazionale produsse alcuni documenti di basilare importanza,come la Dichiarazione sull’Ambiente e sullo Sviluppo Sostenibile, l’Agenda 21 (un articolato piano di azione per favorire lo sviluppo sostenibile del Pianeta), la Convenzione sulla Biodiversità Biologica e la Convenzione sul Cambiamento Climatico. 3. Viene così definita ogni rappresentazione formata da una pluralità di elementi grafici, visivi e testo scritto, elaborata al computer per comunicare, informare o approfondire tematiche inerenti a un determinato argomento o settore. Tale tecnica nasce e si sviluppa in ambito statistico, giornalistico e pubblicitario per poi diffondersi in svariati campi, anche artistici. 4. Termine inglese ampiamente usato a livello istituzionale, giornalistico e scientifico per identificare la concentrazione di rifiuti presenti nelle acque di mari e oceani. La concentrazione di sostanze inquinanti e non bio-degradabili, in particolari di micro (<5 mm) e macro (>5mm) plastiche, rappresenta sempre più una seria minaccia all’ambiente e alla salute dell’uomo, compromettendo l’economia delle popolazioni costiere. 5. Sito ufficiale: www.eionet.europa.eu/gemet/en/themes/ 6. Sono classificati come media tradizionali: il telefono; i giornali e le riviste cartacee; la radio; la televisione e il cinema. Gli anni Novanta del secolo scorso hanno segnato l’avvento dei nuovi media digitali,tra cui ricordiamo: i cd e i dvd, internet, le email, i blog, i forum o gruppi di discussione, le chatroom, i videogiochi e i Social Network. Il loro uso è stato implementato attraverso le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (Information and Communication Technologies – ICT). 7.La pubblicazione sulla rete,costante nel tempo,di brevi contenuti o di altri elementi resi pubblici o destinati ai componenti di una determinata comunità virtuale. L’esempio più noto di microblogging è Twitter, inaugurato nel giugno 2006 dal suo ideatore, il programmatore statunitense Evan Williams.

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Ma i digital scholar sono sufficientemente preparati a raccogliere online informazioni e dati ambientali che siano al contempo scientificamente provati e non legati a interessi di parte? Un recentissimo studio condotto a livello internazionale da CIBER per conto dell’Osservatorio Internazionale di Comunicazione Scolastica (The Scholarly Communications International Observatory – SCIO) ha dimostrato che i ricercatori cosiddetti “nativi digitali” (di età inferiore ai 35 anni) si basano principalmente sui motori di ricerca più conosciuti (es.: Google) e sui social media più diffusi (come Facebook o Twitter) per ricercare le informazioni utili alla loro formazione o ricerca. Ma ha anche evidenziato una generale incapacità di saper individuare i social network ad accesso chiuso finalizzati a facilitare la condivisone del sapere scientifico, come Academia.edu o ResearchGate. Questo dovrebbe fare riflettere sulla necessità di predisporre un’adeguata “formazione ambientale” che, a partire dalla scuola secondaria di primo e secondo grado, prepari le nuove generazioni a gestire correttamente le notizie, le informazioni e i dati scientifici pubblicati gratuitamente sulla rete, gli Open Research Data.


→ Foto 6. Un’opera di Claudia Jaguaribe, terza classificata al concorso fotografico The Syngenta Photography Award – Exporing Global Challenges, edizione 2017.

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Saperi / Il messaggio ambientale fa rete

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8. Da recenti statistiche, infatti, gli italiani trascorrono in media più di sei ore al giorno davanti a uno schermo, sia esso quello di un pc, di un laptop, di un tablet o di uno smartphone (Report We Are Social’s – Digital in 2016, compendio internazionale dei dati, delle tendenze e delle statistiche legati al mondo digitale, sociale e della telefonia mobile). 9. Così vengono definite le notizie false che si diffondono rapidamente online, intenzionalmente o per errore, e che sono purtroppo all’ordine del giorno. 10. Un neologismo che descrive il comportamento di quelle aziende che per aumentare il loro fatturato focalizzano l’attenzione degli utenti-consumatori sulle loro presunte caratteristiche ecocompatibili, tentando così di distogliere l’opinione pubblica per nascondere le loro reali responsabilità in termini di inquinamento ambientale. 11. Il Forum Economico Mondiale è una fondazione senza fini di lucro, nata nel 1971 a Clogny (nei pressi di Ginevra), su iniziativa dell’economista e accademico Klaus Schwab. Ogni anno, durante il periodo invernale, il Forum promuove, presso la cittadina sciistica di Davos (Svizzera), un incontro tra i più importanti esponenti del panorama della politica e dell’economia internazionale, del mondo intellettuale e del giornalismo al fine di discutere sulle questioni più rilevanti, tra cui salute e ambiente. Altri incontri vengono organizzati in Cina e negli Emirati Arabi Uniti. La Fondazione pubblica annualmente una serie di rapporti di ricerca e coinvolge i propri membri in missioni tematiche. 12.Tra le città coinvolte nel progetto ricordiamo: Boston, New York, Los Angeles, Seattle, Sacramento negli Stati Uniti; Vancouver e Toronto in Canada; Londra, Parigi, Amsterdam, Ginevra e Torino per l’Europa; Tel Aviv in Medio Oriente. 13. Google Street View (Google Visione Stradale) è una caratteristica di Google Maps e Google Earth che fornisce viste panoramiche, a 360° gradi in orizzontale e a 290° in verticale, lungo le strade, consentendo agli utenti di visualizzare il territorio urbano delle principali città del

mondo, dal punto di vista del pedone. 14. Nel linguaggio informatico, il termine open source (sorgente aperta) identifica un software i cui autore condividono il codice sorgente, favorendo così il libero accesso e la possibilità per i programmatori di apportarvi modifiche ed estensioni. 15. Un insieme di professionisti che, pur operando in differenti settori di competenza, utilizzano una terminologia omogenea e condivisa che consente loro di gestire e risolvere le principali questioni ambientali. Un risultato non scontato che ha suscitato l’interesse del mondo della ricerca, dando vita tra l’altro all’ecolinguistica, una nuova branca della ricerca linguistica che approfondisce il contesto ecologico di una lingua. 16.Cfr.Cox Robert Cox,Pezzullo Phaedra C.,Environmental Communication and the Public Sphere,Sage Publications Ltd, Los Angeles – London – New Delhi - Singapore – Washington DC – Boston, quarta edizione, 2015, pp. 422.

Maurizio Abbati nato a Bologna nel 1977, dopo il Liceo Classico nel 2000 si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, con una tesi sperimentale preparata a Londra presso Institute of Advanced Legal Studies e l’Università di Southampton. Si perfeziona con due Master di II Livello: 1. Relazioni Internazionali; 2. Ambiente e Sviluppo Sostenibile. Tra il 2002 e il 2006 frequenta workshop in alcuni dei centri accademici più conosciuti in Europa: Lund (Svezia); Parigi; Helsinki e Barcellona. Pubblica vari saggi tra cui in L. Mezzetti: La Costituzione delle Autonomie, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli 2004. Project manager a livello europeo, tiene corsi e conferenze in inglese presso International Venice University; Istituto Italiano di Cultura e Università Jagellonica di Cracovia. È autore di un libro sulla comunicazione ambientale di prossima pubblicazione in italiano e in inglese. Dal 2014 lavora come giornalista qualificato di redazione nel Principato di Monaco, in Francia e in Italia.


saperi

“Nessuno potrà mai essere informato su tutti i siti presenti nel web, ma saperne valutare l’indirizzo è un primo passo per una navigazione utile e ben orientata. „

L’ho letto su internet

Gli smartphone consentono di rimanere collegati alla rete anche in luoghi remoti, e di condividere immagini ed emozioni. ↓

Ore 9.00,classe prima liceo (scientifico,linguistico, scienze umane, classico, artistico… non fa differenza), lezione di geografia astronomica, argomento: il satellite naturale della Terra. Immancabile lo studente che dall’ultima fila alza la mano: “Prof, scusi, ho letto su internet che non è vero che gli americani sono andati sulla Luna, hanno girato tutto in studio”. La risposta argomentata e documentata dell’insegnante non si fa attendere, ma lo scetticismo rimane, i volti di molti tradiscono un dubbio più che lecito: “Come faccio a sapere che è vero quello che dice lei e non quello che ho letto su internet?” Appellarsi all’ipse dixit sarebbe scorretto e diseducativo e poi, con quale autorevolezza? Bisogna ricorrere a fonti attendibili e fondate, ma come si fa? Il problema si presentava anche in passato con affermazioni simili: “L’ho visto in TV” o “L’ho sentito alla radio“. TV e radio erano (e sono) però strumenti meno sterminati.

Troppa informazione —

Fino alla fine del secolo scorso reperire informazioni non era facile.Biblioteche,musei e archivi erano (e sono ancora) a disposizione di chiunque, ma in luoghi non sempre facili da raggiungere. Molte informazioni erano poi accessibili solo agli addetti ai lavori. Oggi le potenzialità degli smartphone sembrano coronare un sogno: ognuno può avere lo scibile umano sempre con sé, ovunque si trovi. Ma c’è l’altro lato della medaglia, un problema sconosciuto nei secoli passati: l’eccesso di informazioni disponibili. Il flusso di notizie è incessante e sempre foriero di novità apparentemente importanti, ma a ben vedere è davvero rara la loro effettiva urgenza. Non basta saper leggere e scrivere, bisogna saper navigare in rete e selezionare le informazioni. Si rischia di sprecare molto tempo viaggiando senza meta, raccogliendo qua e là dati e notizie, magari privi di fondamento. È meglio sapere già in partenza quali siti consultare e concentrarsi sulla selezione delle informazioni davvero utili. Per migliorare le proprie capacità di ricerca è importante conoscere l’abc dell’informazione digitale perché in rete si può faticare a trovare informazioni attendibili, nonostante siano presenti.

La rete mondiale di informazioni —

Rete è la traduzione in italiano di web, abbreviazione di World Wide Web (www), termine che indica letteralmente la grande ragnatela mondiale di informazioni. Il web è l’insieme degli oggetti virtuali (ossia non “materialmente” esistenti) realizzato sfruttando le possibilità di internet. Internet è invece il nome con cui si designa un insieme esteso a tutto il mondo di computer colle-


gati tra loro, dall’inglese interconnected networks cioè «reti interconnesse». In effetti, si tratta di un mezzo di comunicazione di massa che mette in connessione miliardi di computer i quali «dialogano» scambiandosi informazioni. Mentre internet è qualcosa di essenzialmente materiale (volendo, si potrebbero toccare i cavi e i computer che lo compongono), il World Wide Web non è un oggetto fisico, ma un insieme d’informazioni variamente codificate, una «ragnatela mondiale» d’iperoggetti (soprattutto siti web) collegati tra loro. La proprietà più importante degli iperoggetti che formano la rete è la possibilità di effettuare collegamenti o link connettendo tra loro un’infinità d’informazioni. È questa la differenza fondamentale tra la rete e le biblioteche dell’era pre-internet. Una biblioteca contiene moltissime informazioni, ma questi dati sono fissati sulla carta,il World Wide Web invece è una sorta di serbatoio d’informazioni fluide. Inoltre nella rete non si trovano solo documenti scritti, ma anche immagini, filmati e suoni; il termine «iperoggetti» evidenzia proprio questa caratteristica multimediale.Un enorme bagaglio di conoscenza, ma anche un possibile labirinto dove è possibile smarrirsi e perdere molto tempo.

no essere modificati o creati dagli utenti della rete e non solo letti, ascoltati o osservati passivamente. La possibilità di interagire attivamente con la rete è l’essenza del web 2.0, l’evoluzione della prima versione della rete (o web 1.0) formata da siti che potevano essere visitati e consultati, ma senza interazione attiva. La rete è diventata una creazione collettiva cui tutti possono partecipare, diventando autori e/o fruitori dei contenuti. L’esempio più rilevante di utilizzo interattivo della rete è Wikipedia, l’enciclopedia più grande che l’umanità abbia mai scritto. Wikipedia è creata da milioni di utenti/autori che vi scrivono nelle lingue più diffuse al mondo ed è accessibile in ogni momento, da qualsiasi luogo della Terra dove vi sia una connessione a internet. Anche le reti sociali online o social network, come Facebook, Twitter, Instagram, sfruttano l’interattività del web 2.0, in questo caso per permettere a milioni di persone di comunicare tra loro. La rete è perciò accessibile a tutti e chiunque può pubblicare ciò che ritiene opportuno. In un contesto come quello della rete le posizioni degli esperti in un argomento finiscono con l’avere lo stesso peso di quelle di chi non ha né competenze né autorevolezza.

In rete tutti possono pubblicare —

Navigare e cercare nella rete —

C’è un altro aspetto che distingue le informazioni contenute nel World Wide Web da quelle reperibili su libri, dischi e fotografie: molti contenuti posso-

I contenuti del web sono informazioni digitalizzate, comprensibili solo a chi conosce il linguaggio dei computer. Un utente generico, per muoversi o «navigare» nella rete, deve utilizzare un programma che renda accessibili quelle stesse informazioni. Un programma di questo tipo è un «navigatore» o browser; tra i browser più utilizzati vi sono Google Chrome, Mozilla Firefox, Internet Explorer, Safari e Microsoft Edge programmi con un’interfaccia che permette di «approdare» ai siti richiesti. Lo strumento più importante per una generica ricerca in rete è invece il motore di ricerca. Esistono molti motori di ricerca ed è frequente che qualche tecnico informatico ne inventi uno nuovo. Tra più comuni vi sono Google, Yahoo, Bing, Istella. Questi programmi scansionano miliardi di pagine a ogni richiesta (o query) di un utente e restituiscono in tempi rapidissimi un elenco di siti in qualche modo inerenti alla richiesta. Gli oggetti che si trovano con questi sistemi possono essere milioni e saranno ancora più numerosi se la query è generica, mentre si riducono se si è più precisi ed esigenti. La logica con cui il motore di ricerca recupera dati è complessa e non garantisce l’affidabilità della fonte,inoltre ogni motore di ricerca esplora un gran numero di siti, ma non la loro totalità. L’ordine con cui appaiono gli indirizzi web nell’elenco dei risultati di ricerca non è un ordine di attendibilità, ma si basa su algoritmi complessi e in parte riservati. Inoltre il posizionamento dei risultati può essere


sponsorizzato trasformando l’esito in qualcosa di simile a un’inserzione a pagamento.I risultati della ricerca sono elencati in pagine successive e ognuno è composto da un titolo che è anche un link al sito, dall’indirizzo web e da una breve didascalia che evidenzia la parole contenute nella query, ma non un riassunto del sito in oggetto. Esistono anche motori di ricerca finalizzati al reperimento di pubblicazioni accademiche che utilizzano primariamente la letteratura universitaria. Tra i più noti ci sono Google scholar che fornisce risultati di ricerca su varie discipline e risorse,compresi tesi, libri e articoli divulgativi di vario genere e attendibilità, Science direct, specializzato in letteratura scientifica con libero accesso a materiale proveniente da Università o da altre organizzazioni e Pubmed specializzato in pubblicazioni biologiche e biomediche. Le informazioni che si reperiscono con i motori di ricerca specializzati sono più pertinenti, ma generalmente poco divulgative. Il web fornisce notizie interessanti, ma anche spazzatura: distinguere non è facile. Se si vuole effettuare una ricerca in rete è importante essere sicuri dell’affidabilità della fonte. Chiunque può creare un sito, perciò sul web si trovano inesattezze, pseudoscienza, propaganda, pubblicità commerciale e falsità. Esistono molti siti pensati per convincere l’utente a fare acquisti, a condividere opinioni politiche o religiose,a unirsi a gruppi che hanno finalità opinabili.A volte le informazioni scorrette sono persino create in malafede. Saper valutare un sito web è il primo passo per una consultazione consapevole. La ricerca di dati

attendibili non deve rivolgersi, almeno in prima istanza, né a siti costruiti da singole persone né a siti non istituzionali. Trovare informazioni precise in rete non è un’impresa facile. Anche quando le ricerche si facevano principalmente nelle biblioteche, bisognava essere sicuri che il testo consultato fosse affidabile. Nella scheda tratta dal terzo volume di BIOgrafia che trovate alla pagina successiva si trovano alcuni suggerimenti utili per valutare un sito e i suoi contenuti. Cercare informazioni in rete senza una logica precisa è come sperare di trovare un falegname suonando campanelli a caso in una grande metropoli: per trovare la persona giusta bisogna saper usare un sistema di ricerca (in rete il motore di ricerca) oppure conoscere l’indirizzo esatto (in internet l’indirizzo web).

Gli indirizzi web —

I siti web hanno sempre un indirizzo inequivocabile, costruito secondo regole stabilite. Saper leggere un indirizzo è un modo per trovare ciò che si cerca senza perdersi. La sequenza di caratteri che individua l’indirizzo di un sito web è la sua URL (Uniform Resource Locator), identificata da una scritta che appare solitamente in una barra alta sulla finestra del browser. Un esempio può essere il seguente: http://www.laricerca.loescher.it/quaderni/i-quaderni-della-ricerca.html Per leggere un indirizzo bisogna prima identi-

↑ Il server del CERN, fonte Wikipedia.


→ L’hard disk drive, il cuore operativo di ogni computer.

ficarne le varie parti, che sono divise dal carattere tipografico / (barra, in inglese slash). Generalmente si trova prima di tutto http://, una scritta che precede l’indirizzo vero e proprio, indica il protocollo (HyperText Transfer Protocol) che il browser deve utilizzare per tradurre le informazioni contenute nel sito e trasformarle in ciò che si vede a video. In questo caso l’indirizzo web,simile a molti altri, è così composto: • http://www.laricerca.loescher.it/ l’indirizzo principale del sito, dove si trova la pagina che si sta visitando, è solitamente l’indirizzo del server del sito; • quaderni/ l’ulteriore scritta indica una sezione più specifica del sito, in questo caso quella dedicata ai numeri monografici; • i-quaderni-della-ricerca.html conduce alla pagina con l’elenco di tutti i numeri dei quaderni della ricerca. Le indicazioni dunque sono del tutto analoghe a quelle di un indirizzo tradizionale, quello che si scriverebbe su una busta di carta: permettono di seguire un percorso, a partire da un «luogo» più generale cui appartiene la località desiderata (come lo stato), fino al dato esatto che ne permette la localizzazione (come il numero civico). Così come non è possibile conoscere tutti i libri o le opere d’arte del mondo, nessuno potrà mai essere informato su tutti i siti presenti nel web, ma saperne valutare l’indirizzo è un primo passo per una navigazione utile e ben orientata. Tutto quanto abbiamo scritto è scontato per le giovani generazioni? È altrettanto scontato quanto lo era il meccanismo di funzionamento e di ricezio-

ne del segnale di un televisore a tubo catodico per una persona nata negli anni Cinquanta o Sessanta: quasi tutti guardavano la televisione senza sapere cosa fossero il tubo catodico o le onde radio ricevute dall’antenna. Oltretutto l’avvento delle applicazioni attivate con un semplice tocco sulla superficie di un monitor ha reso ancor più rari i giovani che conoscono software e hardware. Dunque quando l’interlocutore attacca con “Ho letto su internet che...” la risposta più utile per educare gli allievi al pensiero critico sulla verifica di fatti e notizie sarebbe in realtà un invito alla riflessione, con domande quali: “L’hai letto in rete, dove? Su quale sito? A quale indirizzo? Quanto è attendibile questa fonte? Come l’hai individuata?” Preparare gli studenti a rispondere nel migliore dei modi a questi interrogativi è una sfida per gli insegnanti dell’era internet.

Paolo Vitale è laureato in Scienze biologiche, orientamento ecologico, a Milano. È coautore di BIOgrafia, manuale di Biologia per i licei edito da Loescher. Insegna Scienze naturali al liceo scientifico Copernico di Brescia.

Anna Piseri è laureata in Biologia molecolare a Milano, dove ha poi conseguito il master in Comunicazione della Scienza. È coautrice di BIOgrafia, manuale di Biologia per i licei edito da Loescher. Insegna Scienze naturali al liceo.


Guida all’uso della rete

Che cosa considerare per valutare un sito

Le informazioni sono attendibili? I dati sono verificabili? Quanti e quali link si trovano nel sito? Funzionano correttamente? A chi rimandano? Le fonti originarie sono citate, anche con link corretti? Ci sono riferimenti a libri autorevoli e ad autori noti? Non uso notizie che non possono essere verificate.

Sito obsoleto o aggiornato? Se possibile, controllo l’ultimo aggiornamento, cercandone la data. Alcuni siti sono «morti» e non sono più modificati da anni. Altri sono invece regolarmente aggiornati.

Perché questa pagina è in rete? È seria o ironica? Si tratta di propaganda, disinformazione involontaria o intenzionale? È una fonte neutrale o aderisce a un’organizzazione che vuole convicere, difendere un particolare punto di vista politico, filosofico o religioso? Vuole vendere o incitare ad acquistare? Controllo il server e verifico che non appartenga ad associazioni prive di affidibilità scientifica. Il server è riferito a un’istituzione che è parte della comunità scientifica? È possibile trovare argomentazioni ben fatte e accattivanti, ma prive di rifermenti e di autorevolezza scientifica. Non esiste l’ipse dixit nella scienza: il principio d’autorità non può essere considerato una prova di attendibilità.

Chi è l’autore del sito web? È una pagina personale o istituzionale? Conosco l’autore o l’istituzione? Se è una persona, è attendibile, con referenze scientifiche note e pertinenti? È uno scienziato noto nel settore e non cerca di convincere con tesi personali? Rappresenta la comunità scientifica? Se è un sito istituzionale, a quale istituzione fa riferimento? Si tratta di un’istituzione scientifica riconosciuta, citata da altre istituzioni autorevoli? Il sito ospita pubblicità, immagini o link impropri? È un’istituzione non specializzata nel tema che sto cercando? Il sito ospita banner, sondaggi d’opinione e propaganda? L’entità che pubblica è nota e autorevole in materia? Controllo la filosofia del sito: è propagandistica? Se non reperisco informazioni certe, non perdo tempo, potrebbe essere un sito con informazioni valide, ma non sono in grado di valutarlo.

Le opinioni possono essere facilmente confuse con i fatti accertati. In rete ci sono molti siti che si presentano come «veri», ma sono le vetrine per diffondere tesi controverse. Ci sono anche scienziati che esprimono pareri difformi da quelli della comunità scientifica, spesso in settori non di loro stretta competenza (ad esempio un astrofisico che esprime pareri personali sulla teoria dell’evoluzione biologica).

Si tratta di propaganda o disinformazione, magari in buona fede? La propaganda si distingue perché rappresenta i fatti per suscitare una risposta e consenso nel lettore. Le leggende metropolitane e le «bufale» si diffondono in rete anche in buona fede. La disinformazione può essere creata anche deliberatamente. Diffondere velocemente informazioni false in rete e nella società è molto facile. Si può perdere molto tempo e rendersi conto degli errori non è facile. Quando finalmente trovo fonti sicure, è utile archiviarle nella cartella dei «Preferiti», in modo da averle subito disponibili per ricerche future.

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dossier

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Dossier / Volevamo la fantasia al potere. C’è andata

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Volevamo la fantasia al potere. C’è andata La sfida posta dalle fake news interroga la nostra intera dimensione culturale. di Ubaldo Nicola

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olo i lettori più avanti negli anni ricorderanno la famosa invasione delle vipere volanti, paracadutate al suolo nelle regioni montuose del Nord Italia da misteriosi elicotteri, forse guidati da ambientalisti radicali. L’inquietante “notizia” circolava nei primi anni Novanta, ben accompagnata da altre mirabilia: un coniglio che si diceva risuscitato in Emilia Romagna, un topo-salmone avvistato in Alto Adige, una signora che aveva visto esplodere entrambi i suoi seni, due amanti rimasti incastrati tutta la notte tanto che, assicuravano i più informati, erano arrivati così al pronto soccorso... A quei tempi non si chiamavano ancora fake news ma leggende metropolitane, e per molti buoni motivi attiravano l’attenzione di sociologi e filosofi indagatori dello spirito del tempo. Ricordo che ad Alessandria venne fondato addirittura un centro studi per censirle, catalogarle, capire come nascessero e possibilmente perché, cioè a quali bisogni rispondessero. Stupiva soprattutto la loro capacità di diffondersi al di fuori di tutti i media informativi allora esistenti, attraverso un passa parola vis a vis dotato di un’efficacia che oggi chiameremmo virale. Ricordare queste recenti tappe della nostra storia suggerisce di ridimensionare il ruolo, oggi generalmente ritenuto essenziale, attribuito a internet nella nascita e nella propagazione delle fake news. Certamente non è facile orientarsi nella Babele informatica, ma la ricerca pubblicata lo scorso


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Orson Welles in un fotogramma del film Quarto potere, diretto da lui stesso, 1941.

La piazza centrale al parco Mini Europe di Bruxelles.


Dossier / Volevamo la fantasia al potere. C’è andata

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La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Un rito d’altri tempi: la lettura mattutina del quotidiano. ↓

anno dall’Università di Stanford dimostra che il problema riguarda soprattutto i giovani. Dal fatto che i nativi digitali siano più bravi degli adulti a navigare in rete non consegue affatto che siano anche in grado di valutarne i contenuti.Ciò che più colpisce in questo articolo è il sincero sconcerto dei ricercatori di fronte alle evidenze rilevate: come è possibile che studenti delle medie inferiori non siano in grado di distinguere una notizia da un annuncio pubblicitario? Temo però che la soluzione proposta dai ricercatori di Stanford, ossia l’elaborazione di un curriculum scolastico specificamente dedicato alla web literacy, sia insufficiente e al limite mistificante. Ciò che caratterizza il mondo di internet è l’essere complessivamente un testo molto complesso e il richiedere quindi una lettura fondata su un alto livello di competenza esegetica. Nulla di straordinario in realtà, perché non ci vuol molto a sospettare che quella delle vipere volanti sia una bufala, anche se trovasse in rete milioni di follower. Ora, il buon senso interpretativo si sviluppa o con l’esperienza della vita, e ciò spiega perché sia più diffuso negli adulti, o con la conquista di una sottigliezza mentale che

solo il possesso di una buona cultura generale e umanistica può garantire. Il problema delle fake news non è risolvibile con una didattica ad hoc, perché richiede un ripensamento dei modelli formativi oggi dominanti. È una sfida culturale che il mondo contemporaneo pone alla scuola.Ma la si potrebbe affrontare anche senza immaginare riforme apocalittiche.Vorrei far notare che la scuola italiana è fra le poche nel mondo a proporre già un curriculum finalizzato ad acquisire la competenza di distinguere il vero dal falso, o per lo meno a ragionare con la propria testa e discutere con gli altri con vicendevole profitto. Si chiama filosofia, ma è un’opportunità formativa oggi del tutto sprecata a causa dell’impianto storicistico che ingessa il suo insegnamento.

Il bisogno di andare oltre l’obiettività —

Questa riflessione sembra avvalorata dagli altri due articoli che compongono il Dossier. Il primo tenta di spiegare come mai i giovani oggi mostrano un forte disinteresse per tutti i media informativi che perseguono l’ideale dell’obbiettività giornalistica (quotidiani, tele-

giornali, ecc.) mentre amano i programmi di satira politica e i talk show partigiani, nei quali la faziosità polemica annulla ogni evidenza fattuale. Dalle risposte non emerge un istupidimento di massa, ma un bisogno di senso, di andare oltre il fatto per capirne il significato, di acquisire non tanto informazioni quanto una formazione, qualcosa di significativo per la loro esistenza. È in fondo una richiesta d’educazione, una domanda agli adulti di chiarire quali sono i valori in cui credere. Paradossalmente, è proprio ciò che la scuola dovrebbe offrire. La questione delle fake news è posta su un piano culturale ancora più profondo dal libro di Kurt Andersen la cui recensione conclude il Dossier. Forse al lettore italiano può non importare molto se l’America sia realmente Fantasyland, la terra dei creduloni. E potrebbe obiettare che anche la storia di altri popoli è intessuta di fake news (cosa altro era la donazione di Costantino?). Ma invito a prendere sul serio la diagnosi finale cui giunge il giornalista americano: l’attuale egemonia della post verità concluderebbe una traiettoria messa in moto negli anni Sessanta dalla controcultura giovanile negli anni Sessanta, non per caso un altro momento storico caratterizzato da una forte scollatura generazionale. È stata l’epoca della contestazione a generare quei virus culturali che alla fine hanno infettato la mentalità comune: il dietrologismo e il cospirazionismo, la diffidenza verso la scienza, gli esperti, l’obiettività e l’autorità intellettuale. Non so quanto la diagnosi di Andersen sia azzeccata, e sinceramente, da ex figlio dei fiori, vorrei che non lo fosse. Ma è un argomento su cui varrebbe la pena di discutere. Ubaldo Nicola direttore editoriale de «La ricerca».


Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online

a cura dello Stanford History Education Group

I

n questa ricerca, durata 18 mesi, lo Stanford History Education Group ha elaborato, testato e convalidato una serie di prove finalizzate a verificare l’attitudine al ragionamento civico online, in particolare la capacità di giudicare la credibilità di informazioni veicolate da smartphone, tablet e computer. Dal gennaio 2015 al giugno dell’anno seguente, abbiamo compiuto 56 verifiche con studenti di 12 Stati. In totale abbiamo raccolto e analizzato 7804 risposte. La verifica sul campo ha coinvolto un campione molto diversificato di scuole, alcune dotate di poche risorse altre invece ben attrezzate, sia nell’area di Los Angeles sia nella periferia di Minneapolis. In ambito universitario, in cui la nostra indagine si è focalizzata sulle capacità di utilizzo della rete, le prove sono state somministrate online agli studenti di sei Università molto diverse fra loro, da quella di Stanford, un’istituzione tanto selettiva da respingere il 94% degli aspiranti, ad alcune grandi università statali che ammettono gli studenti quasi senza restrizioni.

Il quadro di insieme

— Quando migliaia di studenti svolgono decine di attività le risposte presentano infinite variazioni, e questo è certamente il caso della nostra esperienza. Tuttavia, a ogni livello (scuole medie, superiori e università) queste differenze individuali sembrano annullarsi mettendo in evidenza una costante stupefacente e spaventosa. Nel complesso, la capacità dei giovani di spiegare le informazioni su internet può essere riassunta in una sola parola: pessima. I “nativi digitali” possono essere capaci di usare Facebook e Twitter, magari caricando contemporaneamente un selfie su Instagram o inviando un messaggio a un amico. Ma rimangono facilmente ingannati quando si tratta di valutare le informazioni che fluiscono attraverso i canali dei social media. Non abbiamo progettato i nostri esercizi per proporre gerarchie o pedanti distinzioni tra risposte insufficienti, buone ed eccellenti. Abbiamo piuttosto cercato di identificare una competenza ragionevole, un

livello di prestazioni che pensavamo fosse condiviso dalla maggior parte degli studenti della scuola media, dei liceali e degli universitari. Ci aspettavamo, per esempio, che gli alunni delle medie fossero in grado di distinguere una notizia da un annuncio pubblicitario. Oppure che, informandosi sulle leggi relative al possesso delle armi, gli studenti delle superiori tenessero in giusta considerazione il fatto che una statistica sia stata elaborata da un comitato di azione politica favorevole (o contrario) alle leggi oggi vigenti in questo campo. Supponevamo che gli studenti universitari, abituati a navigare in rete, fossero capaci di guardare oltre la URL e si chiedessero chi vi è dietro un sito che presenta solo un lato di una questione controversa. Ma in ogni caso e ad ogni livello, siamo rimasti sorpresi dalla mancanza di preparazione degli studenti. Per ogni problema che riguarda la nazione, ci sono innumerevoli siti web che fingono di essere qualcosa che non sono. Un tempo le persone comuni si affidavano di volta in volta

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Pubblicata lo scorso anno, questa ricerca dell’Università di Stanford ha suscitato scalpore: i nativi digitali sono anche pessimi valutatori dell’attendibilità di ciò che trovano in rete.


ad autori, editori ed esperti per raccogliere le informazioni di cui avevano necessità. Ma su internet,in assenza di qualsivoglia regolamentazione, si trova di tutto e di più. Michael Lynch, un filosofo che studia il cambiamento tecnologico, ha osservato che internet «è il miglior strumento per verificare l’attendibilità di una notizia ma contemporaneamente anche per confermare i pregiudizi»1. Non abbiamo mai avuto così tanta informazione immediatamente disponibile. Se questo indubbio vantaggio ci renderà più intelligenti e meglio informati oppure più ignoranti e di vedute ristrette, dipenderà dalla consapevolezza dei problemi messi in luce dalla nostra ricerca e dalle risposte che saremo

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Dossier / Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online

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→ Robert Redford e Dustin Hoffman nel film Tutti gli uomini del Presidente, 1976.

in grado di elaborare sul piano educativo. Per il momento, ciò che ci preoccupa è che la stessa democrazia risulta minacciata dal fatto che la disinformazione su questioni civiche possa diffondersi e prosperare.

La struttura della ricerca

— Il nostro lavoro ha attraversato tre fasi distinte, la prima delle quali dedicata a immaginare le prove da sottoporre agli studenti. Abbiamo seguito un percorso simile a quello praticato nel design thinking 2, un metodo elaborato nel mondo della progettazione in cui da una nuova idea si ricavano una serie di prototipi, che vengono prima sottoposti al giudizio degli utenti, quindi revisionati ed

ancora riproposti in un ciclo di continuo miglioramento. Questa strategia ha avuto per noi un’importanza cruciale, poiché è impossibile sapere in anticipo se un esercizio progettato dagli adulti sarà interpretato in modo simile da ragazzi di tredici anni.E ristrutturando continuamente i nostri strumenti di valutazione abbiamo tenuto conto di ciò che gli studenti riuscivano o non riuscivano a fare. Ad esempio, uno dei nostri compiti invitava i liceali e gli universitari a consultare la homepage di MinimumWage. com, un sito dedicato ai temi delle politiche salariali e occupazionali, apparentemente equo e moderato.Il sito si collega a fonti affidabili come il «The New York Times» e si definisce


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zione cerca di misurare e ciò che effettivamente fa5. Infine ci siamo dedicati alla verifica sul campo del lavoro sino ad allora svolto, approfittando della rete di insegnanti coinvolti nel progetto Reading Like a Historian messo a punto del gruppo online della Stanford History Education.Si tratta di un curriculum utilizzato in tutto il Paese e ufficialmente adottato dal distretto scolastico di Los Angeles7, il secondo per importanza in tutti gli Stati Uniti. Con l’aiuto di questi insegnanti e di altri in diverse città, abbiamo raccolto migliaia di risposte e recepito il parere di molti docenti sulla adeguatezza degli esercizi proposti. Alla fine, sommando questo lavoro alla analisi delle interviste di validità cognitiva, siano certi di aver elaborato strumenti di valutazione adeguati a misurare le competenze che gli studenti dovrebbero possedere.

La difficoltà di formulare i test di valutazione

— Abbiamo progettato, gestito e convalidato quindici test di valutazione, cinque rivolti agli studenti delle scuole medie ed altrettanti ai liceali e agli uni-

versitari. A livello di scuola media, dove la capacità di navigare online è agli inizi, abbiamo progettato un esercizio da svolgersi con carta e matita seppure basato su un contenuto digitale, come illustra la figura 1. Abbiamo cioè utilizzato una schermata di Slate, una delle più note riviste online americane. Lanciata nel 1996 da Microsoft, dal 2004 è stata acquisita dal gruppo editoriale del «The Washington Post». Di stampo liberale, è gratuita perché si mantiene con la pubblicità. Agli studenti è stato chiesto di distinguere fra le sezioni della schermata dedicate alle notizie e quelle contenenti annunci pubblicitari.Allo stesso modo, abbiamo utilizzato schermate di tweets, post di Facebook e una riproduzione del sito web della CNN per proporre esercizi analoghi. Siamo ben consapevoli del rischio implicato dall’apparente incongruenza di chiedere ai ragazzi di usare carta e matita per analizzare una fonte online. Ci basiamo, però, su un recente studio8, Students, Computers and Learning: Making the Connection, condotto dalla OECD (Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo) che

↑ Figura 1. La schermata della rivista online Slate e gli esercizi proposti.

Dossier / Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online

come un progetto dell’Istituto delle Politiche per l’Occupazione, un’organizzazione no-profit che proclama di sostenere ricerche non partigiane sul tema del lavoro. Ebbene, negli esercizi di navigazione in rete, solo il 9% degli allievi di scuole superiori, che pure frequentavano un corso avanzato di storia, si è dimostrato in grado di interpretare il linguaggio suadente di MinimumWage.com e capire che si tratta di un’iniziativa comunicativa messa in atto da una lobby di Washington, secondo una prassi, ben analizzata da Lisa Graves nell’articolo Corporate America’s New Scam (Il nuovo inganno delle aziende americane), per la quale quelli che nelle grandi aziende erano sino a poco tempo fa gli uffici per le pubbliche relazioni si presentano ora come think tank oggettivi e indipendenti3.Tra gli universitari i risultati sono stati ancora peggiori: il 93% è rimasto intrappolato dall’inganno, confermando così l’intuizione di Lisa Graves: impressionati dalla autorevolezza apparentemente non partigiana della sigla Istituto per le Politiche di Occupazione, non hanno neppure tentato di usare Google per indagare sui finanziamenti di questa organizzazione. La maggior parte non è mai andata oltre il sito stesso4. La seconda fase del nostro lavoro si è posta l’obbiettivo di convalidare le prove elaborate. Per fare in modo che misurassero proprio ciò che stavamo cercando (escludendo ad esempio le capacità di lettura o di esecuzione dei test), ci siamo impegnati in una approfondita revisione, a volte modificando e rivedendo i nostri esercizi fino a mezza dozzina di volte. Inoltre, abbiamo chiesto a gruppi di studenti di verbalizzare il loro pensiero mentre completavano i compiti a loro proposti. Questa pratica ci ha permesso di considerare ciò che è conosciuto come “validità cognitiva”, il rapporto tra ciò che una valuta-


dimostra come le capacità di valutare le fonti online possono essere misurate anche con gli strumenti didattici tradizionali. Ancor più importante per la nostra decisione è stata la speranza che questo sistema valutativo potesse coinvolgere anche scuole molto arretrate

“All’inizio pensavamo che gli

Dossier / Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online

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esercizi proposti fossero troppo facili, ma non lo erano affatto.

sul piano dell’innovazione, nelle quali i più moderni sistemi informatici rimangono ancora una possibilità remota. Queste prove di valutazione che abbiamo elaborato per la scuola media costituiscono una batteria di test facilmente utilizzabile da tutti gli insegnanti, indipendentemente dai mezzi tecnici a loro disposizione,e sono utili per misurare le abilità di base degli studenti. A livello di scuola superiore, abbiamo progettato compiti più complessi chiedendo agli studenti di ragionare su più fonti.A livello universitario, gli esercizi sono stati amministrati online. Data la fluidità dei livelli di competenza, nulla impedisce che gli esercizi pensati per il livello liceale possono essere usati per quello universitario, e viceversa

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Gli esercizi

— Ecco qui di seguito il contenuto degli esercizi proposti. I due segnalati dal grassetto sono analizzati in dettaglio nel prosieguo della relazione Scuole medie. 1. Notizie su Twitter. Gli studenti confrontano diversi tweet e decidono quale è il più affidabile. 2. Analisi di un articolo. Gli studenti leggono un post sponsorizzato e spiegano perché potrebbe non essere affidabile. 3. Sezione commenti. Gli studenti esaminano un post da

una sezione di commenti di un giornale online e decidono se potrebbero utilizzarlo in una ricerca. 4. Ricerca news. Gli studenti distinguono tra un articolo di notizie e uno d’opinione. 5. Analisi di una home page. Gli studenti identificano le pubblicità su un sito web di notizie. Scuole superiori. 1. Analisi degli argomenti. Gli studenti confrontano e valutano due messaggi della sezione di commenti di un giornale online. 2. Notizie su Facebook. Gli studenti identificano il segno di spunta blu che distingue un account Facebook verificato da uno falso. 3. Argomentare su Facebook. Gli studenti considerano la diversa evidenza dei ragionamenti che due utenti svolgono in uno scambio su Facebook. 4. Valutazione delle prove. Gli studenti decidono se fidarsi di una fotografia pubblicata su un sito web per la condivisione di foto. 5. Confronto di articoli. Gli studenti determinano la diversa affidabilità di una notizia e di un post sponsorizzato. Università. 1. Valutazione di un articolo. In una ricerca web aperta, gli studenti decidono se un sito può essere considerato affidabile. 2. Soddisfare una richiesta. Gli studenti cercano online per verificare un reclamo su un argomento controverso. 3. Affidabilità di un sito web. Gli studenti determinano se un sito partigiano è affidabile. 4. Social media video. Gli studenti guardano un video online e identificano i suoi punti di forza e di debolezza. 5. Informazione sui social media. Gli studenti leggono un tweet e spiegano perché potrebbe o non potrebbe essere una fonte utile di informazioni.

I prossimi passi

— Immaginiamo tre tipi di sviluppo del lavoro che finora abbiamo svolto. Il primo riguarda la possibilità di usare le prove da noi elaborate come strumenti per l’apprendimento. Riteniamo possano rivelarsi utili anche nell’ordinario lavoro in classe. Oltre a verificare le capacità di apprendimento, possono servire anche a stimolarlo, se usate come apparati didattici, del tipo di quelle che gli insegnanti chiamano “valutazioni formative”. Allo stesso modo, gli insegnanti possono utilizzare questi esercizi come base per lezioni più ampie sulle competenze che questi compiti misurano. Ci ripromettiamo comunque di elaborare ulteriori materiali che aiutino i docenti a introdurre questi temi nel loro lavoro formativo. Un’altra esigenza sta nel mettere a punto un curriculum specifico finalizzato allo sviluppo del ragionamento civico online. Sfruttando l’esperienza che abbiamo acculato realizzando il curriculum Reading Like a Historian6, abbiamo iniziato a elaborare una serie di lezioni da utilizzarsi in combinazione con le valutazioni proposte nella ricerca. Nei prossimi mesi lavoreremo a stretto contatto con gli insegnanti per perfezionare questi materiali ed applicarli nelle aule. Pensiamo ve ne sia un grande bisogno. Dobbiamo infine sviluppare la consapevolezza del problema presso gli educatori. Non avevamo affatto capito la sua profondità quando abbiamo iniziato la nostra ricerca. Ci chiedevamo addirittura se fosse il caso di proporre determinati esercizi, considerandoli eccessivamente facili, e solo dopo il primo round di validazione dei test abbiamo percepito la realtà dei fatti rimanendone sconvolti. Poiché i giovani usano senza difficoltà i social media, si tende a pensare che siano altrettanto esperti nel discernere ciò che vi trovano.Ma


← Figura 2. La fotografia delle margherite “malate” pubblicata sul sito Imgur.

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Valutare il valore di prova di una fotografia

— Data la grande quantità di informazioni disponibili online, gli studenti devono essere in grado di distinguere tra fonti legittime e dubbie. Devono porsi una domanda basilare: qual è la fonte del documento che sto consultando? Questo esercizio, proposto nelle scuole medie, valuta se gli studenti esaminano questo

problema anche quando si confrontano con un’immagine di grande impatto visivo. Ad esempio quella che abbiamo loro presentato, pubblicata nel luglio 2015 da Imgur, un sito web di condivisione di fotografie, con una didascalia in cui si afferma che la deformità di queste margherite è dovuta a una crescita patologica prodotta dal disastro avvenuto il 21 marzo 2011 nella centrale nucleare di Fukushima in Giappone (vedi figura 2). Anche se l’immagine è avvincente ed efficace nel suggerire ciò che la didascalia afferma, gli studenti più accorti dovrebbero notare che non fornisce una prova certa di un’abnorme sviluppo prodotto dalle radiazioni atomiche. Dovrebbero poi indagare sulla fonte del post, notando che chi l’ha inviata non possiede alcuna credenziale, dato che appare in un sito in cui chiunque può caricare una fotografia. Infine potrebbero notare che non si fornisce alcuna prova che l’immagine sia stata scattata in

prossimità della centrale nucleare di Fukushima. In generale, gli studenti di livello superiore sono rimasti affascinati dalla fotografia e si sono basati su di essa per valutare la fiducia del post. Hanno ignorato i dettagli chiave, come la fonte della foto. Meno del 20% ha risposto centrando l’obiettivo o comunque mettendo in dubbio la fonte della foto e la credibilità dell’immagine. D’altra parte, quasi il 40% ha sostenuto che il post fornisce forti evidenze perché testimonia la degenerazione della natura vicino alla centrale. Il 25% ha ammesso che il post non fornisce una prova soddisfacente del disastro, ma solo perché mostra soltanto margherite e non anche altre piante o animali che potrebbero essere affetti dalle radiazioni nucleari.

L’informazione sui social

— Twitter è pieno di individui e gruppi che cercano di migliorare i loro programmi. Per navi-

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il nostro lavoro mostra il contrario. Abbiamo messo in cantiere la produzione di una serie di video web per sensibilizzare gli educatori, mostrando loro la profondità del problema rivelato dalle prestazioni estremamente carenti dimostrate dagli studenti affrontando i nostri test. È una questione che lega strettamente l’alfabetizzazione digitale al corretto esercizio di una cittadinanza consapevole, tanto importante da rappresentare una minaccia alla democrazia.


gare in questo mare di informazioni, gli studenti devono essere in grado di valutare i punti di forza e le debolezze dei tweet, quando li si consideri come fonte di informazioni. In particolare, devono considerare le fonti di un tweet e le informazioni che veicola. Questo esercizio presenta agli studenti universitari un tweet dell’organizzazione di ispirazione liberale MoveOn.org in cui si afferma che: «Un nuovo sondaggio mostra che la NRA (National

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Dossier / Valutare l’informazione: la pietra angolare del dibattito civico online

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Dalle interviste è emerso che più della metà degli studenti non è stata in grado di esplorare neppure i collegamenti forniti all’interno del tweet che stava analizzando.

Rifle Association) non rappresenta più i possessori di armi e neppure i suoi stessi associati». Il contenuto effettivo della notizia è espresso in uno spazio grafico in cui si apprende che «Due possessori di armi su tre dicono che voteranno per un candidato favorevole all’introduzione di controlli preventivi sugli acquirenti di armi». Il tweet contiene anche il collegamento a una rassegna stampa relativa al committente del sondaggio: il Centro per il Progresso Americano, una organizzazione di ispirazione liberale. E indica infine la società che nel novembre del 2015 ha eseguito il sondaggio, la Public Policy Polling,un’agenzia nata nel 2001, seria e autorevole ma politicamente schierata a favore del Partito Democratico. Agli studenti viene chiesto se questo tweet può essere considerato un’utile fonte di informazione. I più consapevoli dovrebbero rispondere in senso affermativo, notando che il sondaggio è stato condotto da una società professionalmente affidabile. Allo stesso tempo, però, dovrebbero riconoscere che le motivazioni politiche di MoveOn. org e del Centro per il Progresso

Americano, organizzazioni che sostengono con forza l’introduzione del porto d’armi,potrebbero avere modificato la struttura del sondaggio, la pubblicizzazione e la valorizzazione dei suoi risultati. Abbiamo presentato questo compito a 44 universitari in tre università. I risultati indicano che gli studenti hanno avuto forti difficoltà nel valutare il tweet. Solo pochi hanno sottolineato l’autorevolezza della Public Policy Polling e hanno quindi elaborato un giudizio positivo del tweet come fonte di informazioni. Meno di un terzo ha osservato in modo esplicito come le agende politiche di MoveOn.org e del Centro per il Progresso Americano potrebbero averne influenzato il contenuto. Molti hanno fatto ampie considerazioni sui limiti dei sondaggi e sulla frequente inattendibilità delle informazioni veicolate dai social media, senza però essere in grado di indagare seriamente sulle specifiche fonti di questo documento. Dalle interviste condotte dopo gli esercizi è emerso che più della metà degli studenti non ha esplorato i collegamenti forniti all’interno del tweet, limitandosi semplicemente a scorrere su e giù la pagina. Altri, infine, hanno cercato di procurarsi sul web notizie sulle organizzazioni coinvolte. Tuttavia, dalle ricerche sul Centro per il Progresso Americano non hanno saputo trarre informazioni utili. Nel complesso i risultati di questo esercizio suggeriscono che gli studenti hanno bisogno di ulteriori istruzioni su come affrontare i contenuti dei social media, in particolare quando sono presentati da una fonte con un programma politico chiaro. NOTE 1 M. Lynch, Googling is Believing: Trumping the Informed Citizen,«New York Times», 9 Marzo 2016, rintracciabile in rete al sito http://opinionator. blogs.nytimes.com

2 T. Brown, Design Thinking, in «Harvard Business Review» 86, n. 6 (2008), pp. 84-95. 3 L. Graves, Corporate America’s New Scam: Industry P.R. Firm Poses as Think Tank!, in «Salon», novembre 2013, rintracciabile in rete sul sito www.salon.com. 4 Abbiamo sempre raccomandato agli studenti di porre un’attenzione particolare a questo quesito dedicandovi almeno tre minuti, anche se nulla impediva di studiarlo per un tempo più lungo, dato che non abbiamo posto limiti temporali all’esecuzione dei compiti. Possiamo assicurare che le risposte non sono state condizionate dalla fretta. 5 J. Pellegrino, Knowing What Students Know: The Science and Design of Educational Assessment, National Academies Press,Washington, 2001. 6 http://sheg.stanford.edu. 7 achieve.lausd.net/page/5965. 8 Organisation for Economic Cooperation and Development, Students, Computers and Learning: Making the Connection, OECD Publishing, Parigi, 2015.

Tratto da: Stanford History Education Group (con il supporto della Robert R. McCormick Foundation), Evaluating Information: the Cornerstone of Civic Online Reasoning, 2016, rintracciabile in rete sul sito http://sheg. stanford.edu.

Traduzione di Francesca Nicola.

History Education Group fondato nel 2002, è un gruppo di ricerca afferente all’Università di Stanford specializzato nella formazione professionale degli insegnanti di storia. Il suo prestigio sta nell’aver elaborato il curriculum Reading Like a Historian, un corso di 88 lezioni in cui la storia degli Stati Uniti è sviluppata attraverso il ricorso sistematico alle fonti documentarie. Dopo il grande successo ottenuto negli Stati Uniti, il metodo è stato applicato anche alla storia di altri Paesi. Per ulteriori notizie: http:// sheg.stanford.edu.


Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica Gli adolescenti considerano i programmi di satira politica fonti informative più interessanti dei quotidiani e dei telegiornali. 43

di Regina Marchi Dossier / Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica

L

o scarso apprezzamento dei quotidiani e dei notiziari televisivi da parte dei giovani è ampiamente noto, tanto che non pochi ricercatori e numerose agenzie informative stanno tentando di interpretare il fenomeno. Secondo Mindich (2005),vi è stato un vero e proprio salto generazionale nel modo di informarsi, particolarmente riguardo alle notizie politiche. Dopo aver notato che l’80% degli

americani al di sotto dei 30 anni non legge quotidianamente un giornale,mentre lo fa il 70% degli anziani, e che l’età media di chi guarda i telegiornali è di 60 anni, egli conclude prevedendo gravi conseguenze per il futuro della democrazia. Un pericolo amplificato dal fatto che i giovani «dimostrano di essere attratti in modo sproporzionato da storie dallo scarso contenuto pubblico». Altri studi descrivono un quadro più ottimistico: i giovani

non sarebbero affatto disinteressati agli eventi attuali, ma troverebbero i quotidiani e i telegiornali noiosi,difficili da capire e senza connessioni con la loro vita reale. Sarebbero quindi non disinformati ma “diversamente informati” rispetto alle generazioni precedenti, acquisendo le informazioni sull’attualità tramite sia i nuovi media informativi (cellulari, posta elettronica e social network) sia le conversazioni con i familiari e gli amici.

↑ La distribuzione dei giornali il 16 aprile 1912, Getty images.


come «è essenziale che la gente sia ben istruita nelle questioni su cui deve prendere decisioni». Generale è poi la constatazione che il giornalismo svolge una funzione pubblica in molti campi, dall’educazione sanitaria alla denuncia della corruzione politica. Gli si attribuisce un «ruolo enorme nella società» e «una grande responsabilità per far emergere la verità», oltre che una funzione di critica sociale: «il giornalista non deve solo informare la gente, ma controllare la società e i politici». Va notato poi che la maggior parte degli adolescenti intervistati era per lo meno superficialmente informata sulle più recenti questioni di politica locale e nazionale; alcuni hanno dimostrato un’inaspettata passione per problemi come la crisi economica, le guerre in Medio Oriente e gli scandali locali. Dalla mia ricerca risulta che, a parte quelle in cui incappano “per caso” facendo zapping, ci sono tre modi con cui i giovani acquisiscono notizie sull’attualità: attraverso gli adulti di cui hanno fiducia, le opportunità offerte dalla rete e i fake news show, ossia i programmi televisivi di satira politica.

Dossier / Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica

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La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Il ruolo degli adulti e della rete

↑ Un giovane strillone a Chicago nei primi anni Cinquanta.

Il consumo di notizie tra gli adolescenti

— La maggior parte degli adolescenti intervistati ha riferito di leggere un quotidiano solo saltuariamente, da una volta alla settimana a una volta al mese. Quelli che quotidianamente ne leggono uno, meno del 10%, appartengono tutti a famiglie che hanno sottoscritto un abbonamento. Alcuni affermano di leggere soltanto le copie gratuite dei quotidiani distribuiti

a scuola, anche perché costretti a farlo dagli insegnanti. Gli studenti pendolari leggono Metro, distribuito gratuitamente nelle stazioni. La maggior parte riferisce di imbattersi nelle notizie fornite dai telegiornali solo “per caso”, facendo zapping o perché incuriositi dall’interesse dei genitori. Tutti gli studenti intervistati, tuttavia, hanno riconosciuto l’importanza dell’informazione, spesso sottolineandone la funzione politica con affermazioni

— È con un misto di ammirazione e stupore che gli adolescenti notano quanto i loro genitori siano forti «consumatori di notizie». Quasi tutti riferiscono di ricevere forti sollecitazioni dai loro insegnanti, dai genitori e dai fratelli maggiori affinché prestino più attenzione ai notiziari, e molti riconoscono il ruolo di stimolo assunto dagli adulti verso cui nutrono fiducia. Molti affermano che spesso hanno consultato la rete per ottenere maggiori ragguagli su argomenti verso i quali i genitori avevano dimostrato di nutrire un particolare interesse. Risulta che questi adulti “affida-


I talk show faziosi e la satira politica

— A volte con il termine “fake news” ci si riferisce al contenuto di programmi televisivi di intrattenimento che mettono alla berlina i network tradizionali ed usano la satira per affrontare problemi di pubblica importanza. Recentemente alcune ricerche hanno messo in luce sia la grande popolarità di questo tipo di spettacoli (ad esempio The Colbert Report, The Daily Show con Jon Stewart, il “Weekend Update” di Saturday Night Live) sia la crescente fiducia riposta in essi

come fonte di notizie. Queste rilevazioni sono state valutate dai ricercatori in un modo molto vario, dalla approvazione alla preoccupazione per il prestigio informativo raggiunto da spettacoli che non sono prodotti da giornalisti e non si impegnano nella ricerca dell’obiettività. D’altra parte, secondo altri studi compiuti su scala nazionale, gli utenti più affezionati a questo tipo di spettacoli sono meglio informati sui problemi nazionali e internazionali di coloro che si basano esclusivamente sulle fonti giornalistiche tradizionali. I giovani adulti che guardano abitualmente The Daily Show ottengono punteggi più alti nei test che misurano il grado di informazione su temi di attualità rispetto a tutti gli altri loro coetanei, quelli che leggono i giornali, quelli che consultano in rete siti di notizie come Google News e Yahoo News, quelli che ascoltano la radio o guardano i programmi della CNN (NAES, 2004). In nessun caso questi studi sono stati svolti specificatamente su giovani minori di 18 anni, tuttavia più di un quarto degli adolescenti che abbiamo intervistato ha citato questi programmi fra le principali fonti di notizie. Se aggiungiamo quelli che seguono programmi radiofonici dello stesso tipo, risulta che circa un terzo degli adolescenti considera questi talk show fondati sulla satira e il divertimento come affidabili agenzie informative. Altre ricerche hanno comunque dimostrato che anche gli adulti attribuiscono a questi fake news show una funzione conoscitiva che va oltre a quella meramente informativa. La ragione, come ha spiegato Baym (2005), sta nel fatto che, mentre i notiziari televisivi tradizionali riportano i fatti in rapida successione, passando da un argomento all’altro senza approfondirne nessuno, i talk show satirici «contestualizzano

gli argomenti e spesso propongono approfondimenti e riferimenti storici, offrendo così una elaborazione conoscitiva superiore a quella dei tradizionali telegiornali».Altri hanno notato che spesso questi programmi

“I programmi di satira stanno

sempre più diventando forme di effettiva comunicazione politica, con un effetto importante nel dibattito pubblico.

offrono informazioni anche su processi istituzionali raramente affrontati altrove, ad esempio su come funziona un collegio elettorale o come una proposta legislativa diventa esecutiva. Un numero crescente di ricercatori suggerisce che da una parte i notiziari ufficiali sono sempre più spesso considerati banali, dall’altra i programmi di satira informativa stanno sempre più diventando forme di effettiva comunicazione politica, con un effetto importante nel dibattito pubblico. Sebbene ufficialmente non abbiano nulla a che fare con la “stampa”, a questi format televisivi viene oggi attribuito il classico ruolo di “cani da guardia” tradizionalmente detenuto dai giornali quotidiani, perché con le loro battute irridenti pongono sotto esame le autorità, sottolineando la diversità tra ciò che dicono e ciò che fanno. Baym (2010) suggerisce di superare la tradizionale dicotomia fra “intrattenimento” e “informazione”, non più oggi reciprocamente esclusivi, riconoscendo che in un’epoca fondata sull’integrazione discorsiva il sistema informativo va necessariamente assumendo una natura ibrida. Borden e Tew (2007) sostengono che poiché i fake news show non sono obbligati a seguire i criteri di obiettività e di selezione delle notizie seguiti dalla stampa tradizionale, sembrano offrire lo stesso tipo di au-

45 Dossier / Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica

bili” servono spesso come “filtri” o “produttori” di informazioni. Gli adolescenti considerano utile questa guida, anche se il tema fondamentale che emerge dalle interviste è la loro convinzione che i giornali e i telegiornali parlino di cose senza attinenza con la loro vita. Gli adolescenti intervistati riferiscono di informarsi soprattutto attraverso i siti di social networking come i blog, Facebook, MySpace e YouTube. Spiegano questa preferenza con la capacità di questi media di trasmettere esperienze di prima mano e di affrontare i problemi con prospettive diverse, permettendo così di sviluppare con maggior facilità opinioni proprie. Dei blog, ad esempio, apprezzano la capacità di presentare numerosi punti di vista su un determinato argomento. «Quando ho letto un blog sulla legalizzazione della marijuana e ho visto tutti i diversi commenti che le persone hanno inviato pro e contro, ho pensato certe cose che non avevo mai considerato prima», ha osservato Maria, di 14 anni.Un tema saliente nelle loro risposte è il desiderio di ottenere prospettive sugli eventi attuali attraverso l’esposizione a opinioni diverse, e questa propensione contribuisce a spiegare la loro indifferenza verso le forme più tradizionali di giornalismo.


La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Dossier / Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica

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↑ La redazione del «New York

Times» nel 1942.

tenticità promessa dai blogger: vi si attribuisce perlomeno la funzione di attirare l’attenzione sulle mancanze del giornalismo tradizionale. Warner (2007) nota che le tecniche irridenti nel condurre le interviste, come l’interrogatorio socratico usato da Jon Stewart nel The Daily Show, costituiscono «efficaci tattiche retoriche per mettere in evidenza le incongruenze e le contraddizioni nei discorsi dei politici». Rifiutandosi di affrontare un problema semplicemente chiedendo il parere di un esperto, come di prassi nel giornalismo tradizionale, questi show denunciano la trivializzazione delle notizie operata dalla stampa e la superficialità oggi dominante nel sistema informativo. Sembrano offrire un esempio di ciò che il giornalismo potrebbe diventare se, invece di rispettare l’autorevolezza degli intervistati, si concentrasse sulla qualità e la validità delle loro risposte (Turner, 2005). Anche gli adolescenti da noi intervistati hanno espresso vedute simili.

La crisi del giornalismo tradizionale

— Un tratto comune a tutti questi spettacoli sta nell’andare oltre la semplice dimensione della notizia per offrire interpretazioni e giudizi sugli eventi. Dalla metà del XX secolo il giornalismo americano ha rispettato uno standard professionale fondato sull’etica pubblica, nel quale i giornalisti si concepivano come “cani da guardia” capaci di proteggere il popolo dagli abusi dei governi e delle grandi aziende. Negli ultimi decenni, tuttavia, per ragioni connesse a cambiamenti profondi avvenuti nell’industria dell’informazione, nella cultura e nella politica, questa aura ideale è venuta meno. Nella battaglia fortemente improntata al profitto per la conquista di nuove quote nel mercato informativo, i principi basilari della professionalità giornalistica, come l’indipendenza di giudizio, la capacità investigativa e la verifica sistematica delle notizie, sono troppo spesso soppiantati dal sensazionalismo e

dalla superficialità. Scontando enormi tagli di bilancio, le redazioni hanno ridotto la capacità di investigare e di controllare l’autenticità delle informazioni; dipendono sempre più da agenzie esterne, come gli uffici di pubbliche relazioni delle aziende e delle istituzioni pubbliche. Nonostante questa realtà,il giornalismo professionistico non ha rinunciato all’aura dell’obiettività, con l’effetto di far crescere lo scetticismo tra il pubblico, in particolare quello giovanile.

L’insufficienza delle notizie

— Gli adolescenti tendono ad avere propensioni sia idealistiche sia ribellistiche, come dimostra la loro partecipazione ai numerosi movimenti per la giustizia sociale.Ancora abbastanza giovani per credere che il cambiamento sia possibile, ma già abbastanza vecchi per capire che qualcosa va storto, ammirano chi non ha paura di combattere l’ipocrisia. Come rivelano le risposte alle nostre interviste, danno impor-


umoristici non danno “notizie” in senso stretto, ma riferiscono di trarre da essi una comprensione più chiara degli eventi, di ricevere un aiuto a capire cosa è veramente in gioco in una determinata politica. Come ha affermato Kara,di 16 anni,«i notiziari raccontano una cosa e l’altra,ma non si riesce a capire quale sia quella buona e quella cattiva». Le preoccupazioni per questo consumo à la carte delle notizie tipico dei giovani includono il timore che in questo modo essi evitino di affrontare i più importanti problemi pubblici per interessarsi invece a questioni secondarie e che, oltre tutto, ciò provochi un “effetto eco”, quello per cui si entra in contatto solo con opinioni che corrispondono alle proprie.Al contrario, altri argomentano che i social network favoriscono l’accesso a nuove idee politiche e a visioni diverse dalla propria. Sulla base delle nostre interviste,l’«effetto eco» non sembra più probabile oggi che in passato e anzi potrebbe anche essere meno diffuso. Esposti all’influenza di diversi “amici” e commentatori, gli adolescenti affermano di amare i blog e i post di Facebook perché mostrano le cose in un modo che non avevano mai prima considerato. E poiché le notizie sono ora trasmesse da una miriade di piattaforme,dai telefoni cellulari alle televisioni onnipresenti nei negozi, nelle fermate del metro e persino nei taxi, anche i giovani che altrimenti non avrebbero fatto lo sforzo di informarsi vengono comunque a conoscenza delle top stories del giorno,mentre quelli che vogliono approfondire le notizie hanno accesso a più fonti e opinioni che mai. Rimane poi aperta la questione di quanto i giovani siano in grado di distinguere le informazioni fattuali da quelle false. Blogger e talk show forniscono opinioni forti, ma non controllano l’affidabilità delle notizie, e neppure se ne preoccupano. È un problema non limitato

Approfondire —

J • G. Baym, The Daily Show: Discursive integration and the reinvention of political journalism, in «Political Communication» 22, 2005, pp. 259-276. • G. Baym, From Cronkite to Colbert: The evolution of broadcast news, Paradigm, Boulder (CO), 2010. • S. Borden, C. Tew, The role of journalist and the performance of journalism: Ethical lessons from “fake” news (seriously), in «Journal of Mass Media Ethics», 22 (4) 2007, pp. 300–314. • D. Mindich, Tuned out—Why Americans under 40 don’t watch the news, Oxford University Press, New York, 2005. • National Annenberg Election Survey, Daily Show viewers knowledgeable about presidential campaign, National Annenberg Election Survey Shows, 2004. • G. Turner, Ending the affair: The decline of television current affairs in Australia, University of New South Wales Press, Sydney, 2005. • J. Warner, Political culture jamming: The dissident humor of The Daily Show with Jon Stewart, in «Popular Communications», 5(1) 2007, pp. 17-36.

alla dimensione giovanile, che comunque sottolinea la fondamentale importanza dell’alfabetizzazione mediatica degli studenti. Tratto da: R. Marchi, With Facebook, Blogs, and Fake News, Teens Reject Journalistic Objectivity, in «Journal of Communication Inquiry», XX(X), pp. 1–17. Traduzione di Francesca Nicola. Regina Marchi è docente di Giornalismo e Media Studies presso la School of Communication and Information, Rutgers University, New York, USA.

47 Dossier / Perché i giovani rifiutano l’obiettività giornalistica

tanza alla verità informativa,ma non sono affatto convinti che il giornalismo professionale sia veritiero e affidabile. Giudicano i notiziari tradizionali «noiosi» e «sempre uguali», prevedibili e privi di qualsiasi velleità critica verso il potere. Al contrario, pensano che i post su Facebook, i video su YouTube, i blog, i talk show partigiani e i programmi di satira politica forniscano informazioni e approfondimenti che permettono di comprendere più profondamente il significato degli eventi e di sviluppare quindi le proprie opinioni. Per loro, questo è un modo più veritiero e autentico di fare informazione. Il concetto di obiettività, il riferirsi cioè ai fatti in modo non parziale, è stato la pietra angolare del giornalismo americano. E come affermò Herbert Gans (1979),«l’obiettività giornalistica include la libertà di ignorare le implicazioni delle notizie; senza la possibilità di non affrontare l’ambito delle conseguenze dei fatti, l’obiettività non potrebbe sussistere a lungo». Ma i ragazzi intervistati hanno dichiarato che ciò di cui vanno in cerca sono proprio le implicazioni delle notizie. Paradossalmente, mentre i loro commenti e comportamenti indicano un disinteresse per l’obiettività informativa, giustificano l’apprezzamento per i blog, Facebook, YouTube e i fake news show con la voglia di acquisire una comprensione più equilibrata degli avvenimenti. Contrariamente alle disinteressate osservazioni sul mondo politico tipiche delle “noiose” agenzie informative tradizionali, le ironiche e appassionate invettive dei blog e dei programmi satirici dimostrano di «collocare le cose nel loro contesto», di «offrire opinioni diverse» e di «non aver paura di raccontare le cose come realmente sono». Gli adolescenti apprezzano l’uso del sarcasmo e della partigianeria per combattere bugie e abusi. Capiscono che i talk show


La credulità in America Nel dibattito americano sulle fake news sta avendo un notevole impatto un libro molto originale, dal titolo significativo: Fantasyland. Come l’America andò fuori di testa. di Francesca Nicola

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Dossier / La credulità in America

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A

scrivere quello che quest’anno si preannuncia come un vero bestseller, almeno per quei tanti interessati a capire perché l’America sia entrata nell’era della post-verità, è Kurt Andersen, un giornalista newyorchese molto noto sia per essere stato columnist del «The New York Times» sia come conduttore di un ben frequentato programma radiofonico, Studio 360, sia infine come cofondatore del settimanale satirico «Spy magazine». Abbastanza avanti negli anni,democratico-liberale in politica, Andersen ha al suo attivo anche una serie di romanzi di successo, come Turn of the Century (2000), in cui non per caso esaminava le intersezioni tra il sistema informativo e la reality TV. Andersen è un autore fortunato, perché pur avendo evidentemente richiesto molti anni di lavoro (sono 480 pagine di scrittura densa e informativa) il suo Fantasyland. How America Went Haywire: A 500-Year History (Random House, New York 2017) non poteva uscire in un momento più appropriato, perché Donald Trump è la personificazione e l’apoteosi proprio del fenomeno che Andersen mette a tema. Non si tratta però di un pamphlet giornalistico; solo l’ultimo capitolo è dedicato al discusso Presidente attuale, mentre il resto del ponderoso volume mantiene

quanto il titolo promette, svolge cioè una dettagliata storia alternativa degli Stati Uniti tentando di dimostrare come sin dai primordi il popolo americano abbia sviluppato un rapporto unico e originale, tale da differenziarlo nettamente dal resto dell’Occidente, con la verità e tutti i suoi infiniti contrari, la fantasia, l’illusione, il sogno, la falsità e così via. L’America descritta da Andersen è un Paese di creduloni, divisa fra coloro che ragionano con la testa e quelli che lo fanno con il cuore; in cui la sottile linea di demarcazione tra realtà e illusione è diventata sempre più volatile. In cui credere nelle fake news sembra rispondere a un bisogno di massa, perché è ciò che esprime nel modo più coerente il carattere nazionale.

Il Paese dei creduloni

— Andersen non è un razionalista fanatico; ammette che tutti abbiamo credenze indimostrabili e che a volte cediamo a superstizioni senza senso. Ciò che è problematico è superare i limiti, lasciare che il soggettivo prevalga sull’oggettivo, pensare e agire come se i propri sentimenti potessero influire sui fatti e persino dimostrarli. Ma proprio questo è capitato all’America: il valore della libertà intellettuale predicato dell’Illuminismo è stato preso troppo sul serio, nel

senso cioè che ogni individuo è libero di credere in ciò che vuole, non ostacolato da alcuna censura ma neppure dai fatti. È un discorso che Andersen riesce facilmente a dimostrare sul piano statistico. Calcola che gli americani ostinatamente fedeli alla realtà siano una minoranza, forse un terzo ma certamente meno della metà.Quasi un quarto crede che i vaccini causino l’autismo, e altrettanti sono quelli convinti che gli extraterrestri abbiano visitato o stiano visitando la Terra, nonostante l’occultamento delle prove perpetrato dalle forze armate. Sembra che ogni leggenda metropolitana trovi negli Stati Uniti un pubblico entusiasticamente disposto a credervi, dalle scie chimiche alla “evidenza” che Elivis Preslay non sia mai morto. Solo Il 30% non crede nella telepatia e nei fantasmi, mentre il 25% non dubita dell’esistenza delle streghe. Al confronto sembrano pochi, solo il 15% secondo un sondaggio condotto da Polling Public Policy, gli americani convinti che «i media o il governo abbiano sviluppato una tecnologia segreta finalizzata a controllare le menti attraverso i segnali televisivi». Un altro 15%, però, giudica la cosa per lo meno possibile,perché la disponibilità a credere alle più scatenate fantasie si alimenta con il cospirazionismo, una strategia sempre efficace per spiegare come mai


← Il padiglione dedicato al Wild West Show di Buffalo Bill a Disneyland, Parigi.

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rie, dai mormoni a Scientology. E comunque, ripetute e numerose inchieste dimostrano che due terzi degli americani credono fermamente nell’esistenza reale del diavolo e degli angeli e più della metà nel Paradiso come luogo in qualche modo fisico. Sono cifre straordinarie per una società che si vorrebbe secolarizzata. Perché ciò accade, si chiede Andersen? La risposta è: «perché siamo americani. L’America fu fondata da sognatori, visionari e credenti, ed è stata governata da impresari dell’immaginario e dal pubblico che ne ha decretato il successo. Credere nelle nostre fantasie è profondamente radicato nel nostro DNA. E bisogna riconoscere che senza questo particolare amore per il fantastico, questa propensione a prestare fede alle fandonie più strampalate l’America non sarebbe diventata ciò che è».

Una storia di fandonie

— L’incapacità di sopportare la delusione è perlomeno simbolicamente evidente già nel momento in cui tutto cominciò, vale a dire nella figura di Cristoforo

Colombo: incappato nel nuovo continente a seguito di un errore di calcolo della circonferenza terrestre, non riconobbe mai sia che quella non era l’Asia sia che nelle sue “Indie” non vi fosse l’oro. Bastava solo trovarlo. E chi furono poi i Padri Pellegrini che i manuali scolastici descrivono come gli operosi progenitori della nazione? Erano puritani che professavano un culto eccentrico nella convinzione che la fine del mondo fosse imminente, tanto pervasi da questa loro fede da non esitare a impiccare i quaccheri e i cattolici che entravano nel loro territorio. Non è per caso, afferma Andersen, che la più devastante caccia alle streghe in epoca moderna sia avvenuta a Salem in Massachusetts, dove nel 1692 l’inquisizione puritana processò per stregoneria 144 persone, condannando all’impiccagione 19 fra le 54 donne che si erano professate streghe, sotto tortura. La drammatica vicenda di Salem è arcinota e raccontata in innumerevoli opere artistiche, tanto che si tende a credere sia stata un evento isolato, anche perché nacque dall’acritica fi-

Dossier / La credulità in America

le evidenze rimangono segrete. Così, un terzo degli americani pensa che il governo, in combutta con l’industria farmaceutica, nasconda le prove che il cancro si può curare per via naturale, altrettanti che «il riscaldamento globale non sia un grosso problema», trattandosi in realtà di una frode perpetrata dagli scienziati, dal governo e dai giornalisti. Ugualmente fraudolenta, non per alcuni ma per milioni di americani, sarebbe la versione ufficiale di tutti i più importanti eventi che hanno scandito la vita della nazione: dall’assassinio di Kennedy allo sbarco sulla Luna sino ad arrivare agli attacchi dell’11 settembre che «non sarebbero potuti accadere senza la complicità della C.I.A.». La disponibilità alla fede acritica si esprime naturalmente anche in campo religioso, connotando questa dimensione non tanto con una maggiore spiritualità quanto con un dogmatismo e una tendenza al conservatorismo sconosciuti al cristianesimo del resto del mondo. Solo in America oggi prospera il creazionismo,così come nel passato hanno attecchito sette e religioni particolarmente visiona-


Dossier / La credulità in America

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ducia riposta in una fake news: il racconto di un bambino di nove anni che una mattina aveva visto sua sorella «comportarsi in modo strano». Ma Andersen ricorda che sempre in Massachusetts nel mezzo secolo precedente altre 17 donne erano state bruciate come streghe; il che dimostra quanto nell’imminenza del secolo dei lumi fosse ancora potente in vaste zone dell’America la disponibilità a credere nella realtà effettiva e sostanziale del soprannaturale. Una tendenza non certo abbandonata con l’imporsi della secolarizzazione. Per dimostrarlo basta ad Andersen ricordare il notevole successo di pubblico ottenuto nell’Ottocento negli Stati Uniti da un’ampia schiera di “spiritualisti secolari”, propagatori di evidenti fandonie spacciate come scienza se non addirittura di elocubrazioni dichiaratamente visionarie. Si va dal mesmerismo, che prometteva di curare gravi patologie tramite il “fluido animale” (o “magnetico”) emesso dal medico curante, alle visioni di Helena Blavatsky, fondatrice della teosofia, la riedizione moderna dell’antico esoterismo, riproposto in un testo dal significativo titolo La dottrina segreta. È vero che Helena Blavatsky era russa,

“Il carattere nazionale americano

si distingue per una spiccata propensione a credere nelle fandonie più assurde e strampalate. La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

così come Franz Mesmer era tedesco, ma è altrettanto vero che le loro strampalatissme teorie riuscirono ad attecchire solo negli Stati Uniti, solo in un ambiente in cui la disponibilità a credere nei sogni è superiore a ogni altro Paese al mondo.

Buffalo Bil: il prototipo del vero americano

— Il vero simbolo del carattere nazionale americano è William

Cody, alias Buffalo Bill, la personalità dell’Ottocento più nota nel mondo. Secondo Andersen, si può vedere nel suo Wild West Show addirittura la quintessenza dell’americanismo; il suo enorme successo, infatti, derivava dalla capacità di fondere informazione e mito, elementi di verità e clamorose fandonie, il tutto mischiato in uno spettacolo evidentemente fake, ma tanto convincente, almeno per i tanti che ardentemente desideravano credervi, da diventare più vero della verità che pure era sotto gli occhi di tutti. L’epopea western inventata di sana pianta da William Cody ha plasmato i sogni degli americani e quindi in definitiva anche i loro comportamenti. Il momento culminante del Wild West Show era l’esibizione dei capi Cheyenne (in realtà attori travestiti) spacciati come cacciatori di scalpi, e si giunse al punto che non pochi invasati si travestirono da Buffalo Bill per andare a caccia degli ultimi indiani, poveri disgraziati ormai ridotti nelle riserve. Andersen cita questo episodio come esempio paradigmatico del circolo, a volte virtuoso a volte vizioso, tra realtà e credulità. Se il libro fosse uscito due mesi dopo avrebbe forse notato la sua somiglianza con il recente caso del “pizzagate”, ossia di quell’altro “vendicatore” che nel 2016 ha fatto irruzione nella pizzeria Comet Ping Pong, a Washington, sparando tre colpi con un fucile mitragliatore, convinto che il locale nascondesse un sordido commercio pedofilo gestito nientemeno che da Hillary Clinton, così come sosteneva una notizia diventata in rete “virale”, quindi a suo avviso affidabile. Non è per caso, nota comunque Andersen, che la capacità mitopoietica di Buffalo Bill, o, se si vuole,la sua abilità nel raccontar fandonie spacciandole per vere,abbia fatto scuola negli Stati Uniti. Sue derivazioni dirette sono infatti il Museo dei Gran-

di Viaggi, Serragli, Carovane e Ippodromi, meglio noto come Circo Barnum, e le “fabbriche di sogni” che hanno sede ad Hollywood e Disneyland. Nessuna cultura può stare alla pari di quella americana per la capacità di fondere affari e fantasia. Questi sono rapidi cenni, apparentemente troppo superficiali per delineare un carattere nazionale. Quello di Andersen, però, è un vero testo di storia; entra nel dettaglio di numerosi avvenimenti dimostrando come siano stati accompagnati, e a volte direttamente prodotti, da ciò che oggi chiamiamo fake news e dai suoi correlati: il cospirazionismo, il dietrologismo, l’ultra individualismo esteso persino al campo conoscitivo, ossia la mentalità dell’“Io ci credo; quindi è vero”.

La controcultura degli anni Sessanta

— Resta da chiedersi se vi sia un’evoluzione e quale sia il suo senso. La risposta di Andersen è pessimista: lungi dal venire meno nell’era della scienza, la tendenza americana alla credulità è andata aumentando di secolo in secolo, di decennio in decennio, sino a raggiungere la riconosciuta pericolosità attuale.Due sono,secondo il giornalista americano, gli avvenimenti che nell’epoca contemporanea hanno determinato un balzo in avanti nell’allontanamento dalla verità. Il primo è naturalmente lo sviluppo di internet e delle tecnologie digitali, che esaltano la possibilità di produrre falsità apparentemente veritiere; e nel miliardo di siti web oggi esistenti sul pianeta ognuna di queste riesce a trovare i suoi followers. Tutto ciò oggi è ben noto e discusso, tanto che possiamo tralasciare questo argomento. Non senza però riconoscere ad Andersen il merito di averlo intuito una decina d’anni fa, all’inizio della sua ricerca,


Ora paghiamo il conto dell’irrazionalismo

— Andersen non è un bigotto conservatore ed essendo nato nel 1954 ha vissuto appieno l’epoca della contestazione giovanile. Non nega affatto i suoi aspetti

positivi, ma gli sembra di dover riconoscere che il cambiamento culturale promosso negli anni Sessanta nei campus universitari ha comportato anche un aumento dell’anti-razionalismo e un ritorno del sacro, del misticismo, della magia, dell’occulto, delle sedute spiritiche e dei culti esoterici basati sul libro dell’Apocalisse. Ha spinto un antropologo, Carlos Castaneda, ad andare a scuola da uno stregone (che forse non è mai esistito), mentre il lettore di psicologia ad Harvard, Timothy Leary, distribuiva psilocibina e LSD ai suoi studenti. Sbaglieremo considerando ormai inattuali questi atteggiamenti folcloristici di una controcultura giovanile ormai sorpassata dagli eventi: è a partire da essi che nei decenni seguenti si è pian piano sedimentata l’idea, oggi ormai popolare, che la scienza sia sempre al servizio del potere, un sistema sinistro concepito da una dispotica cospirazione per opprimere la gente per bene. Andersen vede l’epitome di questo attacco finale alla verità nel nuovo modo di considerare la follia scaturito a metà degli anni Sessanta dai testi e dalle esperienze di Ronald Laing e David Cooper, i due psichiatri fondatori del concetto e della pratica dell’antipsichiatria. «Lo strumento retorico da loro inventato per negare la realtà, ossia il ridurre la malattia mentale a una mera teoria, è diventato l’argomento universalmente usato da tutti coloro che preferiscono ignorare la scienza in favore delle proprie credenze», dai negatori dei cambiamenti climatici agli isterici anti-vaccini, sino ai religiosi creazionisti, che formalmente non negano l’evoluzionismo ma lo declassano a una teoria ipotetica, da studiarsi nelle scuole assieme alle altre, a cominciare da quella ben più semplice e lineare contenuta nella Bibbia. Se persino la follia, argomenta Andersen, deve essere consi-

derata un modo di vivere fra i tanti, di concepire la realtà e di viverla secondo schemi alternativi alla normalità ma non per questo patologici, con il che la psichiatria diventa una falsa

“Sul banco degli imputati vi è la controcultura giovanile degli anni Sessanta. „ scienza asservita al conservatorismo e alla gestione più spietata del potere, come sostenere che tra fantasia e realtà vi sia poi un salto così netto? Sul banco degli accusati in definitiva si trovano gli hippy degli anni Sessanta, la cultura della contestazione sistematica, i fautori della fantasia al potere e della rivoluzione culturale innamorati delle massime di Mao, a cominciare dalla celebre «D’ora in poi, due più due non fa più quattro». L’America è oggi Fantasyland non solo per l’invadenza dei nuovi mezzi elettronici, che pur contano, e neppure per un istupidimento collettivo o un imbarbarimento della qualità antropologica dell’americano medio. Se fake news e post-verità stanno trionfando, con la presidenza Trump,«è per la regola che ormai da mezzo secolo dominano i nostri sistemi operativi mentali: Fai la tua cosa, trova la tua realtà, è tutto relativo. Oggi ognuno di noi è più libero che mai di crearsi un mondo a sua misura, di credere a qualsiasi cosa e di far finta di essere chiunque voglia, e questo rende sfuocata la linea tra il reale e il fantastico. La verità diventa flessibile, personale, soggettiva. E in realtà ci piace questa nuova ultra-libertà, insistiamo su di essa, anche se odiamo e temiamo il modo in cui molti nostri concittadini la usano». Francesca Nicola è dottore di ricerca in Antropologia presso l’Università Bicocca di Milano.

51 Dossier / La credulità in America

quando il web non era ancora sotto accusa. Dopo questa autorevole dimostrazione di preveggenza,va preso sul serio il secondo e ben più discutibile argomento della sua diagnosi, quello che individua nella cultura degli anni Sessanta l’origine del tracollo attuale dell’idea di verità. Se si vuol capire come si è arrivati a Trump, suggerisce Andersen, bisogna rileggere The Making of a Counter Culture: Reflections on the Technocratic Society and Its Youthful Opposition, il saggio pubblicato tre settimane dopo Woodstock, nell’estate del 1969, da Theodore Roszak, allora trentacinquenne professore di storia all’Università della California.A lui si deve l’aver teorizzato il concetto di controcultura, e di averne inventato il termine stesso. Le 270 pagine del suo influente testo glorificavano il «coraggioso rifiuto della giovane generazione di tutte le competenze e di tutto ciò che la nostra cultura valorizza come ragione e realtà». Qui per la prima volta si afferma il principio che è doveroso diffidare degli esperti, perché «sono tutti a libro paga delle aziende e delle istituzioni». Un intero capitolo di The Making of a Counter Culture è dedicato al «mito della conoscenza oggettiva»: vi si sostiene che la scienza è in realtà una religione di Stato e che contro di essa è necessario «creare una nuova cultura in cui le capacità non intellettuali... diventino arbitri del bene e del vero». Un passo non meno necessario della «sovversione della visione scientifica del mondo, che implica un modello di coscienza cerebrale ed egocentrico».


SCUOLA

Smartphone a scuola?

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Scuola / Smartphone a scuola?

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Sicurezza, benessere e consapevolezza nell’era digitale dialogo con Marco Gui e Simone Giusti a cura della Redazione de «La ricerca»

T

ra il 2013 e il 2014 Simone Giusti e Marco Gui hanno coordinato una ricerca su Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuole del Mezzogiorno, pubblicata nel 2015 nella collana Materiali UVAL, l’Unità di valutazione degli investimenti pubblici della Presidenza del Consiglio. In quell’indagine, i cui risultati hanno contribuito a una revisione delle politiche di investimento in tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte del Miur,si fornivano alcune indicazioni e suggerimenti pratici anche sull’uso dei dispositivi mobili privati a scuola. «È importante – si legge a pagina 209 del volume – porre l’attenzione anche sugli strumenti di più recente diffusione e che finora sono rimasti esclusi dalla riflessione sulle TIC nella scuola, soprattutto gli smartphone. Sugli effetti dell’utilizzo di tali strumenti in classe non sono ancora disponibili risultati di ricerca chiari. Nel frattempo, però, la loro diffusione è ormai trasversale ai contesti socio-economici ed è – nei fatti – parte integrante della vita degli studenti. Il loro uso non è più un problema esclusivamente extrascolastico, sia perché sempre più spesso vengono utilizzati dai docenti stessi per fini didattici nonostante il divieto ministeriale, sia perché le ricadute negative del loro abuso impattano anche sulla vita scolastica. Rispetto a questi strumenti manca ancora una presa di posizione chiara, da un punto di vista didattico-pedagogico, da parte delle istituzioni formative. È palpabile la mancanza di una guida per gli studenti rispetto agli sviluppi e alle ricadute che essi hanno sulla loro vita scolastica, ma anche più in generale sul


53 Scuola / Io sono un cittadino europeo

Venezia ospita in questi mesi una mostra straordinaria, un tesoro vecchio di 2000 anni riscoperto sul fondo dell’Oceano Indiano. Apparteneva a Cif Amotan II, un liberto vissuto tra il I e il II secolo dopo Cristo ad Antiochia. Molto ricco, religioso e amante del bello, egli aveva deciso di costruire un tempio dedicato al dio Sole e di ornarlo con opere d’arte colossali, purtroppo andate perdute per il naufragio della Apistos (“incredibile” in greco), la nave che le trasportava. Sino al fortunato ritrovamento avvenuto nel 2008, ben documentato dai video che corredano la mostra dei reperti dal titolo Tesori dal naufragio dell’Incredibile, ospitata alla Punta della Dogana e a Palazzo Grassi, nel cui atrio è visibile questo colossale Demone con ciotola. «La mostra è incentrata su quello che crediamo», afferma Damien Hirst, l’artista britannico che ha inventato di sana pianta Cif Amotan II, le opere e tutta la vicenda. «Io credo nella storia del collezionista vissuto 2000 anni fa. Se chiudo gli occhi lo vedo, non mi si può dire che non sia mai esistito».


loro benessere. Appare perciò non più rimandabile l’esigenza di affrontare in modo intenzionalmente educativo l’uso dei dispositivi mobili. A questo fine, occorre incentivare le scuole e i singoli docenti a progettare in modo esplicito il loro uso nell’azione didattica ed educativa, sia indicando con quali modalità è opportuno l’utilizzo o il non utilizzo di tali dispositivi, sia favorendo un approccio critico degli studenti verso di essi». Dopo quella esperienza, Gui e Giusti hanno continuato l’attività di ricerca e formazione su questi temi. Marco Gui, già autore del libro A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita (il Mulino, 2014), svolge attività di ricerca sugli effetti sociali dell’iperconnessione e ha pubblicato report e articoli scientifici sull’uso dello smartphone tra gli adolescenti. Simone Giusti, nel suo libro Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015), ha approfondito il rapporto tra tecnologie digitali e insegnamento linguistico-letterario. Abbiamo chiesto loro di affrontare in forma dialogica alcune questioni relative all’uso degli smartphone a scuola.

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Redazione: La dichiarazione della ministra Fedeli che autorizza lo smartphone in classe ha aperto un dibattito ampio, nel corso del quale sono emerse posizioni favorevoli, ma anche molte preoccupazioni che sembrano legittime. Cosa ne pensate? Marco Gui: Cominciamo col prendere in seria considerazione le preoccupazioni di chi vede nello smartphone una fonte di distrazione. Hanno ragione! Lo smartphone ha un potenziale distraente altissimo.Esiste un’ampia letteratura che misura gli effetti negativi per la concentrazione di avere con La presenza costante sé uno smartphone, sia nella vita privata dello smartphone in sia in quella scolastica. classe va evitata. Gli Si prenda ad esempio studenti devono fare la ricerca della LSE che esperienza di momenti mostra che la proibiprivi di connessione zione dell’uso dello smartphone a scuola permanente. porta benefici ai livelli di apprendimento (https://www.theguardian.com/education/2015/may/16/ schools-mobile-phones-academic-results). Se vogliamo sintetizzare, l’effetto distraente dello smartphone è quello che

finora è stato meglio misurato e su cui abbiamo più certezze. Questo, secondo me, ci porta a una prima, chiara, conclusione: va evitata la presenza costante dello smartphone in classe. Che facciamo allora? Proibiamo del tutto gli smartphone? Non è così semplice. È chiaro che gli studenti devono fare esperienza – almeno a scuola – di momenti privi di connessione permanente, ma per essere in grado di riprodurre questa esperienza anche autonomamente occorre una educazione all’uso dello strumento. Tutti noi andiamo in realtà educati a governare i dispositivi digitali mobili,ci dobbiamo educare insieme! E allora, se lo smartphone deve essere oggetto di educazione e apprendimento, è chiaro che - almeno in qualche momento – deve esserci. Simone Giusti: È evidente che lo smartphone esercita una grande influenza – non necessariamente positiva – sugli alunni, e anche sugli stessi insegnanti, i quali,come tutti i lavoratori,sono costretti a fare i conti con il problema della connessione permanente, della reperibilità e, ovviamente, della gestione del tempo. Tutti, bambini, adolescenti e adulti, siamo continuamente sollecitati a essere collegati alla rete, connessi alle nostre reti di “amicizie” virtuali. Ciascuno di noi vive una vita moltiplicata: siamo qui e ora, seduti a tavola con i nostri familiari, e siamo anche altrove, pronti a ricevere una nuova notifica e a essere proiettati in uno spazio virtuale. E siamo bombardati da notizie e da storie con cui dobbiamo fare i conti quasi in tempo reale, senza però avere occasione di approfondire, di studiare, di dialogare. Condivido dunque le preoccupazioni, certo, e per questo ritengo fondamentale educare all’uso dello smartphone a scuola. E dove, sennò? La scuola è il solo spazio protetto in cui gli studenti possono fare esperienze educative e riflettere su se stessi e sul mondo. Redazione: Va anche detto che molti già lo usano per la didattica: non si tratta di una novità assoluta. E poi ci sono le altre tecnologie digitali: le LIM, i tablet… Marco Gui: Finora effettivamente abbiamo parlato di educazione all’uso dello smartphone. Diverso è il tema del suo uso per la didattica delle diverse discipline. Partirei dalla constatazione che lo


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smartphone ha funzionalità utilissime per la creazione di contenuti (es. video, audio, social media) così come è prezioso per la fruizione non tradizionale dei contenuti (es. audio in mobilità come i podcast, mappe interattive o collaborative). Lo smartphone è invece meno utile, talvolta dannoso (ad esempio per gli occhi, per la schiena), nel caso della fruizione tradizionale dei contenuti: la lettura approfondita o la visione di film. Questo emerge chiaramente dalle testimonianze dei docenti e degli studenti che abbiamo intervistato nella nostra ricerca del 2015. Quindi, a mio parere, lo smartphone può certamente rappresentare uno strumento utile a patto di fare i conti con i suoi limiti, e senza trasformarlo in uno strumento didattico universale o centrale. Semplicemente, non è stato costruito per questo scopo! Se si vuole usarlo per la didattica, quindi, l’ambito di utilizzo e gli obiettivi dell’utilizzo vanno a mio parere circoscritti chiaramente. Simone, tu però oltre ai risultati di ricerca hai anche una esperienza diretta in classe. Qual è la situazione quotidiana nelle classi? Simone Giusti: Anche io trovo utile partire dalla constatazione che gli studenti della scuola secondaria già fanno uso di dispositivi collegati a internet per fare ricerche, per tradurre testi, per condividere

informazioni con i compagni, ma anche per mettere in comune i compiti svolti: temi, saggi, articoli di giornale e analisi del testo che possono essere scambiati su un social network o recuperati su siti specializzati rivolti specificamente agli studenti. Per noi insegnanti si tratta di capire quali sono, per ciascuna disciplina, gli strumenti più idonei. Non va dimenticato, infatti, che lo sviluppo delle competenze digitali è previsto dalle Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo e dai traguardi di apprendimento della scuola secondaria di secondo grado, ed è trasversale a diverse discipline.Al termine della scuola del primo ciclo, addirittura, si prevede la valutazione e la certificazione della competenza digitale,che è così descritta: «Utilizza con consapevolezza le tecnologie della comunicazione per ricercare le informazioni in modo critico. Usa con responsabilità le tecnologie per interagire con altre persone». Per ottenere questo risultato, che deve essere documentato e verificato dagli insegnanti, è necessario ricorrere all’uso delle tecnologie e io ritengo che sia opportuno coinvolgere proprio quelle che fanno parte della vita quotidiana degli alunni, e non solo quelle specificamente scolastiche, come la LIM o il tablet. In questo modo abbiamo maggiori possibilità che gli alunni con-

↑ Un video che documenta il recupero delle opere d’arte trasportate dalla Apistos, Palazzo Grassi, Venezia, 2007.


ancor più chi tra di loro ha alle spalle una famiglia con poche risorse culturali ed economiche. Alcune ricerche che ho svolto con la somministrazione di test di competenza digitale a studenti delle scuole secondarie mostrano che una delle loro carenze più rilevanti riguarda proprio i meccanismi commerciali che stanno dietro le piattaforme che più utilizzano. Come guadagnano Instagram, Whattsapp o Youtube? Se uno non ne ha nemmeno un’idea, è più facile che sia ingenuo di fronte a tentativi di influenza commerciale, sociale e anche politica.

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↑ Un reperto archeologico ancora incrostato dai coralli in mostra a Palazzo Grassi, Venezia, 2007.

tinuino a usarle anche al di fuori della scuola nei modi e con le funzioni che abbiamo insegnato loro. Se poi mi dite che con lo smartphone si insegna meglio, io questo ancora non sono in grado di dirlo, né mi interessa avere certezze. La mia sola certezza è che viviamo nell’era dello smartphone e che il solo modo per insegnare a usarlo è ammetterne l’esistenza e riconfigurare la didattica a questo scopo. Redazione: Ma non si rischia così di fare gli interessi delle aziende che producono smartphone e, in generale, dell’industria dei contenuti, che attraverso i dispositivi mobili veicola un’enorme quantità di informazioni commerciali e non solo? Marco Gui: Questa è un’altra legittima preoccupazione! Ma è anche un’altra ragione che dovrebbe spingere la scuola ad avvicinarsi al mondo degli smartphone. Il mondo digitale è permeato di interessi commerciali sempre più forti, che sfruttano l’attenzione e i dati di tutti noi, in particolare di chi ha meno senso critico. In questa categoria rientrano – per ragioni fisiologiche – gli adolescenti e

Simone Giusti: Anche la costruzione e la ristrutturazione degli edifici scolastici in qualche modo favoriscono il settore edile, ma non per questo ce ne priviamo o neghiamo che esse corrispondano ai bisogni degli alunni e del sistema educativo in generale. Riguardo alla sovraesposizione di contenuti digitali, io ritengo che sia uno dei problemi più seri e urgenti per gli insegnanti di italiano, i quali sono i più coinvolti perché hanno direttamente a che fare con la gestione dell’immaginario e con l’interpretazione dei sistemi simbolici. In questo senso io credo sia importante non solo e non tanto usare gli smartphone, ma anche riconfigurare la didattica, gestendo in modo intenzionale e progettuale attività con le ICT e attività senza le ICT. Per questo è tanto importante fare attività rigorosamente senza le tecnologie, proprio per valorizzare alcune abilità e competenze che sono necessarie in questo momento storico. Penso in particolare alla capacità di ascolto, e quindi alle pratiche di lettura ad alta voce, alle competenze narrative, che sono alla base della capacità di auto-orientamento, all’esperienza di lettura come esperienza forte, portatrice di senso e addirittura pericolosa, perché capace – come i videogiochi,prima dei videogiochi – di immergerti completamente in un mondo narrato nel quale vivere avventure incredibili, moltiplicare la vita. Redazione: Questo numero de «La ricerca» si occupa soprattutto di fake news e dei nuovi approcci alla ricerca e alla gestione delle informazioni e delle notizie da parte delle persone. Pensiamo anche ai progetti di lettura del giornale in classe, o alla scrittura degli articoli di giornale, che ormai fanno pensare a un mondo in via di


estinzione. Oggi gli adolescenti accedono alle notizie dallo smartphone e quasi sempre attraverso il filtro dei social network. Che ruolo educativo può avere la scuola?

Marco Gui: Proprio perché lo smartphone non è uno strumento fatto per l’approfondimento, è più facile farci un uso informativo più impulsivo e disattento. Spesso questo tipo di notizie fanno leva su argomenti caldi, scioccanti, di impatto emotivo.Essere consapevoli di come funziona la nostra attenzione, e dei meccanismi che vengono utilizzati per richiamarla da parte di portatori di interessi commerciali e politici, credo diventerà sempre più importante. Le fake news sono un problema per le singole persone che si informano male, che possono esser raggirate e strumentalizzate. Ma sono anche un grande problema collettivo che può influenzare negativamente la vita civile e politica. D’altro canto, lo smartphone permette di informarsi in tempo reale ed è quindi potente sulla dimensione della prontezza più che su quella dell’approfondimento. Ma il cittadino digitalmente competente deve esserne consapevole e padroneggiare entrambe queste dimensioni.

Marco Gui: Come ho detto, la vera urgenza che vedo è quella di un’educazione all’uso consapevole dello smartphone nella vita quotidiana. Su questo sono convinto che la scuola debba intervenire subito. In secondo luogo, c’è l’utilizzo dello strumento per la didattica disciplinare. Su questo penso ci sia ancora bisogno di capire di più attraverso studi e sperimentazioni, ma soprattutto con le buone pratiche elaborate dagli stessi insegnanti. In ogni caso, ritengo che occorra incanalare questa risorsa verso le attività per cui risulta effettivamente utile e non dannosa: vanno pensati alcuni momenti e compiti specifici e va comunque evitata la presenza costante. Simone Giusti: Concordo sulla necessità di educare all’uso consapevole dello smartphone, con particolare attenzione alla gestione delle informazioni. Ne va del benessere dei nostri studenti, i nuovi cittadini,i quali avranno la responsabilità di costruire nuove regole di comportamento e di individuare antidoti ai veleni della manipolazione delle informazioni. In questo ambito almeno, è evidente, non possiamo escluderli: dobbiamo lavorare insieme al fine di individuare stili di vita adeguati al tempo presente. La ricerca Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuole del Mezzogiorno è rintracciabile in rete al sito: http:// www.agenziacoesione.gov.it/opencms/ export/sites/dps/it/documentazione/servizi/materiali_uval/analisi_e_studi/MUVAL33_Digitale_scuola.pdf.

Marco Gui è ricercatore in sociologia dei media presso l’università di Milano-Bicocca. Svolge attività di ricerca sull’uso dei media digitali nella vita quotidiana, in particolare dei giovani. Ha coordinato diverse indagini sull’uso del digitale nelle scuole.

Simone Giusti insegnante e saggista, scrive per «La ricerca» e dirige insieme a Natascia Tonelli la collana «QdR / Didattica e letteratura»

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Simone Giusti: Oggi un testo autentico – penso semplicemente all’articolo di un giornale online – è composto di parole e immagini, ed è circondato se non addirittura ingombrato da banner pubblicitari e video promozionali che sembrano aggredire il lettore, imponendosi alla sua attenzione. Il “pacchetto-notizia”, inoltre, spesso contiene anche i commenti alla stessa – i commenti dei lettori, non di esperti o di persone con un qualche titolo per esprimersi sulla questione o sull’argomento: chiamiamole opinioni, pareri, reazioni spesso viscerali. Per sapersi difendere e per fruire in modo consapevole di questi contenuti, interagendo con il web in modo attivo e non passivo o esclusivamente da consumatore, non è sufficiente avere una buona padronanza linguistica: occorre anche, tra le altre cose, saper installare programmi di sicurezza sui propri dispositivi, saper gestire la propria identità digitale e essere in grado di capire, nei limiti del possibile, l’attendibilità delle fonti, come anche di saper distinguere tra la notizia e il suo commento, tra una voce autorevole e l’opinione comune.

Redazione: Quindi, per concludere, qual è la vostra posizione? Cosa pensate dell’uso dello smartphone a scuola?


Tutti a scuola di fact-checking

Scuola / Tutti a scuola di fact-cheking

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Il 2 aprile 2017 si è tenuta la prima Giornata Mondiale della Verifica delle Notizie (International Fact Checking Day). Ecco come un team italo-argentino di esperti e volontari ha costruito un modello di lezione pratica che è stato già utilizzato da migliaia di studenti in tutto il globo. di Gabriela Jacomella

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uenos Aires, giugno 2016. Nelle aule della Universidad Torcuato di Tella sono riunite oltre cento persone, arrivate qui da tutto il mondo – sono ben 41 i Paesi rappresentati – per Global Fact 3, la terza conferenza mondiale dei fact-checkers: quelli che, in italiano, potremmo chiamare “i verificatori delle notizie”. Un movimento di cui in Italia si parla ancora troppo poco, ma che soprattutto oltreoceano è ormai “diventato maggiorenne”, come scriverà proprio dopo il summit argentino Alexios Mantzarlis, direttore dell’International Fact Checking Network. La verifica dei fatti e delle notizie, portata avanti da team specializzati di giornalisti e ricercatori, è diventata una necessità sempre più diffusa nell’era dell’informazione digitale. Gli Stati Uniti sono all’avanguardia sul fronte del fact-checking: non solo l’International Fact Checking Network – il coordinamento mondiale dei verificatori delle notizie, che proprio a Buenos Aires inizierà ad elaborare un codice di condotta per i propri affiliati – è nato all’interno del Poynter Institute di St Petersburg, Florida, ma sono americane anche le più “anziane” tra le associazioni attive su questo fronte, da quelle più prettamente giornalistiche ai siti di debunking – quelli che in Italia chiameremmo “antibufalari” – come Snopes. Non c’è di che sorprendersi: come Ci vogliono dalle ben sa chi lavora nell’ambito del giornalismo e dell’informazione, i 10 alle 20 ore perché venti dell’innovazione (o della crisi) spirano spesso e volentieri da una fake news venga oltreoceano, e questo caso non fa eccezione. Ma il problema delle notizie non verificate, ormai, è un’emergenraggiunta dalla sua za a livello mondiale. Niente di nuovo sotto il sole, come precisano smentita. molti analisti: bufale, disinformazione e propaganda sono sempre esistite (o quasi). Nell’era dell’informazione digitale, però, subentrano due fattori determinanti che cambiano le regole del gioco: massa e velocità. Lo spiegano bene i risultati della ricerca condotta da tre italiani – Filippo Menczer,Alessandro Flammini e Giovanni Luca Ciampaglia – al Center for Complex Networks and Systems Research dell’Università dell’Indiana, negli Stati Uniti: grazie al loro progetto Hoaxy (hoax, in inglese, significa scherzo) in dieci mesi vengono mappati 14 milioni di tweet pubblici, che hanno propagato 400 mila bufale. Scoprendo che ci vogliono dalle 10 alle 20 ore perché una fake news venga “raggiunta” dalla sua smentita. E che i numeri raggiunti dalle bugie online (che siano teorie cospirazioniste, pettegolezzi non ve-

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I lavori della conferenza

— Ai lavori della conferenza di Buenos Aires è presente anche chi scrive,con un’idea in testa e in cerca di spunti per capire meglio come svilupparla: creare un’associazione che si occupi di diffondere le basi del factchecking nelle scuole, nelle università, tra la gente comune. È da questa spinta che nasce, nel luglio 2016, factcheckers.it (fondata insieme a Nicola Bruno, esperto di social media verification, e Fulvio Romanin, web developer). Ed è da questo impulso che prende il via un gruppo di lavoro interno all’IFCN, che porterà all’inserimento – in posizione di assoluta priorità – di un “classroom package”, un pacchetto di esercizi pratici per le scuole, nelle attività organizzate a livello mondiale per il primo International Fact Checking Day, tenutosi il 2 aprile 2017. Il modello di lezione con attività laboratoriali che ne deriva è frutto di una collaborazione intensa, per quanto a distanza, tra più interlocutori: da questo lato dell’oceano c’è factcheckers.it, con il coinvolgimento come consulente esterno di Stefano Moriggi, storico e filosofo della scienza all’Università Bicocca di Milano

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M. Jenkins, Newsman, Seul, 2009. ↓

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rificati o notizie false costruite ad arte) sono, purtroppo, parecchio superiori a quelli sfiorati dai tweet di fact-checking, complice anche l’utilizzo dei cosiddetti “social bots”, programmi studiati ad arte per condividere le bufale facendo credere agli utenti di essere persone vere. In una catena pressoché infinita e inarrestabile di specchi che rilanciano bugie e mezze verità. Gli strumenti messi in campo dai fact-checkers (e da chi, in vari ambiti professionali, si occupa di verifica delle notizie e più in generale di come l’inquinamento dell’informazione – digitale e no – possa avere un impatto negativo sulla nostra società) vanno dall’intervento diretto, con lo smascheramento delle fake news in tutte le loro forme, alla collaborazione con aziende come Facebook o Google, alla prevenzione. E il modo migliore per prevenire la proliferazione indiscriminata di notizie non verificate e di falsa informazione è quello di interrompere la catena, coinvolgendo nella lotta chi rischia di diventare strumento inconsapevole nelle mani dei “bufalari”: i lettori, gli utenti dei social network, il pubblico generalista.


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↑ M. Jenkins, Embed 2, Washington DC, 2006.

(già collaboratore dell’associazione nella realizzazione di laboratori pratici di fact-checking per le scuole italiane). Da Buenos Aires c’è il team di Chequeado, organizzatori di Global Fact 3 e tra i pionieri del fact-checking in America Latina. Nella squadra argentina è presente una forte componente educativa, coordinata da Ariel “Hache” Merpert, che lavora da tempo nelle scuole e negli atenei ponendo soprattutto l’accento sulla verifica del discorso pubblico. Infine, dalla Florida, l’International Fact Checking Network (e il suo direttore,Alexios Mantzarlis) funge da coordinatore e supervisore. L’obiettivo del “lesson plan” è indubbiamente ambizioso: quello che si è cercato di creare è uno strumento il più possibile universale, per aiutare gli insegnanti di tutto il mondo nel percorso di avvicinare i ragazzi all’analisi critica dell’informazione online, e soprattutto di fornire loro gli strumenti di base per trasformarsi in giovani “verificatori delle notizie”. Pensato soprattutto per la fascia d’età tra i 14 e i 16 anni, vuole comunque essere uno strumento flessibile, in grado di adattarsi e modificarsi per venire incontro alle esigenze di docenti che operano in sistemi educativi anche molto diversi tra loro. E in questo senso, la possibilità di lavorare a stretto contatto con esperti del settore di

vari Paesi, anche extraeuropei, ci fornisce un primo strumento di verifica dell’universalità del progetto. Il lavoro (totalmente su base volontaria) di collazione e rielaborazione di spunti e idee non è facile, e richiede parecchi passaggi di analisi, discussione e revisione. La maggiore difficoltà incontrata – nonché uno dei punti critici, che richiederanno un’attenzione ancora più specifica quando si tratterà di progettare il prossimo “lesson plan”, per la seconda Giornata Mondiale in programma nel 2018 – è quella di selezionare argomenti ed esempi in grado di stimolare l’interesse di ragazze e ragazzi a prescindere dal contesto sociale e culturale in cui sono inseriti. Perché se è indubbio che internet ci ha immerso sempre più in un contesto di informazione globale, è altrettanto vero che, quando si va alla ricerca di uno spunto di discussione sul tema “fake news”, ci si scontra ben presto con la territorialità di molti temi e controversie.

La scelta di un tema comune

— È la struttura stessa della lezione, del resto, a richiedere l’individuazione di un punto di partenza specifico per il dibattito in classe: dopo aver guardato insieme un video animato (realizzato da Sandra Hira-


nei americani e da associazioni di “verificatori delle notizie” in varie parti del mondo (che spesso svolgono attività di sensibilizzazione e formazione per gruppi di giornalisti, studenti, partecipanti a festival e conferenze), con un piccolo manuale di strategie e strumenti di base per la verifica dei contenuti online ed esempi pratici di “fake news” da smontare in classe. I partecipanti vengono poi invitati ad unirsi alle associazioni di fact-checkers nella celebrazione della Giornata Mondiale, producendo contenuti originali – meme, brevi video, vignette, immagini, slogan – da condividere sui social con l’hashtag #factcheckit, con l’obiettivo di coinvolgere nel dibattito i propri coetanei (un esercizio che in poche classi riusciranno, in realtà, a svolgere, vista la necessità di confinare entro specifici limiti temporali – cioè le ore curriculari – lo svolgimento della lezione). Infine, una sezione dedicata agli insegnanti fornisce letture di contesto, bibliografia ed ulteriori spunti per ampliare le proprie conoscenze e proseguire il lavoro iniziato con il modello di lezione, anche eventualmente espandendolo o modificandone i contenuti in base alle proprie esigenze.

Il kit anti fandonie

— Il kit viene lanciato ufficialmente qualche giorno prima dell’International Fact Checking Day, dopo essere stato tradotto in ben 13 lingue diverse – inglese, filippino, francese, georgiano, greco, italiano, coreano, lituano, polacco, portoghese, russo, spagnolo, ucraino – dai volontari delle associazioni aderenti all’IFCN. Sulla mappa delle attività previste per la Giornata Mondiale, e costantemente agSi è cercato di creare giornata sul sito, comuno strumento il più paiono sempre più possibile universale, per segnali di eventi che aiutare gli insegnanti includono formazione e sensibilizzazione di di tutto il mondo ad scuole e insegnanti. Al avvicinare i ragazzi termine della giornaall’analisi critica ta, il “pacchetto per le dell’informazione classi” viene scaricato online. 1097 volte, per un totale stimato di 60.000 studenti raggiunti in 51 Paesi diversi.Numeri destinati a crescere nei mesi successivi, dal momento che il kit e il sito dedicato all’International Fact Checking Day (che nei dieci giorni precedenti all’iniziativa

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lal) che introduce il tema delle fake news e dell’importanza del fact-checking, gli studenti vengono infatti posti di fronte a un esercizio di lettura e annotazione di articoli costruiti ad hoc, il cui obiettivo è quello di valutare “a monte” la loro capacità di distinguere i fatti dalle opinioni – e, di conseguenza, ciò che è verificabile da ciò che non lo è. In questo senso, l’esperienza maturata da Chequeado nell’arco degli ultimi anni è fondamentale: tra le attività da loro proposte agli studenti argentini c’è, infatti, l’analisi dei discorsi politici (in video o sulla carta stampata), con l’obiettivo di individuarne i passaggi critici – quelli, soprattutto, in cui si riportano dati e fatti privi di fonti, oppure modificati ad uso e consumo del messaggio che si vuole trasmettere agli elettori. Una strategia che si radica nella recente storia politica del Paese sudamericano, e che viene condivisa dal gruppo di lavoro come un punto di partenza essenziale per stimolare quello spirito critico che uniforma l’intero percorso della verifica delle notizie. In realtà, questo primo passaggio si rivelerà ben presto come il più complesso da realizzare, soprattutto per quanto riguarda l’obiettivo dell’universalità: i temi “classici” scelti nei singoli Paesi, perché più frequentemente soggetti alla contaminazione da fake news, propaganda e disinformazione – dalle migrazioni al negazionismo, passando per la libertà di possedere armi da fuoco… – rischiano di risultare alieni o poco stimolanti per gli studenti di altre parti del mondo. E il tutto è ulteriormente complicato dalla scelta di non utilizzare notizie vere, prese dalla Rete, ma di costruire articoli ad hoc per l’esercizio proposto, ancora una volta per evitare prospettive troppo regionali o specifiche di un ambito culturale. La scelta definitiva, dopo settimane di discussione, cade su un tema apparentemente astratto, ma di cruciale importanza per la fascia d’età prescelta: l’obbligatorietà del voto. Una proposta forse azzardata (e che richiede un impegno ben preciso,da parte degli insegnanti, nell’introdurre il tema e spiegarne i risvolti e le applicazioni in ambito locale),ma che verrà complessivamente accolta in maniera positiva da chi utilizzerà il kit nelle proprie classi. Il pacchetto proposto prosegue poi in maniera più canonica, prendendo ispirazione dai vari moduli di introduzione al fact-checking realizzati da molti ate-


propri studenti dopo aver sperimentato il modello di lezione proposto, e il 96% sarebbe interessato ad utilizzare un modello di lezione “rivisto e corretto” in occasione della seconda Giornata Mondiale. Ci sono, ovviamente, anche numerose critiche e spunti di cui tenere conto. Le richieste principali riguardano un ampliamento della “scatola degli attrezzi”, con più materiale a disposizione per gli esercizi pratici di fact-checking, ma anche una maggiore diversificazione tematica, con più spazio dedicato alla verifica delle notizie scientifiche o al discorso politico. Spunti di cui tenere conto per il prossimo sforzo collettivo, che – ne siamo certi – troverà terreno ancora più fertile: le richieste per interventi di formazione sul tema delle fake news e del fact-checking si sono infatti moltiplicate nel corso degli ultimi mesi, da parte di scuole e centri di formazione di ogni ordine e grado,in classe o all’interno di festival e appuntamenti culturali. Segno di un interesse collettivo che conferma la necessità,più che di leggi censorie o di interventi di moderazione delegati ad aziende e testate giornalistiche, di un coinvolgimento del pubblico nella lotta quotidiana per l’informazione di qualità, e nella costruzione di uno spirito critico che ci aiuti – tutti – a diventare cittadini più consapevoli e responsabili. Iniziando, ovviamente, dal luogo che più di ogni altro è sede adatta alla formazione di teste autonome e pensanti: la scuola.

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↑ M. Jenkins, Embed 6, New York, 2006.

aveva già totalizzato quasi 35mila visite) continuano a rimanere disponibili online e senza nessun tipo di filtro. Al di là delle attività condotte personalmente dai membri della nostra associazione – con una prima lezione–test all’I.T.C.G Saraceno di Morbegno (Sondrio) e l’inserimento del kit nei laboratori realizzati per il 2 aprile in collaborazione con Sky Academy, a Milano – la risposta globale al modello di lezione proposto viene misurata con un questionario online, inviato a tutti coloro che hanno scaricato il “pacchetto” dal sito dell’International Fact Checking Day. Le reazioni, nel complesso, sono positive: oltre il 50% di chi ha risposto al questionario ha utilizzato il kit nella sua interezza, nonostante venisse richiesto un investimento piuttosto consistente in termini di ore ed energie; l’89,7% dichiara di sentirsi più incline a insegnare le basi del fact-checking ai

Gabriela Jacomella è nata nel 1977 a Chiavenna. Dopo gli studi in Lettere alla Scuola Normale di Pisa, inizia a lavorare al «Corriere della Sera» come redattore agli Interni. Dopo una fellowship al Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford, nel 2011 lascia il «Corriere» per occuparsi di formazione e giornalismo nei Paesi in via di sviluppo, dal Sudan alla Birmania. Nel 2016 fonda, insieme a Nicola Bruno e Fulvio Romanin, Factcheckers. it (www.factcheckers.it), un’associazione no-profit che promuove e diffonde la cultura del fact-checking, soprattutto online. Dall’ottobre 2017 è Young Policy Leaders Fellow presso la School of Transnational Governance dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Collabora con varie testate italiane. È autrice de Il falso e il vero, Feltrinelli Kids, Milano 2017. Il suo sito personale è www.gabrielajacomella.com..


scuola

“La pseudoscienza spesso fa leva sull’illusione di aprire gli occhi sulla realtà vera, quella che la scienza ufficiale nasconde. „

Alla ricerca di informazioni scientifiche Quando nella primavera 2013 le domande di alcuni miei studenti di quarta liceo scientifico innescarono una discussione in classe sul “metodo Stamina”, sottolineando la “crudeltà” di chi non voleva che si trattassero con tale protocollo bambini altrimenti incurabili, ritenevo fosse facile spiegare il parere unanime della comunità scientifica al riguardo. Non c’era alcun metodo scientificamente attendibile,ma solo una truffa ai danni di persone indifese che lo Stato avrebbe dovuto tutelare. L’impresa si dimostrò invece ardua: una trasmissione televisiva molto seguita dai giovani sosteneva attivamente la “libertà di cura” a tutti i costi e informazioni contraddittorie si diffondevano rapidamente in rete. Nello stesso anno accadde però qualcosa di ben più grave: il parlamento italiano e molti giudici ritennero utile e lecito approvare la “sperimentazione” del “metodo Stamina”; e autorizzarono l’uso di un indefinibile miscuglio per la “cura” di svariate malattie. Contro queste decisioni si erano pronunciati, tra gli altri, l’Accademia dei Lincei, la rivista «Nature» e l’Agenzia europea per i medicinali, oltre a tredici scienziati tramite «The EMBO Journal». Il finale è noto: gli inventori della truffa condannati e incarcerarti. Gli studenti a posteriori hanno compreso cos’è la disinformazione, sono cresciuti, si sono documentati e si sono ricreduti.Ma che dire di parlamentari, giornalisti e magistrati protagonisti della vicenda? Come è possibile che decisori adulti abbiano reagito come gli adolescenti? Il problema risiede nella scarsa conoscenza del


modo in cui la comunità scientifica comunica e si esprime sulle questioni di cui ha competenza. Non sono solo gli studenti a ignorare le regole della letteratura scientifica, ma anche le persone che hanno ruoli di grande rilievo nella società. Purtroppo non sanno che gli scienziati non si limitano a investigare i fenomeni naturali, ma si occupano anche di comunicare e condividere ciò che scoprono seguendo una procedura standardizzata che ne garantisce serietà e autorevolezza.

Le pubblicazioni scientifiche —

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Una manifestazione a favore del metodo Stamina davanti a Montecitorio. ↓

La prima caratteristica degli articoli scientifici è la struttura uniformata a standard internazionali. Nell’articolo sono indicati innanzitutto, oltre agli autori (con le rispettive affiliazioni), un titolo pertinente ed esplicativo, un sommario (abstract), le parole chiave (keywords), una classificazione tematica e un’introduzione. È necessario poi definire i metodi e i materiali utilizzati per dimostrare e verificare i fatti; i metodi devono essere riproducibili e confutabili.Infine,nella pubblicazione si riportano i risultati, la discussione, l’interpretazione dei dati raccolti inserita nel quadro delle conoscenze del momento, le conclusioni. I riferimenti bibliografici, anch’essi scritti secondo regole particolari, completano la pubblicazione. Caratteristica fondamentale della letteratura scientifica è la revisione paritaria (peer review).

Si tratta di una attenta lettura critica effettuata da autorevoli scienziati, non noti all’autore, ma scelti dall’editore, prima della pubblicazione. I revisori sono qualificati membri della comunità scientifica, esperti nella materia di cui tratta il lavoro da pubblicare, che possono accettare, magari chiedendo qualche miglioramento, oppure respingere l’articolo ritenendolo non valido. Se il lavoro è approvato dai revisori, l’editore lo pubblicherà e diventerà parte della letteratura scientifica, attendibile, ma sempre revisionabile.

La divulgazione scientifica —

La letteratura scientifica si rivolge principalmente agli scienziati e alle persone dotate di competenze scientifiche specifiche, si avvale di riviste specializzate e siti web. Ma parlamentari, magistrati e giornalisti potrebbero non avere le competenze per utilizzare direttamente queste fonti; per questo esiste la divulgazione scientifica, che diffonde la conoscenza scientifica anche tra persone che non hanno una preparazione specialistica. I divulgatori trasformano in notizie ciò che le riviste scientifiche hanno da poco pubblicato, o si occupano di spiegare i fatti che nei secoli la comunità scientifica ha scoperto e le teorie che ha formulato. La differenza tra pubblicazioni scientifiche e opere di divulgazione non sta solo nel linguaggio e nel livello di competenza richiesto per la


lettura, ma anche nella procedura per la pubblicazione degli articoli che, nel secondo caso, non sono sottoposti alle rigide regole formali appena descritte. Dunque può non essere facile discernere la divulgazione scientifica attendibile da quella approssimativa e dilettantesca, anche se un sistema di massima per valutare l’attendibilità del divulgatore esiste: controllare link e note e verificare che le fonti siano quelle riconosciute dalla comunità scientifica sottoposte al processo di revisione paritaria. Tutto ciò avvicina il più possibile alla correttezza scientifica. Sembrerebbe impossibile, ma i parlamentari italiani attualmente in carica non hanno saputo utilizzare nemmeno la più nota e accreditata stampa scientifica divulgativa. E non solo nel caso Stamina; basta leggere i resoconti dei dibattiti parlamentari su argomenti come OGM e sperimentazione animale per rendersene conto: gran parte dei politici pensa che gli OGM siano tutti pericolosi e che la sperimentazione animale sia un’inutile crudeltà.

“pseudoscienza” diffonde conoscenze non provate e non verificabili, avvalendosi di un linguaggio scientifico, utilizzando anche autori dotati di competenze scientifiche. Spesso fa leva sull’illusione di “aprire gli occhi” sulla realtà vera, quella che la scienza “ufficiale” nasconde. Le informazioni sul metodo Stamina diffuse dal signor Vannoni non erano solo antiscientifiche, erano soprattutto pseudoscientifiche. Come tutte le informazioni di questa natura, a distanza di tempo ci fanno sorridere, ma leggere ciò che sostengono oggi i vari comitati contro i vaccini non è così ridicolo proprio perché i fautori di queste tesi usano il linguaggio scientifico, senza sottoporsi a una seria verifica. E citano i rari casi di errori nella letteratura scientifica che ci sono stati - e ci saranno sempre - ma che il metodo scientifico ha sempre pazientemente e inesorabilmente corretto.

La pseudoscienza —

Paolo Vitale

E ciò che molti decisori stentano a saper fare in uno scenario complesso è distinguere le informazioni scientifiche da quelle pseudoscientifiche. La

è laureato in Scienze biologiche, orientamento ecologico, a Milano. È coautore di BIOgrafia, manuale di Biologia per i licei edito da Loescher. Insegna Scienze naturali al liceo scientifico di Brescia.

↑ Una pubblicità “scientifica” di una marca di sigarette negli anni Cinquanta.


Per navigare in acque sicure

Scuola / Per navigare in acque sicure

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Internet è uno strumento e come tutti gli strumenti ha bisogno di indicazioni all’uso. Abbiamo intervistato Paola Limone, insegnante di scuola primaria autrice di “Siete pronti a navigare?”, portale online creato per diffondere tra le nuove generazioni l’uso sicuro e consapevole della rete. Intervista a Paola Limone a cura di Annachiara Scalera

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Teenager al computer, Wikimedia commons. ↓

nternet, presenza pervasiva nella vita di ciascuno di noi, sta innescando cambiamenti sociali tanto radicali quanto profondi.Cambiamenti che hanno coinvolto inevitabilmente anche il modo di studiare, di insegnare. Nel corso degli ultimi anni,molte scuole hanno dato seguito alle recenti direttive ministeriali, attrezzandosi con infrastrutture tecnologiche che consentissero a insegnanti, studenti e studentesse di cogliere appieno le opportunità didattiche offerte dalla rete. Se le potenzialità sono sempre più chiare, il dibattito sui rischi della rete non è ancora maturo. Schiacciato su posizioni manichee - internet sì, internet no - rende di difficile comprensione quali effettivamente siano tali rischi e, soprattutto, non lascia spazio alla ricerca di accorgimenti operativi che rendano sicura la navigazione per le nuove e nuovissime generazioni. Ma mentre si parla poco e male, c’è chi si è messo all’opera. È il caso di Paola Limone, insegnante di scuola primaria esperta nell’uso delle tecnologie applicate alla didattica.Abbiamo già avuto il piacere di parlare di lei nell’articolo sul fenomeno dei gruppi Facebook per insegnanti,pubblicato su «La ricerca» online; l’abbiamo interpellata questa volta a proposito di un’altra sua iniziativa: il portale “Siete pronti a navigare?” dedicato alla navigazione consapevole e sicura in rete. D: Quando nasce il progetto il progetto Siete pronti a navigare? R: Il progetto è nato più di 10 anni fa da una mia idea. L’esperienza, nata come copia-incolla di link a siti dedicati all’infanzia, nel corso degli anni è maturata e ha assunto una dimensione molto più ampia grazie all’analisi delle esigenze di bambini e docenti di scuola dell’infanzia e primaria, con un’attenzione anche per la secondaria di primo grado.


D: Il progetto è nato da una sua iniziativa personale? Che ruolo ha avuto l’istituto scolastico nel quale lavora? Si tratta di un progetto partecipato che ha coinvolto altre colleghe, altri colleghi? Che tipo di preparazione ha richiesto a lei?

portale? Si tratta di un progetto destinato a continuare? R: Ho continuato ad aggiornare il portale “Siete pronti a navigare?” nonostante tre anni fa mi fossi trasferita in un altro Istituto Comprensivo. Da due settimane, dopo che il nuovo Dirigente Scolastico del mio ex Circolo ha deciso di chiudere lo spazio sul server che ospitava oltre al portale anche il sito scolastico da me progettato e curato con gran dispendio di lavoro e per la gestione del quale avevo lasciato istruzioni dettagliatissime, ho deciso di pagare personalmente uno spazio web per portare avanti il lavoro provvidenzialmente salvato qualche mese prima. D: Ha dei riscontri quantitativi in termini di visualizzazioni registrate nel corso del suo periodo di attività? E può segnalarmi riscontri qualitativi da parte di genitori o altri, altre insegnanti (commenti, mail)?

R: Ho progettato e gestito il portale nello spazio web del mio Circolo Didattico fino a tre anni fa. Nel corso degli anni ho acquisito competenze tecniche indispensabili per adeguare in particolar modo un sito scolastico “casalingo” alle continue richieste previste per uno spazio della Pubblica Amministrazione: conoscenza di linguaggio html e xhtml, norme sull’accessibilità,sulla trasparenza,e molto molto di più. Avevo la fiducia della mia Dirigente Scolastica di allora e ho potuto pertanto dare sfogo alla mia creatività. Non ho avuto la diretta collaborazione dei colleghi nei primi anni, ma con l’avvento dei social network e dei gruppi Facebook per docenti ho avuto l’opportunità di conoscere, selezionare, inserire nel portale moltissime risorse e di allacciare amicizie professionali altamente valide.

R: Purtroppo con la chiusura del server anche lo storico contatore visite è andato perduto, si ricomincia da zero. Negli anni sono stati migliaia i bambini che hanno visitato, fatto ricerche e giocato partendo dal portale. Anche il motore di ricerca al suo interno, “Ricerche maestre”, è frutto di una mia collaborazione in rete con altri colleghi. Digitando su Google il nome del portale è possibile farsi un’idea di quante scuole lo abbiano inserito nelle pagine dei loro siti. Sono stati scritti molti articoli e molti studenti universitari hanno parlato del progetto nelle loro tesi; una, in particolare,interamente dedicata al portale,è uno studio estremamente approfondito, con molti suggerimenti pratici anche per trasformarlo con una grafica più dinamica. Essendo stata una delle prime docenti ad avere in Italia una classe 2.0 all’interno del progetto “Un computer per ogni studente”1 e poi di quello più ampio2, ho fatto in modo che tutti i netbook dati in dotazione ai bambini avessero accesso alla rete a partire dalla pagina principale del Portale, così come è stato fatto in tante altre scuole d’Italia nei laboratori.

D: Da un suo recente post su Facebook leggo che il portale è stato recuperato su iniziativa personale, dopo la decisione dell’istituto scolastico di non rinnovare il dominio: a quando risale l’ultimo aggiornamento del

D: Il portale nasce dalla sua esperienza in navigazione tutelata e consapevole dei minori. Quali sono i principali rischi per un bambino e per una bambina che naviga in rete? Quali sono le responsabilità di insegnanti e

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Gli obiettivi che mi sono posta anni fa, quando ho avuto l’idea di inserire un miniportale per i bambini nello spazio del sito scolastico, erano: • progettare uno spazio prevalentemente dedicato al gioco, ma con materiali utilizzabili anche per ricerche nella scuola primaria, con particolare attenzione a produzioni ipertestuali di altre scuole italiane. I prodotti digitali dei coetanei, se elaborati in modo intelligente, sono utili ed apprezzati dai bambini, che ne sono assai incuriositi. Da questo materiale è possibile partire per progettare nuove attività didattiche; • inserire in questo spazio un motore di ricerca a misura di bambino; • guidare le famiglie e i docenti ad un uso consapevole e sicuro della rete; • favorire il più possibile la scelta autonoma dei bambini. “Siete pronti a navigare?” è l’unico portale per bambini in Italia senza pubblicità.


genitori rispetto a questi?

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R: È proprio grazie alle esperienze citate poco sopra che ho approfondito il tema della navigazione sicura e consapevole dei minori nella rete.Anni fa avevo elaborato questa mappa3, che è stata molto usata da altri colleghi e che tuttora aggiorno e può essere un utile punto di partenza. Anche sul Portale dei bambini c’è una pagina dedicata al tema: http://www. sieteprontianavigare.it/portonavigatoriesperti/navigatori_esperti.htm. L’insegnante dovrebbe essere in grado di guidare i propri allievi non solo nella navigazione con fini esplorativi, ludici o di ricerca,ma anche a un approfondimento di temi quali la privacy, l’autorevolezza delle fonti, il diritto d’autore. Tutte cose che i bambini possono capire molto bene se vengono presentate in modo giocoso e con esempi alla loro portata. Certo è che lo stesso lavoro andrebbe fatto con le famiglie, troppo spesso non a conoscenza dei rischi ai quali sottopongono i figli lasciandoli navigare senza accompagnamento e protezioni.

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D: Secondo la sua esperienza, che tipo di filtro ha senso ed è utile usare per proteggere i più piccoli su internet? Che mediazione serve da parte dei genitori, che educazione da parte della scuola, che tipo di software per il parental control sono davvero utili? R: Lasciare la connessione internet della scuola senza un filtro per i contenuti espone docenti e studenti a inutili rischi. Filtrare automaticamente i siti non adatti ai minori e sgraditi all’ambiente educativo elimina la quasi totalità degli utilizzi impropri della rete. Con la diversificazione dei devices usati a casa e a scuola è diventato molto più complesso pensare a filtri di protezione adeguati sulle singole macchine, e le scuole spesso scelgono filtri a monte, ad esempio quello gratuito e molto apprezzato AssoDschola. Pur essendo espressamente pensato per la didattica è comunque un filtro professionale e può essere utilizzato in diverse configurazioni di rete con più sottoreti. D: Molto spesso i bambini accedono a internet tramite le app specifiche installate sugli smartphones e sui tablet dei genitori. Più che di “navigazione”, dunque, si tratta di attività ludiche

o sociali fatte online. Basti pensare a YouTube. Il filtro delle app, onnipresenti e pervasive anche nell’uso quotidiano degli adulti, che impatto ha sulla scelta di cosa e come navigare, secondo lei? R: Quando si insegna al proprio bambino ad andare in bici è prassi usare tricicli e poi biciclette con le rotelle prima di passare a fiammanti bici da corsa o mountain bike. Il genitore segue il bambino nelle sue prime insicure pedalate,gli fa indossare il caschetto e non lo perde d’occhio nei suoi primi percorsi. Ecco, da ciclista questa è l’analogia che mi piace di più: accompagnamento, attenzione, strumenti adeguati, protezione. Poi ogni famiglia potrà scegliere quelli che ritiene più adeguati e corrispondenti alle proprie esigenze, ma non può ignorare i pericoli ai quali sottopone (e troppo spesso così avviene) i propri bambini. Inutile poi che genitori e docenti si lamentino delle nuove generazioni perennemente connesse, nella stragrande maggioranza dei casi il pessimo esempio dato dai “grandi” nell’uso dei media trasmette molto di più di mille parole. D: Quanto internet c’è nella scuola primaria? C’è uniformità, ci sono regole e linee guida oppure è tutto affidato all’iniziativa dei maestri? R: L’Italia è un Paese a chiazze di leopardo per quasi tutto ciò che riguarda la scuola. Norme ministeriali e Piani Nazionali si scontrano poi con le singole amministrazioni regionali e comunali, ognuna di esse con opinioni, risorse finanziarie e interessi diversi. Internet nella scuola primaria c’è ma non ovunque, sono ancora presenti laboratori molto spesso tenuti in vita da docenti volenterosi, sono presenti LIM a volte utilizzate in modo opportuno ma spesso tranquillamente sostituibili con videoproiettori dato lo scarso utilizzo delle stesse per qualcosa che vada oltre la proiezione e la scrittura. Sono presenti classi 2.0, ma anche in questo caso regolamenti e gestione sono diversi da luogo a luogo. Anni fa, con il progetto Un computer per ogni studente, erano state studiate e sperimentate soluzioni molto intelligenti: preparazione e assistenza dei netbook fatta dai professori e dagli studenti dei centri Csas (Centri di animazione e spe-


D: Quanto influisce l’uso internet nella sua professione e per la sua (auto)formazione, e che idea si è fatta in generale del rapporto degli insegnanti con la rete? R: Ritengo di avere acquisito nel corso degli anni, per merito di una personale curiosità intellettuale e per la grande fiducia che ripongo nella collaborazione e cooperazione in presenza ma soprattutto a distanza con altri docenti, molte competenze che si sono rivelate utili in classe per affrontare e gestire l’esperienza di cui si parla. In particolare, ho abbandonato una visione sequenziale e statica delle tecnologie a favore di una visione dialogico-interpretativa, e questo mi ha permesso di affrontare in modo più sereno le novità e le difficoltà, ponendomi di fronte ad esse in modo positivo, tentando di interpretarle, facendo ipotesi e cercando soluzioni, da sola o con l’aiuto di allievi e colleghi. Fondamentali per un approccio valido e fruttuoso sono state

anche competenze acquisite quali il saper sfruttare la rete, il sapere elaborare, pubblicare, condividere. Ho creato e amministro (con validi aiutanti) il gruppo Facebook “insegnanti” (22.000 membri circa) che si occupa prevalentemente di didattica e ricerca, sono autrice e amministratrice del gruppo “Scienze in gioco alla primaria” (più di 7000 docenti) e del blog “Scienze in gioco”5. Attività non semplice, quella dell’amministratore di gruppi Facebook per docenti; anche e soprattutto in queste situazioni ci si accorge di quale universo variegato sia quello degli insegnanti. Esattamente come accade per tutti gli altri cittadini, anche molti docenti hanno bisogno di essere guidati al corretto uso dei social networks. Con regolamenti che negli ultimi anni molti gruppi hanno dovuto rendere più rigidi, e con il costante monitoraggio degli interventi, il cammino appare meno difficile e lo scambio più proficuo. NOTE 1. https://paolalimone.wordpress. com/2010/07/06/un-computer-per-ogni-studente-dq6gp1q9gjfz-2/. 2. http://share.dschola.it/olpc/default.aspx 3. http://cmapspublic.ihmc.us/rid=111185040 8605_689909881_3065/navigazione%20dei%20 bambini%20nel%20web.cmap. 4. http://share.dschola.it/tantinsegnanti/ Shared%20Documents/In%20classe%20 con%20i%20computer.pdf. 5. http://scienzeingioco.blogspot.it/.

Paola Limone insegna da trentaquattro anni in una scuola primaria in provincia di Torino ed è formatrice per la didattica e le ITC. Ha creato e gestisce il portale “Siete pronti a navigare?”, il gruppo Facebook “insegnanti” (21 200 membri), il gruppo “Scienze in gioco alla primaria” (7500 membri) e il blog “Scienze in gioco” (http://scienzeingioco.blogspot.it/). Il suo sito personale è “Spicchi di Limone” (http://spicchidilimone.blogspot.it/).

Annachiara Scalera appassionata di comunicazione, è social media content editor per Loescher Editore, blogger di Vitadafemmina.it e giornalista freelance.

69 Scuola / Per navigare in acque sicure

rimentazione),un kit di software gratuito già preparato e inserito su tutte le macchine (diversificato per scuola primaria e secondaria, e personalizzabile prima dell’installazione grazie a spazi in cui i docenti stessi potevano scegliere cosa fare o non fare utilizzare ai loro studenti), formazione per tutti i docenti che partecipavano al bando… Il Miur aveva apprezzato e seguito con grande interesse, ma non c’è stata la capacità di replicare il modello su scala nazionale. Siamo una Nazione in cui lo scoop è fondamentale, a nessuno piace essere “nano sulle spalle del gigante”, pertanto le “best practices” spesso vengono allegramente messe da parte per proporre qualcosa che si crede nuovo e di effetto, salvo poi scontrarsi con i problemi reali: come proteggere i computer dati ai bambini? Cosa metterci sopra? Chi deve farlo? Chi ripara i danni al termine dell’anno di assicurazione dato dalle ditte? Chi fa assistenza? I nuovi giganti così spesso crollano per non aver voluto dedicare un po’ di tempo allo studio di quanto già sperimentato con successo in Italia o all’estero. Ho messo a disposizione dei colleghi una Guida all’uso dei computer in classe4, ma esistono esperienze bellissime che tutti i giorni vengono pubblicate e condivise in rete: basta cercarle e imparare, nell’ottica del Lifelong Learning.


Studenti autori e redattori Scuola / Studenti autori e redattori

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Imparare a produrre e gestire i contenuti digitali facendo una rivista online: un’alternanza scuola-lavoro sensata è possibile. a cura della Redazione de «La ricerca»

D

urante l’anno scolastico 2016/17, la redazione della rivista «La ricerca» e i social media manager di Loescher editore hanno collaborato con la Scuola amica Polo Luciano Bianciardi di Grosseto alla realizzazione di un progetto rivolto al miglioramento della cultura e delle competenze digitali nella scuola. Nell’ambito del progetto SMS - Social Media School (Regione Toscana - FSE) abbiamo aiutato circa 150 studenti delle classi 30, 40 e 50 di un Istituto Professionale per i Servizi Commerciali e di un Istituto Tecnico per la grafica e per la comunicazione a realizzare una rivista online per la promozione e valorizzazione del territorio, che in questo caso specifico era la provincia di Grosseto. Maremma Touring, questo è il nome della rivista, ha rappresentato così una palestra per allenarsi a produrre e gestire contenuti digitali e,soprattutto,per acquisire consapevolezza dei processi lavorativi che sono necessari alla realizzazione di un sito internet e dei relativi social network a esso collegati.

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Un magazine per il racconto del territorio —

In fase di progettazione, è stato scelto di dare alla rivista online la natura di magazine orientato al racconto di un territorio, e quindi di creare e di gestire un prodotto programmaticamente molto diverso dal “giornalino d’istituto” e dalle logiche amatoriali a esso connesse. Il risultato atteso e il processo dovevano essere in tutto e per tutto professionali: ambiva ad avere un pubblico il più ampio possibile e lettori trasversali, interessati all’argomento Maremma e non alla provenienza “scolastica” del prodotto; i contenuti da pubblicare dovevano rispondere a criteri oggettivi di interesse pubblico, veridicità, arricchimento culturale, stile, originalità. Il lavoro dei ragazzi, dunque, salvo pochi e episodici casi, consisteva nell’assumere di volta in volta il ruolo editoriale necessario all’approvvigionamento di contenuti della rivista, in genere seguendo un piano editoriale progettato in anticipo durante le riunioni di redazione: ciascun incontro iniziava e terminava con un momento collettivo in cui si faceva il punto della situazione (stato dell’arte del sito, cose da fare; debriefing o restituzione finali e compilazione dei registri) e consisteva poi in lavoro più o meno autonomo (a seconda del compito) nei panni di redattore (o di iconografo, o di segretario di redazione, o di fotografo, o di web editor), spaziando dal procurarsi gli

↑ Uno dei Tarocchi del Giardino di Niki de Saint Phalle a Capalbio. Foto di Elisa Ardenghi, studentessa e redattrice di Maremma Touring.


articoli commissionandoli agli autori (o richiedendo interviste, o organizzando uscite o incontri), al prepararli per la pubblicazione (correggendo le bozze), cercare e preparare le immagini correlate, e infine pubblicarli online sul CMS seguendo l’ordine stabilito dal programma.

Surfing: navigare alla ricerca di informazioni —

Gli autori —

Trattandosi di una rivista e non di un giornalino scolastico, per la scrittura degli articoli della sezione Storie si è proceduto, come si farebbe in una redazione, con la ricerca di autori “veri” – ovvero professionisti, giornalisti, scrittori, storici, artisti – senza forzare gli studenti

L’editing —

L’editing implica lettura attenta, uso di dizionari, conoscenza dell’ortografia e della sintassi, ma anche senso della frase, nonché un po’ di coraggio (per correggere il refuso sfuggito al prof, o all’autore pubblicato). Il web editing, inoltre – ovvero la preparazione del testo corretto per la pubblicazione online,con la titolazione,il sottotitolo, la scelta iconografica eccetera – richiede altre competenze e altre riflessioni: valutare il testo nel suo insieme e “spezzarlo” con paragrafi o con spazi per dargli ritmo, se troppo lungo; scrivere un titolo intelligente e veritiero e un sottotitolo che dia sinteticamente l’idea del contenuto e che risulti accattivante per il lettore; posizionare l’immagine in modo che si trovi al punto giusto del testo; avere familiarità con font, dimensioni, formattazioni, stili, perché ciascuno veicola informazioni e pesi diversi. Si tratta di attività che forniscono l’occasione per smontare e vedere in dettaglio come sono fatti i contenuti in cui ci imbattiamo quotidianamente online (stimolando una riflessione proficua sul potere dei titoli e dei sottotitoli, ad esempio, o sulla distribuzione più efficace dei testi sullo schermo in base ai naturali movimenti dell’occhio eccetera). NOTE È in uscita un Quaderno della Ricerca che raccoglie, commenta e contestualizza le metodologie e gli strumenti usati e sviluppati nel progetto SMS. Si tratta di un manuale operativo rivolto agli insegnanti, ai formatori e agli orientatori che si occupano di IFP, di alternanza scuola-lavoro, di didattica laboratoriale e di formazione professionale.

Redazione «La ricerca»

71 Scuola / Studenti autori e redattori

Tipologia e contenuto degli articoli variavano molto a seconda del piano editoriale e delle esigenze individuate dalla redazione; unico appuntamento fisso era la pubblicazione il venerdì del post dedicato agli Eventi: un articolo di servizio, redazionale, contenente gli appuntamenti significativi del weekend e della settimana successiva aventi luogo sul territorio. Ciò ha reso necessario un lavoro preparatorio composito di raccolta delle informazioni, provenienti da più fonti: internet (surfing online su siti di notizie, giornali online, pagine Facebook di associazioni, fondazioni e istituti culturali, comuni), passaparola, locandine, segnalazioni via email alla casella di posta della redazione, e così via, stabilendo in anticipo criteri di scelta che privilegiassero l’importanza intrinseca, la levatura culturale o sociale dell’evento e l’interesse del pubblico. L’elenco così ottenuto e integrato man mano doveva essere chiuso entro l’ultimo giorno utile della settimana, in modo da poter essere formattato, illustrato e pubblicato. Anche la sezione Parole e visioni, dedicata alla pubblicazione di immagini e testi che hanno contribuito e ancora contribuiscono alla costruzione dell’immaginario di quel territorio (brani della Commedia di Dante, una poesia di Giorgio Caproni, i monumenti lorenesi, brani di film, ecc.), ha richiesto un lungo lavoro di ricerca, di selezione e di rielaborazione di contenuti digitali presenti sul web, contribuendo allo sviluppo di specifiche competenze di gestione delle informazioni.

ad assumere quel ruolo a meno che la candidatura non fosse volontaria. Anche in quel caso, data la complessità di certi contenuti,il lavoro è stato suddiviso in più giorni e su più gruppi classe, per cui chi contattava l’autore e procacciava il pezzo quasi mai ha coinciso con chi svolgeva lo step successivo di correzione e pubblicazione del contenuto: proprio perché erano il sito e il suo flusso di produzione a comandare,e si doveva rispondere a logiche collaborative e non personali.


Otto poesie del MeP

Scuola / Otto poesie del MeP

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Il Movimento per l’Emancipazione della Poesia, fondato a Firenze nel marzo 2010, è un movimento artistico che persegue lo scopo di infondere nuovamente nelle persone interesse e rispetto per la poesia intesa nelle sue differenti forme. Il Movimento per l’Emancipazione della Poesia (da ora “MeP”) intende raggiungere il proprio scopo sfruttando ogni canale ritenuto idoneo e mantenendo comunque saldo il rispetto per ogni altra forma d’arte.

La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Il MeP, nel perseguire i propri intenti, impone l’anonimato ai suoi autori, affinché sia la poesia in quanto tale a essere messa in primo piano piuttosto che i singoli poeti. Il MeP è aperto a tutti coloro che ne condividano i propositi, che si riconoscano nel manifesto e che si impegnino ad agire concretamente per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Il MeP invita tutti coloro che vogliano unirsi a noi a contattarci. Statuto del MeP, Firenze, marzo 2010


Ode alla ragione

M’han presa fra tante qui m’han incollata e stesa.

O ragion di bianco vestita Principio della mente D’ogni essere vivente Vita d’ogni intelletto Armatura del sesto senso O tu sorella illegittima del cuore Profeta vacabondo dell anima Riflesso sacro d’un idea Motore dell’inizio Sei l’accensione dei miei pensieri Imprigionata dalla forma Dall’etica e dalla morale O tu padre del comportarsi E madre dell’orgoglio Sei la patrizia del torto plebeo La vetta del sapere scientifico Il megafono della conoscenza

Ho tremato: son forse il necrologio appeso al muro di Me Poesia dimenticata e offesa. Son forse morta senza essermene accorta. L’aria scolora inchiostro e lacrime piovane disfano la carta che s’arriccia mentre dal foglio nel bordo superiore nasconde futili parole scritte a mio disprezzo da uno sconosciuto pensatore. Poi t’ho visto col sopracciglio alzato e con l’occhiale in mano farti sorpreso di questo caso strano - Ma via… Poesia appesa al muro lungo la strada sotto casa mia e di nuovo ho tremato/temuto un altro affronto: uno strappo e così sia. Invece (incrocio le dita e caccio la sfiga) sono ancora VIVA se sei arrivato a questa ultima mia riga. A65

L’acceleratore del tempo E la frizione dello spazio O tu pastore dell’ignoranza E tempio della speranza Tu che morte esalti Per averti dato la vita Ma altrettanto schivi Per averti tolto la ragion. D05

73 Scuola / Otto poesie del MeP

Mi hanno incollata e stesa


La ricerca / N. 13 Nuova Serie. Novembre 2017

Scuola / Otto poesie del MeP

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Apocalisse sul taccuino (riposto nel taschino)

Mia nonna mi diceva

Presi ad ascoltare la musica del mondo, quell’intorpidito bagliore acustico in sottofondo che i più scambian per rumore presi un treno senza direzione, e approdai in un campo sterminato, e rimasi senza parole. Le mie mani senza la tua pelle si sentirono irrimediabilmente sole. Mi mancò il fiato, un’inceppatura di fronte allo iato tra la vita e la sua narrazione. La grafia trema, barcolla incerta sopra il foglio dinanzi a cui mi spoglio della maschera e dell’armatura, per uscirne ogni volta ancor più sconvolta, smarrita, perché ho tracciato sentieri del domani con la matita.

Mia nonna mi diceva: “Ci è ca ste a bianc e s mett a nero?!”, ed io ci credevo. Ma se il nero, Se quel nero fosse, ipoteticamente, il nero dei tuoi occhi, io sarei un deficiente. Quel nero che ti compare quando esplode un sorriso ed il bianco scompare. Se quel nero, fosse il nero dei tuoi occhi, Se quel nero, fosse quel nero, io non dovrei farmelo sfuggire. Il problema, è che ti guardo e non so che dire. V28

C35

*** Ubriachi d’informazioni ma sobri di conoscenza A 11

Approfondire — •Sito istituzionale del MeP: http://mep. netsons.org/beta/ •Su Facebook https://www.facebook.com/ MovimentoEmancipazionePoesia/


I QUADERNI

QdR / Didattica e letteratura

La collana di monografie con proposte metodologiche sui temi più attuali della didattica.

L

a collana scientifica, dedicata a scuola e università, per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.

DIRETTA DA Natascia Tonelli Simone Giusti COMITATO SCIENTIFICO Paolo Giovannetti (IULM) Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari) Marielle Macé (CRAL Parigi) Francisco Rico (Universitad Autònoma Barcelona) Francesco Stella (Università degli Studi di Siena) PROSSIME PUBBLICAZIONI

Per le copie cartacee rivolgiti in libreria o chiedi al tuo rappresentante di zona.

Tradurre le opere, leggere le traduzioni a cura di Simone Giusti ISSN 2385-0914

La collana QdR / Didattica e letteratura è anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni/qdr

I Quaderni della Ricerca sono anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni

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