60043227 rosa alchemica william butler yeats ita 1913

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Nota introduttiva

Nella quiete della sua casa innaturalmente silenziosa, segregato dietro pesanti arazzi che chiudono fuori il mondo, il cattolico narratore di Rosa Alchemica attende Michael Robartes, la tentazione, la sfida all'ortodossia. La stanza isolata, chiusa, piena d'opere d'arte, è epitome d'un mondo esclusivo e segreto, ed emblema di un'arte che non vuole contaminarsi con la grossolana materia del reale. La casa, da cui sono stati eliminati i ritratti di valore più storico che artistico, vorrebbe collocarsi fuori del tempo, oltre la storia; come i tre racconti, d'altronde, che, per collocarsi nella sfera atemporale del soprannaturale, cercano quasi di occultare la loro contemporaneità: solo qualche particolare, come il treno che porta il narratore di Rosa Alchemica al luogo della sua iniziazione, o le fotografie dei capolavori preferiti di Owen Aherne, ci ricordano che siamo alle soglie del xx secolo, nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'arte. Quest'isolarsi, fuori del tempo, in mistiche stanze denuncia la matrice simbolista e decadente dei tre racconti ' e apparenta il narratore a una folta schiera di sognatori e contemplatori, a Mario l'Epicureo e ai giovani degli Imaginary Portraits di Pater, al Des Esseintes di Huysmans e al Lohengrin di La1 Lo Yeats giovane si muove negli ambienti del decadentismo estetizzante. A Londra, nel 1891, si associa al Rhymers' Club, tra i cui membri vi sono Ernest Dowson, Richard Le Gallienne, Aubrey Beardsley, Lionel Johnson, Arthur Symons. Dal Rhymers' Club provengono molti dei collaboratori delle riviste più tipicamente fin de siede, «The Yellow Book» e «The Savoy» (su quest'ultima furono pubblicati Rosa Alchemica e Le tavole della Legge). In particolare Yeats si lega d'amicizia a Johnson e a Symons, il quale gli dedica The Symbolist Movement in Literature (1899). È Symons che introduce Yeats alla letteratura francese contemporanea.


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forgue; ma soprattutto al conte Axél di Villiers de l'IsleAdam, mago e mistico rosacrociano, spregiatore della realtà («Quanto a vivere i nostri servi lo faranno per noi») e devoto all'ideale al punto di rifiutare la notte d'amore con Sara, perché l'esperienza reale sarebbe troppo inferiore a quella desiderata e immaginata. Axél, ci dice Yeats nell'autobiografia, era il suo Libro Sacro; e come Mallarmé - fattogli conoscere, insieme a Rimbaud, dall'amico Arthur Symons - aveva influenzato le ultime poesie di The Wind among the Reeds e il dramma poetico The Shadowy Waters, cosi Villiers de l'Isle-Adam - il Villiers adepto della bellezza visionaria, s'intende, il rèveur e non il railleur — « aveva plasmato in Rosa Alchemica tutto ciò che non aveva plasmato Pater». La stanza, in alto, è la torre, simbolo tra i più pregnanti dell'opera yeatsiana. Qui essa è, soprattutto, la torre del poetamago, del poeta-alchimista - il fornello alchimistico si vede spesso rappresentato in forma di torre a indicare che la purificazione della materia implica un processo ascensionale — che attende solitario alla sua ricerca d'una sostanza imperitura, alla trasformazione dell'esistenza in essenza, della vita in arte 1 . Solitario, perché, ci cantano i versi di Ego Dominus Tuus, come possono capire che «la verità fiorisce là dove ha brillato la lampada dello studioso coloro che non hanno solitudine? » Per Yeats, studioso d'alchimia e teosofia, delle religioni orientali e delle dottrine esoteriche, fondatore di un'Associazione ermetica, discepolo temporaneo della Loggia londinese di Madame Blavatsky e dell'Ordine dell'Alba d'Oro dei cabalisti di MacGregor Mathers, magia e poesia sono nate insieme. Quella che Yeats ritiene la più grande di tutte le forze, il simbolo, viene usato sia, consciamente, dai maghi, che, meno consciamente, dai loro successori, poeti, musicisti e pittori. L'arte simbolica «ha lo scopo di quei talismani simbolici che i maghi medievali facevano con forme e colori complessi, e che ordina1 È questo un tema ricorrente - si vedano, ad esempio, le poesie su Bisanzio - dell'opera yeatsiana. Lo si può trovare già nelle prime poesie; in The Lover Tells of the Rose in His Heart (1892), ad esempio, la componente alchimistica è evidente: ciò che è brutto e volgare viene rifiutato non soltanto per motivi di gusto, estetici, ma anche perché è impuro e dev'essere rifatto, rifuso, e trasformato in oro. Solo lo Yeats maturo scopre il valore delle « cose rotte e logore », riconoscendo l'origine dei simboli nella «sudicia bottega di rigattiere del cuore».

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vano ai loro pazienti di custodire santamente in segreto per meditarvi su quotidianamente; perché, nella complessità delle sue forme e dei suoi colori, è impigliata una parte dell'Essenza Divina». La parola poetica, in particolare, deriva, come la musica, dai suoni prodotti dai maghi per gettar incantesimi su se stessi e sugli astanti; e perciò il poeta dovrà ricordarsi di quest'origine, privilegiando certe sillabe e certe soluzioni ritmiche e metriche, se vorrà raggiungere quell'equilibrio « tra il sonno e la veglia» - cioè tra conscio e inconscio - da cui scaturisce il simbolo e, attraverso di esso, la rivelazione. Il ritmo, poi, ha lo scopo di prolungare l'attimo della contemplazione, e di favorire l'attimo della creazione, quietando l'anima con la sua fascinosa monotonia e tenendola desta con la sua varietà. In questo stato, come di trance, «la mente libera dal dominio della volontà si rivela nei simboli». Anche gli studiatissimi ritmi della prosa dei tre racconti aspirano a quest'effetto: il ben calcolato uso di certe ripetizioni e cadenze, droga i sensi del lettore, come l'incenso e la cantilena ritmica di Robartes quelli del narratore. Poesia e magia: un connubio che non sorprende se si pensa che gli inizi di Yeats sono all'insegna del simbolismo; e nella teoria simbolista, appunto, poesia e magia si incontrano spesso, facendo del poeta un sacerdote, un mago intento a decifrare il mistero dell'universo. Già Baudelaire in Correspondances («La Nature est un tempie où des vivants piliers | Laissent parfois sortir des confuses paroles; | L'homme y passe à travers des forèts de symboles») sembrava aderire al misticismo occulto, e accettare le dottrine di Swedenborg — altro influsso fondamentale per Yeats - trascritte in chiave estetica. Per Baudelaire, come per Yeats, il poeta suona sull'immensa tastiera delle corrispondenze, e decifra l'universo con la fantasia: «La fantasia è la più scientifica delle facoltà: essa sola comprende l'analogia universale, che nelle religioni mistiche viene definita corrispondenza». Il poeta di Baudelaire che svela i geroglifici della realtà è un discendente della Cythna di Shelley - romantico ispiratore, cui Yeats ha dedicato un saggio —, la quale traccia sulla sabbia delle forme elementari, dei segni che sono un linguaggio più sottile del linguaggio delle parole; ed è un antenato dell'IUe di Yeats, il quale in Ego Dominus Tuus traccia segni magici sulla riva del fiume che lambisce la sua torre: siamo, comunque, sempre nella tradizione mi-


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stica della signatura rerum, o della Cabala, secondo cui l'universo è un enigma cifrato. Ma il conforto più. immediato veniva a Yeats da Mallarmé che parlava della poesia come d'un incantesimo, del linguaggio autentico e creativo come d'una magia evocativa, della necessità del mistero, del Libro, che è un libro magico, una « spiegazione orfica della Terra». Come Yeats, il narratore di Rosa Alchemica è scrittore, esteta e apprendista mago; ma è spaccato in due: da una parte brama partecipare del mondo divino da cui si sente escluso, dall'altra teme l'esperienza mistico-magica, sospettandola demoniaca. Lasciatosi indurre in tentazione da Michael Robartes, e quasi convertitosi alle sue dottrine, rischia durante la danza magica' di farsi succhiare dalle vampiresche divinità anima e vita. Scampato, si rifugia nell'ortodossia, si stringe il rosario al cuore e medita di farsi frate domenicano. Lo schema si ripete puntualmente negli altri due racconti. Nelle Tavole della Legge la dottrina di Owen Aherne - altro aspirante all'abito talare - che si rifa a Gioacchino da Fiore vien giudicata come eretica e pericolosa, se pur affascinante, dal narratore, il quale rischia nuovamente di essere preda delle potenze oltremondane, cui sfugge in extremis. Nell'Adorazione dei Magi la verità rivelata dai tre misteriosi vecchi al narratore viene ascoltata avidamente e fedelmente riferita, ma al contempo temuta come menzogna demoniaca, da esorcizzare con la preghiera. Il movimento circolare che conduce il narratore dalla tentazione alla vittoria della fede e poi di nuovo alla tentazione è un ironico segnale della sua debolezza: troppo poco salda è la 1 La danza, che agli occhi del narratore di Rosa Alchemica appare demoniaca, ha per Yeats valore positivo. Si veda, ad esempio, nella nona sezione di Anima Mundi (Per Amica Silentia Lunae, 1917), la danza dei beati che si muovono ritmicamente intrecciando sempre nuovi disegni, intimamente uniti eppure ancora individualmente distinti. Nella danza di Rosa Alchemica, per usare una citazione di Eraclito cara a Yeats, « gli Immortali diventano mortali, e i mortali Immortali; essi vivono gli uni la morte degli altri, e muoiono gli uni la vita degli altri». Allo stesso modo la rosa sul soffitto e la croce sul pavimento - ovvi simboli rosacrociani - simboleggiano l'unione di corpo e anima, vita e morte, materia e spirito, sonno e veglia. Ma la rosa, immagine tipica del primo Yeats, ha una

gamma molto vasta di significati: cfr. WILLIAM YORK TINDALL, The Sym-

bolism of W. B. Yeats, in JOHN UNTERECKER (a cura di), Yeats: A Collection of Criticai Essays, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1963.

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sua ortodossia, troppo malioso il richiamo dell'oltremondano. Ed è un'abile strategia narrativa questo sfruttare, ma con discrezione, il brivido della trasgressione alla norma, del peccato, della fractura tahularum; questo giocare la religione dell'arte contro la fede, la libertà dell'artista contro ogni morale e legge umana o divina. Abile e scopertamente decadente. Altrettanto ovviamente decadente è l'uso che vien fatto del cristianesimo: basti pensare al narratore di Rosa Alchemica che vorrebbe conciliare l'estasi cristiana e il piacere pagano della bellezza, all'incenso drogato fatto con fiori simili a quelli del Getzemani, alla danza sull'effigie sbiadita del Cristo, alla goticheggiante cappella di Aherne, alle umili cappelle della chiusa dell'Adorazione dei Magi; o a un altro racconto del 1897 — The Crucifixion of the Outcast, parabola grondante d'umori decadenti e molto lodata da Oscar Wilde - in cui l'inospitale abate di un convento di carmelitani fa crocifiggere un menestrello pagano. È noto il fascino che la religione, e in special modo il cattolicesimo con il suo cerimoniale raffinato ed arcano, esercitava sui decadenti; e vengono in mente Pater ragazzo che amava indossare la cotta e predicare alla zia, Baron Corvo che si immaginava papa, Huysmans che dopo il satanismo di Là-bas cedeva alla grazia divina in En Route e nei romanzi seguenti, il Wilde penitente di The Ballad of Reading Gaol e De profundis, Beardsley morente che chiedeva di distruggere i suoi disegni peccaminosi. Il decadente spesso voleva avere, proprio come Michael Robartes, sia del debosciato che del santo '. Anche Yeats sfrutta qui il cristianesimo per un gioco di gusto estetizzante, celandosi dietro una pia maschera; ma in realtà è più con Robartes che con il narratore dei tre racconti, più con il giullare di The Crucifixion of the Outcast che con il priore, più con Oisin che con san Patrizio, più con gli dèi antichi che con il Dio del monoteismo giudaico-cristiano. Il ponte attraverso cui i mortali comunicano con le divinità, con gli immortai moods, è l'arte simbolica; essa stimola «pittori e poeti e musicisti a ricavare i loro soggetti dalle vecchie leggende, che le leggende sono i berilli magici in cui vediamo la vita, non 1 Un possibile modello per il personaggio del santo peccatore fu forse Lionel Johnson, fervente credente e alcolizzato, il quale «cadendo spesso meditava sulla santità».


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com'è, ma come la parte eroica che è in noi, la parte che sempre desidera sogni ed emozioni più grandi di quelli che il mondo può darci, e ama la bellezza e non odia il dolore, spera segretamente che possa diventare». I miti eroici e magici, e capaci di suscitare quelle intense passioni che sole permettono di evocare le realtà spirituali, Yeats li trova nella mitologia e nel folclore irlandesi: le divinità rinascenti che nei racconti stanno accanto a quelle classiche, come Eros o Afrodite, sono celtiche '. Ciò non significa che Yeats non tenti di ricuperare il cristianesimo sul piano mitico e simbolico, proprio come i contadini irlandesi, che, a suo giudizio, tendono a conciliare cri1

La presenza delle divinità celtiche era più marcata nella prima edizione dei racconti. Si veda il passo seguente di Rosa Alchemica nell'edizione del 1897 (The Secret Rose, Lawrence and Bullen): «Tempo verrà anche per questa gente, e sacrificheranno un cefalo ad Artemide, o qualche altro pesce a qualche nuova divinità, a meno che gli dèi della loro stessa stirpe, il Dagda, con il suo calderone traboccante, Lu, con la sua lancia intinta nell'essenza di papavero, affinché non si getti infocata in battaglia, Angus con i tre uccelli sulla spalla, Bove e la sua rossa mandria di porci, e tutti gli eroici figli di Dana, non riedifichino di nuovo i loro templi di pietra grigia [...]». Scomparsi i riferimenti a questi dèi, è rimasto quello ai Sidhe che giocano a hurley, una specie di hockey irlandese. « I ricchi e i potenti - spiega Yeats - chiamavano gli dèi dell'antica Irlanda i Tuatha de Danaan, cioè le Tribù della dea Danu, ma i poveri li chiamavano, e talvolta li chiamano ancora adesso, i Sidhe, da Aes Sidhe o Sluagh Sidhe, il popolo delle Colline Incantate, che cosi vengono di solito interpretate queste parole. Sidhe in gaelico significa anche vento, e certo i Sidhe hanno molto a che fare con il vento. Essi viaggiano nei mulinelli di vento [...]. Quando i contadini vedono le foglie vorticare sulla strada si fanno il segno della croce, perché credono che stiano passando i Sidhe [...]. Se ci si interessa troppo a loro, o li si vede troppo, si perde ogni interesse per le cose comuni». Nella prima edizione in volume delYAdorazione dei Magi, stampata privatamente a Londra nel 1897, la prostituta dice ai Magi « i nomi segreti degli Immortali di molte terre, e dei colori, e odori, e armi, e strumenti artigianali che avevano più cari»; ma soprattutto parla loro « degli Immortali d'Irlanda e del loro amore per il calderone, e la cote, e la spada, e la lancia [...]». Che Yeats pensasse alla possibilità di ridare vita ai culti celtici è testimoniato, tra l'altro, da una lettera di George Russell a Fiona Macleod, del 1896 (« Il mio amico, Willie Yeats, [...] ha parlato molto di far rinascere i misteri druidici [...]»); e da una lettera dello stesso anno di George Russel a Yeats: «[...] Gli dèi sono tornati in Erin e si sono insediati sulle montagne sacre e soffiano sul fuoco in tutto il paese. Parecchi li hanno visti, hanno avuto delle visioni. Risveglieranno dovunque l'istinto magico, e il cuore universale del popolo tornerà alle vecchie credenze druidiche [...]».

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stianesimo e paganesimo. Secondo Yeats, tutta la storia irlandese ha per sfondo un grande arazzo mitico, e anche il cristianesimo è entrato a far parte delle sue figurazioni, sicché è difficile dire dove cominci il cristianesimo e dove finisca il druidismo; il Cristo che sbarcò in Irlanda portato da san Patrizio, poi, era ancora fratello di Dioniso. Ciò spiega perché nell'opera di Yeats la Leda di Leda and the Swan possa quasi confondersi con la Madonna di The Mother of God, e la nuova era anticristiana che vedrà la resurrezione degli antichi dèi possa venire annunciata da nuovi Magi e cominciare con un Secondo Avvento. Yeats, insomma, con un'operazione sincretistica, fa confluire nella propria mitologia elementi celtici, classici e cristiani. Yeats, comunque, come Robartes e il più timido Aherne, va oltre la religione, che ritiene troppo limitata. Aherne, in The Tahles of the Law, si accorge di non poter peccare perché ha scoperto la legge del suo essere e l'arbitrarietà della legge divina. Dio ha fatto la legge arbitraria perché l'uomo possa peccare e pentirsi; ma chi ha scoperto la verità sa che può solo esprimere se stesso, e che non può peccare; gli è quindi negato il rapporto con Dio, che passa esclusivamente attraverso il peccato e il pentimento — dottrina, questa, squisitamente decadente per l'affermazione dell'artificialità di ogni morale, costume e comportamento, e perché privilegia l'esperienza del male e del proibito. Nascosto dietro la maschera tesa di Aherne, spaventato delle conseguenze della propria audacia e convinto di essere un'anima dannata, il volto di Yeats è sereno, che per lui il bene è esprimere se stessi, e le forme storiche della morale sono convenzionali, proprio com'erano convenzionali per Blake - un altro dei suoi maestri e ispiratori - i concetti di bene e di male. Yeats sottoscrive senza esitare alle dottrine che Aherne scopre in Gioacchino da Fiore: chi altri sono i figli dello Spirito Santo se non gli artisti decadenti che, senza far distinzione tra lecito e illecito, vogliono ridestare a nuova vita la fantasia e rivelare la sostanza divina che è colore e musica e soavità? Qui, nell'allusione all'arte suprema che strappa alla vita ed apre le porte dell'eternità, si presagisce già «l'artificio dell'eternità» delle poesie dedicate a Bisanzio; e l'affermazione che il mondo esiste solo per diventare racconto - in cui si sente un eco del mallarmeano tout, au monde, existe pour aboutir à un livre - fa presagire alcuni versi di Sailing to Byzantium, dove


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l'anima fuori della natura è destinata ad assumere non più forma naturale ma forma artistica, a trasformarsi in un artificiale uccello d'oro che, posato su un ramo d'oro, canterà ai signori e alle dame di Bisanzio di ciò che è passato, o che è, o che sarà. Yeats, dunque, fonda la struttura narrativa dei tre racconti sul contrasto tra la cauta pietà del narratore - e del pentito Aherne - e la demoniaca sicurezza di Robartes, che finge di condannare; mentre in realtà sta dalla parte di quest'ultimo e dell'Aherne nella sua fase eretica. La creazione di personaggi come l'Aherne eretico, ma soprattutto come Robartes, testimonia della piena adesione di Yeats all'occultismo. Robartes non compare soltanto nei racconti qui pubblicati, ma già prima in un gruppo di poesie appartenenti alla raccolta The Wind among the Reeds '; e lo ritroveremo ancora in Ego Dominus Tuus: Sulla sabbia grigia presso il fiume poco profondo Sotto la tua vecchia torre battuta dal vento, dove ancora Arde una lampada accanto al libro aperto Che lasciò Michael Robartes, cammini al chiar di luna, E, benché non più nei tuoi anni migliori, ancora insegui, Ammaliato dall'invincibile illusione, Magiche forme. Nella torre, sotto il lume, quasi vent'anni dopo, il libro di Robartes è sempre aperto. Lo Yeats che elabora la teoria dell'io e dell'anti-io o maschera2 — alla maschera si accenna fuggevolmente già in Rosa Alchemica, là dove il narratore in trance vede se stesso come una maschera che diversi dèi si provano sul volto - non ha più bisogno di fingere la timidezza dei tre racconti, e si dichiara apertamente discepolo di Robartes. La stanza è diventata definitivamente la torre. Finito il suo apprendistato il poeta mago è diventato padrone dei simboli, 1 Si tratta di Michael Robartes Bids His Beloved Be at Peace (1895), Michael Robartes Remembers Forgotten Beauty (1896), Michael Robartes Asks Forgiveness Because of His Many Moods (1895). Nei Collected Poems il nome di Robartes è stato sostituito dal pronome He (per le prime due) e da The Lover (per la terza). In esse Robartes non è ancora un personaggio, ma una figura astrattamente allegorica: cfr. RICHARD ELLMANN, The Identity of Yeats, Faber, London 1964, p. 301. 2 La poesia Ego Dominus Tuus è premessa a Per Amica Silentìa Lunae (1918) dove viene esposta la teoria della maschera, poi ulteriormente sviluppata e spiegata in A Vision (1925 e 1937).

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e ha perfezionato la teoria della Grande Memoria o Anima Mundi. In questa memoria universale, grande stagno o giardino, i simboli, come piante acquatiche o alberi che allarghino nell'aria i loro rami fragranti, vivono e crescono. In essa, gran serbatoio d'anime e d'immagini e punto d'incontro tra i vivi e i morti, è il seme d'ogni cosa; essa «plasma l'elaborata conchiglia del mollusco e il bambino nel ventre, e insegna agli uccelli a fare il nido»; da essa mago e artista attingono i loro simboli. A questa Grande Memoria, sede dell'inconscio collettivo, è possibile accedere perché le nostre menti e memorie individuali non sono che frammenti di quella grande mente, e comunicano con essa, e tra di loro, perché i loro confini sono fluidi. Ogni mente individuale può dunque sfruttare questo ricettacolo di tutta l'evoluzione della Natura e dell'esperienza e della storia umane. Ma più d'ogni altro è il poeta, o il mago, o il medium che s'immerge in questo mare abissale (il pensiero dell'uomo non è che la spuma delle onde che ne lambiscono la riva), e ci insegna a leggere nel libro del passato e del futuro. La Grande Memoria serba il seme dello sviluppo ciclico della storia, e ne registra il movimento a spirale, come quello della scala a chiocciola che porta in cima alla torre. Il poeta la visita e la interroga, proprio come i Magi dell'ultimo racconto visitano e interrogano la prostituta parigina delle cui facoltà medianiche gli Immortali si servono per parlare agli uomini; e la lingua che costei parla è quella simbolica dell'Anima Mundi. Sono dunque il poeta e l'artista gli interpreti della storia e della realtà. Il mago-poeta, il mago-artista, media all'uomo il messaggio del Mago Supremo, vivendo in precario equilibrio tra sonno e veglia, in bilico tra conscio e inconscio, abbandonandosi all'inconscio e al sogno per entrare nel regno del simbolo e riportarlo alla chiara luce della coscienza. Adempie cosi al suo compito di vate e di guida, che è stato scelto, come gli eletti di Gioacchino da Fiore, per «rivelare la sostanza nascosta di Dio». Le arti, secondo Yeats, stanno per accollarsi gli oneri che erano della religione e ci restituiranno, invece delle cose, la loro essenza: «Stiamo per sostituire nuovamente la distillazione dell'alchimia alle analisi della chimica». Si arresterà cosi il processo che conduce la civiltà sulla strada dell'astrazione e dello scientismo, e si tornerà sulla strada dell'emozione universale e concreta. All'arte - che dovrà essere simbolica, perché solo il simbolo può «esprimere l'essenza invisibile» e


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« sfuggire alla povertà di un ordinamento troppo cosciente attingendo alla ricchezza e alla profondità della natura» — è delegata questa missione salvifica. La civiltà è a una svolta e il poeta non può esimersi dall'intervenire. Anche se è chiuso nella sua torre d'avorio a sognare l'eterno, la perfetta fissità dei mosaici bizantini, la sostanza imperitura dell'arte, non può fare a meno di guardar giù al magma di fango e sangue della storia. Pur disgustato dal «cosiddetto progresso» e dalla contemporanea «volgarità che si è armata e moltiplicata» ', il poeta non rinuncia alla realtà, all'esperienza, alla storia, ma spera anzi di poterle modificare, di poter «rifare il mondo» perché conosce i simboli, i modelli, le spirali, gli eterni ritorni, le leggi del divenire; e crede che sia la parola poetica, l'occulto sogno del solitario, a muover segretamente il meccanismo spirituale del mondo, a determinare scienza e amore, morale e guerra: Ogni suono, ogni colore, ogni forma, sia in virtù delle sue energie precostituite sia in virtù di un lungo processo associativo, evoca emozioni indefinibili e tuttavia precise, o meglio che cosi preferisco pensare -, evoca e fa scendere in mezzo a noi certe potenze incorporee, i cui passi sui nostri cuori chiamiamo 1 Yeats sente la civiltà industriale come estranea e nemica, cosa che si spiega benissimo se si pensa che egli prende come punto di riferimento la società irlandese, caratterizzata dalla quasi totale assenza di industrie, di classe imprenditoriale e di ceto medio, dalla scarsa urbanizzazione, e dal gran numero di case contadine isolate. Per Yeats contano quasi esclusivamente due mondi: quello rurale - ora vagheggiato arcadicamente, ora incarnato dalla vitalità sanguigna di personaggi come Crazy Jane con le sue credenze nel regno invisibile delle fate e degli spiriti, e degli eroi delle antiche leggende; e quello delle grandi casate dei proprietari terrieri, sede di nobili virtù, ultimo baluardo di una civiltà eroica e cortese i cui uomini d'azione erano anche uomini di cultura. Questa mitica Irlanda - che nella mitologia yeatsiana si confonde a volte con l'Urbino del Cortegiano e con il Giappone dei samurai - nutre un'aristocrazia che difende la ceremony. È questa una parola chiave per Yeats, e ha connotazioni mistico magiche, oltre che un significato sociale: la cerimonia, il rito, è un modo di comunicare, di vivere insieme; è espressione di innocenza e bellezza, serenità e pace; spiritualizza il materiale e lo trascende. La crisi della tradizione e delle forme cerimoniali è per Yeats un segno dell'imminente distruzione del mondo. Questo vagheggiamento d'una vita « eroica e semplice » si intrawede già nelle figure dei Magi, che sono contadini, ma con un tocco «di un'epoca più cortese».

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emozioni [...]. Un'emozione non può esistere, o diventare percettibile e attiva in mezzo a noi, finché non abbia trovato un colore un suono o una forma, o un insieme di questi elementi, che la esprimano, e poiché non vi sono due modulazioni o disposizioni di questi elementi che evochino la stessa emozione, i poeti e i pittori e i musicisti, e in misura minore poiché i loro effetti sono momentanei, il giorno e la notte e la nuvola e l'ombra, fanno e disfanno il genere umano in continuazione. E invero soltanto ciò che sembra inutile o molto debole è potente, e tutto ciò che sembra utile o forte, eserciti, macchine, stili architettonici, forme di governo, speculazioni filosofiche, sarebbe stato un po' diverso se qualche mente molto tempo fa non si fosse abbandonata a qualche emozione, come una donna si abbandona al suo amante, e non avesse plasmato in un tutto armonico suoni o colori o forme, o tutti questi elementi insieme, affinché l'emozione da essi suscitata potesse continuare a vivere in altre menti. Una piccola lirica evoca un'emozione, e quest'emozione ne raccoglie altre intorno a sé e con esse si fonde andando a formare una grande epica; e infine, diventando sempre più potente, e abbisognando di un corpo sempre meno delicato, straripa, con tutto quanto ha raccolto, tra i ciechi istinti della vita quotidiana, dove esercita una forza dentro altre forze, come gli anelli che si vedono uno dentro l'altro nel ceppo di un vecchio albero. Forse era questo che intendeva Arthur O'Shaughnessy quando faceva dire ai suoi poeti di aver costruito Ninive con i loro sospiri; e io quando sento parlare di una guerra, di una fiammata religiosa, di un nuovo prodotto, o di qualsiasi altra cosa riempa l'orecchio del mondo, mi domando se la sua causa non stia nel suono del flauto di un ragazzo tessalo. Ricordo che una volta dissi a una veggente di domandare a uno degli dèi che - credeva - stavano intorno a lei nei loro corpi simbolici quali sarebbero stati gli effetti di un'opera deliziosa ma apparentemente futile di un amico, e che quella forma rispose: «Popoli saranno distrutti e città schiacciate» '.

1 Cito da The Symbolism of Poetry (1900). Per le emozioni o umori (moods) cfr. ELLMANN, The Identity of Yeats cit., pp. 56-61. Questa fiducia nel valore attivo dell'arte corrisponde a un'uguale fiducia nella forza occulta che scaturisce dall'inconscio o dal mondo degli spiriti. Si legga questo passo di Magic (1901): «A meno che tutti coloro che hanno descritto fatti del genere [cioè eventi magici o paranormali] non abbiano sognato, dovremmo riscrivere la storia, perché ogni uomo, certamente ogni uomo dotato di fantasia, trasmette continuamente incantesimi, malie, illusioni; e ogni uomo, soprattutto ogni uomo tranquillo e privo di forte


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Una poesia apparentemente innocua potrebbe esser la causa della rovina di una città. La bellezza è pericolosa. Per causa di Elena bruciano le torri di Troia. Questa fascinosa se pur chimerica concezione dell'efficacia attiva dell'arte si ritrova già nei racconti: si veda in particolare l'ultimo paragrafo della terza sezione di Rosa Alchemica e Le tavole della Legge là dove Aherne, presentato come uomo duplice per natura — passivo e attivo, monaco e soldato di ventura -, vien detto incline «a volgere l'azione in sogno, e il sogno in azione». Qui in Yeats la componente simbolista-decadente cede alla forte matrice romantica, all'influsso dell'idealismo almeno intenzionalmente attivo di Blake e Shelley, che appunto vorrebbero trasformare il sogno in realtà. Yeats, cioè, non s'appaga d'esplorare soltanto i mondi della fantasia e del pensiero, non vuol essere soltanto un supersognatore ripiegato su se stesso e intento a delibare i deliziosi veleni distillati dalla civiltà morente; ma, pur rifiutando l'«eresia» dell'arte didattica e difendendo gelosamente la propria torre d'avorio, non ritiene - a differenza degli amici del Rhymers' Club - di dover separare nettamente arte e vita, e crede nell'impulso creativo che «fa e disfà il genere umano e il mondo », e annuncia una nuova civiltà che sta per nascere. (Sono contraddizioni che non sorprendono in uno scrittore il quale teorizza il reale come struttura dialettica di opposti) '. individualità, soggiace continuamente al loro potere. I nostri pensieri più elaborati, le nostre decisioni pM complesse, le nostre emozioni più precise spesso, secondo me, non sono veramente nostre, ma sono all'improvviso, scese, per così dire, dal Cielo o salite dall'Inferno. Lo storico dovrebbe, perché no?, ricordare angeli e diavoli non meno di re e soldati, cospiratori e prosatori. Cosa importa che angeli o diavoli, come invero credevano certi vecchi scrittori, assumano in primo luogo una forma organica nella fantasia di qualche uomo? Cosa importa che Dio stesso agisca o sia solamente negli esseri esistenti o negli uomini, come credeva Blake? Dobbiamo nondimeno ammettere che esseri invisibili, influenze a largo raggio, forme che avrebbero potuto esser trasmesse attraverso l'aria da un eremita del deserto, aleggiano su camere del consiglio, su studi e su campi di battaglia ». 1 Contraddittoria è anche la concezione che Yeats ha dell'arte. Da una parte vorrebbe un'arte destinata a pochi eletti, come quella auspicata in Speaking to the Psaltery e in Certain Noble Plays of Japan, dall'altra un'arte popolare, come quella dei poeti legati a « The Nation », che « non erano individualisti, non si isolavano, cercavano di parlare al popo-

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Yeats, insomma, esalta il valore attivo e la funzione profetica della sua arte. Ma che cosa profetizza quest'arte? «I tumulti che sono forse le fiamme del Giudizio Universale», per dirla con Aherne. Ed essa stessa, come l'arte teorizzata da Aherne, è stata mandata nel mondo a seminare desideri illimitati e ad accelerare la fine della vecchia civiltà, ormai agonizzante. Il velo del Tempio sta tremando. Yeats riprende da Mallarmé l'immagine apocalittica dello squarciarsi del velo del Tempio (Matteo XXVII 51) per applicarla alla fin de siede; ma, a differenza di Mallarmé e dei decadenti, guarda con intenso desiderio al futuro, e alla palingenesi che seguirà agli eventi violenti che distruggeranno la pace e la prosperità illusorie di un mondo in crisi, in cui «ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori | sono pieni di appassionata intensità». La nuova era, secondo l'annuncio dei Magi del terzo racconto e della poesia The Magi, vedrà il ritorno degli Immortali cacciati dal cristianesimo, e sarà segnata da una Natività inquietante, bestiale. La mitologia usata da Yeats per illustrare il nuovo ciclo storico è, in parte, ancora quella cristiana, ma capovolta: la Vergine è diventata un'antivergine, l'Incarnazione trova riscontro nella violenta sensualità del mito di Leda e il cigno, il Secondo Avvento non è quello di un Dio d'amore ma quello d'un informe animale che attraversa lentamente il deserto e si avvicina a Betlemme per nascere. Il frutto della nuolo con la voce del popolo ». I tre racconti qui pubblicati sono naturalmente un esempio.d'arte elitaria; e dopo il successo di The Secret Rose Yeats scriveva a O'Leary, il 30 maggio 1897: «È ad ogni buon conto un onesto tentativo nella direzione di un'arte irlandese aristocratica ed esoterica. Questa è stata la mia massima ambizione. Abbiamo una letteratura per il popolo ma ancora nulla per i pochi ». Però i Magi dell'Adorazione, contadini che leggono i classici latini e raccolgono intorno a sé bardi e menestrelli, rappresentano il desiderio di sanare tale contraddizione. Contraddizione storicamente insanabile. Ma Yeats mitizza, e si crea l'immagine di un ideale popolo irlandese senza classi e tutto raccolto attorno al patrimonio delle leggende e degli antichi miti: «La nostra mitologia e le nostre leggende sono molto diverse da quelli degli altri paesi europei perché sino alla fine del xvn secolo furono conosciute, e forse ciecamente credute, sia dai contadini che dai nobili; Omero appartiene ai sedentari, mentre ancor oggi le nostre antiche regine, i nostri soldati e amanti medievali possono far venire i brividi a un venditore ambulante ». 2


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va Betlemme - immagine emergente dalla Grande Memoria appare come una rough beast, una specie di sfinge dal corpo di leone e dalla testa d'uomo, lo sguardo vuoto e spietato come il sole. Questa apocalittica bestia è il punto d'arrivo dell'evoluzione di un simbolo ': quello dell'unicorno dell'Adorazione dei Magi generato dalla Vergine-Prostituta. Il significato dell'unicorno, piuttosto sibillino nel racconto, viene chiarito dal dramma Where There Is Nothing (1902), poi riscritto e pubblicato con il titolo di The Unicorn front the Stars. Il protagonista, un visionario irlandese di nobile famiglia che vuol sovvertire l'ordine costituito («Voglio abbattere tutto questo, come lo chiamate?, questa cosa, l'edificio del mondo, infilare un palanchino sotto la porta e agganciare le torri con un raffio e sradicare tutto»), si associa prima a un gruppo di zingari; poi, entrato in convento, predica una nuova religione, esortando a eliminare le leggi, la società civile, la Chiesa. Come Aherne, non riconosce alcuna validità alle forme storiche della morale e della legge; e, come sembra accada a Robartes, verrà ucciso da una folla superstiziosa. In Where There Is Nothing, appunto, il protagonista parla dell'animale mitico che distruggerà il mondo (« Oh!, è una bestia selvaggia e spaventevolissima, con denti di ferro e artigli di bronzo che possono sradicare guglie e torri»), associandolo al riso inteso come forza disgregatrice: «La mia bestia selvaggia è il Riso, il più potente dei nemici di Dio». Il concetto di gioia tragica - chiaramente di derivazione nietzschiana - verrà poi spesso ripreso da Yeats: basti pensare a poesie come Lapis Lazuli e The Gyres. La «bestia selvaggia dalle ali di bronzo» ha occhi «duri freddi e azzurri», e corrisponde all'unicorno dell'Adorazione dei Magi, descritto come «freddo duro e virginale». Nel quarto atto di Where There Is Nothing, d'altronde, la bestia alata diventa - i simboli in Yeats sono spesso instabili - proprio un unicorno. Paul Ruttledge, fattosi monaco, sogna: [...] e vidi molti angeli cavalcare su degli unicorni, angeli bianchi su unicorni bianchi. Stavano tutt'intorno a me, e gridavano, 1

Per un'analisi approfondita di questo e altri simboli yeatsiani si veda GIORGIO MELCHIORI, The Whole Mystery of Art, Routledge and Kegan Paul, London i960. Per l'origine visuale e le associazioni magiche dell'immagine dell'unicorno si vedano in particolare le pp. 44-55.

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«Fratello Paul, va' e predica; alzati e predica, Fratello Paul». E poi risero forte, e gli zoccoli degli unicorni calpestarono il suolo e fu come se il mondo stesse già cadendo a pezzi. L'uso dell'immagine dell'unicorno viene cosi chiarito da Giorgio Melchiori: [Yeats] voleva rappresentare la nuova forza distruttiva e liberatrice in forma animale per sottolineare il fatto che un cambiamento universale di tale portata poteva essere prodotto soltanto dall'unione della forza d'urto della Divinità e della mera animalità, del sovrumano e del bestiale allo stesso tempo. Un animale irreale tratto dal favoloso bestiario medievale sarebbe quindi servito al suo scopo: l'unicorno, inoltre, aveva il vantaggio di essere familiare al suo pubblico, che avrebbe afferrato la qualità soprannaturale e selvaggia del simbolo. L'unicorno ha anche una certa nobiltà e spiritualità, che gli deriva dall'essere tradizionalmente associato all'idea della castità; e per mettere in evidenza l'elemento spirituale Yeats fece parlare il suo eroe di angeli che cavalcavano unicorni. L'unione di divinità e animalità trova la sua espressione più compiuta nel mito di Leda. Il cigno che le fa violenza è insieme manifestazione della forza bruta dell'istinto animale e della numinosa potenza di Zeus. Il rapporto di Leda con Zeus come quello della regina con l'unicorno in The Player Queen - è il punto d'incontro del tempo con l'eternità: in quell'attimo «lo stallone dell'Eternità monta la cavalla del tempo ». Come Leda, anche la prostituta dell'Adorazione dei Magi « è stata sottratta al tempo e ha giaciuto sul seno dell'Eternità»; come Leda ha ricevuto una Annunciazione che segna l'inizio di un nuovo ciclo di civiltà. Da un uovo di Leda, secondo una versione del mito, nacque Elena, causa della distruzione di Troia, rievocata nel sonetto Leda and the Swan: «Un brivido nei lombi vi genera | Il muro infranto, il tetto e la torre incendiati | E Agamennone morto». Anche nei.'Adorazione dei Magi il nome di Leda richiama immediatamente la caduta di Troia. Troia, consumata dal fuoco, è l'emblema della morte d'una vecchia civiltà; e la prostituta dell'Adorazione dei Magi è anche un'Elena di Troia, un'incarnazione dell'arte decadente che vorrebbe essere eversiva e incendiaria, minare la civiltà borghese e veder crollare il vecchio


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mondo '. L'Elena-prostituta2 è certamente nella tradizione delle belles dames sans merci e delle femmes fatales, come l'Elena Ennoia della Tentation de Saint Antoine, o l'Elena dell'omonimo dipinto di Gustave Moreau esposto al Salon del 1880, o la prostituta di The New Helen di Oscar Wilde, o la misteriosa Gioconda di Pater, o le Erodiadi, le Salomè, le Cleopatre, o le lussuriose di Swinburne, e via elencando; ma la variazione sul tema che Yeats ci presenta è una tessera ben collocata nel mosaico del suo sistema: la sua Elena diventa simbolo di amore e guerra, amore e morte, distruzione e creazione, e della tensione dei contrari da cui scaturisce l'energia che muove il mondo. Soprattutto neh"'Adorazione dei Magi il sistema yeatsiano è già visibile in certe sue linee essenziali, grazie alle aggiunte interpolate dall'autore a distanza di quasi trent'anni dalla prima edizione. Originariamente il racconto era stato scritto per «The Savoy», dove nell'aprile e nel novembre del 1896 erano stati pubblicati rispettivamente Rosa Alchemica e Le tavole della Legge; ma la rivista di Arthur Symons cessò le pubblicazioni prima che anche l'ultimo racconto potesse essere pubblicato. Comparve insieme alle Tavole della Legge nel 1897 in edizione privata di no copie stampata da Bullen (Rosa Alchemica andò invece in The Secret Rose, 1897), e poi di nuovo, con lievi ritocchi, nel 1902, 1904, 1908 e 1914. Ma le varianti significative, come l'introduzione del simbolo dell'unicorno e l'accenno a Leda, sono del 1925 3. 1 Nel'Adorazione dei Magi uno dei vecchi s'addormenta leggendo la quinta egloga di Virgilio. La quarta egloga, spesso considerata profetica per l'annuncio d'una nascita che segnerà l'inizio di una nuova era, fa specifico riferimento a Troia: «Alter erit tum Tiphys, et altera quae vehat Argo | Delectos heroas: erunt etiam altera bella: ] Atque iterum ad Trojam magnus mittetur Achilles». Nella prima edizione in volume de L'adorazione dei Magi c'era una frase che traduceva quasi esattamente questi versi: «Dopo che vi sarete inchinati le cose antiche saranno nuovamente, e un'altra Argo porterà altri eroi oltre il mare, e un altro Achille cingerà d'assedio un'altra Troia-». 2 Quello della prostituta è uno dei diversi topoi decadenti che Yeats rielabora. Sulla prostituta e il decadentismo si veda ARNOLD MAUSER, Storia sociale dell'arte, Einaudi, Torino 1956, p. 414. Per le belles dames sans merci, MARIO PRAZ, La carne, la morte e il diavolo, Einaudi, Torino 1942; e MANCARLO MARMORI, Le vergini funeste, Sugar, Milano 1966. 3 Nelle intenzioni di Yeats i racconti avrebbero dovuto essere riscrit-

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Il 1925 è anche l'anno della prima edizione di A Vision. Gli insegnamenti di Robartes - comparso precedentemente un'altra volta in The Doublé Vision of Michael Robartes ( 1919) ' e in Michael Robartes and the Dancer, poesia che dà il titolo all'omonima raccolta del 1919, e in cui un ironico RobartesYeats contesta l'educazione impartita alle fanciulle, e valorizza con l'elogio di Giorgione e della pittura veneta cinquecentesca corporeità e sensualità: non son più i tempi delle spirituali madonne, delle vergini preraffaellite, dei visi angelici che adornano la casa del narratore di Rosa Alchemica e quella di Aherne - sono ormai stati sistematizzati, e costituiscono un'organica e complessa dottrina. Ma l'ultima grande arte yeatsiana è spesso colorata d'autoironia, necessario correttivo dell'enigmatica dogmaticità del sistema: cosi Robartes nelle Storie di Michael Robartes e dei suoi amici2 è ancora una volta maestro d'arcana sapienza, scopritore di un immaginario libro di Giraldus, lo Speculum Angelorum et Hominum, e depositario delle dottrine della tribù araba degli Judwali; ma nella prospettiva parodica delle Storie è diventato un finto arabo amico di Lawrence d'Arabia, una specie d'avventuriero. Le Storie sono in parte un rifacimento in chiave comica o grottesca - e Yeats ne approfitta per rifare il verso alla «volgarità» di certo realismo e di certo fumettismo romanzesco - dei racconti di circa trent'anni prima. Molte situazioni si ripetono. La fuga del narratore di Rosa Alchemica trova riscontro in quella di O'Leary che, dopo aver scagliato le scarpe contro due attori colpevoli di naturalismo da «bottegai», scappa scalzo da teatro. Aherne, mandato da Robartes che ha visto tutto in sogno - «Aherne è un cattolico molto devoto, tutto questo gli sembra pagano o qualcosa del genere e lo ha in odio, ma deve fare tutto quello che gli dice Robartes, ha sempre dovuto farlo, sin da bambiti e resi ancor pili aderenti al sistema. Cfr. w. B. YEATS. Memoirs, a cura di Denis Donoghue, Macmillan, London 1972, pp. 138 e 147. 1 II lettore italiano potrà leggere questa ed altre tra le pili significative poesie yeatsiane in n>., Quaranta Poesie, a cura di Giorgio Melchior!, Einaudi, Torino 1965; oppure in ID., Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Mondadori, Milano 1974. 2 Le storie di Michael Robartes e dei suoi amici: estratto di una documentazione preparata dai suoi allievi sono premesse ad A Vision. Le citazioni nel testo sono tratte dalla traduzione italiana di Adriana Motti (ID., Una Visione, Adelphi, Milano 1973).


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no» —, aspetta O'Leary all'uscita con scarpe e calze pulite, lo fa salire in automobile e lo porta a casa del veggente. E si confronti il drammatico e tenebroso ingresso in scena di Robartes - rossi capelli scomposti, occhi fieri e labbra frementi - in Rosa Alchemica con quello dello stesso Robartes — magro, bruno, muscoloso, perfettamente sbarbato, con lo sguardo vivo e ironico - nelle Storie: «Questo è Michael Robartes», disse Alterne, e tirò fuori da un armadio un piatto di sandwiches, i bicchieri e una bottiglia di champagne, mise tutto su un tavolinetto e prese le sedie per sé e per Robartes. Ritroviamo nelle Storie un altro libro sacro e occulto, ma non più custodito nel prezioso cofanetto bronzeo del Cellini: si tratta di un vecchio libro con molte pagine strappate, usato per puntellare un letto traballante. Dell'idealismo alla Villiers è rimasta un'eco dissacrante nel nome di Denise de l'Isle Adam, modella e professionista dell'amore, che ha letto Axél e lo commenta ironicamente: Ero a letto e leggevo Axél [...]. Voltavo le pagine dell'atto in cui gli amanti sono nel sotterraneo del castello. Axel e Sara decidono di morire, piuttosto che possedersi [...]. Mi stavo domandando perché avessero fatto una cosi assurda [...]. Si potrebbe continuare nell'illustrazione di simili parallelismi; ma qui interessa soprattutto, per il suo valore di prospettiva autocritica, la conclusione delle Storie, in forma d'una lettera di John Aherne, fratello di Owen, indirizzata a Yeats: Lei mi domanda se Robartes e mio fratello sono ancora seccati per quella vecchia lite, e in che cosa consiste, esattamente, la ragione di tale lite. Ecco quanto sono venuto a sapere dopo aver interrogato varie persone. Una trentina di anni fa lei ha scritto Rosa Alchemica, Le tavole della Legge e L'adorazione dei Magi prendendo lo spunto da «un piccolo incidente». Robartes, allora giovanotto, aveva fondato una società, con l'aiuto riluttante di mio fratello Owen, per lo studio della Kabbala Denudata e altri libri del genere, aveva inventato non so che rituale e preso in affitto una vecchia rimessa sullo Howth Pier per le loro riunioni. Tra i grossisti di aringhe o di sgombri si sparse una sciocca diceria, e alcune ragazze (di Glasgow, dice mio fratello, perché provengono da tutte le parti) ruppero la finestra.

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Da quest'episodio lei tirò fuori l'assassinio di Robartes e dei suoi amici e descrisse una specie di orgia in onore degli dèi pagani, benché mio fratello includesse Cristo nel suo rituale. Mio fratello è molto risentito per questo particolare degli dèi pagani, ma secondo Robartes lo è perché vuole dimostrare di essere ortodosso. Robartes non si lamenta che lei abbia descritto in quel modo la sua morte, e sostiene che se Owen non avesse fatto tanto scalpore, nessuno avrebbe pensato che l'Aherne e il Robartes di quelle storie fantastiche fossero persone reali. Però (e questo lo confermo per cognizione personale) è risentito per lo stile di quei racconti e sostiene che lei ha sostituito il suono al significato e l'ornamento al pensiero. Quanto accadde subito prima che lui si separasse dall'Europa non può non spiccare con innaturale chiarezza. Scrissi una volta per fare le mie rimostranze. Dissi che quei racconti lei li aveva scritti con lo stile comune a quel tempo a molti buoni scrittori di mezza Europa, che quella prosa equivaleva a ciò che alcuni avevano definito «poesia assoluta» e altri «poesia pura»; che, sebbene essa mancasse di speditezza e varietà, le avrebbe acquistate entrambe, come la prosa elisabettiana dopo l'Arcadia, non fosse per la generale acquiescenza al sensazionale e all'attualità; che il romanzesco, ricacciato sull'ultima sua trincea, aveva un certo diritto alla spavalderia. Lui rispose che quando la candela è consumata, un uomo onesto non finge che la cera sia fiamma. Ma noi, oggi, come giudicheremo questi racconti? Certo, il filtro di un ironico distacco critico, che lo stesso Yeats ci suggerisce di usare, è indispensabile. Ma se ci parranno eccessive le lodi di un George Russel - «Ogni cosa in Rosa Alchemica, e parole e pensieri, sono di tale ricchezza da sembrare un'assemblea nel tempio della mente di migliaia di raggi pellegrini che tornano a deporvi le loro molte esperienze. Un libro sostenuto tutto a quel livello sarebbe una delle cose più grandi della letteratura» - dovremo pur convenire con lui sulla qualità letteraria di questo wonderful piece of prose; e condividere l'ammirazione del giovane Joyce per Le tavole della Legge e L'adorazione dei Magi. I racconti, come si è visto, si nutrono d'umori simbolisti e decadenti, e sono un tipico prodotto della fin de siede, per quel loro giocare con estasi cristiane e peccaminose devozioni alla bellezza pagana, con arte e magia, con vaghe penombre e fumi d'incenso, cappelle goticheggianti e stanze nascoste da


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arazzi pieni del blu e del bronzo dei pavoni '; e per lo stile suggestivo ed evasivo che preferisce i simboli ai personaggi, le allegorie ai fatti, i segreti sussurrati alle cose dette a voce chiara. E però quelle linfe estetizzanti Yeats le distilla sapientemente, ricavandone una raffinata quintessenza; e le passa attraverso il filtro della serietà pateriana - Pater compone, per dirla con il Praz, «la tendenza decadente nelle linee d'un classicismo ascetico » —, e del gusto preraffaellita, più schivo e pudico, d'una sensualità più esangue e repressa. Cosi quelle ombre scarlatte danzanti e guizzanti come fiamme tra aromatici fumi sono si espressione d'un satanismo decadente, ma corretto e schiarito con la pallida spiritualità preraffaellita. Cosi la stanza del narratore di Rosa Alchemica può ricordare la casa di Des Esseintes, ma quanto è più sobria; e i piaceri che egli prova non lo rendono schiavo: specchio di levigato acciaio - è l'ideale yeatsiano della coldness, del freddo e lucido distacco, riassunto in forma epigrafica negli ultimi tre versi di Under Ben Bulben — egli vuole conoscere le passioni umane senza gustarne l'amarezza e senza nausearsene, senza eccessi alla Lionel Johnson o alla Oscar Wilde. Yeats segue l'insegnamento di Pater che affermava si l'opposizione tra la morale dell'artista e quella dell'uomo comune, ma raccomandava una vita temperata. Nulla di compiacentemente corrotto, dunque, né voluttà a lungo assaporate, né male e dolore succhiati come assenzio per stimolare il senso estetico, né piaceri e supplizi, né ferite come rose rosse, né dérèglement de tous les sens; gemme e profumi si, ma con parsimonia, qualche tremito d'anime e fremito di corpi, ma in complesso una gran cautela nel trattare dell'amore e del sesso: si veda la danza di Rosa Alchemica, cui partecipa Eros, ma un Eros dal volto velato, come velato è il significato erotico della danza stessa. (Non cosi nell'opera dello Yeats maturo dove l'unione carnale sarà spesso simbolo dell'Unità dell'Essere). 1

II pavone ricorre spesso nell'iconografia dell'arte estetizzante. Probabilmente Yeats pensava alla Camera del Pavone che James McNeill Whistler realizzò nel 1876-77 per F. R. Leyland. La sala, smantellata nel 1904, si trova ora a Washington (Freer Gallery of Art). U Armonia in Blu e Oro di Whistler è però solo uno dei possibili esempi dell'ampio uso del motivo ornamentale del pavone, derivato dall'arte orientale, molto conosciuta e diffusa in Inghilterra soprattutto a partire dagli anni settanta del secolo scorso.

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Allo stesso modo lo stile dei racconti cerca di evitare gli eccessi: la prosa, pur seguendo cadenze lunghe e modulate per coordinate, pur costruita secondo una sintassi bilanciata e complessa che guarda, attraverso Pater, al Rinascimento e ai classici latini, cerca il nitore e rifugge le sbavature, e si studia di non cadere, per quanto possibile in quell'artificioso contesto, nell'eccessivo gonfiore retorico '. Yeats padroneggia il suo stile con un sicuro senso della misura espressiva e formale che dà ai tre racconti una qualità di prezioso cammeo, di miniatura simbolista; e se lo riconosce congeniale, tanto da rimpiangere, nel passo delle Storie di Michael Rohartes e dei suoi amici citato sopra, che l'avversa congiuntura storico-letteraria gli abbia impedito di svilupparsi e perfezionarsi come avrebbe potuto. Quanto alla profezia, non si sarebbe mai avverata. Il nuovo millennio di artefici, nobili, e santi non sarebbe mai giunto. L'apocalisse si, e la violenza e la guerra quasi invocate; ma la violenza e la barbarie nazifasciste, e gli orrori della seconda guerra mondiale, da cui non sarebbe scaturita nessuna rigenerazione. C'è, in A General Introduction for My Work (1937), un'immagine lancinante. Yeats, ormai più che settantenne e vicino alla morte, polemizza con i giovani poeti inglesi che rifiutano sogno ed emozioni personali, si legano ai partiti politici, vogliono esprimere fabbrica e metropoli, usano una psicologia complicata e «difendono il loro tipo di metafora dicendo che è quello che viene più naturale all'uomo che va a lavorare in metropolitana». Yeats riconosce loro il diritto «di scegliere l'uomo che usa la metropolitana perché è oggettivamente importante»; ma lui è sempre legato alle sue visioni oniriche, vuole esprimere ciò che le Upanishad chiamano «il Sé antico», e attende ancora: Io rimango attaccato alla tradizione irlandese e aspetto un Antirinascimento [...]. A Vision mi ha abituato a vedere gli schemi geometrici secondo cui si muove la storia. Le mie convinzioni hanno radici profonde e non si adeguano alle consue1 Si legga questo significativo giudizio di Yeats su Oscar Wilde, tratto dall''Autobiography: «Egli, come tutti noi, aveva imparato da Pater, ma in lui la cadenza era diventata troppo elaborata e rigonfia, e lo stile mancava un po' d'esattezza».


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tudini. Quando mi fermo al crepuscolo sul ponte O'Connell e osservo quell'architettura senz'armonia e tutte quelle insegne luminose che danno forma fisica all'eterogeneità contemporanea, un odio indefinito sale su dal buio che ho dentro, e sono sicuro che dovunque in Europa vi siano delle menti abbastanza forti da guidare le altre sta nascendo lo stesso odio indefinito; tra quattro o cinque generazioni, o fors'anche prima, quest'odio esploderà violentemente, e imporrà, per mezzo di quegli spiriti fratelli, il suo dominio. Non so che natura avrà quel dominio perché oggi siamo sotto quello opposto; tutto quello che posso fare per affrettarne l'avvento è odiare con più forza. Il vecchio poeta al crepuscolo rifiuta la realtà contemporanea, spera nelle strong minds - l'ideologia della mente forte confina però pericolosamente con quella dell'uomo forte ' - che imporranno il suo Antirinascimento, di cui ha semplicemente ritardato l'avvento di qualche generazione; e non sa che di li a 1 La fiducia nella «distruzione che vivifica», nel «terrore che deve sopraggiungere», nella funzione positiva della guerra («Amate la guerra per il suo orrore, cosi che la fede possa mutarsi, la civiltà possa rinnovarsi», scrive un personaggio delle Storie di Michael Robartes) è pericolosa e politicamente ambigua. È nota d'altronde l'ambiguità della posizione politica di Yeats, la sua vicinanza agli elementi più conservatori del Senato irlandese, e la sua, seppur solo temporanea, simpatia per il fascismo e le Camicie Blu irlandesi. Molti hanno evitato di dare un giudizio preciso sulla politica yeatsiana, suggerendo che le sue simpatie per il totalitarismo erano frutto di scarsa informazione, fantasie di un idealista. L'anno della morte di Yeats, Auden (il saggio di Auden, come quelli di Orwell e O'Brien, sta in W. B. Yeats, a cura di William H. Pritchard, Penguin, Hardmondsworth 1972) gli intenta, senza pronunciarsi, una specie di processo sulla « Partisan Review », in forma di saggio diviso in due parti: argomenti della pubblica accusa, e argomenti della difesa. Orwell, nel 1943, si pronuncia in complesso a favore di Yeats. Per Orwell, Yeats è tendenzialmente fascista, e tuttavia a) vede la vera natura del fascismo che è ingiustizia b) distrugge le illusioni del liberalismo e) si inganna perché non ha capito come sarebbe in realtà una società retta dal totalitarismo e dall'autoritarismo. Più recentemente Connor Cruise O'Brien ha contestato ogni atteggiamento assolutorio, che presupporrebbe un'eccessiva ingenuità e innocenza da parte di Yeats. O'Brien sostiene che Yeats condivideva le opinioni del ceto medio protestante cui apparteneva, opinioni espresse dall'«Irish Times» che nel 1933 aveva salutato Hitler come «vessillifero dell'Europa contro il terrorismo moscovita»; e cita un passo tratto da On the Boiler per dimostrare errata l'opinione di chi ritiene che nulla fosse più alieno alla mentalità di Yeats della violenza fascista.

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poco la Bestia infunerà e divamperà il fuoco, ma senza che da macerie e ceneri rinasca poi una nuova età dell'oro. «Le mezze luci che si muovono fioche di simbolo in simbolo e portano ai confini del mondo» possono condurre fuori strada. I simboli possono tradire. Nel 1918 Yeats fece eseguire a Sturge Moore un exlibris rappresentante un unicorno che balza fuori da una torre che, colpita dal fulmine, sta crollando. Dalla vecchia civiltà, distrutta in un lampo, scaturisce, violenta e gioiosa, la forza che fonderà la nuova. Questa l'interpretazione da dare all'emblema, almeno secondo Yeats. Ma forse, involontariamente, l'emblema sta ora a significare ben altro: la morte dell'arte, il crollo della torre del mago-artista, le macerie di cui è disseminata la strada della storia. L'unicorno non ha obbedito ai nomi magici. L'unicorno è in fuga. E Yeats lo sa. Nella complessa ambiguità della sua arte, soprattutto matura - e questo contribuisce a farla grande - c'è posto tanto per l'ostinata fede millenaristica quanto per la coscienza che i simboli non sono strumenti profetici ma forme, e il sistema di A Vision non è la chiave della storia universale ma soltanto una «sistemazione stilistica dell'esperienza». «Quelle immagini dominatrici in quanto complete | crebbero in puro spirito, ma donde trassero origine? », si domanda Yeats in The Circus Animals' Desertion, dove i simboli che hanno alimentato la sua fantasia sono significativamente paragonati ad animali da circo ormai fuggiti. La risposta è che provengono da un mucchio di rifiuti o dalla spazzatura di una strada, dalla « sudicia bottega di rigattiere del cuore». E se anche la Grande Memoria fosse una bottega di rigattiere, con i cui rottami e cianfrusaglie l'artista si costruisce un macchinoso giocattolo, un castello di carte, un incompleto mazzo di tarocchi, un meraviglioso quanto ingannevole palazzo degli specchi? In ogni caso quel bric-à-brac fantastico non avrebbe soltanto valore d'antiquariato, perché con esso Yeats gioca una partita che tutti ci coinvolge cercando di creare schemi, modelli, strutture che diano forma all'esperienza e senso alla storia. Se, poi, la partita è perduta, essa brilla, almeno, della tragica e istruttiva luce del fallimento che illumina il vagare dell'artista nell'elaborato labirinto di simboli e miti che si è costruito nell'illusione di uscire fuori, e di collocarsi al di sopra, della storia. RENATO OLIVA


Nota bio-bibliografica

William Butler Yeats nacque il 13 giugno 1865 a Dublino, da John Butler Yeats, pittore, e Susan Pollexfen Yeats. La famiglia si trasferi a Londra due anni dopo, ma Yeats trascorreva regolarmente lunghi periodi di vacanza in Irlanda, a Sligo, pressò i nonni materni. Avviato alla lettura e alla letteratura dal padre, studiò prima a Londra, poi a Dublino. Nel 1883 optò per gli studi artistici entrando alla School of Art di Dublino. Qui conobbe AE (George William Russel) e insieme a lui incominciò a interessarsi di misticismo e occultismo. Nel 1885 fondò la Dublin Hermetic Society; nel 1887 aderì alla Theosophical Society di Madame Blavatsky; nel 1890 fu ammesso all'Order of the Golden Dawn. L'interesse per l'occulto resterà sempre una componente fondamentale dell'opera yeatsiana, dando luogo non soltanto a scritti specifici - da Magic a Swedenborg, Mediums, and the Desolate Places, da Per Amica Silentia Lunae ad A Vision -, ma soprattutto aprendo a Yeats un inesausto serbatoio di immagini e simboli. Nel 1889 conobbe a Londra, tra gli altri, William Morris e Oscar Wilde. Nello stesso anno apparve la sua prima raccolta poetica, The Wanderings of Oisin. Due anni dopo fu tra i fondatori del Rhymers' Club. In questo periodo Yeats è sensibilissimo all'influsso estetizzante e decadente: la sua poesia è crepuscolare, piena d'echi, vagamente suggestiva. Frequenta Lionel Johnson ed Ernest Dowson; visita Parigi nel 1894 e nel 1896; conosce la poesia e l'estetica simbolista grazie alla mediazione di Arthur Symons, che abita con lui a Londra nel 1896. Sono stati intanto pubblicati il romanzo John Sherman, The Countess Cathleen and Various Legends and Lyrics - The Countess Cathleen è un dramma in versi scritto per Maud Gonne, attrice e patriota nazionalista irlandese, conosciuta nel 1889 da Yeats, che la amò senza essere corrisposto -, The Celtic Twilight. È evidente in questi testi lo studio e il ricupero della tradizione irlandese - miti, leggende, racconti popolari -, anch'essa fonte continua di ispirazione poetica. Stimolato da amici quali il feniano John O'Leary e Maud Gonne, Yeats ebbe anche contatti con i gruppi nazionalisti e rivoluzionari; ma la sua attività fu sempre più culturale che politica. Nel 1902 diventò presidente dell'Irish National Theatre Society, e nel 1906 direttore dell'Abbey Theatre (nello stesso anno furono pubblicati i Poems 18951905). Il dramma di Yeats che ebbe maggior successo, Cathleen ni Houlihan, è di questo periodo, e venne rappresentato all'Àbbey Theatre nel 1902. Yeats continuerà a scrivere teatro fino alla fine dei suoi anni, muovendosi verso un tipo di dramma simbolico e stilizzato, in cui è spesso visibile l'influsso dei Noh giapponesi.


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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

In campo poetico le raccolte Responsabilities (1914) e The Wild Swans at Coole (1919) segnano una svolta: la poesia yeatsiana si fa pili nitida, essenziale, personale. Alla sua maturazione dà un importante contributo Ezra Pound, conosciuto da Yeats nel 1908. Comincia la grande stagione che darà tra i suoi frutti pili significativi Michael Robartes and the Dancer (1921), The Tower (1928), The Winding Stair (1933), e i Last Poems, usciti postumi nel 1939. Nel 1916 - l'anno dell'insurrezione di Pasqua, celebrata nella poesia Easter 1916 - Yeats propose nuovamente a Maud Gonne - ora vedova del maggiore John MacBride, giustiziato dagli inglesi - di sposarlo. La proposta fu accolta con un rifiuto; Yeats ripetè l'offerta a Iseult, figlia adottiva di Maud; anche in questo caso la risposta fu negativa, e Yeats, nel 1917, sposò Geòrgie Hyde-Lees, che scopri subito esser dotata di facoltà medianiche. Nel 1920 tenne una serie di conferenze negli Stati Uniti, che aveva già visitato due volte. Nel 1922 fu eletto membro del Senato irlandese. Nel 1923 gli venne conferito il premio Nobel. Nel 1925 apparve la prima edizione di A Vision. Nonostante la salute cagionevole - nel 1928 passò un periodo di convalescenza a Rapallo: e in Italia soggiornò più volte - continuò a lavorare intensamente. Oltre alla già citata attività poetica sono da ricordare i testi teatrali (A Full Moon in March, I 935> The Herne's Egg, 1939; Purgatory, 1939), un'antologia {Oxford Book of Modem Verse, 1936), la traduzione delle Upanisad, le prose di On the Boiler ( 1939). Mori a Roquebrune, nella Francia meridionale, il 28 gennaio 1939. R. O.


I.

Son passati più di dieci anni dal giorno in cui vidi, per l'ultima volta, Michael Robartes, e per la prima volta i suoi amici e condiscepoli; e fui testimone della sua e della loro tragica fine, e passai attraverso strane esperienze che mi hanno cambiato a tal punto che i miei scritti si sono fatti più oscuri e piacciono di meno; e forse sarò costretto a indossare la tonaca e a cercar rifugio nell'ordine di San Domenico. Avevd appena pubblicato Rosa Alchemica, un'opericciuola sugli Alchimisti, alla maniera di Sir Thomas Browne, e avevo ricevuto molte lettere di fedeli delle scienze occulte, che mi rimproveravano - cosi la definivano — la mia timidezza, non riuscendo a credere che una simpatia tanto palese fosse solo la simpatia dell'artista, che è fatta per metà di pietà, per tutto ciò che in ogni epoca ha fatto battere il cuore dell'uomo. Poco dopo aver iniziato le mie ricerche avevo scoperto che la loro dottrina non era solo una chimerica fantasia chimica, ma una filosofia che applicavano al mondo, agli elementi e all'uomo stesso; e che il loro tentativo di ricavare l'oro dai metalli vili non era che parte della trasformazione universale di tutte le cose in una sostanza divina e imperitura; e ciò mi aveva consentito di fare del mio libriccino una sognante fantasticheria sulla trasmutazione della vita in arte, e un grido di immenso desiderio per un mondo fatto interamente d'essenze. i


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Me ne stavo seduto a fantasticare su quanto avevo scritto, a casa mia, in uno dei vecchi quartieri di Dublino; una casa che i miei antenati avevano reso quasi celebre grazie alla loro partecipazione alla vita politica della città e all'amicizia che li legava alle celebrità della loro generazione; e mi sentivo insolitamente felice per aver finalmente realizzato un progetto a lungo accarezzato, e trasformato le mie stanze in un'espressione della dottrina da me prediletta. I ritratti, che avevano piti valore storico che artistico, erano scomparsi; e arazzi, pieni del blu e del bronzo dei pavoni, ricadevano a coprire le porte, e chiudevano fuori tutto quanto, nella storia come nell'agire umano, non avesse il segno della bellezza e della serenità; ed ora, guardando il mio Crivelli e soffermandomi sulla rosa in mano alla Vergine, la cui forma era cosi delicata e precisa da sembrar più un pensiero che non un fiore, o il mio Piero della Francesca, cosi pieno di spirituale stupore, provavo un'estasi cristiana ma senz'essere schiavo, come il cristiano, di legge e consuetudine. Soffermandomi sulle antiche divinità bronzee, dèi e dee, che avevo acquistato ipotecando la mia casa, provavo tutto il godimento d'un pagano per ogni varietà di bellezza, ma senza le paure del pagano, terrorizzato da un destino insonne e affaccendato in gravosi sacrifici; e mi bastava accostarmi alla mia libreria, con i suoi libri tutti rilegati in pelle, ornati da fregi complicati, e dai colori accuratamente scelti: Shakespeare rilegato nell'arancione della magnificenza mondana, Dante nel rosso cupo della sua ira, Milton nel grigiazzurro della sua compostezza formale; per conoscere delle passioni umane quanto desideravo conoscere senza gustarne l'amarezza e senza nausearmene. Mi ero circondato di dèi perché non credevo in alcun dio, e sperimentavo

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ogni piacere perché non mi davo a piacere alcuno, ma mi tenevo in disparte, individuo, indissolubile, specchio di levigato acciaio. Guardavo nel trionfo di tali fantasie gli uccelli di Era, scintillanti nella luce del fuoco come mosaici bizantini; e il mio pensiero, per cui il simbolismo era una necessità, ne faceva i guardiani messi a custodia delle porte del mio mondo, che impedivano l'ingresso a tutto ciò che non fosse, come loro, fiorente di bellezza; e per un attimo pensai, come avevo già pensato tante altre volte, che fosse possibile spogliare la vita di ogni amarezza all'infuori dell'amarezza della morte; e allora un pensiero che sempre e ogni volta succedeva a quell'altro pensiero mi riempi d'un dolore appassionato. Tutte quelle forme: quella Madonna con la sua meditabonda purezza, quegli spirituali volti felici nella luce del mattino, quelle divinità di bronzo colla loro impassibile dignità, quelle figure selvagge che precipitavano di disperazione in disperazione, appartenevano a un mondo divino da cui ero escluso; ed ogni esperienza, per profonda che fosse, ogni percezione, per squisita che fosse, m'avrebbe recato l'amaro sogno di un'energia infinita che non avrei mai potuto conoscere, e anche nel mio momento più perfetto sarei stato diviso, e uno dei miei due Io avrebbe guardato con occhio grave il momento di gioia dell'altro. Avevo ammucchiato intorno a me l'oro nato nei crogiuoli altrui; ma la realizzazione del sogno supremo dell'alchimista, la trasmutazione del cuore stanco in spirito instancabile, era ancora lontana per me, come lo era stata, certamente, per lui. Mi misi al lavoro col mio acquisto più recente, un insieme di apparecchiature alchimistiche che, come mi aveva assicurato il commerciante di Rue Le Peletier, erano appartenute un tempo a Raimondo Lullo, e mentre col-


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legavo l'alambicco all'athanor e collocavo accanto ad essi il lavacrum marìs capii la teoria alchimistica, secondo cui tutti gli esseri, separati dal grande abisso ove vagano gli spiriti, in gran moltitudine pur essendo un unico spirito, sono stanchi; e, nell'orgoglio del mio sapere iniziatico, mi sentii in comunione con gli alchimisti, consumati da una sete di distruzione che li induceva a celare sotto il velame dei simboli del leone e del drago, dell'aquila e del corvo, della rugiada e del nitro, la ricerca di un'essenza che avrebbe dissolto ogni cosa mortale. Mi ripetei la nona chiave di Basilio Valentino, là dove paragona il fuoco del giorno del Giudizio al fuoco dell'alchimista, e il mondo al fornello dell'alchimista, e vorrebbe farci capire che tutto deve dissolversi prima che la sostanza divina, oro materiale o estasi immateriale che sia, si risvegli. Io invero avevo dissolto il mondo mortale e vivevo in mezzo ad essenze immortali, ma non avevo raggiunto nessun'estasi miracolosa. Mentre ero immerso in questi pensieri, scostai le tende e guardai fuori nel buio, e alla mia fantasia turbata tutti quei puntini di luce che riempivano il cielo parvero i fornelli di innumerevoli alchimisti divini, che lavorassero continuamente a trasformare il piombo in oro, la stanchezza in estasi, i corpi in anime, la tenebra in Dio; e di fronte alla loro opera perfetta avvertii il peso della mia condizione di mortale, e invocai a gran voce, come tanti altri sognatori e letterati di questa nostra età hanno invocato, la nascita di quella raffinata bellezza spirituale che sola potrebbe sollevare e rapire anime gravate di tanti sogni.

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II.

Il mio fantasticare venne interrotto da qualcuno che bussava forte alla porta, la qual cosa mi stupì assai perché non aspettavo visite, e avevo ingiunto ai miei domestici di far ogni cosa silenziosamente, per non infrangere il sogno di una vita quasi segreta. Ero alquanto curioso, ed avendo deciso di andare io stesso ad aprire, presi un candeliere d'argento dalla mensola del caminetto e cominciai a scendere le scale. Sembrava che i domestici fossero usciti perché, sebbene il rumore dei colpi sgorgasse attraverso ogni angolo e fessura della casa, nessuno si muoveva nelle stanze di sotto. Mi ricordai che, essendo le mie esigenze tanto poche, la mia partecipazione alla vita tanto scarsa, essi avevan preso l'abitudine di andare e venire a loro comodo, lasciandomi spesso solo per ore. Fui sopraffatto all'improvviso dal vuoto e dal silenzio di un mondo da cui avevo scacciato tutto tranne i sogni, e mentre tiravo il catenaccio tremavo. Mi trovai dinanzi Michael Robartes, che non vedevo più da anni: i capelli rossi arruffati, l'occhio fiero, le labbra frementi e sensitive e gli abiti grossolani lo facevano somigliare, proprio come quindici anni addietro, un incrocio tra un debosciato, un santo, e un contadino. Era in Irlanda da poco, disse,e voleva vedermi per una faccenda importante: in verità, l'unica faccenda importante per lui e per me. La sua voce mi rievocava gli anni in cui eravamo stati studenti a Parigi, e, ricordando la forza magnetica con cui mi dominava allora, ebbi un po' di paura. Ma ero soprattutto seccato per quella visita indesiderata e inopportuna, e però gli feci strada precedendolo su per lo scalone, dov'era passato Swif t scher-


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zando e motteggiando, e Curran raccontando storie e citando in greco, in giorni piti semplici, prima che la mente umana, resa più sottile e più complicata dall'arte e dalla letteratura romantiche, cominciasse a fremere sui confini di qualche rivelazione inaspettata. Sentii che mi tremava la mano, e vidi che la luce della candela vacillava più del dovuto sugli dèi e sulle ninfe di cui uno stuccatore italiano del Settecento aveva ornato il muro, facendoli sembrare esseri primordiali che stessero lentamente prendendo forma nel buio vuoto e informe. Quando la porta della stanza si fu chiusa, e la tenda coi pavoni ricadde tra noi e il mondo, ebbi, ma senza capire come, la sensazione che stava per succedere qualcosa di inatteso e di singolare. Andai verso il caminetto, ed essendomi accorto che un piccolo turibolo di bronzo senza catenelle, su cui erano state montate, all'esterno, delle porcellane dipinte di Orazio Fontana, e che io avevo riempito d'antichi amuleti, si era rovesciato spargendo intorno il suo contenuto, cominciai a raccogliere gli amuleti e a rimetterli a posto, sia per riordinare i miei pensieri sia per l'abituale riverenza con cui ritenevo doveroso trattare degli oggetti da tanto tempo collegati a segrete speranze e timori. «Vedo, - disse Michael Robartes, - che l'incenso ti piace ancora, e posso mostrarti un incenso più prezioso di qualsiasi altro tu abbia mai visto», e così dicendo mi prese il turibolo di mano e ammucchiò gli amuleti tra l'athanor e l'alambicco. Mi sedetti, ed egli si sedette accanto al fuoco, e rimase seduto per un po' a guardare dentro il fuoco, col turibolo in mano. «Sono venuto per domandarti una cosa, - disse, - e quest'incenso impregnerà la stanza, e i nostri pensieri, del suo dolce profumo mentre parliamo. Viene dalla Siria, e me lo ha dato un vecchio, il quale mi ha detto che è fatto con

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dei fiori che appartengono alla stessa famiglia dei fiori che nel Giardino del Getzemani coprirono con i loro pesanti petali purpurei le mani i capelli e i piedi di Cristo, e Lo avvolsero nel loro alito pesante, finché non diede un grido, lamentando la croce e il Suo destino». Da un sacchettino di seta vuotò un po' di polvere nel turibolo, mise il turibolo sul pavimento e accese la polvere, da cui si levò un fiotto di fumo azzurrognolo, che si allargò sul soffitto e ridiscese in basso, come il fico del Bengala di cui parla Milton. L'incenso mi fece l'effetto consueto, e mi sentii invadere da una leggera sonnolenza, tanto da sobbalzare quando Robartes disse, « Sono venuto a farti quella domanda che ti ho già fatto a Parigi. Preferisti lasciare Parigi piuttosto di rispondere». Aveva volto gli occhi verso di me, e li vedevo scintillare alla luce del fuoco, attraverso la nuvola d'incenso, mentre rispondevo: «Vuoi sapere, cioè, se intendo diventare un adepto del tuo Ordine della Rosa Alchimistica? Mi sono rifiutato a Parigi, quand'ero pieno di desideri insoddisfatti, e dovrei acconsentire adesso che finalmente ho plasmato la mia vita secondo i miei desideri?» «Da allora sei molto cambiato, - rispose. — Ho letto i tuoi libri, e adesso ti vedo in mezzo a tutte queste immagini, e ti capisco meglio di quanto non ti capisca tu stesso, perché sono stato a fianco di tanti e tanti sognatori che si sono trovati davanti allo stesso bivio. Hai chiuso il mondo fuori della porta e hai radunato gli dèi intorno a te, e, se non ti getterai ai loro piedi, sarai sempre apatico, e di vacillante proposito, perché l'uomo deve dimenticare la propria infelicità tra la confusione e il rumore della moltitudine nel mondo e nel tempo; oppure cercare di unirsi misticamente alla


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moltitudine che governa il mondo e il tempo». Poi mormorò qualcosa che non riuscii a sentire, come se si rivolgesse a qualcuno invisibile ai miei occhi. Per un attimo mi parve che la stanza diventasse buia, come accadeva in passato quando stava per prodursi in qualche curioso esperimento, e nel buio i pavoni sulla porta sembravano ardere d'un colore più intenso e luminescente. Mi sottrassi a quell'illusione che era, credevo, solo un effetto della memoria e della foschia prodotta dall'incenso. Non volevo ammettere che fosse in grado di soggiogare il mio intelletto ormai maturo, e dissi, «Anche ammettendo che io abbia bisogno di una fede spirituale e di qualche forma di culto, perché mai dovrei recarmi ad Eleusi invece che ai piedi del Calvario? » Egli si piegò verso di me e cominciò a recitare una specie di cantilena ritmica; e mentre parlava dovetti nuovamente lottare con l'ombra, come d'una notte più antica della notte del sole, che cominciava a velare la luce delle candele e a inghiottire i minuti riflessi luccicanti sugli angoli delle cornici e sulle divinità di bronzo, e a volgere l'azzurro dell'incenso in un violetto carico; mentre non spegneva lo scintillio e la luminescenza dei pavoni, come se ogni singolo colore fosse uno spirito vivente. Ero caduto in un profondo sogno ad occhi aperti in cui sentivo la sua voce venire come di lontano. «E tuttavia non c'è nessuno che sia in comunione esclusivamente con un solo dio, - diceva, - e più l'uomo vive nella fantasia, e più affina l'intelletto, più sono gli dèi con cui s'incontra e parla, e più soggiace all'influsso di Orlando che a Roncisvalle die fiato per l'ultima volta alla tromba dei voleri e dei piaceri del corpo; e di Amleto che li vide corrompersi e svanire, e ruppe in singhiozzi; e di Faust, che li cercò in lungo e in largo per

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il mondo e non riusci a trovarli; e all'influsso delle innumerevoli divinità che si sono incarnate in corpi spirituali nella mente dei poeti e dei narratori moderni, e all'influsso delle antiche divinità, che dal Rinascimento in poi hanno riavuto tutto dei loro antichi culti, tranne il sacrificio d'uccelli e pesci, la fragranza delle ghirlande e il fumo dell'incenso. I più credono che sian stati gli uomini a fare queste divinità, e che possano di nuovo disfarle; ma noi che le abbiamo viste passare in sferraglianti armature, e in lunghe morbide tuniche, e le abbiamo sentite parlare con voce chiara mentre giacevamo, come morti, in trance, sappiamo che sono loro a fare e disfare l'umanità, la quale in verità altro non è se non il fremito delle loro labbra». Si era alzato e aveva preso a camminare avanti e indietro, e nel mio sogno ad occhi aperti era diventato una spola che tesseva un'immensa trama purpurea le cui pieghe andavano riempiendo la stanza. Sembrava che la stanza fosse diventata inspiegabilmente silenziosa, come se al mondo fosse cessata ogni cosa tranne quel tessere e il crescere di quella tela. «Essi ci hanno visitati; essi ci hanno visitati, - riprese la voce, - e c'erano tutti: tutti coloro in cui ti sei imbattuto nei libri, tutti coloro che hanno popolato le tue fantasie. Ecco Lear, il capo ancora bagnato dalla bufera, e ride, perché tu ti credevi esistente e lui solo un'ombra, mentre l'ombra sei tu, e lui un dio immortale; ecco Beatrice, con le labbra appena schiuse in un sorriso, come se tutte le stelle stessero per spegnersi in un sospiro d'amore; ecco la madre del Dio dell'umiltà, di Colui che ha ammaliato gli uomini a tal punto che essi hanno cercato di spopolare il loro cuore perché Egli potesse regnarvi da solo: ma la madre Sua ha in mano una rosa ogni cui petalo è un dio; ed ecco, oh, rapida giunge!,


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Afrodite in un crepuscolo che cade dalle ali di innumerevoli passeri, e intorno ai suoi piedi stan le colombe bianche e cinerine». Sempre in preda al sogno lo vidi allungare il braccio sinistro e passarvi sopra la mano destra come se accarezzasse le ali di una colomba. Feci uno sforzo tremendo, e mi parve quasi di spezzarmi in due, e dissi con decisione sforzata, «Tu vorresti travolgermi e trascinarmi in un mondo indefinito che mi riempie di terrore; invece la grandezza di un uomo sta nella capacità di crearsi una mente che rifletta ogni cosa con l'indifferente precisione di uno specchio». Mi pareva d'essere rientrato in pieno possesso delle mie facoltà, e continuai, ma più in fretta, «Ti ordino di lasciarmi immediatamente, perché le tue idee e le tue fantasie altro non sono se non illusioni che si insinuano come vermi nelle civiltà in declino, e nelle menti in decadenza». Mi era nata dentro una rabbia improvvisa e, afferrato l'alambicco dal tavolo, stavo per alzarmi e colpirlo, quando mi parve che i pavoni sulla porta alle sue spalle crescessero a dismisura, immensi; e poi l'alambicco mi cadde di mano e fui sommerso da una marea di penne verdi e blu e bronzee, e mentre lottavo disperatamente udii in lontananza una voce che diceva, «Il nostro maestro Avicenna ha scritto che ogni forma di vita procede dalla corruzione». Ormai le penne scintillanti m'avevano coperto completamente, e capii d'aver lottato per centinaia d'anni, e finalmente fui vinto. Mentre sprofondavo nell'abisso il grigio e il blu e il bronzo che sembravano riempire il mondo diventarono un mare di fiamme e mi travolsero, e nel turbine che mi trascinava udii sul mio capo una voce gridare, «Lo specchio si è rotto in due pezzi», e un'altra voce rispondere, «Lo specchio si è rotto in quattro pezzi», e una voce più lontana gridare con grido

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esultante, «Lo specchio si è rotto in innumerevoli pezzettini»; e poi una moltitudine di pallide mani si protese verso di me, e visi dolci e strani si chinarono su di me, e voci tra il lamentoso e il carezzevole mi dicevano parole che dimenticavo nell'attimo stesso in cui venivano pronunciate. Venivo tratto fuori da quella marea di fiamma, e sentivo liquefarsi i miei ricordi, le mie speranze, i miei pensieri, la mia volontà, ogni cosa ch'io ritenevo essere me stesso; poi mi parve di salire passando attraverso innumerevoli congreghe di esseri che erano, m'era dato di capire, in un modo più certo del pensiero, ciascuno avviluppato nel proprio attimo eterno, nel perfetto sollevar d'un braccio, in un cerchio di parole ritmiche, in un sogno a palpebre socchiuse e ad occhi appannati. E poi passai oltre queste forme, che erano tanto belle da aver quasi cessato di essere, e, dopo aver sofferto strani stati d'animo, malinconici, cosi pareva, per esser gravati del peso di molti mondi, entrai in quella Morte che è la Bellezza stessa, e nella Solitudine che tutte quelle moltitudini incessantemente desiderano. Mi parve che tutte le cose che avessero mai avuto vita entrassero a stabilirsi nel mio cuore, e io nel loro; e non avrei più conosciuto né morte né lacrime, se non fossi improvvisamente precipitato dalla certezza della visione nell'incertezza del sogno, e diventato una goccia d'oro fuso che cadeva a velocità smisurata attraverso una notte trapuntata di stelle, e tutt'intorno a me un gemito malinconico ed esultante. Caddi e caddi e caddi, e poi il gemito fu solo più il gemito del vento nel camino, e mi svegliai per ritrovarmi appoggiato al tavolo, la testa tra le mani. Vidi l'alambicco che oscillava da una parte all'altra nel lontano angolo in cui era rotolato, e Michael Robartes che mi guardava, in attesa. «Verrò con te do-


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vunque tu voglia, - dissi, - e farò qualsiasi cosa tu mi chieda, perché sono stato tra cose eterne». «Ho capito, - replicò, - che dovevi necessariamente rispondere come hai risposto, quando ho udito lo scoppio della tempesta. Devi venire molto lontano, perché ci è stato ordinato di costruire il nostro tempio tra la pura moltitudine presso le onde e l'impura moltitudine degli uomini».

in. Mentre attraversavamo in carrozza le strade deserte non pronunciai parola. La mia mente si era stranamente svuotata delle impressioni e dei pensieri consueti, quasi che fosse stata strappata al mondo definito e gettata nuda su un mare sconfinato. A tratti mi sembrava che la visione stesse per ricominciare, e ricordavo vagamente, in un'estasi di gaudio o di dolore, delitti ed atti eroici, fortune e sfortune; o cominciavo a contemplare, col cuore che mi balzava improvvisamente in petto, speranze e terrori, desideri e ambizioni, estranei alla mia vita meticolosa e ordinata; e poi mi svegliavo tremante al pensiero che un essere grande e imponderabile aveva attraversato come un turbine la mia mente. Ci vollero, invero, giorni prima che questa sensazione scomparisse del tutto, e anche ora, che ho cercato rifugio nell'unica fede certa, sono molto tollerante nei confronti di quelle personalità incoerenti che si radunano nei templi e nei ritrovi di certe oscure sette, poiché anch'io ho sperimentato il dissolversi di ferme abitudini e principi di fronte a una forza che, forse, era hysterica passio o pura follia, ma comunque tanto potente nella sua malinconica esultanza da farmi tremare

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al pensiero che potrebbe risvegliarsi di nuovo e strapparmi a quella pace che ho da poco ritrovata. Quando, nel diffuso grigiore, arrivammo alla grande stazione semivuota, mi parve di aver subito un tale cambiamento da non esser più, com'è l'uomo, un attimo che rabbrividisce al cospetto dell'eternità, ma l'eternità che piange e ride sulla sorte di un attimo; e quando fummo partiti e Michael Robartes si fu addormentato, cosa che fece quasi subito, il suo viso dormiente, su cui non v'era traccia di ciò che mi aveva sconvolto e mi teneva desto, parve alla mia mente eccitata più una maschera che un volto. Mi ossessionava l'idea che l'uomo dietro quella maschera si fosse sciolto come sale nell'acqua, e che le sue risate e i suoi sospiri, le sue preghiere e le sue accuse, fossero l'esecuzione di ordini impartiti da esseri superiori o inferiori all'uomo. «Costui non è affatto Michael Robartes: Michael Robartes è morto; morto da dieci, forse da vent'anni», continuavo a ripetermi. Alla fine caddi in preda a un sonno febbrile, da cui mi risvegliavo di tanto in tanto mentre sfrecciavamo attraverso qualche cittadina dai tetti d'ardesia lucidi di pioggia, o lungo qualche lago tranquillo e scintillante nella fredda luce del mattino. Per la troppa preoccupazione non avevo domandato dov'eravamo diretti, né avevo badato ai biglietti acquistati da Robartes, ma capivo dalla direzione del sole che stavamo andando verso occidente; e in breve m'accorsi anche, dalla fuga degli alberi che sempre più simili a mendicanti stracciati correvano verso oriente a capo chino, che ci stavamo avvicinando alla costa occidentale. Poi, d'improvviso, vidi alla mia sinistra, tra le colline basse, il mare, d'un grigio monotono rotto da macchie e strisce bianche. Quando scendemmo dal treno seppi che ci restava


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ancora un tratto di strada da fare, e ci mettemmo in cammino, stringendoci nel cappotto, perché il vento era forte e tagliente. Michael Robartes taceva, come se fosse ansioso di lasciarmi ai miei pensieri; e, mentre camminavamo tra il mare e il fianco roccioso d'un gran promontorio, mi resi conto con nuova e perfetta lucidità del trauma subito da ogni mio modo di pensare e di sentire, sempre che non fosse addirittura intervenuta qualche misteriosa modificazione della sostanza della mia mente, che quelle onde grige, con i loro pennacchi di spruzzi e di spume, erano entrate a far parte d'una mia brulicante e fantastica vita interiore; e quando Michael Robartes mi additò una casa squadrata dall'aria antica, al riparo della quale sorgeva un altro edificio molto piti piccolo e più recente, proprio in fondo a un molo in rovina e quasi deserto, e disse che era il Tempio della Rosa Alchimistica, mi sorpresi a fantasticare che il mare, che lo copriva di continuo con una pioggia di spume bianche, lo reclamasse come parte di una vita indefinita e appassionata, che aveva iniziato a muover guerra ai nostri giorni meticolosi e ordinati, e stava per piombare il mondo in una notte oscura come quella che segui alla caduta del mondo classico. Una parte della mia mente si faceva beffe di questo terrore fantastico, ma l'altra, la parte che era ancora semisommersa nella visione, ascoltava il fragore di eserciti sconosciuti che si scontravano, e rabbrividiva di fronte a inimmaginabili fanatismi, minacciosamente impendenti in quelle onde grige che balzavano sul molo. Ci eravamo appena incamminati lungo di esso che ci imbattemmo in un vecchio, il quale era evidentemente un guardiano, poiché se ne stava seduto in un barile capovolto, vicino a una breccia del molo che era stata da poco riparata dai muratori, davanti a un fuo-

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co come quelli che si vedono appesi sotto i carri dei calderai ambulanti. Vidi che era anche molto devoto, perché da un chiodo sull'orlo della botte pendeva un rosario, e a quella vista rabbrividii, e non capii perché rabbrividivo. Gli passammo accanto, ma non facemmo in tempo a percorrere pochi metri che lo udii gridare in gaelico, «Idolatri, idolatri, andate all'Inferno, voi, le vostre streghe e i vostri diavoli; andate all'Inferno, cosi le aringhe torneranno in questa baia»; e per qualche attimo lo udii un po' gridare e un po' borbottare alle nostre spalle. «Non hai paura, - domandai, - che questa gente primitiva, questi pescatori, compiano qualche gesto disperato contro di voi? » «A me e ai miei, - rispose, - gli uomini non possono far del male né portare aiuto, poiché ci siamo incorporati con gli spiriti immortali, e la nostra morte sarà il coronamento dell'opera suprema. Tempo verrà anche per questa gente, e sacrificheranno un cefalo ad Artemide, o qualche altro pesce a qualche nuova divinità, a meno che gli dèi della loro stessa stirpe non riedifichino di nuovo i loro templi di pietra grigia. Il loro regno non è mai tramontato, ma solo è un po' scemato il suo potere, perché i Sidhe passano ancora in ogni vento, e danzano e giocano a hurley, ma non potranno ricostruire i loro templi finché non ci saranno stati martiri e vittorie, e fors'anche quella battaglia, da gran tempo vaticinata, nella Valle del Maiale Nero». Tenendoci accosto al muro che correva intorno al molo dalla parte del mare per ripararci dal vento e dal turbinare delle spume, che rischiavano di farci perdere l'equilibrio, ci dirigemmo in silenzio verso la porta dell'edificio quadrato. Michael Robartes la apri con una chiave segnata dalla ruggine di molti venti salsi, e ini guidò per un corridoio spoglio e su per una scala


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senza guida fino a una stanzetta dalle pareti tappezzate di libri. Mi avrebbero portato da mangiare, ma solo frutta, perché dovevo sottopormi a un moderato digiuno prima della cerimonia, spiegò, e insieme al cibo un libro sulla dottrina e sul metodo dell'Ordine, su cui dovevo consumare quanto restava della luce di quella giornata invernale. Poi mi lasciò, promettendo di tornare un'ora prima della cerimonia. Cominciai a frugare tra gli scaffali, e scoprii una delle più ricche biblioteche alchimistiche che avessi mai visto. C'erano le opere di Morienus, che nascondeva il suo corpo immortale sotto una camicia di crine; di Avicenna che, pur essendo un ubriacone, comandava innumerevoli legioni di spiriti; di Alfarabi, che metteva tanti spiriti nel suo liuto che poteva far ridere la gente, o farla piangere o cadere in una trance simile alla morte, a piacimento; di Lullo, che si trasformava in un gallo rosso; di Flamel, che con sua moglie Pernella riusci a fabbricare l'elisir di lunga vita molti secoli fa, e di cui si favoleggia che viva ancora in Arabia in mezzo ai dervisci; e di molti altri meno noti. C'erano pochissimi testi di mistica, che non fossero di mistici alchimisti, che i mistici puri, ne ero certo, essendo per la maggior parte devoti a un solo dio, erano stati scartati da Robartes, il quale riteneva che da ciò derivasse inevitabilmente un senso limitato della bellezza; ma notai una collezione completa di facsimili degli scritti profetici di William Blake, scelto probabilmente per le moltitudini che affollavano le sue visioni ed erano «come i pesci felici nell'onde quando la luna succhia a sé le rugiade». Notai anche la presenza di molti poeti e prosatori di ogni epoca, ma solo quelli che erano un po' stanchi della vita, come invero i più grandi lo son stati dovunque, e che ci gettavano la loro fantasia, come se non ne aves-

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sero più bisogno adesso che salivano in alto sui loro carri di fuoco. Di li a poco udii bussare alla porta, ed entrò una donna e posò un po' di frutta sul tavolo. Si capiva che un tempo era stata bella, ma aveva le guance scavate da qualcosa che avrei giudicato, se l'avessi vista altrove, turbamento della carne e sete di piacere, mentre si trattava certamente di turbamento della fantasia e di sete di bellezza. Le feci qualche domanda riguardo alla cerimonia, ma, non ottenendo altra risposta che uno scotimento del capo, capii che dovevo aspettare l'iniziazione in silenzio. Quand'ebbi mangiato ritornò, e, messa sul tavolo una scatola di bronzo cesellato in modo strano, accese le candele, e portò via i piatti e gli avanzi. Appena fui solo rivolsi la mia attenzione alla scatola, e vidi che i pavoni di Era allargavano la coda sulle pareti e sul coperchio, su uno sfondo lavorato a grandi stelle, come ad affermare che i cieli partecipavano del loro splendore. Nella scatola c'era un libro rilegato in pergamena, e sulla pergamena era impresso, in oro e in colori delicatissimi, il simbolo della Rosa Alchimistica, contro cui erano puntate molte lance, ma invano, che le punte di quelle più vicine ai petali erano spezzate. Il libro era scritto su pergamena, e a belle e chiare lettere, frammischiate con figure simboliche e miniature nello stile dello Splendor Solis. Il primo capitolo raccontava come sei studiosi di origine celtica, essendosi dedicati ciascuno per proprio conto allo studio dell'alchimia, avevano svelato, rispettivamente, il mistero del Pellicano, il mistero del Gran Drago, il mistero dell'Aquila, e quello del Sale e del Mercurio. Una serie di circostanze apparentemente fortuite, ma che erano, secondo il libro, una macchinazione di potenze soprannaturali, li fece incontrare nel giardino di una locanda del Sud della Francia, e 4


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mentre discorrevano insieme li colpi l'idea che l'alchimia fosse la distillazione graduale dei contenuti dell'anima, fino a che non fossero pronti a spogliarsi della mortale per rivestirsi dell'immortale. Passò una civetta, frusciando tra i pampini sopra il loro capo, e poi venne una vecchia, appoggiandosi a un bastone, e, sedutasi accanto a loro, riprese l'idea da dove l'avevan lasciata cadere. Dopo aver spiegato il principio essenziale dell'alchimia spirituale, e aver ingiunto loro di fondare l'Ordine della Rosa Alchimistica, scomparve di tra in mezzo a loro, e quando vollero seguirla non riuscirono più a vederla. Si costituirono in un Ordine, mettendo i loro beni e svolgendo le loro ricerche in comune, e, man mano che si perfezionavano nella dottrina alchimistica, apparizioni andavano e venivano in mezzo a loro, e da esse apprendevano misteri sempre più meravigliosi. Il libro procedeva quindi ad esporne la parte che era lecito rivelare a un neofita, dilungandosi alquanto all'inizio sulla realtà indipendente dei nostri pensieri: dottrina, questa, dichiarava, che era la fonte di ogni vera dottrina. Se si immaginano, diceva, le sembianze di un essere vivente, un'anima vagante se ne impossesserà immediatamente, e se ne andrà in giro a fare il bene o il male, fino al momento della sua morte; e citava molti esempi, forniti, diceva, da molti dèi. Eros aveva insegnato loro a plasmare delle forme in cui un'anima divina poteva dimorare e sussurrare ciò che voleva nelle menti dormienti; e Ate, delle forme da cui esseri demoniaci potevano versare la follia, o sogni inquieti, nel sangue dormiente; ed Ermes, che se si immagina intensamente un cane accanto al letto esso resterà li a far la guardia fino al nostro risveglio, e caccerà via tutti i demoni tranne i più potenti, ma se lo si immagina debolmente, anche il cane sarà debole,

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e i demoni prevarranno, e il cane morirà ben presto; e Afrodite, che se si crea, con la forza della fantasia, una colomba incoronata d'argento e le si ordina di frullare le ali sopra il nostro capo, il suo soave tubare chiamerà a raccolta dolci sogni d'amore immortale ad aleggiare a frotte sul nostro sonno mortale; e tutte le divinità avevano parimenti rivelato loro, tra molte ammonizioni e lamenti, che tutte le menti generano ed emanano continuamente esseri del genere, che producono salute o malanni, felicità o follia. Chi voglia dar forma alle potenze maligne, continuava il libro, deve farle brutte, il labbro sporgente ed avido di vita, o romper le proporzioni d'un corpo con i gravami della vita; ma le potenze divine vogliono apparire solo in belle forme, in forme che escan, se cosi si può dire, tremule dall'esistenza per avvilupparsi in un'estasi senza tempo e lasciarsi trasportare ad occhi socchiusi in una quiete sonnolenta. Le anime incorporee che scendono a dimorare in queste forme vengon chiamate umori dagli uomini; ed ogni grande cambiamento che si verifichi nel mondo è opera loro; che come il mago o l'artista possono evocarle a piacimento, cosi esse, a loro volta, possono evocare e far sorgere dalla mente del mago o dell'artista, o da quella del pazzo o dell'uomo turpe, se sono demoni, qualsiasi forma vogliano, ed esprimersi attraverso la sua voce e i suoi gesti, e riversarsi nel mondo. Cosi si compirono tutti i grandi eventi: un umore, una divinità, o un demone, scesi dapprima come un debole sussurro nelle menti degli uomini ne modificarono poi i pensieri e le azioni finché capelli che eran biondi diventarono corvini, o capelli che eran corvini diventarono biondi, ed imperi mossero i loro confini, come se fossero foglie portate dal vento. Il resto del libro conteneva simboli di forme e suoni, e colori, e le loro ri-


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spettive attribuzioni a divinità e demoni, affinché l'iniziato imparasse a plasmare una forma per ogni divinità e ogni demone, e fosse potente come Avicenna tra coloro che vivono sotto le radici del riso e del pianto.

IV.

Un paio d'ore dopo il tramonto Michael Robartes ritornò e mi disse che avrei dovuto imparare i passi di una danza antichissima, poiché prima che la mia iniziazione fosse compiuta avrei dovuto unirmi tre volte a una danza magica, perché il ritmo era la ruota dell'Eternità, e solo su di essa si poteva spezzare il transeunte e l'accidentale, e liberare lo spirito. Vidi che i passi, abbastanza semplici, somigliavano a certe antiche danze greche, e siccome da giovane ero stato un bravo ballerino in grado di eseguire perfettamente molti curiosi passi di danza gaelici, li mandai a memoria in un batter d'occhio. Poi mi fece indossare e indossò anch'egli una lunga tunica di foggia vagamente greca o egiziana, ma di un rosso acceso che faceva pensare a una vita più appassionata di quella della Grecia o dell'Egitto; e dopo avermi messo in mano un turibolo di bronzo senza catenelle, lavorato in forma di rosa, opera di un artigiano moderno, mi disse di aprire una porticina di fronte alla porta da cui ero entrato. Appoggiai la mano sulla maniglia, ma in quello stesso istante i fumi dell'incenso, aiutati forse dal suo misterioso fascino, mi fecero nuovamente piombare in un sogno, in cui mi pareva di essere una maschera esposta sul banco di un negozietto orientale. Molte persone, la cui natura sovrumana era palese per la gran luminosità e fissità dello sguardo, entravano e mi provavano sulla loro faccia,

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ma poi mi gettavano in un angolo ridendo; ma tutto ciò svani in un attimo, perché quando mi svegliai avevo ancora la mano sulla maniglia. Aprii la porta, e mi trovai in un corridoio meraviglioso, dalle pareti coperte di mosaici rappresentanti delle divinità; non meno belli dei mosaici del Battistero di Ravenna, ma d'una bellezza meno severa: il colore dominante di ciascuna divinità, un colore simbolico, indubbiamente, corrispondeva a quello delle lampade, stranamente aromatiche, che pendevano dal soffitto, una davanti a ogni divinità. Passai oltre, chiedendomi con indicibile stupore come avessero fatto quegli entusiasti a creare tutta quella bellezza in un luogo cosi fuori mano, e quasi persuaso dalla vista di tante ricchezze nascoste a credere in un'alchimia materiale; e mentre passavo il turibolo riempiva l'aria di fumi cangianti. Mi fermai dinanzi a una porta sui cui pannelli di bronzo erano cesellate delle grandi onde nella cui ombra si profilavano vagamente volti spaventevoli. Coloro che stavano di là da essa dovevano aver udito i nostri passi, perché una voce gridò, «L'opera del Fuoco Incorruttibile è dunque compiuta? » e Michael Robartes replicò immediatamente, «L'oro perfetto è uscito dall'athanor». La porta si spalancò, e ci trovammo in una grande stanza circolare, tra uomini e donne in abiti scarlatti che danzavano adagio. Sul soffitto c'era un mosaico con una rosa immensa; e un altro mosaico correva tutt'intorno alle pareti con una battaglia tra dèi ed angeli, gli dèi scintillanti come rubini e zaffiri, gli angeli uniformemente grigi, poiché, mi sussurrò Michael Robartes, avevano rinunciato alla loro divinità, e cessato di manifestare l'individualità dei loro cuori per amore di un Dio d'umiltà e di dolore. Il tetto era sorretto da pilastri che formavano una specie di chio-


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stro circolare, e ogni pilastro era una colonna di sagome confuse, divinità del vento, si sarebbe detto, che, turbinando in una danza di veemenza sovrumana, si levavano a suonar flauti e cimbali; e di tra quelle sagome si protendevano mani, mani che reggevano dei turiboli. Mi fu ingiunto di deporre anche il mio turibolo in una di quelle mani e di prendere il mio posto e danzare, e mentre mi allontanavo dalle colonne per volgermi ai danzatori vidi il pavimento, di pietra verde, con in mezzo un intarsio raffigurante un Cristo sbiadito su una croce sbiadita. Robartes, cui avevo chiesto che cosa significasse, mi rispose che volevano «turbare la Sua unità con la moltitudine dei loro piedi». L'ordito della danza continuava a intrecciarsi, disegnando sul pavimento come dei petali, uguali ai petali della rosa sul soffitto, e al suono di strumenti nascosti, che erano forse d'antico modello, perché non ne avevo mai uditi di simili; e la danza si faceva sempre più appassionata, finché non mi parve che sotto i nostri piedi si fossero risvegliati tutti i venti del mondo. Dopo un po', sentendomi stanco, mi fermai sotto un pilastro a guardare l'andirivieni di quelle figure guizzanti come fiamme; finché non sprofondai a poco a poco in una specie di sogno, da cui mi svegliai quando vidi i petali della grande rosa, che non sembrava più un mosaico, cadere lentamente nell'aria greve d'incenso, e, mentre cadevano, assumere la forma di esseri viventi di straordinaria bellezza. Ancor vaghi e nebulosi, si misero subito a danzare, e mentre danzavano le loro forme si facevano più chiare e definite, tanto da consentirmi di distinguere visi greci di grande bellezza e nobili visi egiziani, e di identificare di tanto in tanto qualche divinità dalla verga che recava in mano o dall'uccello che svolazzava sopra il suo capo; e in breve ogni piede morta-

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le danzò accanto al bianco piede di un immortale; e negli occhi turbati che fissavano occhi imperturbabili e umbratili vidi lo splendore del desiderio supremo, come se avessero finalmente trovato, dopo incalcolabile peregrinare, il perduto amore della loro giovinezza. Vedevo a tratti, ma solo per un attimo, una figura fievole e solitaria dal volto velato che, una fievole fiaccola nella mano, guizzava in mezzo ai danzatori, ma come un sogno in un sogno, come l'ombra di un'ombra, e capii per mezzo di una facoltà intellettuale che attingeva a una fonte più profonda del pensiero, che si trattava di Eros, e che il suo volto era velato perché dai primordi del mondo nessuno, uomo o donna, ha mai saputo cosa sia l'Amore, né lo ha mai guardato negli occhi, perché di tutti gli dèi, Eros è il solo che sia completamente spirituale, e quando vuol entrare in comunione con un cuore mortale si nasconde dentro passioni la cui essenza è diversa dalla sua. Sicché, se un uomo ama nobilmente, conosce l'Amore attraverso la compassione infinita, la fiducia ineffabile, la comprensione illimitata; se ignobilmente, attraverso la gelosia violenta, l'odio repentino, il desiderio inestinguibile; ma l'Amore senza veli non potrà mai conoscerlo. Mentre ero immerso in questi pensieri, una voce che veniva dalle figure scarlatte mi gridò, «Unisciti alla danza! Nessuno può restarne fuori; unisciti alla danza!; unisciti alla danza! affinché gli dèi possano farsi un corpo con la sostanza dei nostri cuori»; e, prima che potessi rispondere, una misteriosa ondata di passione, che sembrava l'anima della danza che si muoveva nelle nostre anime, si impadroni di me e fui trascinato, né riluttante né consenziente, in mezzo ai danzatori. Danzavo con una donna dall'aspetto maestoso, un'immortale che aveva gigli neri nei capelli e il suo portamento sognante scm-


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brava carico di una saggezza più profonda della tenebra che c'è tra stella e stella, e di un amore simile all'amore che spirò sulle acque; e mentre danzavamo e danzavamo e danzavamo l'incenso ci copriva e ci avvolgeva, come a nasconderci dentro il cuore del mondo, e sembrava che i secoli passassero, e nelle pieghe delle nostre vesti e nei suoi folti capelli scoppiassero tempeste che poi si placavano. Improvvisamente mi ricordai che le sue palpebre non avevano mai dato un battito, e che neanche un petalo dei suoi gigli neri era caduto, e compresi con un fremito d'orrore che avevo danzato con una creatura che era superiore o inferiore alle creature umane, e che stava bevendomi l'anima fino in fondo, cosi come un bue prosciuga una pozza d'acqua sul margine della strada; e caddi, e piombai nella tenebra.

v. Mi risvegliai improvvisamente come se mi avesse risvegliato qualcosa, e vidi che giacevo su di un pavimento dipinto in modo grossolano, e che sul soffitto, piuttosto basso, c'era una rosa dipinta grossolanamente, e i muri all'intorno erano coperti di affreschi non finiti. I pilastri e i turiboli erano scomparsi; e accanto a me c'erano una ventina di dormienti avvolti in lunghe vesti in disordine, i cui volti girati ali'insù mi parevano vuote maschere; e su di loro risplendeva un'alba gelida che penetrava da una finestra oblunga che prima non avevo notato; e fuori il mare muggiva. Vidi Michael Robartes che giaceva un po' più in là con accanto una ciotola di bronzo lavorato: era rovesciata e sembrava che avesse contenuto dell'incenso. Mentre

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me ne stavo cosi seduto per terra, udii all'improvviso un tumultuare di voci furenti d'uomini e donne che si mescolavano col muggito del mare; e balzando in piedi andai in fretta da Michael Robartes e lo scossi per cercar di svegliarlo. Poi lo afferrai per le spalle e cercai di sollevarlo, ma ricadde all'indietro, ed emise un flebile sospiro. Le voci si stavano facendo più forti e furenti; e si sentiva un rumore di colpi violenti contro la porta che dava sul molo. Quando udii il rumore del legno che si spaccava, e capii che stava cedendo, corsi verso la porta della stanza. La spalancai e mi trovai in un corridoio dal pavimento d'assi di legno che facevano un gran fracasso sotto i miei piedi, e nel corridoio trovai un'altra porta che dava in una cucina vuota; e mentre passavo attraverso quella porta udii due schianti uno dopo l'altro, e capii dall'improvviso scalpiccio e dalle grida che la porta che dava sul molo era stata abbattuta. Uscii di corsa dalla cucina in un cortiletto, e di li scesi per una scaletta nel fianco del molo che digradava verso il mare, e poi avanzai lungo il pelo dell'acqua cercando degli appigli con le mani, con quelle grida piene d'ira che mi risuonavano negli orecchi. Quella parte del molo era stata costruita da poco con dei blocchi di granito, e non era quindi ricoperta d'alghe; ma quando arrivai alla parte vecchia dovetti arrampicarmi fino al piano stradale per non scivolare sulle alghe verdi. Mi voltai a guardare il Tempio della Rosa Alchimistica, dove i pescatori e le donne continuavano a gridare, ma un po' più piano, e vidi che intorno alla porta e sul molo non c'era nessuno; ma mentre guardavo una piccola folla si precipitò fuori della porta e si mise a raccogliere grosse pietre da un mucchio pronto per la prossima mareggiata che facesse a pezzi il molo, quando sarebbero state posate sotto i


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blocchi di granito. Mentre ero fermo a osservar la folla, un vecchio, in cui mi parve di riconoscere il devoto, mi indicò col dito, e urlò qualcosa, e la folla sbiancò, perché tutte le facce si erano voltate verso di me. Mi misi a correre, e buon per me che quei rematori robusti dalle forti braccia non se la cavavano altrettanto bene nella corsa; eppure mentre correvo udivo appena lo scalpiccio dei miei inseguitori e le loro grida rabbiose, perché l'aria sopra il mio capo pareva risuonare di molte voci esultanti e lamentose che dimenticavo nell'attimo stesso in cui le udivo, come si dimentica un sogno. Anche adesso ci sono momenti in cui mi pare di udire quelle voci esultanti e lamentose, e in cui quel mondo indefinito, che è ancora padrone di una parte del mio cuore e del mio intelletto, sembra sul punto di ridurmi totalmente in suo potere; ma io porto il rosario intorno al collo, e quando le odo, o mi pare di udirle, me lo stringo al cuore e dico, «Colui il cui nome è Legione è alle nostre porte e trae in inganno il nostro intelletto con le sue sottigliezze e adula il nostro cuore con la bellezza, ma noi confidiamo soltanto in Te»; e allora la guerra che altrimenti infuria dentro di me si placa, e ho pace.


I.

« Aherne, - dissi, - posso farti una domanda che volevo farti da anni, e che non ti ho fatto perché siamo diventati quasi due estranei? Perché, all'ultimo momento, decidesti di non indossare l'abito talare? Quando stavamo insieme non ti piacevano né il vino, né le donne, né i soldi, e tutti i tuoi pensieri erano per la teologia e il misticismo». Per tutta la cena avevo aspettato il momento adatto per fargli quella domanda, e finalmente mi ero azzardato, poiché m'era parso che stesse sollevando un po' quel velo di riserbo e d'indifferenza che, da quando era rientrato dal suo ultimo viaggio in Italia, aveva offuscato la nostra, un tempo intima, amicizia. Anche lui mi aveva appena fatto una domanda su certe faccende private e quasi sacre, e la franchezza della mia risposta esigeva, pensavo, altrettanta franchezza da parte sua. Quando cominciai a parlare stava per portarsi alle labbra un bicchiere di quel vino che sapeva scegliere da vero intenditore ma che stimava ben poco; e mentre parlavo lo depose sulla tavola, lentamente e con aria meditabonda, e ve lo lasciò, le lunghe dita delicate tinte dalla sua luce rosso cupo. Il ricordo del suo viso e del suo aspetto di allora non è ancora impallidito ed è inseparabile, nella mia fantasia, da un'altra impressione: l'impressione di un uomo che tenesse una fiamma nella mano nuda. In quel momento vedevo in


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lui il modello supremo della nostra razza, l'uomo che, dopo essersi collocato al di sopra, o esser sprofondato al di sotto, del formalismo della mezza cultura e del razionalismo delle scelte convenzionali, volta le spalle, a meno che le mie speranze per le sorti del mondo e della Chiesa non m'abbiano reso cieco, ai desideri e alle intuizioni realizzabili per abbandonarsi a desideri tanto sconfinati che nessun vaso umano li può contenere, a intuizioni tanto immateriali che il loro fuoco improvviso e remoto non dirada la spessa oscurità che ci avvolge e tiene prigionieri. La sua natura, che aveva metà del monaco e metà del soldato di ventura, lo spingeva a volgere l'azione in sogno, e il sogno in azione; e quelli come lui non trovano in questo mondo né ordine, né scopo, né soddisfazione. Da studenti, a Parigi, avevamo fatto parte di un gruppetto dedito alla speculazione mistica e alchimistica. Aherne, nel complesso, aveva una fede più ortodossa di quella di Michael Robartes, ma l'aveva superato nell'odiare la vita, e il suo odio fantastico aveva trovato espressione nel curioso paradosso - in parte mutuato da qualche monaco fanatico, in parte di sua invenzione - secondo cui la bellezza e l'arte erano state mandate nel mondo a seminare ovunque desideri illimitati che avrebbero distrutto, come torce gettate in una città in fiamme, prima le nazioni, e poi la vita stessa. Allora quest'idea era soltanto un paradosso, un pennacchio dell'orgoglio della giovinezza; e fu solo dopo il suo ritorno in Irlanda che la sua fede fermentò, insieme a quella del nostro popolo la cui vita fantastica stava risvegliandosi. Subito si alzò, dicendo, «Vieni con me, e te ne mostrerò il perché; tu comunque capirai». E, presa una candela dalla tavola, mi guidò, facendo luce, per una lunga galleria lastricata in pietra che portava alla sua

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cappella privata. Passammo in mezzo ai ritratti dei gesuiti e dei sacerdoti, alcuni dei quali molto famosi, che la sua famiglia aveva dato alla Chiesa; e alle stampe e alle fotografie dei quadri che lo avevano particolarmente colpito; e ai pochi dipinti che il suo modesto patrimonio, raggranellato a forza di rinunciare quasi con avarizia a tutto ciò che la maggior parte degli uomini desidera, gli aveva consentito di acquistare nei suoi viaggi. C'erano stampe e fotografie di molti capolavori di scuole diverse; ma in tutti la bellezza, sia che si trattasse della bellezza della religione, dell'amore, o d'una visione fantastica di boschi e montagne, era la bellezza che si concede soltanto a quei temperamenti che cercano sempre un'emozione pura, assoluta, e che han trovato la loro espressione più continua, se non la più perfetta, nelle leggende, nelle preghiere e nella musica dei popoli celtici. La certezza d'un fervore fiero o leggiadro sui volti rapiti degli angeli di Piero della Francesca, e sui nobili volti delle Sibille di Michelangelo; e l'incertezza, come d'anime in bilico tra i piaceri dello spirito e i turbamenti della carne, sui volti vacillanti degli affreschi delle chiese senesi, e sui volti, simili a fiamme sottili, immaginati dai moderni simbolisti e dai preraffaelliti, mi aveva spesso fatto guardare a quel lungo corridoio, grigio e buio, vuoto e pieno d'echi, come ad un vestibolo dell'eternità. Quasi ogni particolare della cappella, in cui s'entrava per una porticina gotica la cui soglia consunta era stata levigata dai piedi di coloro che la frequentavano un tempo in segreto sfidando i rigori della legge, mi era rimasto impresso nella mente; perché era proprio in quella cappella che, ancor ragazzo, ero stato conquistato da quel medievalismo che oggi esercita, credo, un'influenza determinante sulla mia vita. L'unica cosa che mi parve nuova era


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una sorta di scatola quadrata, in bronzo, che stava sull'altare davanti alle sei candele spente e al crocifisso d'ebano, e somigliava a quelle, più preziose, fabbricate anticamente per custodirvi i libri sacri. Aherne mi fece sedere in un vecchio banco di quercia, e, dopo essersi inchinato profondamente davanti al crocifisso, prese la scatola bronzea dall'altare e si sedette accanto a me con il libro sulle ginocchia. «Avrai probabilmente scordato, — disse, - Gioacchino da Fiore e la maggior parte di ciò che hai letto su di lui, perché anche per i dotti è poco più d'un nome. Visse nel xn secolo, fu abate del monastero di Cortale, ed è noto soprattutto per una profezia, contenuta in un libro intitolato Expositio in Apocalypsin, secondo cui il Regno del Padre era finito, il Regno del Figlio era in corso, il Regno dello Spirito di là da venire. Il Regno dello Spirito avrebbe segnato il trionfo assoluto dello Spirito, della cosiddetta intelligentia spiritualis, sulla lettera morta. Aveva molti seguaci tra i francescani più estremisti, i quali vennero accusati di possedere un suo libro segreto intitolato Liber inducens in Evangelium aeternum. Più e più volte gruppi di visionari vennero accusati di possedere questo libro terribile in cui giaceva nascosta la libertà del Rinascimento, finché il papa Alessandro IV non riusci a trovarlo e a farlo bruciare. Io ho qui il più gran tesoro che il mondo racchiuda. Ho una copia di quel libro; e guarda quali grandi artisti han fatto le vesti in cui è avvolto. Questa scatola di bronzo è opera di Benvenuto Celimi, che l'ha ornata con dèi e demoni dagli occhi chiusi, ad indicare che sono assorti nella luce interiore». Ne sollevò il coperchio ed estrasse un libro rilegato in pelle, con un fregio in filigrana d'argento annerito dal

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tempo. «La copertina è opera dei legatori che lavoravano per Canevafi; mentre Giulio Clovio, un artista del tardo Rinascimento, la cui opera è morbida e gentile, prese la copia originale e sostituì alla pagina iniziale di ogni capitolo una pagina sormontata da una lettera dal disegno molto elaborato e da una miniatura di uno dei grandi che vengono citati ad esempio nel capitolo; e ovunque restava un piccolo spazio libero dalla scrittura mise qualche emblema delicato o intricato arabesco». Presi il libro in mano e mi misi a sfogliarne le pagine indorate e multicolori, tenendolo il più possibile vicino alla candela per esaminare la trama della carta. «Dove hai trovato questo libro straordinario? dissi. — C'è poca luce e non riesco a stabilire se sia autentico o no, ma se lo fosse avresti scoperto una delle cose più preziose che esistano al mondo». «È sicuramente autentico, — rispose. — Quando l'originale venne distrutto, ne rimase una sola copia che apparteneva a un liutista fiorentino, il quale la lasciò in eredità a suo figlio, e cosi, di generazione in generazione, fini nelle mani di un altro liutista, padre di Benvenuto Cellini, e da quest'ultimo passò a Giulio Clovio, e da Giulio Clovio a un incisore romano; e poi fu tramandato di generazione in generazione, insieme alla storia delle sue peregrinazioni, finché non ne entrò in possesso la famiglia dell'Aretino, e quindi Giulio Aretino, artista ed artigiano specializzato nella lavorazione dei metalli, e studioso delle fantasie cabalistiche di Pico della Mirandola. A Roma passammo diverse serate discutendo di filosofia; e alla fine mi conquistai la sua fiducia a tal punto che mi mostrò il libro, il suo più gran tesoro; e, avendo capito che valore aveva per me, 5


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e sentendosi diventar vecchio e non più in grado di beneficiare dei suoi insegnamenti, me lo vendette a poco prezzo, se si tien conto di quanto sia prezioso». «Qual è la dottrina? - domandai. - Qualche cavillosa discettazione medievale intorno alla natura della Trinità, che ormai serve solo a dimostrare che tante cose che un tempo facevano tremare il mondo oggi non ci interessano più? » «Non sono mai riuscito a farti capire, - disse sospirando, - che nella fede non c'è nulla che non sia importante, ma anche tu dovrai ammettere che questo libro parla al cuore. Vedi ancora le tavole su cui c'erano i dieci comandamenti, scritti in latino? » Cercai con lo sguardo le due tavolette di marmo che stavano in fondo alla stanza, di fronte all'altare, e vidi che erano scomparse, e che al loro posto c'erano due tavolette d'avorio, simili a quelle che si mettono sulle scrivanie, ma più grandi. «Esso, - continuò, - ha spazzato via i comandamenti del Padre, e ha sostituito ai comandamenti del Figlio i comandamenti dello Spirito Santo. Il primo libro si intitola Fractura Tabularum. Nel primo capitolo si nominano i grandi artisti che si fecero cose scolpite a immagine e somiglianza di molte cose; e le adorarono e le servirono; nel secondo i grandi ingegni che nominarono il nome di Dio invano; e quel terzo capitolo, alquanto lungo, in cui sono incastonati emblemi di volti dall'aria santa e i cui margini sono ornati di ali, celebra coloro che non santificarono la festa e sciuparono gli altri sei giorni, e però vissero giorni di bellezza e di piacere. Quei due capitoli parlano di coloro, uomini o donne, che inveirono contro il padre e la madre, ben ricordando che il loro dio era più antico del dio dei loro genitori; e quell'altro, che ha per emblema la spada dell'arcangelo Michele, tesse l'elo-

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gio dei re che tramarono omicidi segreti guadagnando cosi ai loro sudditi una pace amore somnoque gravata et vestibus versicoloribus, gravata d'amore e di sonno e di vesti multicolori; e quello che si chiude con la stella pallida contiene le nobili vite dei giovani che amarono le donne d'altri e furono trasformati in memorie, le quali a loro volta infiammarono d'un dolce ardore molti cuori più poveri; e quello con l'emblema della testa alata è la storia dei predoni che vissero sui mari o nei deserti, e paragona le loro vite al sibilo della corda di un arco, nervi stridentis instar; e gli ultimi due, di fuoco e d'oro, sono dedicati agli scrittori satirici che fecero falsa testimonianza contro il loro prossimo e tuttavia mostrarono un'immagine dell'ira eterna, e a coloro che, desiderando più d'ogni altro uomo ricchezze e donne, diventarono, per mezzo di esse e per esse, padroni di imperi sempre più grandi. « Il secondo libro, che si intitola Straminis Deflagratici, riferisce le conversazioni che Gioacchino da Fiore ebbe nel suo monastero di Cortale, e poi nel suo monastero tra le montagne della Sila, con viaggiatori e pellegrini, intorno alle leggi di molti paesi; come in certe nazioni la castità fosse una virtù e il furto cosa di poco conto, e il furto un crimine e la mancanza di castità cosa di poco conto in certe altre; e di coloro che s'eran gettati su queste leggi ed erano diventati decussa veste Dei sidera, stelle cadute dalla veste di Dio. «Il terzo ed ultimo libro si intitola Lex Secreta, ed espone la vera legge che deve ispirare l'agire, l'unico Vangelo Eterno; e termina in una visione che Gioacchino ebbe tra i monti della Sila, ove vide i suoi discepoli, seduti in trono nell'azzurro profondo dell'etere, che ridevano forte, di un riso che era come il fruscio delle ali del Tempo: Coelis in coeruleis ridentes sede-


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bant discipuli mei super thronos: talis erat visus, qualis temporis pennati susurrus». «So poco di Gioacchino da Fiore, — dissi, — tranne che Dante lo mise nel Paradiso accanto ai grandi dottori della Chiesa. Se avesse sostenuto un'eresia tanto singolare, Dante ne avrebbe avuto sentore; e Dante non la perdonava ai nemici della Chiesa». «Gioacchino da Fiore riconosceva pubblicamente l'autorità della Chiesa; anzi, chiese che tutte le sue opere pubblicate, e quelle da pubblicarsi per sua espressa volontà dopo la sua morte, venissero sottoposte alla censura papale. Riteneva che coloro il cui compito è vivere, e non rivelare, fossero dei bambini, e che il papa fosse il loro padre; ma insegnava segretamente che certi altri, gli eletti, il cui numero sarebbe andato vieppiù crescendo, erano stati scelti non per vivere, ma per rivelare la sostanza nascosta di Dio, che è colore e musica e soavità e dolce profumo; e che questi ultimi hanno un solo padre: lo Spirito Santo. Cosi come poeti e pittori e musicisti lavorano alle loro opere, costruendole con materiali leciti e illeciti, pur di dar corpo a quella bellezza che va oltre la tomba, questi figli dello Spirito Santo lavorano ad ogni loro attimo della loro vita con gli occhi rivolti a quella sostanza luminosa su cui il Tempo ha ammonticchiato i rifiuti della creazione; perché il mondo esiste solo per essere racconto porto alle orecchie delle generazioni future; e il terrore e la gioia, il nascere e il morire, l'amore e l'odio, e il frutto dell'Albero, non sono che strumenti di quell'arte suprema che dovrà strapparci alla vita e farci entrare, insieme, nell'eternità, come colombi nella colombaia. Tra poco me ne andrò e viaggerò di terra in terra per conoscere ogni possibile caso e destino, e quando sarò tornato scriverò la mia legge segreta su

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quelle tavolette d'avorio, come poeti e narratori hanno scritto i principi della loro arte nelle prefazioni; e mi circonderò di discepoli, e insegnerò loro a scoprire ciascuno la propria legge studiando la mia legge, e il Regno dello Spirito Santo si estenderà e si consoliderà». Passeggiava avanti e indietro, ed io ascoltavo le sue parole piene di fervore e guardavo i suoi gesti agitati non senza una certa preoccupazione. Era sempre stata mia abitudine accettare di buon grado le speculazioni filosofiche più singolari, e le avevo sempre trovate innocue come la mia gatta d'angora che socchiude gli occhi meditabondi e tira fuori le unghie davanti al caminetto acceso. Ma ora avrei voluto difendere l'ortodossia, e addirittura il luogo comune, ma non trovai niente di meglio da dire che: «Non è necessario giudicare ciascun uomo secondo la legge, perché abbiamo anche il comandamento dell'amore, datoci da Cristo». Aherne si voltò e disse, guardandomi con occhi scintillanti: «Jonathan Swift diede un'anima ai gentiluomini di questa città odiando il suo prossimo come se stesso». «Comunque, non vorrai negare che insegnare una dottrina cosi pericolosa significa assumersi una tremenda responsabilità». «Leonardo da Vinci, — rispose, - ha scritto, con nobile frase, che la speranza e il desiderio di ritornare ai proprio stato originario sono come il desiderio di luce della falena; e l'uomo che attende con inesausto desiderio ogni nuovo mese e ogni nuovo anno, convinto che le cose che brama giungono sempre troppo tardi, non s'accorge di bramare la propria distruzione. E dunque come potrebbe non essere pericoloso il sentiero che ci condurrà nel cuore di Dio? Perché mai tu, che


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non sei un materialista dovresti vagheggiare una continuità e un ordine mondano come coloro che hanno soltanto il mondo? Stimi poco gli scrittori che esprimono ciò che comunemente si definisce il giusto solo se riescono a razionalizzarlo e a renderlo più facile; e dunque perché vuoi negare questa libertà all'arte suprema, all'arte che è il fondamento di ogni arte? Si, da questa cappella usciranno santi, amanti, ribelli, e profeti: anime che si circonderanno di pace, come d'un nido d'erba; e altre sulle quali piangerò. La polvere cadrà per anni e anni su questa scatoletta; e poi la aprirò; e quei tumulti che sono, forse, le fiamme del Giudizio Universale usciranno da sotto il coperchio». Non volli ragionare con lui quella sera, perché era agitatissimo e avevo paura di farlo arrabbiare; e quando andai a casa sua qualche giorno dopo, se n'era andato e la casa era chiusa e vuota. Rimpiansi amaramente di non aver saputo combattere la sua eresia e di non aver indagato sull'autenticità di quello strano libro. Da quando mi sono convertito ho ben fatto penitenza per riparare ad un errore della cui gravità mi resi conto solo dopo alcuni anni.

il.

Circa dieci anni dopo la nostra conversazione stavo camminando lungo uno dei moli di Dublino, dalla parte più vicina al fiume, soffermandomi di tanto in tanto a sfogliare i libri esposti su qualche vecchia bancarella, e pensavo, strana coincidenza, al terribile destino di Michael Robartes e della sua confraternita, quando vidi un uomo alto e curvo camminare lentamente lungo l'altro lato del molo. Sobbalzai, riconoscendo in

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una maschera senza vita dagli occhi appannati il viso, un tempo risoluto e delicato, di Owen Aherne. Attraversai il molo in fretta, ma non avevo fatto pochi metri che egli, come se mi avesse visto, mi volse le spalle, e si infilò precipitosamente in una stradina laterale; lo seguii, ma solo per perderlo poi di vista nel dedalo di vicoli a nord del fiume. Per qualche giorno chiesi a quanti una volta lo conoscevano se l'avessero visto, ma non si era fatto vivo con nessuno; e bussai, ma invano, alla porta della sua vecchia casa; e mi ero quasi convinto di essermi sbagliato, quando lo vidi di nuovo in una stradicciola dalle parti di Four Courts, e lo seguii fin sulla porta di casa sua. Gli misi una mano sul braccio; si voltò senz'alcuna sorpresa; ed è invero possibile che per lui, la cui vita interiore aveva completamente assorbito l'esteriore, una separazione di anni equivalesse a una separazione di poche ore, dalla mattina al pomeriggio. Stava nel vano della porta tenendola semichiusa, come se volesse impedirmi di entrare; e forse si sarebbe accomiatato senza profferir parola se non avessi detto : « Owen Aherne, perché non ti fidi di me, come ti sei già fidato una volta, e non mi dici che esito hanno avuto le idee che abbiamo discusso dieci anni fa in questa casa? Ma forse le hai dimenticate, ormai». «È tuo diritto sapere, - rispose. - Siccome ti ho fatto partecipe di quelle idee, è giusto che ti dica anche quale gravissimo pericolo racchiudono, o meglio, il male infinito che racchiudono; ma quando avrai saputo dovremo dirci addio, e per sempre, perché io sono perduto, e devo stare nascosto! » Lo seguii per il corridoio lastricato che avevo già percorso dieci anni prima, e vidi che gli angoli erano soffocati dalla polvere e dalle ragnatele; e che i quadri erano grigi di polvere e avvolti in un velo di ragnatele;


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e che polvere e ragnatele coprivano il rubino e lo zaffiro dei santi della vetrata che, cosi offuscata, dava una luce fioca. Mi indicò le tavolette d'avorio che mandavano un debole lucore nella semioscurità, e vidi che erano ricoperte di caratteri minuti, e mi avvicinai per leggere l'iscrizione. Era in latino, ed esponeva una complessa casistica, illustrata da molti esempi, ma non so se fossero tratti dalla sua vita o da altre vite. Avevo appena letto qualche frase quando mi parve che nella stanza si stesse diffondendo un esile profumo, e mi voltai per domandare ad Aherne se aveva acceso l'incenso. Mi rispose di no, e mi indicò il turibolo che giaceva su un banco, vuoto e arrugginito; mi parve, mentre parlava, che il profumo svanisse, e mi convinsi che me l'ero immaginato. «La filosofia del Liber inducens in Evangelium aeternum ti ha reso molto infelice? », dissi. «In principio ero felicissimo, - rispose, — perché sentivo un'estasi divina, un fuoco immortale in ogni passione, in ogni speranza, in ogni desiderio, in ogni sogno; e vedevo, nelle ombre sotto le foglie, nel cavo delle acque, negli occhi degli uomini e delle donne, l'immagine di quel fuoco, come in uno specchio; ed era come se stessi per toccare il Cuore di Dio. Poi tutto cambiò e fui infelicissimo; e nella mia infelicità mi fu rivelato che l'uomo può giungere a quel Cuore solo mediante quel senso di separazione da esso che chiamiamo peccato, e capii che non potevo peccare, perché avevo scoperto la legge del mio essere, e potevo soltanto esprimere oppure mancar di esprimere il mio essere; e capii che Dio ci ha dato una legge semplice ed arbitraria affinché possiamo peccare e pentirci». Si era accasciato su di un banco di legno, ora, e tace-

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va, il capo chino, le braccia penzoloni, il corpo inerte. Non avevo mai visto, nella vita come nell'arte, un'immagine più eloquente dell'avvilimento. Andai all'altare, e mi ci appoggiai; e lo guardavo senza saper cosa dire; e osservando il suo soprabito nero accuratamente abbottonato, i capelli corti, e il segno circolare della tonsura, che testimoniavano delle sue passate ambizioni ecclesiastiche, capii che il Cattolicesimo si era impadronito di lui nel bel mezzo di quella vertigine che chiamava filosofia; e notai i suoi occhi spenti e il suo colorito terreo, e capii che essa non gli aveva fatto raggiungere la meta: e mi sentii invadere dall'angoscia della pietà. «Forse, - aggiunse, - agli angeli, che hanno cuori d'Estasi Divina e corpi d'Intelletto Divino, basta la sete dell'elemento immortale, nella speranza, nel desiderio, nei sogni; ma noi, che abbiamo cuori che muoiono ad ogni momento, e corpi che si dissolvono come un fiato, dobbiamo chinare il capo e obbedire». Mi feci più vicino e dissi, «La preghiera e il pentimento ti faranno ridiventare un uomo come tutti gli altri». «No, no, - rispose, - io non sono tra coloro per cui Cristo è morto in croce, e perciò devo starmene nascosto. Ho una lebbra che nemmeno l'eternità può curare. Ho visto il tutto, e come potrò mai più credere che una parte sia il tutto? La mia anima è perduta perché ho guardato con gli occhi degli angeli». Tutto a un tratto vidi - o era immaginazione? - la stanza piombare nel buio, e figure dalle lunghe tuniche purpuree, che alzavano fioche torce con braccia dai bagliori d'argento, chinarsi su Owen Aherne; e vidi — o era immaginazione? — delle gocce, come di resina ardente, cadere dalle torce, e un greve fumo violaceo, come d'incenso, sgorgare dalle fiamme e avvolgerci in


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un attimo. Owen Aherne, più fortunato di me che son stato parzialmente iniziato all'Ordine della Rosa Alchimistica, o forse protetto dalla sua grande religiosità, era di nuovo ricaduto nell'avvilimento e nell'apatia, e non vedeva niente di tutto questo; ma a me tremavano le ginocchia, perché le figure dalle tuniche purpuree andavano facendosi sempre più nitide, ed ora sentivo il sibilo della resina delle torce. Sembrava che non mi vedessero, perché avevano gli occhi puntati su Owen Aherne; di tanto in tanto le sentivo sospirare come se fossero addolorate del suo dolore, e poi udii parole che non riuscii a capire, ma capivo che erano parole di dolore, dolcissime, come se un immortale stesse parlando a un altro immortale. Poi una di quelle figure fece ondeggiare la torcia, e tutte le torce ondeggiarono, e per un attimo fu come se un grande uccello di fuoco avesse agitato il suo piumaggio, e una voce che sembrava venire da molto in alto gridò, «Egli ha accusato perfino i suoi angeli di follia, e anch'essi chinano il capo e obbediscono; ma tu fondi il tuo cuore ai nostri cuori, che son fatti d'Estasi Divina, e il tuo corpo ai nostri corpi, che son fatti d'Intelletto Divino». A quel grido capii che l'Ordine della Rosa Alchimistica non era di questo mondo, e che continuava ad andare in cerca, in questo mondo, di qualsiasi anima potesse far cadere nella sua rete scintillante; e quando quei visi si volsero verso di me, e vidi quegli occhi mansueti e quelle palpebre immobili, caddi in preda al terrore, e pensai che mi avrebbero scagliato addosso le loro torce_, per bruciare fino in fondo tutto ciò che avevo di più caro, tutto ciò che mi vincolava a un ordine spirituale e sociale, cosi che la mia anima rimanesse nuda e tremante in balia dei venti che soffiano dall'aldilà, da oltre le stelle; e poi una voce gridò, «Perché

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fuggi le nostre torce che furon fatte con il legno degli alberi sotto i quali pianse Cristo nel Giardino del Getzemani? Perché fuggi le nostre torce che furon fatte con legno dolce, dopo che esso si fu corrotto e fu scomparso dal mondo ? » Fuggii, e soltanto quando la porta di quella casa si fu rinchiusa alle mie spalle, e i rumori della strada mi invasero le orecchie, ritornai in me e ripresi un po' coraggio; e da quel giorno non mi sono mai più azzardato a passare davanti alla casa di Owen Aherne, anche se credo che sia stato trascinato in qualche remoto paese dagli spiriti il cui nome è legione, e il cui trono è nell'abisso indefinito, e che egli serve e obbedisce e non può vedere.


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Una sera che ero rimasto alzato a leggere fino a tarda ora, poco dopo il mio ultimo incontro con Aherne, udii bussare piano alla porta; e trovai sulla soglia tre uomini vecchissimi che impugnavano robusti bastoni, e che mi dissero d'aver saputo che mi avrebbero trovato ancora in piedi, e di avere delle cose importanti da dirmi. Li condussi nel mio studio, e quando le tende con i pavoni si furono rinchiuse alle nostre spalle, misi tre sedie accanto al fuoco, perché vedevo gelati i loro cappotti di lana grossolana, e gelate le loro barbe lunghe fin quasi alla cintola. Si tolsero il cappotto e si chinarono sul fuoco a riscaldarsi le mani, e vidi che i loro abiti avevan molto della foggia campagnola d'oggi, ma con un tocco, cosi mi parve, dello stile cittadino d'una epoca più cortese. Scaldati che si furono - e mi sembrò che si scaldassero non tanto perché la notte era fredda quanto per il piacere del calore per il calore - si volsero verso di me e, il viso segnato dalle intemperie nella luce della lampada, mi raccontarono la storia che sto per raccontare. Parlavano ora l'uno ora l'altro, e si interrompevano spesso l'un l'altro, come i contadini quando raccontano una storia e non vogliono tralasciare alcun particolare. Quand'ebbero finito mi fecero prendere appunto di tutto ciò che avevano riferito, perché avessi le parole esatte, e si alzarono per andarsene, e quando domandai loro dove stavano andando,


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e cosa stavano facendo, e con che nome dovevo chiamarli, non vollero dirmi niente, tranne che era stato loro ordinato di viaggiare continuamente in lungo e in largo per l'Irlanda, e a piedi e di notte, per vivere accanto alle pietre e agli alberi e nelle ore in cui gli Immortali son desti. Ho atteso alcuni anni prima di scrivere per esteso questa storia, perché ho sempre paura delle illusioni che vengono da quell'inquietudine del velo del Tempio, che secondo Mallarmé è una caratteristica della nostra epoca; e adesso la scrivo solo perché mi sono persuaso che non c'è idea pericolosa la quale non diventi meno pericolosa quando vien messa sulla pagina in uno stile schietto e accurato. I tre vecchi erano tre fratelli che, fin dall'inizio dell'età virile, avevano vissuto in una delle isole occidentali, e in tutta la loro vita nuU'altro avevano amato che quegli scrittori classici e quegli antichi scrittori gaelici i quali descrivevano una vita semplice ed eroica. Notte dopo notte d'inverno, intorno al whiskey fatto in casa di nascosto, novellatori e cantastorie gaelici recitavano loro antichi poemi; e notte dopo notte d'estate, quando novellatori e cantastorie erano al lavoro nei campi o fuori a pesca, eran soliti leggersi l'un l'altro Virgilio e Omero, poiché non volevano godere in solitudine, ma godere come gli antichi. Finalmente un uomo, che diceva di chiamarsi Michael Robartes, arrivò su un peschereccio, attratto come San Brendano da qualche visione e chiamato da qualche voce; e disse loro che gli dèi e le cose antiche stavano per tornare; e i loro cuori, che non avevano mai tollerato il corpo e la pressione del nostro tempo, ma solo di tempi lontani, non trovarono niente d'inverosimile in ciò ch'egli diceva loro, ma accettarono tutto con semplicità e furo-

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no felici. Passarono gli anni, e un giorno, mentre il più vecchio dei tre vecchi, che da giovane aveva viaggiato e pensava ogni tanto ad altre terre, guardava la grigia distesa delle acque, su cui taluni vedono l'incerta sagoma delle Isole dei Giovani - le Isole Felici dove gli eroi gaelici vivono la vita dei Feaci di Omero una voce scese dall'aere sulle acque e gli disse che Michael Robartes era morto. Non avevano ancora finito di portare il lutto per quella perdita che il secondo dei tre vecchi si addormentò mentre leggeva la Quinta Egloga di Virgilio agli altri, e una voce strana parlò attraverso le sue labbra, e ordinò loro di partire per Parigi, dove una donna morente avrebbe dato loro dei nomi segreti e con ciò trasformato il mondo a tal punto che un'altra Leda avrebbe aperto le ginocchia al cigno, un altro Achille assediato Troia. Lasciarono la loro isola, e furono dapprima turbati da quanto vedevano nel mondo, e giunsero a Parigi, e li il più giovane incontrò in sogno una persona, la quale gli disse che dovevano vagabondare a casaccio finché coloro che avevano guidato i loro passi non li avessero condotti in una strada e a una casa simili alla strada e alla casa del sogno. Vagabondarono qua e là per diversi giorni, finché una mattina capitarono in certi vicoli squallidi e angusti, a sud della Senna, dove donne dal volto pallido e dai capelli in disordine li guardavano dalle finestre; e proprio mentre stavano per tornare sui loro passi perché la Sapienza non poteva esser scesa in un quartiere cosi assurdo, arrivarono alla strada e alla casa del sogno. Il più vecchio dei tre vecchi, il quale ricordava ancora qualcosa delle lingue moderne che sapeva da giovane, andò alla porta e bussò, e quand'ebbe bussato, il secondo vecchio disse che quella non era una casa per bene, e non poteva essere la casa che 6


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stavano cercando, e lo esortò a chiedere di qualcuno che non potesse trovarsi li e ad andarsene. La porta fu aperta da una vecchia vestita in modo molto vistoso, che disse, «Oh, voi siete i suoi parenti irlandesi. È tutto il giorno che vi aspetta». I vecchi si scambiarono uno sguardo e la seguirono su per le scale, passando davanti a porte da cui facevano capolino donne pallide e discinte, e in una stanza dove giaceva addormentata, vegliata da un'altra donna, una donna bellissima. La vecchia disse, « Si, sono arrivati finalmente; adesso potrà morire in pace», e usci. «Siamo stati ingannati dai diavoli, - disse uno dei vecchi, — perché gli Immortali non parlerebbero per bocca d'una donna come questa». « È vero, - disse un altro, - siamo stati ingannati dai diavoli, e dobbiamo andarcene in fretta». « Si, - disse il terzo, - siamo stati ingannati dai diavoli, ma inginocchiamoci un momento, perché siamo accanto al letto di morte di una che è stata bellissima». Si inginocchiarono, e la donna che sedeva accanto al letto, sussurrò a capo chino, come se avesse paura, «Nell'istante in cui avete bussato è caduta in preda alle convulsioni e ha gridato con voce da partoriente ed è ripiombata sul letto come in deliquio». Poi osservarono per un po' quel volto sul cuscino, stupiti della sua espressione, come d'inestinguibile desiderio, e della squisita finezza, come di porcellana, del vaso in cui aveva bruciato una fiamma cosi maligna. Improvvisamente il secondo vecchio cantò come un gallo, finché la stanza non sembrò tremare sotto la forza di quel canto. La donna che giaceva sul letto non si svegliò dal suo sonno di morte, ma la donna che sedeva al suo capezzale si fece il segno della croce e impallidi, mentre il più giovane dei tre vecchi gridava, «Gli è en-

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trato un diavolo in corpo, e se non ce ne andiamo di qui faremo la stessa fine». Ma prima che riuscissero ad alzarsi in piedi, una voce stentorea usci dalle labbra che avevan cantato come un gallo, e disse come salmodiando: «Non sono un diavolo, ma sono Ermes, Pastore dei morti e messaggero degli dèi, e quello che avete udito è il mio segnale. La donna che giace su quel letto ha partorito, e ha dato alla luce un essere che ha l'aspetto di un unicorno ed è, di tutti gli esseri viventi, il meno simile all'uomo, poiché è freddo, duro e virginale. Sembrò che nascesse danzando; e lasciò questa stanza quasi all'istante, poiché è nella natura dell'unicorno il capire la brevità della vita. Ella non sa che se n'è andato, perché mentre l'unicorno danzava cadde in uno stato di stuporosa incoscienza, ma voi chinate il capo e porgete orecchio in modo da apprendere i nomi cui esso deve obbedire». Gli altri due vecchi tacquero, ma certamente guardarono perplessi quello che aveva parlato, perché la voce riprese: «Qualora gli Immortali volessero rovesciare le cose che sono oggi e restaurare le cose che erano ieri, nessuno potrebbe aiutarli se non qualche reietto messo ai margini dalle cose che sono oggi. Inchinatevi, e profondamente, che essi hanno prescelto questa donna nel cui cuore si son raccolte tutte le follie, e nel cui corpo si son risvegliati tutti i desideri; questa donna che è stata sottratta al tempo e ha giaciuto sul seno dell'Eternità». La voce si spense in un sospiro, e subito il vecchio si risvegliò dal sonno e disse, «Una voce ha parlato attraverso la mia bocca, come quando mi addormentai leggendo Virgilio, oppure ho soltanto dormito? » Il più vecchio dei tre disse, «Una voce ha parlato attraverso la tua bocca. Dov'era la tua anima mentre quella voce parlava? » «Non so dove fosse la mia anima, ma sognavo d'es-


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sere sotto il tetto di un presepio, e guardavo in giù e vedevo un bue e un asino; e vedevo un gallo rosso appollaiato sulla rastrelliera del fieno; e una donna che stringeva al seno un bambino; e tre vecchi in cotta di maglia inginocchiati a capo chino dinanzi alla donna e al bambino. Mentre guardavo, il gallo ha cantato e un uomo dai talloni alati si è alzato in volo con un guizzo e, passandomi accanto, ha gridato, "Vecchi sciocchi, un tempo avevate tutta la sapienza delle stelle". Non capisco questo mio sogno né che cosa ci indichi di fare, ma voi che avete udito la voce della sapienza parlare attraverso il mio sogno sapete che cosa dobbiamo fare». Allora il più vecchio dei tre vecchi gli disse che dovevano cavar fuori di tasca le pergamene che avevano portato con sé e stenderle per terra. Quando le ebbero stese per terra, cavaron fuori di tasca le loro penne, fatte con tre piume cadute dalle ali della vecchia aquila che si crede abbia parlato di sapienza con San Patrizio. «Secondo me, - disse il più giovane, mentre posava i boccettini d'inchiostro accanto ai rotoli di pergamena, - voleva dire che tutti coloro che sono buoni piacciono al mondo, e il mondo se ne impossessa, e perciò l'eternità si manifesta attraverso coloro che non sono buoni o che sono stati dimenticati. Forse il Cristianesimo era buono e piaceva al mondo, e perciò adesso sta scomparendo e gli Immortali cominciano a risvegliarsi». «Ciò che dici è privo di sapienza, - disse il più vecchio, - perché se ci sono molti Immortali, non ci può essere un solo Immortale». «Eppure, - disse il più giovane, - sembra che i nomi che dobbiamo trascrivere siano i nomi di uno solo, e perciò è probabile che possa prendere molte forme».

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Allora la donna che giaceva sul letto si mosse come in sogno, e tese le braccia come ad afferrare l'essere che l'aveva abbandonata, e mormorò nomi strani eppur dolcissimi, «Cara amarezza», «O solitudine», «O terrore», dopodiché giacque immobile per un po'. Poi la sua voce mutò, ed ella, senza più né paura né gioia ma come una qualsiasi moribonda, mormorò un nome tanto sommessamente che la donna che sedeva accanto al letto si chinò e avvicinò l'orecchio alla sua bocca. Il più vecchio dei tre vecchi disse in francese, «Ci dev'essere ancora un altro nome che non ci ha dato, perché mentre lo spirito stava uscendo dal suo corpo ha mormorato un nome», e la donna disse, «Stava semplicemente mormorando il nome di un pittore simbolista che le piaceva molto. Soleva frequentare certi riti che chiamava Messe Nere, ed è stato lui a insegnarle ad avere delle visioni e a udire delle voci». I vecchi non mi dissero altro, e quando penso alle loro parole e ai loro silenzi, al loro arrivo e alla loro partenza, son quasi persuaso che se fossi uscito di casa per seguirli non avrei trovato alcuna impronta sulla neve. Forse — ma chi potrebbe dirlo? - appartenevano essi stessi al novero degli Immortali: demoni immortali, venuti a insinuarmi in mente, per uno scopo che non capisco, una storia menzognera. Qualunque cosa fossero, ho imboccato un sentiero che mi condurrà lontano da loro e dall'Ordine della Rosa Alchimistica. Non vivo più una vita raffinata e superba, ma cerco di perdermi tra le preghiere e i dolori della moltitudine. Preferisco pregare in povere cappelle, dove cappotti di panno ruvido mi sfiorano mentre mi inginocchio, e quando prego per tener lontani i demoni ripeto una preghiera gaelica scritta non so quanti secoli fa per aiutare qualche pover'uo-


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mo o povera donna che aveva sofferto pene simili alle mie: Seacht b-pàidreacha fó seacht Chuir Muire faoi n-a Mac, Chuir Brighici faoi n-a brat, Chuir Dia faoi n-a neart, Eidir sinn 'san Sluagh Sidhe, Eidir sinn 'san Sluagh Gaoith. Sette volte sette pater, Manda Maria in nome del suo Figliolo, Manda Brigida in nome del suo mantello, Manda Dio in nome della Sua forza, Tra noi e le schiere fatate, Tra noi e i demoni dell'aria.

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Nota introduttiva di Renato Oliva Nota bio-bibliografica

Rosa Alchemica

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Centopagine Pubblicazione mensile, 3 gennaio 1976 Direttore responsabile: Italo Calvino Registrazione presso il Tribunale di Torino, n. 2336, del 30 aprile 1973 Stampato in Torino per i tipi della Casa editrice Einaudi

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« Son passati più di dieci anni dal giorno in cui vidi, per l'ul t i m ; i < volta, Michael Robartes, e per la prima volta i suoi amici e condiscepoli; e fui testimone della sua e della loro tragica fine, e passai attraverso strane esperienze che mi hanno cambiato a tal punto che i miei scritti si sono fatti più oscuri e piacciono di meno; e forse sarò costretto ad indossare la tonaca e a cercar rifugio nell'ordine di San Domenico». Cosi comincia la straordinaria avventura d'un giovane esteta irlandese, Owen Aherne, tentato dal fascino dell'occultismo e dall'ascendente di uno straordinario personaggio d'illuminalo e di mago: Michael Robartes. «Mi trovai dinanzi Michael Robartes, che non vedevo più da anni: i capelli rossi arruffati, l'occhio fiero, le labbra frementi e sensitive e gli abiti grossolani che lo facev'ano somigliare, proprio come quindici anni addietro, a un incrocio tra un debosciato, un santo, e un contadino». Robartes è un personaggio che incontriamo più volte nella poesia di Yeats e nelle sue prose più esoteriche, ma mai come nei tre racconti di questo volume, - che formano un tutto di grande coerenza - le visioni di Yeats si trasformano in narrazione di tanta esattezza compositiva ed efficacia. Assistiamo nella Rosa Alchemica a un rito in una torre solitaria in cui rivive l'antichità pagana, celtica e classica. Nelle Tavole della Legge l'oggetto magico è il libro dell'eresia medievale di Gioacchino da Fiore che apre la visione insostenibile della totalità, ì^àì'Adorazióne dei Magi i Re appaiono nella misera stanza d'una prostituta parigina. Tutto quel che la letteratura d'ispirazione esoterica ha solitamente di sovrabbondante e congestionato è miracolosamente lontano da questi racconti, che per il taglio narrativo stretta- | mente delineato, la qualità preziosa delle evocazioni intellet- 1 tuali e visive, lo slancio appassionato e insieme la sottile ambi-....& guità e ironia, sono certo tra i capolavori del genere.

Lire 2000

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