Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
QUALITÀ DELLA VITA E MALATTIA MENTALE.
TESI DI MASTER di LUCA BARONI
Corso di perfezionamento in Bioetica anno 2000
INDICE
1. Breve introduzione
2. Follia e filosofia
3. L’Altro 3.1 La logica della follia: Nataniele e l’Uomo della sabbia
4. Il Sacro 4.1 Il Sacro e la follia 4.2 Sacro e trascendenza
5. Suggerimenti per migliorare la qualità della vita del malato mentale
6. Considerazioni conclusive: le stanze del Persecutore, il carcere e l’azienda
7. Bibliografia
NOTA REDAZIONALE Questa tesi si compone di 5 9 pagine
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1. BREVE INTRODUZIONE
Parleremo della follia, ma non lo diremo quasi mai. Useremo invece il sintagma | malattia mentale | non senza però avere primariamente chiarito cosa intendiamo significare esattamente con esso. Quindi stabiliremo il perché la filosofia ha il diritto, e forse anche il dovere di occuparsi della malattia mentale. Attraverso le dinamiche del rapporto con l’altro da sé, privilegiando la categoria dello sguardo, vedremo come nella malattia mentale si radicalizzi drammaticamente il terrore per “colui che non è me” sfociando detto terrore nell’incubo dell’assoluto trascendente. Dopo la categoria dello sguardo introdurremo dunque la categoria del sacro e indagheremo come essa possa manifestarsi in un rapporto dialogico sano o in un rapporto pseudo-dialogico malato. Prima però scandaglieremo la logica della malattia mentale prendendo per esempio il caso letterario di Nataniele e l’uomo della sabbia. Dopo avere stabilito che il problema della malattia mentale è essenzialmente il problema dell’Altro e che l’essere della malattia mentale rientra comunque entro i confini di una sia pure pervertita logica, vedremo come l’attività lavorativa, agendo proprio sulla logica della follia, possa giovare alla qualità della vita del malato mentale.
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2. FOLLIA E FILOSOFIA
E’
famosa
l’asserzione
di
Wittgenstein secondo la quale “tutto ciò che può essere detto si
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Noi non possiamo pensare nulla d’illogico. L. WITTEGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus
può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”1. Noi dobbiamo dunque stabilire innanzitutto se la filosofia può parlare della malattia mentale. Qualora l’esito di tale indagine fosse positivo dovremo inoltre parlare chiaramente al proposito. Già il sintagma | malattia mentale | presenta un fondamentale problema. Potrebbe infatti trattarsi di un ossimoro più o meno mascherato. Il termine | malattia | rimanda ad una dimensione essenzialmente medica. Il medico osserva certi sintomi e dalla loro osservazione ricava una determinata diagnosi. Se i sintomi sono patologici, ovvero se riguardano l’errato funzionamento di certi organi, allora egli sa di trovarsi di fronte ad una malattia. Il termine | mentale | indica la mente. Ma la mente non implica alcunché di corporeo, o comunque non lo implica necessariamente. Se parlando della follia si fosse voluto fare riferimento ad un preciso organo si sarebbe parlato di | malattia cerebrale |, definendo in questo modo l’errato funzionamento del cervello. Escludendo le conclusioni di un certo materialismo ingenuo e nonostante analisi raffinate ed affascinanti come
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L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1995, p.23
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quelle di Edelman2, ci sentiamo di escludere un’identificazione tra mente e cervello ed anche tra mente e processi neuronali, proprio in quanto con la scelta linguistica del termine | mente | si esclude automaticamente il termine | cervello |. Escludendo il termine | cervello | si esclude una dimensione puramente organicistica. Ora, se | mente | non indica un organo del corpo né il risultato di processi organici (almeno non solo) e se, al contempo | malattia | si riferisce agli organi del corpo, possiamo concludere di trovarci di fronte ad un ossimoro. Con l’espressione | malattia mentale | si afferma che la follia è qualcosa che riguarda l’organismo (| malattia |) e che è qualcosa che non riguarda l’organismo (| mentale |). Abbiamo insomma la congiunzione logica di questi due sintagmi: | riguarda l’organismo | ∧ | ∼ (riguarda l’organismo) |, ovvero, in termini più formali: p ∧ ∼ p, il che significa contraddizione. L’espressione | malattia mentale | è dunque contraddittoria. C’è un modo per uscire dalla contraddizione. Occorre estendere il significato di | malattia | ad ogni modo dell’essere umano nel mondo. Allora quando parleremo di | malattia mentale | intenderemo l’errato funzionamento della mente. Il funzionamento della mente si esplica con l’attività della ragione. Non è un caso che nel linguaggio comune quando ci si trova davanti ad un caso di follia si dice che “quell’uomo sragiona”. Con
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G. EDELMAN, Darwinismo neurale, Einaudi, Torino, 1996; Il presente ricordato, Rizzoli, Milano 1991 ; Sulla materia della mente, Adelphi, Milano, 1993 ; [con TONONI] Un universo di coscienza, Einaudi, Torino, 2000.
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| malattia mentale | si intende quindi l’errato funzionamento della ragione. La disciplina che si occupa del funzionamento della ragione è la filosofia. Dunque la filosofia ha pieno diritto di parlare di malattia mentale. Così facendo, infatti parla del proprio oggetto specifico, ovvero parla della ragione. Dice Cassinelli: “L’analisi filosofica è necessaria per lo sviluppo dell’incognita “follia”, necessaria in quanto soltanto l’arte del ragionare può definire certi squilibri del ragionamento […]. Dato che nulla è al di fuori della ragione, solo la ragione può capire le proprie leggi e le proprie anomalie”3. Si può obiettare che tale affermazione pecchi di un eccesso di razionalismo, laddove si dice che “nulla è al di fuori della ragione”, ma per il resto essa ci sembra condivisibile in pieno. Ciò che vogliamo sottolineare, qui e in seguito, è che la malattia mentale non è un evento arazionale o irrazionale, bensì è la manifestazione di una ragione altra. Quando la ragione imbizzarrisce la si chiama follia, ma è pur sempre ragione. La filosofia può dunque scandagliarne gli abissi.
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B. CASSINELLI, Storia della pazzia, dall’Oglio, Milano, 1964, p. 19 .
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3. L’ALTRO E’ vero, ci sono le guerre, i
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cataclismi, le crisi economiche e politiche, i ladri e gli assassini, ma
E’ impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto. ARISTOTELE, Metafisica
il fondamentale problema dell’uomo è l’esistenza dell’altro da sé. L’Altro è un problema non perché mi fa del male o mi giudica severamente. è un problema in quanto esiste all’infuori di me. L’Altro è il killer della mia onnipotenza. Sartre identifica nella categoria dello sguardo la modalità principale con la quale la presenza dell’Altro incombe sulla mia esistenza4. Il primo fenomeno che prende in considerazione è quello della vergogna. “La vergogna nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno. Faccio un gesto maldestro o volgare: quel gesto aderisce a me, non lo giudico né lo biasimo, lo vivo semplicemente […]. Ma ecco che improvvisamente alzo gli occhi: qualcuno era là e mi ha visto […]. Altri è il mediatore indispensabile tra me e me stesso”5. Finché non mi so guardato galleggio nel liquido amniotico della mia (presunta) onnipotenza. Solo io esisto e tutto ciò che mi circonda è Oggetto. Irrompe l’Altro. I miei occhi incontrano i suoi. Di colpo, lo sguardo dell’Altro mi sdoppia, mi scinde da me stesso. Un’altra soggettività è entrata nel mio orizzonte. 4
J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1991, pp. 321-377.
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L’Altro mi strappa dal grembo nel quale esistevo. Vengo partorito nella Realtà. La mia psiche strilla e cerca rifugio in un seno buono. Ma nel mondo dell’Altro non esistono seni: solo occhi. Occhi che mi guardano. All’interno della fenomenologia dello sguardo troviamo un momento nel quale, con lo scoprirmi guardato, mi scopro oggetto, cosa tra le cose. Tutta la corporalità del mio essere mi invade la coscienza. Scoprendomi corpo, materia, mi scopro decomponibile, ovvero mortale. L’Altro mi guarda ed io vedo la mia morte. Qualunque cosa egli faccia, l’Altro ha sempre con sé una falce, e quella falce è per me. Attraverso lo sguardo l’Altro mi si presenta dunque come entità sepolcrale. Il suo volto è quello di un teschio le cui orbite sono però riempite da occhi voraci. Basta il suo guardarmi perché io senta nella carne brulicare i vermi della decomposizione. Oltre alla dimensione mortuaria c’è un’altra dimensione nella quale mi appare l’Altro ed è la dimensione della trascendenza. Abbiamo visto che fino a quando sono, o mi credo solo vivo in un mondo pieno di oggetti sottomessi al mio psichismo. Nulla mi sfugge. Ogni cosa entra nel dominio della mia mente. E la mia mente è mente cosmica, onnicomprensiva, totalizzante. Appare l’Altro. Il mio essere cosmico si rattrappisce in un grumo di materia. In un momento successivo recupero la mia soggettività ma adesso c’è l’Altro e l’Altro non è un oggetto. Ma se non è un oggetto e
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Ibid., pp. 285-286.
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non è me, allora l’Altro è qualcosa che va oltre la mia dimensione esistenziale, venendosi così a costituire quale universo alieno. In quanto entità sepolcrale l’Altro è minaccioso, in quanto universo alieno l’Altro è trascendente. Prima però di analizzare la struttura della trascendenza dell’Altro dobbiamo soffermarci ad esaminare, sia pure brevemente, quella che chiameremo la logica della follia. Per fare ciò prenderemo in esame il caso di Nataniele e l’uomo della sabbia.
3.1 La logica della follia: Nataniele e l’uomo della sabbia Potrebbe sembrare che l’analisi di un testo letterario ci allontani dal vivo della discussione bioetica. Speriamo invece di dimostrare il contrario, ovvero che immergendoci nella follia di Nataniele e smontandola pezzo dopo pezzo fonderemo i presupposti affinché il discorso possa procedere in modo produttivo. Certe sere, quando Nataniele è ancora bambino, il papà diviene insolitamente cupo e la mamma si premura ansiosa di mandare a letto i figli. La minaccia che pesa sui piccoli è terribile: se non vanno a letto arriva l’uomo della sabbia che li punirà. E ognuna di quelle sere Nataniele ode i passi dell’uomo della sabbia echeggiare per la casa. Tocca alla vecchia governante dare al bambino informazioni sul mostro che lo perseguita. Gli 9
spiega che l’uomo della sabbia “è un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare dalla testa; poi li prende così sanguinanti, li mette in un sacco e li porta nella luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco curvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi”6. E’ significativo che il nido dell’uomo della sabbia sia situato proprio sulla luna, luogo da sempre deputato a rappresentare, insieme alla notte (qui richiamata dal paragone figli dell’uomo della sabbia / civette) gli aspetti oscuri dell’animo umano. Secondo una leggenda ebraica la luna è il luogo dell’aldilà. Nel canto XXXIV dell’Orlando furioso7 Astolfo, sulla luna, trova le ampolle contenenti il senno perduto dagli uomini e s’imbatte nelle Parche. In questo modo la luna si viene a configurare quale luogo d’elezione di Follia e Destino. E’ proprio su questa luna che Nataniele bambino depone il proprio senno e determina la propria sorte. A questo punto è bene esplicitare una cosa. Non siamo assolutamente d’accordo con l’interpretazione data da Freud8 a proposito di Der Sandmann, secondo la quale 1) la paura di perdere gli occhi nasconde la paura di essere evirato e 2) l’uomo della sabbia esiste davvero, con tutte le conseguenze del caso. Riteniamo invece che 1) la paura di perdere gli occhi sia la paura di perdere il potere cosificante dello sguardo, con il quale ci 6
E.T.A. HOFFMANN, L’uomo della sabbia, Rizzoli, Milano, 1983, p. 15.
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appropriamo delle cose intorno a noi assimilandole al nostro psichismo; in questo senso la paura di perdere gli occhi è paura di perdere il controllo di ciò che ci circonda. Riteniamo poi che 2) l’uomo della sabbia sia il protagonista principale del sistema delirante che si attiva in Nataniele, anche qui con tutte le conseguenze del caso, che ovviamente sono radicalmente differenti da quelle tratte da Freud. Passano gli anni ma l’uomo della sabbia continua ad essere per Nataniele uno “spettro la cui immagine non impallidiva”9. Finalmente, una sera, Nataniele decide di porre fine ai dubbi, spia il padre in attesa dell’ignoto ospite e scopre di chi si tratta: “Il terribile uomo della sabbia è il vecchio avvocato Coppelius”10. Questa rivelazione toglie Nataniele dallo stato d’indeterminazione nel quale si trovava da lungo tempo. Prima l’uomo della sabbia, del quale Nataniele mai ha posto in dubbio l’esistenza, era un’entità magmatica, indefinita, “spettrale”. Eppure, a dispetto del fantasticante ricettacolo mentale popolato da varie possibilità di uomo della sabbia, Nataniele ha sempre saputo che l’uomo della sabbia esiste, ed è uno. Occorre adesso separare due problemi. Una cosa è la questione dell’identità dell’uomo della sabbia, che fino alla sera di cui parliamo è a Nataniele assolutamente ignota, altra cosa è invece la questione della forma morfologica dell’uomo della sabbia la quale
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L. ARIOSTO, Orlando furioso, Garzanti, Milano, 1989. S. FREUD, “Il perturbante”, in Opere vol. IX, Boringhieri, Torino, 1996. 9 E.T.A. HOFFMANN, Op. cit., p. 15. 10 Ibid., p. 17. 8
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nell’universo mentale di Nataniele è perennemente cangiante. Nataniele si trova di fronte a quella che Russel11 individua come caso semplice di funzione proposizionale, ovvero: “x è a” dove a = uomo della sabbia, in modo che: “x è l’uomo della sabbia”. La funzione proposizionale, finché x rimane
R. CARNAP, Introduzione alla Logica Simbolica, La Nuova Italia, Firenze 1978.
variabile indipendente incognita, non è una proposizione, il che significa che non se ne può asserire né la verità né la falsità. In altre parole, lo stato d’indeterminazione proprio della situazione mentale di Nataniele è lo stato d’indeterminazione del caso semplice di funzione proposizionale. All’apparire di Coppelius lo stato d’indeterminazione viene a cadere e si ha la proposizione | Coppelius è l’uomo della sabbia |. Nataniele assente a tale proposizione e di qui ha inizio il suo delirio. A stretto rigore, questo meccanismo logico non è solo particolare, in quanto abbiamo un insieme A che contiene un solo elemento (a), ma è anche e soprattutto anomalo. E l’anomalia si approfondisce se analizziamo
il
meccanismo
psichico che in Nataniele precede
11
Proiezioni fantasmatiche insiemistico.
e
caos
B. RUSSELL, I principi della matematica, Newton, Roma 1989.
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il delirio12. Durante il suo stato d’indeterminazione Nataniele, oltre che all’insieme A (a), fronteggia l’insieme B (b1… bk) popolato dalle sue proiezioni fantasmatiche relative alla morfologia dell’uomo della sabbia. Questo insieme si colloca poco sopra l’insieme A e fa piovere su di esso le ombre delle forme che lo abitano. Qui risiede la singolarità logica dell’essere psichico di Nataniele in quanto 1) il fatto che B si trovi sopra A introduce la nozione di spazio tridimensionale, generalmente estraneo alla rappresentazione grafica degli insiemi e 2) le ombre proiettate da B in A rendono A un insieme caotico che contraddice la natura stessa degli insiemi classici e in particolar modo quella di un insieme contenente un solo elemento. Supponiamo che sia proprio per togliere il caos che Nataniele si decide per il delirio. Esso viene a configurare un nuovo ordine e un nuovo mondo. E’ importante tenere presenti i due punti appena esposti, perché sarà proprio
partendo
da
essi
che
indagheremo i modi coi quali il
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In un’ora d’angoscia ho sottoscritto una menzogna. M. SHELLEY, Frankenstein
lavoro può giovare al malato mentale, spesso lacerato tra il terrore del caos e l’ordinato gelo del delirio. Coppelius e il padre indossano tuniche nere e aprono i battenti di un armadio che si rivela “una caverna nera nella quale sorgeva un piccolo
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Non usiamo il termine | delirio | in modo strettamente medico, perché non siamo medici. Con esso intendiamo uno stato di distacco dalla realtà caratterizzato da convinzioni fantastiche. Naturalmente ci guardiamo bene da intendere, in questo ambito, il concetto di realtà come concetto problematico, anche se lo è.
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focolare”13. Continuando a spiare i due a Nataniele sembra di “vedere intorno tanti volti umani, ma senza occhi: al posto degli occhi erano cavità nere e
I. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino 2000
profonde. “Qua gli occhi! qua gli occhi!” gridava Coppelius con voce cupa e tonante”14. Dopo aver acceso un fuoco Coppelius si avvede della presenza di Nataniele e lo afferra. “Qui ci sono occhi… occhi… un bel paio d’occhi di fanciullo”15. Sta per buttargli negli occhi cenere incandescente quando interviene suo padre. E Coppelius: “Se li tenga pure, gli occhi, il ragazzo e frigni la sua parte nel mondo; ma vediamo un po’ da vicino il meccanismo delle mani e dei piedi!” Così dicendo mi strinse con forza le giunture facendole crocchiare e mi svitò le mani e i piedi e andava rimettendo a posto ora quelle, ora questi”16. Quando appare L’uomo della sabbia nella raccolta Notturni è il 1818. Ci troviamo dunque nel periodo romantico, che segna la “rivolta contro la ragione astratta e la ricerca dell’ordine”17. O, per dirla con Hegel: “Il vero contenuto del romantico è l’interiorità assoluta”18. Il romanticismo si oppone al logoscentrismo illuministico19 che stacca la testa, sede della ragione, dal resto del corpo e che ha quale simbolo perverso proprio la
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E.T.A. HOFFMANN, Op. cit. p. 18. Ibid., p. 18-19. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 J. BARZUN, Dall’alba alla decadenza, Rizzoli, Milano 2000, p. 593. 18 G.W.F. HEGEL, Estetica, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, p. 583. 19 Per il termine | logoscentrismo | ci ispiriamo a J. DERIDDA,, che nel suo testo Della grammatologia (Jaca Book, Milano 1998) parla di | logocentrismo |, ovviamente intendendo qualcosa di differente sia per significato sia per uso contestuale. 14
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ghigliottina. E scopre che ogni pensiero dell’uomo è “pieno d’emozioni”20. Barzun individua nel connubio tra cuore e ragione la cifra caratteristica del romanticismo. “Si avverte il bisogno di studiare la combinazione tra la ragione e il cuore come se fosse una forza unica, mentre si dà forma alle sue implicazioni meno coscienti. Possiamo individuare nell’immagine romantica del Doppelgänger (“alter ego”) un simbolo dei due livelli attraversati dal pensiero”21. Inoltre “la leggenda del Doppelgänger […] rappresenta la doppia personalità di ognuno, l’altra metà che abbiamo dentro e che può essere buona o malvagia”22. Abbiamo così stabilito tre punti fondamentali del romanticismo, che sono: 1) la rivolta contro ragione astratta e ordine, 2) l’interiorità assoluta e 3) l’immagine del Doppelgänger. Ebbene, tutti e tre questi punti entrano a costituire la struttura dell’episodio delirante sopra descritto. Infatti nel delirio succede che 1) la ragione intesa come ragione raziocinante e l’ordine inteso come adeguamento, tramite questa ragione, dell’essere dell’uomo all’essere del mondo vengono sconvolti e l’individuo si trova in un altro mondo nel quale vigono altre leggi secondo le quali, ad esempio, mani e piedi possono essere staccati e riattaccati a piacimento; 2) l’interiorità è così assoluta23 da assimilare in sé il mondo esterno oppure, movimento opposto ma identico nei risultati, è così assoluta da riversarsi 20
J. BARZUN, Op. cit., p. 599. Ibid., p. 599. 22 Ibid., p. 603. 21
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sull’esterno come una letale alluvione psichica che non risparmia niente e nessuno; 3) l’uomo della sabbia è il Doppelgänger di Nataniele, rappresenta la parte ferina, bestiale e perversa che egli non riesce ad accettare in se stesso. Partendo dai tre punti che caratterizzano il romanticismo siamo infine arrivati a delineare le tre entità che caratterizzano la malattia mentale, esemplificata dall’episodio delirante. Queste tre entità sono: 1) il mondo nuovo con nuove leggi, 2) la fuoriuscita emorragica della psiche sull’esteriorità (l’alluvione psichico), 3) il Doppelgänger, ovvero il Persecutore. Intanto Nataniele è cresciuto. Ora è un giovane uomo. Le cose sembrano andare bene fino al giorno in cui s’imbatte in un venditore di barometri che si fa chiamare Coppola ma sulla cui identità Nataniele non ha dubbi: “Quel venditore di barometri era precisamente il maledetto Coppelius”24. Poco tempo dopo, in un sussulto di lucidità Nataniele torna sui suoi passi e afferma: “è ben certo che Giuseppe Coppola, il venditore di barometri, non è punto il vecchio avvocato Coppelius”25. Conosce il professor Spallanzani del quale vede anche la figlia. La scopre come ha scoperto anni addietro l’identità dell’uomo della sabbia: spiando. “Mi accorgo che la tenda tirata di solito su una porta a vetri lascia libera una piccola fessura. Non so come,
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Sappiamo bene che una cosa o è assoluta o non lo è ma ci permettiamo di anteporre l’avverbio ! così | al termine | assoluta | per rendere meglio l’idea della radicalità dell’interiorità di cui parliamo. 24 E.T.A. HOFFMANN, Op. cit., p. 21. 25 Ibid., p. 24.
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mi vien voglia di guardarvi e di curiosare”26. Così Nataniele vede Olimpia, il cui viso è “angelico” ma i cui occhi “avevano una fissità strana, direi quasi senza vista, e pareva dormisse ad occhi aperti […]. Ci dev’essere qualche mistero, può darsi che sia scema o qualche cosa di simile”27. Gli occhi di Olimpia hanno una
H.F. ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio, 2 voll., Boringhieri, Torino 1999.
“fissità strana” e sembra che la ragazza “dorma ad occhi aperti”. Olimpia si trova nello stato paradossale di veglia onirica. Ora, lo stato di veglia onirica e la strana fissità dello sguardo caratterizzano 1) gli ipnotizzati (siano in un periodo storico, i primi dell’Ottocento, nel quale si diffondono e si sviluppano gli studi su magnetismo e sonnambulismo), 2) i pazzi. Olimpia, con il suo sguardo strano, con i suoi movimenti meccanici e con i suoi gesti stereotipati rappresenta proprio l’icona ottocentesca della pazzia e del mistero dell’inconscio, che si cerca di sondare attraverso il magnetismo. Per Nataniele il periodo di lucidità ha breve durata e ben presto scivola di nuovo nel mondo fantastico della propria psiche sconvolta. “Ogni cosa, la vita intera gli era diventata sogno e presentimento; e continuava a dire che ogni uomo, pur credendosi libero era asservito al gioco crudele di poteri oscuri contro i quali era vano ribellarsi […]. Arrivava al punto di asserire che era stolto credere di poter agire ad arbitrio nell’arte o nella scienza; l’ispirazione, infatti, nella quale soltanto si è capaci di creare, non 26
Ibid., p. 25.
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proviene dal proprio io, ma sarebbe l’influsso di qualche principio superiore al di fuori di noi”28. Nataniele è, letteralmente, espropriato da se stesso. In questo senso possiamo dire che egli è, altrettanto letteralmente, un alienato. Ed il “principio superiore” di cui avverte la presenza è l’Altro come essere assolutamente trascendente. Quando Nataniele litiga con Clara, la sua fidanzata, lo udiamo urlare: “Va, automa dannato, inanimato!”29. L’unico modo per combattere il terrore dell’Altro è rendere l’Altro un Oggetto: un automa, appunto. Ma è una battaglia che conduce inesorabilmente verso
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Una “funzione proposizionale”, di fatto, è una espressione che contiene uno o più costituenti indeterminati, tali che, quando si assegnano dei valori a questi costituenti, l’espressione diventa una proposizione. B. RUSSELL, Introduzione alla filosofia t ti
una rovinosa sconfitta. Il mondo si trasfigura e Nataniele affonda sempre di più nel liquame del delirio, sino all’episodio che segna il suo definitivo approdo nel mondo della follia (dopo un periodo di illusoria stabilità psichica Nataniele morrà suicida). “Nataniele rimase di sasso: fin troppo chiaramente aveva visto che il volto cereo di Olimpia era senza occhi; al posto degli occhi caverne buie; era una bambola inanimata”30. Nataniele ode Spallanzani dirgli: “Dalli!… corrigli dietro! che aspetti?… Coppelius… mi ha rubato l’automa migliore… venti anni di lavoro… ci ho messo corpo e anima… l’orologeria… la parola… i passi… tutto mio… gli
27
Ibid., p. 25. Ibid., p. 29. 29 Ibid., p. 32. 30 Ibid., p. 43. 28
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occhi… gli occhi rubati a te […] va a prendermi Olimpia… eccoti gli occhi!”. E Nataniele vide un paio di occhi sanguinanti che lo fissavano dal pavimento, mentre Spallanzani con la mano illesa li prendeva e glieli scagliava contro colpendolo al petto. La follia lo prese allora con gli artigli ardenti e gli entrò nell’anima lacerando la mente e il pensiero. “Uh… uh…uh!…allegro! Pupattola di legno, uh, bella pupattola, gira gira.” Questo episodio delirante rimanda all’episodio delirante dell’infanzia di Nataniele. La struttura è assai simile. Là avevamo l’uomo della sabbia, qui abbiamo
l’uomo della sabbia; là avevamo un padre (il padre di
Nataniele), qui abbiamo un padre (il padre di Olimpia); là avevamo un figlio (Nataniele), qui abbiamo una figlia (Olimpia); là c’erano volti senza occhi, qui c’è un volto senza occhi (il volto di Olimpia); là avevamo quale indice primario del delirio la convinzione di Nataniele che gli fossero svitati e riavvitati mani e piedi, qui abbiamo la convinzione di Nataniele che gli siano stati rubati, chissà quando, gli occhi. Il folle, per non sentirsi egli stesso un “pupattolo di legno” in balia della trascendenza angosciante dell’Altro trasforma l’Altro in Cosa, e non è un caso che Nataniele trasformi in pupattola di legno proprio l’amata. Infatti, proprio dell’amore romantico è che “ogni amante cerca nell’innamorata un altro io, diverso e al tempo stesso uguale al proprio”31.
31
J. BARZUN, Op. cit., p.606.
19
C’è una pagina, verso la fine (p. 44 nella nostra edizione), nella quale il narratore ci racconta di come Spallanzani, confessato il fatto che Olimpia fosse un automa, venga allontanato dall’università e di come, vista la perfezione meccanica dei gesti e delle movenze di Olimpia tutti cercassero, per dimostrare di essere umani, di inserire nei loro gesti e nelle loro movenze delle imperfezioni volontarie. Ora, riteniamo che questa pagina costituisca un inserto satirico in cui Hoffmann ci dice che 1) piuttosto che ammettere la malattia mentale spesso si cerchino le scuse più tragicamente assurde (il padre il quale preferisce che la figlia sia considerata un automa piuttosto che folle) e che 2) la paura della follia sia contagiosa (la gente che ostenta la propria non-follia). Ricordiamo che Hegel individua proprio nella satira l’elemento che segna il passaggio dall’arte classica all’arte romantica32. Inoltre Hoffmann ha alle spalle scrittori come Cervantes e Swift ed è contemporaneo di Byron, rappresentante del romanticismo e al tempo stesso scrittore satirico. Per concludere, secondo l’Enciclopedia Garzanti della letteratura caratteristiche della satira sono: 1) ironia polemica, 2) scioltezza formale, 3) ambiguità, 4) stare in mezzo tra mimesi realistica e deformazione grottesca. Ebbene, tutti e quattro queste caratteristiche si ritrovano nel passo di cui parliamo : 1) ironia polemica che investe il padre di Olimipia (la famiglia del malato mentale) e la società, 2) scioltezza formale indicata dal ricorso alla satira nel mezzo di un 32
G.W.F. HEGEL, Op. cit. (anche se il concetto di | romantico | in Hegel ha maggiore estensione del
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racconto allucinato e “perturbante”, 3) ambiguità tra l’essere folle e l’essere automa, 4) realismo del quotidiano (Clara e Lotario), realismo della follia (Nataniele), deformazione grottesca delle reazioni della gente nei confronti della malattia mentale.
concetto cronologico abituale).
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4. IL SACRO 4.1
Il Sacro e la Follia
Prenderemo in esame due manifestazioni di quella che in senso esteso chiamiamo malattia mentale33. Si tratta dell’ideazione ossessiva e delle voci proprie della spaltung schizofrenica. Vedremo come in entrambi i casi si renda evidente un senso perverso del Sacro, in modo che il confine tra il Sacro rettamente inteso ed il Sacro pervertito risulti al tempo stesso indelebilmente tracciato e, a volte, difficilmente visibile. Nell’ideazione ossessiva si hanno alcuni pensieri che si presentano alla mente e l’assediano col loro continuo riproporsi. L’impressione è quella che i pensieri entrino in circolo pervadendo l’intero sistema circolatorio psichico. Usando una terminologia informatica diremo che siamo in presenza di un loop ossessivo. Questi pensieri possono riguardare vari contenuti. A volte recano idee in contrasto con gli abituali contenuti psichici dell’individuo (idee di crudeltà,
-
Osserverai questo rito. Esodo 29,1
bestemmie etc.). Altre volte riguardano il conteggio di numeri o di parole o di lettere di parole. Ora, nella Bibbia sin dalla Genesi troviamo la congiunzione ed il parto dei nomi. Si veda Genesi 4, 17-22; 5; 7; 8; 10; 11; Numeri (generazione di nomi e di numeri). Troviamo altresì la reiterazione di numeri numinosi come il tre (Genesi 15,
33
Con il termine | malattia mentale | noi qui intendiamo l’intero arco dei disordini psichici, dalla nevrosi, alla psicosi, alla schizofrenia, ai disturbi della personalità. Al termine | follia | diamo invece un’estensione assai minore intendendo con esso solo quelle manifestazioni psichiche caratterizzate da deliri e/o da allucinazioni.
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9; 1 Re 9, 25) ed il sette (Genesi 4, 15; 15, 9; 41, 2-3; 41, 5-6; 41, 26-30; Esodo 12: la Pasqua). Inoltre Philo Judaeus e dopo di lui Agostino34 sostengono che la creazione del mondo da parte di Dio sia avvenuta in sei giorni in quanto 6 è un numero perfetto, ovvero “un numero che è uguale alla somma dei suoi divisori, escluso ovviamente il numero stesso, e inclusa l’unità”35. In definitiva, riteniamo che la generazione di nomi e la reiterazione di numeri nella Bibbia si avvicinino alla struttura dell’ideazione ossessiva. La differenza fondamentale è che mentre nell’ossessione il pensiero è vacuo, ovvero cerca di placare l’ansia attivando un meccanismo il quale crea un’altra ansia che lui stesso cerca di placare, i nomi ed i numeri della Bibbia hanno senso. Prendiamo l’esempio dei nomi. L’elenco della stirpe fonda l’essere storico del popolo ebraico. Ed è un elenco rettilineo e vettoriale: discende dai padri ai figli ma non ritorna dai figli ai padri. Ciò rimanda al concetto di tempo biblico secondo il quale l’andamento del tempo è lineare ed unidirezionale e sfocia, per quanto riguarda la tradizione ebraica (Libri profetici) e quella cristiana (Nuovo Testamento) in una dimensione escatologica. E’ chiaro a questo punto che ci troviamo all’opposto della circolarità ossessiva, come ci troviamo all’opposto della concezione greca del tempo che riappare in Nietzsche col tema dell’“eterno ritorno”. 34
Richiamati in P. ODIFREDDI, La matematica del Novecento, Einaudi, Torino 2000, p. 167.
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Il Libro della formazione36 si apre con l’affermazione secondo la quale Dio “creò il suo mondo con tre registri: con la scrittura, il computo e il discorso”37. Dunque fin dalla creazione Dio pone quali fondamenta del mondo la Parola e il Numero. Questa Parola e questo Numero fondano il senso del mondo ed hanno il loro fondamento nel senso di Dio. Di conseguenza le parole ed i numeri del Pentateuco non sono vacui flatus vocis ma, al contrario, rappresentano l’essenza stessa del mondo e l’immane volontà di Dio. “Ventidue lettere: le incise, le intagliò, le soppesò, le permutò, le combinò e con esse formò l’anima di tutto il creato e l’anima di tutto ciò che è formato e di tutto ciò che è destinato a essere formato”38. Il testo prosegue descrivendo nel dettaglio il modo in cui Dio attraverso le ventidue lettere ha formato l’intero cosmo, uomo compreso39. Ecco dunque la differenza essenziale tra Sacro rettamente inteso e Sacro pervertito: il Sacro rettamente inteso si manifesta con un fondamento ed una direzione di senso mentre la manifestazioni del Sacro pervertito non conducono letteralmente da nessuna parte. Un ulteriore esempio, per quello che riguarda l’ideazione ossessiva ci viene dalla recita del rosario. Durante la recita del rosario vengono ripetute per un certo numero di volte sempre le stesse preghiere. Ciò avviene facendo passare tra le dita i grani che compongono la corona. Qui siamo 35
Ibid., pp. 166-167. In G. BUSI-E. LOWENTHALE (A CURA DI), Mistica ebraica, Einaudi, Torino 1999. 37 Ibid., p. 38 Ibid., p. 36
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effettivamente in presenza di un moto psichico circolare. Sostituendo ai grani le idee ossessive la similitudine parrebbe corretta e coerente. Ma anche in questo caso ciò che pone la differenza è il fondamento di senso. Nella recita del rosario le preghiere e le parole che le compongono e le lettere che compongono le parole affondano le loro radici nella significanza dell’essere preghiere e parole e lettere rivolte a Dio. Ci troviamo sì in presenza di una circolarità, ma si tratta di una circolarità lineare, ovvero di una circolarità circolare per quanto riguarda l’aspetto umano (recita del rosario) e di una linearità per quanto riguarda l’aspetto teso verso il divino (preghiere volte a Dio). Ciò che emerge dall’analisi dell’ideazione ossessiva è principalmente il particolare meccanismo psichico costituito dalla vacua circolarità del pensiero. Volgendoci invece alle voci schizofreniche ad essere preminente non è più – secondo la nostra ottica – il meccanismo mentale, bensì il sentimento del trascendente che queste recano col loro manifestarsi. Supponiamo che tutti conoscano a grandi linee in cosa consistano tali voci. L’individuo le percepisce come estranee a sé ma non appartenenti a nessuno presente nel momento in cui le ode. Spesso sono direttive (dicono cosa fare) o minacciose. Sono le voci disincarnate della follia. Più volte nella Bibbia Dio, la Somma Trascendenza, fa udire la Sua voce. Facciamo due esempi. Primo esempio: Samuele. Samuele si trova
39
Non si può a questo punto non ricordare il Timeo platonico.
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ospite di Eli. Si corica. Ode una voce: “Samuele!” e quegli rispose: “Eccomi”, poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”40. La voce si ripete, Samuele torna da Eli, Eli lo rimanda a dormire. “In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore”41. La voce si fa sentire per la terza volta. Finalmente Eli intuisce che si tratta della voce del Signore e dice a Samuele di rispondere a quella voce con le parole “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”
42
. Samuele va a letto. Riode la voce. Le risponde come
suggeritogli da Eli. A questo punto il Signore parla. “Ecco io sto per fare in Israele una cosa tale che chiunque udirà ne avrà storditi gli orecchi. In quel giorno attuerò contro Eli quanto ho pronunziato riguardo alla sua casa, da cima a fondo. Gli ho annunziato che io avrei fatto vendetta della casa di lui per sempre”43. In questo caso la voce trascendente è minacciosa. Ma è la voce di Dio e Samuele lo sa. La voce disincarnata non è qui la voce di un’alterità ignota e paurosa la cui astrazione da un corpo rende terribile. E’ la voce di Colui che è, diremo: per essenza, trascendente. Lo scandalo di Cristo sarà proprio questo: con la Sua venuta la voce di Dio diviene voce incarnata.
40
1 Samuele 3, 4-5. 1 Samuele 3, 7. 42 1 Samuele, 3, 9. 43 1 Samuele 3, 11-13. 41
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econdo esempio: Abramo. “Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo! Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moira e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò.”44. In questo caso la voce trascendente è direttiva. Anche qui, però, Abramo sa trattarsi della voce di Dio. Nell’allucinazione uditiva la voce viene colta come trascendente in quanto disincarnata, in Samuele ed in Abramo accade invece il contrario, la voce è accettata come necessariamente disincarnata in quanto trascendente. Sempre nell’episodio di Abramo e Isacco troviamo una frase di capitale importanza. A Isacco che gli chiede dove sia l’agnello per l’olocausto Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto”45. Poi in effetti Abramo troverà un ariete e sacrificherà esso. Ma questa frase è fondamentale per un altro motivo. In essa infatti si prefigura l’avvento di Cristo, l’Agnello di Dio che verrà sacrificato per gli uomini e per la loro salvezza. La croce. Gesù è inchiodato alla croce in un “luogo detto Gòlgota, che significa luogo del cranio”46. Topograficamente il cranio è il luogo del pensiero. Come abbiamo visto, la malattia mentale riguarda il pensiero, l’attività della mente. I chiodi che lacerano la carne di Gesù sono i chiodi che lacerano il pensiero stesso. Nel luogo del cranio viene immolata la sanità mentale. “Verso le tre , Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?” che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai 44
Genesi 22, 1-2.
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abbandonato?”, ed è il grido del Dio che ha perduto se stesso. Dogma trinitario: Dio è Padre e Figlio. Sulla croce si verifica una scissione, DioFiglio ha smarrito Dio-Padre. Dio, fattosi uomo nella figura del Figlio dell’uomo ha condiviso, insieme alla corporalità, il suo essere per la morte. Ma la suprema grandezza di Dio è quella di avere accettato di condividere con l’uomo l’esperienza estrema della follia. Il Dio della croce è un Dio schizofrenico.
4.2
Sacro e Trascendenza
Io e l’Altro. L’Altro stupra la mia solitudine, manda in frantumi il mio sentimento d’onnipotenza, mi si impone come colui che è al di fuori di me. E’ trascendente e la sua trascendenza è per me una terribile minaccia. L’Altro è il numinoso e in quanto numinoso è un “soggetto fuori dell’io”47. E il numinoso reca con sé il terrore. “Una sola espressione s’impone, senso del mysterium tremendum, del tremendo mistero. Il sentimento che ne emana può penetrarci come un doloroso flusso di armonioso, riposante, vago raccoglimento. Oppure può trapassare l’anima di una continuamente fluente risonanza che vibra e perdura lungamente finché svanisce per riabbandonare l’anima al suo tono profano. Esso può anche erompere dall’anima subitamente con spasimi e convulsioni. Può trascinare alle più 45
Genesi 22, 7.
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strane eccitazioni, alla frenesia, all’orgasmo, all’estasi. Riveste forma selvagge e demoniache. Può precipitare in un orrore spettrale e pieno di raccapriccio […]. E’ un terrore saturo di intimo raccapriccio, quale nessuna cosa creata, non la più minacciosa, nemmeno la più potente, riesce ad instillare. V’è in esso qualcosa di spettrale”48. Mi scopro visto dall’Altro: impotenza → Altro come Occhio. Avverto la mia carnalità: so di essere per la morte → Altro come entità sepolcrale. Non riesco ad afferrare l’Altro: percepisco l’ignoto → Altro come trascendenza e tremendo mistero. L’Altro è un Occhio dietro al quale si cela l’Ignoto e che col suo guardare emana raggi di puro terrore. “Il nostro sentimento linguistico avverte il collegamento strettissimo che vincola alla nozione del mysterium [il predicato] tremendum sì che non sia possibile evocare un momento senza che immediatamente risponda, come un eco, l’altro. “Mistero” è già di per sé “terrificante mistero”49. Io e me stesso. So di avere una psiche, ovvero un’attività mentale di qualche tipo. Ora, so anche che non sono attualmente consapevole del tutto che costituisce l’insieme dei miei contenuti psichici. Per questo accetto la distinzione tra coscienza e inconscio. “Nell’ambito dell’inconscio incontriamo non solo fenomeni istintivi, ma anche spirituali […]: si parlerà,
46
Matteo 27, 33. R. OTTO, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1987, p. 21. 48 R. OTTO, Op. cit. pp. 23-24. 49 Ibid., p. 34. 47
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quindi, di inconscio spirituale”50. Si parla di inconscio spirituale proprio perché “lo spirito è, proprio alla sua origine, spirito inconscio”51. Dunque l’inconscio si divide in 1) inconscio istintivo (Frankl parla anche di Es psicofisico) e 2) inconscio spirituale. Ma questa è solo una prima distinzione. Infatti la mia struttura psichica oltre all’inconscio comprende la coscienza. Secondo Frankl questa mia coscienza non è nettamente separata dall’inconscio, tutt’altro. “Quella che chiamiamo coscienza raggiunge una profondità inconscia e si radica in un fondamento inconscio […]. Nella sua origine, la coscienza si immerge nell’inconscio”52. Esiste dunque uno psicocordone ombelicale che collega l’inconscio alla sfera cosciente. La psiche è inoltre animata da un dinamismo interno nel quale risaltano due movimenti: 1) un movimento discendente che riguarda l’io spirituale. “Quando l’io spirituale si immerge in una sfera inconscia, che costituisce il fondamento, possiamo parlare di caso in caso di coscienza morale, di amore, di arte”53. 2) un movimento ascendente che riguarda l’Es psicofisico. Prosegue Frankl: “Viceversa, quando l’Es psicofisico irrompe nella sfera conscia, parliamo di nevrosi o di psicosi”54. La tripartizione psichica di Frankl ha quindi quale comun denominatore l’inconscio. Al tempo stesso ognuna di queste tre istanze ha una propria manifestazione conscia o “esterna” (vedi tabella). 50
V. FRANKL, Dio nell’inconscio, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 25-26. Ibid., p. 34. 52 Ibid., p. 37. 53 Ibid., pp. 45-46. 51
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INCONSCIO Es psicofisico
Inconscio
Coscienza
spirituale
MANIFESTAZIONE Psicosi o nevrosi Morale, ESTERNA
arte
amore, Stati di coscienza quotidiani
Io e la trascendenza. Questa tripartizione non esaurisce però il mio essere psichico. La mia coscienza in apnea nel mare magnum dell’inconscio spirituale scopre la propria trascendenza. A questo punto occorre “intendere il fenomeno della coscienza non a livello di fatticità psicologica, quanto piuttosto nella sua essenziale trascendentalità […]. E’ in errore allora il linguaggio, allorché parla di voce della coscienza? La coscienza, infatti, non potrebbe “avere una voce”, dal momento che “è” essa stessa una voce, la voce della trascendenza. Solo l’uomo è in grado di percepire ed ascoltare una tale voce. Eppure, essa non deriva in alcun modo dall’uomo stesso. Al contrario: unicamente il carattere trascendente della coscienza ci consente di comprendere l’uomo […]. Attraverso la coscienza
54
Ibid., p. 46.
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della persona umana risuona un’istanza sovrumana”55. Voci dello schizofrenico. La coscienza parla ma la scissione ha reso parte di essa altro da sé, trascendenza assoluta e minacciosa. Voce del numinoso. La coscienza è voce che conduce ad un’effettiva alterità, l’estremo Altro. La coscienza non parla, Colui che parla è Colui che trascende Io – me stesso – e Tu – l’Altro che mi trascende ma che da Colui che tutto trascende è trasceso –. L’emissione sonora, la vibrazione vocale di Colui è la coscienza. La mia coscienza. Il Sommo Trascendente dimora in me essendo al tempo stesso estremamente al di fuori di me. Immergendomi nel mio inconscio mi innalzo a Dio.
55
V. FRANKL, op. cit., pp. 60-61.
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5. SUGGERIMENTI PER MIGLIORARE LA QUALITÀ DELLA VITA DEL MALATO MENTALE.
Enucleiamo ora i punti principali a cui ci ha condotto la nostra indagine e vediamo come, partendo da essi si possano ipotizzare delle strategie volte a migliorare la qualità della vita del malato mentale anche attraverso l’attività lavorativa. Prima prendiamo in considerazione i motivi per i quali riteniamo che il lavoro possa giovare alla qualità della vita del malato mentale.
• Il fare, ovvero l’agire concretamente nel reale modificandolo 1) si oppone allo spettrale universo fantasmatico e 2) dà modo alla persona di esercitare il dominio opponendosi all’esperienza di essere oggetto passivo vittima del dominio di arcane trascendenze. • Riuscire ad ottenere un risultato, ovvero vivere l’esperienza di fare bene qualcosa si oppone alla costante aspettativa di fallimento, all’angoscia che si prova nel sentirsi il non-adeguato. • Modificare il reale ottenendo con ciò buoni risultati aumenta l’autostima.
La nostra analisi ci ha condotti all’individuazione di due punti fondamentali. Nella prima parte indagando su Nataniele abbiamo visto 33
come un problema del malato mentale sia quello di vivere in un caos insiemistico tridimensionale. Nella seconda parte indagando il rapporto tra esperienza del sacro e malattia mentale abbiamo visto come un altro problema consista in un rapporto pervertito col sacro. Il primo problema può essere affrontato tramite l’attività lavorativa secondo le seguenti modalità.
• L’agire concreto nella e sulla realtà porta alla semplificazione del caos insiemistico ed alla sua bidimensionalità. Esempio: assemblaggio di portachiavi56. Ci sono tante scatole quanti sono i tipi dei pezzi da assemblare. Ogni scatola contiene un unico tipo di pezzo. In questo modo la persona si trova di fronte ad insiemi finiti ed ordinati. Azione di assemblare: due pezzi vengono uniti. Relazione biunivoca (es.: anello ↔ gancetto), rapporto bidimensionale tra due insiemi ordinati (noncaotici). • Durante l’agire lavorativo la persona si dà autoistruzioni. Nell’esempio: devo infilare il gancetto nell’anello. Ciò suggerisce che sia utile 1) sviluppare gli studi metacognitivi che si occupano appunto anche di problematiche riguardanti l’autoistruzione e 2) il passaggio dalla logica aletica nella quale una cosa è vera o falsa e che consente l’assenso al
56
Chi scrive ha lavorato per più anni in una struttura che si occupa, tra le altre cose, dell’inserimento lavorativo di persone con handicap psichico e/o intellettivo. L’esempio riportato si riferisce ad un’esperienza reale.
34
delirio alla logica deontica, che ha quale dominio appunto anche la dimensione del dovere.
Il secondo problema può essere invece affrontato come segue.
• Individuare nei singoli casi specifici dove nel rapporto con il sacro si verifica lo scivolamento nella sua perversione. • Attivare un vero e proprio programma di educazione alla corretta spiritualità anche attraverso la lettura e l’interpretazione dei testi sacri.
35
6. CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE:
LE
STANZE
DEL
PERSECUTORE, IL CARCERE E L’AZIENDA
Nella follia la presenza dell’Altro diviene l’unico e incontrollabile mistero tremendo. Il mondo del folle si popola d’occhi. Gli alberi fruttificano occhi. Grappoli di bulbi oculari. Occhi invece che palle colorate addobbano gli abeti a Natale. E le voci, le voci disincarnate non provengono dalla vibrazione di nessuna corda vocale ma la loro indipendenza dal corpo indica l’esserci dell’Occhio che tutto vede e tutto controlla, sono emesse dal battito di ciglia dell’Occhio, sono il respiro della sua pupilla. Sovrapotente e onnipresente, il Persecutore domina la vita del folle. Ed ecco i demoni, Dio, i servizi segreti, gl’iracheni, i vicini di casa, gli angeli, il mago, Satana, gli gnomi, i colleghi, i passanti, il coniuge, l’uomo al di là della strada…Come Nataniele, ogni folle ha bisogno di assegnare un’identità alla presenza che lo perseguita, di trasformare la funzione proposizionale “x è il Persecutore” in proposizione, ovvero di dare un nome a x. Sotto questo aspetto il luogo di lavoro si presta ottimamente alla determinazione del Persecutore, è un vero e proprio produttore di paranoia. Il luogo di lavoro è uno dei luoghi dell’Occhio per elezione. In esso, qualunque sia il tuo stato mentale, sia tu paranoico o no, sei sempre 1) guidato nei tuoi atti. Ti vengono assegnati dei compiti precisi che devi 36
svolgere, e 2) controllato nei tuoi atti. Sei valutato in base al modo in cui svolgi i compiti che ti sono stati assegnati. Lavora, lavora, ma sappi che qualcuno ti osserva, ti giudica e, se sbagli, ti punisce. La tua vita, che tu lo voglia oppure no, dipende dal denaro, l’avere denaro dipende dall’avere un lavoro, avere un lavoro dipende da uno che ti osserva e ti giudica (colloquio), mantenere un lavoro dipende lo stesso da uno che ti osserva e ti giudica. Il luogo di lavoro è anche un luogo sociale. Generalmente si lavora insieme a più persone, con le quali si viene a condividere spazio (gli uffici, la fabbrica…), tempo (esempio: otto ore al giorno per cinque giorni la settimana) e finalità (il buon andamento dell’azienda). In tal modo si crea una rete relazionale i cui numerosi nodi sono costituiti da invidie, gelosie, attrazioni, repulsioni, ruminazioni sul tale o sul tal altro, differenti atteggiamenti ed emozioni eccetera eccetera. Chiunque svolga la sua attività in un posto di lavoro è preso in questa rete. Sa, o dovrebbe sapere che si parla alle sue spalle, che è oggetto di giudizi positivi e negativi, che se è particolarmente bravo o benvoluto sarà invidiato. Benvenuto sul posto di lavoro, il più grande paranoificio della terra! Dati di realtà: sul posto di lavoro vieni osservato, valutato, giudicato 1) dai superiori, che hanno quale criterio di osservazione, valutazione e giudizio la competenza operativa, a parte ovviamente i casi di asocialità
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dannosa come l’aggressività fisica e/o verbale, 2) i colleghi, che hanno quale criterio di osservazione, valutazione e giudizio la tua stessa persona. Paranoia: l’anticamera. La triade osservazione – valutazione – giudizio mette in gioco la mia capacità di eseguire il lavoro, grazie al lavoro guadagno dei soldi, i soldi sono vita, la triade mette in gioco la mia vita. I colleghi parlano alle mie spalle, se parlano alle mie spalle vuol dire che non vogliono che io senta, se non vogliono che io senta sicuramente parlano male di me. La porta che separa l’anticamera della paranoia dall’esterno è la stessa porta che separa l’intera abitazione paranoiforme dai dati di realtà. Finché si resta in anticamera si è a cavallo tra due mondi. Il passaggio decisivo avviene allorché si oltrepassa una seconda porta, quella che dall’anticamera conduce all’ampio e sfarzoso salone paranoico. Qui incontro il padrone di casa e il padrone di casa altri non è che il Persecutore. Paranoia: il salone. Attraverso la triade e la possibilità di punirmi il mio superiore ha tra le sue mani la mia vita. Mi scruta per scoprire i miei errori. Una volta scoperti i miei errori mi punisce. La punizione consiste nel licenziarmi. Senza lavoro non ho soldi. Senza soldi non vivo. Il mio superiore mi spia per uccidermi. E se mostra pietà e non mi licenzia è perché in questo modo può dominarmi muovendo a suo piacimento le fila della mia vita. Il suo occhio stilla lacrime di veleno.
38
I miei colleghi parlano male di me alle mie spalle. Ma non basta. Di ogni loro scambio di occhiate, di ogni loro cenno, di ogni loro battuta, di ogni loro frase appena accennata io sono il soggetto e la vittima designata, sono il centro gravitazionale delle loro occhiate, cenni, battute, frasi appena accennate. Quindi nessuna sorpresa se oltre a parlar male di me in mia assenza e a deridermi segretamente (così loro credono!) in mia presenza, i miei cari colleghi tramino contro di me per mettermi in cattiva luce col superiore che già mi disprezza o per liberarsi di me in altro modo o per usarmi quale capro espiatorio delle loro meschine frustrazioni. Se col superiore è in gioco la mia vita, coi colleghi è in gioco la mia personalità. Sia l’uno che gli altri si baloccano con il mio essere. Sono in loro balia. A questo punto si attiva un circolo vizioso. Il paranoico reagisce a tutto ciò mettendo in atto una serie di atteggiamenti difensivi evidentemente abnormi che vanno da un’eccessiva chiusura ad accuse più o meno velate nei confronti dei suoi colleghi (difficilmente osa attaccare il Grande Occhio, il superiore). A loro volta i suoi colleghi, inevitabilmente incuriositi dal suo strano comportamento, parlano alle sue spalle con maggior frequenza e intensità ed in sua presenza si fanno cenni e si scambiano occhiate e magari qualcuno si lascia scappare una battuta di troppo. Paranoia: la camera da letto. Sull’accogliente e spazioso letto matrimoniale si accoppiano Reale e Fantasia. Malattia mentale: non 39
disgiunzione tra Reale e Fantasia ma congiunzione, matrimonio alchemico tra i due. Il dato di realtà, spermatozoo che fluttua nel seme del Reale, feconda l’ovulo di Fantasia. Nei primi tempi il paranoico (o lo schizofrenico, o lo psicotico, o…), gravido di delirio, non dà particolari segni di ciò che si va sviluppando in lui. Poi cominciano le nausee e le voglie, stranezze e bizzarrie che si insinuano nel quotidiano. E arriva il momento in cui il gonfiore del ventre psichico diviene evidente. Il delirio scalcia. Se il periodo di gestazione giunge a termine, se cioè non interviene un aborto, spontaneo o provocato, allora ecco il delirio, viscido e urlante, emerge dalla vagina di Fantasia. Se qualcosa non va, se, mettiamo, il delirio è nato prematuro, lo si mette in un’incubatrice in fiduciosa attesa che tutto si risolva per il meglio. Incubatrice = generatrice d’incubi. Oh sì, incubi! Vedete di ficcarvelo bene in testa voi, che al riparo della vostra becera normalità vi beate nell’ostentare una trasgressione da burletta, che nella vostra oscena assenza di pudore vi autonominate pazzi, che vi sentite tanto depressi, che se facesse moda sareste pronti a dichiararvi affetti dalla sindrome di Down, voi, ciechi di fronte al dolore, sordi alle urla, muti nella vostra imbecille loquacità, voi che avete un buon lavoro, che avete successo, che mestamente o gaudiosamente vi accoppiate l’uno con l’altra, che parlate della vostra colite come se esibiste un trofeo, continuate pure a crogiolarvi nel verminaio delle vostre dementi giornate, cullatevi pure nella vostra ferina allegria, nella vostra sordida tristezza, nei vostri dubbi certi e 40
nella vostra sicura interpretazione del mondo, ma capiate questa unica, semplice, elementare verità: la pazzia non è affar vostro, lasciate perdere. Io, questa volta non “noi” o “chi scrive”, io, che non sono né folle né medico, rivendico il pieno diritto di dire, di urlare, le righe che avete appena letto, non tanto a causa di un’esperienza operativa limitata nel tempo e nell’intensità, quanto, più semplicemente perché cerco di usare al meglio di quanto mi sia possibile il bisturi della ragione, affondandolo in questo caso tra i gangli della malattia mentale. E così facendo, la prima cosa che questa mia ragione imperfetta e perfettibile mi ha insegnato è il disprezzo assoluto verso tutti quei modaioli che si esibiscono out per essere in, verso chi si riempie la bocca di “pazzia” senza sapere cosa sia davvero la pazzia, verso coloro i quali si appiccicano addosso l’etichetta di “folli” perché considerano la pazzia lo status symbol più spendibile e più remunerativo. Occorre dunque togliere il Persecutore dalle mani avide di queste persone e limitare la sua esistenza a 1) i folli (estensione: chiunque abbia o abbia avuto un disturbo psichico), 2) gli psichiatri (estensione: chiunque si occupi della malattia mentale in senso professionale) e 3) i filosofi (estensione: chiunque usi con un certo metodo ed una certa continuità la ragione quale attività primaria del proprio sistema psichico). Aggiungiamo che, naturalmente, alcune persone appartenenti al gruppo 2 e 3 (e forse anche 1) sono al tempo stesso proprietari delle mani avide di cui sopra 41
(pensiamo ad esempio a certi psichiatri-antipsichiatri – non tutti, ovviamente – e a certi educatori). Una volta delimitato il campo di esistenza del Persecutore occorre collocarlo entro una dimensione etica che consenta di parlare di lui pur senza essere né folli né psichiatri. Questa dimensione viene strutturata dalla categoria del pudore. Spesso quando si parla di pudore si pensa alla vergogna, come se una persona sia pudica perché ritiene che sia infamante mostrare qualcosa di sé. Vergogna della propria nudità → il pudore ci copre. Paura di mostrarsi nudi → pudore come forma di viltà. Ma non è vero. Non è della mia nudità che ho vergogna e non è il pudore che ci copre. E’ il rispetto. Non mostro la mia nudità perché so che la mia nudità potrebbe offendere l’altro, non perché sia in sé offensiva, ma perché l’altro potrebbe ritenerla tale. Certo, il pudore implica il rispetto, o, meglio, il rispetto è conseguenza necessaria del pudore, ma il pudore è molto più del rispetto. Il rispetto è un atteggiamento etico, il pudore è una dimensione etica. Paura e viltà, poi, si implicano reciprocamente ma nulla hanno a che vedere con il pudore. Anzi, il pudore implica il coraggio di guardarsi dentro e la sincerità di dichiarare a se stessi ed agli altri l’esistenza di certi limiti oltre i quali non si ritiene giusto andare. In questo senso gran parte della scienza attuale manca di pudore. Infine, anche la vergogna dev’essere separata dal pudore e riconsegnata in tutto e per tutto al suo correlato necessario, il concetto di colpa. In questo caso non mostro la mia nudità 42
perché la ritengo, in sé, offensiva e dell’altro non ho rispetto ma paura, paura che mi punisca per la mia colpa. E la paura fondamentale nella dimensione della colpa è, prima ancora di quella della punizione, la paura di venire scoperti. Ricordiamo la dinamica della vergogna in Sartre: si prova vergogna non quando si fa qualcosa di male ma quando si è visti fare qualcosa di male. Quindi paura e vergogna da una parte e pudore dall’altra sono entità assolutamente distinte benché, accidentalmente, possano dar vita ad un medesimo comportamento, come ad esempio il non mostrare la propria nudità. Se però la propria nudità crea problema laddove non dovrebbe, come tra due persone che si amano o nello spogliatoio dopo un’attività sportiva, allora non è più questione di pudore, ma solo di una vergogna iscritta nella dimensione della colpa. Attività specifica del pudore è creare confini all’interno della mente. Tracciando confini il pudore delinea la mappa del mio psichismo. I confini delimitano il territorio di una nazione. Da un punto di vista politico questo significa che entro tali limiti chi governa la nazione può esercitare il suo potere. Oltre questi limiti no. Io sono pudico non solo se conosco i miei limiti e li rispetto ma anche se conosco la mia area di potere e la faccio fruttare. Ci sono volte in cui devo dire: per pudore non parlo (non agisco). E ci sono invece volte che devo dire: per pudore parlo (agisco). Dunque io, per pudore, dico: la malattia mentale è male. Non è l’unico male che può affliggere la psiche. Essa può essere assediata da mali che 43
non implicano la presenza di una malattia mentale: la perdita di una persona cara, una grave crisi di coppia, la consapevolezza di essere condannati da un male incurabile, le conseguenze di un’aggressione o di un’angheria subita…Ma il male più spregevole – il più spregevole, non quello che fa più soffrire – è il male che nega che un male sia male, è la giuliva ipocrisia delle persone di cui abbiamo parlato, che se ne vanno in giro strillando più o meno gaiamente “oh sì, sono pazzo!…guardate quanto sono folle!…sono davvero un maledetto! un trasgressivo!”. Anche chi, tra questi, vira verso tonalità tendenti al tragico (“Io sì che ho problemi! Io sì che conosco il male di vivere!”) mantiene la patetica fierezza di chi esibisce un’immagine di sé che ritiene grande e nobile proprio in virtù della sua falsa e ridicola “follia”, dunque ritiene che ciò che superficialmente dichiara essere un male sia fondamentalmente un bene. Oltre all’ostentazione di una falsa e patetica “follia” c’è un altro atteggiamento nei confronti della malattia mentale assai diffuso. E’ l’atteggiamento che abbiamo visto emergere nel finale di Der Sandmann, consistente nella paura della follia. Atteggiamento che oltre che ad essere eticamente
censurabile
in
quanto
mancante
di
pudore,
diviene
concretamente pericoloso allorquando il malato mentale si presenta come “socialmente pericoloso”, ovvero come pericoloso per l’incolumità fisica sua e/o degli altri. Si presentano allora due casi. 1) il malato mentale è aggressivo in modo non più controllabile da chi gli sta intorno. Allora, 44
previo un iter burocratico non sempre agevole, si interviene con il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Si prende il malato, ricorrendo anche ad un’aggressività maggiore della sua, e lo si ricovera in un ospedale psichiatrico o nel reparto psichiatrico di un ospedale generico. Segue una somministrazione abbondante di psicofarmaci e comincia o riprende quella che Goffman chiama la “carriera” del malato mentale. Una volta iniziata questa carriera il malato trova chi si occupa di lui, escludendo ovviamente le conseguenze dovute al decorso della malattia e gli eventuali errori non preventivabili dei medici, può riguadagnare un’accettabile qualità di vita. Il problema è quando ci si preoccupa di lui, ovvero allorché si attiva il TSO ed il successivo periodo di ospedalizzazione. Generalmente però si tratta di un periodo limitato. E’ invece di gran lunga più grave il secondo caso. 2) il malato mentale è responsabile di un crimine. Una buona percentuale di malati mentali che commettono omicidi viene diagnosticata affetta da schizofrenia paranoide. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la grande democrazia dove questi malati vengono condannati a morte, oltre alla cronaca rimandiamo a DOUGLAS J.OLSHAKER M.,
Mindhunter, Rizzoli, Milano 1997. Tornando invece
all’Italia ricordiamo gli ultimi due casi, Emilio Quaroni (per il quale però non esiste tutt’ora una diagnosi) che l’11 giugno 2001 svena sua madre (“Le voci me l’hanno ordinato. Sono il figlio di Erik il vichingo. Sono una rana”) e Marco Besso che il 17 maggio sua madre l’accoltella a morte. Le 45
voci disincarnate, provenienti dalla laringe di una folle divinità richiedono un sacrificio altrettanto folle. Schizofrenia paranoide: quando il Persecutore viene ad abitare nello schizo-edificio ogni cosa diventa possibile e la spada di Erik il vichingo è sempre pronta a colpire, la coscienza assordata dal gracidio proveniente dalla palude stigia del delirio. Finché, attirata dalle immonde rane della follia, il cui gracidio è divenuto canto di sirene, essa nella palude vi affonda. Più grave ed articolato, almeno limitatamente alla situazione italiana, è l’incarceramento di quelle persone già affette (o predisposte ad esserlo) da disturbi mentali attinenti all’area depressiva. Può avvenire che la depressione sia causa del crimine. Tristemente ormai classico è il caso della madre che uccide i propri figli, quasi che l’omicidio depressivo riguardasse principalmente genitori che uccidono figli, mentre l’omicidio psicotico fosse invece caratterizzato, al contrario, da figli che uccidono i genitori. Può però anche succedere che l’attuazione del crimine sia indipendente dallo stato depressivo della persona. In entrambi i casi la malattia è pregressa rispetto all’entrata in carcere. Ci concentriamo ora, invece, sul caso di depressione prodotta dal carcere. Per quanto ci riguarda è ininfluente che la depressione sia esogena, cioè causata unicamente dalle condizioni carcerarie in una personalità fragile, o che invece derivi da una sorta di stato depressivo latente attivato dalle condizioni del carcere. Quello che importa è che il carcere, attraverso 46
la forte limitazione della libertà, la costrizione del corpo in spazi definiti, la castità coatta, il sovraffollamento, le pessime condizioni igieniche, i soprusi eccetera produce una malattia mentale chiamata depressione o disturbo depressivo (ma anche, supponiamo, stati schizoidi e gravi nevrosi d’ansia). Ora, abbiamo detto che la malattia mentale è male. Il più delle volte, altrimenti non si spiegherebbe la lunga serie di atti di autolesionismo e di suicidi, la persona che si ammala di depressione a causa delle condizioni carcerarie viene comunque tenuta in carcere, ovvero viene costretta a vivere nelle medesime condizioni che hanno provocato la malattia. Dunque chi è responsabile di tutto questo non solo produce male (la malattia mentale) ma persevera nell’infliggere male alla persona che ha fatto ammalare. Il male può essere inflitto 1) involontariamente o 2) volontariamente. A sua volta il male inflitto involontariamente può essere prodotto 1) per ignoranza o 2) per stupidità. Si commette male per ignoranza allorché si ignora, appunto, che compiendo determinati atti si provoca un danno ad altre persone. E’ il caso, ad esempio, dell’omicidio colposo, nel quale la persona che uccide non vuole assolutamente commettere un omicidio. Si è nella dimensione del non-sapere. Si commette male per stupidità allorché la persona è in possesso di tutti i dati elementari attraverso i quali poter inferire che comportandosi in un certo modo provoca danno ad altri ma nonostante ciò non riesce a compiere questa semplice inferenza. E’ il caso, 47
ad esempio, di atti lesivi commessi da certi insufficienti mentali, quando naturalmente non c’è in essi l’intenzione di fare del male (so che il coltello taglia e punge ma te lo tiro addosso lo stesso). Si è nella dimensione del non-capire. Il male inflitto volontariamente può essere prodotto 1) per ottenere un vantaggio materiale o 2) per sadismo. Si commette male per ottenere un vantaggio materiale quando si ottiene tale vantaggio provocando un danno a quelle persone che rappresentano un ostacolo al raggiungimento di tale vantaggio. E’ il caso della stragrande maggioranza dei crimini. Si commette male per sadismo allorché si prova godimento nell’infliggere sofferenze agli altri. Non neghiamo la dimensione sessuale del sadismo ma ricordiamo che lo stesso Sade ha mostrato come esso sia il prodotto della perversione di strutture fondamentali della società quali la famiglia e la scuola (Justine) ed il potere (Le 120 giornate di Sodoma). Per quanto concerne potere e sadismo sono esemplificativi i casi di tortura commessi durante le guerre e sotto i regimi dittatoriali. Se ci si limita a considerare il primo livello di male commesso dai responsabili della produzione carceraria di depressione diremmo che essi commettono male per ignoranza. Infatti vogliamo pensare che esistano casi di depressione latente o di fragilità psichica non rilevabili dagli abituali test psicologici, casi che dunque non vengono a conoscenza di questi individui quando decidono e poi attuano l’incarcerazione della persona. 48
Il problema è che esiste il secondo livello, nel quale i responsabili della produzione carceraria di depressione perseverano a tenere in carcere chi a causa del carcere si è ammalato. Ora, riteniamo che chiunque, ed in particolar modo questi individui che di atti di autolesionismo, di crisi e di suicidi hanno più informazioni di noi, sappia che una persona entrata in carcere non sofferente di depressione e che proprio in carcere di depressione comincia a soffrire, si ammali a causa di quelle condizioni carcerarie che abbiamo sopra citato (lerciume, violenze, condizioni inumane: si vedano gli annuali rapporti di Amnesty International, che puntualmente dedicano un capitolo all’Italia). Dunque, se commettono male involontariamente, i responsabili di questa situazione sono degli stupidi. Inutile dimostrare che se commettono male volontariamente non lo commettono per ottenere dei vantaggi materiali. Dunque, se il caso è questo, essi sono dei sadici. In conclusione, chi determina la permanenza in carcere di una persona che in carcere si è ammalata di depressione o è stupido o è sadico. Riflessione aggiuntiva. Il sadico che volontariamente infligge sofferenze agli altri per il proprio godimento, compiendo il male peggiore (male come fine e non come strumento, piacere del male per il male) è, letteralmente, un individuo malvagio. Ora, la malvagità, in quanto massima espressione del male, si iscrive in una dimensione opposta a quella relativa a Dio, il Sommo Bene. Questa dimensione è dunque la dimensione posta sotto la 49
signoria del demonio. Gli individui che lasciano consapevolmente e volontariamente in carcere una persona ammalata di depressione sono dunque individui demoniaci. Ricordiamo che sebbene ci siamo limitati a parlare di depressione, verosimilmente anche altri stati psicopatologici vengono prodotti dal carcere. Conclusione aggiuntiva: oggi, qui in Italia, individui demoniaci (o di una stupidità subumana) producono malattia mentale in modo sistematico e premeditato. (Speriamo che a questo punto nessuno osi estrarre dal cilindro il concetto di “incompatibilità col sistema carcerario” perché se esso fosse metodicamente
ed
intelligentemente
applicato
di
crisi psichiche,
autolesionismi e suicidi non si sentirebbe quasi più parlare). Il posto di lavoro si situa in un cosmo per certi versi opposto a quello del carcere. Abbiamo visto che il carcere produce direttamente malattia mentale e che questa produzione si iscrive in pieno nella dimensione del male. Qui il perpetrarsi del male è dovuto alla precisa responsabilità di certi individui dei quali abbiamo tracciato le caratteristiche. Al contrario, nel posto di lavoro nessuno produce demonicamente stati paranoidi o psicotici. Inoltre, mentre il carcere produce malattia mentale a causa delle condizioni nelle quali costringe le persone, il posto di lavoro, habitat naturale del Persecutore, non può da solo indurre in una persona fragile ma fondamentalmente sana uno stato paranoico. Il posto di lavoro produce le 50
condizioni di possibilità della paranoia. L’anticamera del Persecutore è affollata ma per accedere alle altre stanze occorre un particolare invito. Il paradosso apparente è che per natura il posto di lavoro produce (nel senso specificato) malattia mentale ma non ha nessun produttore di male mentre il carcere produce malattia mentale accidentalmente ma vanta un certo numero di individui produttori di male. Diciamo “accidentalmente” in quanto le funzioni fondamentali del carcere sono 1) funzione deterrente: infliggere una pena a chi commette reati. La pena consiste nella privazione della libertà per un certo periodo di tempo. 2) funzione rieducativa: insegnare alla persona un certo numero di competenze soprattutto operative e relazionali spendibili nell’ambito sociale. A rigore, e vedremo presto il perché, anche la funzione 1 è accidentale ma al tempo stesso è ciò che costituisce l’essenza del carcere. Per questo ora distinguiamo la pena, accidente sostanziale, dalle altre condizioni tre delle quali sono, come abbiamo visto, il sovraffollamento, i soprusi e la scarsa igiene. Queste ulteriori condizioni sono puramente accidentali, sono cioè accidenti accidentali, e restano pertanto distinte dalla pena in sé consistente nella privazione della libertà. Vediamo ora perché invece il demoniaco, il male, non riguarda il posto di lavoro. Stabiliamo innanzitutto cosa sia il male. Il male è una privazione. Dice Tommaso: “Come con il nome “bene” si intende l’essere perfetto, così con il nome “male” non si intende altro che la privazione dell’essere 51
perfetto. E siccome “privazione” si riferisce propriamente a ciò che è fatto per avere una certa perfezione, e anche al momento e al modo di averla, è chiaro che qualcosa è chiamato “male” quando manca di quella perfezione che dovrebbe avere”57. Esempio: la vista è il bene, la privazione della vista, la cecità, è il male. Prosegue Tommaso: il bene è sostanza, il male no. Dunque il male è un accidente. Non ogni accidente è male ma ogni male è accidente. La sanità mentale è un bene, la privazione della sanità mentale è un male. Il carcere è il luogo delle privazioni: privazione della libertà, dell’incolumità fisica e psicologica, dello spazio vitale necessario, della dignità. Queste privazioni possono, in alcuni casi, produrre l’ulteriore privazione, dunque l’ulteriore male, consistente nella privazione della sanità mentale. Il caso, relativamente semplice e limitato della produzione carceraria di malattia mentale ci insegna la prima azione da compiere per dare al malato mentale una buona qualità della vita. Essa consiste nell’eliminazione delle condizioni che chiaramente provocano o comunque alimentano la malattia. Pur essendo le cause ultime di gran parte delle malattie mentali ancora da stabilire, è al tempo stesso relativamente facile individuare situazioni maligne che nutrono il male. Pensiamo ad esempio all’abuso di sostanze, ed in particolar modo di certe droghe, o a determinate dinamiche familiari. Anche se la situazione è più complessa rispetto a quella carceraria,
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SAN TOMMASO D’AQUINO, Compendio di teologia e altri scritti, UTET, Torino 2001, p. 141.
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soprattutto per quanto concerne l’attribuzione di responsabilità, ci sembra di poter dire che gli spacciatori di ecstasy, provocando l’ecstasy in determinati casi stati psicotici, sono spacciatori di follia. Togliere il malato mentale dal carcere, dalla famiglia, dalla ragnatela di sostanze tossiche eccetera significa togliere nutrimento al male che lo affligge e dunque giovare alla qualità della sua vita. Ora, in questa nostra attuale società, che piaccia oppure no, il denaro è un bene. Infatti il denaro rende possibile non solo la vita stessa permettendo il conseguimento di beni biologicamente primari quali il cibo e l’abitazione, ma anche la qualità della vita permettendo l’acquisizione di beni come la cultura in tutte le sue estensioni ed una serie di strumenti atti a riempire di contenuti la propria libertà (relativi, ad esempio, alla dimensione sociale e a quella ludica). Tommaso nota come l’uomo possa fissare l’esercizio della propria volontà, cui oggetto è il bene, sul proprio bene “non tendendo ulteriormente al sommo bene, che è il fine ultimo”58. Se dunque il denaro diviene per una persona sommo bene e fine ultimo è chiaro che questa persona esce dalla dimensione del bene. Bene è infatti ciò che è ordinato al raggiungimento del sommo bene, Dio. Se invece il denaro si trasforma da strumento utile alla vita dell’uomo a sommo bene lui stesso, se diviene insomma diodenaro, allora si muta in male ed esattamente nel male quale privazione
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SAN TOMMASO D’AQUINO, Op. cit. p. 141.
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della tendenza al sommo bene autentico. Restano dunque fondamentali le parole di Cristo: “Non accumulatevi tesori sulla terra […], accumulatevi invece tesori nel cielo […]. Perché là dove c’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”59. Dunque abbiamo specificato cosa intendiamo affermando che il denaro è un bene. Se esso si limitasse a consentire l’acquisizione di quei beni vitali che sono il cibo e l’abitazione non rappresenterebbe altro che la mediazione culturale necessaria alla soddisfazione di esigenze che condividiamo in tutto e per tutto con gli altri animali. Ma abbiamo rilevato come attraverso il denaro sia possibile acquisire beni specificatamente umani quali sono i beni culturali. Per cultura intendiamo quell’insieme di saperi e di tecniche che promuovono lo sviluppo della facoltà intellettiva. La facoltà intellettiva (qui non distinguiamo tra intelletto e ragione) è propria dell’uomo. Al contrario, la cultura intesa genericamente come acquisizione e trasmissione di conoscenze è comune anche agli altri animali (o almeno ad alcune specie). Dunque servendo all’acquisizione di beni culturali il denaro serve quella facoltà superiore che specifica l’uomo e lo distingue dagli animali. Il lavoro è lo strumento principe mediante il quale l’uomo ottiene denaro. Questo naturalmente non basta a fare del lavoro un bene. Anche la maggior parte dei mali commessi volontariamente per ottenere vantaggi materiali ha quale fine e spesso quale risultato l’acquisizione di denaro.
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Matteo 6, 19-21.
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Diciamo dunque che il lavoro è un bene in quanto porta al conseguimento di determinati beni, tra i quali il denaro, attraverso il buon operare. Il caso contrario di lavoro consistente nel fare in modo volontario del male agli altri ci sembra piuttosto raro. Mentre il carcere presenta perlomeno una forma di male come accidente sostanziale, tolta la quale verrebbe a cedere ipso facto il carcere stesso, il posto di lavoro presenta soltanto mali come accidenti accidentali la cui rimozione è possibile anche se non sempre facile. Non è ragionevole pretendere che ogni posto di lavoro attui in parte o del tutto tale rimozione, anche perché la struttura paranoiforme che gli soggiace non provoca direttamente malattia in persone non predisposte, anzi è generalmente ben tollerata. E’ però doveroso pretendere che un posto di lavoro nel quale vengono accolti malati mentali rimuova tutte quelle cause che alimentano il disagio psichico. Questo posto può essere una cooperativa o un ufficio (od un settore) specifico di un’azienda. Dato che le cooperative del settore assistenziale-educativo e di inserimento lavorativo esistono proprio per aiutare le persone svantaggiate, tra le quali vi sono i malati mentali, è naturale concludere che esse più facilmente delle aziende possano attuare detta rimozione. All’inizio occorre stabilire le competenze attuali della persona. Il più delle volte è disponibile una serie di informazioni fornite da psichiatri, assistenti sociali ed educatori in grado di dare un certo quadro d’insieme 55
dal quale partire. Per stabilire poi cosa la persona sia capace di fare relativamente al lavoro, o ad uno dei lavori di cui si occupa la cooperativa (o l’azienda) bisogna innanzitutto analizzare il lavoro stesso. E’ il momento dell’analisi del compito. L’evento operativo viene scomposto in fasi ed ogni fase viene a sua volta scomposta in diversi segmenti. Ogni segmento di ogni fase comporta l'attuazione di una o più competenze, dalle più elementari alle più complesse. In questo modo è possibile, di fronte ad uno svolgimento del compito erroneo, individuare quei segmenti critici la cui attuazione risulta per la persona fonte di difficoltà e di fallimento operativo. Quindi si interviene proprio su tali segmenti cercando di eliminare il motivo che in essi conduce all’errore. E’ il momento dell’individuazione o della creazione di appositi ausili. Gli ausili sono quegli strumenti che suppliscono all’inabilità totale o parziale a svolgere un segmento operativo permettendo perciò la sua corretta attuazione. Nei casi di persone con handicap fisico o intellettivo il più delle volte sono sufficienti ausili materiali per correggere i comportamenti erronei, ovviamente laddove tale correzione sia possibile. Al contrario, nei casi di persone con malattia mentale gli ausili materiali sono quasi sempre inutili in quanto, se alla malattia non si aggiunge uno degli handicap sopra citati, queste persone possiedono le competenze operative necessarie all’attuazione di compiti anche complessi. In questo caso si rivela utile il ricorso a quelli che chiameremo ausili procedurali. Questi ausili, utilizzati sia pure in modo 56
diverso e con differenti finalità con certi insufficienti mentali, consistono in una serie di autoistruzioni attraverso le quali la persona letteralmente dice a se stessa le modalità che mette in atto nello svolgere un segmento operativo proprio nel momento in cui le mette in atto. Mediante gli ausili procedurali la persona arriva ad ottenere maggiore consapevolezza rispetto al compito. Una maggiore consapevolezza comporta una diminuzione della confusione mentale ed un conseguente calo del livello d’ansia. Al tempo stesso il fatto di riuscire a portare a termine un determinato compito porta ad una maggiore sicurezza di sé e induce un senso di controllo sul reale. E’ inoltre fondamentale l’atteggiamento che la persona incaricata del controllo operativo manifesta nei confronti dell’errore. Questa persona rappresenta sotto certi aspetti l’equivalente del Grande Occhio aziendale. Suo preciso dovere è far sì che l’errore non venga vissuto come un’esperienza di definitivo fallimento ma come un occasione affinché, intervenendo su di esso, il malato mentale verifichi che attualizzando certe sue competenze o apprendendone di nuove è in grado di porvi rimedio. Ponendo rimedio al proprio errore la persona ha modo così di consolidare o sviluppare il proprio saper fare con tutte le conseguenze che abbiamo appena visto.
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7.
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