A.A.2010/11 2001/2011 MODA Luca Belotti
2001200220032004 2005MODA2006200 72008200920102011
“Siamo ciò che mangiamo”
Ludwig Andreas Feuerbach
“Piacere...di secondo nome faccio moda”
Luca Belotti
Nuova Accademia di Belle Arti di Milano Diploma accademico di 1° livello del corso di Fashion Design Titolo del progetto di tesi 2001 - 2011: MODA Docente referente Orietta Pelizzari Luca Belotti 3114F A.A. 2010-2011
In seconda di copertina: un frammento della sfilata Before Minus Now di Hussein Chalayan, primavera-estate 2000 ph.Chris Moore. In questa pagina: QUICK CHICK, illustrazione di Luca Belotti, 2011. Pagina successiva: copertina di NumĂŠro 41, Marzo 2003. In quarta di copertina: GARTEH PUGH ph.Alice Hawkins, styling Sam Willoughby, modello Marylin Manson, Luglio 2007.
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Indice
08. Perchè siamo migliori di vent’anni fa?
10. Introduzione
15.Gli anni inebranti. Dal Grunge alla Rete, passando per il Nasdaq
22.Nineties Nostalgia
25.Corinne Day - David Lachapelle
32. Quando la Fiera delle Vanità rimase sospsesa in aria
40.2001-2011. Dieci anni di moda tra investimenti, immagine e crisi creativa
60.Fashion Decade 65.Glamping 66.New Era.Colored.Printed. 68.Glamour 70.Dall’Etica all’Estetica 76.EstETICA 86. BLOG privati dalle ambizioni pubbliche 92.COOLHUNTING 95. Modelle fantasma del Nuovo Mondo 102.Models 104.Il sogno Alta Moda continua 110.ChEApFREAK 120.Desperate Couture 131.Conclusione 140.Bibliografia
Perché siamo migliori di vent’anni fa? In questi vent’anni, improvvisamente, l’evoluzione – normalmente lenta e invisibile - si è messa a correre. Cio’ ha permesso all’uomo di accedere ad opportunità senza precedenti, sapendo che, ogni evoluzione è la conquista di qualcosa attraverso la perdita di qualcosa. Dentro di noi, il nostro set antropologico – linguaggi, comportamenti, gesti, forme di percezione e di conoscenza – è mutato come mai prima. Ci ritroviamo fra le mani una vertiginosa estensione delle nostre possibilità di scelta. Orientarsi fra tanta abbondanza di opzioni non sempre è facile, ma è comunque sempre meglio che avere opportunità ristrette. Con il web, con la rete (anche il nostro sistema nervoso ha la forma di una rete), abbiamo cominciato a connettere tutto con tutto. Non c’è più nulla di stabile. Ora tutto, dalle relazioni, al consumo, al lavoro, alla conoscenza, è dinamico, mutevole, liquido. Il mondo tecno-comunicativo è la prova che tutto scorre. Rafforzandoci, abbracciando il mutamento, allargando i tempi di apprendimento, ci siamo estesi oltre i confini dell’età anagrafica. Adesso abbiamo un’età che contiene età diverse. Si è affermata e dilatata l’esigenza di esperienze personalizzate. Sempre meno vogliamo prodotti uniformi, sempre più cerchiamo varietà e unicità. Nei cibi, nei vestiti, dappertutto, finisce l’uniformità e si afferma la pluralità. Un giorno è arrivato Steve Jobs e la tecnologia è diventata sexy. Con il logo della mela mordicchiata, i computer – che erano grigi e freddi – sono diventati affettivi e colorati. La scienza è uscita dai laboratori ed è diventata pop: è entrata nella nostra vita quotidiana, conquistando il centro del dibattito filosofico. Trionfa il consumo gratuito – web e mp3 – e l’economia sembra svilupparsi proprio dove il consumo è gratuito. La logica non funziona proprio più. Forse questo è il mutamento – antropologico, psicologico, comportamentale – più grandioso: siamo passati da consumatori a produttori di contenuti, da spettatori ad autori. Decine di milioni di umani che ogni giorno, ogni momento, raccontano in rete la propria esistenza. Decine di milioni di umani che – email, social network, blog – scrivono molto più di prima. La scrittura non sta affatto cadendo a pezzi – come lamentano i tradizionalisti – sta semplicemente mutando forme. Più attenzione per il se’ personale e più attenzione per le relazioni. Più contatti che possono rimanere in rete o prendere corpo nella vita quotidiana. La vita al tempo di Facebook: una grande opportunità che sta a noi giocarci. Lost. L’opera più complessa, misteriosa, molteplice mai concepita da mente umana, cambia la vecchia tv e conquista milioni di persone. Impensabile, vent’anni fa. E’ la prova che siamo, possiamo essere, più intelligenti di prima. La moda - da circo, esibizionismo, fiera delle vanità - è diventata, col suo immaginario, il metro più azzeccato per descrivere l’evoluzione del gusto e degli stili di vita.
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Tutto quello di cui stiamo parlando cambierà – sta già cambiando – ancora e sempre di più.
Dall’alto in senso orario: Steve Jobs sulla copertina di TIME dell’Aprile 2010, ph.Marco Grob; Mark Zuckerberg, ideatore di Facebook, sulla copertina di TIME del Dicembre 2010, ph.Martin Schoeller; locandina della quarta stagione del telefilm LOST, 2008; THE PAIN AND PLEASURE ISSUE Miuccia Prada ph.Francesco Vezzoli, Aprile 2009; THE FACE copertina celebrativa per la morte di Alexander McQueen, Febbraio 2010.
Introduzione Quando ho deciso di creare come progetto di tesi una raccolta su quelli che sono stati i primi dieci anni del terzo millennio per il mondo della moda ero un po’ incerto. La natura della moda, un settore che cambia a ogni stagione, mi creava diversi problemi. Tuttavia, riflettendoci sopra, ho pensato che questo testo avrebbe potuto rappresentare una grande fonte d’ispirazione per me e per i miei colleghi. La moda ha la potenzialità di creare posti di lavoro in cui molte persone trovano la possibilità di esprimersi. Adesso che ci avviciniamo ad una nuova decade del Duemila, le sfide che questa industria si trova ad affrontare sono quelle di svolgere ricerca sui tessuti e sulle tinture, di migliorare le tecniche di produzione rendendole più sostenibili, nonché di tutelare professionalità e mestieri tradizionali in un mercato sempre più competitivo. Ogni stagione è una nuova sfida, e la recessione globale che ha colpito duramente l’industria della moda costringe a rivalutare, reinventare e reinterpretare il lusso attraverso la necessità. Ho sempre pensato che la moda che adottiamo ci dia la possibilità di comunicare ciò che siamo. Per gli esseri umani le priorità sono avere un riparo, cibo e abiti. Spesso i vestiti sono l’espressione della no-
stra vita. Ogni volta che viene messa a dura prova, ad esempio da una guerra o da una calamità naturale, la gente ha sempre trovato diversi modi per esprimere la sopravvivenza. Moda -frivola e favolosa- che il suo stile sia favoloso o funzionale, il compito dello stilista è quello di sorprendere e intrattenere. La recessione è per i coraggiosi. Le idee sono la moneta del successo, insieme al rapporto qualità prezzo, al concetto di innovazione non imitazione, all’autenticità e a una nuova coscienza etica. Nella moda di oggi la scelta è enorme, dal taglio con il laser a quello manuale, dai punti di cucito alla fiamma ossidrica, dall’artificiale al naturale, dall’organico al chimico. Sostenibilità è la nuova parola d’ordine che potrebbe spingerci tutti a riciclare il nostro guardaroba entro i prossimi dieci anni. Lo shareware potrebbe essere lo chic del futuro. Viaggiare leggeri: spazzolino da denti e mutande nel marsupio e il resto dell’abbigliamento concordato via internet con gli amici del mondo della moda, oppure acquistati in shareware, cioè mettendosi insieme ad altri per comprare una favolosa creazione di haute couture da dividersi poi nel tempo. Non è un’idea diversa dall’abitudine di prendere in prestito stivali di gomma e impermeabili quando
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E’ proprio questo che stimola gli stilisti ad andare al lavoro tutte le mattine. Ed è proprio questo che voglio raccontare. si fa visita agli amici nella loro casa di campagna, o affittare gli scarponi da sci quando si è in vacanza. Il 2008 ad esempio ha visto molte collezioni ispirate da idee piene di risorse. Da Prada e Comme des Garçons a Rodarte e Ralph Lauren, abbiamo visto pezze, applicazioni, sovra tinture. La capacità degli stilisti di sfruttare ogni idea pur mantenendo una netta individualità è la caratteristica che dà loro una credibilità da non perdere, poiché ne va del loro nome. Dieci anni di moda sono un’intera storia nell’ambito di questo gioco che crea l’illusione del cambiamento. Se proviamo a dare un’occhiata nell’armadio è probabile che stiamo mescolando un pezzo della primavera 2000 con uno dell’autunno 2005, combinato con qualcosa trovato in offerta speciale o racimolato su eBay. La moda non ha mai prodotto tanto, e l’attuale crisi ci ha costretto tutti a rivalutare il nostro budget di spesa. La moda continua ad essere un’arte variabile per molti e scommettere sul futuro è una sfida impegnativa per ogni buyer di moda al dettaglio, la cui sopravvivenza dipende dal fiuto con cui sa riconoscere lo spirito dei tempi. Forse oggi compra meno da Comme des Garçons o Margiela, ma si interessa a Christopher Kane o Antonio Marras di Kenzo.
La gente non vuole semplicemente sostituire qualcosa che ha già nell’armadio. Vuole idee nuove, qualcosa di unico. E’ proprio questo che stimola gli stilisti ad andare al lavoro tutte le mattine. Ed è proprio questo che io voglio raccontare. So che non sarà un’impresa facile. La moda é il modo stesso di essere del moderno: si presenta come sistema complesso, per più versi contraddittorio e diversamente interpretabile. Si suole dire che la moda esprime lo “spirito del tempo” ed è uno dei segnali più immediati dei cambiamenti sociali, politici, economici. La moda imprime su se stessa, nella sua mutevolezza, nel suo crescere e cambiare, le mutazioni sociali, rappresentando le ambivalenze dell’identità collettiva che hanno generato le diverse rivoluzioni stilistiche. Questa mutevolezza rende problematica la sua leggibilità, e la sua stessa interpretazione come linguaggio, che è stata oggetto di complesse discussioni.
La moda dei primi dieci anni del Duemila entra in relazione e interagisce con altri sistemi massmediali (il giornalismo, la fotografia, il marketing, la pubblicità). Diventa una forma d’arte riproducibile, mondana, secolarizzata. E la sua importanza e decisività è tanto più rilevante in quanto è legata alla vita quotidiana, oltre che al mondo del lusso e del potere. Segna i cambiamenti di umore e più di ogni altro linguaggio incarna il carattere effimero e nervoso dell’epoca moderna, gli umori e i mutamenti di gusto, il culto del nuovo e del cambiamento. Essa racconta la metamorfosi del corpo e di sè stessa, ostentando insieme ai suoi segni estetici i procedimenti culturali, e a volte anche quelli tecnici, che hanno generato quei segni. Nel nuovo Millennio mescola per esempio i sessi, mostrando e decostruendo il carattere culturale e finto naturale della loro divisione. O anche porta in superficie ciò che tradizionalmente sta sotto (etichette, cuciture, biancheria intima). O mostra ciò che dovrebbe coprire con le trasparenze, le aperture, i buchi. O si fa traccia e memoria, e gioca con citazioni riferite alla cultura e alla sua stessa storia. Quando è alta moda, lo stile ostenta lo statuto semiotico, l’intenzionalità dei segni. Si fa espressione di valori estetici formali che dipendono dal gusto e dalla sensibilità. La moda, tutte le mode, e innanzitutto quella vestimentaria, hanno assunto nel post-modernismo del Duemila un’importanza decisiva. Esse si sono improntate delle nuove forme connesse ai caratteri fondamentali del postmoderno, a partire dalla frammentazione, indeterminazione e fluidità del soggetto e da una nuova centralità del corpo. C’è quindi una crescente importanza dell’apparire che fa dell’assunzione di
uno stile lo strumento della rappresentazione dell’identità, ormai senza certezza nè stabilità, sia individuale che collettiva. L’assunzione di uno stile permette infatti l’attivazione di meccanismi di identificazione e auto rappresentazione sia pure transitoria. La dimensione estetica investe direttamente il quotidiano. Gli accessori assumono valore rituale e il consumo degli stili diviene produzione di significato. Il mio intento è quello di andare a vedere come, e attraverso quali eventi e passaggi, l’importanza della moda è accresciuta in maniera vertiginosa dai secondi anni Novanta ad oggi. Come si può vedere anche dalla crescita di libri e cataloghi dedicati al sistema della moda, all’estetica e all’evoluzione del gusto, del lusso applicato agli oggetti, che rappresentano stili di comunicazione e comportamenti. E nella crescita dello spazio dedicato alla moda e al design da buona parte delle riviste e soprattutto delle nuove riviste. E’ infatti soprattutto evidente nella moda la crescente feticizzazione del corpo come oggetto fantasmatico del desiderio: camminare, vestire è esibire. Possiamo pensare a nuove forme di potlach, dove tutto viene portato all’eccesso e tutto deve essere all’ultimo grido. Ma anche a un nuovo dandismo con la sua estetizzazione elitaria e raffinata. Non troviamo più il corpo dell’interiorità e del vissuto, ma il corpo pubblico, esibito, il corpo fatto di superfici. Il potere dei brand si converte in apparire, ma gli oggetti di questi brand non ci appartengono, siamo noi che apparteniamo a loro. A dimostrazione che nel Duemila l’identità dell’essere umano è completamente votata ad essi. E’ completamente votata alla moda.
Pagina accanto: Alexander McQueen, ph.Ellen Von Unwerth, styling Mark Morrison, Aprile 2005.
Gli anni inebranti dal Grunge alla Rete, passando per il Nasdaq I Novanta tra speranze politiche, prime ninfette e ultimi miti rock. Poi lo schianto delle Torri in una totale assenza di suono
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In questi anni si passerà dal mito degli United Colors of Benetton – siamo tutti uguali, siamo tutti belli – ai conflitti del terrorismo internazionale, ma intanto il mondo ci appare più grande che mai. E’ più piccolo che mai: vastissimo, ma sempre raggiungibile.
Dall’alto in senso orario: Ambra Angiolini sulla copertina de L’Espresso, N.11 Marzo 1994; l’incontro tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, 1 Novembre 1995; le Torri Gemelle, World Trade Center; UNTITLED 1992, installazione di Rikit Tiravanija. Pagina precedente: THE SEX ISSUE Courtney Love, Aprile 1994
L’11 settembre 1990 George Bush terrorizzava il Nuovo Ordine Mondiale davanti al Congresso americano, preparando l’operazione Desert Storm contro Saddam Hussein. L’11 settembre 2001 George W. Bush veniva avvertito che a New York due aerei si erano schiantati sui grattacieli gemelli del World Trade Center mentre leggeva la storia di una capretta agli alunni di una scuola elementare di Sarasota. Tra queste due date simbolo, gli anni Novanta. Un decennio che le riviste glamour e l’industria musicale ci han fatto passare come un ritorno alla purezza. Gli anni Novanta sembrano essere stati per la prima metà il proseguo del decennio precedente – quello dell’euforia reganiana e del postmodernismo affluente? – per la seconda l’avvio di una visione culturale incentrata sulla rivoluzione digitale e sulla sostituzione dell’utopia del cambiamento con gli effetti speciali dell’architettura mediatica. Come tutti i periodi di transizione, questo decennio è stato segnato dall’esplosione di tutti quei format entro i quali si era considerata l’immagine stessa della Modernità, producendo una parodia di quella Belle Epoque che, con la seduzione del liberty, segnò la morte tra la società del XIX secolo e quella nascente dell’industria al potere.
Cacciati i Duran Duran erano tornate le chitarre elettriche, le zeppe, i pantaloni a zampa e le contestazioni studentesche. In America trionfava Clinton, in Medio Oriente Arafat e Rabin facevano pace e da noi le ninfette non erano ancora entrate a Palazzo Chigi, ma si dimenavano gioiose negli studi di Non è la Rai. Nessuno si permetteva di scocciare noi occidentali (sarà per questo che andò di moda l’etnico?). Con il crollo della borsa di Wall Street (1987) franano le quotazioni, chiudono le gallerie d’arte, il lusso degli anni Ottanta lascia spazio ad una nuova austerity anni Novanta. L’arte diventa democratica e partecipativa. Nel 1992 un ragazzo thailandese, nato in Argentina e residente a New York, trasforma la sua prima mostra personale in un banchetto aperto a tutti. Per un mese Rirkrit Tiravanija serve cibo in una galleria sgombra da ogni opera d’arte: solo sedie e pentole, tavoli e piatti. Il senso di convivialità spontanea, il desiderio di cominciare da zero, dal cibo e dal dono. “E’ l’inizio di un
movimento irreversibile che segnerà tutti gli anni Novanta e anche la prima decade di questo secolo” (1) Ed ecco arrivare l’arte sovietica, e poi quella giapponese, e poi quella cinese e quella indiana Geografie dell’arte.
(1) Gioni Massimiliano, NUOVE GEOGRAFIE E HAPPENING ECO, ELLE DECOR N.3-ANNO 22, Marzo 201, pp 55-56.
Street fashion, grunge e vintage sono le tre nuove parole d’ordine con cui i sarti dell’haute couture rinnegano gli eccessi dei dorati anni Ottanta (i gioielli tornano ad avere dimensioni accettabili, le pellicce in acrilico diventano l’omaggio all’etica dell’ecologismo, fioriscono medicina alternativa, tai-chi e new age). Lo si nota anche nel mondo delle costruzioni col Minimalismo. Si delinea un’idea di architettura basata sul “silenzio”, sulla capacità di significare molto dicendo poco, sul sottinteso come virtù contrapposta allo schiamazzo di una cultura di massa condizionata dai media. Lo street style conquista le passerelle e entra nel quotidiano, per cui l’abbigliamento di tutti i giorni diviene più libero da vincoli formali e acquisisce nuove funzionalità. Passa di moda pure la Madonna coatta e rococò di Like a Virgin lasciando spazio a tipe più toste come Alanis Morisette. La Generazione X trova il suo guru in Kurt Cobain, anche dopo che si era sparato per salire all’Olimpo dove stanno star come Jimi Hendrix e John Lennon. Aveva tutto per restarci a lungo: quel golfino verde mela su cui posavano lunghi capelli color giallo piscio, una moglie sfrattata e camp, ed una certa facilità nello scrivere testi e melodie sotto la scorza ruvida del grunge. Chi l’avrebbe detto che in quella inebriante stagione, il rock sarebbe morto proprio con la fine dei Nirvana? Grazie alla tecnologia e alla voglia di “vestire la tecnologia”, gli anni Novanta sono stati anni che hanno visto nascere la mescolanza di stili. Per esempio, i giovani professano la street fashion ispirata al mondo dello sport e della musica. Il cosiddetto crossover (termine che nasce in musica per indicare la confluenza del rock bianco con quello
più funk) è il paradigma delle formule multiple di ibridazione culturale. Lo stile metropolitano riscopre i valori dei segni etnici, mentre le tribù metropolitane (punk, metal, hip hop, ecc) si scambiano i loro tratti dominanti. Mainstream e sottocultura, moda e antimoda stanno insieme nella tivù planetaria in cui gli stili si dispongono orizzontalmente. Ecco allora l’ecolook dai colori naturali, i revival degli anni Sessanta e Settanta, con pantaloni a zampa di elefante, i crocefissi d’oro sugli abiti neri (Versace), per fare alcuni esempi. Retrocede anche il mito della top model superstar, che lascia spazio a manichini e modelle virtuali. Il minimalismo degli anni Novanta nasce proprio come reazione all’eccesso dei segni degli anni Ottanta e alla prima Guerra del Golfo, che segna il blocco dei consumi. “Less is More” -il meno è il più- sembra essere il motto di quegli anni, contrassegnati dal basic, da capi di base, come il blazer dal taglio classico, da tailleur pantaloni, da gonne affusolate a pullover dal collo alto, dalla scomparsa del colore e della decorazione, dal rifiuto dell’estetismo e quindi dalla permanenza rispetto all’effimero del proliferare degli stili. Il minimalismo nella moda ha i suoi antesignani in Zoran, che lavora fuori da ogni tendenza creando con il cachemire cinque forme base in taglia unica, ed in Calvin Klein; e la sua piena affermazione in Prada che inventa un nuovo tipo di donna in rottura con gli schemi tradizionali, vestendo i corpi con tessuti poveri e artificiali, privandoli della sessualità, usando una strategia espressiva al limite del banale. La fine del minimalismo si fa risalire alla sfilata uomo primavera-estate 1999 di Tom Ford per Gucci del 1998, che svecchia il marchio: un’esplosione di colore, piume, paillette.
E’ il ritorno del lusso e anche la piena riapparizione di Gucci, marchio storico della moda italiana, inizialmente legato alla pelletteria, che negli anni Ottanta veste la donna in carriera nell’ottica dell’eleganza borghese, e poi, già per opera di Ford, veste il cittadino del mondo, minimalista e raffinato, sempre all’insegna della sensualità, utilizzando collezioni forti e immagini provocatorie che rovesciano il ruolo dei sessi. Nella moda in principio fu Kate Moss, emblema di un’androginia che ha abitato tutti gli anni Novanta, culminata nelle esplorazioni della gioventù ribelle, algida e contestataria di Raf Simons. Dandy urbani a cui si contrapposero le silhouette sartoriali e androgine di Hedi Slimane, nel suo lavoro per Dior Homme. E mentre Kate Moss rideva sulla copertina di THE FACE del luglio 1990, in uno scatto di Corinne Day che l’avrebbe resa icona di riferimento per generazioni di fashion addicted, si consumava sui palcoscenici di tutto il mondo il gesto eccessivo e la performance definitiva che celebrava e chiudeva in modo emblematico gli anni Ottanta: Madonna, The Blond Ambition tour, 1990. Non appena i corpi si restringono, abbandonando le esuberanze da wonder woman, è Prada che domina, usando il nylon tecnico per abitini crudelmente monacali dalle forme basiche. Il linguaggio della moda diventa ansiogeno, basti pensare al trionfo di grigio, nero e piombo nei mondi di Jil Sander, Helmut Lang e Miyake. Dall’altra parte si fa strada il modello pump di Tom Ford, che reinventa Gucci e progetta uno stereotipo femminile che diventa subito icona. Nasce una nuova civiltà delle immagini, una nuova umanità – post umanità - fatta di corpi bionici modellati dalla chirurgia estetica, creature mutanti, bellissime e mostruose allo stesso tempo.
Dall’alto in senso orario: ritratto di Kurt Cobain ph.Frohman/Corbis, 1993; Kate Moss sulla copertina di THE FACE ph. Corinne Day, Luglio 1990; un look dalla sfilata autunnoinverno 1991 di Prada; campagna pubblicitaria della collezione autunno inverno 1999 di Tom Ford per GUCCI.
E’ sul finire degli anni Novanta che l’architettura diventa consapevolmente lo spazio in cui la moda, in quanto brand globale, comincia a riflettere sui propri limiti e sulle proprie potenzialità. Le scenografie degli epicentri progettati da Rem Koolhas per Prada sono “luoghi
perfetti per modelle-manichino che si fissano in pose astratte alla Beecroft e installazioni carillon con gonne in movimento, diventando preludio pop agli scenari alla Sex&theCity” (2) Gli anni No-
vanta si chiudono idealmente su Aimee Mullins, modella senza gambe vestita da Alexander McQueen e fotografata da Nick Knight per la copertina di Dazed & Confused del settembre 1998. La metafora che meglio descrive la cultura degli anni Novanta è quella della rete, di un mondo a portata di click in cui tutto è accessibile e condivisibile. Con lo sviluppo della tecnologia, abbiamo affrontato drammatici cambiamenti nel nostro modo di concepire il tempo e lo spazio, la materia e l’identità. A sottolineare l’importanza di uno stretto connubio fra tecnologia avanzata e artigianato ci ha pensato la collezione di Prada del 1993. Abbiamo dovuto fare i conti con una moltitudine di ritmi e tempistiche, lavorando a cavallo di fusi orari, viaggiando con relativa disinvoltura fra mappe satellitari e immagini in nano scala, perennemente sommersi dalle informazioni. Nell’economia delle reti, le identità dei luoghi vengono messe in discussione e il concetto di realtà materiale appare colpito dall’invadenza del virtuale. Lo coglie in pieno Massimiliano Fuksas, che nel 2000, alla Biennale di Architettura di Venezia, parla di un mondo tenuto insieme dalla comunicazione, come dimostrato dall’opera di Frank O.Gehry che con il Guggenheim di Bilbao (1987) costituisce il prototipo
di Bilbao (1987) costituisce il prototipo di un’architettura il cui valore mediatico è più forte di ogni altra considerazione sul suo funzionamento. E intanto a Wall Street schiere di trentenni in gessato grigio Armani provavano come tutte le mattine a rincorrere il sogno della New Economy, quando, alle 8 e 45 dell’11 settembre 2001, un Boeing 767 si infilò nella torre nord del World Trade Center e Osama Bin Laden, nascosto nella sua grotta, diventò lo spettro di tutte le nostre paure. Un mese dopo l’attentato alle Twin Towers Steve Jobs presenta al mondo l’iPod, inventando di fatto la nuova razza degli ominidi dalle cui orecchie penzolano i fili bianchi degli auricolari. Gli anni Duemila sono quelli in cui anche la musica è diventata un vizio privato. Il mondo è più triste e più povero, le persone sono disposte a conoscersi solo se separate dallo schermo di un computer e quei candidi auricolari non sono altro che una moderna corazza con cui proteggersi dall’assalto della realtà. Per i più pessimisti le novità tecnologiche - che rappresentano l’unica vera moda degli anni Novanta – lavorerebbero per la disintegrazione di una minima forma di convivenza civile: ci forniscono tutto quello di cui abbiamo bisogno con un semplice tocco di dita.
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“Se diventeremo sempre più virtuali, spero che lo faremo comunque chiassosamente. Nel rivedere dopo dieci anni le immagini di quei due aerei che si schiantano contro i grattacieli, ciò che mi ha colpito di più è stata proprio l’assenza di suono…il silenzio, il potente risucchio del vuoto. Forse dobbiamo ancora riuscire a colmarlo” (3)
(2) Frisa Maria Luisa, FASHION DOLLS & FASHION SYSTEM, ELLE DECOR N.4-ANNO 21, Aprile 2010, pp 69-70; (3) Colombati Leonardo, I NOVANTA, Corriere della Sera, 21 settembre 2011. Pagina accanto: THE 1.9.99 ISSUE, Guinevre ph.Craig McDean, Ottobre 1999.
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Non appena i corpi si restringono, abbandonando le esuberanze da wonder woman, è Prada che domina, usando il nylon tecnico per abitini crudelmente monacali dalle forme basiche.
NINETIES NOSTALGIA, Illustrazoni Luca Belotti Ottobre 2011
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E mentre Kate Moss ride sulla copertina di THE FACE del luglio 1990... dall’altra parte si fa strada il modello pump di Tom Ford, che reinventa Gucci e progetta uno stereotipo femminile che diventa subito icona
CORINNE DAY - DAVID LACHAPELLE, Fotografia e Styling di Luca Belotti, modella Gloria Zanotti.
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Quando la Fiera delle VanitĂ rimase sospsesa in aria
Martedì 11 settembre 2001 Martedì 11 settembre 2001. Perché non si poteva scendere al Kennedy? E’ la domanda che si posero tutti i passeggeri del volo Alitalia 604 decollato da Milano Malpensa quando il comandante del volo dichiarò che un problema impediva l’atterraggio all’Aeroporto Internazionale di New York. In molti si preoccuparono pensando ad un guasto del velivolo. I più ottimisti si convinsero che era per il cattivo tempo. Gli assistenti di volo restavano sul vago con risposte asettiche. Quando poco dopo si rifece vivo il comandante purtroppo non furono belle parole “Mi dispiace ma non siamo in grado di atterrare in nessun aeroporto americano: lo spazio aereo degli Stati Uniti è stato chiuso a tempo illimitato. E per gravi motivi”. Fu in quel momento che in molti pensarono alla tragedia, anche se nessuno all’altezza di quello che era veramente successo. Tutti volevano la verità. Fu così che bussando insistentemente alla cabina di pilotaggio il comandante dichiarò che un aereo s’era schiantato su una delle Torri Gemelle, un disastro. Tutti a chiedersi se si trattasse di incidente o attentato: la risposta arrivò poco dopo quando si venne a sapere che un altro aereo si era scontrato con l’altro edificio. Poi il crollo.
Di sedile in sedile la notizia passa per l’affollato volo 604. Una fauna variegata: un gruppo di ebrei integralisti, italoamericani di ritorno dalle vacanze nei paesi d’origine, delle coppie in viaggio di nozze e una piccola comunità che andava a Manhattan per seguire prevalentemente le sfilate della Fashion Week per la primavera estate 2002. Ogni grande tragedia ha le sue storie laterali. LA de “La Repubblica”, SG e ST fotografi, AL, ora amministratore delegato di Moncler e allora braccio destro di Ralph Lauren in Italia, il manager pubblicitario MB che a New York doveva seguire il nuovo spot Omnitel con Megan Gale ambientato proprio sotto le Twin Towers, VDL referente di Donna Karan e diversi collaboratori di Giorgio Armani che nel tardo pomeriggio avrebbe parlato di alcune iniziative durante un cocktail. Tutti assaliti dall’incertezza di dove sarebbero finiti e dalla dolorosa frustrazione di restare tra le nuvole mentre il mondo assisteva in diretta tv a un punto di non ritorno per l’Occidente. Due conti. Martedì 11 settembre la comunità fashion italiana sarebbe dovuta scendere al Kennedy alle 14.00, ore locali, in orario per il cocktail di Giorgio Armani, ma dopo varie peripezie in volo, ritornò a terra alle 1.30 di mercoledì 12
nella fredda notte dello Stanfield International Airport di Halifax (Canada), con prospettive vaghe, senza bagaglio e nessuna idea di cocktail. Alle 3.30 finalmente il buen retiro nella palestra del liceo Dartmouth, dove in una video sala della scuola fu possibile vedere il film dell’orrore che in tutte quelle ore non avevano potuto nemmeno immaginare. Con le immagini di corpi che volavano, del fuoco, delle fiamme, della doppia massa di polvere bianca: ultima traccia del World Trade Center. Lo sblocco della situazione avvenne verso la mezzanotte di giovedì 13, quando il volo 604 poté ripartire per Milano con i passeggeri intenzionati a tornare indietro ed i pochissimi che volevano raggiungere Manhattan sistemati su un paio di autobus. Gianluigi Paracchini del Corriere della Sera racconta la prima impressione nelle strade della città. “Un desolante senso
di morte. Nel traffico silenzioso, dove perfino i tassisti evitavano il clacson, la gente guardava verso Downtown e a quel fumo acre che continuava a salire”. Ristoranti deserti, boutiques in parte
Il tendone di Bryant Park la mattina dell’11 settembre 2001, ph.Bill Cunningham; Pagina precedente: la sequenza dello schianto sulla seconda torre, ph.Robert Clark e Aurora Neri; (4) Paracchini Gianluigi, IO PROFUGO IN CANADA CON IL CIRCO DELLA MODA, Corriere della Sera, 11 Settembre 2011, pag 4.
chiuse e un buio serale che pareva annunciare il coprifuoco. Inutile dire che quelle sfilate della Fashion Week non si sono mai tenute. “Poche ore dopo il mio arrivo m’è
capitato di passare da Bryant Park – il quartier generale delle passerelle – il tendone non era ancora stato smantellato. Davanti all’ingresso sbatteva il cellophan che copriva grotteschi pacchi di programmi e volantini pubblicitari” (4)
Non erano stati giorni inclini all’ottimismo. Ci sarebbero state ancora le sfilate di New York? E quanto sarebbe cambiata la moda?
“Me lo ricordo bene quell’11 settembre 2001: ero sotto sfilata, tutti sembravano impazziti, si sentiva dire ‘c’è la terza guerra mondiale’ , mille ipotesi, mentre si faceva largo la consapevolezza di quanto siamo esposti agli eventi: quello che prima sembrava importantissimo di colpo non aveva più senso. L’idea che lo stilista viva con la testa fra i party e le lunghezze delle gonne è una falsità: il nostro lavoro è fortemente influenzato da ciò che ci accade intorno” (5)
Le sfilate sono ricominciate puntualmente soltanto qualche mese dopo, febbraio 2002, e negli ultimi anni sono diventate anche più fitte rispetto al passato. Ma quell’11 settembre 2001 cambiò anche la moda, che della società è lo specchio più sensibile. La moda cambiò senza saperlo per istinto di sopravvivenza. Se all’improvviso l’Europa sembrava diventata troppo matura per avere ancora desideri, troppo incerta e spaventata, e gli Stati Uniti si sentivano sotto assedio come un gigante caduto in ginocchio, bisognava inventarsi nuovi orizzonti. Portare il Made in Italy in paesi emergenti, parlare russo o cinese, spedire missioni commerciali in India. Gli Americani, ossessione degli stilisti italiani (e non) che per una citazione sui loro giornali avrebbero fatto di tutto, erano scomparsi dai bollettini degli ordini, privilegiando i marchi nazionali. Ma la caratteristica fondamentale della moda è il cambiamento. Non c’era tempo per disperarsi, ogni sei mesi incombono le collezioni di stagione, bisognava essere pronti, sempre vivaci e carichi di novità che facessero dimenticare ieri e pensare soltanto al domani. I marchi della moda hanno dovuto scegliere modelli di organizzazione e finanziamento sempre più simili a quelli dell’industria classica. Quindi, tutti in
Borsa, o almeno chi ha potuto, fino all’impensabile e riuscitissima quotazione di Prada a Hong Kong. Tutti a intrecciare relazioni, anche pericolose, con i fondi di investimento, a seguire con apprensione i listini delle borse. E’ stata questa la risposta agli sconvolgimenti del decennio, che hanno obbligato le aziende a confrontarsi con concetti impegnativi come l’eco-sostenibilità (che si avvia a diventare uno dei valori più ricercati). Il problema maggiore sembra essere dato dal fatto che questo internazionalismo, chiave di lettura ed interpretazione della crisi, sembra essersi riflesso sui contenuti più profondi della moda, determinandone una carenza di coraggio creativo. “Per chi è quotato
-dalle esigenze trimestrali, dai rendiconti continui agli azionisti- è diventato difficile riconoscere e ricercare la creatività. Le idee sono poche, una per collezione, in modo che la cliente le capisca bene e non si distragga. I vestiti finiscono per sembrare troppo spesso uguali” (6)
Ed è così che la moda del Duemila inizia a guardare verso est, verso i cosiddetti paesi emergenti. Ma è solo una questione economica o c’è dell’altro dietro? La moda, proprio come l’arte, ha la capacità di anticipare i grandi cambiamenti, più che di subirne l’effetto e lo fa con precisi messaggi. Quando il cambiamento si è verificato, lo segue, si trasforma e trova una nuova identità. A quel punto indica con un nuovo stile, l’inizio di un nuovo capitolo. Già nelle ultime collezioni pre-2001, le ultime in grado realmente di prevedere, “aleggiava
l’estetica dell’ansia”
(7)
Dopo l’11 settembre 2001, la moda cambia i suoi scenari. Non è più New York Caput Mundi, i riferimenti diventano le nuove realtà cinesi di Pechino e Shangai. Questo accade anche perché
(5) Antonio Marras per Monti Daniela, COSI’ LA CRISI CI HA RESI PIU’ SPORTIVI E COLORATI, Corriere della Sera, 21 settembre 2011; (6) Giacomo Santucci, consulente strategico d’impresa per i marchi Salvatore Ferragamo, Prada e Gucci per Dell’Orto Pamela, L’UNICA CERTEZZA E’ LA QUALITA’, Style il Giornale, Settembre 2011, pp 91-92; (7) (8) Philippe Daverio per Bauzano Gianluca, SPAZZATE VIA UPPER CLASS E ALTA MODA, ORA I COLORI SONO QUELLI DELL’ORIENTE, Corriere Moda, Settembre 2011, pag 7. Dall’alto in senso orario: frame della sfilata/evento Fendi sulla Grande Muraglia Cinese, 2007; CHOCOLATE RESEARCH FACILITY di Asylume Creative, 2008; IDOL Exhibition poster, FLAME Inc by Masayoshi Kodaira, Yokohama Museum of Art, 2006.
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E’ ritornato il colore... Sono i colori dell’apertura delle Olimpiadi di Pechino, un trionfo kitsch verso il quale i cinesi sono inclini ed esuberanti.
in Europa erano svanite upper-class e aristocrazia. Quelle fasce di personaggi che si sentivano in dovere-diritto di autocelebrarsi, specie nell’immagine, rappresentando fermi riferimenti per il mercato del lusso. “Pensi all’alta moda…
ormai parcellizzata. Siamo in un mondo di pret à porter” (8)
Con la ribalta dei paesi asiatici l’immagine monocromatica, ansiogena e minimale degli anni Novanta, ha iniziato a trasformarsi dopo il 2001 in quella del dopo-evento. E’ ritornato il colore, anche se non si tratta di una palette inedita, ma di qualcosa di preso a prestito. Sono i colori dell’Oriente, che nell’immaginario occidentale è il luogo da cui si arriva. Sono i colori dell’apertura delle Olimpiadi di Pechino, un trionfo kitsch verso il quale i cinesi sono inclini ed esuberanti. Le donne di riferimento del Duemila sono femmine a cui meno di un secolo fa venivano fasciati i piedi. Le donne cinesi, fino al 1949, crescevano nella consapevolezza che non avrebbero mai lasciato il focolare domestico. Ma è con l’arrivo di Mao Zedong che si è stabilito in via definitiva che una donna è “l’altra metà del cielo”. L’autoritarismo asiatico, passato dall’Impero al Partito, ha saltato il femminismo, così come l’intende l’Europa. Pari opportunità ed emancipazione sono l’esito della necessità di doveri equivalenti e inclusione in battaglia, nei campi, in fabbrica. Oggi in Cina sono l’intelligenza e la conoscenza, non i muscoli, ad assicurare la vittoria, ed il sex power conosce la rivoluzione che i compagni comunisti avevano solo intuito. Dagli anni Ottanta per una femmina venire al mondo in Cina resta un’impresa. I contadini hanno bisogno di un figlio da fatica. Se però una femmina riesce a superare la preselezione dei genitori, compiuta
attraverso aborti ed infanticidi clandestini, il destino la ricompensa. Secondo alcuni rapporti del settembre 2011 di Forbes quest’anno la Cina è passata da 128 a 146 miliardiari, di cui uno su dieci è di sesso femminile (tra le 14 miliardiarie, 8 hanno meno di quarant’anni). Nella nazione vivono anche 2.750 milionarie ufficiali ed il 37% delle donne inserite nel nuovo ceto medio guadagna più del proprio compagno. Otto grandi imprese cinesi hanno donne nelle posizioni chiave e le amministratrici delegate sono ormai il 42%, contro il 20% degli Stati Uniti e il 12% dell’Europa. L’ultima ricerca di Bank of China rivela che il 72% delle carte di credito sono in mani femminili (contro il 46,5% nell’Unione Europea), mentre nei master dei migliori atenei i maschi non superano il 30% e tra i clienti dei maggiori shopping center, epicentro unico della nuova Cina, restano sotto il 25%. Donne a cui sono bastati dieci anni per essere proiettate dal marciapiede di un anonimo villaggio dell’interno al loft del grattacielo di proprietà a Hong Kong, Shangai e Pechino. Tutte indicano nel “modello Cina” le ragioni dell’ascesa: donne costrette a guadagnarsi da vivere, rinvio di matrimonio e maternità, famiglie e strutture pubbliche disposte a farsi carico totalmente di crescita ed educazione dei figli, uomini che non accettano, ma prevedono, la loro presenza ai vertici della scala sociale. Questo per dire che economia, cultura, moda e spettacolo, esibiscono oggi star donne e il potere comunista accredita l’immagine di una superpotenza pacifica, guidata dall’irrefrenabile voglia di carriera e di lusso delle sue giovani e sfrontate manager liberiste, piuttosto che quella di un competitore bellicoso condotto da vecchi e depressi generali comunisti.
Contro questo rivale, ci vorrà del tempo per la rinascita dell’uper-class e dell’aristocrazia europea e dell’alta moda. Donne eleganti e di potere in Europa non ce ne sono più: la Germania vive dell’immagine della sua zarina Angela Merkel, la Francia si regge su una prèmière dame, Carla Bruni, perfetta per la parte, ma decisamente raccomandata. E intanto noi sappiamo che di altri Imperatori, anche italiani, ce ne saranno. Certi che la nostra salvezza sarà “il bello ben fatto” (9) filosofia sintesi del prodotto italiano che parte dai tessuti di eccellenza per poi essere confezionato con grandissima bravura, frutto di una tradizione e di una creatività squisitamente italiana. Anche se la triste verità è che il primato milanese è passato al design ed il fashion system sta a guardare con la voglia di rinnovarsi.
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(9) Mario Boselli per Dell’Orto Pamela, L’UNICA CERTEZZA E’ LA QUALITA’, Style il Giornale, Settembre 2011, pp 91-92. Pagina accanto: un frame del film FIRST SPRING di Yang Fudong, nel quale viene presentata la collezione Prada primavera - estate 2010.
2001 2011
Dieci anni di moda tra investimenti, immagine e crisi creativa
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THE LOVERS OF LIFE ISSUE Riccardo Tisci e Mariacarla Boscono ph.Simon Foxton, Settembre 2010; (10) Carlo Pambianco per Ferré Giusi, INTERNAZIONALISMO CONTRO LO CHOC (MA E’ A RISCHIO LA CREATIVITA’), Corriere Moda, Settembre 2011, pag 3.
C’era grande euforia in quei giorni del settembre 2001 a New York per la Fashion Week che la zarina di American Vogue, Anna Wintour, presiedeva con autorità. Erano arrivati i più importanti stilisti italiani, a cominciare da Giorgio Armani, per inaugurare negozi, presentare collezioni, offrire eventi. Tutti erano in movimento, seguendo l’irresistibile voglia di successo che pareva toccare chiunque ci provasse. Nel 2000 l’acquisizione di Fendi da parte di Bernard Arnault di LVMH aveva registrato la cifra più alta mai pagata nel mondo della moda, lanciando una super concentrazione dei marchi che fece scuola. Patrizio Bertelli, mente strategica di Prada, partiva alla conquista di Jil Sander, Helmut Lang e Church. Gucci raccoglieva intorno a sé Bottega Veneta, Yves Saint Laurent e Balenciaga. La IT Holding di Tonino Perna si era appena regalata la maison Gianfranco Ferrè. Carlo Pambianco, consulente strategico del settore, osservava che “il processo di concentrazione
deve coinvolgere anche aziende medie e piccole” 10)
Un buon consiglio per una moda che sarebbe diventata globale, ma dove una sfilata in Cina sembrava ancora un gesto esotico e azzardato.
Il Duemila si apre come periodo di benessere sfrenato (forse per pochi), con opere d’arte battute all’asta per milioni e milioni di dollari, gli artisti con l’aereo privato e i contratti con le aziende di moda. Sono gli anni durante i quali le star di riferimento diventano i personaggi dell’arte e della moda. Fanno da esempio le borse di Louis Vuitton disegnate dall’artista Takashi Murakami. Immediatamente clonate e taroccate. Ecco la chiave forse per capire il passaggio tra un secolo e l’altro: ogni gesto si trasforma nel suo contrario, viene appropriato e cambiato di segno. E’ stata l’apocalisse dell’11 settembre, con i due conflitti che ne sono seguiti, a determinare una rivoluzione davvero epocale. Perché la crisi che allora investì gli Stati Uniti e che ha avuto il suo apice nel crollo della Lehman Brothers del 2008, rappresentato anche simbolicamente da quei manager che lasciano gli uffici con gli scatoloni in mano, ha determinato un cambio d’orizzonte. Sono i cosiddetti BRIC a calamitare l’attenzione: Brasile, Russia , India e Cina, diventati in questo decennio i nuovi mercati. Là dove per i recentissimi milionari non è ma questione di prezzi e dove metà degli imprenditori italiani si sono attrezzati per esportare il Made in Italy. La moda si muove verso mercati che assicurano nuovi soldi. Accade così che il costume occidentale si adatti ai gusti vestimentari di questi nuovi paesi di riferimento, nei cui confini sta accadendo la stessa rivoluzione socio economica avvenuta in Italia negli anni Ottanta. Tutto torna ad essere loggato e griffato, come dimostrano le grandi vendite di Louis Vuitton, Hermès e Prada, in Cina e Russia.
A livello stilistico l’inizio del secolo rappresenta una deriva PopCamp della moda, che dopo il 2000 si muove verso la messa a punto di modelli che rivendicano il diritto ad un’esistenza tutta giocata sulla superficie, abbandonando le atmosfere gotiche e gloomy degli anni Novanta. Nuove icone dell’edonismo patinato vengono prodotte dagli scatti osannatamente fake dei paparazzi d’assalto. Esemplare è Victoria, ex Posh Spice, ora Signora David Beckham, compagna ideale dell’emblema del metrosexual (figura che ha rimesso in discussione le forme dell’abbigliamento e del lifestyle maschili agli inizi del nuovo millennio). Nuovi stylemakers da tabloid che vivono a fianco di una generazione di fashion designer, a cui non è concesso esprimersi, in quanto chiamati a confrontarsi con l’identità e l’archivio di marchi storici: è il caso di Nicolas Ghesquière per Balenciaga, di Stefano Pilati per Yves Saint Laurent, di Aquilano e Rimondi, che, dopo la vittoria al concorso Who’s on next? 2005, vengono chiamati a disegnare Gianfranco Ferré. Oggi il recupero e l’utilizzo del passato implicano una riflessione critica, che diventa metafora per comprendere le pratiche creative e di post production messe in atto dal fashion designer. Intanto arriva la notizia del suicidio di Alexander McQueen, angelo ribelle, che ha disegnato questi ultimi dieci anni con atmosfere gotiche, spettrali, alienanti. Come quando per la collezione primavera estate 2002 The Dance of the Twisted Bull, mandò in passerella una modella trafitta da banderillas del designer Shaun Lane. Gioielli killer in grado di catturare l’essenza crudele della nostra anima sconvolta dagli eventi di inizio millennio. La campagna Diesel Be Stupid, opera del direttore creativo Bruno Collin (fondatore del magazine di moda e design WAD), è un omaggio all’ignorare le regole, all’irrequietezza creativa della fine Duemila. E intanto Lady Gaga si trasforma in androide glamour, scintillante e accecante, in cui confluiscono moda, performing arts e pop culture (vedi MoCA di Los Angeles: lei in Prada, suona al piano decorato con le farfalle di Damien Hirst, mentre Francesco Vezzoli ricama il suo volto e il Bolshoi Ballet danza).
Dall’alto in sesno orario: Alexander McQueen, ph.Larry Dunstan, styling Rebecca Oura, Settembre 2002; immagine dalla sfilata primavera estate 2000 di Alexander McQueen; frammento della sfilata JOAN autunno inverno 1998 di Alexander McQueen, ispirata alla figura di Giovanna d’Arco. Pagina accanto: Victoria Adams Beckham per Dolce&Gabbana, ph.Ellen Von Unwerth, styling Mark Morrison, Gennaio 2004; THE ARTISAN ISSUE Naomi Campbell e Stefano Pilati, ph.Inez Van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, Agosto 2008.
Gli anni del Duemila sono gli anni del risveglio delle coscienze, durante i quali la donna prende posizione emancipandosi nettamente rispetto all’uomo. Questa voglia di femminile si annusa nell’estremizzazione delle forme e dei volumi in collezioni come quelle di Zac Posen e Dolce&Gabbana per la primavera estate 2007. Si vede nell’opera di Alexander McQueen che crea dei fianchi arrotondati e trattenuti da delle stecche (primavera estate 2004), facendo riferimento ad una silhouette ovale, rotonda, ispirata alle statuette di Venere dell’era paleolitica. Tutto ciò rispecchia una maggiore consapevolezza della donna, che va a distruggere l’immagine dell’uomo. Il maschio diventa figlio, adolescente, ragazzino immaturo, come si vede dalla silhouette slim proposta da Hedi Slimane per Dior Homme, enfatizzata ancora di più dalla figura iconica di riferimento del cantante Pete Doherty (allora fidanzato ufficiale di Kate Moss). THE OFFSPRING ISSUE Gemma Ward, ph.Emma Summerton, Settembre 2007; Lady Gaga indossa un corsetto-armatura in pelle metallizzata della collezione NEW SEXY GLAM primavera - estate 2007 Dolce&Gabbana per il lancio del singolo Paparazzi, 2009; un pezzo della collezione autunno inverno 2000 di Hedi Slimane per Dior Homme; un look KITSUNE’, kitsune.com
La svolta stilistica maschile degli anni Duemila si è consumata in tre tempi: lo sportswear ha fatto irruzione nel piccolo tempio dell’abbigliamento formale; il colore ha dilagato, convincendo anche i più restii (quelli dai quaranta in su) che non è disdicevole avere nell’armadio pantaloni rossi o t-shirt color glicine; come funghi dopo un temporale sono spuntate nel guardaroba di lui stampe per camicie, giacche e persino total look. I dieci anni che hanno cambiato il mondo hanno dato una bella spallata alle molte certezze che gli uomini avevano su ciò che si poteva fare o non fare dentro la cabina armadio. Il fossato che divideva la moda maschile da quella femminile si è notevolmente ridotto (ne è esempio il largo sviluppo della gioielleria maschile). Tutta questa nuova libertà del maschio affonda le radici in un terreno concimato dalla voglia (dal bisogno) di intimità, di uno sguardo rivolto più verso l’interno che verso l’esterno. Dice Antonio Marras “c’è stato un
momento in cui l’unica cosa che contava era mostrare quanto si fosse belli e ricchi, era una corsa ad esibirsi. Poi di colpo il crollo delle torri ha cambiato tutto e si è fatta largo questa necessità di tornare ad una dimensione più intima,
privata, a valori che per tanti anni, inondati da un surplus di oggetti, avevamo dimenticato. Da quel momento ci siamo tutti ridimensionati, anche negli acquisti” (11).
E’ stato verso la metà dei Duemila che lo sport ha iniziato a mescolarsi alla vita quotidiana, passando dalla palestra alla strada. Basti pensare alla nascita di fenomeni come Abercrombie&Fitch e Hollister, esplosi in Europa verso la fine del decennio, ma anche alla svolta sportswear di Dirk Bikkembergs e varie collezioni di pret à porter, dove sulla contaminazione della giacca classica e sul pantalone da jogging si è lavorato tanto. Il colore e le stampe, prima dosati col contagocce, nell’ultimo decennio sono entrati di prepotenza nell’abbigliamento maschile, che oggi azzarda tinte e disegni mai osati prima, da indossare anche in occasioni di vita quotidiana. Nei primi dieci anni del secolo la moda ha saputo quindi congiungere l’unico, il remoto ed il desiderabile, con l’accessibile. I sogni, alimentati dalle fiction televisive, dai beni di consumo, dall’intrattenimento, hanno trovato sfogo non solo nella moda, ma anche nei settori della ristorazione, del viaggiare e del divertimento. Per molte persone la moda è un modo per poter scappare,
(11) Antonio Marras per Monti Daniela, COSI’ LA CRISI CI HA RESI PIU’ SPORTIVI E COLORATI, Corriere della Sera, 21 settembre 2011. Dal basso in senso antiorario: un look Saga Lova, sagalova.com; backstage della sfilata autunno - inverno 2009 di Bernhard Willhelm, ph.Danyel Mayer; NEIL BARRETT ph.Simon Foxton, styling Neil Barrett, modelli Morgan M e Arthur Baptiste, Febbraio 2008; YVES SAINT LAURENT ph.Walter Pfeiffer, styling Erika Kurihara, modelli Fejsal e Filip, Agosto 2007; look da sfilata Paul & Joe. Pagina accanto: BERNARD WILLHELM ph.Simon Thisleton, styling Simon Foxton, modello Karl, Agosto 2008.
entrando in possesso di un oggetto che può temporaneamente arricchire la nostra quotidianità. Dominano la praticità, la commistione degli stili, la pluralità di tendenze, così tutto diventa un tema possibile cui attingere. Il casual diventa sportwear, che lo riveste di glamour e lo arricchisce tecnicamente. Ma il vero e proprio messaggio della moda è affidato ad un’idea di lusso, di fascino, d’irraggiungibilità. Linea e tessuti fanno da sempre la differenza nell’ambito della moda, anche se ora è importante puntare sulla comunicazione delle qualità e non solo dell’immagine e dell’atmosfera.
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Le nuove icone modaiole degli anni Duemila sono decisamente rappresentate dalle star musicali, le quali hanno rubato lo scettro alle stelle di Hollywood, entrando a far parte anche del mondo del cinema. Superato il periodo Madonna, entrano in scena nuove stelline che si assumono il ruolo di ambasciatrici dei codici vestimentari del nuovo millennio. Kylie Minogue cambia la sua immagine da ragazza della porta accanto ad immagine sexy, grazie all’aiuto dei Dolce&Gabbana, condendo il tutto con le relazioni avute con Michael Hurchence (cantante degli INXS) e con l’attore francese Olivier Martinez. La front girl dei No Doubt (poi solista) Gwen Stefani ha saputo raccogliere nella sua personalità il ruolo di icona dello street style, del cinema e dell’alta moda, mentre l’immagine sexy di Christina Aguilera ha saputo mixare lo stile della vecchia Hollywood anni Venti con lo stile grunge e la musica soul, jazz e blues. Beyoncé Knowles, fondatrice del gruppo Destiny’s Child, ha saputo stabilirsi come moderna icona della musica urban, legandosi, nei propri riferimenti, tanto alla povera comunità nera americana, quanto allo stile avantgarde dell’haute couture francese.
In tutto questo sberluccicare di stelle, il più prestigoso palcoscenico su cui apparire è rappresentato dal red carpet degli Academy Awards. Qualsiasi fashion designer sa di vincere vestendo una star per la notte degli Oscar. Il tutto sulla base di un rapporto di scambio reciproco che aggiunge tanto glamour al personaggio, quanto cachet al designer.
“Oggi i grandi gruppi del lusso puntano sulle celebrities della musica e del cinema, sono loro che fanno le campagne pubblicitarie. E’ un calcolo mediatico, certo, ma loro, le attrici, non hanno partecipato alla nascita di un abito” (12) E’ per questo motivo che stilisti come Giorgio Armani e Valentino, trasferiscono parte del proprio staff a Los Angeles in occasione dell’evento, per seguire passo passo la preparazione della celebrità di turno. La pubblicità che deriva dal vestire una stella con un proprio orologio, un gioiello, una scarpa, vale assolutamente il fatto che molto spesso questi prodotti vengano regalati al personaggio. Al passaggio di secolo, il legame tra stampa, televisione, merchandising e moda, ha prodotto una diffusione del glamour in settori che nemmeno avevano a che fare con tale concetto, basti pensare al mondo dello sport con la Formula Uno, il calcio con i Beckham, il golf di Tiger Woods, il tennis di Anna Kournikova, la vela di Luna Rossa Prada. Ed in tutto ciò è stata sicuramente la stampa, con Vogue, Vanity Fair, Elle e Glamour, a far da padrona nella diffusione del glamour. E’ dagli scatti per gli editoriali di moda che Mario Testino lancia Gisele Bundchen come nuova e unica icona moda degli anni Duemila. Un mondo glamorous, sexy e divertente, rappresentato alla perfezione dalle curve moderate e i capelli vaporosi di Gisele. Altre forme di spettacolarizzazione femminile hanno caratterizzato i Duemila, il Burlesque è una di queste. Uno striptease dal sapore retrò cominciato nei clubs di New York e Los Angeles all’insegna del ritorno alla bellezza delle pin-up anni Cinquanta. Regina assoluta, con le sue performan-
Regina assoluta, con le sue performance in una coppa di Martini o in un dorato pacchetto regalo, Dita Von Teese, che con i suoi lisci capelli corvini, la pelle bianco ceramica, le labbra rosso sangue è subito diventata un’icona fotografica per Vogue, Vanity Fair e Playboy. La moda degli anni Duemila è un mix di idee e temi ripresi dal passato e resi contemporanei da diverse capacità di interpretazione stilistica dell’icona di riferimento. Le più importanti forme di glamour contemporaneo sono rappresentate da starlette come Lindsay Lohan, Nicole Richie, Mischa Burton, Miley Cyrus e Selena Gomez. Per le nuove generazioni esse sono idoli dal lifestyle invidiabile e molto spesso turbolento. In contrasto con le riservate star hollywoodiane degli anni Trenta, che venivano protette e nascoste al pubblico dalle case di produzione, le nuove starlette sono forzate continuamente nel prendere scelte sul loro modo di presentarsi alle masse. Ecco quindi l’importanza del ruolo delle fashion styling di lusso: esperte di moda, hairstyling e make-up votate al mantenere alta e continuamente fresca l’immagine delle celebrities. Capostipite del branco Rachel Zoe, che ha sviluppato uno stile da trademark composto da elementi di street style, costume di scena e vintage.
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(12) Marpessa per Polese Ranieri, MARPESSA: DA MUSA AD ARREDATRICE, L’INDUSTRIA DEL LUSSO NON MORIRA’, Corriere Moda, Settembre 2011. Dall’alto verso il basso: Dita Von Teese per Playboy Germania, 2008; Gisele Bundchen per V Magazine ph.Mario Testino, 2009. Pagina accanto: THE CELEBRATION ISSUE N.250 GWEN STEFANI ph.Matt Jones, Dicembre 2005.
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Il successo di queste icone trova motivo nella voglia di sognare che pervade i cuori dei nuovi poveri. Dopo l’apice della crisi finanziaria della seconda metà dei Duemila l’unico modo che si ha di svagarsi è quello di invidiare la vita di queste super ricche baby star dedite al divertimento ed al lusso sfrenato. La televisione è il mezzo attraverso il quale si può accedere più facilmente a questo mondo ed è proprio grazie alla tv che il pianeta ha conosciuto la vera e unica icona assoluta degli anni Duemila, Paris Hilton. Non una star del cinema, non una star della musica, non una star dello sport, non una star della moda, ma una star del far niente. Un’ereditiera (futura) di un patrimonio enorme, che debutta davanti al grande pubblico attraverso la copertina di Vanity Fair dell’ottobre 2005. Il simbolo dell’American party circuit, che ha speso la sua infanzia nelle suite dei grandi alberghi di famiglia e che di mestiere si occupa di apparire nei giornali ed a numerosi eventi (spesso accompagnata dalla sorella Nikki). Ostentazione d’immagine allo stato puro che crea business, come dimostrato dalle produzioni televisive, dalla linea di profumi, di gioielli e di abbigliamento a lei titolate. Un fascino
dato dal mix di ricchezza, bellezza ed esibizionismo a cui tutti puntiamo, pur consapevoli della sua inaccessibilità. Gli anni Duemila sono quindi rappresentati da una pluralità d’immagini intriganti, prodotte e mediate dai giornali, dall’industria della moda, dai produttori cinematografici e televisivi, dalle compagnie di pubblicità e di public relations, che danno l’idea di un glamour idealmente accessibile, un tocco di magia da aggiungere alla vita di tutti i giorni. Se questo discorso vale per gran parte degli anni Duemila è anche vero che verso la fine del decennio si è fatto avanti il cosiddetto ritorno dello stile, dell’eleganza e di una nuova femminilità meno esibita. La parola superfluo non ha più valore viste le vicissitudini finanziarie che hanno colpito il mondo. Si va alla ricerca della qualità, di capi ed accessori che durano nel tempo, di linee nuove eppure classiche.
“La vera novità è il ritorno dello stile pulito, dei bei tessuti…si vendono capi che fanno la differenza e durano nel tempo, quelli per i quali i clienti tornano da te soddisfatti dopo due anni”
In mezzo a tante proposte, tanti stili, colori e attitudini, un’unica certezza: la qualità. In realtà le donne la (13)
cercano da sempre ma oggi lo fanno in modo più consapevole, mescolando capi griffati e no-logo, calibrando bene ogni acquisto. “Le grandi griffe sono
importanti per l’immagine, anche se si cerca di mixarle con altri prodotti di qualità equivalente ma dal prezzo inferiore. L’accessorio resta territorio della griffe perché è ciò che qualifica il look” (14) Cambiano anche le abitu-
dini alla fine del decennio, perché il tempo a disposizione è sempre meno e le boutique si adeguano. Rimanendo comunque un punto di riferimento per le donne che avranno sempre voglia di qualcosa di nuovo. “La novità ci deve
sempre essere, ma non è più sinonimo di stravaganza:in un contesto di eleganza, anche una maglia può essere nuova, se ben fatta” (15) Possiamo quindi dire che nel primo decennio del Duemila il comportamento al consumo moda ha visto diverse strade, tutte riconducibili al concetto di lusso che si è sviluppato in questi dieci anni. Il lusso non è una qualcosa di sempre uguale, il vero lusso è qualcosa di superfluo. Il lusso è qualcosa di soggettivo che gratifica l’individuo nella sua personalità. Il concetto del lusso si è evoluto soprattutto nei paesi asiatici.
Si è assistito ad una sempre più marcata separazione in classi in paesi come l’India, la Cina, il Brasile, arrivando a parlare di una nazione chiamata Richistan. Le classi della borghesia non hanno più potere, perché sono state sostituite dalle sole ed esclusive classi di superricchi. Il lusso è vero spreco e superfluo: alla fiera Millionaire, per dimostrare la forza del potere d’acquisto, la forza dei nuovi soldi, si arriva a presentare automobili verniciate con polvere di rubino. A livello italiano esistono due grandi modalità di approccio al lusso: un approccio continuativo e abituale, ed un approccio occasionale. Solitamente chi consuma lusso è una persona che vi è da sempre abituata. Oggigiorno a causa dello spostamento dei brand di prêt a porter da fasce medie a fasce alte si è sempre più diffuso il fenomeno del lusso occasionale, ovvero di un acquisto di prodotti di lusso con frequenza molto bassa e non necessariamente legato all’abbigliamento. Il lusso in Italia, vista l’abitudine della popolazione alle vetrine dei grandi marchi, è poi sempre stato caratterizzato da una forte dose di ricercatezza, non necessariamente dal costo. Ad esempio il brand Abercrombie era
era considerato un marchio di lusso in Italia, fino al suo arrivo e sdoganamento con l’apertura della boutique milanese. Per le masse popolari piuttosto che di lusso si parla oggi di freemium, ovvero dell’affare ricercato ad alta qualità e con un prezzo ragionevole (pensiamo ai prodotti da outlet). Inoltre la libertà di scegliersi il proprio lusso, porta l’individuo a stimolare ed esaltare la propria cultura, creandosi un pacchetto di valori che appaga le proprie aspirazioni ed emozioni. Anche volendo analizzare gli stereotipi del lusso, come i prodotti di haute couture, ci rendiamo conto che la situazione è cambiata profondamente. Le nuove donne di riferimento della couture non sono più delle desperate housewives, ma donne con una posizione professionale guadagnata con le proprie forze. Un carattere forte della couture è la personalizzazione, la customizzazione del capo che si trova in Armani Privè e Tom Ford. Il nuovo lusso non è più esibire il marchio, ma è il su misura. Il lusso deve poi essere qualcosa che ci appoggia emotivamente. Il brand ci deve dare fiducia. Perché negli ultimi anni si dà così importanza agli anniversari delle diverse maison?
Perché se il brand ha una storia salda e importante alle spalle, se il brand ha un suo heritage, il cliente percepisce una maggiore gratificazione nell’acquisto del prodotto. A livello di marketing, uno dei fenomeni più importanti degli anni Duemila è sicuramente quello della fast fashion. Termine utilizzato per indicare quelle catene di retailer che propongono prodotti cavalcando immediatamente l’onda dei trend proposti dalle passerelle di moda o dagli studi di ricerca. Il primo brand diventato sinonimo di fast fashion è stato lo spagnolo Zara, le cui tecniche di marketing poco si distanziavano inizialmente dal concept di United Colors of Benetton. I prodotti vengono confezionati economicamente e velocemente in modo tale da rispondere alle richieste di mercato a breve termine e con prezzi accessibili. Secondo Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-OviesseUpim, il successo della fast fashion è stato possibile in quanto agli anni dell’opulenza è seguito un ciclo riflessivo, che ha fatto saltare i fenomeni inventati dagli esperti di marketing a freddo. Attenzione però a pensare che il successo della fast fashion sia legato
(13) Gianni Peroni di G&B di Flero BS; (14) Flaminio Soncini di Tony Boutique, Magenta; (15) Rosi Biffi di Biffi, Milano e Bergamo; tutti per Dell’Orto Pamela, L’UNICA CERTEZZA E’ LA QUALITA’, Style il Giornale, Settembre 2011, pp 91-92. Da sinistra verso destra: Paris Hilton sulla copertina di GQ Germania, Settembre 2007; campagna pubblicitaria Abercrombie&Fitch; campagna pubblicitaria Karl Lagerfeld per H&M, Novembre 2001.
solo alla strategia dei prezzi. Secondo Beraldo “è l’atmosfera generale, il dècor,
l’ambiente mutuato dai grandi brand a soddisfare un gusto che il consumo di marchi ha affinato” (16) Questa ibridazione
tra alto e basso, lusso e low-cost, ambizioni e realtà, ha poi generato uno dei più interessanti fenomeni di costume: le edizioni limitate, che stilisti dalla fama galattica e dai prodotti milionari sono felici di disegnare per le grandi catene. H&M vanta un palmarès di collaborazioni straordinarie cominciate con Karl Lagerfeld e proseguite con talenti come Stella McCartney, Sonia Rykiel -con una divertente collezione di biancheria- Jimmy Choo, Lanvin e Comme des Garcons. Tra gli italiani Roberto Cavalli e Versace, con una collezione ispirata all’archivio della maison. La lista delle collaborazioni delle grandi catene mondiali è molto lunga ed in continua crescita: Jil Sander per Uniqlo, Kate Moss per TopShop, Valentino per Gap, Zuahir Murad per Mango, Missoni per Target, Ennio Capasa per Oviesse. Unico a non finire contagiato da questa febbre Zara, che ha comunque conquistato il primo posto sul palcoscenico mondiale del settore. E pensare che quando aprì a Milano il suo primo megastore in un ex cinema di corso Vittorio Emanuele, stilisti ritenuti dal fiuto infallibile liquidarono così l’avvenimento “Ci copiano. Non
hanno futuro”.
La velocità della moda pone al settore un problema di content providing: nell’impossibilità di proporre novità radicali a ritmo semestrale (o mensile nel caso della fast fashion), il sistema deve ricorrere a un continuo riciclo di stili che, pur rivisti, aggiornati, reinterpretati e contaminati, ritornano ciclicamente sulla scena. Attraverso questo meccanismo,
inevitabilmente legato alla necessità di studiare e anticipare le tendenze, la moda ha dato origine a un modello di produzione e consumo che si sta oggi espandendo in settori sempre più ampi dell’industria culturale. L’analisi delle tendenze ha avuto il suo sfogo negli anni del Duemila attraverso il coolhunting. Nel marzo 1997 il giornalista Malcom Gladwell firma su The New Yorker un articolo intitolato “The Coolhunt”, nel quale racconta l’incontro tra Baysee Whigtman e DeeDee Gordon avvenuto a Boston, la cui attività consisteva nel frequentare ambienti metropolitani quali “i club di New York, Tokyo e Londra, i rock and roll bars di Seattle e Portland o le strade di Los Angeles”, osservando persone particolarmente innovative e sperimentatrici in materia di abbigliamento, con l’obiettivo di tradurre la controcultura urbana in nuove idee per le scarpe Converse. Qualche anno dopo Gordon fonderà con Sharon Lee l’agenzia di ricerca Look Look, una delle prime ad utilizzare una rete globale di corrispondenti alla ricerca di trend emergenti e segnali di strada. A questa attività di ricerca tendenze attraverso l’osservazione in strada, Gladwell da il nome di coolhunting. Dove con il termine tendenza ci si riferisce all’attività di fotografare un cambiamento che sta mostrando i suoi primi sintomi ma non è ancora del tutto evidente. Il coolhunter rappresenta un segnale d’inversione nelle regole di diffusione della moda, che dal modello trickle down (dall’alto al basso, dalle èlite sociali alla massa dei consumatori) passa all’opposto trickle up: sono cioè i giovani, le subculture, i quartieri effervescenti a produrre, dal basso, innovazioni stilistiche che poi risalgono la piramide della stratificazione sociale, diffondendosi anche tra i ceti
più elevati. Il coolhunting segnala due importanti fenomeni: in primo luogo, l’emergere di nuovi modelli nella ricerca di scenario, focalizzati sulle tendenze socio-culturali quali indicatori dei mutamenti nei lifestyle dei consumatori contemporanei; in secondo luogo, l’affermazione di nuovi attori nel campo della ricerca tendenze, che cessa di essere una pratica esclusiva del fashion system per diventare un’area di attività strategica per tutte le aziende coinvolte nella produzione di beni di consumo. Ciò che rende studiabili le tendenze è il fatto che esse sono osservabili, poiché si incarnano in oggetti, luoghi, persone, comportamenti di consumo. I trend analyst sono dunque impegnati direttamente o tramite l’occhio di collaboratori e corrispondenti, nell’osservazione metodica dei centri propulsori delle tendenze: città o porzioni di esse (i quartieri), spazi di ritrovo e aggregazione delle popolazioni ritenute più ricettive dei nuovi trend. In questi gruppi sono sovra rappresentati i trend setter, cioè coloro che per primi adottano le novità, iniziano a utilizzare prodotti e servizi inediti oppure adoperano in maniera insolita qualcosa che già esiste. Le agenzie di ricerca che utilizzano il coolhunting lavorano oggi sull’ipotesi dell’interdipendenza tra moda e stili di vita, considerando l’abbigliamento come una parte, e una soltanto, all’interno di un quadro più complesso in cui il consumatore sceglie oggetti ed esperienze di consumo sempre meno come status symbol e sempre più come lifestyle symbol. Entrano così in gioco agenzie di ricerca di mercato che indagano le tendenze espressive e di consumo emergenti attraverso tecniche qualitative desk (monitoraggio media e web) e field (osservazione), realizzando report ad hoc per un committente oppure multi client (accessibili su abbonamento alle imprese che pagano un canone).
EDWARD Bristol, ph.Wolfgang Tillmans, 1992. (16) Stefano Beraldo per Ferrè Giusi, LUSSO E LOW COST NELL’ERA FAST FASHION, Corriere della Sera, 21 Settembre 2011.
L’attività del coolhunter consente di avere un punto di vista locale sugli stili di vita della loro città e paese; la sua conoscenza del teatro di osservazione è ciò che lo rende capace di infiltrarsi nei posti giusti, al momento giusto. E’ nei primi anni del Duemila che la ricerca tendenze promette (o permette?) un vantaggio strategico consistente nella conoscenza anticipata di orientamenti di mercato. Paradossalmente, il coolhunting mostra tutti i suoi limiti in ambito progettuale nel campo della moda, dove è nato come evoluzione dei bureaux de style, poiché la figura del cacciatore di tendenze non si è significativamente distanziata da quella del ricercatore di dettagli stilistici. Dalla seconda metà della decade in poi, ci si è invece accorti che è nella ricerca sociale e di mercato che emergono i vantaggi competitivi dell’attività di coolhunting. Attività che, pur non essendo priva di problemi metodologici, è andata via via affermandosi e portando la tematizzazione delle tendenze oltre il settore moda per coinvolgere tutti i campi soggetti all’accelerazione dei ritmi di produzione e consumo.
Ecco arrivare la modella, i fotografi la bersagliano di clic, il mitragliare degli scatti a raffica è l’altro suono, oltre alla musica, che accompagna l’uscita di ogni abito.
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Riprendendo una frase della mia introduzione, ovvero “la tecnologia è stata la vera moda degli anni Duemila” viene introdotta un’altra importantissima evoluzione significativa per il mondo della moda: l’antico mitragliare degli scatti fotografici è stato sostituito dai silenzi moderni delle macchine digitali. Ecco arrivare la modella, i fotografi la bersagliano di clic, il mitragliare degli scatti a raffica è l’altro suono, oltre alla musica, che accompagna l’uscita di ogni abito. La sfilata procede, a vederla così si direbbe il solito rito spettacolare, nulla di diverso, eppure nell’ultimo decennio qualcosa di nuovo è successo. Proprio laggiù, in fondo alla passerella, ecco la postazione dei fotografi, una spettacolare piramide umana, un gioco di sgomitate e incastri al millimetro, un puzzle che magicamente si ricompone ogni volta. E proprio lì, nel cuore di ogni fotocamera, è avvenuto un radicale cambiamento, una vera rivoluzione: il passaggio dall’analogico al digitale. Un trascorso ultracentenario fatto di rullini, acidi ed emulsioni, scalzato in pochi anni da un sensore e da una memoria di silicio che hanno sostituito la vecchia e gloriosa pellicola. Complicati algoritmi matematici e sofisticate tecnologie produttive hanno reso disponibile a tutti la possibilità di realizzare immagini immediatamente disponibili e divulgabili, ovunque nel mondo, tramite internet. Questa innovazione ha riguardato non solo le reflex professionali ma soprattutto una miriade di oggetti multimediali ed ha fatto letteralmente esplodere il numero di foto scattate ogni giorno, rendendo la fotografia assai più democratica di un tempo. Così, anche nel campo delle sfilate di moda, si sono aperte nuove prospettive in termini di fruibilità, elaborazione e correzione delle immagini. Chi ha iniziato a lavorare dieci anni fa probabilmente non sa nemmeno cosa voglia dire caricare un rullino, svilupparlo, scegliere le inquadrature migliori dai negativi, sapendo solo dopo se fossero corrette o meno. Prima del digitale era dispendioso scattare a raffica per cogliere l’inquadratura perfetta e complicato per gli ISO e la temperatura di colore che, essendo fissi, costringevano
a scatti più o meno indovinati, all’uso di filtri o a cambi di pellicola al volo per non sbagliare l’esposizione. Quante diapositive buttate perchè la modella non era perfettamente a fuoco, non aveva il passo giusto, oppure accecata da luci e flash, appariva con gli occhi chiusi. Con i rullini, inoltre, c’era un numero limitato di pose, molti fotografi avevano accanto un assistente che velocemente passava loro quelli nuovi o, in alternativa, una seconda macchina già carica. Ormai il digitale ha ampiamente superato l’analogico. Parole come pixel, white balance, jpeg, memory card sono di fatto entrate nel linguaggio comune. Le reflex professionali sono sempre più sofisticate e permettono di regolare qualunque parametro, aumentandone le potenzialità, a patto di non farsi distrarre da tanta elettronica. Ieri come oggi, avere un buon apparecchio e una discreta conoscenza non sempre bastano. La moda ha bisogno della fotografia, non solo come reportage, per questo il fotografo di settore è una delle figure più importanti del fashion system: creatività, competenza e fantasia al servizio di riviste, pubblicità e grandi marchi. “Pixel o rullino l’importante è scattare” (Bob Krieger) “le cose
sono in continua sparizione, ciò che è stato, non sarà più, è perduto per sempre” (Henri Cartier –Bresson) “Ed a proposito di fashion, stile e tendenze si potrebbe dire: la fotografia ferma l’attimo di una moda che non si ferma un attimo” (Bob Krieger).
Front door alla sfilata Christian Dior autunno-inverno 2008, ph.David Ramos Pagina accanto: RICK OWENS, ph.Rick Owens, Aprile 2008
La fotografia della moda si pone in sintonia con il proprio tempo, ne interpreta le emozioni e le ossessioni, i comportamenti, le tendenze. Negli anni del Duemila la fotografia di moda costruisce sempre più il proprio mondo, manipolando l’immagine e costruendo scenari che colgono aspetti profondi del sociale: le sue schizofrenie, le sue perversioni, la sessualità, la pornografia, l’artificiale. Si innesta sugli immaginari del post umano e del cyborg, esplorando il sex appeal dell’inorganico, sostituendo il corpo di carne della modella con l’eros del manichino reso vivo da innesti di pelle sul suo volto. Appaiono corpi manipolati al computer, o dalle inquietudini anoressiche, o con trucchi da perfezione plastica, o con abiti che aderiscono come tatuaggi, o con forme statutarie oltremisura. La fotografia del duemila ha realizzato le proprie immagini dentro e fuori degli studi, nel traffico, sui tetti, operando per astrazioni, per contaminazioni, deformazioni, fino al kitsch di David LaChapelle, che inventa scenari eccessivi nei colori e nella spudoratezza dei corpi, in scene surreali oltre il limite dell’eccesso. La fotografia si è ispirata alla vita e alla strada, all’underground che hanno fatto nascere nuove riviste rompendo il monopolio di Vogue. La fotografia della prima decade del Duemila coglie i nuovi trend che sono nell’aria e li trasforma in immagini pubblicitarie per riproporle sotto forma di stili di vita. Le immagini di Simons si ispirano al grunge, quelle di Mc Dean ai corpi mutanti,
THE INSIDER ISSUE, COURTNEY LOVE ph.David LaChapelle, Ottobre 2003. Pagina accanto: THE MAN AND BEAST ISSUE, TOM and JOHN FORD ph.Terry Richardson, Luglio 2001. Pagina successiva: FRANCISCO COSTA per CALVIN KLEIN, ph.Matt Jones, styling Tina Chai, modelli Anne V e Boyd Holbrook, Febbraio 2009.
quelle di Teller al trash, al quotidiano metropolitano, quelle di Knight mettono in scena il corpo segnato dalla vita e scritto dalla moda. Anoressia, droga, ibridazioni occupano la scena degli anni Novanta. Le immagini della moda vengono così a far parte della cultura di massa, essenzialmente virtuale, e riflettono molti gusti e aspirazioni della nostra epoca. Sono immagini che veicolano stili di vita, suscitano emozioni estetiche e desideri. Per questo la fotografia di moda, opera di fotografi che lavorano con tecniche sofisticate, quali fossero ritratti di autore, si pone al confine tra fotografia e arte. Dà corpo a stili di pensiero o delinea scenari, rispondendo pienamente alla strategia attuale della comunicazione della moda che occupa uno o più concept, magari anche diversi fra di loro.
Dopo dieci anni fatti di crisi creativa, conquista dell’Oriente, sostenibilità, girl power, icone glamour trasgressive, fast fashion, rivoluzione digitale e ritorno alla purezza del tailored, possiamo concludere dicendo che la Moda ha mantenuto intatto il suo ruolo di indicatore del tempo. Altalenandosi tra un eccesso continuo della prima metà dei Duemila e rinnegando i sintomi di una crisi reale, ha dovuto abbassare la cresta nella seconda metà del decennio, diventando più democratica nell’immagine, seppur più inaccessibile nel prezzo. E’ anche vero che la moda è diventata talmente pubblica da diventare materia malleabile e non restricted. Un decennio fa non c’erano tutti gli stilisti, soprattutto giovani, che ci sono oggi, è come se avessimo sentito il bisogno di diversificarci. Dieci anni fa non era nemmeno immaginabile una first lady -Michelle Obama- che sceglie un talentuoso, ma quasi sconosciuto, Jason Wu. Che dire poi dei team, sempre più forti, dietro un marchio, che hanno sostituito (o quasi) il sacrario dello stilista idolatrato? Oggi si va avanti anche senza John Galliano. Molti templi hanno ceduto il passo a un sentire meno scintillante ma più autentico, più vicino al sentimento dominante.
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La moda, dopo dieci anni, ci assomiglia di più.
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La moda del Duemila si costruisce campionando le mode passate in un fraseggio sempre diverso e l’invenzione pura è un evento più unico che raro. FASHION DECADE Collages digitali di Luca Belotti
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Il lusso deve essere qualcosa che ci appoggia emotivamente...un tocco di magia da aggiungere alla vita di tutti i giorni.
GLAMPING, Illustrazoni Luca Belotti, Novembre 2011
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Maggiore consapevolezza della donna, che va a distruggere l’immagine dell’uomo...le stampe sono spuntate nel guardaroba di lui come funghi dopo un temporale, NEW ERA.COLORED.PRINTED. Illustrazoni Luca Belotti, Ottobre 2011
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Le nuove icone modaiole degli anni Duemila sono decisamente rappresentate dalle star del mondo della musica GLAMOUR, Illustrazoni Luca Belotti, Dicembre 2011
Dall’Etica all’Estetica
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A partire dagli anni Novanta l’etica nel design, e poi nella moda, ha assunto la stessa importanza dell’estetica e ha fortunatamente soffocato un’altra tendenza emersa in quello stesso periodo, quella dei cosiddetti oggetti di design in serie limitata realizzati da sedicenti designer e venduti nelle gallerie d’arte a prezzi non esattamente di design a collezionisti d’arte alla ricerca di uno stuzzichino insolito da consumare fra una portata e l’altra dei pranzi artistici canonici. Viste le diverse problematiche gestionali della questione sostenibilità da parte dell’industria della moda, nei primi dieci anni del Duemila il motto di lavoro non è stato tanto recycling, ma piuttosto upcycling (meglio se d’autore). Ovvero il dare una nuova funzione e un’estetica d’alto livello ad abiti, materiali di seconda mano e scarti di produzione. Non è una semplice questione semantica, si tratta di interventi a norma di un progetto di qualità, secondo il dettame preciso del non-spreco. Una filosofia
che ha una marcia in più rispetto alla semplice idea di ricercare materiali ecocompatibili, ovvero sfruttare al meglio il ciclo vita di un prodotto per reinterpretare, migliorandoli, i pezzi in disuso. Ecco quindi Consuelo Castiglioni che recupera i foulard Marni invenduti per farne una linea di abiti basic dal gusto patchwork o Pascale Mussard che trasforma gli avanzi delle pelli ed i tessuti di Hermés in arredamenti soft. La sostenibilità, ambientale o sociale, è un punto chiave che fa la differenza nelle attività dei designers e dei fashion designers contemporanei. Essi si collocano a metà strada fra le rivoluzioni e la vita di tutti i giorni. Quando si verifica qualcosa di incommensurabilmente dilagante come una crisi ambientale a livello internazionale, possono contribuire a portare questa crisi nelle case e nella vita della gente, rendendola più gestibile e accessibile, in modo da farla assimilare ed esorcizzare più facilmente. Possono trasformarla riducendola da una scala globale a una più locale e personale. Ed ecco entrare in gioco l’importanza della tutela delle tradizioni e dell’artigianalità, fattori che riguardano direttamente l’Italia ed il suo dna. Concetti che se sostenuti a dovere fanno la differenza di un abito, una borsa o una scarpa permettendo al paese di differenziarsi rispetto ad altri paesi fornitori che offrono lo stesso servizio con maggiori vantaggi di costo. Nell’ultimo decennio, le tradizioni locali hanno dimostrato di essere il mezzo più potente per andare oltre il modernismo senza rinunciare alle straordinarie qualità del design moderno. Alcuni paesi dove la tradizione dei materiali si basa sull’artigianato e la cui economia poggia
SHELTER ME 1, Mella Jaarsma (2005). Pagina accanto: Stella Eco Bag Earth, Stella McCartney, (2008)
sulla necessità, come nel caso del Brasile, vengono considerati come i nuovi paradigmi della moda, dell’architettura e del design. Il fashion design basato sulla responsabilità, sia essa ambientale o sociale, sta prendendo piede anche fra gli studenti che nei prossimi anni entreranno nel mondo del lavoro. L’esigenza di uno spirito ecologico nei processi di design, l’approccio olistico che parte dalla mente dello stilista e interessa l’intero ciclo di vita di un prodotto, dalla produzione alla commercializzazione per poi arrivare all’acquisto, all’uso e allo smaltimento, sono stati ampiamente dibattuti e hanno spinto molte persone a sforzarsi di rendere allettante anche la moda sostenibile, se non addirittura indulgente e decadente, e come tale desiderabile per tutti. Ed è sulla base di questo concetto che si giustificano i risultati positivi dell’ Ethical Fashion Show di Parigi e di Esthetica a Londra, che riscuotono ogni anno sempre più successo, diventando un appuntamento fisso nel calendario delle fashion week ufficiali. Quello a cui puntano questi nuovi progetti intelligenti è il benessere del singolo individuo, che porta di conseguenza benessere alla collettività. Si tratta di progetti moda atipici, a volte scomodi, che non tralasciano mai di far riflettere: vanno dalla borsa trasformabile in sacco a pelo per i senzatetto al tessuto solare che permette di realizzare abiti e borse in grado di catturare la luce per poi restituirla, da usare come fonte luminosa portatile (il tutto visto ad Index, Design to Improve Life di Copenaghen). Ovviamente il comun denominatore pare essere la stessa, nuova, visione della moda. Più che una visione, un credo: utile è bello.
Quando si parla di sostenibilità si fa perlopiù riferimento a piccole realtà del mondo della moda, appena nate sì, anche se con grande margine di crescita e sviluppo. Nel riluttante mondo della moda ufficiale dove le griffe spesso hanno un nome e cognome, ma la gente solitamente si ricorda il secondo (vedi Armani, Cavalli, Prada), c’è una lady che con la propria azienda si batte per i diritti del pianeta: Stella McCartney, che per tutti è Stella. Questo la dice lunga sulla secondogenita dell’ex beatles Paul: amata e coccolata da tutti, anche quando all’inizio convinceva così e così. Dalla seconda metà degli anni Duemila è in grande ascesa, un destino scritto nel suo nome, ma anche nel suo portfolio: a dodici anni disegnò il suo primo abito, a quindici ha collaborato con Christian Lacroix e una volta diplomata alla Central Saint Martin’s School di Londra la sua collezione viene subito acquistata. Dopodiché è diventata moglie, madre e amica. Ma è sempre stata anche la feroce nemica di chiunque indossi una pelliccia “Penso che la pelliccia come materiale non sia più necessario … c’è la lana ad esempio che può arrivare, se lavorata bene, ai pesi e usi di una pelliccia”. E per una stilista non è una battaglia da poco (in tanti ci hanno provato, ma solo lei ci è riuscita). Ora le sue scarpe, borse e pellicce, tutte rigorosamente in eco-pelle o finte, sono dei must have. “Circa cinquanta milioni di animali muoiono ogni anno perché usati come cibo e pelle”. Questo sta contribuendo significativamente a cambiare il nostro clima perché gli allevamenti consumano molta acqua, energia e terra, devastando foreste e inquinando oceani. Ci sono oggi molte
Campagna pubblicitaria della GREEN LINE per Barney’s NY, Stella McCartney (2008). Pagina accanto: campagna pubblcicitaria CARE, linea di cosmesi Stella McCartney (2011).
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alternative da utilizzare al posto del cuoio negli accessori. Per esempio, alcuni materiali particolari, elaborati anche in Italia e che non hanno nulla a che vedere con il PVC. E poi i velluti, le rafie, i cotoni, le tele, il legno sostenibile, i nylon riciclati, a sostegno anche di un lavoro più creativo. Ovviamente l’impresa ha implicato importanti modifiche strategiche e organizzative dell’azienda di Stella McCartney e del settore. In Europa c’era è c’è una grande tradizione di artigiani del cuoio, ma di persone che trattano in un certo modo le pelli sintetiche non ne esistevano. La lavorazione della pelle naturale e dei tessuti biologici richiede altrettanto tempo e lavoro come nel caso dell’attività classica. Per creare una borsa in tela canapa, ad esempio, ci vogliono particolari accorgimenti, molti passaggi. E’ Stella stessa a dire, orgogliosa, che per ottenere gli stessi risultati della lavorazione naturale è stato necessario costruire dei macchinari ad hoc, facendo così nascere una nuova filiera, un nuovo settore lavorativo. “Quando qualcuno
compera uno di questi prodotti mi piace pensare che lo faccia perché li ama e ama come sono stai realizzati” (16) Senza parlare della spinta che questo ha dato a Stella di tuffarsi nella ricerca
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(16) Stella McCartney per Pollo Paola, HELP LE PELLICCE UCCIDONO LA VITA, Corriere Moda, Settembre 2011 pag 21. Pagina accanto: THE FOLLOWER di Mella Jaarsma con Karim Raslan e Valentine Willy, 2002.
di materiali assolutamente eco-sostenibili, dando vita negli ultimi anni dei Duemila a collezioni cento per cento bio. L’industria della moda italiana sembra recepire con ritardo l’importanza di progetti legati alla sostenibilità, o forse sembra non valutare appieno l’enorme potenziale, anche economico, della sostenibilità. Qualcosa si sta muovendo, se i progetti corrispondono a bisogni reali, prima o poi vi saranno imprenditori e aziende, forse africane e non europee, che coglieranno l’opportunità, perché la ricaduta di questo genere di progetto è positiva sia sul piano sociale sia economico. L’evoluzione del modo di progettare , collegato all’utopia di cambiare il mondo, che ha segnato la nascita del design, è legato a nuovi mercati, ma soprattutto ad altre sfide: emergenze planetarie, sviluppo sostenibile, rapporto uomo e ambiente, ecologia, energie pulite e rinnovabili, riuso e riciclo, ri-distribuzione tra nord e sud, consumi intelligenti, cambiamenti sociali. La riflessione sulle reali esigenze è in atto e la moda si sta muovendo, come sempre, con lieve anticipo. Non resta che ridefinire la produzione secondo logiche di consumo e parametri nuovi e creativi.
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sforzarsi di rendere allettante anche la moda sostenibile, se non addirittura indulgente e decadente, e come tale desiderabile per tutti EstETICA Servizio Fotografico di Luca Belotti, Dicembre 2011
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BLOG privati
dalle ambizioni pubbliche
In dieci anni la moda è stata rivoluzionata dal progresso tecnologico del terzo millennio. Questa rivoluzione non sarebbe stata possibile senza Facebook ad esempio. La sua rilevanza è tale che sempre più spesso diventa strumento di lavoro. E la moda, oggi inoltrata in continuazione da uno smartphone ad un iPad, lo sa: il suo pubblico è veloce, interessato, interattivo. Quello che un tempo era inaccessibile ora è alla portata di tutti, basta connettersi alla rete. Appena dieci anni fa non era pensabile che un re come Giorgio Armani pubblicasse su Youtube tutte le sfilate delle sue collezioni e che su Google si sarebbe arrivati alle mille ricerche al minuto su argomenti di moda. Nascono i social network dedicati interamente allo stile, come ad esempio fashionstake. com e chi avrebbe immaginato il fiume di video tutorial su Youtube (quelli in cui semplici utenti provano abiti, accessori e make-up, “postando” le proprie inflessibili impressioni), che oggi sono diventati un importante strumento strategico per le grandi maison. Dieci anni che sembrano un secolo. Perché negli ultimi due lustri la moda ha cambiato -grazie alla tecnologia- pelle, voci, colori. Cose e persone che nei primi mesi del 2001 sembravano fantascienza, oggi sono quotidianità. Si chiamano coolhunters (cacciatori di tendenze) e fashion bloggers, quattordicenni che siedono in prima fila alle sfilate e che marchi come Zara o Mango
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Street look ph.Scoot Schuman, dall’alto in senso orario: Viviana Volpicella (Milano), Kemankes Cd (Istanbul), Rue Pierre Sarrazin (Parigi), Monoblue (Milano), Ni’ma Ford (New York), Alessandra Colombo (Milano). Pagina accanto: Tavi Gevinson sulla copertina de L’OFFICIEL N.959
ostentano come testimonial. I nuovi critici della moda si sono conquistati uno spazio su internet e ora sono venerati e temuti. Il più autorevole? L’americano Scott Schuman che immortala il look della gente comune e manda in rete gli scatti. Il più stravagante? Il filippino Bryan Boy che si veste per stupire, scegliendo con cura accessori ultra femminili. Inimmaginabile sarebbe stato dieci anni fa scorrere con lo sguardo l’avanguardia d’onore alle passerelle di New York e vedere il caschetto bronzeo di Anna Wintour sullo stesso piano dei fiocchi di Tavi Gevinson, quattordicenne che emana pensieri di stile dalla sua stanzetta di Chicago, compilando il lettissimo blog thestylerookie.com E chi mai avrebbe pensato che un creativo americano in crisi di idee sarebbe diventato il più influente coolhunter al mondo semplicemente fotografando le persone per strada? L’avventura di The Sartorialist comincia così e oggi conta milioni di fan. Era la fine degli anni Novanta e nella New York delle griffe di lusso, a Scott Schuman, un ragazzone biondo dell’Indiana, le cose andavano piuttosto bene: incarichi da Helmut Lang e Jean-Paul Gaultier, uno showroom in proprio. Poi accadde che due aerei si schiantarono contro il World Trade
Center. Stop. Si prese un po’ di tempo, si guardò intorno, e capì una cosa
“Tutto era a pagamento. Per fare qualcosa di diverso dovevi inventare qualcosa di nuovo e gratuito” (17) Un blog ad esempio. Ma non uno dei tanti in cui si elargiscono consigli, ma uno che potesse raccontare il mondo. The Sartorialist nasce così dall’intuizione che, dopo l’11 settembre, alla moda non servissero più re e regine, ma persone normali che si sentono straordinarie. “Quando lavoravo
nel mondo della moda ho sempre pensato che ci fosse uno scollamento tra quello che stavo vedendo in showroom e ciò che le persone vere indossavano nella vita reale. La mia unica strategia, quando ho cominciato a fare The Sartorialist, è stata quella di fare scatti a persone che mostrassero uno stile che sapevo essere quello ricercato dai designer a caccia d’ispirazione” (18) Fu così
che Schuman prese una macchina fotografica, uscì per le strade di New York e si mise a raccontare la storia della studentessa con la sciarpa colorata e i guanti eccentrici, della stilista inascoltata che ogni giorno inscena una personale passerella indossando le sue creazioni, del manager fresco di yoga mattutino non ancora segnato dalle disavventure finanziarie. Persone normali con uno
(17) Scott Schuman per Dell’Orto Pamela, FASHION BLOGGER, Style Il Giornale, Ottobre 2011, pp 6668 (18) Scott Schuman per Scorranese Roberta, NEW FASHION, Corriere Moda, Settembre 2011, pag 39. Pagina accanto: Scott Schuman con la compagna Garance Doré, ph. Paula Morera e Rocío Martín,
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stile originale in quanto non soggetto a logiche c ommerciali o c omunicative. Il successo di The Sartorialist e la sua unicità post-11 settembre, sta proprio nel voler cercare qualcosa di diverso. Emozioni, non soggetti. Sguardi, non eleganza. Persone, non modelli. Dieci anni fa non c’era nemmeno quella commistione tra gusto personale e impresa creativa che oggi fa di molti fashion bloggers delle figure ibride, un po’ stiliste, un po’ imprenditrici, un po’ fruitori. Nuovi prezzemolini delle fashion week di tutto il mondo, spesso giovani o giovanissimi (molti sono studenti), venerati dagli stilisti (ma non da tutti) e tenuti in grande considerazione da alcune penne autorevoli (altre li criticano), i fashion blogger hanno rivoluzionato il modo di vivere la moda. Spesso privi di un’esperienza e di una specializzazione o di un particolare talento, i blogger hanno cambiato le cose diventando testimonial di se stessi, fotografando i propri look, ora chic ora shock. A parte qualche rara eccezione dallo sguardo creativo, che si concretizza nel postare foto e commenti, come nel caso della francese Garance Dorè http://www.garancedore.fr/en, non a caso compagna di Schuman,
pullulano soprattutto decine di belle ragazze che, fra una sfilata ed un party, si fanno immortalare nei vari outfit. Alcune si distinguono, per stile e originalità, postando anche foto di eventi, sfilate e commenti personali. La più interessante è Maddison Rothery, diciottenne londinese metà blogger metà fotografa, tanto che le sue pagine web (http://fictionliving.blogspot.com/) non hanno niente da invidiare a quelle di un magazine patinato. La ventenne Denni Elias, americana di origini sudamericane, che spopola sul web per uno stile assolutamente chic (http://thechicmuse.blogspot.com/). L’inglese Kristin Knox, sofisticata col suo The clothe whisperer (http://www. theclotheswhisperer.co.uk/). In Italia la più famosa è Chiara Ferragni che, con la sua The Blonde Salad (http://www.theblondesalad.com/), propone uno stile personale che riflette quello di molte ragazze fashion, diventando per molti un’icona di stile. Tant’è che i magazine chiedono il suo parere e nel 2011 si è vista pure al Festival del Cinema di Cannes ed alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Salvo poi fare qualche scivolone: si dice che una nota griffe l’abbia tolta dalla lista degli invitati, dopo che aveva fatto
capricci per una it bag in regalo (mai arrivata, ovviamente). Il fashion blogger più famoso del momento è il filippino Bryan Boy (http://www.bryanboy.com/). Sempre vestito per stupire, spesso da donna (con tacchi, zeppe e it bag), è adorato dagli stilisti e massacrato dai critici. Su The Sartorialist non lo vedremo mai, perché per Schuman la cosa più importante è la sorpresa della semplicità e della quotidianità. Forse anche per questo il suo blog è diventato un libro e i suoi lavori sono finiti al Viktoria&Albert Museum di Londra ed al Metropolitan Museum of Photography di Tokyo. Con una semplice fotocamera ed un guardaroba molto ben accessoriato, i bloggers sono diventati una sorta di filo di connessione tra lo stilista ed il consumatore medio. A metà fra i coolhunters e gli stylist, i fashion bloggers hanno un approccio alla moda più immediato. Se non fosse poi che qualcuno si è fatto prendere la mano, esagerando con look assurdi decisamente sopra le righe ed outfit pensati a tavolino solo per stupire e finire immortalati su blog o magazine. Abbinamenti azzardati e di cattivo gusto che niente hanno a che fare con quello che la gente vuole, tanto che il mondo della
moda ha iniziato a storcere il naso.
“Quei travestimenti da prima, seconda e terza fila alle sfilate hanno veramente stufato. Gusto, eleganza e quel tanto di comprensione che la moda è si fantasia e creatività, ma che nulla ha a che fare con il giro finale nelle piste dei circhi” (19)
I fashion blogger sono come baby rockstar a cui il successo ha dato alla testa, portandoli ad esagerare. La maggior parte di loro non ha una cultura (non sanno scrivere e non sanno esprimere un giudizio critico su una collezione che non sia “wow” o “super”), non hanno studi di moda alle spalle, e non hanno altro apparente talento se non quello di sapersi vestire nel modo giusto al momento giusto. Con la tecnologia a sostegno di fenomeni come il coolhunting ed il fashion blogging la moda è ripartita dal basso. E’ come se, di fronte ad una crisi così profonda come quella che ha attraversato l’Occidente, avesse sentito il bisogno di rimescolare le carte, rompere equilibri per ricostruirne altri con criteri più elastici, sostenibili e democratici.
(19) Franca Sozzani per Dell’Orto Pamela, FASHION BLOGGER, Style Il Giornale, Ottobre 2011, pp 66-68. Da sinistra verso destra: Chiara Ferragni sulla copertina di SPRAY del Marzo 2010; Anna Dello Russo sulla copertina di 10 Winter 2011; Bryan Boy alla sfilata primavera estate 2012 di Michael Bastian.
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Cercare qualcosa di diverso. Emozioni, non soggetti. Sguardi, non eleganza. Persone, non modelli. COOLHUNTING scatti di Luca Belotti da ID by LUCABELOTTI FASHION BLOG, 2010-2011
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Modelle fantasma del Nuovo Mondo
“Negli anni Ottanta e Novanta la modella era il volto, l’immagine che uno stilista sceglieva per le proprie creazioni. Spesso era pure la sua musa, la collezione nasceva pensata su di lei, che doveva interpretarla, come un’attrice dl muto”
(20) Marpessa per Polese Ranieri, MARPESSA: DA MUSA AD ARREDATRICE, L’INDUSTRIA DEL LUSSO NON MORIRA’, Corriere Moda, Settembre 2011. NAOMI CAMPBELL per AZZEDINE ALAIA, 2008. Pagina accanto, da sinistra verso destra: Stephanie Seymour, Christy Turlington, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Cindy Crawford e Naomi Campbell per Vanity Fair, ph.Mario Testino, Settembre 2008.
La foto simbolo dell’epoca è quella scattata alla fine di una sfilata degli anni Novanta, con il patriarca Gianni Versace che stringe le sue ragazze: Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Christie Turlington, Naomi Campbell e Cindy Crawford. Una cosa del genere non si vedrà mai più. Secondo David Brown, talent scout di modelle, nonché fondatore della D Management Group, agenzia nata nel 2001 che ha rappresentato donne come Monica Bellucci, Carla Bruni, Elle Macpherson, Nadege Dubospertus e Eva Herzigova. Dopo quello scatto sembra quasi essersi avverata la fine di tutto “Potrà sembrare un paradosso,
ma come donna una modella non deve piacere: deve piacere come modella e basta. Sono donne che hanno il grande dono di trasformarsi in fantasmi” (21)
Con il 2001 tutto cambiò in quel mondo fino ad allora governato dal protagonismo assoluto, i toni si abbassarono e le supermodelle diventarono fantasmi. Il cambiamento era già iniziato con un altro stravolgimento storico: la caduta del muro di Berlino del 1989. La moda entrava nei paesi dell’Est Europa e le
(21) Eileen Ford per Proietti Michela, DA NAOMI A VOLTI IGNOTI, D la Repubblica delle donne, Febbraio 2011. Dafne Groeneveld sulla copertina di NUMERO’ 124 ph.Greg Kadel, Giugno 2011. Pagina accanto: Le modelle Anja Rubik, in primo piano e Natasha Poly, alle sue spalle, sorridono al termine della sfilata primavera estate 2009 di Matthew Williamson per Emilio Pucci, ph.Sonny Vandevelde, 2008.
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ragazze da quella parte del mondo ora potevano sognare di viaggiare e imporsi, a prezzi più vantaggiosi delle top model, su passerelle importanti. Un ricambio facilitato da un mercato sempre più bulimico, affamato di volti nuovi da bruciare in fretta: ragazze dai nomi impronunciabili e non memorizzabili, figlie di una generazione fisicamente differente (una volta l’altezza giusta per sfilare era 1 metro e 75, oggi neppure 1 metro e 80 basta più). Viene quindi da chiedersi se oggi una Monica Bellucci potrebbe avere lo stesso successo che ebbe all’epoca. Il problema vero è che nel giro di due stagioni si brucia una carriera: il mercato è diventato disattento e voracissimo. Le carriere durano troppo poco per cementare un legame, mancano personalità come quelle di Carla Bruni e Naomi: per una Maria Carla Boscono che si impone, ce ne sono altre cento che si dimenticano. Le modelle sono cambiate di pari passo con la politica: negli anni Ottanta c’erano i soldi, la Milano da bere, e di conseguenza le ragazze erano bellissime e rigogliose. C’era una febbre al rialzo, come quel giorno che, dopo il forfait alla sfilata di Versace di Claudia Schiffer, Gianni decise di decolorare Valeria Mazza e farla sfilare come
“la nuova Schiffer”. Poi, con l’arrivo della crisi e i grandi lutti del mondo, lo scenario è cambiato: le modelle sono diventate pallide, emaciate, quasi sofferenti. Oggi regna l’incertezza più totale e bellezze opulente come le modelle di Victoria’s Secret si mescolano a tante new faces indistinte. Nel decennio del Duemila è mancato anche il rispetto per l’età: oggi una delle modelle più belle è l’olandese Dafne Groeneveld, che però ha 17 anni e, di conseguenza, un’immagine da trattare con cura. Le modelle degli anni Novanta erano vere signore in pelliccia, con un look snob che annunciava qualcosa di esclusivo, profumato e costoso: pretendevano e ottenevano, perché comunicavano da sole l’idea del lusso. Adesso alcune modelle sembrano quasi delle profughe, a cui bisogna dire come vestirsi. Mariacarla Boscono per GIVENCHY by Riccardo Tisci, ph.Kerry Hallihan, styling Alastair McKimm, Novembre 2007.
E chi è rimasto indietro cosa deve fare? La storica agenzia milanese di Riccardo Gay, che lanciò donne bellissime come Carol Alt e Kelly LeBrock, oggi non c’è più. E’ terminata un’epoca “per noi abituati ai tempi di Gianni Versace era impossibile abituarsi alle bellezze pallide dell’Est Europa” (22) Le modelle erano dive, arrivavano sulle passerelle in auto cabriolet, e anche un ragnetto come Kate Moss si imponeva con la personalità magnetica. “L’unico personaggio che vedo oggi di
statura internazionale è Bianca Balti, il resto è sconosciuto al grande pubblico”
(23)
(22) (23) Riccardo Gay per Proietti Michela, DA NAOMI A VOLTI IGNOTI, D la Repubblica delle donne, Febbraio 2011. KATE MOSS alla Mario Testino Exhbition, Londra 2002. Pagina accanto: BIANCA BALTI per L’Oréal Paris 2011
102 Una modella non deve piacere: deve piacere come modella e basta. Sono donne che hanno il grande dono di trasformarsi in fantasmi
MODELS collage cartaceo di Luca Belotti, Dicembre 2011
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Il sogno Alta Moda continua Nel 2001 con il crollo delle Torri Gemelle è crollato anche il superfluo. Dopo l’11 settembre tutto è cambiato, è come se la gente avesse capito che non c’era bisogno del superfluo ma ha sentito l’esigenza di tornare alle proprie radici culturali. Nella moda è così avvenuta una naturale pulizia del mercato, che ha permesso al settore alta moda di consolidarsi e di diventare ancora più esclusivo. L’alta moda mantiene quindi alta la voglia di sognare dei consumatori, anche se oggi, i grandi gruppi del lusso, enormi e potenti, sono mossi esclusivamente dai guadagni e non dalla passione, e molti dei cosiddetti nuovi ricchi, con la moda cercano solo di scalare posizioni sociali. Tutto sembra quindi essere manovrato da una grande strategia di marketing planetario che pare abbia l’obiettivo di eliminare il concetto di indipendenza dalla moda. Speriamo di no: l’indipendenza deve continuare ad ispirare e motivare i giovani. KIERNAN SHIPKA in Valentino Haute Couture per INTERVIEW-Forever Young, ph.Mikael Jansson, Settembre 2010
L’ultimo personale successo del couturier Giambattista Valli è la capsule collection “party dress” composta da ventotto abiti da cocktail realizzata per i grandi magazzini americani Macys. Prima di lui il compito era stato affidato a Karl Lagerfeld, come dire l’Imperatore. Tanto per intendere la portata mediatica della cosa, su Twitter, la notizia dell’arrivo di una collezione di Giambattista Valli da 50 a 100 dollari ha scatenato un putiferio. Italiano di nascita e crescita, ormai è Parigi la sua casa, il suo mondo. Chi l’avrebbe detto quando si trasferì in Francia nel 1997? E’ solo la storia di un ragazzo di Roma dall’indubbio talento e dalla molta audacia, che arriva là dove altri non sono mai riusciti a fare nemmeno un orlo. Valli è uno che ce l’ha fatta come solo decenni fa accadeva, modello Yves Saint Laurent o Giorgio Armani. Prima l’esperienza a fianco di una personalità come Emanuel Ungaro, poi il coraggio, nel 2005 in piena crisi, di uscire con il proprio nome e cognome, a seguire l’ardire di disegnare una collezione di piumini quando la sua vita era teffettà, ed infine l’ultimo azzardo di sfilare con l’alta moda quando molte maison hanno deciso di chiudere. Questo perchè l’alta moda nel Duemila non è morta, c’è tutta una generazione di vite da vestire, dai venticinque
ai quarant’anni, che hanno desiderio e possibilità. E non stiamo parlando di occasioni come matrimoni principeschi, ma semmai serate, cocktail o semplicemente appuntamenti importanti. Quello che conta nel mondo dell’haute couture è l’unicità, l’individualità di un pezzo che appartiene ad una sola persona rendendola speciale ed affascinante. Per tale motivo Giambattista Valli è anche un couturier democratico “Zara
ed H&M sono un bellissimo modo di rendere la moda accessibile. La verità è che se ti copiano è perché sei. Non mi hanno mai fatto paura i falsi. L’idea che esista una silhouette Valli fa solo piacere. Se poi quella silhouette si avvicina ed è una copia, non importa. Le mie clienti non comprerebbero mai un abito finto Valli” (24) “Arriva la crisi, voglio un
‘niente’ ma d’Alta moda” sembra chiedere una piccola cerchia ristretta di signore e signorine che hanno a che fare con un giovanotto che di strada, dal basso, ne ha fatta talmente tanta che si capisce che non voglia mollare l’Haute ed il gruppetto delle protagoniste. Dimostrando, oltre alle sue capacità stilistiche, anche intuito manageriale, sapendo che la strada influenza il salotto, ma ne è a sua volta attratta e conquistata. Saper tenere dunque i piedi in due staffe è un coraggioso gesto d’equilibrismo che ha tutto il diritto di essere premiato.
(24) Giambattista ValliPollo Paola, CON LE TORRI E’ CROLLATO IL SUPERFLUO, Corriere Moda, Settembre 2011 pag 13. Uno scatto rubato nel backstage della prima sfilata Giambattista Valli Haute Couture. Pagina accanto: campagna pubblicitaria della collezione primavera-estate 2011.
E’ un po’ come la storia di una coppia a cui gli ultimi sei anni sono apparsi come una lunga altalena. Eppure a Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi sembra essere andato tutto bene, da Malo a Gianfranco Ferré. Entrambi tecnicamente irreprensibili e complementari, uno conosce i tessuti, l’altro disegna. Sin troppo bravi per i tempi che corrono: qualcuno dice che siano barocchi, ma a loro in realtà piacciono le belle cose come i ricami preziosi ed i tessuti importanti. Nel 2005 la vittoria di Who is Next?, la sfilata come 6267 e subito dopo la direzione artistica di Malo con sfilate a New York e plausi internazionali, fino a che la griffe del cashmere finì nel turbino del fallimento Itierre. Poi l’avventura alla Gianfranco Ferrè che li ha visti confrontarsi con un archivio importante e forse troppo diverso dal loro gusto. Quando si è troppo se stessi non si può sperare di riuscire per un altro. Così oggi il marchio Aquilano e Rimondi è diffuso in America nei più grandi department stores. E la progettazione continua, avendo ricevuto carta bianca da Diego Della Valle per disegnare la collezione Fay. E loro dicono “francamente nella moda non ci sono persone così lungimiranti. Tutti vogliono arrivare e arrancare qualsiasi cosa, ma pochi sanno cosa , finendo così per acquistare per status.
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L’alta moda sembra quindi essere rimasto l’unico settore del fashion system dove sia ancora possibile sperimentare e creare nel vero senso della parola. Accettandone i rischi ovvio. Essa rappresenta però uno status che viene ormai troppo spesso confuso e mischiato al concetto più generale di lusso. Marchi come Gucci, Prada, Versace, pur restando nel range dei brand di pret à porter, vengono ormai considerati come produttori di alta moda per prezzi, tiratura dei prodotti e ricercatezza dei materiali. Il fatto è che molto spesso la confezione e la rifinitura dei capi niente ha a che vedere con i canoni tipici della couture. Questo spostamento dei brand di pret à porter in fasce alte, ha fatto sì che il pubblico mettesse in atto, nel corso dei Duemila, un acquisto occasionale e razionale di tale prodotti. Rivolgendosi a capi timeless e dal giusto rapporto qualità prezzo e dedicandosi invece per gli acquisti di tendenza ai grandi mall della fast fashion. Quando si dice quindi che l’alta moda rappresenta “l’unico futuro della moda”, bisogna prendere alla larga il concetto, capendo che nel prossimo futuro non sarà più possibile per il consumatore comune accaparrarsi un pezzo griffato in quanto verrà a mancare la fascia media di consumo. Importante è che i marchi che decidono strategicamente di andarsi a posizionare nelle fasce alte siano in grado di produrre secondo i canoni di tali range, altrimenti non farebbero altro che andare a sminuire il concetto storico di haute couture, determinandone la morte, anziché lo sviluppo.
Dall’alto in senso orario: un look della collezione Giambattista Valli Haute Couture, 2011; un look della capsule di Aquilano&Rimondi per PIAZZA SEMPIONE, 2011; GIAMBATTISTA VALLI ph.Larry Dunstan, styling Rebecca Oura, Settembre 2002; Christophe Decarnin per BALMAIN, ph.David Benjamin Sherry, styling David Vandewal, modella Catherine McNeil, Gennaio 2009.
111 Quello che conta nel mondo dell’haute couture è l’unicità, l’individualità di un pezzo che appartiene ad una sola persona rendendola speciale ed affascinante ChEApFREAK Illustrazioni di Luca Belotti, Dicembre 2011
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120 Arriva la crisi, voglio un ‘niente’ ma d’Alta moda ...c’è tutta una generazione di vite da vestire che hanno desiderio e possibilità. E non stiamo parlando di occasioni come matrimoni principeschi, ma semmai serate, cocktail o semplicemente appuntamenti importanti.
DESPERATE COUTURE Ideazione e styling Luca Belotti, Fotografia Roberta Ungaro, Modella Sara Gorini, Hair & Make-up Anna Bergamasco, Dicembre 2011.
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Conclusione Nella situazione attuale, in cui s’incrociano innovazioni produttive e culturali introdotte dalla tecnologia, anche la moda è investita dalla miniaturizzazione e smaterializzazione, peculiari della trasformazione postindustriale. Le nuove tecnologie trasformano con la società il sistema moda in un investimento finanziario che segue le logiche del mercato. Il che significa che è la logica del mercato più che la creatività ad entrare in primo piano e che, di conseguenza, il manager di impresa si sostituisce allo stilista. Givenchy e Christian Lacroix appartengono a Bernard Arnault, fondatore dell’impero LVMH (Louis Vuitton Moet Hennessy) che possiede anche marchi di pret à porter come Louis Vuitton, Pucci, Fendi, Céline e Kenzo. Il gruppo Hermès ha in portafoglio il 35% di Jean Paul Gaultier, mentre Ferragamo è azionista di maggioranza di Ungaro. Sono esempi che fanno capire come la riunione di più case di moda in multinazionali chiamate “holding del lusso” trasforma la moda in creazione e vendita di immagini, consumo di mode, di lusso, di stili da indossare e da vivere, siano essi nostalgici o spettacolari. Diventa visualizzazione di esperienze estetizzanti, pluralità e meticciamenti di stili. Inoltre, l’attuale trasformazione della
moda in comunicazione ne fa un territorio in cui prendono corpo mediascapes, paesaggi e flussi di immagini delle nostre società delle comunicazioni, delle reti, degli oggetti, in cui il soggetto contemporaneo si frammenta e forse anche si dissolve moltiplicando e ibridando le identità in un gioco delle maschere. Il rapporto tra creativi e manager è uno dei temi cruciali per capire le specificità delle aziende della moda nei primi dieci anni del Duemila e delineare le modalità gestionali ed organizzative più efficaci ed efficienti per il successo delle imprese nel prossimo futuro. La creatività dei ruoli professionali specifici del contesto moda – quali direttori creativi, designer, stilisti, uomini e donne prodotto, direttori artistici, stylist, buyer, visual merchandiser, architetti – esprime l’anima emozionale delle aziende della moda, senza la quale la logica di funzionamento di questo settore non si differenzierebbe da quella degli altri beni di consumo di massa. Al contrario, queste figure, che in termini di ampiezza ed importanza di ruolo non trovano uguale riscontro in altri settori, sanno imprimere all’intera filiera della moda una capacità di innovazione continua e suscitano continuamente una forte attrazione al prodotto e al brand
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Il ruolo del manager nelle aziende di moda è diventato quello di saper creare in modo efficiente ambienti che supportino e alimentino il processo creativo.
da parte di fasce di consumatori sempre più ampie. Ciò è stato talmente evidente che, almeno per quanto riguarda la stampa e l’opinione pubblica, il nome dei creativi è quasi sempre più spendibile di quello dei manager, pur se proprietari. Nell’ultimo decennio, parallelamente alla crescita dimensionale del mercato e delle aziende della moda e al maggior interesse al settore da parte dei mercati finanziari, si è quindi sviluppata una maggiore consapevolezza dell’importanza, accanto a quella creativa, della dimensione manageriale, espressione dell’anima razionale delle imprese. Il ruolo del manager nelle aziende di moda è diventato quello di saper creare in modo efficiente ambienti che supportino e alimentino il processo creativo. Essi operano come integratori che collegano valori a obiettivi, cultura a strategia, risultati a ricompense. Le imprese della moda continueranno quindi a dipendere dai creativi, ma anche e soprattutto dalla capacità di gestire il processo di innovazione nel quale essi sono inseriti. Infatti, una cosa è intendere la creatività esclusivamente come sinonimo di estro individuale, di inventiva fine a se stessa, senza vincoli; altro è vederla come strumento di innovazione all’interno di una strategia
di mercato e di prodotto chiara, consapevole e durevole nel tempo. Nel primo caso esistono elementi di forte fascino, e talvolta, per questa strada è possibile ottenere risultati esaltanti grazie al forte contenuto innovativo. L’altra faccia della medaglia, però, comporta il rischio di non centrare l’innovazione, disorientando il mercato ed i collaboratori interni ed esterni. Questo modo di intendere la creatività è difficilmente gestibile viste le condizioni attuali del mercato, in quanto esclude a livello manageriale ogni vincolo e finalizzazione. Già a partire dagli anni Novanta, uno dei tipici refrain mediatici sulla moda è stata l’osservazione “non ci sono più giovani stilisti emergenti” , fattore a cui ancora oggi alcuni imputano i momenti di crisi del settore. Affermazione piuttosto singolare e antistorica, come se si potesse far finta che il mercato fosse ancora quello degli anni Ottanta, la competizione simile e che invece di avere, come oggi abbiamo, un importante sistema di imprese con marchi affermati globalmente , ci fosse, come allora, un territorio vergine e pronto a intraprendere quel percorso di evoluzione verso la modernità avvenuto anche grazie al settore della moda. Utilizzare categorie ormai obsolete per
interpretare il presente e anzi proiettarci verso il futuro è quanto di più nocivo si possa fare per riuscire a identificare davvero le possibili strade evolutive del sistema moda italiano e sostenere lo sviluppo in un mondo profondamente trasformato. Significa anche non essere pronti ad intercettare quei segnali del cambiamento che possono aprire prospettive nuove per il futuro e che qualcuno, certo con identità ben diverse dagli eroi epici degli anni Ottanta, ha già iniziato a trasformare in opportunità. Se si osserva oggi la moda senza andare alla ricerca di stilisti superstar si può scoprire una realtà ben più articolata che in passato, in cui nuovi attori, nuovi professioni del progetto, nuovi prodotti e nuove imprese popolano un sistema assai più ricco. Non solo la figura del grande stilista viene meno rispetto al passato, ma è la realtà stessa, originariamente granitica, del pret à porter che si è smembrata e polverizzata per lasciare spazio a molteplici tipologie di prodotti con connotazioni molto diverse sia per mercati di riferimento che per modalità con le quali vengono progettati e prodotti. Certamente c’è una dimensione evolutiva dei grandi marchi pionieri che di per sé ha profondamente trasformato il modo di interpretare la professione del progetto e di organizzare i processi di design e sviluppo del prodotto. La maggior parte di queste aziende ha intrapreso una strada di crescita, anche in termini quantitativi, proprio cogliendo le opportunità offerte dalla forza acquisita dai propri marchi sull’onda del successo degli anni Ottanta e Novanta. La crescita dimensionale ha fatto definitivamente allontanare le figure icona di questi marchi dall’immagine del disegnatore di moda, che ancora permane nell’immaginario collettivo, per far loro acquisire quel ruolo di regia creativa capace di creare le condizioni operative e organizzative per l’evoluzione delle imprese. Questo processo ha progressivamente creato gli spazi per lo sviluppo delle professioni progettuali, la crescita e l’articolazione degli uffici stile e di tutte quelle funzioni di connessione tra creatività, prodotto e commercializzazione che caratterizzano oggi le imprese moda di questo tipo.
I creativi della moda oggi hanno bisogno di manager in grado di capire la loro cultura ed il loro linguaggio. Figure flessibili in grado di capire che nella moda non basta proporre al mercato quello che il mercato vuole oggi, sarebbe già un prodotto vecchio, occorre invece capire che cosa vorrà nelle prossime stagioni, ma senza spingersi troppo avanti. Questo aspetto così sottile ha bisogno, oggi più che mai, di un’interazione tra l’anima creativa/emozionale e l’anima manageriale/razionale, in una zona grigia dove è difficile dire dove finisca una e dove inizi l’altra, ma che può rappresentare al contrario il terreno di confronto più stimolante e ricco, in cui creativi e manager possono trovare, senza rinunciare ciascuno alla propria responsabilità e cultura, un’opportunità di confronto e di scambio in grado di far compiere alle proprie attività il salto di qualità. A fine decennio possiamo renderci conto che i creatori di moda della nuova generazione non sono affatto dei virtuosi della sartoria, eventualmente attorniati da un apparato produttivo anche imponente. Essi sono designer e questo significa non solo dei disegnatori, ma prima di tutto degli
imprenditori e dei manager d’azienda. Il loro compito prioritario non è riuscire nell’impresa impossibile di ideare forme nuove, che poi altri provvederanno a rendere vestibili per la massa. Il loro compito è far sì che le forme vestibili acquisiscano una linea di novità e ricercatezza. Essi intervengono oggi nel processo produttivo già esistente per nobilitarlo, non c’è più bisogno di inventare del nuovo. E’ una lotta tra vecchio e nuovo mondo, tra un sistema in fase di decadenza e un sistema in ascesa interamente nuovo, in cui l’introduzione di fattori come la sostenibilità, la ricercatezza di materiali di qualità, la riscoperta dell’artigianalità e la completezza delle competenze comporterà in realtà un’autentica rivoluzione nel modo stesso di fare moda. Questo è fondamentale vista soprattutto la complessità, spontaneamente emersa, di confrontarsi oggi su un terreno di competizione completamente mutato rispetto al passato. Condizioni quali l’affermarsi di nuovi mercati internazionali come la Cina, l’India, il Sud America e l’Europa dell’Est, hanno indotto profondi mutamenti nella struttura del settore, a livello sia stilistico che manageriale.
A questo si aggiunge la crescente complessità dei mercati in generale, saturi di offerte e difficilmente interpretabili, nonché il profondo mutamento degli strumenti progettuali e delle tecnologie produttive a seguito dell’incalzante innovazione tecnologica che ha caratterizzato la prima decade del Duemila. A fronte di ciò si fa pressante la necessità di rinnovamento sia dei processi progettuali, in modo da renderli integrabili con la pluralità di attori coinvolti nel processo produttivo, di distribuzione e di consumo dei beni, che degli strumenti del progetto. Insieme alla crisi finanziaria e dei sistemi produttivi globali e alla conseguente riorganizzazione delle filiere - in atto – va infatti considerata la crescente complessità delle merci contemporanee, sempre più lontane dal poter essere concepite in modo oggettivo, sempre più individuali. Il design autoriale dei maestri, patrimonio di una elitè culturale, seppure ha il merito di aver gettato le basi e alimentato la cultura, italiana perlopiù, del progetto, cede il passo ad una cultura diffusa del design, che ne è in qualche modo la naturale conseguenza. In essa una molteplicità di attori partecipa a processi progettuali e decisionali complessi, nei quali il singolo prodotto prende forma insieme ai servizi ad esso legati, alle modalità di comunicazione e distribuzione, alla riformulazione delle filiere produttive necessarie alla sua realizzazione, alle modalità di fruizione durante tutto il ciclo di vita e infine, auspicalmente, alle modalità di smaltimento o riciclaggio.
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In questa pagina due look della collezione primavera - estate 2011 di A-lab Milano. Pagina accanto: un look della collezione RETIRED ROCKERS di Umit Benan per l’autunno-inverno 2010-2011.
Ultima realtà che merita di essere citata in fase conclusiva e che presenta singolari analogie con le più autentiche radici del sistema italiano, ma anche forti discontinuità, è quella delle micro imprese emergenti. Si tratta di iniziative di auto imprenditorialità messe in atto spesso da piccoli gruppi di giovani designer/manager che, recuperando le potenzialità dell’ibridazione tra la cultura progettuale e quella del management, tipica degli avvii della storia del Made in Italy, tendono a trasformare intuizioni di mercato e nuove proposte di prodotto in imprese. Lo fanno con forme adeguate al contesto contemporaneo, indirizzandosi a mercati di nicchia, aggregando filiere produttive flessibili e facilmente controllabili dal punto di vista logistico, veicolando i prodotti attraverso canali nuovi come il web e/o la pianificazione strategica della distribuzione su punti vendita civetta, selezionati attraverso la mappature delle reti globali di circolazione delle merci e della conoscenza.
Il secolo della moda e degli stilisti sembra quindi apparire giunto al suo tramonto, mentre le mode canalizzate e moltiplicate della comunicazione invadono ogni aspetto del quotidiano e i più diversi settori della realtà. Per questo la moda del Duemila si costruisce campionando le mode passate in un fraseggio sempre diverso e l’invenzione pura è un evento più unico che raro. Stiamo vivendo un remix degli anni Sessanta e Cinquanta con richiami multicolor e plastificati agli anni Ottanta. Nei revivals si evidenziano gli eccessi e l’esibizione del lusso nelle sue molteplici espressioni. E il corpo è di tutto ciò il potenziale decorativo, l’indice della seduzione. Per concludere, si può dire che ci sono altri aspetti, alle soglie degli anni Dieci, altrettanto importanti e indicatori di altri possibili sviluppi. L’evento nuovo è, come si è detto, la metamorfosi del consumatore, nel paesaggio dalle società di massa della prima modernità alle società postfordiste, il quale inventa nuove forme di consumo e di socialità fuoriuscendo da ogni schema e costruendo se stesso.
135 Minimal branding e unicità sono le due strategie con cui la moda reagisce alla presenza del nuovo consumatore.
Dall’alto in senso orario: l’interno di uno store MUJI; locandina per la mostra dei 20 anni della Maison Martin Margiela, Londra 2010; prodotti anonimi della catena giapponese MUJI; un capo della collezione autunno-inverno 2009-2010 Maison Martin Margiela. Pagina accanto: MAISON MARTIN MARGIELA ph.Richard Bush, styling Jane How, Marzo 2001.
Minimal branding e unicità sono le due strategie con cui la moda reagisce alla presenza del nuovo consumatore. Il minimal branding consiste nel rinunciare a tutto ciò che non è essenziale a definire identità precise. La differenza non è più fatta dal nome, ma dalla qualità del progetto. E’ il caso di Muji, la catena giapponese di negozi, che vuole essere un’idea, non un marchio, che propone linee caratterizzate dal minimalismo. Il nome vuol dire infatti “meno marca, buona qualità”. Margiela non è più il solo ad azzerare l’etichetta. La tendenza a togliere il nome investe anche i luoghi: da New York a Parigi si moltiplicano i negozi senza insegna. Altre strategie sono possibili, come quelle di Etro che con l’operazione “Buon umore” sostituisce i dati della classica etichetta, con un messaggio o una massima di ottimismo, indicando le percentuali della composizione di amore, fantasia, felicità che il capo comporta: è un messaggio che parla a colui che lo indossa, in un dialogo tra sé e sé, un’ironia, un gioco, per il piacere di giocare, che investe i tessuti, l’abito, l’accessorio.
L’incredibile performance conclusiva della sfilata primavera-estate di 1999 di Alexander McQueen. Due braccia meccaniche contaminano a ritmo di musica la neutralità dell’abito con spruzzi di colore.
137 La moda ha la necessità di trovare nuove strade di affermazione e nuovi livelli di riconoscimento sociale capaci di ridare senso all’eccessivo spreco della moda.
L’unicità sembra essere il terreno privilegiato del nuovo lusso. La moda si trasforma da tendenza di stagione a mito che dura, aprendosi ad altre categorie e ridefinendo il concetto di lusso, che ha sempre più a che fare con l’unicità. La moda ha la necessità di trovare nuove strade di affermazione e nuovi livelli di riconoscimento sociale capaci di ridare senso all’eccessivo spreco della moda. E lo fa riferendosi all’arte. I templi dell’arte moderna e contemporanea aprono le loro porte alla moda e viceversa, gli showrooms delle griffes più prestigiose dedicano sempre più nuovi spazi alla cultura, ospitando artisti emergenti e opere d’arte. Nel nuovo millennio moda e cultura si intrecciano e i protagonisti del nuovo fashion system si propongono come nuovi mecenati dell’arte e della cultura, per collocare la loro stessa produzione nel più ampio sistema della cultura e dell’arte. Certo, ciò non toglie che l’insaziabile sete di cultura del branding non significhi altro che insaziabile sete di marketing. Alle soglie della seconda decade del Terzo Millennio succede così che, se da un lato, in quello della produzione e vendita di capi che entrano effettivamente nel mercato, si conferma la praticità, decretando il trionfo del pret à porter, dall’altro, a livello di immagine e di potere, il vero messaggio della moda è affidato all’idea di lusso, di fascino e di irraggiungibilità.
Difficile vedere in tutto ciò quale spazio si aprirà all’innovazione: i nuovi talenti sono tenuti intanto al margine del potere delle holding e dai costi di spettacolarità di una moda-immagine che, con la complicità dei media, si autocelebra, mentre si aprono i grandi mercati dell’Est anche alla produzione della moda e del design, in un mondo decisamente cambiato nell’arco di soli dieci anni.
Von Bardonitz
Bibliografia Libri
100 CONTEMPORARY FASHION DESIGNERS, a cura di Terry Jones, 2009, TASCHEN
ABITARE IL CORPO Il corpo di stoffa e la moda, Eleonora Fiorani, 2010, LUPETTI
ASIAN GRAPHIC NOW, a cura di Julius Wiedemann, 2010, TASCHEN
AWARE Art Fashion Identity, a cura di Kathleen Sariano, 2010, DAMIANI EDITORE
COOLHUNTING Genesi di una pratica professionale eretica, Marco Pedroni, 2010, EDIZIONI FRANCO ANGELI
FASHION SHOW: come organizzare una sfilata di moda, Estel Vilaseca, 2010, LOGOS
GLAMOUR A history, Stephen Gundle, 2008, OXFORD UNIVERSITY PR
GRAMMATICA DELLA COMUNICAZIONE, Eleonora Fiorani, 2006, LUPETTI
i-D COVERS 1980-2010, a cura di Terry Jones, Edward Eninful, Richard Buckley, 2010, TASCHEN
L’ULTIMA SFILATA Processo alla casta della moda italiana, Luca Testoni, 2010, SPERLING & KUPFER
METAMODA Percorsi di ricerca per il design del prodotto moda, a cura di Bertola P, Colombi C, 2010, MAGGIOLI EDIOTRE-POLITECNICA
OCCIDENTE ESTREMO Il nostro futuro tra l’ascesa dell’impero cinese e il declino della potenza americana, Federico Rampini, 2011, MONDADORI
RETRO FASHION, a cura di Anja Liorella, 2011, BOOQS
Articoli di giornale Antonelli Paola, DALL’ESTETICA ALL’ETICA, DAL GLOBALE AL LOCALE, ELLE DECOR N.4-ANNO 21, Aprile 2010, pp 59-62 Bauzano Gianluca, SPAZZATE VIA UPPER CLASS E ALTA MODA, ORA I COLORI SONO QUELLI DELL’ORIENTE, Corriere Moda, Settembre 2011, pag 7 Colombati Leonardo, I NOVANTA, Corriere della Sera, 21 settembre 2011 Dell’Orto Pamela, FASHION BLOG, Style Il Giornale, Ottobre 2011, pp 66-68 Dell’Orto Pamela, L’UNICA CERTEZZA E’ LA QUALITA’, Style il Giornale, Settembre 2011, pp 91-92 Ferré Giusi, INTERNAZIONALISMO CONTRO LO CHOC (MA E’ A RISCHIO LA CREATIVITA’), Corriere Moda, Settembre 2011, pag 3 Ferrè Giusi, LUSSO E LOW COST NELL’ERA FAST FASHION, Corriere della Sera, 21 Settembre 2011 Frisa Maria Luisa, FASHION DOLLS & FASHION SYSTEM, ELLE DECOR N.4-ANNO 21, Aprile 2010, pp 69-70 Gioni Massimiliano, NUOVE GEOGRAFIE E HAPPENING ECO, ELLE DECOR N.3-ANNO 22, Marzo 201, pp 5556 Irace Fulvio, ARCHISTAR E PROFETI DEL XXI SECOLO, ELLE DECOR N.4-ANNO 21, Aprile 2010, pp 65-66 Monti Daniela, COSI’ LA CRISI CI HA RESI PIU’ SPORTIVI E COLORATI, Corriere della Sera, 21 settembre 2011 Morabito Rosario, LA MODA DEMOCRATICA DEI BLOG PRIVATI, D La Repubblica delle donne, Febbraio 2011, pp 202-203 Paracchini Gianluigi, IO PROFUGO IN CANADA CON IL CIRCO DELLA MODA, Corriere della Sera, 11 Settembre 2011, pag 4 Pollo Paola, CON LE TORRI E’ CROLLATO IL SUPERFLUO, Corriere Moda, Settembre 2011 pag 13 Pollo Paola, HELP LE PELLICCE UCCIDONO LA VITA, Corriere Moda, Settembre 2011 pag 21 Pollo Paola, LA CRISI NON ESISTE, E’ LA FINE DI UN CICLO, Corriere Moda, Settembre 2011 pag 12 Proietti Michela, DA NAOMI A VOLTI IGNOTI, D la Repubblica delle donne, Febbraio 2011 Rossella Carlo (a cura di), PER NON DIMENTICARE, supplemento a Panorama N.40, 4 Ottobre 2001 Scorranese Roberta, NEW FASHION, Corriere Moda, Settembre 2011, pag 39 Visetti Giampaolo, LE NUOVE IMPERATRICI, VELVET N.60, Novembre 2011, pp 198-203
Siti web http://www.a-labmilano.com/ http://www.alexandermcqueen.com/ http://www.annadellorusso.com/ http://eu.abercrombie.com http://www.bryanboy.com/ http://www.garancedore.fr/en http://www.giambattistavalli.com/ http://www.hedislimane.com/ http://www.hm.com/it/ http://www.lachapellestudio.com/ http://www.loreal.it/_it/ http://lucabelotti.blogspot.com/ http://www.maisonmartinmargiela.com/ http://www.muji.com/ http://www.numero-magazine.com/ http://www.piazzasempione.com/it http://www.playboy.de/ http://www.rihannanow.com/ http://www.stellamccartney.com/ http://www.theblondesalad.com/ http://www.thesartorialist.com/ http://www.umitbenan.com/ http://www.vanityfair.it http://www.valentino.com/it/home/ http://www.vmagazine.com/ http://www.vonbardonitz.net/ http://www.zara.com/
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Ringrazio Orietta per il supporto ricevuto nella realizzazione di questo progetto. Ringrazio la mia famiglia per avermi dato fiducia. Ringrazio Mia, Damiano, Antonietta ed Erika per i momenti condivisi. Ringrazio Roberta per le suggestioni regalate. Ringrazio Gigi ed Eleonora per avermi sempre ascoltato e stimolato. Ringrazio tutti, ma soprattutto ringrazio me stesso per aver reso tutto questo possibile. Luca
Luca Belotti
2001/2011 MODA
A.A.2010/11