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VER SACRUM XI

Il Giubileo Esoterico VER SACRUM riprende la sua attivitˆ su Internet! Articoli esclusivi, recensioni inedite di CD, libri e concerti, i reportage dai maggiori festival Goth, le notizie e il calendario dei concerti e degli eventi. Tante novitˆ in programma!!! www.versacrum.com per informazioni: redazione@versacrum.com

Il neopaganESIMO Germanico - Voodoo Il Cinema degli ZomBI Il Satanismo - Huysmans The Church of Satan Roma Antigiubilare Il Romanzo Alchemico e la Rosacroce L’estetica della RosaCroce

...Musica... Rosa+Crux - Sol Invictus - Argine - Gor - Mortiis Apoptygma Berzerk - Voltaire - recensioni

...Letteratura & Arte... Matteo Curtoni: intervista e racconto - Floria Sigismondi recensioni

...Cinema & Altro... Fantafestival 2000 - Jaume Balaguero’ - I Templari New Orleans - Satira


Arretrati

VER SACRUM Rivista & Produzioni N°1 - Marzo ‘93, SPECIALE “Vampirismo”: 32 pagine, formato A5, fotocopiato, Lire 4.000 + 1.000 per spese postali N° 2 - Giugno ‘93, SPECIALE “L’immagine femminile nella letteratura ed arte Decadente”: 36 pagine, formato A5, fotocopiato, Lire 4.000 + 1.000 per spese postali N° 3 - Ottobre ‘93, SPECIALE “L’immaginario della Peste Nera”: 52 pagine, formato A5, fotocopiato, Lire 4.000 + 1.000 per spese postali N° 4 - Febbraio ‘94, SPECIALE “Il Gotico (parte 1)”: 56 pagine, formato A5, fotocopiato, Lire 5.000 + 1.000 per spese postali N° 5 - Luglio ‘94, SPECIALE “Il Gotico (parte 2)”: 72 pagine; formato A5; fotocopiato; Lire 5.000 + 2.000 per spese postali N° 8 - Ottobre ‘96, SPECIALE “Il Teatro dell’Orrore”: 80 pagine; formato 17 x 24; stampato in tipografia; Lire 6.000 + 2.000 per spese postali N° 9 - Aprile ‘98, SPECIALE “Il Mostro”: 72 pagine; formato 17 x 24; stampato in tipografia; Lire 6.000 + 2.000 per spese postali N° 10 - Maggio ‘99, SPECIALE “Erotismo e Perversione”: 72 pagine; formato 17 x 24; stampato in tipografia; Lire 6.000 + 2.000 per spese postali Profonde Tenebre: frammenti di cinema italiano del terrore - piccolo saggio sul cinema italiano horror dagli anni ‘60 ad oggi: 28 pagine, formato A5 con sovracopertina colorata, Lire 4.000 + 1.000 per spese postali. I numeri 6 e 7 di Ver Sacrum, il libro Gothica, l’antologia Oscure Malie e la compilation Tenebrae sono esauriti.

Abbonamento Tre numeri della rivista a Lire 24.000 spese postali incluse. Inviare l’importo in busta chiusa a VER SACRUM, c/o Marzia Bonato, via S. Paolo 5, 56125 PISA. In totale le spese postali non devono superare £. 4.000 (7.000 per l’estero). ATTENZIONE: se effettuate il pagamento tramite vaglia ricordate di intestarlo a Marzia Bonato e NON a Ver Sacrum!!!

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Indice Speciale: Il Giubileo Esoterico Il neopaganesimo germanico alle soglie del terzo millennio Il voodoo: religione o culto demoniaco? Il cinema degli Zombi Il Satanismo nel seno della “nuova religiosità” Anton Lavey e la Church of Satan Huysmans: Làs-bas Il miracolo sommo: idee per una piccola guida antigiubilare di Roma Il romanzo alchemico rosacrociano La Confraternita della Rosacroce L’estetica della Rosa + Croce e il Simbolismo belga

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Interviste musicali Rosa + Crux Sol Invictus Argine GOR Mortiis Apoptygma berzerk Voltaire

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Rubriche Bibliotheca Lamiarum Recensioni cd Luoghi macabri: New Orleans Gianni Morandi è un vampiro?

Il Racconto: Sempre dove sei

Marzo 2001

Editoriale

, ovvero ... Le notizie sulla nostra morte sono state piuttosto esagerate Dopo quasi due anni di distanza dall’ultimo numero della rivista, e dopo un brusco rallentamento delle attività su web VER SACRUM è tornata, più bellicosa che mai. Molte novità bussano alla porta: innanzitutto noterete che abbiamo drasticamente diminuito il numero di pagine delle recensioni musicali. Scelta necessaria dati i tempi elefantiaci con cui siamo usciti e scelta consapevole dal momento che d’ora in poi le recensioni saranno sempre di meno ma sempre più dettagliate. In generale tutta la sezione musicale subirà nel corso dei prossimi numeri una serie di cambiamenti, per puntare più sulla riflessione e l’approfondimento che sulla novità o l’intervista ai gruppi fine a se stessa. Molta parte dunque dell’aggiornamento sulle novità discografiche sarà disponibile nel sito Internet, che si specializzerà nel cercare di informarvi in tempo reale su tutto ciò che accade nel mondo musicale oscuro. Restate in contatto!! Redazione: Marzia Bonato, via S. Paolo 5, 56125, Pisa. Email: redazione@versacrum.com Internet: www.versacrum.com Redazione Marzia Bonato (Mircalla), Luca De Santis (Christian Dex)

Letteratura, cinema, arte... Intervista a Floria Sigismondi Fantafestival 2000. Vent’anni dopo The Nameless - intervista al regista Intervista a Matteo Curtoni I Templari

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Copertina: Félicien Rops: Tentazione di Sant’Antonio, 1878

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Angela Benemei (AB), Massimo Brando (Manfred), Giorgio Brivio (Candyman), Irene Di Bartolomeo (Persephone), Raffaello Galli (RiffRaffaello), Pierfilippo Idda (The Red Curtain), Adriano Moschioni (Hadrianus), Gianluca Parenzan (Ankh), Stefano Tocci (S*Tox) Ha collaborato a questo numero: Giulio Pasquali (Iena Ridens) Grazie a: Jaume Balaguerò, Matteo Curtoni, Floria Sigismondi, Stampa Alternativa, Matteo Bernardini, Mauro di Audioglobe, Fuzz Fuzz di :Ritual:. La redazione saluta l’arrivo di una “futura” collaboratrice di V.S., Eva Moschioni: tanti auguri a mamma Susy e papà Hadrianus!!! Questo numero esce come supplemento della casa editrice “Stampa Alternativa”, reg. Tribunale di Roma n° 276/83. Direttore responsabile: Marcello Baraghini. Gli articoli presenti sono copyright dei rispettivi autori e le immagini che li corredano delle rispettive agenzie o case editrici detenenti i diritti. VER SACRUM XI


Il neopaganesimo germanico alle soglie del terzo millennio considerazione che essa, nella sua ispirazione naturalistica, rappresenti una valida alternativa ai culti trascendenti e gerarchicamente organizzati, ora nella visione prettamente etno-politica di contrapposizione della genuina identità culturale del popolo germanico all’invadente espansione del mondo romano ed in genere mediterraneo nelle terre a Nord del Reno. Il fenomeno del Neopaganesimo nordico in realtà non è una “moda” di questi ultimi anni ma trova una sua prima manifestazione eclatante nei primi decenni del XX secolo quando in Germania, in epoca antecedente all’esplosione della prima guerra mondiale, venne fondata a Berlino la Thule-Gesellschaft, un circolo culturale esoterico dedito allo studio della storia antica germanica ed ispirato alla leggenda della “Ultima Thule”, la mitica culla della razza nordica. La Thule-Gesellschaft col passare del tempo acquistò sempre più connotazioni politiche, o meglio cominciò a proiettare nel sociale le convinzioni razziste e nazionaliste che approfondivano le loro radici nei miti nordici; divenuta ufficialmente (e fanaticamente) antisemita ed antibolscevica, nel 1919 venne assorbita dalla Nsdap (il Partito Nazionalsocialista dei lavoratori), divenendo il nucleo centrale ideologico di quella mistica che caratterizzò i deliranti proclami del partito di Hitler. Fu proprio secondo l’ottica nazista che il paganesimo germanico divenne il simbolo e, al contempo, il custode della purezza ed unità spirituale del popolo tedesco: “Wir sind die Alten gebliben” (Siamo rimasti quelli di allora). Questo grido, col quale Hitler fu accolto al congresso del Partito Nazista del 1934, intendeva esprimere tutta la continuità ideale tra i germani descritti da Tacito e la rinata nazione tedesca del Reich, in una netta contrapposizione tra la purezza di quella razza nordica ed il caos etnico provocato dall’amalgama razziale rappresentata dal mondo romano. Le rune poi, l’antica scrittura nord europea, considerate una creazione “puramente” germanica, furono conseguentemente adoperate nell’espressione del simbolismo di regime (si pensi ai segni grafici, appunto rune, sulle mostrine delle famigerate SS). Sebbene nell’epoca dei nazionalismi e delle controrivoluzioni il ricorso ad una mistica di regime fu quanto mai frequente, con conseguente riproposizione di antichi miti e tradizioni eroiche, l’atteggiamento neopagano del nazismo fu aspramente criticato dal più illustre dei sostenitori del valore metafisico della Tradizione in Italia: Julius Evola. Va premesso infatti che in quegli anni (siamo nel 1934 – 35) numerosi pensatori proclamavano convinti il declino del mondo occidentale e dei

ol termine “paganesimo” di norma si fa riferimento al complesso delle C credenze religiose politeistiche dell’antichità grecoromana. L’appellativo di “pagano” (abitante dei pagi, cioè dei distretti rurali), coniato dai Padri della Chiesa per identificare il mondo culturale con il quale veniva a confrontarsi, sotto il profilo filosofico e religioso, il sorgente cristianesimo, passò a partire dal IV secolo d.C. a indicare i seguaci dell’antica religione politeistica in quanto gli abitanti delle campagne furono quelli che più lentamente si convertirono alla nuova religione cristiana e poi passò ad indicare i politeisti in genere. Il politeismo è una forma di religione fondata sulla credenza in una pluralità di divinità personificate, antropomorfe ed organizzate gerarchicamente in un pantheon, e pertanto è un termine che storicamente va riservato alle religioni mesopotamica ed egizia, a quelle dei popoli indoeuropei (India, Grecia, Roma, Germania, Slavi), alle religioni precolombiane e a qualche altro caso isolato. Sebbene il politeismo pagano possa apparire un relitto del lontano passato, espressione di una religiosità ancora immatura e superstiziosa (basti pensare che Senofane, filosofo greco, contestò l’antropormorfismo del mito greco ben oltre due millenni fa !), invero, come specifico aspetto della moderna spiritualità alternativa, esso si propone vitale ed attuale. Il paganesimo di stampo greco-romano in realtà non sembra costituire un fenomeno particolarmente diffuso: vi sono in Italia sette dedite, seppure in forma “riadeguata”, a questo culto (centro di Religiosità Politeista “Teurgo” di Vicenza, il “Consiglio Federativo del Santuario di Juppiter Veneticus del Monte Supremo”, che praticamente professano la convinzione che il politeismo crei tra l’uomo e l’universo una relazione diretta, senza bisogno che una chiesa funga da mediatrice con gli Dei, i quali in realtà presiedono ad ogni fenomeno) ma trattasi di gruppi di modesta partecipazione, legati sovente al circuito politico dell’estremismo di destra. Differentemente il paganesimo germanico, ossia il politeismo coltivato dalle popolazioni del Nord Europa prima dell’introduzione, in quelle terre, del Cristianesimo, appare conoscere una notevole diffusione ed in effetti desta intorno a sé un crescente interesse culturale, tanto da permeare in modo paradigmatico il cosiddetto Neopaganesimo, che trova espressione anche nell’arte e nella musica in particolare. Le ragioni della irriducibile resistenza della religiosità nordica nei secoli sono molteplici, riconducibili ora alla VER SACRUM XI

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della contrapposizione ideologica sopra esposta vi sia un diverso, direi antitetico, concetto di Tradizione: se per Evola e coloro che si son posti sul suo tracciato (ad es. Guenon) essa è il richiamo diretto a valori metafisici e metastorici simbolicamente trasfigurati, destinati a porsi come fari illuminanti della civiltà, per il neopaganesimo germanico essa, traducendo la realtà in una sorta di naturalismo immanentista di cui i miti raffiguravano le stesse forze, rappresenta una civiltà misurata sul valore dell’eroismo e della razza in opposizione ad una visione trascendente della realtà stessa, e destinata direttamente a permeare di sé il mondo. I clamori e gli orrori della seconda guerra mondiale hanno poi travolto il dibattito, almeno in quelli che erano i risvolti concretamente socio-politici che, fino a quando i nazionalismi delle forze dell’Asse sono stati in piedi, si realizzavano nella rispettiva mistica di regime; a lungo i temi della Tradizione sono così rimasti relegati ai margini delle ideologie estremistiche di destra (si pensi come a lungo Evola ed i suoi seguaci hanno costituto lo “zoccolo duro” misticheggiante dell’estrema destra italiana, all’epoca rappresentata dal partito del MSI, sovente in contrasto con le soluzioni pragmatiche della politica del “doppiopetto” ambiguamente portata avanti dal leader storico missino Giorgio Almirante). Se pertanto il tradizionalismo evoliano ha circoscritto la propria esistenza nell’isolamento ideologico dell’estrema destra italiana, il Neopaganesimo germanico, svincolandosi dagli onusti legami della politica militante, ha invece conosciuto una notevole affermazione in seno al destarsi, nella seconda metà del XX secolo, di una moderna spiritualità alternativa. Quali sono i poli descrittivi della spiritualità neopagana germanica? La Tradizione germanica, per come sostenuta dai gruppi Asatru (dediti cioè al culto degli Asi nordici), appare di tipo spirituale e rispettosa della forza della vita in tutti i suoi aspetti mantenendo un equilibrio tra le polarità dell’esistente e l’unione fra gli opposti. Una parte fondamentale di essa consiste nel fatto di ispirarsi al principio magico dell’armonia scaturente dall’analogia dei contrari, per cui la dominazione delle cose non si persegue cercando di cancellarne il loro opposto. Essere in equilibrio con il mondo non significa né padroneggiarlo né esserne in balia, per cui non si troverà mai né un atteggiamento di dominio sulla natura, né un umile assoggettamento ad essa. L’antica Tradizione si fonda e si rinnova quindi nei

suoi valori, e ad un “mondo moderno” caratterizzato dai suoi miraggi in termini di “tecnocrazia”, “civiltà dei consumi”, “progresso” e via dicendo, contrapponevano un “mondo tradizionale”. Questo aveva una sensazione sovratemporale della temporalità, carico di una spiritualità trascendente che rinveniva i suoi valori nella mitologia pre-storica i cui Eroi e Dei erano simboli sacrali di una realtà metafisica oscurata dal razionalismo positivista del modernismo. Secondo tale prospettiva Evola censurò fortemente il neopaganesimo germanico, affermando: «Anzitutto, (…), e quasi cadendo in una trappola appositamente preparata, i neopagani finiscono col professare e difendere dottrine riducentesi più o meno al paganesimo fittizio, naturalistico, privo di luce, privo di trascendenza, vincolato dal sangue, pervaso da un misticismo sospetto, creato polemicamente proprio dalla dialettica dei loro avversari. (…). Infatti, null’altro che questo può ravvisarsi, quando il nuovo paganesimo si dà all’esaltazione dell’immanenza, della “vita” e della “natura” creando una nuova superstiziosa religione che è nel più stridente contrasto con ogni superiore ideale “olimpico” delle antiche civiltà d’Oriente e d’Occidente e andando ad accusare in ogni dualismo ascetico un prodotto di degenerescenza antiariana inoculalto dalla razza levantina; quando nega ogni verità superiore alla razza e alla mistica della razza e non esita a mettere ogni concezione sovrannaturale del conoscere e dell’agire, e così anche il “sovrannaturalismo” cristiano e l’intera dottrina cattolica dei sacramenti e del miracolo, a carico delle superstizioni dell’”oscuro Medioevo” e della tattica di dominio dei preti per esaltare invece le “conquiste” proprie al cosiddetto libero esame e alle scienze profane moderne; (…); quando, associando un fanatismo per la nazione di sapore alquanto giacobino col sospetto romanticismo dell’”eroismo tragico” e dell’”amore per il destino” esso da un lato ridesta a vita la mistica dell’orda primordiale, dall’altro fomenta una rivolta del potere temporale contro ogni autorità spirituale, fino al tentativo di ridurre la seconda ad una mera promanazione del primo. Tutto ciò è sul serio “paganesimo” nel senso negativo desiderato dall’antica apologetica militante, ma, in più, è confusione, regressione, perdita di ogni vero orientamento, soggiacenza a suggestioni irrazionali e, infine, dilettantismo, fanatismo e incultura.» Appare evidente pertanto come alla base 5

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delle “donne-sagge”, chiamate Volva o Seidkona, capaci di comunicare con l’aldilà e quindi di collegarsi con il non visibile. Il diffondersi del Cristianesimo condusse progressivamente alla “criminalizzazione” di quest’arte, considerando pratica di stregoneria tutte le celebrazioni rituali e religiose inerenti alle divinità dei nativi e streghe tutte quelle persone (in particolare modo donne) dei ceti più bassi, che usavano rimedi naturali (erbe, pietre, ecc..) principalmente per le malattie. Costoro erano guaritrici, levatrici, erboriste, sensitive che nella loro semplice vita mettevano in pratica la loro conoscenza della Natura. Si è stimato che nel periodo dell’Inquisizione furono messe a morte dalla Chiesa dai cinque ai nove milioni di persone, per lo più donne, che mettevano in discussione, con la loro stessa esistenza ed il modo di vivere solitario e indipendente, il predominio di una cultura patriarcale come quella cristiana che giustificava qualunque perversione compiuta nei confronti delle accusate. Ecco perché oltre alla caratteristica riluttanza verso ogni religione dogmatica e gerarchizzata, il Neopaganesimo nordico nutre una vera e propria avversione verso il Cristianesimo, la cui diffusione forzata nelle terre a Nord del Reno avrebbe spinto la popolazione indigena a perdere la propria identità spirituale, o comunque a vederla soffocata e ristretta ai margini. Sempre al patrimonio esoterico dell’antica spiritualità nordica appartengono le Rune, la primitiva scrittura delle civiltà Nord europee. Le Rune infatti, (la parola Runa significa “sussurro”, “segreto”) al di là del valore semantico del segno grafico, sono per la Tradizione pagana germanica un efficace strumento magico di protezione e assistenza e ognuna è in risonanza con l’aspetto dell’Ond (energia universale) da essa rappresentato. Ogni Runa ha in sé un mistero iniziatico, una profondità non facilmente comprensibile, oggi purtroppo banalizzata dalla diffusa tendenza a farne un uso divinatorio “profano”. Tali principi oggi non solo trovano ampia confessione in molte comunità, riunitesi proprio al fine di recuperare e professare questo patrimonio spirituale, ma costituiscono motivo di ispirazione diretta di molti artisti che trovano poi, proprio nell’ambito del Gotico, per il suo carattere emblematico di sovversione ideale, la loro dimensione diletta.

perenni cicli stagionali, consacrando i riti e le ricorrenze che scandiscono i ritmi della Madre Terra e dell’universo stesso: fondamentale è la collocazione umana all’interno dell’universo e l’armonia che l’uomo può avere con il cosmo. Il Neopaganesimo di ispirazione nordica quindi rifugge ogni dogmatismo e si rivolge alla natura ed all’Uomo quale elemento di essa. Fondamentale è inoltre la concezione del Potere che ogni uomo ha semplicemente in forza della nascita ed al cui esercizio è chiamato ad adoperarsi. Elementi fondamentali di tale pratica sono un utilizzo appropriato della mente e delle energie sessuali. Anni di pregiudizi, di condizionamenti e di repressioni hanno limitato enormemente l’espressione di queste energie che sono di fatto forze liberatorie e creative, fonti di vita ed espressioni di amore. Il sesso nell’antichità non era visto come un qualcosa di “sporco”, qualcosa di peccaminoso, ma come un elemento del Sacro che apparteneva alla vita nelle sue manifestazioni terrene ed al quale era data la giusta importanza e rilevanza. Bloccati quindi questi due aspetti fondamentali, la libertà di ogni essere ha cominciato a venire meno e di conseguenza anche il Potere Personale degli individui. Espressione del Potere, rivestendo conseguentemente un particolare ruolo sociale, è lo sciamano. Spesso si è abituati a pensare allo Sciamano come “all’uomo medicina”, a colui che utilizza Piani di esistenza differenti da quello ordinario per comprendere le cause dell’infermità dell’individuo e per “riportare l’anima” all’interno del corpo del malato; egli è in effetti un medium, cioè un essere che fa da ponte tra le realtà fondamentali del cielo, della terra e delle regioni “infere”. A differenza però del medium, che svolge il ruolo di colui che canalizza l’energia di ordine superiore senza però avere la possibilità di intervenire direttamente, è possibile paragonare lo Sciamano ad una sorta di medium attivo poiché, grazie alla sua preparazione spirituale e tecnica e agli Spiriti suoi Alleati, è in grado di intervenire direttamente, cioè coscientemente sul malato e sulla malattia. Lo Sciamano è considerato anche uno stregone, poiché il suo compito non è solo quello di guarire, ma anche quello di propiziare la pioggia, la caccia, di proteggere e difendere la propria tribù contro attacchi nemici. E’ dunque colui dal quale dipendono il benessere e la fertilità del proprio Clan. La conoscenza degli arcani della Natura non è comunque di appannaggio del solo sesso maschile, ma anche VER SACRUM XI

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Il Voodoo: religione o culto demoniaco? Gli spiriti-loa I loa sono le figure più importanti della vita religiosa e costituiscono il pantheon delle divinità voodoo. Non sono propriamente degli dei, ma piuttosto esseri soprannaturali, spesso spiriti di antichi antenati o di persone importanti che hanno lasciato un segno nella loro tribù, oppure personificazioni di animali e di elementi naturali, come il fulmine e il tuono. Essi sono gli intermediari tra gli uomini e Dio, tra il visibile e l’invisibile e controllano la vita umana dalla nascita alla morte. Assicurano il legame tra i vivi e i defunti, la durevolezza della famiglia, sono i responsabili della fertilità, della salute e di ogni evento, buono o cattivo. I loa sono numerosissimi, hanno caratteristiche differenti tra loro e specifici attributi (colori, oggetti, particolarità fisiche che li contraddistinguono); si distinguono in base alla loro importanza e al fatto se operano esclusivamente il bene o se commettono anche atti malvagi: alcuni, se irritati, possono arrivare perfino ad uccidere e divorare i propri seguaci. Hanno inoltre la capacità di entrare nel corpo di un uomo e di comunicare attraverso di lui tramite il rito della possessione, che costituisce uno dei momenti principali del rito. Dato che la religione voodoo agisce sia a livello individuale che comunitario, ogni credente ha un proprio loa personale, ereditario e trasmesso di padre in figlio, che venera in casa con degli altarini (rogatoire), su cui vengono poste delle candele accese, l’incenso, l’immagine del santo corrispondente al loa e gli oggetti che lo contraddistinguono. Invece il luogo per eccellenza dove si celebrano e onorano gli spiriti comunitari è il tempio (oufò). La parte principale della sua struttura è costituita dal peristilio centrale (spazio aperto porticato), dove si svolgono tutte le cerimonie del rituale, di cui la danza e i fenomeni di possessione costituiscono il nucleo principale. Al centro del peristilio sta il poteaumitan, una specie di totem, che ha il potere di mettere in correlazione il mondo terrestre con quello celeste e di favorire la discesa dei loa. Attorno si mettono offerte (cibo e bevande) e si disegnano i vevè che servono ad attirarli. Su un altare a fianco si pongono invece gli oggetti sacri allo spirito che si vuole invocare (di solito vasi, bamboline, croci, teschi, bottiglie di rum). Officia il rito il prete vodou (oungan), l’unico in grado di interpretare correttamente il linguaggio e i desideri del loa. Egli è temuto e rispettato per i suoi poteri: pratica la medicina, fa consulti alla gente in difficoltà o sofferente, interpreta i sogni e le disgrazie, dà pozioni magiche e fa incantesimi di magia bianca. Il rito ha inizio con una sfilata dei partecipanti, che

voodoo (o vodou) è una religione sincretistica, nella Iconlquale le tradizioni spiritistiche africane si fondono le pratiche cattoliche. Questo tipo di culto nasce nel ‘600 in seguito al trasferimento dalle coste occidentali dell’Africa alle Americhe di milioni di schiavi neri, che conducono con loro anche le credenze e i rituali. Lo scontro/incontro con la dottrina cattolica imposta dai popoli conquistatori (Spagna e Francia) porta con il tempo alla nascita di nuova forma di religiosità che, a seconda delle zone geografiche, prende differenti nomi e sviluppa specifiche caratteristiche: candomblé in Brasile, santería in Cuba, obeayisne in Giamaica, shango cult in Trinidad, vodou in Haiti. Il voodoo non ha basi scritte, non è un dogma, un’organizzazione centralizzata e nemmeno una religione ufficiale, ma è riuscito a sopravvivere fino ad oggi a tutte le campagne di persecuzione organizzate dalla chiesa nel corso di quattro secoli. Marginalizzato e “dimenticato”, ha usato i riti e i simboli del cristianesimo per continuare a vivere e a svilupparsi. E’ pertanto un sistema di credenze in cui sono confluite e fuse alcune componenti del culto cattolico come la venerazione dei santi, della Vergine e di Dio padre ed elementi tradizionali africani come i loa, le danze rituali, il culto dei morti. Il voodoo usa l’iconografia cattolica dei santi, ma dietro ognuno di essi si cela in realtà un loa (o lwa), uno degli spiriti invisibili e superiori che governano il mondo e il rapporto degli uomini con l’Aldilà. Anche l’immagine della Vergine Maria nasconde in realtà una divinità voodoo, quella di Ezili, dea della sensualità e dell’amore, che viene venerata con grandi offerte di cibo e con oggetti di colore bianco, suo caratteristico attributo. La figura del Dio cattolico assume invece una sua propria fisionomia: è il Bon Dieu, un dio bonaccione ed ozioso, troppo lontano e grande per occuparsi degli affari umani e incapace di farsi temere, che perciò delega l’organizzazione del mondo ai loa. La croce è molto ricorrente nel voodoo e in particolar modo viene riprodotta nei vévé, che sono dei disegni rituali (fatti sul terreno con farina di grano e mais o con polvere di mattone e cenere), che servono ad invocare i loa. Essa però non è più il simbolo di Cristo morto sulla croce, ma indica semplicemente il punto di intersezione tra il piano mortale e quello celeste, cioè il punto d’accesso al mondo dell’invisibile. E’ chiaro dunque che la presenza di elementi cattolici nel voodoo è più una questione di facciata, di copertura, che non una vera adesione ai principi del suo credo e che al di sotto di quell’immaginario è presente una realtà cultuale completamente differente e autonoma. 7

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Il voodoo a New Orleans Nel 1809, dopo la rivoluzione che aveva portato Haiti all’indipendenza, molti proprietari terrieri si rifugiarono in Louisiana dove insediarono delle nuove piantagioni e con loro portarono anche i propri schiavi, molti dei quali erano seguaci del voodoo. Così questo culto si diffuse rapidamente nella regione, ex dominio francese da pochi anni divenuto territorio americano, attecchendo sia nell’entroterra rurale che nella capitale New Orleans. Nel corso di due secoli il voodoo (o hoodoo) locale è andato assumendo una sua specifica fisionomia, in primis quella di un movimento “di colore” che si poneva in contrapposizione ai bianchi, che ricercava le proprie radici e la forza nelle antiche tradizioni africane. Già nell’800 le cronache cittadine parlano dell’esistenza a New Orleans di società voodoo che si riunivano segretamente nottetempo per celebrare le loro cerimonie, che prevedevano l’adorazione del serpente, presiedute dalla figura principale della regina (voodoo queen). La più famosa tra queste è Marie Laveau, una donna di colore libera che morì nel 1881 all’età di 85 anni, la cui tomba al cimitero St. Louis N°1 è ancor oggi oggetto di numerose visite e di venerazione. Fu lei ad introdurre nelle pratiche religiose, che erano un mix di animismo africano, culto del serpente e riti magici di derivazione haitiana, una forte componente cattolica (santi, preghiere, incensi, acqua santa). Caratteristici del voodoo di New Orleans sono i gris-gris, sacchetti riempiti con polvere (ci può essere dentro di tutto, da pezzi di unghie e capelli a ossa e pelle di serpente o polvere di cimitero, il tutto aromatizzato con un po’ di aglio, grani di senape etc), che possono essere utilizzati sia per scopi di magia bianca che nera, così come altri feticci fatti con denti di alligatore, grani di piante o corde annodate. Non possono mancare le famose bamboline voodoo, che servono a lanciare il malocchio contro la vittima prescelta. Ma tutte queste pratiche magiche sono in realtà più che altro un business, uno specchio per le allodole (cioè per i turisti che affollano i negozietti del quartiere francese strapieni di oggetti strani di tutti i tipi). Il voodoo ancor oggi a New Orleans esiste e viene praticato, ma è tutto fuorché un culto demoniaco e oscuro… (Mircalla) VER SACRUM XI

rendono omaggio agli oggetti sacri, e con l’invocazione del loa prescelto, preceduta da lunghe preghiere cattoliche e da litanie di santi. Segue il sacrificio degli animali preferiti dal dio (polli, oche o pecore) che, addobbati con i suoi colori caratteristici, vengono uccisi in suo onore, mentre alcune gocce del sangue versato sono poi bevute dall’officiante. Infine cominciano i rulli di tamburo che danno il via alle danze che inducono alla possessione. La danza voodoo Durante la cerimonia (che viene chiamata service) si pensa che un loa entri nel corpo del credente (il serviteur) e se ne serva per esprimersi. Il posseduto allora comincia a comportarsi con le caratteristiche del loa che è sceso su di lui. La divinità entra nella testa del fedele e vi scaccia il Grand-bon-ange, una delle due anime che l’uomo ha dentro di sé e che muove il corpo: è questa azione a provocare le convulsioni ed i tremiti che costituiscono il primo stadio della trance. Di solito subentra poi uno stato di sonnolenza e di torpore di b r e v a durata, al termine del quale Marie Laveau e sua figlia, 1881 s e g u e un’agitazione convulsa. Lo spirito dentro il corpo comincia a danzare, parlare, cantare, annuncia buone o cattive novelle, elargisce consigli ed ammonimenti. Una volta che il lwa è entrato in lui egli ne indica agli altri la presenza, assumendone gli atteggiamenti caratteristici e indossandone le vesti preferite. La fine della trance si presenta con segni di stanchezza: il posseduto cade tra le braccia degli spettatori e rimane immobile per qualche secondo con l’aria stupefatta di chi si risveglia in un posto sconosciuto. Durante lo stato di trance il serviteur non è presente a se stesso e in seguito non avrà nessun altro ricordo di ciò che ha fatto o detto e sarà scettico di fronte al racconto delle proprie azioni da posseduto. Egli infatti durante la cerimonia di 8


così dei riti che servono a staccare l’anima dal corpo; solo una volta assicuratisi che se n’è andata via, si può reintegrare il defunto n e l l a comunità e assumerlo come protettore. Infatti Altare voodoo dedicato a un lwa della morte quando lo spirito si è volatilizzato, egli può esaudire le richieste fatte dagli uomini ed essi possono conversare con lui, nella speranza di conoscere i segreti della vita e della morte. Nelle cerimonie funebri, che costituiscono un evento familiare e comunitario molto più che individuale, i parenti del deceduto, vestiti completamente di bianco, gli offrono doni e i cibi (rum, bevande gassate, frutta etc), necessari per il viaggio verso il mondo dell’invisibile. Se non lo si onora debitamente infatti, egli tornerà a infestare i sogni o procurerà malattie ai viventi. Viene anche celebrata una messa che segue la liturgia cattolica, che serve non solo ad ottenere il favore di Dio, ma che costituisce anche un vero e proprio rito sociale allo scopo di asserire la dignità dello scomparso. Quando poi portano il cadavere al cimitero, lungo il percorso i parenti gridano e si gettano a terra come catturati dal suo spirito, mentre quelli che reggono la cassa fanno finta di perdere la strada in modo da confondere il morto e far sì che non riesca a trovare la via per tornare a casa a disturbare i vivi. La sepoltura avviene nella nuda terra ed è tradizionalmente segnalata da una semplice croce, alla quale vengono appesi degli abiti, che hanno lo scopo di attirare gli spiriti maligni tenendoli lontani dal corpo del defunto. La Stregoneria e gli zombies L’immagine del voodoo tramandata dai colonizzatori bianchi e dalla Chiesa è sempre stata quella di una forma di culto diabolica, fatta di malefici, di pratiche oscene, di notturne assemblee sacrileghe, di orrendi sacrifici. In realtà gli elementi “stregoneschi” di questa religione sono limitati ad alcuni ambiti specifici: ogni credente è convinto ad esempio che sia possibile cattu-

possessione non parla semplicemente con il dio, ma lo diventa davvero; la perdita di conoscenza è dunque il passaggio fondamentale per cancellare la propria personalità ed assumere quella del lwa prescelto. Il periodo di trasformazione è poi tanto più travagliato quanto meno esperienza ha il serviteur. Chi viene prescelto per questo ruolo deve essere un iniziato (o ounsi) che attraverso una serie di rituali ha raggiunto la capacità di entrare in contatto con il loa e ha imparato tutto riguardo a lui. Nonostante ciò la cerimonia ha a volte degli esiti molto negativi: se durante la possessione il dio non si manifesta il serviteur può diventare preda degli spiriti maligni o di quelli dei morti. La possessione voodoo è stata interpretata dalla scienza in chiave psicopatologica e classificata di volta in volta come una forma di isterismo, di catalessi, o di crisi convulsiva. Oggi si preferisce invece sottolinearne la fruizione sociale e inserirla così all’interno di strutture storico-religiose ben precise. E’ stato anche messo in evidenza in alcuni studi l’aspetto di teatralità proprio della danza voodoo, che si manifesta attraverso l’impersonificazione dei vari loa. Infatti anche se il comportamento dell’invasato è rigorosamente stabilito dalla tradizione, l’interpretazione è sempre molto personale e contribuisce a definire e modificare le caratteristiche dei loa. Per questo motivo i loro attributi cambiano nel corso del tempo e si differenziano anche fortemente da una zona all’altra. Oltre alla possessione esiste un altro rituale che permette di entrare in contatto con un lwa: il matrimonio mistico. Si tratta di una cerimonia molto simile a quella cattolica, con inni e preghiere, in cui un prete benedice di fronte ai testimoni l’unione tra un uomo (o donna) e il suo loa. In questo modo il novello sposo è legato per tutta la vita al suo spirito, che lo aiuterà nei momenti di bisogno; in cambio egli deve dedicare un giorno della settimana ad onorarlo ed astenersi dall’attività sessuale. Il culto dei morti Alla base delle credenze voodoo, oltre alla danza di possessione, è anche il culto dei morti, che si svolge attraverso una serie di specifici rituali, grazie ai quali i vivi forniscono al defunto la forza per attraversare le acque che lo separano dal luogo dove dimorano gli spiriti. La morte è la separazione dal corpo degli elementi spirituali che insieme formano un essere umano. Nei primi momenti del trapasso l’anima rimane però ancora vicina al cadavere, spesso dentro la casa dove la persona abitava, e costituisce un pericolo per i vivi perché può contaminarli con la morte. Pertanto tutta la procedura e i preparativi per il culto funerario sono focalizzati nell’organizzare la definitiva dipartita del defunto, nell’assicurarsi che il trapasso sia reale e definitivo e che il morto non torni per tormentare i vivi. Si compiono 9

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a dare l’immagine di Haiti come paese degli zombies; durante la loro occupazione dal 1915 al 1934 hanno criminalizzato il voodoo come culto pagano e demoniaco, distruggendone i templi e gli idoli, e soprattutto lo hanno messo in stretta relazione con il “far rivivere i defunti”, facendo nascere nell’immaginario collettivo l’idea di Haiti come l’”isola dei morti viventi”. Cosi’ gli zombies e la “morte voodoo” diventano negli anni ‘30 uno dei temi favoriti dei film dell’orrore di Hollywood. E proprio un anno dopo la feroce campagna di persecuzione della Chiesa del 1940-41, che aveva demonizzato Haiti come un covo di magia e di stregoneria, Jacques Tourner gira I walked with a Zombie, che racconta di una serie di zombies, fino ad allora comandati dai sacerdoti voodoo, che approfittano del periodo di smarrimento seguito all’occupazione americana per fuggire e vagare solitari per l’isola. Lo zombie è un cadavere che ritorna dalla morte e dunque incute timore agli uomini; così viene subito adottato, come altre figure archetipe di mostri, da una società come quella americana alla ricerca di nuove fonti di terrore. Tourner ne approfitta anche per dare un’immagine del voodoo come di una serie di pratiche demoniache, mettendo in primo piano l’abilità stregonesca dei sacerdoti di uccidere la gente e poi di rianimarla mantenendola in uno stato di morte apparente. L’idea ebbe successo ed aprì un enorme filone per il cinema dell’orrore. In conclusione… il voodoo è un sistema simbolico che si basa sulla mitologia dei loa e che segue dei principi, dei rituali e delle regole precise di comportamento. Secondo i suoi credenti nulla ha a che fare con la stregoneria e la magia; al contrario questa interpretazione è sempre prevalsa da parte di coloro che hanno giudicato questo culto dall’esterno e vi hanno voluto proiettare tutti quegli elementi “selvaggi” e “primordiali” repressi nella loro cultura. Ma proprio su questo immaginario deformato è nato e cresciuto il mito letterario e cinematografico…

rare gli spiriti dei morti e le forze soprannaturali, chiuderli in bottiglie o in pacchetti (chiamati wanga) e usarli per fare incantesimi. Possono essere impiegati come difese magiche o per attaccare i nemici, però non conducono mai alla morte, al massimo portano malattia. Per tenere lontane le forze del male è d’uso inoltre, soprattutto durante le cerimonie sacre, mettersi al collo delle collane che rappresentano gli spiriti protettori e che hanno il compito di rendere invulnerabili chi le indossa. Esistono poi, in contrapposizione ai lwa, gli spiriti protettori, alcune manifestazioni demoniache, che possono essere evocate in caso di necessità: il baka ad esempio è un essere malevolo che assume la forma di un nano, di un piccolo mostro o di un animale. Chi si rivolge a lui corre un bel rischio, perchè è assetato di sangue e in cambio del suo favore domanda in sacrificio un membro della famiglia; così da protettore può trasformarsi in causa di disgrazia per chi lo possiede, fino a condurre alla morte. Ci sono anche i “lupi mannari”, uomini posseduti da spiriti insaziabili, che hanno la capacità di mutarsi in animali e possono succhiare il sangue ai bambini. Ma la più terribile pratica di stregoneria consiste certamente nella creazione degli zombies. Si tratta apparentemente di defunti che tornano a uno stato di vita semicosciente e che possono venire comandati da un padrone a compiere qualsiasi azione (di solito ad Haiti venivano usati come schiavi nelle piantagioni). In realtà non sono dei veri e propri morti, ma persone cui è stata somministrata da parte dell’oungan una pozione che conduce in uno stato di catalessi e di morte apparente. Creare uno zombie vuol dire semplicemente catturare lo spirito individuale di un uomo e tenerne in mano il controllo. Nel suo stato lo zombie è consapevole di ciò che accade, ma non riesce a reagire, perché viene diretto mentalmente dall’oungan che lo ha stregato. La “zombificazione” è ritenuta dai seguaci del voodoo la suprema punizione, perché riduce gli uomini ad uno stato di schiavitù, esattamente quello contro cui hanno dovuto lottare per molti secoli. E’ chiaro comunque che la figura dello zombie è un elemento del tutto secondario della religione voodoo e che fa parte più della leggenda che non della pratica rituale. In realtà sono stati gli americani VER SACRUM XI

Mircalla Bibliografia: Ron Bodin, Voodoo Past and Present, Center for Louisiana Studies, 1990; Corvino C., Il filtro degli zombi, in Abstracta 43, 1989; Laënnec Hurbon, Voodoo - Search for the Spirit, Abrams Discoveries, 1995.

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“Quando non ci sarà più posto all’inferno i morti cammineranno sulla terra”: Il Cinema degli Zombi Lucio Fulci con il capolavoro Zombi 2 (1979), che immerge una vicenda gore e necrofila nelle originarie atmosfere folcloriche caraibiche, cui il regista fa seguire i gioielli Paura nella Città dei Morti Viventi (1980) e L’Aldilà (1981), film quasi ossimorici nella loro dualità tematica carne/spirito (da dimenticare è invece Zombi 3, 1987). Citiamo poi Zombi Holocaust di Frak Martin/Marino Girolami (1979), Le notti erotiche dei morti viventi di Joe D’amato (1980), Virus di Vincent Dawn/Bruno Mattei (1981), Incubo sulla città contaminata (1981) di Umberto Lenzi, Zombi Horror di Andrew White/Andrea Bianchi (1983) e Il ritorno dei Morti Viventi (Return of the living dead, 1985) dello sceneggiatore di Romero Dan O’Bannon. Ma già in questo film si nota un approccio ironico e smitizzante che prelude all’esaurimento del genere. Nella panoramica degli ‘80, inoltre, si ritaglia uno spazio a parte lo straordinario Zeder di Pupi Avati (1982), molto lontano dalle atmosfere esplicitamente viscerali degli altri film citati. Gli anni ‘90 sono nel segno dell’utilizzo del tema “zombi”, in senso citazionistico o ironico/autoironico: primo fra tutti Tom Savini nel suo deludente remake La Notte dei Morti Viventi (1990), realizzato sotto l’ala protettrice di Romero. Ma da citare anche il Peter Jackson di Brain Dead (1994) (edito da noi con l’ignobile titolo Splatters, gli schizzacervelli) o il Michele Soavi di Dellamorte Dellamore (1994).Concludiamo, con una certa nostaligia per i tempi d’oro, con due abominevoli Zombie ‘90: Extreme pestilence (1990) e Zombie Bloodbath: extreme pestilence 2 (1991), regalini insostenibili del tedesco Andreas Schnaas, gia’ “autore”, qualche anno prima, degli eloquenti Violent Shit 1 e 2.

Lo zombi cinematografico parte da lontano: si comincia nel 1932 con il capolavoro White Zombie di Victor Halperin per continuare con I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur (1943). Del 1945 è il trash Zombies on Broadway dei Gordon Douglas, mentre 11 anni dopo Ed Wood dà il suo contributo con Plan Nine from Outer Space: Orgy of the Dead. Gli zombi di questo periodo sono ispirati direttamente alla figura del morto vivente folcklorico, o sono sorta di automi agli ordini del villain di turno. E’ George Romero che, nel 1968, crea ex novo l’iconografia dello zombi antropofago girando il bellissimo La notte dei Morti Viventi (Night of the Living Dead), prodotto low-budget in bianco e nero che è ormai un classico dell’horror. Il regista codifica gli stilemi imprescindibili del morto vivente contemporaneo (l’antropofagia, il muoversi in branco, il colpirlo alla testa come unico modo per eliminarlo…), ma il film curiosamente non genera quasi alcuna imitazione, cosa che è invece la coproduzione italo-spagnola Non si deve profanare il sonno dei morti di Jorge Grau (1972). Sempre Romero gira l’ormai leggendario Zombi (Dawn of the Dead, 1978), coprodotto e cosceneggiato da Dario Argento, e che da noi arriva nella splendida versione montata dal maestro italiano. Il film è una versione ipercolorata ed iperviolenta del suo lavoro del ‘68 (straordinari gli effetti di Tom Savini), oltre che un incisivo apologo politico, cui il regista ispano americano fa seguire, nel 1985, il claustrofobico Il Giorno degli Zombi (Day of The Dead). Ma è indubbiamente il film del 1978 la matrice di quelli che nell’ambito del cinema sono definiti “gli anni dei morti viventi”, ed in cui i registi italiani hanno avuto un ruolo guida: apre le danze il maestro

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Il Satanismo nel seno della “nuova religiosità” delle teorie di alcuni A dispetto “grandi” antropologi e teologi pro-

mazdei, caratterizzati dall’antitetica contrapposizione tra un Dio buono (Oromase) ed un Dio cattivo (Arimane, sopra citato) nella disputa del cosmo, Satana diviene un’entità dotata di quelle specificità negative a tutti note, talvolta identificandosi con Lucifero. E’ soprattutto nei libri del Nuovo Testamento che Satana acquista una fisionomia nettamente personale, come portatore mitico del male. Egli è identificato con il dragone ed il serpente che Gesù vede cadere dal cielo a guisa di folgore, consolidandosi così l’identificazione Satana-Lucifero, sottrae la buona parola dell’Evangelo, tenta Gesù, produce mali fisici, perseguita i seguaci del Vangelo, ha un suo proprio regno spaziale e temporale. Satanico diventa così un termine aduso per esprimere l’incarnazione del Male, e satanista sarà l’adepto che al Dio Negativo offre il suo culto: la Magia Nera. Così Eliphas Levi, il noto occultista francese dell’ottocento, ne descrive l’origine: «Il dogma di Zoroastro mal compreso, la legge magica delle due forze costituenti l’equilibrio universale, hanno a qualche spirito illogico fatto supporre che possa esistere una divinità negativa subordinata, ma ostile alla divinità attiva. (…) Si ebbe la folle idea di scindere Iddio. (…) Questo Dio malvagio, nato nell’immaginazione dei settari, divenne ispiratore di tutte le follie e di ogni delitto. Gli si offersero sacrifici sanguinosi; una mostruosa idolatria sostituì la vera religione; la Magia Nera fece sì che si calunniasse l’alta e luminosa Magia dei veri adepti, e nelle caverne, nei luoghi deserti, si ebbero gli orrendi convegni delle streghe, dei maghi e dei vampiri, giacché la demenza bene spesso si muta in frenesia e dai sacrifizi umani all’antropofagia non v’ha che un passo». Ecco mirabilmente sintetizzato l’incubo che imperversò per l’Europa occidentale fin dal Medioevo sino ai tempi dell’Età dei Lumi! Ecco lo spettro che terrorizzò generazioni di uomini che annaspavano nel buio dello spirito, appena illuminato dal non meno inquietante bagliore dei roghi su cui ardevano ora vittime innocenti, ora efferati criminali, accomunati tra loro dal marchio di soggezione al giogo del Nemico. Ed ancora oggi, nei giorni delle grandi conquiste scientifiche e della cultura di massa, le cronache ci riportano nel buio e nell’orrore quando si disvelano delitti ispirati agli esecrandi riti del demonio, che sembra riemergere dagli abissi di un Inferno dantesco in tutto la sua spaventosa bellezza e crudeltà. Ma se il Satanismo è stato per secoli (e lo sarà probabilmente ancora a lungo) una drammatica dottrina intrisa di immoralità e delitto, lascivia e perversione,

testanti, tanto in voga circa mezzo secolo fa, la religione e la religiosità, quali fattori culturali e sociali, non sono scomparse ma, addirittura, sembrano rivivere o, meglio, stanno per prendersi una bella rivincita. Il fenomeno del proliferare di sette e movimenti religiosi, o spirituali lato sensu, è sotto gli occhi di tutti e, proprio l’impossibilità di ricondurre tutte le svariate sfaccettature dei credi e delle pratiche ad un denominatore comune, ha condotto gli studiosi ad utilizzare come strumento di indagine il concetto sociologico di network, ovvero “struttura a rete”, per meglio governare la magmatica materia. Ciò che può stupire al primo approccio col fenomeno, nel suo progressivo svilupparsi in articolazioni sempre più complesse, è scoprire la non trascurabile presenza nel suo interno del Satanismo. Se infatti un carattere comune alle componenti culturali della “nuova religiosità” è l’insofferenza verso qualsiasi forma di religione rigidamente strutturata in dogmi e gerarchie sacerdotali definite, nondimeno può comunque stordire il riconoscimento culturale che apparirebbe concedersi al culto del Male per eccellenza. Ma se le forme variegate in cui la moderna spiritualità si manifesta appaiono comunque votate ad un sincero ottimismo eudemonistico, come può giustificarsi la collocazione del Satanismo nell’ambito della nuova religiosità, sia pur alternativa? Cos’è allora il Satanismo? E’ davvero il culto del Male o, più correttamente, può ancora oggi essere inteso come tale? Indubbiamente l’evidente radice etimologica evoca quanto di più oscuro ed inquietante sia mai stato generato dalle paure dell’umanità. Satana, il “nemico”, l’odioso Arimane del mazdeismo, attraverso gli occhi di un mal compreso manicheismo, è sempre, comunemente, l’impersonificazione del Male assoluto, l’antitesi alla benevola Entità creatrice dispensatrice di ogni bene e felicità. A dir il vero, studiando con più attenzione le letture vetero-testamentarie dell’ebraismo, inizialmente nei libri canonici non esisteva un’entità del genere, opposta dualisticamente a Dio. Nel libro di Giobbe ad esempio Satana assiste al trono di Dio come altri angeli ed è indicato “ha-satan”, letteralmente “l’oppositore”, ed in effetti agisce agli ordini di Dio come nemico, non del Bene assoluto, ma degli uomini. Solo nei libri biblici successivi all’esilio babilonese, probabilmente per il diffondersi di elementi superstiziosi iranici e VER SACRUM XI

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attraverso questa si proiettano le energie individuali secondo gli insegnamenti delle dottrine tantriche. Alfiere di tali teorie è stato sicuramente Anton LaVey, scomparso nel 1997, fondatore della “Chiesa di Satana” di cui si dichiarò Papa Nero, sicuramente uno dei più importanti centri di cultura magica carnale e trasgressiva degli anni appena passati. Egli infatti pur professando il satanismo apertamente rifuggì dagli schemi criminali e dalle pratiche blasfeme del cliché satanico tramandato nei tempi. Secondo LaVey infatti il satanismo è “culto della vita e come tale riguarda la più piena gratificazione dell’ego al nostro livello di esistenza”, cioè si tratta di una dottrina che spoglia i suoi adepti di ogni tabù e resistenza morale per liberarli verso una condizione di vita appagante dei più immediati desideri ed aspirazioni, senza con ciò promuovere o comunque causare danno ad altri. Si ricorderà infatti come LaVey condannò gli eccessi della setta di Manson che definì “folli e ladri fuori di testa per la droga” ribadendo il principio che il satanista persegue il proprio piacere evitando il male altrui (anche se taluno caldeggia l’ipotesi di un coinvolgimento del Papa Nero, in termini di sortilegio, nella tragica morte della bella e prosperosa attrice hollywoodiana Jayne Mansfield, appartenente alla sua Chiesa e della quale fu ritenuta “traditrice”, ma qui si cade nel pettegolezzo!). Sgrossato degli elementi negativi del crimine e della malefatta e ricondotto praticamente ad una forma di religiosità neopagana di chiara impronta dionisiaca, il satanismo appare così effettivamente una delle mutevoli e differenti facce in cui si manifesta la nuova spiritualità che va diffondendosi ad ogni livello sociale e culturale in alternativa ai dogmi consacrati ed istituzionalizzati nelle religioni ufficiali … ma allora chi è questo Satana a cui comunque si rende culto? Un moderno Bacco allegrone ed un po’ sporcaccione, o il truce Becco di Mendes che presiede al Sabba delle streghe? A voi l’ardua risposta … se ne avete il coraggio!!!

follia e crudeltà, tramandata vigorosamente attraverso le immagini a fosche tinte dei dipinti di Salvator Rosa e Francisco Goya o le suggestioni narrative di Huysmans, al fianco dei deliri degli ultimi praticanti del delitto religioso si pone ora qualcosa di nuovo, o più correttamente di apparentemente diverso. Oggi si leva infatti una voce, ancora tenue ma ferma e sicura di sé, che invita a non confondere i termini “satanista” e “satanico”, rivendicando per il primo dei due un significato ben diverso da quello fin qui delineato, senz’altro più positivo e tranquillizzante: “satanista” infatti sarebbe un adepto che segue una forma cultuale di magia naturale e di aspirazione edonistica; “satanico” è invece un’etichetta da attribuire a coloro che compiono crimini efferati con i quali le forze diaboliche in realtà non hanno nulla in comune. Secondo questa corrente di pensiero il satanismo come crimine e misfatto è un’invenzione dell’Inquisizione medievale, inoltrata nei secoli dalla letteratura goticheggiante ed oggi dalla cinematografia e dai mass media. In realtà i “satanisti” (che non uccidono, non si drogano, non stuprano e così via) perseguono un bene “terreno” e si disinteressano di un Bene assoluto e trascendente. Ciò naturalmente secondo i dogmi delle religioni rivelate, il Cristianesimo in primis, è indubbiamente Male, ma ciò che per il teologo ortodosso finisce con l’investire la parte spirituale dell’uomo e costituisce “peccato”, per il “satanista” in realtà si circoscrive ad una questione meramente etica e puramente personale. Il “satanista” pertanto è sì un esoterista il cui fine però non è diretto al Cielo ma al raggiungimento, attraverso un sapiente utilizzo delle forze della Natura, dei piaceri puramente terreni cui ogni uomo istintivamente, nella sua “materialità”, aspira. Si tratta insomma di una forma di ilozoismo panteistico, in cui si riconosce alla Natura una propria vitalità e proprie forze interne che offrono all’uomo delle possibilità operative tramite rituali, per ottenere il conseguimento del piacere e della felicità, evidentemente fine ultimo dell’individuo in quanto tale. Ovviamente in questa sorta di edonismo animistico un ruolo centrale viene affidato alla Magia Sexualis, dal momento che

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Anton LaVey e la Church of Satan 6114 California Street, le voci di una iattura come causa della morte della famosa attrice Jayne Mansfield, il suo coinvolgimento (presunto in realtà) nel film Rosemary’s Baby di Polanski, nonché le più recenti foto e interviste insieme a Marilyn Manson rendono celebre nei mass media l’immagine di Anton LaVey, tanto che quando la morte lo coglie il 29 Ottobre del 1997 la sua figura è ormai una notissima e oscura icona pop. Comincia anche un’opera di “revisionismo” sul suo conto e nel coro dei denigratori pesano senz’altro come macigni le dichiarazioni della figlia Zeena che smonta, punto dopo punto, gli episodi e le leggende su Anton LaVey. Se perfino il nome è completamente falso, e nel suo sangue non ha mai circolato nemmeno una goccia di sangue gitano, assai più tristi e squallide sono le storie di abusi e violenze ai danni della moglie e delle sue seguaci, o l’immagine di un uomo spesso senza un soldo, ridotto a vivere con le donazioni di seguaci e amici. Vere o false che siano queste accuse è certo che la Church of Satan ha perduto con la morte del suo Papa Nero molto del suo prestigio e credibilità, sebbene la seconda signora LaVey, Blanche, si adoperi, ora anche su web, per mantenere alto il nome di Satana nella tradizione del suo fondatore. Non manca una fazione eretica della chiesa di LaVey intitolata First Church of Satan con a capo un nuovo Papa Nero, John Egan. Questa appare come una versione più pragmatica (molto americana in questo) e più “politically correct” (si fa per dire) dell’originale setta laveyana. A oltre 30 anni dalla sua fondazione la Chiesa di Satana e le sue varie branche non sono altro che culti ultra-underground, feticci per personaggi eccentrici. Le previsioni di La Vey sull’avvento della “Satanic Age” sono quanto mai lontane dall’essersi avverate. A meno che non si intraveda Satana in qualche aspetto più sinistro e pericoloso della nostra era…

La leggenda narra che il 30 aprile 1966, una tetra notte di Valpurga a San Francisco, Anton Szandor LaVey si rase la testa seguendo l’arcano rituale degli Yezidi, una tribù di adoratori del demonio dell’Iraq, e mentre il cielo veniva segnato da accecanti lampi, si proclamò il Sommo Sacerdote di Satana sancendo così l’inizio dell’era demoniaca. La Church of Satan era stata fondata. Il momento e il luogo per officiare un simile evento non potevano essere più appropriati della “liberal” e disinvolta San Francisco, alla vigilia della mirabolante “summer of love” degli hippie e delle contestazioni all’Università di Berkeley. In una città così anticonvenzionale non facevano tanto caso le conferenze private tenute da un bizzarro personaggio, che vantava origini gitane e una pletora di stranissimi lavori svolti in passato: da domatore di leoni a pianista di strip-bar, da fotogafo criminale a stimato musicista. Le conferenze, da cui prese origine la Chiesa di Satana, venivano tenute settimanalmente e vertevano su argomenti oscuri e misterici: magia nera, divinazione, vampiri, lupi mannari, demonologia. Lo scopo di questo circolo di appassionati, il cui numero e affiatamento cresceva sempre più, era quello di praticare rituali magici. Durante questi incontri LaVey raffinava la sua concezione del mondo e del satanismo: l’uomo era al centro dell’universo, lasciato solo ad affrontare e dar sfogo alle sue pulsioni primarie. Per simboleggiare questa sua teoria LaVey scelse Satana, visto non nella visione cattolica di antagonista di Dio, ma come la forza oscura e brutale della Natura. Il Satana di LaVey è “lo spirito del progresso, l’ispiratore di tutti i grandi movimenti che hanno contribuito allo sviluppo della civiltà e all’avanzamento dell’uomo. E’ lo spirito della rivolta che porta alla libertà, l’incarnazione di tutte le eresie che liberano. (1)”. Se la Chiesa Cattolica predicava la salvezza trascendente e la liberazione dello spirito, la Chiesa di Satana rivendicava la centralità della mente e la passione carnale dell’uomo come oggetto di celebrazione: combinava uno spirito dionisiaco di soddisfazione degli istinti primari, in particolar modo di quelli sessuali, ad una concezione superomistica nietzschiana. Le teorie di LaVey trovano il perfetto compimento nell’opera The Satanic Bible, edita nel ‘69 e ristampata in decine e decine di edizioni e lingue diverse: LaVey qui offre un “pensiero Satanico da un punto di vista veramente Satanico (2)”, un libro in cui il lettore “… troverà verità - e fantasia (visto che) ognuna è necessaria all’altra per esistere (2)”. Le foto dei rituali celebrati nella famosa Casa Nera di VER SACRUM XI

Christian Dex Note: (1): dalla presentazione della Satanic Bible a cura di Burton H.Wolfe (2): Anton LaVey, prefazione a The Satanic Bible Sito ufficiale della Church of Satan: http://www.churchofsatan.com Sito ufficiale della First Church of Satan: http://www.churchofsatan.org The Satanic Bible: http://satanic-bible.tripod.com/ Anton LaVey, Legend and Reality (anti-FAQ): http://www.churchofsatan.org/aslv.html

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Huysmans: Làs-bas oris Karl Huysmans, scrittore francese vissuto tra la posseduta dal demonio. Durtal entra così fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, è con- in contatto con un mondo arcano e affasiderato l’iniziatore del movimento letterario del scinante, che lo attira e lo coinvolge semDecadentismo, il maestro di Wilde e D’Annunzio, che pre di più, fino a fargli percorrere tutte le strade della proprio dalla sua opera trassero ispirazione per i loro corruzione spirituale e morale. Alla fine riesce a vedere la “famosa” messa nera per iniziati del canonico Docre, il romanzi più significativi, Il ritratto di Dorian Gray e Il Piacere. Tutta la sua notorietà è legata ad un unico libro, capo dei satanisti, durante la quale assiste ad un tripudio A Rebours (A Ritroso), il cui protagonista assoluto, prati- di bestemmie, sacrilegi, sfrenatezze sessuali che lo disgucamente un’incarnazione di se stesso, è quel famoso Des stano a tal punto da fargli rifuggire completamente Esseints che ha dato il via alla tipologia dell’eroe deca- quell’universo per rifugiarsi nella fede di Dio. dente, tutto chiuso in un mondo artificiale fatto di arte, Parallelamente Huysmans fa compiere al suo protagonista un altro viaggio, questa volta a ritroso nella storia, sensualità e maniacale estetismo. In realtà il percorso artistico e umano di Huysmans è con l’intento di ricostruire la vita di quel Gilles de Rais molto più lungo e complesso: nasce come scrittore di che ben incarna il suo ideale di eroe. Questo personaggio racconti di stampo naturalistico alla Zola, per approdare, gli fornisce un esempio di nefandezza e morbosità che esaurita la parentesi decadentista, ad una sorta di spiri- approda alla devozione religiosa e al misticismo, esattatualismo; attraversa momenti di forte travaglio interiore mente come per Durtal. Gilles de Rais, che Huysmans che lo portano prima ad interessarsi alle dottrine esoteri- definiva “il Des Esseints” del Quattrocento, nella ricoche e infine sfociano nella conversione al cristianesimo e struzione dell’autore diventa, da fedele compagno di alla scelta di una vita monastica di reclusione. E’ proprio Giovanna d’Arco, un orco pedofilo dedito, in preda ai nella fase immediatamente precedente la sua conversione fumi del satanismo, alle crudeltà più efferate e sanguinache si colloca una delle opere più disturbanti che ancora rie ed infine, una volta imprigionato dalle autorità, un oggi si possano leggere e che, fonte all’epoca di scandalo simbolo puro del pentimento e della conversione divina. E’ la compresenza di angelico e demoniaco, di santità e e di numerose discussioni, è stata poi accantonata e dimenticata dalla critica e dal pubblico fino a tempi crudeltà, insomma la coincidenza degli opposti ad affarecenti. Sto parlando del romanzo Là-bas (Laggiù) pub- scinare Huysmans (e di conseguenza il suo “doppio” blicato nel 1891, in cui l’autore compie un oscuro viag- Durtal) fino ad immedesimarsi completamente con lui. gio nel mondo del satanismo e della perversione. Il pro- Secondo la logica dell’autore ogni caduta implica una tagonista Durtal è uno scrittore alla ricerca di nuove risalita, un’elevazione, un’aspirazione che nell’ottica spiritualistica non può che emozioni, disincantato e portare alla fede. Da qui avido di assoluto, disgunasce quell’opposizione stato dal pensiero positidualistica tra alto e basso, vista, ma incapace di spirito e materia, bene e aderire alla fede, che male che permea di sé decide di andare alla tutto il romanzo e che lo ricerca di una dimensiorende ancora oggi affascine soprannaturale che lo nante. Inoltre questo libro sottragga ad una vita costituisce una vera e proquotidiana priva di stipria miniera di informamoli. Intraprende così zioni nell’ambito delle una lunga discesa agli dottrine esoteriche, inferi, verso quel mondo dell’alchimia e del simbonascosto negli abissi (làlismo, raccolte da bas) del culto di Satana. Huysmans attraverso E a guidarlo in questo un’opera di documentaviaggio d’iniziazione ai zione rigorosa e dettagliamisteri del satanismo ta, così da farne un valido saranno vari personaggi, saggio-guida per chiunque l’occultista Des voglia avvicinarsi a queste Hermies, l’astrologo materie. Gévingey e soprattutto la sua amante Hyacinte, Mircalla Illustrazione tratta da Gustave Doré: L’Inferno di Dante

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Il miracolo sommo: idee per una piccola guida antigiubilare di Roma Va’, dunque. Roma nostra vedrai. La vedrai da’ suoi colli dal Quirinale fulgida al Gianicolo, dall’Aventino al Pincio più fulgida ancor nell’estremo vespero, miracolo sommo, irraggiare i cieli. Gabriele D’Annunzio, Elegie Romane

gia di alternativo, ieri piana erbosa degradante verso il Tevere e luogo deputato all’esecuzione delle pene capitali. Qui, il Tribunale dell’Inquisizione ha messo al rogo, il 17 febbraio del 1600, l’“eretico impenitente” Giordano Bruno, grandissimo mistico alchimista: davanti al monumento a lui dedicato dalla Roma antipapalina, in quest’anno (2000) che ha visto le disertate e di fatto censurate celebrazioni per il suo assassinio, possiamo partire per il nostro giro, stupendoci ancora una volta di come le comitive giubilari di qui non passino senza provare un moto di vergogna (nonostante i tardivi mea culpa papali…). Lasciamo Campo de’ Fiori, attraversiamo Corso Vittorio Emanuele, e dopo pochi minuti ci ritroviamo a Piazza Navona, altro luogo celeberrimo. Fermiamoci all’ingresso, e liberiamo mentalmente lo spazio dai bancarellari e dal formicaio turistico, per assaporare la vertigine dello spazio ricalcante, come in fotocopia, lo Stadio di Domiziano: poi concentriamo la nostra attenzione sulla Fontana dei Fiumi di Gian Lorenzo Bernini. La fontana, altra illustre soubrette da cartolina, è in realtà un elevatissimo monumento alchemico: l’obelisco centrale è quello che ornava la spina dello stadio di Domiziano, è una copia di età romana di un obelisco egizio, i geroglifici che lo ornano non hanno alcun senso, vogliono solo riprodurre gli echi di una scrittura già in antico incompresa e quindi ritenuta magica. Infatti in età romana gli obelischi dei faraoni, trasportati dall’Egitto ridotto a provincia, furono ritenuti oggetti magici, sorta di enormi amuleti di granito; pur incompresi nel dettaglio, lo erano invece nel loro spirito profondo: linea di congiunzione fra Sole e Terra, fra Creatore e Creature, e contemporaneamente pietrificazione dei raggi vivificanti del Sole, che da un Vertice scendono ad illuminare il mondo. Ed anche nel medioevo, gli obelischi portati nell’Urbe e giacenti abbattuti fra i ruderi, venivano sentiti e vissuti come oggetti stregati: presso di loro si riunivano gli Stregoni e le Streghe, per rubarne i segreti, tanto che Sisto V, con decreto papale, decise l’erezione dei tredici giacenti in varie parti della città (e tuttora visibili) e la consacrazione di essi con l’applicazione sulla loro cima dei segni della Chiesa. Bernini allora, ne prende uno e lo pone sul vertice di una piramide di travertino ai cui spigoli pone le personificazioni dei Fiumi; ne nasce una perfetto omaggio alla sintesi alchemica, la Luce unita alla Terra, e

on esiste città, dove, come a Roma, nel centro, N ma anche nelle zone meno conosciute, si respiri e si tocchi il grumo dei secoli. Da sempre, Città del Potere: dalla nebbia dei Re Arcaici, all’impero dei Cesari, alla forza della Chiesa (soprattutto la corrusca violenza della Controriforma, che ancora oggi ne conforma l’aspetto…), ai luoghi del potere della Capitale. Da sempre, la Città della Mistica: dalle primitive religioni ctonie, alle deità Romane, alle visioni del Cristianesimo, ai respiri dei Maghi e degli Alchimisti. Purtroppo, sempre, ma soprattutto oggi nel pieno della iattura giubilare, a chi viene a Roma, sfugge la città, sfuggono i luoghi, annegati in una retorica religiosa da fast food, in una visione dei monumenti da cartolina, sfuggono i nodi e i nessi fra le cose e le persone. Ma credo che molti, la sera, colpiti dalla dorata luce obliqua che accarezza i muri, mentre sono alla ricerca dell’ennesima pizza surgelata, abbiano percepito la presenza dell’oltre, dell’altro. Sia chiaro, Roma non è solo loro, delle orde giubilanti, dei cristiani (in un luogo ove quasi mai il cristianesimo è puramente tale, o solo tale), dei cattolici con la loro violenta invasione buonista: questi appunti vogliono essere una sorta di piccola (piccolissima) guida, uno spunto per una visita a Roma che non voglia essere posseduta dalla visione monopolizzante del cattolicesimo, o da quella di un monumentalismo d’accatto. Spero che, nella loro incompletezza, possano dare il senso della complessità della lettura dell’ambiente romano, e della sua molteplicità semantica. Ci limiteremo alla zona del centro, per quanto questo concetto a Roma possa valere, ai luoghi facilmente raggiungibili anche in una sola giornata di soggiorno, o a quelli visitabili senza difficoltà. Salteremo moltissime cose, ovviamente, e i luoghi più conosciuti cercheremo di vederli con uno sguardo diverso: usate queste righe come un’integrazione alla -diciamo così- visita canonica. Cominciamo da Campo de’ Fiori, oggi uno dei luoghi più conosciuti della città, meta turistica ma anche caotico luogo d’incontro di una certa tipoloVER SACRUM XI

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questa unita all’acqua. In alto, l’omaggio all’antica sapienza Egizia, alla Magia precristiana. La Fontana dei Fiumi è dunque solo uno delle migliaia di esempi di come gli artisti commissionati dalla Chiesa Cattolica (il Bernini, poi, era la voce dei Barberini…), nascondono sotto l’ortodossia dottrinale la coscienza di un Sapere atavico e immortale, transecolare, sapere di cui l’alta gerarchia ecclesiale è stata ed è cosciente: è la criminale malafede che lo nasconde ai più. Muoviamoci da Piazza Navona, attraversiamo Corso Rinascimento e, costeggiando Palazzo Madama e la Chiesa di S. Luigi dei Francesi, arriviamo al Pantheon, il Tempio di Tutti gli Dei. Siamo davanti al sommo esempio della tolleranza religiosa dei romani, che dedicarono questa magnifica architettura, arrivata a noi integra nel rifacimento voluto da Adriano nella prima metà del II sec.d.C., a tutte le divinità della terra (e per questo ritenuto dalle credenze cristiane medievali luogo d’incontro dei demoni, dei “satanassi”). Duecento metri più avanti, invece, l’opposto: la chiesa di Santa Maria sopra Minerva, chiesa madre dell’ordine Domenicano, costruita sopra il tempio di Minerva Calcidica e sede del tribunale dell’Inquisizione, dove si condannava alla tortura e alla morte la non ortodossia del pensiero. All’interno, fra le altre cose, il monumento funerario di papa Paolo IV Carafa, terrore della Roma cinquecentesca, l’unico papa la cui morte sia stata festeggiata dalla città. Torniamo adesso su Corso Vittorio Emanuele e seguiamone il percorso, che è poi quello dell’Euripus, il canale artificiale che portava l’acqua che defluiva dalle Terme di Agrippa fino al Tevere, zeppo d’opere d’arte, presso le cui rive si ritrovavano a discutere poeti e filosofi: ad un certo punto, sulla sinistra, la splendida mole della chiesa di S. Andrea della Valle, che prenderemo come rappresentante di tutte le violente architetture della furia mistica della Controriforma. Sulla destra, di nuovo su Corso Rinascimento, siamo vicinissimi ad un altro monumento alchemico di stupefacente importanza: la chiesa di S. Ivo alla Sapienza, di Francesco Borromini, inno ai gradi iniziatici massonici (la massoneria quella vera, antica, sapienziale…), con la sua incredibile guglia elicoidale. A voi il piacere di scoprirla, ammiccante al fondo del cortile del Palazzo della Sapienza. Ancora su Corso Vittorio, duecento metri sulla destra dopo S. Andrea della Valle, un’altra architettura borrominiana, le superfici implose dell’Oratorio dei Filippini, e poi prima di sboccare sul lungotevere giriamo a sinistra, in Via

Giulia. Siamo di fronte ad un altro episodio urbanisticoarchitettonico d a togliere il fiato, un angolo di rinascimento fiorentino a Roma (Via Giulia era il quartiere di rappresentanza della comunità fiorentina a Roma… leggete il nome delle vie adiacenti), ma il luogo che interessa a noi è la chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte. Sorta nel 1538 per iniziativa dell’omonima arciconfraternita, dedita alla sepoltura dei cadaveri anonimi rinvenuti nella campagna romana, ha assunto le attuali forme dopo l’intervento di Ferdinando Fuga fra il 1734 e il 1737; sulla facciata i teschi che costituiscono i capitelli delle colonne alludono alla funzione della chiesa, ma a noi interessa soprattutto il sotterraneo cui si accede dall’altare maggiore. Qui è ciò che rimane del cimitero dell’arciconfraternita, che una volta si estendeva sulle rive del Tevere e che fu quasi completamente distrutto nel 1886 per la costruzione dei muraglioni sul fiume; pur nelle ridotte dimensioni attuali costituisce una straordinaria creazione d’arte, con le sue decorazioni, sculture e lampadari, costituite da ossa e scheletri che partecipano, a loro modo, dello stile rococò dell’epoca, al quale pare non sfuggire neppure questo potente memento mori. Cosa che non accade invece, ad esempio, nel più famoso ossario dei Cappuccini in via Veneto, dove è assente ogni intento “artistico” e si tende alla violenta emozione suscitata dalla quantità dei resti umani esposti. Ma chi fra le frotte dei vacanzieri giubilanti, oggi, riconoscerebbe come suo questo sublime gusto del macabro? Ma ora risaliamo nuovamente via Giulia e fermiamoci là dove essa si slarga per sboccare in Corso Vittorio; è Piazza dell’Oro. Sotto, a noi invisibile, c’è un’enorme grotta da cui in antico fuoriuscivano vapori solforosi: è il Tarentum, l’ingresso agli inferi, presso cui si svolgevano ogni cent’anni i ludi saeculares, riti per propi17

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ziarsi le forze ctonie infernali (per i quali Orazio compose il Carmen Saeculare). La bocca dell’inferno venne fatta chiudere in seguito dai cristiani e inondata d’acqua benedetta; ma provate a tendere l’orecchio in certe notti, quanto il rumore del traffico lo permette… Andiamo ora nei pressi del Colosseo, dietro ad esso, in via di S. Giovanni in Laterano ed entriamo nella chiesa di S. Clemente. Entriamo e scendiamo sotto: incontriamo la chiesa altomedievale, poi quella paleocristiana, e poi -accompagnati dal suono di un corso d’acqua che scorre lì da sempre, a scendere verso la valle del Colosseo- all’interno di una casa del III sec. d.C., troviamo uno dei tanti templi di Mithra (Mithraeum) che il ventre di Roma ci ha restituito. Il mitraismo è una religione di origine mediorientale-siriaca che ha il vertice della sua diffusione a Roma fra il II e il III sec. d.C. e che in seguito viene cancellata dal cristianesimo (quello costantiniano, istituzionalizzato) con il quale ha una serie impressionante di somiglianze e punti in comune. Vale la pena, per capire ciò che vedremo, di riassumere il mito: Mithra, dio giovane e bello, come luce esce dalla volta solida del cielo (invictus de petra natus).Una pietra generatrice lo aveva partorito sulle sponde di un fiume, nei pressi di un albero sacro. Alcuni pastori assistettero alla nascita miracolosa: lo videro affiorare dalla roccia completamente nudo, armato di un coltello, con in mano la fiaccola ed in testa un berretto frigio, e decisero di dargli un riparo, offrendogli doni e venerandolo. Dalla nascita Mitra inizia la sua lotta tesa a soggiogare il male del cosmo. Egli affronta dapprima il Sole che, sconfitto, gli concede la corona raggiata che da allora diviene il suo attributo. Un giorno Mithra cattura un toro selvaggio e lo conduce nella sua caverna attraverso un percorso irto di ostacoli. Il toro però riesce a fuggire, ma viene avvistato dal Sole che invia a Mithra, tramite il suo messo il Corvo, l’ordine di ucciderlo. Il dio, suo malgrado, obbedisce all’ordine. Si mette sulle tracce del toro e grazie all’aiuto del suo fedele amico il Cane, mentre questo sta per ripararsi nella caverna dalla quale era fuggito, lo afferra per le frogie e gli pianta un coltello nel fianco. Miracolosamente, dal corpo del toro moribondo nascono tutte le piante salutari che si diffondono sulla terra, dal midollo scaturisce il grano, dal sangue la vita. Ahriman, dio del male, non sopporta questa profusione di vita, e allora invia i suoi malvagi condottieri -lo Scorpione ed il Serpente- a contrastare la dispersione di tutti questi elementi vitali. Ma è inutile: essi non riescono a impedire che il seme del toro VER SACRUM XI

si disperda; in tal modo, purificato, esso può ascendere alla Luna e dare origine a tutte le specie di animali utili. Mithra (a 33 anni) ed il Sole suggellano la vittoria con un pasto, poi salgono sulla quadriga del Sol Invictus verso il cielo, da dove Mithra -nei secoli dei secoli- continuerà a proteggere i suoi fedeli: chi crederà in lui, e salirà i diversi gradini dei sui Mysteria, avrà con lui la vita eterna. Da questo breve sunto delle complesse vicende mitiche mitriache sono ben evidenti le analogie con il cristianesimo: Mithra nasce da un oggetto sterile o vergine, Mithra diffonde la vita ed indica la strada (ego sum via et veritas et vita.. dice Cristo), la purificazione prevede un sacrificio di sangue (animale qui, ma l’agnus dei cos’altro è?), il dio ascende al Cielo a 33 anni, il dio dal cielo per sempre guida i suoi fedeli (sarò con voi fino alla fine dei tempi, dice Cristo), Mithra promette la vita eterna nel bene. Ed anche il rito aveva forti analogie con la missa cristiana: esso si svolgeva in piccoli locali appartati o seminterrati, spesso forniti di volte su cui erano applicate finte stalattiti in stucco che imitavano la spelonca-casa del dio, e consisteva nella comunione del pane (frutto del sangue e del midollo spinale del toro) fra gli iniziati (pochi, al massimo una ventina e tutti uomini) sdraiati su banconi (praesepia). La cerimonia era basata sulla rievocazione del pasto fra Mithra e il Sol Invictus (coena), consumato intorno all’ambiente e sopra ognuno c’era un’apertura da cui filtrava la luce. La coena culminava con il sacrificio del Toro (tauroctonia o taurobolium), che avveniva da parte del Pater Patrum (Pa-Pa, vi dice nulla?) una volta scoperta l’icona del dio, dipinta o scolpita: il sacrificio aveva luogo in un ambiente superiore dal quale il sangue colava dai fori insieme alla luce a bagnare i partecipanti (fossa sanguinis). E di tutto questo cosa vediamo a S. Clemente? Vediamo, integra, la spelunca con le sue finte stallattiti, i banconi per il pasto (i praesepia per il pasto), i fori per il sangue e la luce (12, come i segni zodiacali… e gli apostoli), e l’altare con scolpita l’icona del dio in atto di uccidere il toro. E laddove il Serpente succhia il sangue del toro sarebbe possibile, se ci si potesse avvicinare, leggere un nome: Goethe. E che dire della continuità ideologica, ma anche fisica (chiese su mitrei) fra mitraismo e cristianesimo? Che dire del fatto che la basilica di S. Pietro sorge sì sulla tomba del primo papa, ma anche nel luogo che vedeva il più grande Mitreo di Roma, sorto sotto Antonino Pio, dove si svolgevano i taurabolia in onore dell’Augustus? Usciamo allora, storditi, da S. Clemente e camminando in mezzo ad un traffico cui pare essere disabi18


tuati da secoli, arriviamo alla non lontana piazza Vittorio Emanuele. E qui, in un colorato quartiere multientico, a due passi dalla stazione Termini, constantemente in bilico fra vita e degrado, all’interno dei giardini della piazza c’è un manufatto che forse da solo potrebbe giustificare un viaggio a Roma: la Porta Magica, a fianco del grande ninfeo romano chiamato i Trofei di Mario. Si tratta della cornice (frontone, architrave, stipiti e soglia) di una porta che stava, alla metà del seicento, all’interno della villa monumentale di Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte, uomo di raffinate letture, studioso di filosofie classiche ed amante delle scienze occulte. La porta era probabilmente l’ingresso del laboratorio di alchimia annesso alla dimora del marchese e si tratta dell’unico esempio a noi giunto (e finalmente degnamente restaurato) di testo alchemico scolpito sulla pietra. Simboli, frasi in ebraico ed in latino si susseguono a comporre formule ed enigmi che, variamente interpretati, indicano la via per il raggiungimento dell’oro filosofale e per la salvezza del mondo che, secondo l’autorità di Ermete Trismegisto, segnalano la vera missione dell’occultista (cosi è scolpito sulla soglia, il limen, il limite fra questo mondo e un altro (?): Est opus occultum ver Sophi aperire terram ut germinet salutem pro populo: “e’ opera occulta del vero Sapiente aprire la terra affinchè generi salvezza per il proprio popolo”). E fra le altre frasi, che starà a voi leggere ed interpretare: “Quando nella tua casa neri corvi partoriranno bianche colombe, allora sarai chiamato sapiente”, “Chi sa bruciare con l’acqua e lavare col fuoco fa cielo della terra e del cielo cosa preziosa”… Adesso prendiamo la metro a piazza Vittorio e dopo 10 minuti scendiamo al Circo Massimo: di lì in poco tempo raggiungeremo l’Aventino. In età romana luogo di dimore patrizie e di culti rari e ricercati (come quello di Iovis Dolichenus), dall’Ottocento residenza di famiglie altoborghesi, a noi interessa nella fisionomia che gli diede nel XVIII sec. Giovanbattista Piranesi. Il grande artista ricevette l’incarico dall’ordine dei Cavalieri di Malta di adattare l’Aventino a luogo di culto, riflessione e preghiera. Piranesi era uno studioso di esoterismo ed alchimia,

iniziato massonico ed era innamorato dell’Ordine dei Templari: così, alla faccia dei cattolicissimi e ortodossisimi Cavalieri di Malta, organizzò tutto il colle in modo che si potesse leggerlo come una nave dei Cavalieri Templari. La parte meridionale del colle digradante fino al Tevere, a forma di V, costituisce la prua della nave, mentre la porta d’ingresso al complesso di Santa Maria al Priorato è l’entrata al cassero del veliero. I labirinti dei giardini simboleggiano l’intrico delle funi del sartiame, mentre i parapetti del parco della chiesa sono gli spalti della tolda e gli obelischi su Largo Santa Susanna sono gli alberi di questa imbarcazione metafisica e reale insieme. Gli obelischi stessi presentano i simboli della tradizione templare, e se sovrapposti raggiungerebbero l’altezza di 33 metri e 33 centimetri, le dimensioni del tempio sacro ai templari. Poi la Fortuna, presente sul retro di alcune monete coniate dai templari, appare sulla facciata della chiesa di S. Maria. Inoltre in antico il Mons Aventinus era chiamato anche Mons Serpentarius, animali che nel pensiero magico rappresentano l’oscura energia del mondo: ed i serpenti appaiono 33 volte nei fregi della facciata di S. Maria (33, il numero sacro ai templari, gli anni di Cristo, ma anche il grado che Piranesi occupava nell’iniziazione esoterico massonico templare). E la rotta di questa immane nave? Nulla di più facile da scoprirsi: mettete l’occhio nella toppa del portale del complesso di S. Maria al Priorato e inquadrerete perfettamente, a tutto campo, la Cupola di San Pietro, la Nuova Gerusalemme simbolo della Gerusalemme Celeste. A questo punto sarete esausti, ma vi si richiede uno sforzo in più per chiudere degnamente il vostro “grand tour” di Roma. Verso sera, quando la magica luce dorata invade il cielo, andate sul Gianicolo (magari fatevici portare da un taxi); andate e guardate. Sotto avrete Trastevere, poi il Tevere e più in là con un magico unico colpo d’occhio a volo d’uccello, tutti i luoghi che avete visto nella giornata, non troppo lontani per perdere i dettagli nè troppo vicini da vedere esseri umani o sentire rumori. Forse vi commuoverete per questo Miracolo Sommo.

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Il romanzo alchemico-rosacrociano inglese al periodo dei grandi R isale romanzi gotici inglesi, cioè alla

finalità buone o empie, lo manovra come un fantoccio. Questi elementi vengono trasportati nel romanzo inglese che però tende ad evolvere rispetto all’originale e a diventare soprattutto un romanzo di iniziazione mistica e di evoluzione spirituale. E’ William Godwin (padre di Mary Shelley), a inaugurare il filone alchemico-rosacrociano nel 1799, in piena età del gotico, dando alle stampe, dopo il suo capolavoro Caleb Williams del 1794, St. Leon, un romanzo che tratta per primo il tema del rinnovamento perpetuo del ciclo vitale, che era notevolmente diffuso nella letteratura massonica tedesca. L’interesse per il problema della vita eterna ha fatto meritare a questo libro da parte del Punter, ottimo studioso della narrativa del terrore, la definizione di “gotico metafisico”. La narrazione vede al centro un alchimista, Francesco Zampieri, seguace delle teorie rosacrociane, conoscitore del segreto della pietra filosofale, che chiede ospitalità al protagonista St. Leon e decide di farne il suo successore e di affidargli tutti i suoi poteri soprannaturali. Una forza magnetica attrae St. Leon verso lo straniero, la sua brama di conoscenza lo porta ad accettare l’infausto dono della pietra filosofale, ma come Faust subirà un’amara sconfitta. Un tragico destino lo attende: la sua improvvisa ricchezza genera sospetti, dovunque vada viene accusato e condannato, finisce anche per cadere nelle braccia dell’Inquisizione spagnola (tema tipico del gotico inglese) che lo tortura per strappargli il segreto dei suoi poteri, ma riesce a fuggire e stremato ricorre all’elisir di lunga vita, che gli ridà aspetto e vigore di un ventenne e desiderio di una nuova esistenza. Va perciò in Ungheria con il progetto utopico di usare i suoi soldi per riscattare la gente dalla miseria e superstizione (si tratta del tipico sogno filantropico e riformatore dei Rosacroce) (1), ma alla fine il sospetto della gente per questo straniero dagli strani poteri lo porta di nuovo a essere rinchiuso (nei sotterranei

fine ‘700 - inizi ‘800, anche la stagione del romanzo alchemico-rosacrociano inglese, che raggiunge però la piena maturità nei successivi anni del romanticismo, verso la metà dell’800, grazie al capolavoro dello scrittore Eduard Bulwer-Lytton Zanoni. Il romanzo alchemico-rosacrociano condivide molti elementi con quello gotico: l’ambientazione per lo più italiana, la predilezione per oscuri manieri medievali e per paesaggi selvaggi e inospitali, la presenza di un villain (personaggio malvagio/demoniaco), preferibilmente italiano anch’esso, i temi della persecuzione e della fuga errabonda, lo stile grandioso e magniloquente, il gusto dell’esagerazione nella descrizione sia dei paesaggi che degli stati d’animo. Anche qui i personaggi si muovono in un mondo fatto di pericoli, di trucchi e tranelli, di esseri mostruosi che li inseguono, di terrore e di malvagità. Ciò che però caratterizza in modo particolare queste opere è la loro forte componente esoterica, pur presente in molti romanzi gotici classici, dal Monk di Lewis a Melmoth the Wanderer di Maturin, ma che qui risulta non un tema secondario, bensì quello fondamentale e portante. Nei romanzi alchemico-rosacrociani infatti l’attenzione è posta soprattutto sul possesso della pietra filosofale o dell’elixir vitae e i protagonisti sono spesso figure faustiane pronte a barattare la loro anima in cambio dell’immortalità. L’ispirazione principale per questo tipo di letteratura viene dalla Germania dove in età preromantica si era ampiamente diffuso il romanzo massonico (cfr. il Visionario di Schiller) che poneva al centro del racconto il tema delle società segrete (dei Rosacroce, degli Illuminati, dei Franco-Massoni). In queste opere gli eventi in cui è coinvolto il protagonista sono determinati dall’esistenza di un’associazione segreta, mistica, religiosa, politica, che, con VER SACRUM XI

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di un castello gotico), per trovare infine la salvezza nella rinuncia completa ai propri poteri soprannaturali e nell’accettazione della vita normale con la propria famiglia. Ricorrono in questo romanzo molti temi tipici del romanzo alchemico-rosacrociano che ritorneranno soprattutto in Buwler Lytton: la figura dell’iniziato che conosce tutte le arti e le scienze, che possiede i segreti dell’alchimia e l’elisir dell’eterna giovinezza, ma deve tenere uno stretto riserbo sulla propria identità di mago rosacrociano (la sesta regola della Rosacroce prevede che gli iniziati non possano rivelare i loro segreti per 100 anni), che vive isolato in un mondo che non lo capisce e lo guarda con paura e sospetto, che rinuncia ai propri poteri e sceglie l’affetto familiare come unica soluzione per la conquista della vera felicità. Il motivo centrale del romanzo, il patto tra l’eroe e lo straniero errante in possesso dell’Elisir di lunga vita, ritorna in un’opera giovanile di Shelley, St. Irvyne, the Rosicrucian, (1810) che vede come villain protagonista l’alchimista Ginotti (sempre un italiano!). Simile al misterioso vegliardo incontrato da St. Leon, Ginotti vuole trasmettere il suo segreto connesso alla pietra filosofale a una persona particolarmente degna e la scelta cade su Wolfstein, un giovane di nobili origini che diventa il successore, depositario di sovrannaturali e segreti poteri dell’affiliato rosacrociano. Anche Ginotti come Zampieri ha uno sguardo penetrante e disumano che lascia intravvedere il profondo abisso della sua anima, ma ancor più è la perfetta incarnazione dell’Ebreo errante (2) (cfr. il romanzo gotico Melmoth the Wanderer). Ginotti da perfetto iniziato rosacrociano è superiore alla dimensione umana dei sentimenti e dell’amore. Appassionato culture di scienza sperimentale crede nella sola religione della materia, nell’energia cosmica che anima la natura, che ricrea sempre se stessa, dunque imperitura. La sola meta della sua vita è la conoscenza assoluta della filosofia della natura, vissuta nella più totale solitudine. Ginotti in passato aveva fatto un veneficio su un compagno di studi, causandone la morte, allo scopo di studiare dal vero la terrificante sintomatologia del veleno con appassionata curiosità: è dunque un avvelenatore in nome della scienza sperimentale (cfr. i physician extraordinary della narrativa gotica americana). Egli, al contrario degli altri personaggi rosacrociani, sempre tesi verso il bene, è un manipolatore di veleni (forse Shelley si rifà al passo di Fludd che riporta l’opinione che i rosacrociani praticassero non solo la Magia Naturale ma anche la Magia Venefica) e diventa così

Jean Delville: Orfeo, 1893

il rappresentante di quella vena satanica che contaminò il movimento rosacrociano, al quale appartennero pseudoscienziati degenerati, che usavano quelle parti della Cabala collegata alla magia necromantica e venefica per rivoltare le loro conoscenze scientifiche in scopi di morte. C’è dunque una connessione con il filone ebraico-cabalistico che spiegherebbe anche l’innesto della leggenda dell’ebreo errante su tematiche alchemiche. Ginotti sfida il decreto divino che assegna all’uomo la morte come invalicabile limite e vagheggia per sé un indefinito prolungamento della vita che gli viene concesso per un patto diabolico con il principe del male. Ma in realtà ciò si trasformerà nella sua condanna: a causa del fallimento del progetto di designare Wolfstein come suo successore, secondo la legge del contrappasso, egli sarà costretto a un ciclo infinito di morti rovinose e spaventose rinascite, a un’alternanza di materializzazioni e dematerializzazioni, “prigioniero nell’eterno ritorno di una morte ciclica, condannato al non essere metafisico dalla sua miope fede nell’esperienza empirica simboleggiata dall’elisir alchemico” (A. Palumbo). Non solo Shelley, ma anche la moglie Mary fu affascinata dal mito dell’immortalità attribuito ai Rosacroce, e se ne può trovare traccia sia nel suo famosissimo romanzo Frankenstein (1818) (3), dove lo scienziato omonimo sconfigge la morte attraverso esperimenti a metà tra lo scientifico e il magico, sia nel racconto The Mortal Immortal (1833) basato sulla leggenda dell’elisir di lunga vita. Bulwer-Lytton, uomo politico, appassionato di storia e archeologia, scrittore prevalentemente di romanzi storici (il più famoso è Gli Ultimi giorni di Pompei), aveva da giovane subito l’influenza delle opere gotiche della Radcliffe e del “maestro” William Godwin. Successivamente si era dedicato agli studi sull’esoterismo, diventando un appassionato di occultismo (4), tanto da essere promotore nel 21

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1865 di una “Societas Rosicruciana in Anglia”. possibilità di tramutarsi in salamandra e attraversare Questo interesse gli ispirò i romanzi Zanoni (1842) il fuoco. e A strange story (1862) e il racconto The Haunted Le loro esistenze sono profondamente differenti: and the Haunters (1859). Le due opere più tarde Zanoni è un personaggio dal fascino carismatico e trattano entrambe il tema del soprannaturale e medianico, ma vive in una condizione tragica di isosoprattutto A strange story è interessante perché si lamento dal mondo che gli causa angoscia esistenziafonda sul tema del mesmerismo, tentativo di prolun- le (per questo identificabile con la figura archetipa gamento indefinito della vita (cfr. Lo strano caso del dell’ebreo errante), mentre Mejnour è un vecchio Dottor Valdemar di E.A. Poe), e sui fenomeni di tipo asceta che vive in beato isolamento e in uno stato di paranormale, che erano molto in auge nella società quiete assoluto, senza desideri o passioni, senza coinbene dell’Inghilterra del tempo. Ma è Zanoni il suo volgimento nella realtà. Figura importante del romanzo esoterico più importante, che riprende e romanzo è anche Viola, che con la sua voce e la sua sviluppa quel filone alchemico-rosacrociano a cui bellezza incanta Zanoni e lo fa innamorare. Viola è Godwin aveva dato iniuna tipica figura femmizio, riportandolo all’orinile ottocentesca, angelo ginario idealismo metafidel focolare ed eterna sico che è alla base della tentazione per l’uomo, leggenda dei Rosacroce. insieme Madonna e sireSi tratta infatti di una na incantatrice che tutti metaphisical novel (5) che gli uomini vorrebbero mescola politica ed esoconquistare. Zanoni vorterismo, in cui si fondorebbe rinunciare no l’utopia giacobina all’amore e alla sofferendella rivoluzione francese za che ne consegue e il vagheggiamento rosafacendola sposare a crociano di una prossima Glyndon, un giovane instaurazione del regno pittore inglese appassiodi Dio in terra. Nel nato e un po’ scapestraromanzo gli avvenimenti to, ma costui viene politici e storici si svolsedotto dalla misteriosa gono in Francia, paese aura alchemica che del razionalismo, mentre emana dal rivale. Decide la vicenda fantastica, così di voler essere iniziaimmaginaria, si svolge in to ai suoi segreti, di esseItalia, soprattutto a re affiliato ai Rosacroce, Napoli, dove lo straordicome fece un suo antico Jean Delville: Parsifal, 1894 nario era di casa. Il avo, e di rinunciare romanzo vede al centro due figure di immortali, all’amore per seguire questo unico scopo. Zanoni Zanoni e Mejnour, discendenti dei Caldei e ultimi invece sceglie l’amore e così perde il controllo sulla sopravvissuti della gloriosa Confraternita dei sua mente e sui suoi poteri medianici, perde la capaRosacroce, gli unici a conoscere i segreti cità di controllare gli spettri delle tenebre, quelle lardell’Universo, in vita da più di cinquemila anni. vae che volteggiano dinanzi agli occhi di chi beve Essi, dopo aver superato una serie di difficilissime l’elisir, esseri istintivi e mortali, intermediari fra prove iniziatiche, hanno purificato il loro animo, mondo psichico e materiale. Tra le larvae c’è un raggiunto la forza suprema e attraverso l’elixir vitae demone più maligno degli altri ed è proprio quello hanno conseguito l’invulnerabilità alle malattie e il che dovrà imparare a esorcizzare Glyndon, una volta controllo sul calore, fonte di rinnovamento perpe- fallite, per eccesso di curiosità, le prove dell’iniziaziotuo. Zanoni inoltre è anche un taumaturgo, un ne. Egli infatti trasgredisce i tabù, beve l’elixir vitae mago guaritore, che conosce i segreti delle erbe senza aver raggiunto la necessaria disciplina ascetica (l’alchimia verde) e tutte le scienze e le lingue del e si vede comparire dinanzi il temibile Guardiano mondo, ed è in possesso di poteri straordinari, tra della Soglia, livida ombra spettrale che non riesce a cui il dono dell’ubiquità, la lettura del pensiero, la dominare, diventandone schiavo. Anche Zanoni VER SACRUM XI

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di Gioacchino da Fiore che profetizzava una futura società perfetta senza povertà né dolore. (2) La leggenda dell’ebreo errante narra di un ebreo che schernì Gesù esortandolo ad affrettarsi verso il Calvario e per castigo fu condannato ad errare fino al giorno del giudizio, senza potersi fermare in nessun luogo. Egli ha il dono di apparire e sparire senza lasciare traccia, vede ciò che per l’uomo è invisibile, legge negli animi delle persone e l’avvenire per lui non ha segreti. (3) Il nome Frankenstein deriva dal castello di Frankenstein, dimora del rosacroce e alchimista Johann Konrad Dippel, che nel 1773 diceva di poter prolungare la sua vita fino a centotrentacinque anni. (4) Secondo alcuni biografi era stato iniziato alla Confraternita dei Rosacroce durante uno dei suoi primi viaggi all’estero; invece secondo Christopher McIntosch, autore di The Rosy Cross Unveiled (1980) il primo contatto con la setta sarebbe avvenuto casualmente in una vecchia libreria esoterica del Covent Garden di Londra, esattemente come egli descrive nella prefazione di Zanoni. (5) Il termine metaphisical novel, coniato dallo stesso scrittore, indicava un romanzo in cui una vicenda allegorica coesisteva con una trama realistica. (6) I Caldei godevano di grande prestigio presso greci e romani per le loro scoperte nel campo dell’astronomia e dell’astrologia. Secondo la tradizione i sacerdoti dei Caldei erano in grado di comunicare direttamente con il divino attraverso una serie di rituali magici.

però è ormai soggiogato dalle tenebre, dall’elemento terrestre e l’unico riscatto per la sua anima può consistere solo nel sacrificio della stessa vita. Sarà così proprio attraverso il martirio della gigliottina che egli raggiungerà la suprema sfera celeste e la vera immortalità. Bulwer Lytton dà in Zanoni un giudizio estremamente critico dell’esperienza esoterica, constatato che il sentiero dell’iniziazione è segnato orribilmente dal numero di vittime che lascia sul suo terreno, e che in essa prevale l’ideologia del vagheggiamento di una stirpe di “transumanati”, cioè di esseri non più umani, votati esclusivamente alla conoscenza e al dominio assoluto sulla natura. Egli è sì un iniziato e vagheggia perciò il perseguimento della conoscenza sapienzale occulta degli antichi Caldei (6), ma condanna il fervore esoterico che dispensa formule di felicità universale e immortalità come traguardo finale. Trova così spiegazione anche il finale del romanzo: la vita eterna si acquista non con l’ascesi e il distacco dal mondo, ma con l’umana partecipazione, con il coinvolgimento negli affetti terreni e con il totale sacrificio dell’io. E’ morendo che Zanoni vive per sempre, mentre Mejnour, immortale in vita, è destinato solo ad una infinita non-morte. Zanoni di Bulwer Lytton ha avuto nel corso del tempo un notevole numero di estimatori, tra cui è da ricordare Oscar Wilde, che nel suo Il ritratto di Dorian Gray ne riprende alcune tematiche (il segreto della longevità, l’amore per un’artista che porterà alla morte) e Marguerite Yourcenar che ne L’opera al nero mette al centro un personaggio, Zenone, ispirato a Paracelso, pittosto simile a quello di Zanoni. Ma il romanzo ha avuto soprattutto una forte influenza esoterica ed ha svolto un ruolo base per la nascita della moderna filosofia teosofica. Elena Petrovna Blavatskij autrice di Iside svelata (1871) e La dottrina segreta (1888) e fondatrice della Società Teosofica (1875) riconobbe solo parzialmente l’enorme debito che aveva nei confronti di Bulwer Lytton, ma affermò comunque che nessun altro autore aveva mai fornito una più poetica e veritiera descrizione degli esseri astrali.

Mircalla Note: (1) Il manifesto dei Rosacroce si proponeva di ristabilire l’uguaglianza primitiva ed estendere la prosperità materiale abolendo ogni potere, ogni teocrazia, in un mondo in cui ogni malattia sarebbe stata curata e la vita umana indefinitamente prolungata. Esso riprendeva alcune tesi del Vangelo Aperto

Jean Delville: L’amore delle anime, 1900

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La Confraternita della Rosacroce L

anche una spiegazione alchemica: dal latino ros, rugiada, e crux, croce, indicherebbe il geroglifico alchemico della luce. L’affiliato rosacrociano sarebbe perciò colui che cerca la luce, ovvero la pietra filosofale. Sebbene l’Ordine dei Rosacroce non fu mai menzionato prima del ‘600, alcuni studiosi del tempo ne facevano risalire l’esistenza al regno del faraone Tholmes III (1500 a.C.), altri invece ai caldei o agli esseni; molti sono i punti in comune anche con l’antica scuola del neoplatonismo alessandrino. I Rosacrociani sarebbero pertanto i guardiani della tradizione esoterica, coloro che operano la magia bianca: esperti erbalisti, medici del corpo e dell’anima, conoscerebbero tutte le lingue, leggerebbero nel pensiero, si renderebbero invisibili, insomma avrebbero pienamente realizzato lo stato di perfezione edenica di Adamo prima della caduta. In realtà non esistono prove certe dell’esistenza della Rosacroce e anzi è probabile che la Confraternita non sia mai concretamente esistita, e che si sia trattato solo di un “complotto di saggi”, ma certo le idee in essa divulgate hanno fortemente influenzato lo spirito dell’epoca. Secondo G. De Turris tutto lascia pensare che i Rosacroce non costituirono mai una organizzazione materiale “impegnata” sul piano politico, e pertanto suscettibile di essere individuata e colpita, e che essi restarono effettivamente invisibili, di là dal mito che li prese a soggetto (erano chiamati anche “Il consesso degli Invisibili”). La loro utopia di una riforma politica e spirituale morì con la guerra dei Trentanni (cfr. la battaglia della Montagna bianca presso Praga l’8/11/1620 che segnò la sconfitta del movimento che accoglieva le istanze rosacrociane). I loro obiettivi però si perpetuarono in un fortunato movimento di pensiero, che fece da trait d’union tra il fervore magico-naturalistico del rinascimento e l’illuminismo del XVIII secolo e che fondò e trasmise nei secoli un mito, quello della misteriosa Confraternita, che riallacciandosi ad una tradizione esoterica (l’alchimia) e religiosa (il vangelo universale) prospettava una via di realizzazione interiore. Nel corso di quattro secoli in molti si sono indebitamente appropriati del nome della Rosacroce, ma il mito, in apparenza distrutto dal razionalismo dell’epoca dei lumi, nonostante tutto è sopravvissuto …

a Confraternita della Rosacroce nasce in Germania nel 1614, anno in cui a Kassel viene pubblicato uno scritto anonimo intitolato Fama Fraternitatis (Rosae Crucis); in esso si rivelava l’esistenza di una fratellanza esoterica fondata nel 1378 da Christian Rosenkreutz, che dopo aver viaggiato per lunghi anni in Egitto, dove aveva appreso la magia cabalistica, e in Oriente, a Damasco, dove era stato iniziato alla scienza esoterica, era tornato in Europa allo scopo di diffondere le straordinarie conoscenze acquisite e di riunire tutti i saggi in un unico grande progetto di riforme politiche e spirituali. I saggi dell’Ordine dovevano sottostare a sei regole base: curare senza compensi i malati, vestire secondo le usanze del proprio paese, incontrarsi una volta l’anno presso il Tempio del Santo Spirito, scegliere un proprio successore, adoperare le iniziali C.R. come contrassegno, mantenere segreta la fratellanza per cento anni. Il luogo di sepoltura di Rosenkreutz (vissuto fino a 106 anni) sarebbe rimasto sconosciuto per tre generazioni, allorché la sua tomba, scoperta nel Tempio stesso, fu aperta e il suo corpo trovato inalterato 120 anni dopo il decesso. A questa pubblicazione ne seguirono altre due: la Confessio fraternitatis del 1615, in cui si dichiarava che Occidente e Oriente erano condannati per la loro empietà e si insisteva sulla necessità di rinnovare la filosofia tradizionale e di attuare una riforma politico-religiosa e Le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz del 1616, un racconto allegorico sulla vita del fondatore dell’Ordine, dall’interpretazione alquanto ermetica e complessa, che sarebbe stato poi rinnegato dal suo autore, Johann Valentin Andreae, teologo e pastore luterano, per abbracciare in pieno il cristianesimo. La dottrina della Rosacroce riprende molti elementi dall’alchimia, dalla gnosi, dalla teosofia e dalla cabala e i suoi principi base sono la ricerca di un metodo che permetta di acquisire la conoscenza, il superamento di se stessi e un miglioramento della condizione umana. La Confraternita si ricollega a una tradizione iniziatica basata sui simboli della rosa e della croce, utilizzati in molte civiltà, anche precristiane. E’ noto che per gli egizi la croce era il simbolo dell’immortalità e la rosa quello del segreto. Il termine “rosacroce” potrebbe quindi essere interpretato come “il segreto dell’immortalità”. Ma c’è VER SACRUM XI

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L’estetica della Rosa + Croce e il Simbolismo belga Nel primo “Salon Rose + Croix” del 1892 è proprio la bellezza femminile a dare forma all’estetica rosacrociana. La femmina è perversione, come indica il famoso quadro di Delville L’idolo della perversità (che rappresenta una donna nuda, sensuale e provocante): essa è un pericolo per l’integrità morale dell’uomo e come tale va combattuta. Questo quadro incarna «il tipo femminile da cui fuggire, la maga tentatrice che conosce il peccato e sa offrirlo come la più languida delle delizie. E’ rifiutando le lusinghe di queste “femmes fatales” che si forgiano uomini puri alla Parsifal, i soli che possano attingere ai segreti del Graal» (4). Il pericolo rappresentato dalla donna viene superato nell’estetica rosacrociana proprio attraverso la raffigurazione di eroi maschili “puri”, da prendere come esempio di elevazione spirituale. Parsifal è appunto uno di questi personaggi mitici: Delville nel 1890 lo rappresenta come il cavaliere senza macchia che lotta per trovare il calice del Santo Graal, contenente il sangue di Cristo e ne inquadra solo la testa, illuminata da un’aureola abbagliante, mentre tutta la scena è avvolta da una luce astrale di emanazione divina. Anche la figura di Orfeo viene ripresa dall’estetica simbolista/rosacrociana: egli è l’eroe intermediario tra l’uomo e la divinità, che ha compiuto un cammino iniziatico scendendo agli inferi e poi si è sublimato in una morte mistica, rigeneratrice di vita (cfr. i due quadri del 1893 Orfeo agli Inferi e La morte di Orfeo). Nel 1907 Delville rielabora il mito di un altro eroe classico: Prometeo (cfr. la trilogia teatrale Prométhéide di Péladan del 1905). Non raffigura però l’eroe mentre ruba il fuoco o quando per punizione viene divorato da un’aquila, bensì mentre «si libra nell’aria, col sole che forma un’aureola intorno al suo corpo, mentre sotto di lui l’umanità implora il dono della conoscenza, della verità; egli è il padrone degli iniziati che possiede Jean Delville: L’idolo della perversità, 1891

lla fine dell’800, in piena epoca di fervore spiritualistico e di rinascita d’interesse per l’esoterismo e l’occultismo, si colloca anche il revival della setta mistica dei Rosacroce. Nel 1885 nasce in Francia “l’Ordre Kabbalistique de Rose + Croix” fondato da Stanislas de Guaita, formato da un consiglio supremo di 12 membri, tra cui Adolphe Louis Constant, noto sotto lo pseudonimo di Eliphas Lévi, e Papus (nome occulto del medico Gérard Encausse), mago e guaritore di grande fama. Da questo gruppo si distacca nel 1888 Joséphin Péladan (1859-1918), artista e letterato (ha scritto diciannove romanzi, riuniti nel ciclo della Décadence latine, ethopée) che decide di diventare il portavoce di un nuovo movimento, artistico e filosofico al tempo stesso, e fonda così “l’Ordine Estetico dei Rosa + Croce del Tempio e del Graal”. Nei suoi testi programmatici, le Constitutiones Rosae Crucis Templi et Spiritus Sancti Ordinis, redatte nel 1887 e pubblicate nel 1893 e Salon de la Rose + Croix. Règle et Monitoire, edito nel 1891, coniuga arte ed esoterismo e dà il via una nuova estetica contemporanea. Egli unisce l’interesse del tempo per il simbolo alla magia e all’occultismo, cercando di fondere le idee razionalistiche occidentali con quelle spiritualistiche orientali. La manifestazione pubblica del pensiero dell’Ordine avviene in occasione dei “Salon Rose + Croix”, nei quali vengono esposte opere di artisti simbolisti, tra cui quelle dei belgi Jean Delville (1867-1953) e Fernand Khnopff (18581921) (1). Costoro si possono considerare come i due principali seguaci delle idee mistiche di Peladan, tanto da riuscire ad elaborare nel giro di pochi anni un vero e proprio linguaggio Rosa + Croce, capace di dare un’immagine estetica all’Ordine. Il simbolismo rosacrociano concepito da Péladan consiste nell’andare oltre il livello impressionistico della pura percezione e nell’esplorare il mondo del sogno e della psiche, alla ricerca dell’inconscio. Ma l’estetica rosacrociana rappresenta soprattutto il tentativo di costruire una vera e propria mistica della bellezza, basata su pochi elementi archetipi, che propugna il ritorno alle verità antiche, tradizionali, al mondo del mito fatto di dei ed eroi, di amore e morte, di arte e bellezza. Le radici sono nel mondo classico, nelle sue credenze orfiche e in quelle dottrine escatologiche che cercavano di dare un senso nuovo al destino degli uomini e dell’umanità. Inoltre l’Ordine estetico della Rosa + Croce fonde l’estetismo tipico della fin-desiècle con un deciso rigore mistico e una forte carica etica: Bellezza, Carità, Sottigliezza (“Beauté, Charité, Subtilité”) sono le parole d’ordine. Dura è la condanna nei confronti della passione sessuale troppo accesa e della donna, vista non come vittima del desiderio maschile, ma come causa prima del peccato dell’uomo.

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perché coniuga in sé razionalità e istintività. Khnopff ama le scene di seduzione alla rovescia, dove è la donna a possedere le caratteristiche maschili, anche nei lineamenti, marcati e volitivi, contro quelli delicati e fini del giovinetto, e proprio nell’unione di questi due esseri s’incarna l’amore perfetto, «sublimato e narcisista, in cui l’uno nell’altro non ama che se stesso» (4). L’altra opera di Khnopff fondamentale per l’estetica rosacrociana è I lock my door upon myself del 1891, presentata al secondo Salon Rose + Croix del 1893, che riprende il titolo di una poesia di Christina Rossetti. Vi è rappresentato il volto di una ragazza dai lunghi capelli rossi che guarda dalla tela, con alle spalle la testa in pietra di Hypsos, dio greco del sonno, fratello di Thanatos e padre di Morpheo. Il sonno è uno degli elementi tipici del simbolismo di Khnopff, perché chiude le porte della coscienza e apre quelle dell’inconscio, della memoria perduta, di lontane e arcaiche corrispondenze. Questa fanciulla non è più il simbolo dell’eros peccaminoso, ma solo il fantasma del desiderio, è sospesa in un limbo, dove non c’è più una precisa caratterizzazione sessuale. E’ una perfetta sfinge rosacrociana, dallo sguardo innocente, silenzioso, simbolo di un mistero, di un enigma antico, di un essere perfetto oramai perduto. Ed è proprio in questa rappresentazione ideale, al di là del sesso e del tempo, che l’estetica rosacrociana raggiunge l’acme della sua ricerca mistica.

la chiave dei dogmi e dei misteri, che libera l’uomo dall’ossessione della morte, accostandolo alla divinità» (5). Il sistema estetico-mistico di Péladan trova anche un’altra soluzione per neutralizzare il desiderio/paura del femminile: attraverso la rielaborazione del mito dell’androgino (Péladan scrive il romanzo L’Androgyne nel 1891 e lo studio De l’Androgyne nel 1910). Esso infatti è il simbolo dell’ambivalenza, di una sessualità primigenia pura, perfetta, rappresenta un terzo sesso, quello della spiritualità e dell’eternità; «l’androgino è un essere sublime, partecipe degli attributi dei due sessi, un’unità trascendente o, meglio, è la sfinge pagana, l’angelo dei cristiani» (5). Stranamente dal primo Salon Rose + Croix rimane esclusa proprio l’opera di Delville Tristano e Isotta (1887), che meglio di ogni altra è in linea con il mito dell’androgino di Péladan. In essa vengono rappresentati i corpi nudi di Isotta e Tristano sul punto di morire, che grazie alla potenza dell’amore si fondono in un unico essere, l’Androgino celeste. Isotta ha in mano un calice pieno di veleno che le darà la morte, ma che è anche il simbolo iniziatico del Graal, che le donerà una nuova vita e un più elevato livello di coscienza. La morte individuale dei due amanti consente così la nascita di una nuova identità che li unifica e li supera al tempo stesso. Più ancora che in Delville è però in Khnopff che Péladan trova l’artista ufficiale della sua estetica rosacrociana. Si conoscono nel 1885 e iniziano una fruttuosa collaborazione (Khnopff disegna le copertine di quattro romanzi di Péladan) che sarà fondamentale per la nascita dell’Ordine estetico. Khnopff è un pittore visionario e in lui il simbolismo si fa più enigmatico che in Delville; egli riduce l’Idea all’essenziale, privandola di orpelli e decorazioni, per evidenziarne meglio il valore esoterico. Il suo simbolismo è riservato agli iniziati, a coloro che vanno alla ricerca di quell’ascesa mistica che sta alla base di tutto il pensiero rosacrociano. Uomini femminei e donne androgine ben simboleggiano l’arte di Khnopff: la sua opera più nota, La Sfinge o Le carezze del 1896 mostra una donna dal corpo di leopardo che accarezza un giovinetto ermafrodita con in mano uno scettro che termina in due ali, simbolo rosacrociano. La donna-leopardo è una tentatrice, che lusinga il giovane con i piaceri dell’eros, ma è anche una sfinge, essere mostruoso, ambiguo, dalla forte carica simbolica,

Mircalla Note: (1) Tra i 70 artisti esposti vanno ricordati Jan Toorop, Felix Vallotton, Gaetano Previati, Hubert de la Rochefoucault. Durante il Salon, che ebbe la durata di circa un mese, si svolgevano anche una serie di concerti e rappresentazioni teatrali. (2) Non per niente vige una forte misogenia che relega le donne in posizione del tutto secondaria e marginale all’interno dell’Ordine (i membri del Consiglio possono essere solo maschi). (3)Nel 1892 Delville dipinge anche il Ritratto di Madame Stuart Merril, noto anche come la Mysteriosa, in cui una donna dall’aspetto visionario tiene in mano un libro nero che reca inciso un triangolo equilatero, simbolo tipicamente rosacrociano della perfezione. Si tratta del Liber Mundi, il libro degli iniziati, capace di svelare il velo che copre le cose e di mostrare quella visione occulta del mondo a cui Delville, da bravo iniziato, credeva fermamente. (4) T. Gazzini, La sfinge ermafrodita, in Abstracta 37, Maggio 1989. (5) M.F. Frongia, Miti ed Eroi nel simbolismo belga, in “Dei ed Eroi”, edizioni de Luca, 1996.

Fernand Khnopff: La sfinge o le carezze, 1896

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Rosa+Crux

In un numero dedicato all’esoterismo non poteva mancare un’intervista ai Rosa Crux, il gruppo che più di ogni altro incarna l’idealità pura, l’ossessione, l’abnegazione che fu degli alchimisti. Ai misteri hanno dedicato le loro opere e misteriosa è la loro arte, una musica affascinante, ipnotica, potente, che si esprime al meglio nei concerti, quando il gruppo dà vita, con l’ausilio di fidati mimi, a performance estreme e pregnati, veri happening artistici, tra tensioni sciamaniche e body art. Con un gruppo così unico, e con così tante cose da dire, non era possibile applicare la formula tipica dell’intervista, domanda-risposta. Abbiamo quindi suddiviso e riordinato in temi, nel resoconto che segue, la lunga corrispondenza inviataci da Olivier Tarabo, l’uomo dalle cui ossessioni sono nati i Rosa Crux... Per informazioni: Rosa Crux, 27 rue de la Rose, 76000 Rouen, Francia; web: http://www.rosacrux.com

Del gruppo e delle performance… I Rosa Crux sono una formazione di tre musicisti: io lavoro con Claude Feeny da quando avevo quindici anni... abbiamo sempre suonato insieme. La sua specialità, il piano, che suona da quando era piccola, le è stata tramandata dai genitori che sono entrambi pianisti e dunque c’è sempre stato un pianoforte in casa sua. Nathalie Méquinion, che suona il contrabbasso, ci ha raggiunto circa sei anni fa. Bassista da molti anni, senza però mai fare parte di un gruppo, ha studiato il contrabbasso a partire dal momento della sua entrata nei Rosa Crux. Per quanto mi riguarda, ho iniziato con una corale all’età di sei anni, nel collegio dei frati gesuiti e il canto è rimasto il mio strumento preferito. Il gruppo si è formato nel 1986 e da allora abbiamo fatto uscire sei dischi: Ales et feles (1987), Eli Elo (1989); Les Profanations (1991) in vinile; Danse de la Terre (1992), Proficere (1995), Noctes Insomnes (1998) in cd. Abbiamo prodotto anche parecchi video-clips e un cortometraggio dal titolo Rosa Crux - Jeux de Fers, che rappresenta un altro settore del nostro lavoro, specializzato nelle performance. Abbiamo inoltre fatto circa trecento concerti in Francia, Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Irlanda e Germania... Il progetto che portiamo avanti è una specie di indagine, indagine su noi stessi, una ricerca quotidiana senza sapere esattamente ciò che si cerca. E’ un lavoro in evoluzione che procede per eliminazione: il principio è quello di distinguere ciò che bisogna fare da ciò che non deve essere fatto. Comporta una serie di scelte, di prese di posizione in rapporto alla musica, ma anche al mondo, ai colori, agli oggetti… Se si potesse definire un senso alla missione dei Rosa Crux, sarebbe quello di dare vita a un mondo immaginario, un mondo completo di tutto quello che gli potrebbe essere utile. E’ una sorta di soggetto per un film, quel genere di sceneggiatura che si scrive giorno per giorno senza interruzioni. Quando facciamo un concerto è come se raccontassimo la nostra storia con un messaggio che sottintende “continua…”. Il nostro lavoro è una ricerca continua. Musica e Immagine sono impiegate senza mai venire dissociate. E il tema di questo lavoro è l’uomo. Le Jeux de Fers parla tanto di corpi umani che di oggetti. La musica evoca le idee più cerebrali, come i desideri, le angosce, la spiritualità. E’ praticamente impossibile spiegare con le parole una ricerca di questo genere. Abbiamo scelto di fabbricare degli oggetti perché è il solo mezzo d’espressione possibile per tradurre certe idee e abbiamo scelto la musica per esprimere determinati sentimenti. Il nostro lavoro parla della collera, della violenza, della bellezza o della bruttezza, di tutte queste cose astratte caratteristiche dell’essere umano. Certe nostre performance sono state chiamate Jeux de Fers e hanno dato luogo a delle rappresentazioni molto differenti da un concerto tradizionale. Si tratta di una ricerca enorme. Con uno sguardo di tipo “medico”, l’idea dei corpi viene trattata con libertà di interpretazione, non ubbidendo che alle proprie regole del gioco, definite a mano a mano attraverso una serie di scoperte successive. Una parte determinata dei corpi viene studiata, disegnata, analizzata, per carpirne l’essenza, che poi sarà tradotta nella costruzione di una macchina in movimento. Questo lavoro è “disegno”, che si è costruito tramite l’osservazione degli errori e che ha permesso di definire in modo preciso un metodo di ricerca. Del legame con il movimento dei Rosacroce… Nel XIII secolo viveva un eremita tedesco che si era dato lo pseudonimo di Rosenkreicht. Egli ha consacrato la sua vita alla ricerca sul corpo umano e sui suoi limiti… Questo eremita ci ha molto interessato perché ha trascorso la vita a fare le sue ricerche e lo pseudonimo che si è dato illustra esattamente il clima che noi ricerchiamo nella nostra musica, cioè un confronto di tutte le grandi contraddizioni, l’udibile e l’impercettibile, il piacevole e lo sgradevole, il profano e il sacro, senza cercare un compromesso o una media, ma presentando fianco a fianco due idee opposte in modo da lavorare sul contrasto. Il nome“Rosa Crux” è un simbolo che sottolinea questo contrasto. E’ la sola cosa veramente importante ai nostri occhi, perché senza contrasto tutto è piatto, triste, poco interessante. Il punto comune che ci lega a questo personaggio è l’investimento totale di se stessi che fa sì che ci si consacri interamente ad un obiettivo. Secondo alcuni autori costui non sarebbe 27

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che un mito, una leggenda, perché la testimonianza che avrebbe lasciato sotto forma di scritto non è mai stata ritrovata. Semplice leggenda o fatto reale? Poco importa. E’ forse per questo che non lo si conosce se non dal suo pseudonimo: Rosenkreicht, Rosenkreutz… come se il solo concetto di questa parola fosse sufficiente ad interrogarsi sui grandi temi universali. Invece la scelta del nome “Rosa Crux” non ha alcuna relazione con i numerosi movimenti rosacrociani esistenti, se non per una certa attinenza con i simboli compresi in questo nome. Noi l’abbiamo tradotto in latino anche per separarlo da questi movimenti e per ricollegarlo giustamente a quell’epoca del XIII secolo in cui viveva Rosenkreicht. Il termine “Rosa” indica la bellezza, la vita, l’effimero, è il simbolo dell’amore e della purezza. “Croce” invece è il sacrificio, la morte esposta (resa spettacolo), la crudeltà, l’intolleranza. Della nascita dei brani e della Danza della Terra… “I Rosa Crux creano un ambiente sonoro e visuale che rinchiude chi ci si trova in un film vivente”. Noi cerchiamo di esprimere delle emozioni forti, delle atmosfere particolari, e quando la musica non è sufficiente aggiungiamo dei profumi sulle copertine dei dischi, delle immagini, delle proiezioni di film, poco importa quali siano i mezzi d’espressione se il concetto viene ben tradotto. Noi perseguiamo una ricerca nel quotidiano, ignorando il “che cosa” e questo la rende ancora più affascinante. In generale, quando arriviamo in una sala per suonarci, cerchiamo di trasformarla al massimo per darle un colore e un’atmosfera che siano in accordo con ciò che noi stiamo per fare. Ci siamo spesso detti che ci piacerebbe essere al posto del pubblico per sapere qual è l’effetto che produce. Ogni pezzo è per noi un’avventura interamente a sé. Non ci sono delle ricette per comporre. Si può talvolta creare una melodia di piano senza però essere il pianista del gruppo, semplicemente perché una sera non hai voglia di andare a dormire e il piano è il primo strumento che ti viene sotto mano. Ci sono alcune composizioni fatte in circostanze fortuite come “Orgue”, da Proficere, in cui Claude si è ritrovata un giorno dinanzi ad un organo, con la possibilità di suonarlo. A volte può essere un ritmo di tamburi a determinare il seguito degli arrangiamenti… o anche dei vecchi testi ritrovati nel corso di ricerche in biblioteca che invogliano a venire musicati. Una volta stabilita la base di una composizione gli arrangiamenti arrivano spesso di conseguenza. Ci lavoriamo ricercando l’atmosfera che vogliamo far risultare. La cosa più difficile è trovare la “ragione” di ogni composizione. Tutte hanno comunque una storia che noi traduciamo attraverso le performance che le accompagnano. E’ molto importante per noi che il pubblico sia ricettivo e partecipi alla “sceneggiatura” della nostra storia. Il pubblico è con noi dentro al “film” e se ciò non avviene…perché farlo? La Dance de la Terre… da dove è venuta l’idea? E’ attorno a questa performance che abbiamo composto Eli Elo. Non si tratta di un’idea spuntata all’improvviso, ma del completamento di una ricerca. C’era il desiderio di esprimere il sentimento della morte, di confrontare il corpo umano con la materia dalla quale è nato e alla quale ritorna. E’ un modo per rendere omaggio alla terra attraverso un contatto fisico. In Eli Elo la terra è rappresentata dai suoni gravi che introducono il titolo. L’angoscia della morte è trasmessa da queste voci che si sovrappongono riempiendo in tutti i modi il vuoto. La lotta violenta contro la morte è espressa da gesti ripetitivi e meccanici, quasi psicotici, che fanno vivere l’angoscia del suono che si trasmette, tramite i tamburi e le parti forti, attraverso le deflagrazioni delle grosse casse, che battono come un cuore sul punto di esplodere… Per “Eli Elo” abbiamo costruito delle parole, abbiamo utilizzato dei fonemi che non hanno alcun senso perché desideravamo delle consonanze particolari. Questo ci libera, sia in questo caso che per altri pezzi, da ogni “messaggio” e ci permette di lasciare posto ai sentimenti puri. Dell’esoterismo e della morte… Punto di partenza del nostro lavoro sono i quattro elementi alchemici. Abbiamo giocato agli apprendisti stregoni fondendo questi elementi nella nostra musica, ma anche nei materiali. I nostri dischi mostrano alcune delle performance che realizziamo nel corso dei nostri concerti. E’ un lavoro sull’uomo e sugli elementi che lo circondano. La Terra, l’Aria, l’Acqua e il Fuoco… Il Ferro si impone subito perché è la fusione della Terra e del Fuoco. Noi facciamo quasi tutte le nostre performance con questo materiale. A questo proposito bisogna ricordarsi che il fabbro nel Medioevo era considerato “satanico” perché viveva tra le fiamme della sua fucina. La kabbala è stata il primo soggetto delle mie VER SACRUM XI

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ricerche plastiche, una scoperta e una fonte d’ispirazione favolosa. Tuttavia dopo qualche anno sono tornato al punto di partenza… Pertanto questo soggetto molto ricco si richiudeva su se stesso e i quadri magici estensibili all’infinito restavano dei quadri magici… Rapidamente mi sono preso la libertà di trasgredire a tutte le regole per utilizzare la kabbala come una tavolozza di colori o di materiali, con il fine di metterla al servizio delle nostre idee. O si digerisce la kabbala o si viene digeriti da essa. Oggi considero la kabbala come un mezzo di espressione indispensabile per sbarazzarsi del senso estremamente ingombrante che le parole veicolano, per utilizzarle in un contesto musicale puro. I riferimenti alla morte sono ugualmente numerosi nel nostro lavoro. La morte è un soggetto che ha ispirato gli artisti e i filosofi dalla notte dei tempi. E’ un tema indissociabile al fatto di essere umani. E’ la sola cosa che noi conosciamo del nostro avvenire e ne consegue che ce ne interessiamo in modo particolare. Noi Rosa Crux utilizziamo la morte come un dato di base, come una cosa che merita un’importanza speciale. La morte possiede una propria potenza estetica: colori, materie, odori, sentimenti... La morte deve essere considerata come ciò che la notte è per il giorno, un altro stato delle cose... E’ un mondo molto vasto, quello della morte, altrettanto esistente che quello della vita, un mondo che è rimasto, a causa dei tabù creatigli attorno, sconosciuto... La paura della morte è una creazione del potere. La società occidentale ha creato “la pena della morte” come punizione suprema e la religione cristiana l’ha esibita come un simbolo di sofferenza... Del suono e dell’immagine… Noi abbiamo sempre portato avanti contemporaneamente i due lati del progetto Rosa Crux, cioé l’immagine e il suono, come due cose indissociabili. La nostra musica evoca delle idee precise, dei temi particolari che non si possono raccontare con le parole. Noi trascriviamo delle emozioni. La musica fa nascere un’emozione e anche un’immagine… Noi lavoriamo sul suono e sull’immagine, come altri sulle parole e sulla musica. La parola è un mezzo per tradurre un’emozione, la prova è che si possono tradurre le parole, trovare loro dei sinonimi o anche dire le stesse cose in modi differenti. La musica invece non si traduce, non si racconta, nello stesso modo in cui è impossibile raccontare un sogno… Suono e immagine mi sembrano molto più diretti. Dei prossimi progetti… Stiamo preparando il prossimo CD e anche un cortometraggio (video-clip). Logicamente cercheremo di fare qualcosa di differente. Della religione… Esistono pochissimi ambiti oggigiorno in cui è possibile vedere la traccia concreta delle grandi angosce dell’uomo. La religione è praticamente scomparsa dal nostro modo di vita, perché le soluzioni che fornisce sono diventate ridicole in paragone alle scoperte scientifiche. Tuttavia le grandi questioni rimangono... Non c’è religiosità nel lavoro dei Rosa Crux, ma queste problematiche ci interessano e dunque talvolta abbiamo voluto partire dal punto in cui era ancora possibile riagganciarsi a qualche simbolo come il bene e il male etc… E’ in modo molto naturale che noi scegliamo certe volte lo scenario di una chiesa per porre queste grandi questioni, attraverso alcune delle nostre performance, perché questi luoghi sono stati studiati dagli architetti per favorire la meditazione e l’isolamento. Tutte le grandi angosce dell’uomo sono incise nella pietra sotto forma di bassorilievi, sculture, attraverso l’elevazione di volte etc… E’ anche il solo spazio creato dall’uomo che invita alla riflessione e che lascia una sorta di messaggio alle generazioni a venire: “alcune grandi questioni ci hanno condotto a costruire questo…”. Questi luoghi sono carichi di una forza intensa. Sono il riflesso di una grande epoca in cui gli uomini credevano al “sapere”. Il fatto di riconsiderare oggi questi luoghi e di porre in essi le stesse domande di una volta, in maniera “selvaggia”, cioè senza appartenere ad una religione precisa, ci portano a dire che noi non siamo più avanti rispetto al Medioevo, che abbiamo sempre gli stessi misteri da scoprire e dunque è una specie di rimprovero lanciato alla religione (come alla scienza), un modo per mostrarle il suo fallimento. Il cristiano medio ci vede talvolta come un gruppo satanico. E’ vero che la nostra musica, dalle atmosfere sacre, non glorifica la Santa Vergine o la potenza di Dio. Noi introduciamo le nozioni di bene e di male come due cose indissociabili e che meritano lo stesso rispetto. Siamo al di fuori di ogni religione, ed è per questo che possiamo lavorare a questo tema con ogni libertà e da una certa distanza.

Christian Dex & Mircalla 29

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S o lI n v i c t u s

Dopo l’esperienza Death in June l’oscuro cavaliere apocalittico noto al mondo come Tony Wakeford fondava nel 1987 il progetto Sol Invictus, in cui riversava le ossessive visioni dell’umanità che nutriva nell’anima. La sua “contaminazione” iniziava col mini-vinile Against The Modern World cui faceva seguito il live album In The Jaws Of The Serpent, in cui dava vita agli arcani simboli ed alle cosmiche immaginazioni evocate dal linguaggio eterno dell’inquietudine e del mistero. La critica riconosce nel suo stile uno spirito prevalentemente ispirato all’amorale ottimismo di Nietzsche nonché ad un ideale di vita pagano (ma vedremo poi che ne pensa lui in merito). Il surrealismo del suo immaginario non pregiudica un suo impegno politico, fondato su una severa critica dei poli che hanno scandito la dialettica ideologica del secolo passato, ossia il Capitalismo ed il Comunismo, che nasce dall’adesione immanente ai principi della Tradizione, inducendo sovente a considerare fascista la sua impostazione culturale. Comunque Wakeford ha imperterrito condotto la sua ricerca artistica nell’introspezione dell’oscurità dell’animo umano e quindi, attraverso una visione allargata e comparativa, alla denuncia della trivializzazione della vita attraverso il dominio della commercializzazione e della cultura di massa e quindi la morte della cultura occidentale. L’esperienza del musicista poi, attraverso i continui scambi simbiotici con gruppi come Current 93 e Nurse With Wound, è sfociata nella produzione di una ricca discografia, divenendo così il punto di riferimento dei cultori del cosidetto Folk Apocalittico, un genere che, sviluppando tendenze neoclassiche ed ambient, affonda le sue radici nelle esperienze soniche primordiali ed ancestrali. Un genere che lo stesso Wakeford promuove anche mediante la sua record label, denominata Tursa. Ecco l’esito di un interessantissimo colloquio col musicista.

Come è cominciata la tua esperienza musicale? Mimando la musica della radio e usando un righello come mia chitarra immaginaria. Triste ma vero. In mia difesa c’è che avevo sei anni. Sono fiducioso che nulla delle bands dei tempi della scuola sia rimasto per incriminarmi ! Perché dopo i lavori con Death In June hai fondato i Sol Invictus ? Attraversai un lungo periodo di negativa autodistruzione, che fortunatamente riuscii a sfuggire. Sol Invictus fu una delle vie che mi aiutò in quella fuga, altrimenti sarei morto o forse finito in prigione. La tua opera Against the Modern World mi fa pensare, per il titolo, a Julius Evola e al suo pensiero: lo conosci? E’ necessaria una rivoluzione culturale contro il “potere cadaverico” della moderna umanità? Lo conosco, ma non ho approfondito la sua opera. Ho solo alcuni dei suoi libri e spero un giorno di leggerli. Mi piaceva come suonava il titolo e così l’ho usato. Superficiale ma vero. Qual è il ruolo della Tradizione nella rivoluzione culturale ? Per me la Tradizione è come la spina dorsale, senza la quale le cose diventano deboli e di salute malsana. Non tutta la tradizione è bene; non tutto ciò che è moderno è male. Ma senza di essa non c’è nulla per costruire un’avanguardia pro o contro. Il secolo appena trascorso ha visto la nascita e la caduta dei grandi ideali ed il capitalismo, mai sconfitto, è più forte che mai. Come lo vedi il futuro ? Beh, il capitalismo ha vinto per una ragione: era adattabile e capace di rinnovarsi, cosa che le entità collettivistiche e totalitarie fanno con difficoltà. Il capitalismo ha avuto la capacità di cooptare e sintetizzare sufficiente potenziale da ogni opposizione rivoluzionaria e di reinventare se stesso. Ha colpito il fascismo ed il nazionalsocialismo con la forza delle armi ed il comunismo nel suo proprio campo: entrambi sono materialisti all’apparenza ma il capitalismo ha la capacità di distribuire i beni. E’ ancora possibile il tramonto dell’Occidente?

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L’Occidente è morto, ma non l’ha ancora capito. Chi rischierebbe la vita in sua difesa? Il liberalismo non produce buoni martiri. Giusto una certa quantità di critici. Di questi tempi c’è un revival del paganesimo, spesso confuso con l’occultismo, che ne pensi ? Ti piace ciò ? Non posso dire di avere molto di tutto ciò in alta considerazione. Sono sicuro che questo sentimento è reciproco. Attraverso la tua esperienza con i Current 93, qual è il ruolo della dottrina e del pensiero di Aleister Crowley nel moderno occultismo e, consequenzialmente, nella musica? Sol Invictus è influenzato da idee o esperienze esoteriche ? Non credo che ci siano state, se ce ne sono state, influenze di Crowley sui Current 93 per più di un anno. Direi la stessa cosa del mio lavoro. Che ne pensi della culture e della musica New Age? Non la condivido. E’ un’orribile carta da parati musicale per aspiranti Pellirosse. Ti piace la scena Neo Gotica ? E’ possibile considerare “Sol Invictus” una Gothic band? Non so come potresti definirci. Io non amo le etichette ma non ho nulla contro coloro che si trovano a loro agio con tale titolo. Quali sono i tuoi prossimi progetti ? Ho suonato in un gran numero di concerti quest’anno, includendo un tour nella West Coast degli USA. In coincidenza con ciò c’è l’immissione in circolazione di un concerto acustico che fu registrato a Trieste in Novembre. Promuoverò inoltre un CD insieme a Matt Howden realizzato quest’anno e spero che il libro/CD Sol vedrà la luce quest’anno (2000). Mi sto inoltre dedicando ad un appuntamento mensile in Londra chiamato “Salon Noir” si cui saranno rappresentate musiche Folk e classiche della World Serpent e promuoverà eventi live. Per i dettagli da uno sguardo a http://www.tursa.com

S*Tox (foto Christian Dex)

Oltre al sito web sopra indicato, Sol Invictus può essere contattato al seguente indirizzo: BM-SOL, London WC1N 3XX. Fax: +44 (0)171 207 4481. Death in June: Operation Hummingbird (miniCD – NER/Tesco). Per i Death in June nutro un rapporto di attrazione/repulsione. Attrazione, perché dal punto di vista musicale sono, a circa vent’anni dal loro esordio, ancora in grado di sorprendere con musica bellissima, appassionata e pura. Repulsione perché le idee politiche di Douglas P. mi ripugnano violentemente (e non mi venite a raccontare le solite storie dell’adesione meramente “estetica” all’immaginario nazi). Ancora di più mi ripugnano i “nazisti dell’Illinois”, quelli che assistono ai concerti dei Death in June (nonché Sol Invictus) col braccio teso e la faccia incazzata. In realtà non reputo Douglas P. un personaggio da prendere molto sul serio e la sua confusione, di idee ma anche di personalità, fa più che altro sorridere (ad esempio come può un omosessuale dichiarato simpatizzare per gli ustascia croati?). Ad ogni modo, sebbene sia arduo distinguere l’aspetto artistico da quello “di folklore” nell’universo Death in June, il recensore obiettivo non può che plaudere ad album come Operation Hummingbird. In questi sette pezzi Douglas P., coadiuvato da Albin Julius alias Der Blutharsch (buono quello!!!), si allontana dalle atmosfere folk-apocalittiche classiche, confezionando i brani con arrangiamenti piuttosto interessanti di sapore avantgarde. In pratica non si sente una chitarra acustica nei 28 minuti di questo album, mentre le tastiere sono sempre in primo piano, spesso a ricreare i ricchi suoni di un’orchestra. La produzione artistica privilegia i campionamenti, il filtraggio dei suoni, senza raggiungere i territori estremi dell’industrial. Interessanti sono i brani “Kapitulation” e “Winter Eagle”, entrambi caratterizzati da spettrali basi sonori, distorte e rallentate, che echeggiano delle marce militari. Da segnalare anche il brano “Gorilla tactics” che racconta l’episodio del concerto dei Death in June a Losanna annullato dalle autorità cittadine (e che ha causato più di un grattacapo agli organizzatori, i nostri amici del Sanctuary). Qui Douglas P. fa un’osservazione tutt’altro che peregrina per indicare l’ipocrisia delle autorità svizzere in quell’occasione: “Le loro banche sono piene dell’oro dei nazisti, ma mi hanno detto che i Death in June sono stati banditi”. E a proposito di ipocrisia, sapete cosa si legge nel sito web della World Serpent, l’etichetta che ha distribuito per anni i dischi dei Death in June? Che il loro rapporto con Douglas P. si è interrotto, tra l’altro, per divergenze di natura politica. Come dire, ci siamo accorti soltanto ora, dopo più di dieci anni, di quali siano le sue idee. Se non è ipocrisia questa… Tornando alla musica concludo dicendo che non mi sarei sorpreso se Operation Hummingbird, per le sue interessanti atmosfere sperimentali, fosse stato pubblicato dalla Cold Meat Industry e oltre che ai fan del folk apocalittico consiglio proprio agli appassionati dell’etichetta svedese l’acquisto di questo miniCD. I nazisti dell’Illinois possono invece andare tranquillamente affanculo! (Christian Dex) Death in June: DISCriminate- 1981 – ’97 (DCD – NER/Tesco). Splendida doppia compilation che ripercorre la quasi ventennale carriera della band. Per assemblare questa raccolta Douglas P., come si vede dalle note di copertina, ha scelta le sue canzoni preferiti: chi ha avuto modo di assistere ad un concerto dei Death in June noterà quindi che qui sono presenti tutti i pezzi che il gruppo presenta più spesso dal vivo. Non vi aspettate outtatkes o rarità, solo tanta splendida musica e i brani più celebri di questa affascinante e controversa formazione, da “Heaven Strett” a ”She said destroy”, da “Fall apart” a “To drown a rose”, da “Little black angel” a “Rose clouds of holocaust”. Un appassionante “Bignami” per chi voglia avvicinarsi alla musica dei Death in June. (Christian Dex)

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Argine

Qualcosa sembra essersi sbloccato nella lunga carriera degli Argine. Pur avendo una produzione discografica limitata (tre demo tapes, incisi tutti nel 1996, un CD intitolato Mundana Humana Instrumentalis del 1997, un sette pollici ed un vinile dal vivo, intitolato Roma) il gruppo nasce a Napoli nel lontano 1992, e da allora ha attraversato diversi periodi di crisi, causati talvolta da cambiamenti repentini di organico, ma spesso dalla triste realtà italiana per quanto riguarda la musica alternativa in tutte le sue forme. Musicalmente, gli Argine partono da una matrice fondamentalmente post punk, per evolversi gradualmente verso forme più acustiche, prossime a quelle dei gruppi inglesi di "folk apocalittico" che fanno capo alla World Serpent. Dopo poco più di un anno, gli Argine sono tornati a suonare a Roma per presentare il nuovo vinile, nello stesso locale in cui, durante un concerto difficile a causa di qualche problema tecnico, era stato registrato. Questa volta le cose vanno decisamente meglio, malgrado qualche piccola sbavatura sull'amplificazione del basso e del flauto. L'intervista è avvenuta dopo il concerto, in condizioni un po' particolari (i gestori del locale avevano fretta di chiudere). Questo è il risultato della chiacchierata che ho fatto con il gruppo; sullo sfondo la musica degli Almamegretta, che sembrano costituire una sorta di piccola persecuzione per il gruppo napoletano.

Ci siamo già incontrati poco più di un anno fa in questo stesso locale; senza andare a scavare nel periodo difficile che ha preceduto quel concerto, vediamo invece cosa è successo da quella data ad oggi. Corrado Videtta: La formazione attuale è la stessa dell’anno scorso tranne che per il percussionista; in realtà ne abbiamo cambiati due, perché quello che era presente allo scorso concerto è andato via per problemi legati ad esigenze del gruppo; è arrivato quindi questo nuovo percussionista che ha lasciato il gruppo proprio due settimane fa, quindi la storia si perpetua… Corsi e ricorsi storici… Esatto… ma l’importante è trovare sempre persone che affrontano il fatto di entrare in una realtà nuova con entusiasmo e abnegazione. Passiamo all’ambito musicale: vi riconoscete nell’etichetta di folk apocalittico? Cosa vi piace e cosa no di quella scena? CV: Sicuramente mi lascia perplesso la chiusura, il fatto di darsi la zappa sui piedi, di dire che noi facciamo parte di questa cerchia di gruppi e quindi ci limitiamo in essa; una forte chiusura mentale. Ferruccio Milanesi: Di buono credo ci sia l’attitudine. Una cosa che mi lascia molto interdetto a volte è l’aspetto musicale: non condivido ciò che spesso capita nell’ambito del folk apocalittico e non in altri generi affini, un pressappochismo musicale, il fatto di suonare a volte piuttosto male, addirittura su disco, e considerarlo un fatto comune. CV: Però da apprezzare c’è il coraggio, sicuramente, perché stiamo parlando di una militanza; non voglio aprire un discorso che andrebbe troppo oltre… però è una militanza, è un movimento che va avanti tra difficoltà macroscopiche, è la genuinità concettuale che apprezzo. Tra l’altro, parlando di coraggio mi riferisco anche agli addetti ai lavori: sarebbe più comodo cercare di entrare in un giornale che parla di musica commerciale o di pop italiano. E’ tutto il contorno, tutto il movimento che dimostra coraggio. Un possibile sbocco a questa chiusura? CV: La fantasia, nient’altro… I testi: chi li scrive e a che cosa si ispira? CV: I testi che ho scritto io non sono ispirati a qualcosa in particolare, se non a quel tumulto che mi fa andare avanti tutti i giorni, al mio io interiore, che viene fuori soprattutto quando mi siedo con una penna in mano e scrivo. Non ho riferimenti culturali particolari, infatti i testi più immediati, che parlano anche un po’ del quotidiano, sono i miei.

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Marco Consorte: Per quanto mi riguarda, a parte la vita vissuta, le esperienze, mi affascina in particolar modo la letteratura romantica francese, anche se non ne faccio mai un fatto selettivo, è solo un mezzo, mai un fine. La scena italiana: quali sono i suoi grandi drammi e per quale motivo, pur essendoci gruppi importanti, non c’è pubblico, soprattutto ai concerti? Alfredo Notarloberti: il problema è che a poche persone arriva il disco degli Argine, e su quel target un numero limitato viene ai concerti. La pubblicità per i gruppi alternativi viene fatta per un pubblico più particolare, perché non ha i mezzi per arrivare a più persone. Il problema alla base sono i mezzi, che sono ristretti per il settore. Se avessimo un’industria discografica come quella inglese che permette anche alla musica non ufficiale di avere i suoi canali, probabilmente avremmo più gente ai concerti. Qui da noi non si crede che si possa investire su una musica alternativa che non passa per MTV o per i canali ufficiali. In quest’ultimo anno avete finito il vostro nuovo lavoro; quando pensate che possa uscire? Avete contatti con qualche etichetta, e che tipo di selezione state facendo? CV: Io spero che possa uscire entro la fine dell’anno (2000). Per quanto riguarda l’etichetta, senz’altro deve essere una che si sacrifica come noi. Non è concepibile, dopo un esordio che ci è costato molto, continuare a produrci il master. Penso che sia una cosa non più inerente alle nostre capacità. Chi vorrà gli Argine nel proprio catalogo deve fare dei sacrifici, che non sono enormi. Potrebbe anche essere Energeia che vuole investire, e comunque c’è stato l’interessamento anche da parte di altri che preferisco per il momento non nominare. Qual è stata la vostra evoluzione in questi anni? CV: La coscienza dei nostri mezzi, e di qualcosa che sta crescendo anche da un punto di vista di pubblico: ce ne rendiamo conto dal numero di persone che ci contattano tramite Internet. Da un punto di vista musicale, è un’evoluzione naturale; noi veniamo dal post punk, quindi abbiamo cercato di riproporre, in un ambito di folk apocalittico, quelle sonorità per noi importanti; ci saranno pezzi più elettrici, e ne è stata una conferma la collaborazione con Fiumani, che è memoria storica della New Wave Italiana. In effetti è l’impressione che ho ricevuto dal concerto di stasera. Non mi resta che farvi i complimenti per il concerto, che stavolta è andato decisamente meglio rispetto alla volta precedente… FM: Sì, anche se il basso è entrato solo a metà concerto, si vede che avevano deciso che nella prima metà non serviva… Se avete qualcosa da dire a chi vi ascolta o a chi vi ascolterà fate pure. CV: Gli Argine sono una realtà vivente, costante, ci accompagna nella vita. Il nostro silenzio forzato, tra poco saranno quattro anni dalla pubblicazione del primo CD, è dovuto solo alla difficoltà di trovare qualcuno che possa darci un adeguato supporto. Nonostante ciò, non ci butta a terra nessuno.

Ankh

Argine: Roma (Oktagon/Misty Circles/Wolf Age, 2000) - Misteri del mixer… Il 5 gennaio del 1999 gli Argine hanno tenuto al Memphis Belle di Roma un concerto che, come ho sottolineato in una recensione pubblicata sul sito web di Ver Sacrum, è stato purtroppo affetto da numerosi problemi tecnici. Alcuni strumenti non si sentivano quasi, altri andavano e venivano, la voce della cantante era decisamente stata maltrattata dall’impianto di amplificazione. Pare invece che sul mixer le cose andassero decisamente meglio, al punto che è stato possibile incidere un disco dal vivo, che rende sicuramente merito al gruppo che, in quel concerto, aveva messo tutto l’impegno possibile. Certo, qualche segno dei problemi c’è (ad esempio la chitarra un po’ bassa nel primo brano, o il violino nel brano “Come un servo da mantice”, il tutto sottolineato in chiusura dalle parole di Corrado Videtta che definisce “convulsa” la serata), ma nel complesso il disco rende bene e indubbiamente i brani conservano intatto il fascino che possiedono nelle registrazioni in studio. Il disco inizia con due brani introduttivi, subito seguiti da una nuova canzone, “Vene d’acero”, e da diversi pezzi tratti dal loro primo CD. “Eterno Occidente”, il penultimo brano, è anch’esso nuovo. Dal vivo gli Argine sono leggermente più aggressivi che in studio, le chitarra elettrica e il basso si fanno sentire, e il gruppo alterna brani dolci e tipicamente folk (“Corpo ed anima”, “Miraggio”, “Le rose”, “Distacco”, “Come un servo da mantice”), a brani più concitati ma pur sempre acustici (“Vene d’acero”) ad altri ancora in cui vengono a galla le radici post punk dei membri del gruppo (“Mundana Humana Instrumentalis” ed “Eterno Occidente”, che in qualche modo mi ricorda addirittura certe cose dei CSI da un lato e la splendida “Monsalvat”, dei romani Ain Soph, dall’altro). Per chi ama il folk apocalittico e non teme aperture verso forme musicali più dure, questo è un lavoro da non lasciarsi scappare, e il mio consiglio è di fare in fretta, visto che è uscito solo su vinile in edizione limitata di 500 copie. (Ankh)

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R O G

Se i primi due demo di GOR, nome d’arte del progetto di Francesco Banchini, si erano già fatti notare con la loro inconsueta e interessante ricerca musicale, a cavallo tra musica colta e sperimentalismi industrial, il CD d’esordio Bellum Gnosticorum, è arrivato come una conferma a sancire il ruolo di assoluto primo piano di questo artista nel panorama musicale nazionale. Francesco viene da Napoli, città che, per caso o per oggettive cause ancora imprecisate, sta proponendo all’attenzione gruppi validissimi in campo industriale e sperimentale, come gli Argine e gli Anima in Fiamme, i primi recensiti sempre in questo numero, che condividono con GOR il background di studi al conservatorio, i Lupercalia e gli Ashram. Come ulteriore prova del talento di GOR è arrivato il suo inserimento, in pianta ormai stabile, negli Ataraxia, primo “innesto” di un elemento esterno nella decennale carriera dell’affiatatissimo gruppo modenese. Di tutto questo e di molto altro abbiamo parlato con Francesco nell’intervista che segue.

GOR, ovvero “Genocidio di Ordine Religioso”: cosa si nasconde dietro questa misteriosa sigla? La sigla in sé,contiene molti significati: uno di questi è l’insoddisfazione di vedere tanta indifferenza verso persone che sin dalla loro nascita sono state sempre maltrattate, uccise, sterminate solo perché appartenevano ad un credo diverso, o perché avevano degli ideali di conoscenza a cui non “dovevano”arrivare, non dovevano sapere, non dovevano accrescere i poteri interiori che ogni uomo ha. Questo è uno dei tanti esempi che ti posso fare, ma ce ne sono tantissimi, che la gente oggi giorno ignora perché ossessionata dalla corsa verso il successo, il benessere materiale, l’accrescimento dell’ego, etc... Io scrivo musica per tutte le persone che come me soffrono interiormente e non riescono ad integrarsi in un mondo come questo! Puoi descriverci il tuo percorso artistico? Come ti sei avvicinato a questo genere oscuro e sperimentale? Ho iniziato a suonare all’età di sei anni; mio padre mi ha tramandato le sue conoscenze riguardo la gnosi, che a sua volta mio nonno aveva tramandato a lui, ed è da qui che è iniziato il mio percorso verso la ricerca della “conoscenza” sia in ambito musicale, che letterario. L’avvicinamento al genere oscuro è stato del tutto naturale, visti i presupposti, mentre per quanto riguarda la sperimentazione è venuta gradatamente studiando alcuni processi armonici non convenzionali. Cosa ispira la tua musica e quali sono gli scopi che ti prefiggi? Sicuramente il posto dove vivo, cioè Pozzuoli; perché è pieno di luoghi magici, storici ed energetici. Ti faccio qualche esempio per farti capire: l’antro dove la Sibilla oracolava, il lago d’Averno, dove c’era l’entrata dell’Ade, etc... L’unico scopo della mia musica e della mia vita è quello di riuscire a dare alle persone delle nuove sensazioni. In cambio non chiedo alle persone di seguirmi nel mio intento, o di pensare nel mio stesso modo; è solo una questione interiore! Esistono dei padri putativi di GOR, degli artisti a cui ti senti fortemente legato e che ti hanno ispirato a comporre la tua musica? Purtroppo no. Gli artisti a cui mi sento fortemente legato sono gli Ataraxia; sono delle persone stupende e con loro sto condividendo delle bellissime sensazioni e molte esperienze interessanti. Sappiamo che hai fatto o stai facendo il conservatorio: quali sono le reazioni dell’ambiente “istituzionale” a sperimentazioni così poco convenzionali? Ho fatto il conservatorio di Napoli e mi sono diplomato in clarinetto. L’ambiente del conservatorio è molto chiuso in sé, come se fosse un circolo elitario, quindi loro ascoltano solo musica classica e nient’altro. Puoi immaginare quindi in che ambiente sono cresciuto e quante critiche ho dovuto sorbirmi, sia dai maestri che dagli allievi. Ma la colpa non è loro; sono soltanto rinchiusi nei loro dogmi e non vedono oltre, anzi a volte tentano di spazzare via chi s’intromette sul loro cammino, perché poi perderebbero la loro credibilità. Bellum Gnosticorum: puoi spiegarci il significato che hai voluto esprimere con questo

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titolo? Letteralmente significa: “la guerra degli gnostici”, ed è la guerra che ognuno di noi ha verso la conoscenza; la lotta tra il bene ed il male; il dualismo che ognuno di noi ha dentro e che non riesce a combattere. Com’è nato quest’ album? Vi hai riportato anche alcuni brani dei tuoi precedenti demo. Tutto è nato in modo molto naturale, le fonti d’ispirazione per la nascita di questa musica sono stati i luoghi che ho visitato, gli studi frenetici di armonia non convenzionale, di alchimia, di religione etc...; tutto riportato su un CD, per far riflettere ogni persona sulle proprie potenzialità. Riguardo ai brani vecchi, ho scelto d’inserirli in questo CD perché sono collegati tutti tra loro dallo stesso contesto: la gnosis. Nella tua musica riecheggiano melodie arabe e medio-orientali: da dove vengono queste influenze? Sono legate al fatto che Napoli e’ una “porta aperta” sul Mediterraneo? Sicuramente Napoli ha inciso molto, perché situata in un posto strategico dove tante culture s’incontrano e dove in passato hanno avuto parte predominante popolazioni come i Greci, iTurchi, gli Arabi, gli Spagnoli etc... ma oltre a questo la mia musica nasce anche da un fervente studio dell’armonia e della notazione orientale, che è completamente diversa dalla nostra, molto più complicata sia per la tecnica che per il suono. Essi in pratica tendono a far sì che l’uomo diventi tutt’uno con lo strumento che sta suonando, creando un’armonia tra la materia e lo spirito, estraniandosi dalla realtà ed avendo un contatto spirituale con l’assoluto. Atmosfere misteriose, titoli come “Trasmutazione”, “Gnosi”. Inevitabile chiederti qual è il tuo interesse per le dottrine esoteriche. E’ uno dei tanti percorsi intrapresi per portare avanti la ricerca sulla conoscenza e sui poteri che sono sia dentro, che fuori di noi. In questo numero di Ver Sacrum si parla di giubileo, dando però spazio a religioni e credenze alternative al cattolicesimo. Qual è la tua posizione a riguardo? Sei religioso? E se sì in che modo? Il discorso è troppo ampio da discuterne in poche righe; ti dico soltanto che non credo nei culti che esternano la propria fede, ma sono convinto nell’accrescimento del principio antropico. L’uomo è fonte naturale di energia, bisognerebbe soltanto accorgersene, per far risvegliare le nostre potenzialità interiori. Sono diversi ormai i gruppi napoletani dediti a sperimentazioni in ambito folk-apocalittico/industrial, è una semplice coincidenza o si può parlare di una vera e propria scena? Non so se si possa parlare di una vera e propria scena musicale napoletana. I gruppi che ci sono a Napoli non sono altro che “cloni”, quindi niente di nuovo e d’interessante. Ti abbiamo visto per la prima volta su un palco a Lipsia, un anno e mezzo fa con gli Ataraxia; da allora sei un membro stabile della formazione. Com’è nata questa collaborazione? E’ nata da un loro concerto tenutosi a Napoli. Io ed il mio gruppo facevamo da gruppo spalla, è stata una serata fantastica! Finché non mi hanno chiamato per partecipare con loro al festival di Lipsia; e da lì é iniziato il sogno! Sono delle persone stupende, degli amici sinceri! Anticipaci qualcosa dei tuoi piani futuri con GOR, ma anche con gli Ataraxia. Con GOR in questo momento sto registrando delle idee venutemi in mente in un viaggio nel deserto, mentre con gli ATARAXIA abbiamo da poco concluso le registrazioni del prossimo CD che uscirà entro gennaio/febbraio del 2001.

Christian Dex (foto S*Tox) GOR: Bellum Gnosticorum (CD – Iris/Prikosnovenie). Bellum Gnosticorum, l’esordio di GOR su CD, ci ha appassionato talmente da decidere di dedicare un’intervista a questo straordinario musicista. Molteplici sono i motivi di interesse in quest’opera, a cominciare dal fatto che la ricerca di Francesco Banchini in campo musicale è davvero unica nel suo genere. L’album si fa notare per un’intelligente ed equilibrata commistione di musica colta e atmosfere sperimentali/industriali. Molteplici sono le influenze musicali che echeggiano nei dieci brani qui presenti: musica classica, melodie arabe, perfino il folk celtico nell’uso delle percussioni. GOR crea degli affascinanti e suadenti brani combinando i suoni dei più svariati strumenti, lavorando come un geniale direttore di un’insolita grande orchestra. C’è il clarinetto innanzitutto, strumento con cui Francesco si è diplomato al Conservatorio, le chitarre, tantissime percussioni (dai tamburi al Bodhran gaelico, dai timpani alle campane), e poi ancora flauto, dulcimer e strumenti popolari, il tutto suonato in modo magistrale. Tutto ciò potrebbe sembrare un esperimento cerebrale e terribilmente freddo, ma questo non è proprio il caso per Bellum Gnosticorum che appassiona e conquista l’ascoltatore nel suo incedere caldo e appassionato, tipico della musica popolare e lo rapisce con ipnotiche melodie. CD consigliatissimo tanto agli appassionati di musica avant-garde/sperimentale che ai cultori del genere etereo. Meglio, consigliatissimo a chi ama la grande musica. Punto. (Christian Dex) VER SACRUM XI 35


M o r t i i S

Tra i molti artisti la cui fama è indiscutibilmente legata al fatto di aver pubblicato alcuni lavori per l’ormai celeberrima Cold Meat Industry, Mortiis è senza dubbio uno dei più conosciuti ed apprezzati. La musica da lui composta evoca atmosfere oscure e decadenti e affascina per la sua estrema semplicità e linearità, ma non è l’unico elemento, tra i tanti legati all’artista norvegese, capace di intrigare ed affascinare l’ascoltatore. Da sempre infatti coloro che apprezzano gli album di Mortiis sono anche estremamente incuriositi da quella che è la sua immagine esteriore, che da un lato lo rende un personaggio unico nel panorama musicale e dall’altro contribuisce ad accentuare l’alone di mistero che da sempre lo circonda. L’intervista che segue conferma l’idea che ci troviamo davanti ad un individuo alquanto “sfuggente” e fuori dal comune...

Ho molto apprezzato il tuo nuovo album intitolato The Stargate, che mantiene il tipico sound “alla Mortiis” ma che è più elaborato rispetto alle produzioni precedenti. E’ questa la nuova direzione musicale che intendi sviluppare? Considerando come è la musica che ho composto dopo The Stargate, direi probabilmente di no. Penso che The Stargate sia stato un caso isolato... Il nuovo materiale presenta ancora alcuni degli aspetti “da colonna sonora” che anche quell’album ha, e il tipico sound “alla Mortiis” è ancora presente, ma ci sono anche tanti elementi nuovi e diversi. Credo che Mortiis sia un’entità in continuo cambiamento ed evoluzione... La voce femminile presente nel tuo nuovo album si adatta molto bene alla musica da te proposta, c’è qualche ragione particolare per cui hai deciso di impiegarla? Sono arrivato ad un punto in cui ho deciso che volevo cominciare a lavorare con altre persone, e i cori maschili e femminili sono stati la prima cosa che ho voluto introdurre nella mia musica. Puoi dirci qualcosa a proposito del concept generale che ruota attorno alla figura di Mortiis? Esiste un collegamento tra tutti i tuoi album oppure dovrebbero essere considerati come entità distinte? Possono essere facilmente visti come album separati, ma possono anche essere messi insieme e formare un concept più vasto. Fondamentalmente ho smesso di parlare del concept legato a Mortiis dopo che per me ci sono stati alcuni cambiamenti a livello personale. Il mio libro uscirà presto e, per quanto ingenuo possa essere, è comunque la storia del mondo di Mortiis dal suo inizio alla sua fine. In poche parole, stavo cercando una risposta all’enigma di Mortiis e alla fine mi sono reso conto che io sono lui e lui è me e che Mortiis è il nemico più temibile di se stesso. Che ne è stato degli altri tuoi progetti, denominati Fata Morgana e Vond? Hai intenzione di far uscire altri album sotto quei nomi? Per come stanno le cose ora, direi che non ci saranno più album di Vond e Fata Morgana. Ho deciso di smettere con il resto per concentrarmi su Mortiis. E’ uscito il tuo libro, intitolato The Secrets of my Kingdom? Di cosa tratta? Non ancora ma uscirà presto. Ha a che vedere con il mondo di Mortiis. Due dei tuoi album precedenti, e cioè Født til Å Herske e Crypt of the Wizard, sono appena stati ristampati dalla Earache. Accadrà lo stesso anche con Ånden Som Gjorde 0ppr¯or e Keiser av en dimension Ukjent? No, la Earache non ristamperà quegli album, infatti essi sono ancora su Cold Meat Industry. A quanto pare sei un fanatico del vinile, visto che esiste una versione su LP di quasi tutti i tuoi album. E’ una tua vecchia passione? Si, sono cresciuto con il vinile, per cui quando uscirono i primi CD non ne fui molto impressionato e continuai a cercare le versioni in LP degli album che volevo acquistare. Ovviamente il CD ha un suono migliore, specie per ciò che riguarda le nuove uscite, ma le dimensioni del vinile rendono maggior giustizia agli aspetti legati all’artwork di un album. Cosa ama ascoltare Mortiis? Hai altri interessi oltre alla musica (cinema, letteratura, arte o altro...)? Ho la tendenza a non dare un’opportunità alle cose, e quindi non ho molti altri interessi a cui dedicarmi. Alcune cose che trovo molto affascinanti sono i serial killers, l’occultismo (sebbene non lo pratichi) e così via. Tendo a considerare la TV come una perdita di tempo,

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ma guardo alcuni film di tanto in tanto, con lo scopo di “staccare” da tutto il resto. Mi piace leggere ma non lo faccio attentamente come dovrei. Ultimamente sto ascoltando il CD degli Era che trovo molto stimolante. Il tuo famosissimo make-up e il tuo travestimento sono cambiati molto dagli inizi, ma continuano ad essere sbalorditivi. Sono ideati interamente da te o c’è qualcuno che ti aiuta? Io esco fuori con le idee, ma vengo aiutato da altri per l’effettiva realizzazione di queste ultime. Cosa accadde durante la tua permanenza a New York, alcuni mesi fa? Ho letto che hai messo paura a parecchia gente che stava facendo un giro per strada!!! E’ solo un’altra esagerazione... Si, immagino che abbiamo spaventato un gruppo di gente, ma qualcuno ha fatto un comunicato stampa su quell’avvenimento che era incredibilmente esagerato. Ho anche letto che il tuo tour con i Christian Death è saltato, come mai? Non è saltato, anzi abbiamo fatto trenta date con loro in America e Canada. Alcuni show sono stati cancellati per svariate ragioni, ma non l’intero tour. Come sono stati i concerti fatti in passato e quali sono i tuoi progetti per quelli futuri? Stai pensando a qualcosa di particolare da fare sul palco? I concerti in passato sono stati pessimi. Questo è tutto quello che posso dire su di essi. Ovviamente ho sempre molte idee circa le cose che vorrei fare durante i live-shows, ma è tutta una questione di budget. Mi piacerebbe avere corpi umani che esplodono e scenografie in fiamme, ma come ho detto è un problema di soldi. Di solito comunque ci arrangiamo con ciò che possiamo fabbricarci da soli.

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VER SACRUM XI


Difficilmente la musica di Apoptygma Berzerk ha bisogno di presentazioni, visto che anche chi nutre il più distratto interesse per l’elettronica non può non aver sentito i suoi famosissimi cavalli di battaglia, da “Non-stop violence” a “Love Never Dies”, da “Bitch” a “Mourn”, da “Burning Heretics” a “Eclipse”. Il suo ulltimo album, Welcome to Earth, per quanto abbia avuto un successo planetario (secondo disco più venduto di genere “industrial” alla Tower Records di New York dopo i Nine Inch Nails!) ha senz’altro diviso i suoi fan. C’è chi è rimasto un po’ deluso da questa svolta piuttosto mainstream e dal dubbio valore di alcuni pezzi e chi invece si è lasciato conquistare senza remore. Se è innegabile la qualità di brani come “Starsign”, la grandissima cover dei Metallica “Fade to Black” o, tutto sommato, il singolo “Eclipse”, certo è che alcuni episodi appaiono senz’altro delle cadute di tono (dall’insulsa “Help me” alla criminale e melensissima “Moment of tranquility”, una sorta di omaggio del tema Twin Peaks). Tutti d’accordo invece a riconoscere la straordinaria qualità del gruppo norvegese dal vivo, che non a caso è stato nominato finalista dei “German Alternative Music Awards” nella categoria “Best Live band” (premio poi andato agli imprendibili In Extremo). E proprio dopo un riuscitissimo concerto al Circolo degli Artisti di Roma che abbiamo incontrato Stephan Groth(esk), che si è rivelato una persona gentilissima e squisita. In più che condivide con il sottoscritto una passione “insana” per gli Apple Macinotsh: a chi pensate infatti che sia dedicata “Kathy’s song”? Al suo -splendido- iBook, ovviamente!

Cominciamo con una domanda su Welcome to Earth. Quali sono state le ispirazioni principali per creare quest’album? Welcome to Earth è basato sul concetto di accogliere nella tua vita qualcosa che porterà un cambiamento positivo, ad esempio “togliere di mezzo Bill Gates” eh eh. Mi sento come se stessi aspettando qualcosa: potrebbe essere la venuta di Gesù Cristo, potrebbero essere gli Alieni, potrebbe essere l’album in sé, o un bambino che sta per nascere. Non importa in realtà cosa sia purché possa produrre un cambiamento. Sono piuttosto stufo della situazione odierna, del nostro modo di pensare, di agire, del nostro egoismo. Abbiamo registrato un album in Africa, in Tanzania, un anno fa con un progetto parallelo ad Apoptygma chiamato Acid Queen. Ho avuto modo di vedere come vivono là: siamo nel 2000 e loro mangiano gli avanzi per strada, non hanno servizi igienici, non c’è niente, è tutto un caos. Noi occidentali abbiamo sfruttato questa gente da sempre e vorrei che questo cambiasse. Non sono un comunista, ma mi piace l’idea di dividere ciò che abbiamo in modo che tutti possano vivere una vita migliore, avere cibo, le cose primarie di cui hai bisogno per esistere. Questo è quello di cui parla Welcome to earth: il desiderio che qualcuno venga a cambiare le cose. Quello che hai detto coinvolge due livelli, quello personale e quello, diciamo politico. Hai affrontato tutto ciò nei testi e in che modo? Prendi “Eclipse” per esempio. Parla dell’energia che si è concentrata durante l’eclisse dell’estate del 1999 in Europa. Pensa a quante persone erano concentrate su quell’evento. Questo tipo di energia è ciò che ha ispirato l’album. Così se capitasse qualcosa che riuscisse a far concentrare tutti, dall’Africa all’America, su un unico evento questo potrebbe spingere a dire: “OK, proviamo a cambiare le cose. Cominciamo dal fondo e cerchiamo di fare le cose per bene”. Sarebbe straordinario. Ma pensi che qualcosa sia cambiato o possa cambiare? Sembra quasi che ti aspetti qualcosa. Sto ancora aspettando. Spero che qualcosa di simile accada ma magari potrei morire prima che avvenga. Cosa ne pensi invece delle religioni “tradizionali”? Ho notato che nei tuoi album ci sono spesso dei riferimenti religiosi: il titolo del tuo CD d’esordio, Soli Deo Gloria, la copertina di 7, etc. Per me è molto importante avere la mente aperta, essere pronto ad accettare ogni possibile realtà che si possa rivelare. Per quanto mi riguarda la religione a cui mi sento più vicino è il Cristianesimo. Gesù come figura rappresenta l’energia più positiva che puoi avere. Il suo messaggio di perdonare tutti, di porgere l’altra guancia mi ha molto ispirato perché è così inusuale. Siamo abituati a pensare che se qualcuno ti dà uno schiaffo devi rispondergli con un calcio. E’ umano, normale. Ma non può funzionare perché è proprio questa “umanità” che ci ha condotto dove siamo ora. Ti parlavo dell’Africa: è il continente più ricco del mondo eppure i suoi abitanti sono distrutti, li abbiamo sfruttati da sempre perché siamo umani. E mi piacerebbe davvero se tutti diventassimo “non-umani”. Ho bisogno di questa energia positiva che trovo nei valori tradizionali cristiani. So che qui in Italia siete molto cattolici. Io per niente a dire il vero! No, ok, in generale. Ieri eravamo a Milano e siamo andati a visitare il Duomo. Era bellissimo essere lì. Prima di entrare stavamo scherzando tra di noi ma una volta dentro siamo rimasti senza paroVER SACRUM XI

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le. C’era un’energia speciale che non riesco a descrivere. La mia fede non è molto forte ma se sento qualcosa che mi parla, non so se sia la mia anima o la mia coscienza, voglio seguire ciò che mi dice. Chiamala intuizione: è come avere un terzo occhio. Stavo pensando a quello che dicevi sull’Africa e mi è venuta in mente la tua canzone “Non-stop violence”: qui parli di guerra, un problema molto serio ma usi delle melodie molto orecchiabili. Pensi che questa possa essere una buona forma per trasmettere dei messaggi? E pensi che il tuo pubblico recepisca veramente quello che vuoi dire? Innanzi tutto io non cercherei mai di imporre i miei pensieri a nessuno, Voglio solo esprimere cosa sento e nel momento in cui ho scritto “Non-stop violence” ero stato costretto dal governo norvegese a fare il militare. Io sono un pacifista e non volevo farlo e così feci domanda per il servizio civile ma non volevano farmelo fare. Temevano che potessi costituire un esempio per i ragazzi norvegesi. Così sono dovuto andare in tribunale, per tre volte, ogni volta con degli avvocati migliori e più cari. Era una situazione piuttosto strana. Alla fine sono stati costretti a lasciarmi fare cosa volevo. In quel momento ero particolarmente sensibile all’idea della violenza. Guardando la CNN non vedi altro che violenza e cattive vibrazioni, trasmesse 24 ore al giorno. Credo veramente che questo possa avere un’influenza nella gente, nel loro modo di pensare e di sentire. Naturalmente quello che è successo in Bosnia, con tutti quei morti, fa notizia ma allo stesso tempo non posso non esserne influenzato. Sarebbe bello se la CNN trasmettesse le cose belle che sono capitate nel mondo: naturalmente non lo fanno perché quello che fa vendere sono le immagini di bambini morti. Questo è quello di cui parla “Non-stop violence”: cattive vibrazioni che vengono diffuse 24 ore al giorno su tutti i canali. Tornando alla musica, quali sono secondo te i cambiamenti più significativi della tua carriera dall’inizio ad ora, le maggiori evoluzioni? Sono passato da un Atari ad un Macintosh e questo è stato un grande passo. Credo che la differenza principale sia che sono diventato migliore nel programmare i suoni, nel comporre, nel cantare e nel modo di lavorare in studio di registrazione. Ma puoi comunque rintracciare un “fil rouge” attraverso tutti i miei lavori, da Second Manifesto e Soli Deo Gloria, fino a 7 e Welcome to Earth. Sono sempre io. La gente continua a dirmi che ci sono molte differenze ma io non riesco veramente a sentirle perché sono parte di me, gli altri riescono meglio a notare queste cose. Naturalmente se ti riferisci alla qualità del prodotto le evoluzioni sono notevoli perché la produzione è migliore. In alcune tue interviste del passato hai affermato che c’era della malinconia nella tua musica, che definivi “dark-electro”. Welcome to Earth suona molto pìù “ottimista”. Sceglierei perfino la parola “felice”. Se sei una persona positiva, felice, che apprezzi la vita puoi anche scegliere di essere triste. Questo è ciò che intendevo: puoi decidere di essere di umore triste per essere coccolato. Nel passato ero più depresso e infelice, ma ciò che ho passato, il successo nella musica, mi hanno trasformato in una persona molto migliore. Scegliere di essere triste è perciò un lusso e solo quelli veramente felici possono farlo. Questo è ciò di cui parli in “Mourn”? Sì, parla della scelta di essere di umore malinconico perché chi vive veramente una vita miserevole non ha questa scelta e non può impedire di sentirsi triste. Concordi nel dire che la musica Electro è per gli anni ‘90 ciò che è stato il Punk per gli anni ’70 o il Gotico per gli ’80? Credo che quello che sta succedendo ora con band come VNV Nation, Covenant o Project Pitchfork è che insieme stiamo facendo un nuovo tipo di musica elettronica, pronta per il ventunesimo secolo. Questo al momento è un po’ duro da accettare per chi, specialmente i gotici, è molto conservatore e integralista. Ritengo che ci troviamo in prima linea per questo cambiamento e dobbiamo spingerlo ancora più avanti. Il futuro per la musica elettronica è ora più roseo che mai. Hai fatto molti tour, sia in Europa che in America. Quali sono secondo te le maggiori differenze fra la gente delle varie nazioni che hai incontrato? La scena underground è praticamente la stessa ovunque, salvo per il fatto che in Italia ci sono così tante donne estremamente belle! Questa band è molto speciale perché ha un seguito molto variegato, da chi ascolta Black Metal, Techno o Synth-Pop, gente normale o gotici. Questo mi piace molto perché io stesso ho gusti molto vari. Ieri sera a Milano c’erano metallari, gotici, “techno-freaks”. Penso che sia positivo quando tutte queste persone si riuniscono per 39

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condividere qualcosa che hanno in comune. Tornando ai tuoi testi, una delle tue canzoni più famose è “Deep red”, ovvero “Profondo Rosso”. Poiché qui in redazione siamo tutti grandi fan di Dario Argento vorremmo chiederti qualcosa su questo tuo interesse. Amo Dario Argento (pronunciato “Arrghènto”, n.d.r.)! Quando ero giovane i miei genitori non volevano che vedessi i suoi film e minacciavano di buttarmi via le videocassette. I suoi sono film estremamente importanti perché quando uscirono erano veramente estremi, anche se ora forse non lo sono più così tanto. E poi c’erano le colonne sonore dei Goblin, che adoro! I Goblin sono per me dei veri eroi, fra i miei favoriti di sempre insieme a Kraftwerk e Depeche Mode. Amavo vedere la violenza in quei film ma era soprattutto la musica a prendermi. In Scandinavia nessuno conosce i Goblin: nelle interviste quando dico “I Goblin sono uno dei miei gruppi preferiti e un’importante ispirazione per me” invariabilmente mi rispondono “Chi???”. Ti piacerebbe fare la colonna sonora di un film? Sì molto. Una compagnia americana mi chiese di fare il soundtrack per un film horror ma purtroppo non avevo tempo. Come ultima domanda vorremmo sapere da te qualcosa sulle tue famose “cover version”. Ne hai fatte tante e così diverse, dai Metallica, ai Kraftwerk e ai Depeche Mode. Con quale criterio le scegli? Se faccio una cover è perché quella canzone mi ha ispirato in qualche modo; è una sorta di tributo. Prendi per esempio “Fade to black” dei Metallica dall’ultimo disco. Adoro i Metallica, tanto che ho ripreso due loro canzoni. Per me fanno essenzialmente musica pop. Abbiamo fatto una cover di “All tomorrow’s parties” dei Velvet Underground che è uno dei pezzi più importanti per me. La prima volta che siamo stati a New York abbiamo suonato in un bar situato nel palazzo dove viveva Nico nel periodo dei Velvet Underground. E stavo cantando “All tomorrow’s parties” proprio lì e improvvisamente ho cominciato a piangere! Ho fatto anche una cover di “Electricity” degli OMD che sono un altro dei miei gruppi preferiti. Non faccio una cover per prendere in giro qualcuno; è un tributo al progetto originario, a qualcosa che mi ha coinvolto molto, che è stato importante per me. E voglio trasmettere queste vibrazioni agli altri. La generazione odierna, chi ha 18 anni ora, non sa chi siano i Velvet Underground, o Lou Reed o Nico. Quindi faccio cover affinché la gente possa dire “Cos’è questa canzone? Oh, è di Lou Reed, dei Velvet Underground. Vediamo chi erano.” E’ importante conoscere le proprie radici perché questo è quello che ti rende la persona che sei: tutti i gruppi che hai amato, i film che hai visto. Per me è importante rendere la gente consapevole di tutto ciò e farle conoscere le proprie radici. E se ti interessa la musica underground allora devi conoscere i Velvet Underground perché loro hanno inventato la musica underground; sono stati la prima band alternativa di sempre. Ma troppi non li conoscono e questo è un peccato. Così ho cercato di cambiare le cose. E quale sarà la prossima cover? Oh, è un segreto! …mentre col dito indicava la sua maglietta. Che, per la cronaca, era dei Cure!

Christian Dex

Candyman & Christian Dex recensiscono Apoptygma Berzerk: Kathy’s song (miniCD –Tatra). E' imbarazzante dover usare termini non propriamente lusinghieri quando si deve parlare di una delle proprie band preferite, ma questa volta è praticamente inevitabile. Il nuovo singolo di APB sa tanto di "operazione strappa soldi" ai danni dei fans; se già la scelta di "Kathy's Song" come singolo avrà suscitato perplessità in alcuni, che dire poi di ciò che il miniCD ci propone ? Ben 6 versioni del brano in questione senza nemmeno lo straccio di un inedito !! Niente da dire sulla qualità di 5 tracce su 6 che compongono il disco (la conclusiva versione per Commodore 64 sembra uno scherzo): si va dalla frenesia dance dei due remix di Ferry Corsten e quello di Beborn Beton alla più introspettiva versione dei VNV Nation, ma decisamente dalla nuova proposta discografica di Stephan Groth era lecito aspettarsi qualcosa in più. (Candyman) Stupisce un po’ la scelta della Tatra di pubblicare come nuovo singolo da Welcome to Earth proprio “Kathy’s song”. E’ sì vero che i brani buoni dell’album sono giusto una manciata, senza considerare poi l’innegabile potenziale commerciale di questa improbabile love song verso un Macintosh. Un ascoltatore smaliziato ha scarsi motivi di interesse per questo miniCD che presenta sei-versioni-sei della stessa canzone, cucinata in varie salse. Ancora una volta i VNV Nation confermano la loro mano fatata e presentano senz’altro il remix più riuscito (il meno peggio se volete). In puro stile techno (da “Love Parade” per intenderci) le due versioni a cura di Ferry Corsten, tutto sommato piuttosto divertenti (sarà che mi sto rincoglionendo con l’età…); meno interessanti gli altri due remix. Un’opera decisamente trascurabile. (Christian Dex) VER SACRUM XI

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Alla Projekt va senz’altro riconosciuto il merito di proporre musica, magari non sempre bella (quasi sempre a dire il vero), ma mai banale. E il progetto Voltaire è tutto tranne che banale! L’artista di New York si distingue per estro, intelligenza e fantasia straordinarie. Esprime la sua passione per atmosfere oscure, macabre ma pregne di humour nero, in molteplici forme. Suo infatti è l’irresistibile fumetto Oh My Goth! surreale omaggio (e presa per i fondelli) della scena oscura newyorkese. Di estremo interesse sono le sue animazioni “stop motion”, che senz’altro piacerebbero (piacciono?) a Tim Burton, con le loro atmosfere perverse e inquietanti (imperdibile il cortometraggio Rakthavira disponibuile su Internet). Ma ovviamente è principalmente nella veste di musicista che abbiamo intervistato Voltaire, che ci ha conquistato con i suoi due album The Devil’s Bris e il recente Almost Human, che viene recensito in fondo a questo articolo. Per approfondire la conoscenza con Voltaire puntate lesti il vostro browser al suo sito web: http://www.voltaire.net. E ovviamente leggete con attenzione l’intervista che segue...

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Voltaire

Presentati ai nostri lettori: chi sei, come hai cominciato a fare musica e perché ti chiami Voltaire? Sono un pagliaccio malefico e un romantico nato. Piango quasi ad ogni film che vedo e rido ai funerali. Sono un incrocio tra un irrimediabile sognatore e un maniaco del lavoro (che è una GRANDE combinazione perché significa che riesco a fare un sacco di cose!). Prendo i miei sogni ad occhi aperti molto seriamente: il mio scopo nella vita è di realizzarli. Vorrei vivere in un mondo di pace e amore ma so che è impossibile, così prendo in giro tutto il male che vedo intorno a me, per potermi difendere da esso. Sono un ottimista estremamente pessimista e un pessimista estremamente ottimista. Mangio troppa cioccolata. AMO Bjork. Un giorno spero di avere una parte in Star Trek. Bevo giornalmente diversi litri di caffè (il che mi aiuta a essere molto prolifico). Mi definisco un goth molto felice o una persona normale molto triste. Suonavo in una rock band alle superiori chiamata First Degree. Eravamo pessimi ma nessuno (specialmente noi) sembrava accorgersene. Infine non discuto mai del mio nome. Comunque ti dirò questo: non mi sono mai sentito così affine a nessun altro essere umano come a Voltaire (quello morto!). Il fatto che lui sia esistito mi dà delle speranze per la razza umana (per la quale nutro un’opinione assai bassa). Ti abbiamo conosciuto grazie alla musica ma sappiamo che questa è solo una delle tue attività, insieme a quella di animatore e di scrittore di fumetti. Parlaci di questi altri aspetti della tua carriera. In realtà la musica è entrata nella mia vita in un secondo momento. Il mio primo amore sono state le tecniche di animazione “a passo uno” (stop-motion). Ero un appassionato di film di mostri da quando ero molto piccolo. Ma anche a quell’età potevo accorgermi quando la creatura non era altro che un uomo in costume e che era tutto finto. Poi ho visto i film di Ray Harryhausen (Jason and the Argonauts, The 7th Voyage of Sinbad, etc) e finalmente c’erano tutti questi mostri che mi sembravano assolutamente vivi! Volevo capire come erano stati fatti, così passavo molto tempo nel negozio di fumetti locale a cercare nelle fanzine. In questo modo venni a conoscenza di Ray Harryhausen e della tecnica a passo uno. A dieci anni ricevetti una cinepresa Super 8 e cominciai a fare i miei film di animazione usando modellini di argilla e pupazzi. A 17 anni me ne andai da casa ed ebbi bisogno di trovare un lavoro. Mostrai così i miei film di animazione ad una compagnia di New York che mi dette il mio primo incarico come animatore per realizzare degli spot pubblicitari. Ho animato e diretto questo genere di cose sin da allora. Sei molto “europeo” per essere un artista americano: qual è il tuo background culturale? Innanzitutto non sono americano. Sono nato a Cuba, così come mio padre e suo padre prima di lui. La mia famiglia è di origine spagnola e così anch’io parlo questa lingua. Non so dire se questo abbia influenzato i miei gusti, visto che sono cresciuto soprattutto in America, ma capii quando ero molto piccolo che detestavo le cose tipicamente americane: preferivo quelle oscure e strane. In Europa e in Asia quest’ultime sono maggiormente apprezzate. Come nasce la tua musica, che unisce sonorità folk e traditional, suonate con violino e viola, mentre la voce e le melodie richiamano la wave degli anni ’80? Sono cresciuto ascoltando new wave e musica alternativa britannica, un vero figlio degli anni ’80. Come dicevo, non mi interessava assolutamente il pop americano, lo trovavo troppo “normale”. Preferivo le qualità inusuali delle band britanniche, come gli Psychedelic Furs, i Cure, gli Smiths, etc.. Questo ha avuto innegabilmente una grande influenza sul mio modo di cantare. Mentre scrivevo le canzoni che poi sono finite sul mio primo CD, The Devil’s Bris, ascoltavo molto Tom Waits (specialmente il suo disco Rain Dogs). Ero affascinato dal fatto che qualcuno facesse della musica con un tocco così retrò. Non mi interessava scrivere canzoni che fossero necessariamente simili a quelle che erano popolari in quel momento. Volevo solo fare BUONA musica. Ascoltavo poi un gruppo di New York chiamato Rasputina (tre suonatrici di violoncello che suonavano pezzi molto sagaci indossando lingerie di fine secolo!), che mi hanno ispirato nel comporre brani dal suono “gitano”. Non mi interessava molto il valore commerciale dei miei pezzi (o il fatto che non ne avessero affatto!). Quali sono le reazione del pubblico gotico statunitense a questa inusuale formula musicale? Il mio primo show la dice lunga al riguardo! Decisi di suonare, in pratica per scommessa, in un piccolo bar gotico di New York il 5/3/1995. La sola cosa di cui ero certo (oltre al fatto che me la stavo facendo

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sotto!) era che volevo fare qualcosa di diverso! Non volevo salire su un palco col trucco da mostro e cantare una manciata di canzoni piagnucolanti, con l’aria di chi è perennemente triste! Volevo mostrare lati differenti del carattere umano e volevo anche DIVERTIRE il pubblico. Così composi queste canzoni oscure e sarcastiche al tempo stesso e scrissi delle piccole storie (buffe) da raccontare tra un pezzo e l’altro. Ho perfino interrotto lo show a metà per fare una partita di Bingo con il pubblico! Naturalmente il numero vincente era il 666! Questa folla di circa 100 dark era SBALORDITA! Non sapeva proprio come reagire. Nella prima parte dello spettacolo potevo vedere che la gente cercava di trattenere le risate! Nessuno voleva farsi vedere mentre rideva in pubblico! Ma alla fine tutti ridevano e cantavano! Il pubblico è aumentato rapidamente nei concerti successivi. Nel giro di un anno ho aggiunto al gruppo un violinista, un violoncellista e un batterista (oltre a me alla voce e alla chitarra acustica). Siamo stati messi sotto contratto dalla Projekt un anno dopo... Abbiamo apprezzato particolarmente i tuoi testi, pregni come sono di un immaginario oscuro, e al contempo sottili e infarciti di humour nero. Come nascono e quali sono stati i tuoi modelli? Non sono sicuro di quali siano i riferimenti artistici da cui attingo il sarcasmo. Certamente la musica è ispirata da molte fonti differenti, ma credo che i testi siano davvero il prodotto della mia mente, un riflesso del modo in cui mi esprimo nella vita di ogni giorno. Sono una persona molto sarcastica e questo viene fuori nelle canzoni. Molti mi hanno messo in guardia dallo scrivere testi come questi! Temevano che sarei stato considerato una stravaganza o un comico che canta! Cazzo, qualcuno ride ad un club Goth e subito ti prendono per comico! Non mi interessa proprio scrivere musica fatta apposta per avere successo. Devo assolutamente dar voce a ciò che ho dentro. Penso che quando un artista cerca di essere “fico” a tutti i costi o scrive ciò che il pubblico vuole, è il momento in cui comincia a produrre merda. Le copertine dei tuoi due CD alternano un’immagine diabolica in The Devil’s Bris ad una angelica, sebbene peculiare, in Almost Human: si tratta di opere in cui esprimi la tua visione del Bene e del Male? Se è così, da che parte stai? A dire il vero, non credo né agli angeli né ai demoni, ma sono MOLTO affascinato da come la gente percepisce il Bene e il Male. E’ a causa di questi concetti, estremamente effimeri, che molte persone sono state crocefisse, violentate, uccise, picchiate, decapitate, etc.. In The Devil’s Bris volevo raccogliere dei commenti su quelli che credono di essere malvagi ma in realtà sono solo irritanti. Volevo inoltre creare questo personaggio maligno veramente esagerato, quasi da Circo. Per questo ho scelto per la copertina un’immagine come quella, che può, ne sono certo, aver tratto in inganno molti appassionati di Black Metal, che si saranno DAVVERO sorpresi nell’ascoltare i violini e il violoncello! Beh, devono essersi veramente incazzati! Per Almost Human ho scritto a ripetizione brani dal punto di vista di qualcuno che viene frainteso, qualcuno percepito come malvagio ma che non lo è affatto. Naturalmente è stato facile associare questa idea alla storia di Lucifero, che è forse la figura più perseguitata e fraintesa nella mitologia. Lui AMAVA Dio, ma voleva solo vedere qualche cambiamento in Paradiso (dovremmo sempre seguire i nostri capi ciecamente??!!) e per questo ha ricevuto una punizione durissima. Ironia della sorte è che i tipi più “normali” preferiscono Almost Human per via della sua copertina angelica e delle canzoni che sembrano più leggere; dal punto di vista dei testi però è un CD molto più sovversivo e malvagio di Bris, perché è pervaso di “simpatia per il diavolo”. E ora per qualcosa di completamente diverso… parlaci del tuo fumetto Oh My Goth: come è nato e di cosa parla? Dopo il mio primo show del 1995 cominciai a pensare a come promuovere i successivi concerti, perché non volevo limitarmi a stampare dei volantini come tutti gli altri gruppi. Così mi venne l’idea di fare un fumetto di 8 pagine chiamato Oh My Goth!. Presi l’idea da quei gruppi cristiani che distribuiscono fumetti nelle strade. In genere hanno in copertina un famoso personaggio, come Bart Simpson, così tu pensi “Wow, fico! Un fumetto di Bart Simpson!”. Poi cominci a leggere e la storia diventa man mano sempre più tetra e finisce con una citazione biblica che spiega perché il piccolo Bart finirà all’inferno per essere andato sullo skateboard! AAAAHHHHHH!!! Mi sento sempre così snervato dopo aver letto uno di questi fumetti, ma alla fine ho deciso di fare qualcosa di simile! Realizzai qualche migliaio di questi volumetti, fotocopiati e spillati a mano, e li distribuii nei club. In queste storie venivo inseguito dai servi di Satana che cercavano ad ogni costo di impedirmi di suonare: naturalmente finivano proprio col dare le informazioni sul mio prossimo concerto. A quel tempo ero già stato incaricato di scrivere e disegnare un fumetto di fantascienza intitolato Chi-Chian. Proposi all’editore di pubblicare anche Oh My Goth!, di cui avevo già disegnato il primo numero. Lo odiarono! Non sapevano cos’erano i gotici, non capivano le battute e pensavano che sarebbe stato un fallimento totale! In qualche modo riuscii a convincerli a pubblicarlo e con somma sorpresa finì per vendere più di ChiChian. In breve Oh My Goth! parla di un extraterrestre chiamato Hieronymous Poshe (che assomiglia terribilmente a me, hee hee), tenebroso, sarcastico e totalmente ridicolo! E’ stato sulla Terra per milioni di anni e tutto ciò che noi percepiamo come Male è basato su una delle sue sciocche buffonate. Così la nostra intera idea del Male non è altro che un fraintendimento delle VER SACRUM XI 42


abitudini di questo strano tipo. Ovviamente Hieronymous si fa strada nella scena gotica dove, essendo un freak vestito di nero, si ambienta alla perfezione! Questo fumetto rappresenta per me un’opportunità di rendere omaggio a tutte le cose che amo nell’unico modo che conosco: deridendole, scimmiottandole e mostrandole ridicole (è per questo che non ho amici!). Parlaci quindi di questa altra tua creatura, Chi-Chian, che è diventata ora anche una serie animata su web. L’idea per Chi-Chian mi è venuta a Tokio nel 1989. E’ una ragazza giapponese, giovane e innocente, che vive nella tetra New York del 31esimo secolo. Ho continuato a sognarla per anni: ogni volta che mi trovavo in un caffè la disegnavo sui tovagliolini. Ad un certo punto, sette anni dopo, mi resi conto di aver creato un intero mondo intorno a questo personaggio. Avrei voluto fare un film animato su Chi-Chian ma sarebbe costato milioni di dollari, allora decisi di raccontare la sua storia a fumetti. Così, da quel momento, ogni notte disegnavo la storia di Chi-Chian, seduto in un angolo di un bar di New York aperto 24 ore, chiamato Yaffa Cafe. Fui piuttosto fortunato perché appena ebbi finito il primo numero fui messo sotto contratto dall’editore Sirius. Mi commissionarono una serie di sei numeri che uscì tra il 1997 e il 1998. Disegnai ogni notte in quel caffè da mezzanotte alle 8 del mattino! E tutto questo mentre durante il giorno lavoravo per la pubblicità! E’ stato folle. Nel maggio del 2000 fui contattato dalle persone del sito web di Sci-Fi Channel, www.scifi.com, che mi proposero di creare per il web una serie animata di Chi-Chian! Ho avuto quasi un attacco di cuore! Ora che il sito è in linea (www.scifi.com/chichian) passo i miei giorni a lavorare al mio progetto del cuore: sto finalmente realizzando un’animazione su Chi-Chian! E’ completamente diversa da ciò che potete aver visto su Internet! Si tratta in pratica della prima serie animata a “passo uno” fatta apposta per il web. Costruisco i modellini in gomma, come per le tradizionali animazioni “stop-motion”, poi li fotografo e li animo al computer usando Flash. La mia descrizione di questa serie è: “Immaginatevi Tim Burton e H.R. Giger che si uniscono a Ray Harryhausen per creare un film di animazione giapponese”! Venite a vederla!!! In questo numero di Ver Sacrum si parla molto di religione. Qual’è il tuo punto di vista su questo argomento, visto che hai scritto anche un brano chiamato “God thinks”? La religione è una cosa molto spiacevole. Le idee sono giuste ma sfortunatamente sono manipolate da alcuni per adattarle al loro modo di pensare e ai loro sporchi desideri umani. Es. “uccidere è sbagliato a meno che non lo fai in nome di Dio”! Si convincono di essere nel giusto solo perché seguono diligentemente il rituale. Vanno in chiesa la domenica poi tornano a casa e picchiano le mogli, rubano al lavoro o molestano i propri figli. La religione è un rifugio per il Male, un travestimento molto ingegnoso. L’aspetto più sgradevole è che quelli che non fanno parte del “club”, quelli che non credono, sono di solito visti come scellerati e per questo perseguitati, anche se sono le persone più buone e gentili della Terra. E’ davvero un’amara ironia. Non mi interessa ciò in cui credono le persone, ma solo quello che fanno. E sì, è esattamente di questo che parla “God thinks”! Concludiamo con una battuta. Visto che sul tuo sito pubblichi le “13 Ragioni di Oh My Goth per …”, in esclusiva per Ver Sacrum dacci le “3 Ragioni -siamo a corto di spazio- per …” comprare Almost Human!!! #3: Stai facendo una ricerca per la scuola sugli angeli gay ed hai bisogno di fotografie. #2: Devi realizzare un film fantasy in cui Morrissey degli Smiths viene intrappolato in una macchina del tempo che lo trasporta nel XVI secolo, dove viene violentemente tormentato col solletico da un gruppo di pirati gitani e vampiri, ed hai bisogno di una colonna sonora. #1: Stai facendo una festa e sei a corto di sottobicchieri!

Christian Dex

Voltaire: Almost Human (CD – Projekt). Un recente sondaggio sul sito web della Projekt per votare l’artista più amato dell’etichetta ha visto Voltaire posizionarsi al quarto posto, davanti anche a gruppi storici come Eden, Attrition e Human Drama. Tale riconoscimento è senz’altro meritato ma sorprende al tempo stesso, perché la musica di Voltaire è senz’altro “fuori dal coro”, anche per un’etichetta eclettica come la Projekt. I legami con la scena wave degli anni ’80 sono indubbi, ma più che agli artisti post-punk o dark Voltaire strizza l’occhio al Marc Almond delle cover struggenti di Jacques Brel, agli Smiths più acustici, ai Cure di “Catch”, ma anche alla musica popolare yiddish (e anche a dire il vero agli album Projekt dei già citati Human Drama). Le atmosfere non sono poi tristi e deprimenti, forse un po’ malinconiche, anzi, in qualche modo si potrebbero anche definire solari (oddio, diciamo “leggermente nuvolose”). E’ indubbia invece la passione dell’autore per lo humour nero e macabro, per le battute sagaci e un po’ cattive, che rendono i testi unici e talvolta esilaranti. La musica si basa soprattutto sugli strumenti acustici, in particolare su un violino che dona al tutto un sapore folk, per quanto la costruzione dei pezzi sia indubbiamente rock, fondata solidamente com’è su basso, batteria e chitarra (acustica). La voce di Voltaire è poi bellissima, profonda e suadente e interpreta i brani qui presenti con grande efficacia e convinzione. A questo punto della recensione la menzione dei brani più riusciti si impone: segnalo quindi l’irresistibile “God thinks” uno splendido e intelligente brano contro tutti i fanatismi religiosi (“… e io so cosa Dio pensa, pensa che tu sia uno spreco di carne, Dio preferisce un ateo…”), la splendida “Anastasia”, il brano più gotico dell’album, una ballata struggente confezionata in un bellissimo arrangiamento, e “Alchemy Mondays” esilarante siparietto dedicato al club gotico di NY preferito da Voltaire. Per quanto mi riguarda Almost Human si classifica nei primi posti della mia personale classifica dei CD recensiti in questo numero ma è indubbio che un’opera come questa possa non piacere a tutti. Spero che dopo questa recensione, e soprattutto dopo l’intervista a Voltaire, vorrete dare una chance a questo CD. Non dovreste rimanere delusi… (C. Dex)

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Floria Sigismondi mente qualcosa in comune con altre persone. Sembri condividere con gli artisti surrealisti (Man Ray, Breton, Hans Bellmer) un comune approccio teorico (il rapporto con i sogni) ed estetico: ti senti influenzata dal loro lavoro? Quali sono gli artisti, in ogni campo espressivo, a cui ti senti più vicina? Hans Bellmer … ottima osservazione. Ricordo ancora la prima volta che ho visto un suo lavoro e quanto mi abbia colpito. Siamo entrambi ossessionati con la manipolazione della forma umana. Il film di Roman Polanski L’inquilino del terzo piano ha poi avuto una grande influenza su di me; mostra magnificamente la sottile linea che segna quel limite che non va mai superato. Parla anche di paranoia. Due argomenti che mi ossessionano. In molte tue opere compaiono dei simboli religiosi: pensi che il fatto di essere di origini italiane abbia influenzato la tua visione della religione? Che rapporto hai con il Cattolicesimo? Mia madre doveva farsi suora mentre mio padre, come molti socialisti, non dava molta importanza alla religione. Ho cercato di tirare fuori tutta l’angoscia cattolica in quei lavori. La colpa, il dolore … Penso che quelle immagini di sofferenza e torture siano troppo da sopportare per dei bambini e con la mia immaginazione il tutto è stato un po’ traumatizzante. Come ti relazioni con la morte? Molte tue foto sembrano una sorta di “memento mori” (“The Vulture”, “Skeleton Man”, “Dismembered A. S.”). Penso alla morte ogni giorno. Mi permette di vivere e fare delle scelte in modo molto particolare. Mi ricorda della mia mortalità. In alcune tue opere (“Martina”, “Self portrait in water”, il ritratto di Sylvia Caitlin Burn) raffiguri delle donne immerse nell’acqua: sono una sorta di Ophelie metropolitane e come le corrispettive preraffaelite sembrano creature ultraterrene, morte o sul punto di morire. Quali sono le ispirazioni che ti hanno spinto a realizzare queste fotografie? Da bambina ho provato una “near death experience” a causa dell’acqua. Ho elaborato queste paure a livello del subconscio, attraverso l’uso di simboli. Non so da dove vengano queste immagini fino a quando non mi ritrovo con l’opera finita. Posso studiarla ed essa risponde a delle domande per me. A quel punto non possiede più quel misterioso ed opprimente elemento. Posso sperimentare queste cose mantenendo il tutto sotto controllo, suppongo. Spesso le tue opere trasmettono un forte senso di claustrofobia: i muri circondano i modelli, la luce

Due splendidi video per lo “zio” Marilyn Manson (“Tourniquet” e “Beautiful People”) hanno fatto conoscere Floria Sigismondi a tutti gli amanti delle immagini morbose e inquietanti. La sua arte è la porta verso un mondo sospeso nel tempo, fatto di incubi e della sostanza di cui sono fatti i sogni. Benvenuti nel suo incubo!

Raccontaci qualcosa sulla tua vita e su come si è sviluppata la tua arte e la tua carriera negli anni. Sono cresciuta in un piccolo sobborgo industriale (Hamilton) e dipingere era il mio modo di evadere. Potevo creare mondi che non esistevano. Ho prodotto molti lavori quando ero una teenager e le mie passioni comprendevano la pittura e la scultura - non ero solita guardare molti film a quel tempo -. C’era una traccia di stile che si stava sviluppando, ma più che altro stavo sperimentando con varie tecniche e cercavo di conoscere meglio me stessa. Credo che hai bisogno di fare delle vere esperienze di vita per avere una voce forte. Come spieghi il successo del tuo immaginario, apparentemente così distante dall’estetica edonistica dei nostri tempi? Quali sono le corde che vuoi toccare in chi guarda una tua opera? Le immagini vengono da un posto dentro di me, nel profondo. Non credo che tutto debba sempre ridursi a “tette e culi”. Cerco di mettere in dubbio l’estetica che la società ha imposto all’umanità. Punto ad essere sincera con me stessa e, come risultato, a trovare possibil-

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del sole è assente e le figure sono illuminate soltanto dai neon. Perché questa scelta? Quelle immagini sono lo specchio di ciò che sento nella mia vita reale. C’è stato un momento in cui questo è stato un tema predominante del mio lavoro. Stavo passando un periodo in cui mi sentivo insicura. Ambienti i tuoi scatti fra case in declino e fabbriche abbandonate: le figure dei tuoi ritratti sembrano pertanto quasi dei fantasmi, delle memorie di vita vissuta tempo addietro... Mi piace creare dei mondi surreali, mondi che vivono solo nella mia immaginazione. Suppongo che appartengano a una vita trascorsa tanto tempo fa, forse una vita che non esiste veramente eccetto che in momentanee apparizioni che mi vengono svelate, di solito, nel cuore della notte. In molte tue foto i colori sono innaturalmente saturi e ricchi, i volti dei modelli truccati grottescamente oppure completamente sfuocati: è un tentativo di rappresentare un mondo onirico? Qual è il tuo rapporto con i sogni? Sogno… mi pongo in uno stato di privazione del sonno. Un posto dove il mondo così come lo conosciamo si distorce e si scioglie per rivelarne un altro, privo di regole, dove le immagini appaiono in spaventosa chiarezza e nitidi dettagli. Protesi, strumenti dentistici, ospedali abbandonati, abbondano nelle tue opere e si rivelano estremamente disturbanti: com’è nata l’idea di usare queste immagini nelle tue foto? Volevo usare qualcosa che fosse familiare a tutti. Le persone possono così attingere alle proprie memorie dell’ambiente ospedaliero, con cui tutti abbiamo avuto delle esperienze dolorose e spiacevoli. Credo che sia più efficace quando chi guarda l’opera attinge alle proprie paure. Un’altra immagine ricorrente nei tuoi ritratti è quella delle bambole e delle marionette: questi simboli dell’infanzia e dell’innocenza, decontestualizzati, suscitano un forte senso di disagio... La bambola simbolizza un certo tipo di innocenza, così decontestualizzarla genera tensione. Si tratta di accostare gli opposti. La bambola in un edificio decrepito crea mistero, genera delle domande, ci fa chiedere cosa è successo e perché si trova là. Mi hanno colpito alcune foto di Tricky il cui trucco lo faceva sembrare una specie di lucertola. In altri ritratti le tue modelle sono coperte da rettili. Sei affascinata da questi animali? No, non mi interessano veramente, sebbene i loro occhi e la loro pelle sono probabilmente ciò che più mi attira, … ma le falene … beh, quella è un’altra storia. Com’è nata l’idea di girare video musicali?

Quali sono gli obiettivi che ti poni lavorando con questo media? Esprimermi. Stai girando un film: vuoi parlarcene? Ho firmato un contratto con la Edward Pressman Films (che ha prodotto American Psycho, Il cattivo Tenente e Bad lands). Il film è basato sul libro Severed di John Gilmore. Si tratta di una storia vera e parla dell’omicidio irrisolto di una giovane donna che era venuta a Hollywood in cerca di fama. Finì per essere violentemente smembrata. E’ ancora in fase di sviluppo e spero che possa arrivare presto al pubblico, dato che sono entusiasta di questo lavoro. Ti stiamo intervistando per una rivista gotica: quale sono i tuoi rapporti con la sub-cultura e l’immaginario gotici? Ero una gotica, ora non lo sono più. Non posso finire questa intervista senza averti chiesto qualcosa su Marilyn Manson: com’è nata la vostra collaborazione? Mi è stato chiesto di collaborare per il video di “The Beautiful People”. Gli sono piaciute le mie idee e ci siamo intesi bene su questo. E’ stato la mia musa per molte cose che avevo in testa. Gli sono grata per aver avuto una tale fiducia in me.

Christian Dex Le foto di quest’articolo sono tratte dal libro fotografico Redemption della Die Gestalten Verlag (1998). Per informazioni: http://www.floriasigismondi.com

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Fantafestival 2.000 vent’anni dopo ortunatamente

l’edizione

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del

forse sono gli stessi anche i geniali autori), troppo è stato vedere un Jean Rollin vecchio e malato (è in dialisi ed era venuto a Roma per presentare in anteprima mondiale il suo film) sommerso di insulti, offese personali, fischi e pernacchie prima della proiezione del suo film. E purtroppo ai Ravaglioli e Pintaldi più volte imbarazzati e furiosi facevano da contrappunto giovani colleghi di fanzine (scusate, riviste) di genere compiaciuti da questa -testuale“atmosfera nazional popolare”, perché -testuale“mica siamo a Venezia”. Sarà, ma il prossimo anno bisognerà pur tutelare chi vuole vedere e sentire i film e che magari paga per farlo (perché, caro collega nazional popolare, non tutti hanno accrediti o ingressi omaggio, come te e me), senza costringere la direzione del cinema, come è successo, a rimborsare i biglietti. Ma passiamo ai film in concorso, parlandone nell’ordine in cui li abbiamo visti. BRIDE OF CHUCKY (USA 1998), di Ronny Yu. Siamo al quarto capitolo della saga della bambola assassina iniziata nel 1988 da Tom Holland. Questa volta, pur essendo sempre nell’ambito del fun horror adolescenziale americano, il prodotto risulta di ottima qualità, ben diretto e con eccezionali effetti speciali. Molto interessante la cifra satirica che Yu ha saputo imprimere al suo prodotto, facendone una parodia riuscita ed esilarante di Natural Born Killer. Giusto quindi il premio per i migliori effetti speciali e accettabile quello come migliore attrice ad una Jennifer Tilly che si ride addosso. Il film è uscito in sordina nelle sale italiane nella tarda estate. LIGHTHOUSE (GB 1999) di Simon Hunter. In una notte di tempesta il serial killer Leo Rook, riesce ad evadere dal battello che lo sta trasportando in penitenziario e guidato dal fascio luminoso di un faro raggiunge la piccola isola di Gehenna dove uccide i guardiani del faro e distrugge il sistema di illuminazione. Ciò fa naufragare su Geheenna il battello e i sopravvissuti inizieranno ad essere, un ad uno, bersaglio di Rook. Il film che parte come un serial killer movie stile Silenzio degli innocenti, si trasforma poi in un thriller notturno claustrofobico e gotico (il faro sembra un labirintico castello) dalle forti connotazioni splatter. Ma la vera sorpresa è il fatto che con ogni evidenza il nume tutelare del giovane Hunter (ha trentuno anni) è Dario Argento del quale imita soluzioni registiche (ad esempio i movimenti di macchina, i dettagli macro, il gusto per la coreografia del delitto), parafrasa intere sequenze (la scena dell’omi-

Fantafestival di Roma, quella del ventennale, F s’è rivelata all’altezza della celebrazione di due decen-

ni di vita di quello che, nel bene o nel male, è uno dei festival del cinema di genere più importanti d’Europa. In una settimana di attività si sono visti 13 film in concorso e oltre 20 film in informativa (lunghi e cortometraggi, compresi video di autori italiani), fra cui ben 5 anteprime mondiali ed un’anteprima europea) e poi è stata offerta una vasta retrospettiva (oltre 50 film) riassuntiva del panorama horror e fantastico degli ultimi trent’anni. Bene ha funzionato anche la macchina organizzativa, con un ufficio stampa efficiente (un ringraziamento va da parte mia ad Anna Rita Peritore per la sua gentilezza e disponibilità). Altra nota di merito è stato l’abbassamento del costo del biglietto, che ha portato il giornaliero all’abbordabile prezzo di diecimila lire. Il vero punctum dolens di quest’anno è stato invece proprio il pubblico: raramente m’è stato dato d’assistere ad un tale concentrato di maleducazione, prepotenza, vuota ed iterata imbecillità. D’accordo non bisogna generalizzare, occorre fare dei distinguo, ma sinceramente troppi sono stati i film inguardabili ed inascoltabili per i frizzi ed i lazzi a volte vergognosamente volgari che li sommergevano (a parte il fatto che battute e prese in giro sono le stesse da almeno cinque anni, e

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cidio dell’uomo nel bagno che all’inizio sfugge al killer perché l’oggetto che fa cadere rimbalza su un asciugamani, girata con un rallenty dilatato e senza sonoro, non può non ricordare la scena di Phenomena in cui l’infermiera si fa sfuggire il ferro da calza che si infilza nel gomitolo…), e cita la fotografia calda e cupa usata da Ronnie Taylor in Opera. Pecca del lavoro di Hunter sono l’eccessiva linearità del plot (proprio da slasher movie) e l’uso a volte stucchevole del digitale (passi per gli effetti splatter, o i ritocchi alla scenografia, ma è possibile che oggi nessuna sappia più filmare un’alba semplicemente riprendendo il sole che sorge?) Il film ha vinto il Melies d’Argento, che è la segnalazione per il Melies d’Oro offerto dalla federazione europea dei festival del cinema fantastico, proposto dai singoli federati. THEY NEST (USA 2000), di Ellory Elkayenn. Proposta in anteprima mondiale, questa opera prima di produzione americana del giovane neozelandese Elkayenn, pur non andando oltre gli standard di una media produzione, potrà piacere ai nostalgici del cinema “animalista” degli anni ‘70 (Swarm, Bees, Squirm, The Bug…) del quale cita scientemente atmosfere, location, temi e ritmi. THE ST. FRANCISVILLE EXPERIMENT (USA 2000. Altra anteprima mondiale per questo incredibile e spudorato clone di The Blair Witch Project, coi fantasmi al posto delle streghe e del quale non è stato dato sapere nulla di autori ed interpreti. Tutto giocato sul facile escamotage l’altro-era-finto-vero-ma-questo-è-vero-vero, il film è francamente invedibile e irritante oltre ogni dire. L’unica cosa simpatica legata al film, un concorso sulla platea più reattiva, è saltato grazie agli imbecilli di cui sopra. ANGEL OF THE NIGHT (DK 1999), di Shaky Gonzalez. Nonostante il nome del regista al suo primo lungometraggio, il film è di produzione danese. Si tratta di una storia di vampirismo, che partendo con un incipit che è una deliziosa e visivamente densa rievocazione delle atmosfere gotiche hammeriane, poi si sfilaccia, decisamente viziato com’è nell’incertezza fra l’omaggio e la citazione raffinata e l’ironia a volte al limite del comico. Interessante l’idea della storia che varia a seconda di chi la racconta (dalla storia gotica ad atmosfere alla Tarantino) e belli gli effetti speciali, per i quali ha ricevuto una menzione insieme a Bride of Chucky. THE CONVENT (USA 2000), di Mike Mendez. E’ stato il momento estremo del festival, premiato con una menzione speciale. Si tratta di una affettuosa rivisitazione del cinema splatter degli anni ‘80, da quello di Raimi a -in special modo- Demoni di

Argento/Bava del quale ripete scene, atmosfere e dettagli del make up. Si tratta di una vicenda giovanilistica di contaminazione a catena (i demoni sono questa volta monache sataniche) ipercinetica, iperviolenta, caratterizzata da una fotografia acida e psichedelica (grande uso si fa di vernici fluorescenti ai raggi ultravioletti, molto anni ‘70), sottolineata da una colonna sonora industrial-metal. L’atmosfera prevalente è comunque quella caricaturale, da comics. GOOD-BYE 20TH CENTURY (Macedonia 1997), di Darko Mitrevski e Alexandar Popovsky. Il film è un esempio di cinematografia “marginale” al di fuori dei grandi business e del circuito internazionale, e per questo va seguito e considerato con rispetto. Ma, sinceramente, ho trovato questa vicenda millenaristica, che mischia materiale iconografico tratto da film alla Mad Max, al western, alla metafisica medievaleggiante, allo splatter, ad una notevole componente grottesca di derivazione Fellini-BunuelKusturica, che appesantisce il tutto con le lentezze e i ritmi del cinema dell’est, decisamente difficile da seguire e davvero indigesta. Però potrebbe essere un mio limite. Premio come migliore attore al protagonista Lazar Ristovski. POSSESSED (DK 2000), Anders R. Klarlund. Interessantissimo thriller horror, geniale variazione sul tema della possessione diabolica. Ma se il diavolo c’entra, non aspettatevi la solita storia di corpi urlanti e sbavanti (rivisitata con successo di recente dal notevole Stigmate): questa volta il Maligno ha scelto un nuovo e terrificante modo per possederci. Thriller teso e gelido come le sue locations, miscela sapientemente, con una regia rigorosa, thriller hi-tech, fantahorror, medical thriller e brividi gotici. Bravissimo Udo Kier. Premiato per la migliore regia, meritatissimamente. NEW BLOOD (GB 1999), di Michael Hurst La piccola Emma soffre di gravi disturbi cardiaci e ha bisogno di un nuovo cuore, ma il padre Allan non ha i soldi per farla operare. Una notte il fratello di Allan gli fa una proposta: gli offre il suo cuore se lui accetterà, per una sola notte, di interpretare il ruolo di un misterioso delinquente da tutti temuto ma che nessuno ha mai visto in volto… Sono le premesse di questo noir cupo e violento, dai continui colpi di scena e bagnato da fiumi di sangue, nel quale ritroviamo atmosfere care a Tarantino, ma anche al Synger dei Soliti Sospetti, in salsa tipicamente inglese. Bravissimo John Hurt, ma in fondo viene da chiedersi: che c’entra tutto ciò col Fantafestival? RAZOR BLADE SMILE (GB 1998), di Jake West. Annunciato come uno degli eventi di questa edizio47

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ne, dato anche il successo ottenuto in patria, questa storia di vampiri ha mantenuto meno di quanto promettesse. Interessante è l’ambientazione negli ambienti goth di Londra (deliziose ed istruttive le sequenze in cui le gotiche insegnano ignare alla vampira vera il comportamento della perfetta bevitrice di sangue), simpatica la caratterizzazione della vampira (il più delle volte vestita da attillate tute in PVC) che di mestiere fa la killer (non rischia nulla essendo immortale ed in più può nutrirsi senza problemi), ma il satirico mix fra horror e action movie (nume tutelare John Woo) non è poi così esaltante, e la storia non è per nulla trasgressiva, trasudante com’è di sentimentalismo e fornita di happy end pressoché canonico. Insomma, divertimento assicurato ma nulla di trascendentale, anche se è notevole la qualità produttiva, nonostante il low-budget. Nella colonna sonora Bauhaus e Fields of the Nephilim. Premio alla vampira Eileen Daly. LOS SIN NOMBRE/THE NAMELESS (SP 1999), di Jaume Balaguerò. E’ stato il capolavoro del festival, premiato come miglior film. Da un romanzo del grande Ramsey Campbell, il giovane regista spagnolo Jaume Balaguerò (che ha fatto incetta di premi nei festival internazionali sia con questo film che con i precedenti cortometraggi), ha tratto un film terrificante, realmente pauroso, caratterizzato da un’estrema raffinatezza registica e formale, da una straordinaria sceneggiatura (il “superbo uso della sceneggiatura” è giustamente fra le motivazioni del premio), da un’incredibile qualità della fotografia e del suono e supportato dalla grande bravura degli interpreti. Un horror duro e puro, lontano dai viraggi ironici che in qualche modo infestano il genere, violento ma non gratuitamente gore, caratterizzato da una straordinaria misura e da un uso e una padronanza magistrale dei mezzi espressivi. Grande, Jaume Balaguerò è sicuramente una delle promesse dell’horror internazionale, che ovviamente fino a oggi non ha trovato ancora una distribuzione italiana. Questi in sintesi i film in concorso. Tantissimi, come abbiamo detto anche i film in informativa, ma non possiamo parlare di tutti, sia per questioni di spazio sia perché non sono riuscito a vederli tutti (non ho ancora il dono dell’ubiquità, e poi la resistenza umana ha un limite…). Da segnalare l’ultimo film di Jeans Rollin L’Amante di Dracula, che è tornato al festival di Roma dopo 5 anni con un’anteprima mondiale. Forse il film non è bello, ma bisogna parlarne per il suo delizioso coraggio démodé, per il suo essere assolutamente anticommerciale, per la sua aura assolutamente stralunata. E VER SACRUM XI

poi la nostra solidarietà va al vecchio maestro Rollin per gli insulti vergognosi da lui ricevuti… Molto bello è il coreano Tell Me Something (1999) di Chang Youn-Hyun. Si tratta di un notevole thriller argentiano che si ispira alle atmosfere di Tenebre anche senza disdegnare strizzate d’occhio al serial killer movie di ultima generazione (l’onnipresente pioggia alla Seven…), e se i moduli recitativi sono quelli tipici del cinema estremo orientale e i tempi pure (fra finale e controfinale ci sono circa 30 minuti, laddove Argento ne avrebbe impiegati 3…), Youn- Hyun ha talento e si vede. Notevole è anche lo stregonesco islandese Witchcraft (1999) di Hrafn Gunnlaugsson, oscuro e gotico, e bello il corto Abuelitos (1999) dello spagnolo Carlos J. Plaza con il quale siamo dalle parti della qualità proposta da un Nacho Cerda. Per finire una menzione per un lungometraggio italiano, Tartarughe dal Becco d’Ascia (1999) del milanese Antonio Syxty. Dietro all’enigmatico titolo si cela una sorta di thriller western metafisico di ambientazione invernale in cui pare di respirare riverberi di un film come l’Insaziabile di Antonia Byrd, visto al Fantafestival l’anno scorso. Splendide le locations (si è girato d’inverno sull’altopiano di Asiago), bella e ammaliante la storia in sé, supportata da una notevole fotografia. Ma l’impostazione teatrale dell’insieme e degli attori (Massimo Foschi, Raffaella Boscolo, Antonio Latella e Marco Foschi), è ulteriormente appesantita da un uso sovrabbondante delle soluzioni tecniche (montaggio fuori sincrono, jump cut, rallenty, sovraesposizione, uso rarefatto del soundtrack, già di per sé minimale, scansione della vicenda in capitoli ognuno col proprio titolo…) che rende il tutto pesantissimo e viziato da un eccessivo intellettualismo. Il film finisce per scontentare sia gli assertori del cinema d’ “autore” (debitore com’è degli stilemi di vari generi, dal thrilling al western), sia i supporters dei generi, perché l’intellettualismo di cui sopra e l’eccessiva rarefazione del tutto danno l’impressione d’avere usato i generi in maniera supponente quanto cannibalica. In compenso un buon festival, dunque, che ha avuto oltretutto il merito di porre attenzione sulla cinematografia europea, evitando una visione americo-centrica, ma mettendo anche in luce la vergognosa e dolorosa latitanza del nostro paese. E’ tutto per quest’anno. Speriamo di scrivere ancora dell’edizione 2001.

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The Nameless - Los Sin Nombre Intervista a Jaume Balagueró Campbell ha visto il film? Sì, l’ha visto. E ha detto che gli è piaciuto molto e che si è anche spaventato… dato che la mia sceneggiatura è molto diversa dal suo romanzo…ci sono un sacco di differenze. Nelle atmosfere? No, no…anzi credo di avere mantenuto le atmosfere molto vicine a quelle del romanzo di Campbell, gli elementi portanti sono assolutamente campbelliani. Le differenze stanno principalmente nel plot, nell’approccio ad esso. Insomma, quando è venuto a Barcellona a vedere il film ero spaventatissimo… e mi dice d’avere avuto paura lui! Quindi ti lascio immaginare la mia emozione quando mi ha detto, col suo fare gentile e molto inglese, che il mio finale gli è piaciuto molto più del suo… Ma come mai non hai scelto di proporre una storia tua? Perché la storia di Campbell era bellissima, forte e ne ero totalmente affascinato. Perché io sono molto interessato a raccontare storie importanti, complesse e solide. Non mi interessa l’horror fatto di killer e teen-agers urlanti. Ne ho visti tanti di film così, ma non mi interessa farli. Amo raccontare, amo raccontare qualche cosa che sia credibile, reale, verosimile. In realtà, uno dei limiti dei giovani autori del fantastico è proprio la mancanza di storie, come più volte si è visto anche al Fantafestival… grande tecnica al servizio di nulla. Come mi pare ormai un’idea fissa il mix di horror e humor oggi tanto in voga. Sono d’accordo. Rispetto chi fa quel genere di film, e rispetto anche il pubblico che li va a vedere… ma a me non interessano. Poi, adattare il romanzo di Campbell m’è servito tantissimo anche nella stesura dello script del mio nuovo film: sto tentando di creare una storia complessa, verosimile… ma assolutamente horror, senza ironia. Un lavoro che sorprenda anche me…

Voglio ancora una volta ringraziare Anna Rita Peritore. Un altro sentito ringraziamento va ad Antonia Nava, capo dell’ufficio vendite della Filmax, e a Deborah Palomo Sturla, responsabile dell’ufficio stampa, per la sua velocità ed efficienza (spero le sia arrivato il mio sms). Esortandovi vivamente a procurarvi in qualche modo questo splendido film che probabilmente mai vedrete in Italia, do anche il recapito della Filmax con il miraggio che forse qualcuno possa essere interessato a distribuire il film: FILMAX, Miguel Hernandez, 81-87 Poligono Pedrosa 08908, L’Hospitalet de Llobergat, Barcelona-Espana. Tel: 34933368555, Fax: 34932630824/4656

Allora, Jaume, presentati ai lettori di Ver Sacrum... Mi chiamo Jaume Balagueró, sono spagnolo, sono nato nel 1968 ed ho esordito nel cortometraggio in pellicola nel 1994, con Alicia… e poi Los Sin Nombre… Come sei riuscito a realizzare un film di così alta qualità tecnica e formale? Qui in Italia sarebbe impossibile, pensa che hanno difficoltà registi come Argento, figurati i giovani autori, mentre da qualche tempo la Spagna sforna personalità di grande rilievo (penso anche a Cerda, a Villaronga, a Plaza). Non so… non so dirti cosa è accaduto. La Spagna non ha una tradizione di cinema fantastico; l’ha avuta negli anni ‘60 e ‘70 con autori come Franco, De Ossorio o attori come Paul Naschy, ma i loro, diciamolo, sono film di culto…non film di qualità. Negli ultimi vent’anni non c’è stata alcuna tradizione, poi qualche cosa è accaduto…non so cosa… Ma la qualità è molto alta… prodotti magari di non alto budget che sembrano un film ad alto costo. C’è una grossa maturità… Sì…io penso che la nuova generazione di filmakers spagnoli sia prima di tutto una generazione di consumatori di cinema… amano, hanno amato il cinema americano, lo conoscono… amano i fumetti ed hanno sviluppato un linguaggio nuovo…estremamente moderno…pieno di cose nuove. Oltre ai registi c’è poi un gran numero di giovani tecnici molto preparati, entusiasti di lavorare. Perché hai scelto come soggetto del tuo film il romanzo di Ramsey Campbell? E’ la prima volta che lui concede i diritti di una sua opera. Qualche anno fa in un incontro qui a Roma ne faceva un punto di orgoglio… Mi sono innamorato subito del romanzo di Campbell, ho amato il romanzo in se stesso, mi ha colpito immediatamente la bellezza della storia, la sua potenza, il fatto che era estremamente appassionante, il fatto che era molto molto paurosa. Era proprio il genere di storia che avrei voluto raccontare in un film… Così il produttore ha contattato l’agente di Campbell, per convincerlo. 49

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volutamente quei toni freddi e metallici? Si, ho lavorato a lungo sulla fotografia. Ho privilegiato i toni freddi, metallici, quelli della tavola di un obitorio, e poi ho voluto un nero caricato, profondo, spesso. Non ho voluto colori vivi, capisci? Ho voluto i colori morti provenienti dalla nebbia della memoria. Perché la storia che ho raccontato è fatta di morti, è una storia di morti: ho raccontato una storia i cui protagonisti sono tutti morti, da tempo. Non c’è nessuno vivo nel mio film… e i morti non hanno colore. Il direttore della fotografia che mi ha aiutato a materializzare tutto ciò su chiama Xavi Giménez. Anche gli attori sono molto bravi, ma sconosciuti qui in Italia. Claudia è Emma Vilarasau, una importantissima attrice di teatro, con me alla sua prima esperienza cinematografica, bravissima e intensa. E la bambina, che ricorda tanto la Jennifer Connelly di Phenomena? E’ vero… Angela…Angela è Jessica Del Pozo, ha undici anni, è al suo esordio cinematografico, ma siccome è bellissima è nota come modella e protagonista di spot pubblicitari. E la bellissima colonna sonora? La colonna sonora è opera di Carles Casas, il più noto autore spagnolo di musica da film. E gli straordinari effetti sonori? Straordinari… è vero. Sono opera di Salva Mayolas, che secondo me è un vero genio del suono. Abbiamo passato un sacco di tempo a costruire gli effetti, a sviscerarli… per me il suono è importante quanto la fotografia. Canonica domanda finale. A quando il tuo prossimo film? Ho cominciato a lavorare al mio nuovo film alla fine dell’anno scorso e penso che sarà pronto per la fine di questo. Sarà un horror puro, con una storia complessa, intitolato Darkness. Sarà un film importante, grosso… E Los Sin Nombre, lo vedremo mai in Italia nei circuiti regolari? Non lo so… Antonia è qui con me per questo, lo abbiamo venduto in tutta Europa e in tutta l’Asia tranne che qui in Italia…non so perché… ma ancora nessuno s’è fatto avanti. Un’ultima curiosità. Che t’è parso del pubblico del Fantafestival? Molto…vivo…molto partecipativo. Più di quello di Bruxelles, non me l’aspettavo, ma va bene così…mi piace e mi diverte quando c’è uno scambio con la gente… Ok Jaume, grazie e a presto… spero.

Sicchè il tuo è un horror fiero di essere tale, senza complessi. Assolutamente sì. Come mai hai scelto di inserire una serie di freddi e violenti inserti video, quasi subliminali che appaiono all’improvviso nel corso della storia? Creano un effetto davvero disturbante. Nel romanzo di Campbell la storia della setta dei Senza Nome attraverso gli anni si era sviluppata in maniera molto più estesa, io non ho potuto e non ho voluto farlo… io volevo raccontare la storia di una madre e della sua figlioletta morta… Ma c’è una causa del suo dolore… è la violenza… il sadismo… i crimini dei Senza Nome: è come se sotto la storia privata che ho scelto di raccontare ce ne fosse un’altra… ed io ogni tanto alzo il velo… lo straccio… e permetto di intravvedere l’altra storia che c’è sotto. Violentemente, per un attimo. E’ un modo di far ricordare al pubblico che qualcosa di terribile è successo. Quali sono, se ci sono, i registi che consideri i tuoi maestri? Non so… più che di registi preferisco forse parlare di singoli film di un particolare regista. Posso comunque farti i nomi di Lynch, Cronemberg, Argento, o di film isolati come The Changeling.. … belllissimo e misconosciuto … un film splendido… e poi, che so, Wenders, Kieslowky, Friedkin, Polansky. Bellissima anche la fotografia. Hai ricercato VER SACRUM XI

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Matteo Curtoni del tuo romanzo sta nell’accettazione del Male, nel suo antimanicheistico stare dalla parte del villain. Cosa ne pensi? Incentrare una storia come quella di Una notte a mangiare smania e febbre sulla contrapposizione bene/male sarebbe stato dannoso e avrebbe aperto la strada a una marea di interpretazioni “sociologiche” del romanzo che, davvero, non mi interessavano e non mi interessano. Non riesco proprio a vedere il bene e il male divisi da un colpo di rasoio: non è così semplice nella vita e non vedo perché dovrebbe esserlo in letteratura. La frase a cui ti riferisci è nata in parte da questo e in parte dall’immenso fastidio che provo ogni volta che, in un romanzo o in un fim, inciampo in qualche tirata sul bene e sul male... o peggio ancora su ciò che si nasconde dietro la normalità apparente. Per come la vedo io, discorsi di questo tipo non sono altro che accademia, un sottolineare ancora una volta che da una parte stanno i buoni e dall’altra i cattivi, che il male è in ognuno di noi ma che in alcuni ce n’è un po’ troppo - e così via. Ero stanco di leggere romanzi in cui sì, d’accordo, il bene non è più immacolato e perfetto come un tempo ma è pur sempre bene, popolati di finti antieroi che si perdono per strada l’anti nel corso della storia... Una delle cose più intriganti delle tue opere è lo stile antinarrativo che usi: la trama sembra meno

Un’e-mail è giunta al nostro indirizzo “...ho da poco pubblicato un romanzo probabilmente gotico”. Così siamo entrati in contatto con una delle voci più interessanti della letteratura “altra”, di quella che popola le notti di incubi e visioni, quella che è impossibile e riduttivo etichettare. E’ indubbia comunque la forte connessione di Una notte a mangiare smania e febbre, uscito per Frassinelli, con le migliori istanze del Gotico, per la visione “mentale” dell’orrore ma anche per la ripresa di alcuni “topoi” (il sangue, il Male). Sperando che l’intervista che segue vi lasci col desiderio di saperne di più, vi segnaliamo il sito web http://www.matteocurtoni.com

Partiamo dal tuo ultimo libro, Una notte a mangiare smania e febbre: semplificando può essere visto come un romanzo tra il vampirismo e la letteratura pulp-cannibale, ma, ovviamente, c’è molto di più. Vuoi parlarci della sua nascita? Questa storia è rimasta con me per molto, moltissimo tempo e non saprei risalire a un momento particolare in cui l’idea si è presentata e ha bussato alla porta della mia testa e mi ha chiesto di farla entrare... ho passato almeno un paio anni interi ad aspettare che arrivasse il momento giusto per cominciare a scriverla e nel frattempo ho continuato a lavorarci, senza quasi mettere niente nero su bianco. Una notte a mangiare smania e febbre, anche prima che finissi di scriverlo, ha attraversato diverse incarnazioni e ne attraverserà altre nel prossimo futuro... L’anno prima di My eyes belong to the remains of her skin e del contest di Gothic.net, da un episodio del romanzo ho tratto un racconto in inglese - A night of eating lust and frenzy - che si è qualificato “First Runner Up” in un concorso indetto da DarkEcho. Qualche mese più tardi la versione italiana del racconto è stata pubblicata in 30.000 esemplari sotto forma di piccolo millelire, nell’ambito di una manifestazione letteraria che si è tenuta qui a Milano, “Subway”. E (anche se forse è presto per parlarne) proprio in questi giorni sto lavorando a un adattamento teatrale di una parte del romanzo. Nell’introduzione a questa intervista abbiamo evidenziato le tue forti connessioni con il Gotico per la qualità “mentale” dell’orrore che descrivi (che ti avvicina ad autori come Poe) nonché nell’uso di certi temi propriamente tipici di questo genere: il sangue, il Male. Qual è la tua visione del Gotico? E’ una visione istintiva, così com’è istintiva la mia visione della scrittura. Non penso che ci si possa inventare l’attrazione per certi temi, per certe atmosfere - è qualcosa che o si possiede o non si possiede. Non vedo vie di mezzo, almeno in questo. “Il male accade perché certe volte è irresistibile, perché il più delle volte è inevitabile”: la modernità 51

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e soprattutto David Lynch: alcune loro immagini sono autentici marchi a fuoco sull’immaginazione, per me. Se non sbaglio Orson Wells diceva che il cinema è la vita tagliando le parti noiose... Questo non vale solo per il cinema, è anche una lezione di scrittura. Restando al cinema, abbiamo riconosciuto l’uso di certi temi propri del cinema di Cronenberg (Videodrome) e Tsukamoto (Tetsuo, Tokio Fist). Il tuo racconto My eyes belong to the remains of her skin sembra infatti un inno alla Nuova Carne, al corpo mutato, libero dalle costrizioni anatomiche, all’unione affascinante e spaventosa tra carne e metallo... Sono assolutamente d’accordo. Quella per i mutamenti del corpo - visibili e non visibili - è un’ossessione di cui mi sono tutt’altro che sbarazzato e che, anzi, cerco di tenermi stretta. E’ un tema affascinante... lo sto esplorando da anni, anche con racconti o frammenti di storie che non ho in programma di pubblicare, almeno per ora. La nuova carne è già intorno a noi. Bisogna solo imparare a vederla. I tuoi personaggi vagano di situazione in situazione storditi dalla droga: si tratta per te di una metafora per evidenziare il lato onirico del tuo stile o è una visione più “sciamanica”, ovvero l’uso di sostanze psicotrope serve per raggiungere uno stato in cui solo certe cose sono visibili, per percepire il “vero” volto della realtà? In parte entrambe le cose. Il mio stile si trova più a suo agio con il caos che con situazioni ordinate o schematiche. Da un certo punto di vista, poi, la presenza della droga all’interno del romanzo è stata inevitabile... la chiave per trasformare un gruppo di persone ancora “tecnicamente” normali in qualcosa che fosse il più possibile simile a una tribù di vampiri senza fare ricorso al soprannaturale. Nei tuoi scritti la tua città, Milano, è una delle protagoniste costanti, vista però nei suoi lati decadenti e corrotti, l’altro lato della dinamica ed “europea” metropoli proposta normalmente dai media... Per me è piuttosto difficile credere che la Milano di cui parlano i media, la Milano che pullula di modelle e trasuda quotazioni di borsa esista veramente, perché quando mi guardo attorno vedo altre cose, noto altre cose. Forse cerco solo di non vederla, perché quella Milano incarna un mondo che non mi piace e non mi interessa, così nel romanzo mi sono trovato a enfatizzare gli aspetti della città che amo di più (e sono tanti) E’ stata una scelta istintiva. Spesso “celebri” la corruzione, della carne in primis, ma anche delle menti. Cosa ti affascina nella decadenza?

importante della “visione” che stai descrivendo. Questo è particolarmente evidente nei racconti brevi (es. Camere fredde) che sono praticamente delle “epifanie”. In genere metto azioni e sensazioni sullo stesso piano ma molto spesso mi ritrovo a privilegiare le seconde a scapito delle prime e la cosa non mi dispiace affatto. Per lavoro leggo decine di romanzi in cui l’autore si preoccupa di descriverci assolutamente tutto... dal modo in cui un certo personaggio è solito farsi la barba al suo numero di scarpe, dalla metratura di un appartamento alla marca di pneumatici dell’auto di un sospetto in fuga. Ora, molto spesso tutte queste informazioni servono solo a riempire lo stomaco del lettore e a dargli un senso fasullo di sazietà senza dirgli niente, senza comunicargli niente. Io credo che sia molto più importante trasmettere altro, far entrare il lettore nella pelle di un personaggio, fargli condividere le sue emozioni, i flash che gli attraversano la mente, i sapori che sente, l’odore dell’aria che si respira in una strada. E in questo senso una visione vale molto più di mille spiegazioni. E’ sbagliato cogliere un’ispirazione “cinematografica” nei tuoi scritti, per la cura nella descrizione delle scene, l’attenzione per i particolari, lo stile evocativo che deve suggestionare più che avvincere? Non è affatto sbagliato. Come credo molti altri scrittori vivo in parte anche di cinema e inevitabilmente i miei gusti si riflettono anche in quello che scrivo. Penso ad autori come Tim Burton, David Cronenberg VER SACRUM XI

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Z. Brite. Potendo, verserei fiumi d’inchiostro per tessere le loro lodi, davvero. Di Barker tra l’altro hai curato la traduzione di alcune sue opere: parlaci del tuo “rapporto” con la sua letteratura. Come ho già detto, a mio avviso i Libri di Sangue sono stati e restano il suo capolavoro e quando traduco qualcosa di suo mi ritrovo inevitabilmente a rimpiangerli. Non rimpiango lo stile (dal punto di vista della tecnica Barker è ancora stupefacente) ma l’atsmofera che permeava le sue storie di allora dalla prima pagina all’ultima... Al di là di sfumature e preferenze, comunque, tradurre i suoi romanzi è un’impresa non facile ma la soddisfazione è veramente grande. In questo stesso numero intervistiamo Floria Sigismondi: conosci i suoi lavori? Mi sembra che condividiate uno stesso immaginario (lo stile onirico e visionario, le immagini di case decrepite e abbandonate, il feticismo per gli oggetti medici e i residui da ospedali - penso ai tuoi racconti Camere fredde e My eyes... -). Dire che è straordinaria mi sembrerebbe riduttivo. Avere una sua immagine come copertina di un mio romanzo è uno dei miei sogni proibiti...

E’ quasi impossibile spiegarlo in poche parole. O meglio, è quasi impossibile spiegarlo a parole. In ogni caso il fascino che esercita su di me è enorme, e credo che si senta, leggendo quello che scrivo. Forse una risposta migliore di questa è lì, da qualche parte, tra le righe. Una delle figure più “potenti” di Una notte... è Caino, il folle autotrasformatosi in un dio oscuro, nella raffigurazione del Caos: come è nata l’ispirazione per costruire questo personaggio? Non saprei. Nelle mie intenzioni iniziali, quando pensavo alla storia senza averne scritta ancora una sola riga, Caino avrebbe dovuto essere un personaggio gretto e piuttosto umano, molto più attaccato degli altri Ragazzi Morti alle cose del cosiddetto mondo normale. Ma alla fine, come al solito, è stata la storia a decidere e Caino è diventato quello che voleva diventare. Quali sono gli autori a cui ti senti più vicino, per ispirazione o per feeling? Abbiamo colto delle influenze “barkeriane” nella figura di Caino: sei d’accordo? Caino è sicuramente molto barkeriano, nel suo assoluto nichilismo, nel suo impulso alla trasformazione. I Libri di Sangue sono stati una lettura fondamentale per me. Quanto agli altri autori, i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Caitlin R. Kiernan, Jack O’Connell, Will Chistopher Baer, Kathe Koja, Poppy

Christian Dex Le immagini di quest’articolo sono state realizzate da Matteo Curtoni

Bibliotheca Lamiarum Gordiano Lupi: Sangue Tropicale, edizioni Il Foglio letterario, 2000. Questo racconto si inserisce nell’ambito di quel filone della letteratura noir/horror basata sui serial-killer che tanto successo ha avuto nel corso degli anni ’90 da diventare un vero e proprio fenomeno di “moda”. All’interno di un genere che può pertanto apparire un po’ scontato Sangue Tropicale presenta però due interessanti elementi che lo contraddistinguono: innanzitutto l’ambientazione, che costituisce anche la caratteristica pregnante della storia, e in secondo luogo, ma chiaramente congiunto al primo, l’interesse per le religioni “non ufficiali” e la magia. La storia si svolge infatti a Cuba e ci viene raccontata in prima persona attraverso gli occhi del protagonista, un italiano che da tre anni risiede nell’isola e che nonostante la sua condizione di “straniero”, si è ben ambientato e immedesimato nello stile di vita del posto. L’autore è bravo a restituirci l’immagine di una Cuba pulsante e vitale, priva dei più facili stereotipi, (c’è qualche accenno alla situazione politica, ma giustamente molto pacato) concentrando la sua attenzione piuttosto sulla descrizione della gente, sul suo modo di vivere semplice ma spontaneo, sull’allegria e la positività che regna nonostante le difficoltà legate ad una povertà assillante. Man mano poi che la vicenda procede, aumenta sempre di più lo scarto tra la base “realistica” della vicenda e il suo lato “fantastico”, che ci introduce nel mondo affascinante e misterioso dei riti cubani legati alla santeria e alla macumba, che l’autore descrive con abile puntualità ed efficacia. Magia bianca e magia nera, uccisioni di fanciulle innocenti, sangue e sperma si mescolano così in un unico delirio nel quale il protagonista viene sempre più imprigionato senza vie di scampo… o quasi… Solo il finale un po’ troppo d’effetto (tipico comunque di gran parte della produzione horror, si pensi ai molti film del genere) mi sembra una forzatura inutile rispetto all’andamento equilibrato di tutto il racconto, che si presta ad una piacevole e appassionante lettura. (Mircalla) Austin Osman Spare: Il centro della Vita: i Mormorii di Aaos e Earth Inferno, a cura di Roberto Migliussi e Stefano Landi. Ammirevole iniziativa editoriale di Roberto Migliussi e Stefano Landi che hanno pubblicato in edizione molto elegante e finemente curata due opere scritte e illustrate da Austin Osman Spare rispettivamente nel 1921 (titolo originale: The Focus of Life: The Mutterings of Aaos) e nel 1904 (Earth inferno), previa autorizzazione di Kenneth Grant, suo esecutore letterario. Si tratta di un’ottima occasione per avvicinarsi a questo enigmatico autore e alla sua opera singolare e affascinante. «…Il testo non è inteso a spiegare completamente e il lettore deve essere lasciato a collocare la sua propria interpre53

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tazione sull’illustrazione, che non è grottesca in nome dell’originalità, ma rappresentativa dell’”Inferno” della Terra emblematico nell’Arte…» (dall’introduzione ad Earth Inferno). Belle le illustrazioni, che soprattutto in Earth Inferno rivelano la raffinata ricerca grafica in stile liberty dell’autore. Entrambi i volumi sono disponibili, rispettivamente al costo di 40.000£ (formato A4, 56 pp.) e 25.000£ (formato A4, 32pp.) presso Roberto Migliussi, via Donnino 120 57121 Livorno; tel. 0349/ 3703285; e-mail: roberto125@freemail.it. (Mircalla) Pezzini Franco: Cercando Carmilla - La Leggenda della donna vampira, Ananke Edizioni, 2000. Franco Pezzini, erudito studioso di letteratura, antropologia e religione ha concentrato in questo “succulentissimo” saggio anni di ricerca trascorsi sulle tracce del mito di Carmilla, la più famosa vampira della letteratura, protagonista dell’omonimo racconto del 1871 dello scrittore irlandese Le Fanu. Oltre ad addentrarsi, con un’analisi approfondita, nel testo letterario, la prima parte del lavoro si sofferma sulle fonti dalle quali è scaturito il mito di questa donna vampiro. Vengono analizzati tutti gli esempi letterari che l’hanno preceduta e le figure storiche alle quali può essere collegata, in primis Erzsébet Báthory (cfr. VS X) e Barbara di Cilli, personaggio ancora poco noto, che si muove tra storia e leggenda, di cui viene fatta una ricostruzione molto affascinante. Estremamente interessante è poi l’analisi della Stiria come luogo geografico “principe” nella nascita del mito letterario di Carmilla. Il saggio non manca poi di esaminare la figura del vampiro (al femminile, ma non solo) nel folklore, nei testi letterari successivi a quello di Le Fanu (Dracula di Stoker compreso) e nel cinema (con la figura della vampira erotica e lesbica). Nell’ultima parte dell’opera molto spazio viene dato all’analisi del vampirismo cerimoniale e delle sette esoteriche collegate, in un viaggio che ci riporta, attraverso i meandri della filosofia occulta, proprio a Barbara di Cilli, in veste di Regina nera e sacerdotessa dell’Ordine del Dragone rovesciato, da alcuni studiosi interpretato come un corpo iniziatico di cavalleria del vampirismo.Grosso merito di questo saggio sta nel fatto che riusce a darci una visione a 360° sulle tante problematiche ancora aperte riguardanti il personaggio della donna vampira, inossidabile nel tempo, ma anche nella capacità di illustrare tutte le possibili ipotesi senza mai farsi prendere la mano dal facile fascino del mito, attraverso una sempre rigorosa ricostruzione storica e una puntigliosa esamina delle fonti a disposizione. Il risultato è davvero encomiabile, per cui questo libro non potrà proprio mancare nella vostra biblioteca personale! (Mircalla)

Stampa Alternativa- Collana Fiabesca Aa.Vv.: Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento e Bram Stoker: Il Paese del Tramonto, entrambi a cura di Fabio Giovannini. Ottima operazione di riscoperta da parte di un profondo cultore di vampiri e della letteratura goticofantastica come il saggista/scrittore Fabio Giovannini che ci presenta, in due edizioni separate, da una parte la prima traduzione in italiano di un libro di favole scritto da Bram Stoker, l’autore di Dracula, e dall’altra una serie di brevi racconti ottocenteschi di vampiri, inediti in Italia fino ad oggi. Il Paese del Tramonto (Under the Sunset), è un testo raro, sconosciuto e da anni introvabile anche in lingua originale. Edito nel 1881, costituisce l’esordio letterario di Stoker e raccoglie otto fiabe, illustrate da William Fitzgerald e W. V. Cockburn, composte in occasione della nascita del suo primo e unico figlio. Sebbene scritte per un bambino si tratta di storie di gusto nero, macabro e bizzarro, adatte ad un pubblico adulto e che risentono della predilezione dell’autore per i temi oscuri e fantastici. La loro pubblicazione, ci racconta Giovannini, scatenò al tempo notevoli polemiche proprio perché nell’Inghilterra di fine Ottocento risultava troppo inquietante un libro di fiabe che parlava soprattutto di morte, fantasmi e aldilà. Ricche di riferimenti biblici e mitologici, di temi esoterici e rosacrociani (probabilmente Stoker al tempo faceva parte della Golden Dawn) le storie sono ambientate in un luogo immaginario, il paese del tramonto per l’appunto, dove gli abitanti buoni, che vivono sotto la protezione di grandi angeli, devono difendersi dai giganti e dai mostri che stanno nei territori desertici e selvaggi agli ordini di Re Morte. Le creature che vivono qui sono spesso non-morti, creature maligne che come Dracula, non sono interamente morte e neppure interamente vive; ma in generale molte sono le tematiche presenti in queste fiabe che saranno riprese proprio nella storia del vampiro transilvano. Non lasciatevi pertanto sfuggire questo interessante volumetto (corredato di belle illustrazioni) che, sono certa, allieterà le vostre notti insonni! Il volume di racconti vampirici Prima di Dracula presenta molte chicche e scoperte interessanti, sia perché raccoglie esclusivamente storie precedenti la pubblicazione del Dracula di Stoker, sia anche perché mostra diversi approcci al tema vampirico in diversi contesti dello stesso secolo, come giustamente sottolinea il curatore nell’introduzione all’antologia. Ecco allora, in ordine di presentazione, alcuni brani sull’epidemia di vampiri che nel ‘700 dilagò nell’Europa balcanica tratti da La Guzla, raccolta di poemi illirici scritta nei primi decenni dell’800 dallo scrittore francese Mérimée in incognito; il bel racconto anonimo The Mysterious Stranger del 1860, che secondo alcuni studiosi potrebbe aver influenzato Stoker per il suo Dracula date le notevoli similitudini presenti; le streghe-vampire dello scrittore decadente Marcel Schwob in Les Striges del 1891; il vampiro omossessuale di The true story of a vampire di Stanislaus Eric Stenbock che si ispira a Carmilla di Le Fanu, anche se qui l’amore vampiresco non è tra donne ma tra uomini e infine il racconto anonimo inglese A Kiss of Judas, edito nel 1893 con un’illustrazione di Beardsley, in cui il tema del morso vampirico si unisce a quello tipicamente decadentista della donna fatale. Insomma una raccolta indispensabile per chiunque sia interessato ai racconti di vampiri e sia amante della letteratura ottocentesca e decadente, ma soprattutto per chi ancora è convinto che la figura del vampiro sia nata solo con Dracula di Stoker. (Mircalla) VER SACRUM XI 54


I Templari Storia dell’ordine cavalleresco più importante del medioevo (I parte) racciar le vicende dell’ordine Cavalleresco più

to. E fu proprio a Troyes, il 14 gennaio del 1128, nel corso d’un Concilio che riuniva l’alto clero francese e borgognone (1), i Poveri Cavalieri del Tempio ricevettero il riconoscimento formale della Chiesa (2). I milites templi fanno finalmente il loro ingresso ufficiale nella Storia. Il Cristiano in armi E’ lecito per un credente uccidere il prossimo, anche se tal ripugnante gesto viene compiuto esclusivamente per difendersi, e per di più nel nome del Signore? Dubbio atroce che angustia le coscienze fin dagli albori del Cristianesimo, polemica che coinvolge capisaldi del pensiero religioso quali Agostino ed Ambrogio. Può un fedele di Cristo militare in un esercito? Si deve risalire fino ai primi martiri soldati, per poi giungere ad una “giustificazione” (si badi, stiamo semplificando, per ovvie ragioni di spazio non possiamo far altro che accennare assai brevemente a questa basilare questione) dell’intervento armato, quando sorti dell’Impero e della Nuova Fede paiono indissolubilmente legate nel momento terribile delle invasioni barbariche, dell’irrompere furibondo delle orde di Gog e Magog entro gli incerti confini del Mondo Civilizzato. E’ la lotta, eterna, dell’Ordine contrapposto al Caos. Il potere di Roma declina, si aprono i Tempi Bui, ma l’Agnello infine sopravviverà alla catastrofe e trionferà sul Male. Ecco la genesi del miles, figlio della Pietà ma anche della Guerra. Il nuovo Paladino della Fede, che monta il nobile cavallo, altro protagonista di quei secoli cosi affascinanti, indossa 1’armatura lucente che lo fa apparire quale una semidivinità, un novello Arcangelo Michele difensore del Popolo di Dio e della Chiesa. Egli impugna la spada, frutto anch’essa d’un lungo periodo di elaborazioni e di perfezionamenti. E cos’è, il lampeggiante acciaro, se non una terribile Croce, dispensatrice di Morte? Nelle mani ferme del guerriero a cavallo, ella diviene strumento di Giustizia, riequilibratrice della Pace, mentre per il nemico, per “l’infedele”, e più tardi pure per l’eretico, non v’è misericordia. Il Cavaliere e la Crociata Il crociato reca sulle proprie vesti il segnacolo del martirio di Cristo. Il suo nemico non è il Goto invasore e magari eretico, bensì un altro infedele, ai suoi occhi non meno immondo, non meno meritevole di sicura morte, che riceverà dalle sue mani consacrate dalla benedizione papale. Questo nuovo nemico occupa indegnamente i Luoghi Santi della Cristianità, che

potente che la Storia abbia conosciuto può T apparir impresa titanica, soprattutto nel poco spazio

che abbiamo a disposizione. Né, giammai!, la redazione di Ver Sacrum intende vantar tali competenze con una sfrontatezza ed una superbia che non le appartengono, e mai le farà proprie. Ma le oscure vicissitudini dei Templari ci affascinano a tal punto, che non possiamo esimerci dal soffermarci, seppur brevemente e certi che la nostra pur deferentissima esposizione, all’occhio uso dello storico perito, apparirà perlomeno lacunosa. Intendiamo colla presente solamente solleticar la curiosità di colui che ne sarà coinvolto, e che potrà poi compiere personalmente le ricerche del caso, approfondendo un argomento intrigante ma pure, credeteci, soverchiante! Una professione di umiltà spontanea e sincera. E soprattutto dovuta nel rispetto della Storia. Mai ci lasceremo adescare dal facile effetto, aderendo fermamente alla lezione impartitaci da rispettabili Maestri che con le loro stimabilissime Opere ci hanno ispirati ed illuminati. Saremo modesti, come almeno dovettero esserlo i primi “milites templi’’. Deus lo vult! Or à aus! La Genesi Il 15 luglio del 1099 le milizie cristiane penetrano finalmente in Gerusalemme. La prima Crociata si conclude in un bagno di sangue. Inizia una fase storica, che si protrae di fatto fino ai giorni nostri, di forte contrasto fra Cristianità ed Islam. Conquistata Gerusalemme si doveva ora consolidare la presenza cristiana in Palestina, non del tutto sicura e pacificata. Per questo compito, assai arduo considerata la situazione contingente, servivano uomini addestrati nell’utilizzo delle armi, usi alla disciplina e fortemente motivati. Nascono così gli Ordini Cavallereschi. Secondo Guglielmo di Tiro, I’Ordine dei Templari sorge nel 1119. I suoi primi membri alloggiavano nella parte orientale del Palazzo Reale in Gerusalemme, professavano la povertà e la fratellanza, erano laici, ma tenuti a vivere in povertà, castità ed obbedienza. L’Ordine dei Poveri Cavalieri del Tempio di Salomone era capeggiato da Ugo di Payns, membro d’un ramo cadetto dei Conti di Troyes. Il quale, una decina d’anni dopo, mentre percorreva l’Europa alla ricerca di aiuti e sostegno della neonata organizzazione che guidava, conobbe San Bernardo di Chiaravalle, I’abate cistercense di Clairvaux, il grande pensatore e predicatore che presto divenne suo preziosissimo allea55

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vanno pertanto mondati, col suo stesso sangue impuro, della sua presenza. Quando le schiere crociate si muovono disordinatamente dall’Europa verso oriente, le popolazioni locali traggono un sospiro di sollievo. Una massa di signorotti sfaccendati e rissosi, con al seguito le proprie soldataglie indisciplinate, le schiere dei propri sodali coi quali dividono un’esistenza di miserie e soprusi ai danni dei più deboli, ha finalmente trovato un obbiettivo contro il quale sfogare la propria rabbia repressa, frutto della frustrazione del cadetto senza terra né futuro, o del piccolo nobile che a malapena riesce a sopravvivere nel proprio castello dirupato. Ormai è assodato, questa è la gran marea crociata, alimentata da torme di miserabili, certo vi furono coloro che da alti intendimenti erano mossi, ma trattavasi di una elitaria minoranza. Gerusalemme cade, quindi, il 15 1uglio del 1099, e la ferocia belluina degli attaccanti si scatena, alimentata da mesi di privazioni, di sofferenze inaudite, di lutti causati dagli stenti più che dalle frecce nemiche. E’ un massacro, trovano morte donne e bambini, vecchi e uomini, in armi e non, musulmani ed ancora ebrei (già d’altronde oggetto di feroci “attenzioni” in Europa!). La Città Santa finalmente è restituita al Popolo di Dio. Il merito della riconquista va al figlio della nuova epoca, al cristiano in armi, che monta il cavallo e colpisce di spada. Al Cavaliere. Peregrinatio poenitentialis Anche nei secoli precedenti le Crociate, Gerusalemme ed i luoghi che avevano visto nascere il Cristo avevano conosciuto la Sua parola ed avevano assistito alla Sua Passione, furono meta dei pellegrini, di coloro che colà si recavano per purgare le proprie coscienze dai peccati che le macchiavano. E’ la peregrinatio poenitentialis. La via per la Palestina è insicura, lo stesso pellegrino, d’altronde, non sempre viene accolto amichevolmente durante il tragitto, nei villaggi o nelle città

nelle quali s’imbatte. Nemmeno in Europa. Egli può essere facilmente un ladro, il signum che porta per distinguerlo nella sua missione può celare un malfattore. Inoltre può incorrere in agguati, nelle vessazioni dei signorotti delle terre che attraversa. Coloro che riescono a raggiungere Gerusalemme e soprattutto a tornare alle proprie case, recano seco i racconti spaventevoli delle peripezie che hanno dovuto affrontare, delle angherie che hanno dovuto sopportare. Dall’Anatolia alla Palestina, il pellegrino deve piegarsi alla volontà della polverizzata nobiltà locale, avida e crudele, deve scampare alla ferocia dei briganti, pagare innumeri, onerosissimi dazi. Egli, al termine del suo viaggio, e stremato, spesso ridotto in povertà. Trattavasi davvero di penitenza! Dopo la prima Crociata il flusso dei pellegrini, mai interrotto, prende nuovo slancio, anche se i rischi dell’impresa non sono del tutto scomparsi. Sorgono cosi delle congregazioni di Ordini di monaci cavalieri, che li assistono e li proteggono. I principali Ordini Cavallereschi Degli Ospedalieri si fa menzione la prima volta in un documento risalente al 1048: vi si fa cenno ad un ospizio fondato da commercianti amalfitani e gestito da una confraternita e da monaci benedettini. L’Ordine Ecclesiastico dei Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme viene riconosciuto da papa Pasquale II nel 1113 ed adotta la regola agostiniana. Nel proprio ospedale accoglie e cura militi feriti in battaglia e pellegrini bisognosi di assistenza. La finalità bellica, cavalleresca, viene introdotta solo nel 1137. I Milites Christi dell’Ospedale di San Giovanni da allora combattono attivamente l’infedele, fondano castelli imprendibili, veri capolavori d’arte militare, come il celeberrimo Krak de Chevaliers. I militi vestono una tunica rossa con croce bianca ed appartengono a nazionalità diverse. Dopo la caduta di Acri, si trasferiscono prima a Cipro, poi a Rodi, infine a Malta. Gli Ospedalieri furono i grandi rivali dei Templari, dualismo che fu sovente esiziale per le sorti delle armi cristiane. Dei teutonici si ha notizia per la prima volta nel 1127. L’Ordine dei Cavalieri di Santa Maria in Gerusalemme, aperto solo ai tedeschi, venne fondato ufficialmente

Krak dei Cavalieri, costruito nel 1150

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nel 1198, e conoscerà in seguito le sue fortune, e disgrazie, nelle lande gelate dell’Europa Settentrionale. I cavalieri teutonici indossavano sulla corazza una veste bianca con croce nera; la loro principale fortezza era Montfort e la loro Regola era ispirata a quella Templare. Citiamo anche 1’Ordine di San Lazzaro, fondato nel 1130 circa e riconosciuto solo nel 1255; il suo simbolo era rappresentato da una croce verde, ed i suoi membri erano tenuti ad osservare la regola agostiniana, e 1’Ordine Militare di Calatrava. Quest’ultimo, vero e proprio braccio armato dell’Ordine Cistercense, era formato da Cavalieri che avevano scelto la vita monastica, ed operò in Spagna contro gli Arabi. Venne fondato nel 1158. I Templari Come abbiamo visto, Ugo di Payns (3) fonda 1’Ordine Templare nel 1119. Nove anni dopo, nel 1128, il Concilio di Troyes sancisce la nascita della milizia più celebre della Cavalleria cristiana, mentre il riconoscimento della Chiesa viene ufficializzato il 23 marzo del 1139, da papa Innocenzo II, colla bolla Omne Datum Optimum. Fondamentale è l’appoggio di San Bernardo, abate di Chiaravalle (4), che modella la regola dell’organizzazione ispirandosi a quella cistercense. I milites templi devono difendere i pellegrini in viaggio verso i Luoghi Santi e le terre appena strappate all’infedele, e lo fanno con una dedizione che sfiora il fanatismo. Presto, forti di un’autonomia che nessun altro Ordine poté mai affermare, e che li rendeva di fatto indipendenti da qualsisia forma di potere secolare, essendo sottoposti solo ai voleri del pontefice, essi divennero una potenza militare ed economica, quest’ultimo aspetto rafforzato da alcuni servizi che gestirono esclusivamente; i Templari curavano le ricchezze che nobili e pellegrini affidavano loro in custodia, s’occupavano dell’esazione di tasse e tributi, creando una vera e propria banca primordiale. Addirittura furono autorizzati al rilascio di prestiti dietro pegno! Il loro simbolo era formato da una croce rossa, il Sangue del Martirio di Cristo (il diritto di fregiarsi di tale segnacolo venne loro conferito da papa Eugenio III, nel 1148), appuntata sulla bianca clamide; il loro stendardo, il gonfanon bauçant, era equamente suddiviso fra bianco e nero, la Purezza e la Morte. Sergenti e scudieri vestivano un manto bruno o marrone. Ai vertici dell’Ordine era posto il Gran Maestro, di seguito venivano la classe dei Cavalieri, quella degli scudieri e quella dei cappellani. Il loro sigillo recava l’immagine di due Cavalieri in sella ad un’unica bestia, simbolo di povertà e fratellanza; è ovvio che nella realtà questo non accadeva, considerando che, per la

piena efficienza d’un singolo miles, occorrevano almeno due cavalli. Una figura doppia, come duplice era la loro natura, militare e religiosa. Sul rovescio era effigiato il Duomo nella Roccia, una cupola costruita nella Città Santa dai musulmani, poi trasformata in chiesa e nota come “Tempio del Signore”. La loro sede venne situata, per volere di re Baldovino, ove un tempo si credeva sorgesse il Tempio di Salomone. Per questo le chiese edificate dai Templari vennero sempre indicate, in ogni luogo esse sorgessero, come Tempio; ed ogni Tempio era caratterizzato dalla pianta circolare richiamante il Santo Sepolcro di Gerusalemme. I numerosi, possenti castelli, invece, erano quadrati, con quattro torri agli angoli (5). La grande efficienza dei reparti Templari, in guerra come in pace, status piuttosto raro a quei tempi ed in quei luoghi, era garantita da una organizzazione perfetta, stabilita da una Regola che disciplinava ogni aspetto della vita dell’Ordine. La “Règle du Temple” Ogni membro dell’organizzazione Templare era tenuto ad osservare con diligenza i precetti stabiliti dalla Regola dell’Ordine. Questa si divideva in sette sezioni, frutto di successive elaborazioni ed integrazioni: la Regola Primitiva (della quale sono giunte fino a noi meno di dieci copie), gli Statuti gerarchici (retrais), due sezioni dedicate alle punizioni, una alla vita conventuale, una alla riunione del capitolo ordinario ed una all’ammissione all’Ordine. Pochi erano i codici in circolazione, essendo quest’ultima limitata in ossequio a disposizioni inserite nella Regola stessa. Non se ne possiedono manoscritti originali, le copie giunte fino a noi sono solo tre, conservate a Roma ed a Parigi (risalenti alla fine del XIII inizi XIV secolo) ed a Digione (primi anni del XIII, questa comprende solo la Regola Primitiva e gli Statuti gerarchici). Vi sono inoltre diverse copie in latino della Regola Primitiva, ed in catalano di retrais. La traduzione in antico francese della Regola è, concordano gli studiosi, sicuramente posteriore al Concilio di Pisa (30 maggio 1139). Il Molle fa infatti notare che gli articoli 74, 75 e 76 elencano festività istituite in quell’occasione. La traduzione si era resa necessaria, in quanto la maggioranza dei membri dell’Ordine non conosceva affatto il latino. Regola e Sacre Scritture (e presto anche la Bibbia) erano scritte per loro in francese. Diavoli bianchi L’efficiente organizzazione, il fanatismo che li guidava in ogni loro azione, l’orgoglio di appartenere ad un Ordine potente ed onorato, ad una vera e propria casta guerriera, temuta e rispettata dal nemico come dall’amico, ascoltata dal potente, e pure la ferrea 57

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superare, anche con 1’uso della forza, le rivalità interne che minavano la compagine musulmana: il curdo Yusuf ibn Ayyub Salah al-Din, che la storia ricorderà come Saladino. Le truppe cristiane sono stanche, stremate da una lunga marcia nel caldo torrido del deserto, sotto un sole implacabile. Due soluzioni si pongono: sostare o combattere. Re Guido di Gerusalemme opta per la prima. Decisione fatale. Non c’é acqua, l’unico pozzo è asciutto, l’eroe dell’Islam è accampato poco oltre, nella pianura sottostante, le sue truppe sono fresche, la sua grande occasione è giunta. Fa appiccare il fuoco alla sterpaglia che cresce stenta attorno alla collina, e col favore dell’oscurità dispone ai meglio i suoi uomini. Sabato 4 luglio, all’alba, dà battaglia. Per i cristiani sarà una giornata disastrosa. Non si contano i morti, tutti combatterono con indomito coraggio, le gesta eroiche furono innumeri, ma inani. Troppo lo strapotere musulmano, troppo il divario in campo. Al termine di quella terribile giornata Saladino diede ancora prova della sua nobiltà d’animo, dimostrandosi magnanimo nei confronti degli sconfitti, che tanto coraggio e spregio della morte dimostrarono sul campo. Ma non ci fu grazia per i Templari, né per i loro fratelli Ospedalieri. I balis buyùd prigionieri, ad eccezione del Gran Maestro Gérard de Ridefort, furono affidati ad un gruppo di fanatici sufi, che li trucidarono dopo aver inflitto loro lunghissime, terribili torture. Evento ancor più umiliante, nel corso di quella tristissima crociata i Templari persero pure il frammento della Vera Croce loro affidato! Un infausto segno del terribile destino incombente sui bianchi Cavalieri dalla croce rossa! (6) La disfatta dei Corni di Hattin segnò il declino irreversibile delle fortune crociate in Terra Santa: quello stesso anno Saladino occupò Gerusalemme. Le spade Templari si misero ancora in evidenza nel corso delle rovinose battaglie di Acri, nel 1189, ove Gérard de Ridefort cadde in mani nemiche e venne messo a morte, di Gaza (17 ottobre del 1244, caddero sul campo il Gran Maestro, Armando di Périgord, il maresciallo e numerosissimi cavalieri, pare che al massacro ne sopravvissero solo trentatre!), di al-Mansura (1250), ennesimo umiliante rovescio per i cristiani (re Luigi IX di Francia venne fatto prigioniero dai musulmani, ed i Templari vennero ancora una volta accusati d’essere i responsabili, causa la loro condotta dissennata, dell’esito negativo della giornata), il gonfanon bauçant radunerà ancora sotto i suoi colori combattenti devoti e coraggiosi, ma per 1’Ordo la stagione dei trionfi pare avviarsi al lento ed inesorabile tramonto. Furono sprezzanti della morte, ma troppo spesso

volontà di sopravanzare a qualunque costo le altre congregazioni combattenti, fecero dei Templari una macchina da guerra formidabile. Tanto che per il miles templi malauguratamente caduto in mani nemiche non v’era misericordia. Per i diavoli bianchi, per i balis buyùd, come li chiamava con un misto di timore ed odio l’infedele, quasi non v’era alternativa alla vittoria, se non la morte. Un’efficiente organizzazione militare, come evidenzia, ancora una volta la Règle. Il gonfanon bauçant deve essere difeso con la propria vita, il bianco ed il nero in alto levati guideranno i prodi nella carica, in caso di pericolo tutti i fratelli devono riunirsi attorno ad esso, e per nessun motivo esso dev’essere abbassato.“E se, Dio non voglia, accade che i cristiani siano sconfitti, nessuno deve abbandonare il campo di battaglia e tornare alla guarnigione finché rimane in piedi anche un solo vessillo bicolore; e chi lo fa venga espulso per sempre dalla casa. E quando e chiaro che non c’è più niente da fare, si raggiunga il più vicino gonfalone dell’Ospedale - doveva essere questo un caso estremo - o un altro gonfalone cristiano, se ce ne sono; e se anche questi vengono abbattuti ci si diriga verso la propria guarnigione, là dove piaccia a Dio” (Regola e Statuti dell’Ordine - 168). Casi estremi, notavamo, che pur si verificarono. Come il 4 luglio del 1187, ai Corni di Hattin, quando le armate crociate subirono un calamitoso rovescio, che si rivelò esiziale per le sorti cristiane in Outremer. Gli infedeli avevano finalmente trovato un condottiero abile e determinato, una guida carismatica capace di VER SACRUM XI

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irruenti, egoisti, tanto da apparir avidi, più che di vittorie, di bottini, più che di glorie spirituali da conquistare sul campo, di ricchezze terrene, tanto che non si contarono i loro detrattori, autori anche di feroci accuse mai compiutamente provate, ma decisive, in seguito, quando l’Ordo si trovò nella difficile, ed imbarazzante, condizione di difendere la stessa esistenza sua e dei suoi membri. Furono tacciati di corruzione morale, di inaffidabilità, di tradimento. Il cronista Guglielmo di Tiro fu uno dei loro più accaniti detrattori, ed il suo giudizio negativo sopravviverà nei secoli. La sua certo è una posizione faziosa, tendendo solo ad evidenziare gli aspetti negativi della condotta Templare, ignorando d’altro canto contingenze o colpe altrui. Soprattutto, egli insistette sull’avidità dimostrata, a suo dire, in più d’una occasione dai Templari, e sui loro comprovati rapporti con la setta dissidente degli Ismaeliti. I seguaci di Rashid al-Din Sinan, il Vecchio della Montagna erano anch’essi usi alla ferrea disciplina, come i Templari, e la costituzione dell’Ordo influenzò la loro organizzazione. Due sorti strettamente legate, nel bene e nel male. Anche l’Ordine Ismailita fu oggetto di persecuzioni feroci, i suoi membri furono accusati di essere degli assassini, tanto che la Storia gli ha resi noti proprio con questo nome, appunto Assassini. Essi furono infatti autori di attentati calcolati con freddezza inaudita, innumeri furono gli avversari che caddero sotto i loro precisissimi colpi. Chiusi nei loro castelli essi accrebbero col loro isolamento, col loro fanatico stoicismo la sinistra fama che li adombrava. Vennero tacciati di essere solo dei terroristi assetati di sangue e di violenza, asserviti al loro Gran Maestro, al dispotico e terribile Vecchio della Montagna, dei propugnatori di un clima di terrore intollerabile ed autori di inimmaginabili nefandezze, dalla Siria alla Persia. Per compiere i loro efferati delitti, si diceva che questi ribelli sicari facessero abbondante uso di sostanze allucinogene, che agivanosotto l’effetto di droghe, tanto che un’etimologia riconosciuta comunque palesemente falsa farebbe derivare la definizione Assassini da hashashiyyun, consumatori di hashish. Nelle sue cronache, Guglielmo di Tiro accenna ad un tributo di duemila pezzi d’oro che gli Ismailiti erano tenuti a versare annualmente ai Templari, e che questi addirittura contrastarono la volontà del Vecchio della Montagna, evento comunque palesemente inverosimile e mai provato da fonti certe, di farsi cristiano perché in tal caso essi non avrebbero ovviamente potuto esigere il pesante balzello. Un ulteriore esempio dell’avidità, e della doppiezza, dei membri dell’ordine, secondo lo zelante cronista!

Ovviamente i contatti fra Templari ed Ismailiti riguardano pure gli aspetti “esoterici” della storia dell’Ordine del Tempio, che non riguardano il presente sunto. Concludiamo così la prima parte dei nostri “Cenni di Storia dell’Ordine del Tempio”; nella seconda tratteremo più diffusamente degli anni della decadenza e del processo che ne sancì la fine storica.

Hadrianus Bibliografia: Sir Steven Runciman, Storia delle Crociate, Einaudi Tascabili (opera fondamentale ed insostituibile per chiarezza e competenza); Peter Partner, I Templari, Einaudi Tascabili; Jose Vincenzo Molle, I Templari - La Regola e gli Statuti dell’Ordine, ECIG. Per una più approfondita conoscenza delle origini della cavalleria medievale, consigliatissima l’opera di Franco Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, La Nuova Italia. Per quanto concerne gli Ismailiti, fonte insostituibile si è dimostrata l’articolo Gli antenati dell’Aga Khan, pubblicato a firma di Leonardo Capezzone sul nr. 10, Ottobre 1999, della rivista “Medioevo”. Note:(1) fra gli altri: i vescovi di Reims, di Sens, di Soissons, di Parigi, di Troyes, di Orleans; gli abati di Citeaux, di Pontigny; fra il laici ricordiamo il conte Teobaldo di Blois e di Champagne, Guglielmo di Nevers, Andrea di Baudemont. (2) oltre ad Ugo di Payns, a Troyes erano presenti: Rolando, Goffredo di St. Omer, Goffredo Bisot, Pagano di Montdidier, Arcibaldo di Saint-Amand. (3): primo Maestro dell’Ordine, Magister Militiae Templi, resse la carica dal 1119 al 1136/37. La grande maggioranza dei Gran Maestri fu di natali francesi e, salvo poche eccezioni, di umili origini. In caso di morte si dava inizio ad una procedura piuttosto complessa e minuziosamente regolata, che portava infine alla designazione di tredici elettori, ai quali spettava il gravoso compito di nominare il nuovo Magister. (4): Bemardo nacque a Fontaines-lès-Dijon nel 1090/91. Monaco cistercense a Citeaux, fondò Clairvaux nel 1115, rimanendone abate fino alla morte avvenuta il 20 agosto del 1153. Redasse la Regola Templare, lottò tenacemente contro eresie e correnti scismatiche, promosse personalmente, con la propria forza carismatica, la seconda crociata. Fu polemista e predicatore dalla riconosciuta efficacia espressiva, tanto che nel 1135 la sua parola fu determinante per la successiva fondazione dell’abbazia di Chiaravalle Milanese, una delle più importanti, e ricche, dell’Ordine Cistercense. Grazie alla sua decisiva azione presto la congregazione “bianca” si diffuse in tutt’Europa, ottenendo riconoscimenti e grande considerazione. Fra le sue opere, quella che diede un impulso fondamentale allo sviluppo dell’ideale di Cavalleria militante fu la De laude novae militiae. (5): Chastel Blanc venne edificato nei pressi del Krak de Chevaliers; importanti fortezze Templari furono Chastel Rouge, Chastel des Plains, Toron des Chevaliers, Chastel Safad, Tortosa, Chastel Pèlerin, altre sorsero a Gaza e tra Haifa ed Acri. Quest’ultima era il porto principale dei Templari, e divenne loro quartier generale dopo la caduta di Gerusalemme. Le fortezze erano presidiate, oltre che da membri dell’Ordine, da mercenari e da turcopoli, ausiliari indigeni o mezzosangue, comandati da un turcopolero.(6): Molle, citando Melville, riporta la leggenda secondo la quale la preziosissima reliquia venne seppellita nella sabbia da un Cavaliere che l’aveva avuta in consegna, nell’infuriare della pugna Successivamente il sacro legno non venne più ritrovato - cfr. Bibliografia.

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Recensioni Aa. Vv.: Mask Of The People (CD - Ramses Records/World Serpent). Ecco una compilation che va rapidamente acquistata e divorata!!! Non solo si tratta infatti di un bel CD ricco di partecipazioni importanti, ma anche di contribuire ad una causa giusta e lodevole: Christophe Terrettaz, ossia Ozymandias, ha infatti prodotto (con la sua Ramses Records) questa pregevole antologia (distribuita dalla World Serpent) con la precisa finalità di devolvere il ricavato in aiuto dei popoli dell’Irian Java (Papua Nuova Guinea), per consentire loro di comprare porzioni di foresta in cui vivere liberi dalle compagnie mercantili che stanno decimando la terra in cui questa gente abita. La musica delle tracks è palesemente ispirata al tribalismo ed ai misteri primordiali dell’umanità genuina e spontanea che ancora sopravvive in quegli sperduti angoli del mondo, così lontani dalle macchinose ritualità della mentalità borghese occidentale. Ma quando si sprofonda negli abissi esistenziali dell’uomo scompaiono le differenze strutturali antropologiche per ritrovarsi riuniti nel solo comune vortice del mistero dello spirito: ecco come anime diverse della ricerca e dell’espressione musicale possano ritrovarsi coerentemente in un’unica raccolta ispirata da uno specifico concept. Si va così dalle suggestioni etno dei The Young Gods con la loro “Brainforest n. 2” al folk apocalittico di “Into Moonlight” di In My Rosary, dalla breve ed ipnotica “Implosion” di Einsturzende Neubauten al lirismo di “Wind” di Black Rose, dalle ricercate elaborazioni dei Collection D’Arnell Andrea al neoclassicismo di Ozymandias. Nondimeno preziose appaiono poi le partecipazioni di Endraum, Orchis, Bleeding Like Mine, Neither/Neither World, In Gowan Ring, Printed at Bismarck’s Death. Sicuramente una compilazione che si distingue dalle altre. Maggiori informazioni su questo progetto sono reperibili su internet al sito www.sealonia.com/maskofthepeople. Contact: www.sealonia.com/ozymandias. (S*Tox) Aa.Vv.: Miroque vol. VI (CD – Subterrean). E’ ormai giunta al sesto capitolo questa fortunatissima compilation di musica medievale, gotica e barocca, che ha contribuito nel corso degli ultimi anni a lanciare molte formazioni importanti nell’ambito di questo genere come Corvus Corax, In Extremo, Estampie, Sarband etc. Ancora una volta l’antologia ci propone un’ampia scelta di brani (ben 23) sia di gruppi dediti alla pura riproduzione della musica medievale sia di altri che tentano invece di attualizzarla attraverso l’uso di sonorità più conformi ai nostri tempi. In entrambi i casi i risultati sono in media di buon livello e mancano le classiche cadute di tono (ovvero autentiche schifezze) che di solito caratterizzano molte di queste antologie di stampo “medievaleggiante”. Oltre ai gruppi più noti (Medieval Baebes, Freiburger Spielleyt, Sarband, Corvus Corax etc.) sono presenti anche molte formazioni minori, tra cui segnalo i Poeta Magica, i The Baltimore Consort con una bella versione di “J’ai vu le loup”, gli Orplid. Tra i gruppi più vicini alle sonorità gotiche vanno ricordati gli Engelsstaub con un pezzo tratto dal loro primo lavoro del 1994, gli Hagalaz’ Runedance, Arcana, Die Verbannten Kinder Evas e addirittura gli In the Nursery. Consigliata soprattutto ai neofiti del genere che vogliono avere una prima “infarinatura” sull’argomento. Come per La settimana enigmistica evitate le imitazioni. (Mircalla) Aa. Vv.: Rosa Selvaggia: Atto I° (CD - Rosa Selvaggia production). Lodevole iniziativa editoriale della fanzine Rosa Selvaggia che allega al numero XXI/XXII una compilation di gruppi italiani “oscuri”. Tranne qualche eccezione si tratta di band nuove o alle prime uscite discografiche e questo rende l’ascolto particolarmente interessante per chi è alla ricerca di novità nell’ambito del sottobosco alternativo italiano. Tra queste formazioni mi hanno favorevolmente colpita soprattutto i Dramma con “Se tu mi ami”, brano che unisce delle soluzioni formali molto interessanti e sperimentali ad un testo recitato dalla forte potenza emotiva e i Ludmila, che si muovono sulla scia ethereal, ricercando però anch’essi delle sonorità decisamente particolari e raffinate (alcuni suoni mi hanno ricordato i compianti Dali’s Car) con un cantato di notevole bravura e spessore vocale. Prove convincenti vengono anche dai Miriam, gruppo che unisce una piacevole elettronica a un cantato morbido e avvolgente, dai Sensor che propongono un’electro compatta e potente, dagli industriali e oscuri S.U.H. e dai Vespertilia con il loro gothic-rock elettronico e danzereccio. Tra i gruppi che possono vantare già un affermato curriculum si segnalano in particolar modo i Pulcher Femina, con un ottimo brano elettronico e le suadenti melodie di “Lo Specchio” dei Nova. (Mircalla) Aa.Vv.: Towards the Sky (CD – Neue Ästhetik Multimedia). Dall’etichetta dei Judith (e un tempo anche dei Faith and the Muse) ecco uscire un’altra raccolta con oltre 70 minuti di ottimi pezzi, e un’occhio di riguardo per la sempre interessante scena gothic americana. Non che manchino anche brani di band europee (Star Industry, Funhouse, The Horatii, Inkubus Succubus o Das Ich) o non propriamente goth (l’electro degli stessi Das Ich, di Laboratory X e dell’interessante progetto Element, con la loro ballabile e “spleen” “Whispering Flashbacks”; il punk dei divertenti The Brickbats) ma è certo che se avete una passione per il “death rock” degli anni ’90 qui c’è pane per i vostri denti. Fatevi allietare dallo splendido – e finora inedito – brano dei Judith, dall’estratto da Evidence of Heaven dei Faith and the Muse, dai Sunshine Blind o dagli splendidi “projekt-iani” The Changelings fino alla chicca assoluto di un brano rimasto inedito dei Requiem in White (formazione di cui era bassista Christopher dei Judith). (Christian Dex) L’Âme Immortelle: Dann habe ich umsonst gelebt (CD - Trisol). Il quarto CD del trio austriaco conferma la loro costante ascesa e si merita, a mio avviso, la palma di loro miglior prodotto. Prima di elencare i pregi (tanti) del CD, leviamoci il dente e citiamo i difetti (pochi): 1: di una canzona insulsa e vuota come “Slut” avremmo volentieri fatto a meno ed anche il singolo “Epitaph” non è esattamente da annoverare tra i loro pezzi più riusciti. 2: lo stile basato sulla contrapposizione “ voce maschile dura/voce femminile dolce” che si alternano e sovrappongono in parecchi brani è ormai un cliché abbastanza prevedibile, ma d’altro canto costituisce anche uno dei tratti caratteristici e dei punti di forza dei L.A.I.. Detto ciò possiamo passare all’elogio di un disco che, come loro consuetudine, si apre con un pezzo strumentale (“Erinnerung”), seguita da una serie di ottimi brani che alternano momenti più “leggeri” (“Judgement”, “Voiceless”, “Forgive Me”, “Leaving”) con altri più “introspettivi” (“Licht und Schatten”, “Rearranging”, “Dead actor’s Requiem”) e su tutte svetta “Was halt mich noch hier” : potente ed evocativa, per me la canzone manifesto del CD. Un disco con una precisa tematica che si ritrova nei testi di quasi tutti i brani che lo compongono: la ricerca di uno scopo nella vita (emblematico il titolo del CD, la cui traduzione è: “Allora ho vissuto invano”); testi decisamente “dark” in cui si parla di amori infranti, delusioni e sconfitte ma con una porta sempre aperta alla speranza. Il CD si chiude con una traccia che esula del contesto dell’opera: la nuova versione di “Life will never be the same again” cantata da Sonja (a proposito, la sua voce è sempre più entusiasmante) in coppia con Sean Brennan dei London After Midnight. Da rilevare poi che per la prima volta la band austriaca si è avvalsa sia nel lavoro in sala d’incisione, sia nel tour che accompagna la promozione del disco, dell’ausilio di una sezione d’archi e di strumenti per loro inediti come chitarre, basso e batteria, il che ha dato un nuovo respiro al loro sound. Citazione finale per l’ottima veste grafica del CD, belle le foto del booklet e il suo concetto grafico; come detto all’ inizio di questa recensione, secondo me il loro disco più maturo con i chiari segni di una costante crescita. (Candyman) VER SACRUM XI 60


Anima in Fiamme: Sub Occasum Solis (CD - autoproduzione). Fanno sul serio, gli Anima In Fiamme; nati dall’incontro di Ferruccio Milanesi e Pasquale Scotti, ed arricchitisi grazie alla collaborazione e all’amicizia con gli Argine, l’anno scorso sono finalmente riusciti a registrare un promo CD contenente alcuni brani che erano usciti per varie compilation e, a breve distanza di tempo, esce quello che Ferruccio ha definito un “rough tape” (anche se si tratta di un CD) da spedire alle etichette nella speranza di poter essere pubblicato al più presto. La prima cosa che mi sento di dover specificare è che, con la sola eccezione di “The night”, questo CD non è poi tanto “rough”; certo, tutte registrazioni “casalinghe”, ma di qualità più che buona. Se nel primo lavoro ci si trovava al cospetto di una musica che miscelava classicismo ed elettronica industriale, la tendenza attuale degli Anima In Fiamme è quella di muoversi verso suoni marcatamente classicheggianti, lasciando solo sullo sfondo l’altra ispirazione. Lo si nota subito dall’iniziale “Marcia trionfale”, un’introduzione a base di fiati. Tre dei brani erano già presenti sul precedente promo, ma sono qui in versione differente (soprattutto “Ieratico buio”, con l’aggiunta di una chitarra nell’introduzione). I brani nuovi possono essere descritti come una sorta di musica da camera moderna con molti riferimenti alla musica classica e barocca; “The night”, infine, è una lenta marcia a base di organo e percussioni, accompagnate dal suono cupo del violoncello e cantata a tratti con forte rabbia. Questo secondo lavoro conferma quindi l’ottima impressione che mi aveva fatto il primo, e non posso che augurarmi che il gruppo riesca a trovare al più presto un contratto che lo soddisfi. Per informazioni: Ferruccio Milanesi, Via G. Jannelli 45/D 80131 Napoli, milanesi@lycosmail.com. (Ankh) Arcana: …The last embrace (CD - Cold Meat Industry). Non posso negare di essermi innamorato di Dark age of reason fin dal primo, rapido ascolto in negozio, né di aver temuto che Cantar de procella sarebbe stato, pur essendo soltanto il loro secondo disco, un lavoro la cui bellezza difficilmente sarebbe stata raggiunta nei lavori successivi. Invece… invece pare che mi sbagliassi. Il dato di fatto è che gli Arcana, pur essendo solo al loro terzo lavoro, sono un punto di riferimento per tutta la scena musicale che si spinge verso i lidi più magici ed eterei, ispirandosi alla musica antica. I suoni sgorgano dalle casse come l’acqua da una sorgente cristallina, invadono lo spazio ed avvolgono l’ascoltatore in un abbraccio gentile ma persistente. La purezza stilistica, la delizia dei suoni, la dolcissima fantasia dei due musicisti svedesi permettono loro di ricostruire un medioevo fantastico e magico, così vicino a quello immaginato dagli artisti romantici. E in questo mondo onirico ci si deve lasciar trasportare dal sentimento più che dal raziocinio, seguendo le danze di folletti, le dolci marce, le estatiche meditazioni. Separare un brano dall’altro e magari sceglierne uno più rappresentativo sarebbe un peccato mortale, che non mi sento di compiere. Un confronto con i lavori precedenti è altrettanto improponibile: lo stile e la personalità degli Arcana sono indubitabili e i loro lavori, sempre emessi con il contagocce, hanno la perfezione lucida e sferica di una perla nera. Per chi già ha la fortuna di conoscerli, probabilmente questa recensione è inutile, perché già sa di cosa sto parlando; per chi dovesse incontrare per la prima volta questo gruppo, il consiglio è quello di non perdere tempo, perché non credo esista animo sensibile che non possa essere conquistato dalla loro musica. (Ankh) Assemblage 23: Contempt (CD - Accession Rec.). Tra i diversi gruppi dell’area electro citati nei ringraziamenti del booklet di questo CD sicuramente i Covenant costituiscono il punto di riferimento e la principale fonte d’ispirazione per questo progetto solista di Tom Shear alias Assemblage 23; in particolare sonorità e voce rimandano molto alla celebre band svedese, specialmente ai loro primi due CD. Questo per dare dei punti di riferimento e delle risposte all’inevitabile domanda che viene posta davanti ad un nuovo gruppo/artista: “A chi somigliano ?” Stabilito questo, passiamo all’analisi di Contempt: 13 tracce di buona musica elettronica, un disco veramente piacevole che non scivola in facili soluzioni EBM e non si addentra in ostiche sperimentazioni industrial. Rimane a metà strada, in quella terra di mezzo che mi piace definire “electro-melodica” ovvero sia un giusto mix di ballabili ritmi dance e strutture melodiche più soft. Valga per tutti l’esempio di “Purgatory” (dove non si può non pensare ai VNV Nation): un pezzo ballabile e al tempo stesso melodico con un refrain immediato e canticchiabile. In definitiva un CD promosso a pieni voti, una piacevole sorpresa. Assemblage 23; segnatevi questo nome. (Candyman) Ataraxia: Sueños (CD - Cold Meat Industry). (Mircalla). Il 2001 si apre all’insegna degli Ataraxia e del loro nuovo cd Sueños, un lavoro importante e articolato che val la pena di esaminare in modo approfondito. Suenos è diviso in tre parti, ognuna delle quali composta di quattro canzoni: la prima sezione “Ego promitto Domino” è dedicata al Medioevo; la seconda “L’ame d’eau” al motivo dell’acqua; la terza “Sandy dunes” alle atmosfere dell’Oriente e del Mediterraneo. E’ evidente come in questo cd vengano proposte e in un certo senso riassunte le tematiche più care agli Ataraxia, sulle quali il gruppo ha lavorato a lungo in questi anni. Canzoni tradizionali di crociate, congedo e gozzoviglia costituiscono la parte “medievale” di Sueños e si tratta di quattro pezzi bellissimi, a partire da “Parti de mal”, con più voci all’unisono, per passare all’energica “Saderaladon”, ottima prova vocale di Francesca Nicoli e di Francesco Banchini (che oltre che nelle parti cantate collabora al disco anche suonando clarinetto, flauto traverso e percussioni), alla languida “Belle Jolande” in cui Vittorio Vandelli dà un altissima prova di bravura alla chitarra classica e infine a “il Bagatto”, ballata rinascimentale molto nota sul tema della morte. Alle atmosfere del cd La Maledédition d’Ondine si rifanno per lo più le canzoni della seconda parte di Sueños, che parlano di acqua, nostalgia e silenzio. E’ la parte più languida e sentimentale del cd, costruita su suoni liquidi e cangianti e dominata dai gorgheggi vocali della cantante (vedi “Eleven”). La terza parte di Sueños si apre con la bella“Encrucijada”, un gothic-flamenco passionale e oscuro, seguita dalla solenne marcia funebre di “Funeral in Datça”, dai suoni di chitarra di “The corals of Aqaba” e infine dalla ritmica orientale di “Nemrut Dagi”. Un album da ascoltare con attenzione per apprezzarne a fondo la ricerca musicale e spirituale che lo contraddistingue. (Mircalla) Audra: Audra (CD – Projekt). Sorprende non poco ascoltare questo debutto degli Audra per la Projekt, un CD in pieno territorio gothic/darkwave, più di quanto l’etichetta statunitense si sia mai addentrata in precedenza. Gli Audra sono un duo formato dai fratelli Bret e Bart Helm, il primo ottimo vocalist alla Peter Murphy, il secondo efficace chitarrista e caratterizzato da un androgino look. I dodici brani del CD mescolano influenze eighties (il fantasma “undead” dei Bauhaus deve aver infestato i sonni dei due fratelli Helm: ascoltate ad esempio “You’re so pretty” o “2 girls in 1 dress”) nella creazione di ballate dal sapore malinconico, costruite su accattivanti riff di chitarra. Il suono è molto controllato e mai aggressivo, evocativo per spingere a riflettere e sognare e mai ad abbandonarsi a danze scatenate. Gli strumenti elettrici, chitarra e basso, sono i componenti fondamentali dell’Audra sound, una darkwave di sapore classico, quindi, incrocio ideale tra i primi Cure e i Bauhaus più controllati. Suono sì già sentito ma confezionato con estrema cura e caratterizzato da brani molto riusciti, come “Spiked with Black and Rum” il più gotico del CD, “What your eyes had seen” col suo inconfondibile giro di chitarra, o “In Hollywood Tonight”. Un promettente esordio, senza momenti morti, capace di “dire qualcosa” in un campo dove ormai è stato già detto tutto. E non è poco. (Christian Dex)

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Claire Voyant: Time again – a collection of remixes (CD – Accession Records). I Claire Votyant erano sicuramente una dei “best-kept secrets” della scena darkwave americana. Adoratissimi e osannati sulle pagine di ver Sacrum quanto sconosciuti ai più. Non c’è che da giore per questa riscoperta grazie all’ineffabile Accession Records che ha provveduto a ristampare i primi due splendidi CD del gruppo e, per un più efficace lancio sul mercato europeo, ha anche pubblicato questa antologia, in cui i gioielli del gruppo sono stati reinterpretati da nomi pluri-celebrati della scena (in particolare quella elettronica). La lista dei “remixer” include Front 242, il cantante dei Covenant, i VNV Nation, Assemblage 23, Haujobb e tanti altri per un totale di 13 pezzi. Acquisto imperdibile? No, tutt’altro, perché questa operazione si rivela alla fine goffa e non rende affatto giustizia alla musica del trio americano. Le splendide atmosfere wave elettriche, romantiche e sensuali, sono soffocate da ritmi e break impossibili. Il remix più goffo è proprio quello del cantante dei Covenant che in pratica “spalma” la splendida voce di Victoria Lloyd in una specie di outtake del gruppo svedese, epoca Sequencer. Il remix più interessante è invece quello dei VNV Nation che, confermando così la loro grandezza, riescono a rispettare il mood della bellissima “Majesty” pur assemblando le melodie in chiave fredda, maestosa e minimale, in puro stile VNV. Carini ma un po’ troppo di “mano pesante” i remix di Cut.Rate.Box e Assemblage 23. Infame quello in stile drum & bass degli ormai infamissimi – ahimé – Love Spiral Downwards. Due messaggi per finire: 1) Correte a procurarvi i due CD del gruppo; 2) Speriamo che i Claire Voyant non si facciano troppo ispirare da questi remix. Una svolta trip-hop/d&b dai Claire Voyant – dopo la “dipartita” dei Love Spiral Downwards – non riuscirei a sopportarla. (Christian Dex). Cut.Rate.Box: New Religion (CD - Accession Records). Per la terza volta negli ultimi mesi mi trovo ad elogiare un CD proveniente dagli USA; dopo Assemblage 23 (a dire il vero Canadesi) e Flesh Field è la volta di Cut.Rate.Box, il duo autore di questo buon album. Un disco di musica elettronica molto piacevole, con tracce più ritmate e ballabili (vedi “New Religion”, “Misery” e “Traummaschine”, ottimi brani che segnalo ai dj più attenti alle novità) ed altre più “d’atmosfera” come “Heartbreak Cinema” (in cui canta Stefan Ackermann dei Das Ich) e “Nothing” dove invece presenzia Daniel Myer alias Haujobb e Cleen. Tra le influenze musicali del duo americano vi è sicuramente la migliore wave anni ‘80 ed i Depeche Mode in particolare; infatti sul CD troviamo ben due versioni di “Behind the wheel” (francamente mi era piaciuta di più la cover fatta qualche anno fa dai Suspiria). Altro brano interessante è “Lichtspiel der gebrochenen herzen” in cui cantano S. Netchio ed A. Hates (rispettivamente vocalist di Beborn Beton e Diary Of Dreams); sarà per il testo in tedesco e per le cadenze ritmiche, ma il brano mi ricorda molto lo stile di alcune cose fatte dai Das Ich. Come avrete capito un disco molto vario e consigliato. (Candyman) Diary of Dreams: One of 18 Angels (CD – Accession Records). La musica dei Diary of Dreams album dopo album “cresce” per maturità e completezza, pur rimanendo inalterata la cifra espressiva del gruppo. In attesa del prossimo CD di Adrian Hates, che dovrebbe presentare, come nella recente tournée, un secondo cantante, gustiamoci a fondo questo One of 18 Angels: musica malinconica e raffinata, costruita soprattutto con strumenti elettronici, che non rinnega però nelle atmosfere le radici gotiche del suo autore (che tra l’altro ha suonato per anni come bassista dei Garden of Delight). I ritmi sono generalmente lenti e avvolgenti (per tutte va citata la lunga “Rumours about angels!”, la struggente “Colorblind”, bella ma forse un tantinello leziosa, e “Dead souls dreaming” che chiude l’album con incedere “drammatico”); ma più che nelle precedente prove del gruppo i tempi si fanno serrati, l’incedere più danzabile, tanto che alcuni brani non sfigurerebbero affatto nei dance-floor (“Butterfly:dance!”, la riuscitissima “Chemicals”, “Mankind”). La voce profonda e struggente racconta le passioni e le ossessioni dell’artista in testi personali, eleganti e un tantino ermetici: l’autore si mette a nudo nascondendosi al contempo pudicamente con frasi ambigue, ricollegandosi idealmente all’ermetismo degli artisti della prima scena Dark, da Ian Curtis a Robert Smith. Al solito va notata una cura inconsueta nella presentazione del CD che è accompagnato da una copertina e un booklet splendidi. Un gruppo originale e unico, immediatamente riconoscibile fra un milione. Senz’altro siamo di fronte al migliore album dei Diary of Dreams, almeno fino il prossimo, sempre che le promesse del recente tour saranno mantenute... (Christian Dex) Faith & Disease: Beneath the trees (CD - Projekt). L’ultima opera dei F.&D. è una vera e propria perla di romanticismo. La band di Seattle, approdata anch’essa alla Projekt di Sam Rosenthal, costituisce ormai un ineluttabile punto di riferimento per gli amanti della musica ethereal ed il cd in esame costituisce lo scrigno che racchiude le loro più recenti e profonde emozioni. Le visioni simboliche di alberi svettanti verso cieli enigmatici, al di sotto dei quali riposano i sogni degli uomini, esprimono la tragica tensione dell’itinerario creativo del gruppo verso lo spleen più intenso e coinvolgente. La nostalgia per l’infinito, che caratterizza l’emotività estetica del romanticismo più puro, si cristallizza, nei brani raccolti in Beneath the trees, in armonia e ritmo, così carezzevoli e suadenti da dipingere sentimenti spontanei ed onesti anche mediante il pennello del silenzio, una componente oscura ma sottilmente presente nello stilema espressivo del gruppo. Non ha senso evidenziare questo o quel brano: ogni composizione costituisce un grande momento emozionale di un percorso estetico completo che va percepito nel suo insieme. Musica che nasce dal più profondo dell’inquietudine umana per librarsi, sospinta da dolci e melanconici sospiri, verso l’inesplicabile altrove. (S*Tox) Furvus: Deflorescens Iam Robur (CD - Beyond Prod.). Lavoro non facile de recensire, quello del livornese Furvus. Già la foto dell’autore in copertina potrebbe indurre in inganno, facendo credere, a torto, che si tratti di un disco power metal; di tutt’altro, invece, andiamo a parlare: suddivisa in quattro sezioni, quest’opera è il risultato di una complessa ricerca filologica dedicata ad oltre un millennio di evoluzione musicale, dai tempi dell’Impero Romano fino al tardo Rinascimento, attraverso l’inesorabile declino della cultura pagana. Da un punto di vista musicale, le sonorità espresse sono piuttosto personali, tendenzialmente scure ed eteree, ma variabili con l’evolversi delle tracce (o, forse, dovrei dire delle epoche); i primi brani sono caratterizzati da un incedere più marziale, con una forte presenza di percussioni e testi declamati in latino da una voce profonda e ricca di effetto. Successivamente la musica si fa più oscura e indistinta ed iniziano a comparire le strutture corali tipiche del primo Medioevo, in uno stile a metà strada tra la musica bizantina ed il canto gregoriano, per continuare poi ad evolversi verso i ritmi da danza di corte appartenenti alla musica profana della tarda età di mezzo e del Rinascimento, caratterizzate anche dall’uso di strumenti a corda, di flauti leggeri e della lingua volgare. Oltre alla ricerca sonora, è da sottolineare che l’autore ha effettuato anche un’interessante ricerca iconografica e lirica, che ha come risultato un bellissimo libretto, che purtroppo ho potuto ammirare solo di sfuggita non essendo presente nella copia promozionale ma solo nella lussuosa confezione in pelle che si trova in negozio. Un lavoro interessante, quindi, da consigliare soprattutto a coloro che apprezzano quel sottobosco musicale che viene spesso inserito all’interno del metal oscuro e ambientale ma i cui confini vanno ben al di là di tale definizione. Per informazioni: Luigi M. Mennella – P. O. Box 159 57127 – Livorno. E-mail: godless@ats.it. (Ankh) VER SACRUM XI

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Flesh Field: Viral Extinction (CD - Trisol). Dopo gli Assemblage 23 ecco un altro eccezionale esordio dagli USA dove evidentemente stanno sbocciando grandi realtà electro-industrial dopo anni in cui gli Stati Uniti avevano prodotto in pratica solo gothic-band (ovviamente mi sto riferendo solo agli anni ‘90, non ho certo scordato band storiche come Skinny Puppy o Front Line Assembly). I Flesh Field sono un duo che non può non rimandare ai L’Âme Immortelle come primo termine di paragone, visto che anche qui convivono due voci: maschile (distorta e dura) e femminile (dolce e melodica), il che non sta a significare che siamo in presenza di un’ altra band “clone” senza personalità, tutt’altro; questo duo, se confermerà le ottime qualità evidenziate in questo disco ha davanti a sé un grande futuro e brillerà di luce propria. I 12 pezzi (più 2 remix, guarda caso a cura di Assemblage 23 e L’Âme Immortelle) di “Viral Extinction” sono brillanti esempi di electro-industrial aggressiva e ballabilissima, un disco irresistibile dalla prima all’ultima traccia, perciò non citerò un pezzo piuttosto che un altro: tutti sono meritevoli ed entusiasmanti. Decisamente uno dei migliori dischi d’esordio degli ultimi anni. (Candyman) Gothica: Night Thought (CD - Cruel Moon/Cold Meat Industry). Finalmente esordisce su CD questo splendido gruppo italiano i cui demo ci avevano molto favorevolmente colpito. L’album Night Thought ripresenta in nuova veste brani provenienti dai loro precedenti lavori, permettendo a tutti coloro che non avevano avuto modo di sentirli di entrare in contatto con un gruppo dal fascino veramente straordinario. I Gothica sono essenzialmente Roberto del Vecchio e Alessandra Santovito, i quali però si avvalgono di una serie di collaboratori che suonano strumenti come il flauto, l’oboe, il violino, che contribuiscono ad arricchire ulteriormente i loro suoni già di per sé molto elaborati e intensi. «La loro musica è totalmente gotica, preraffaelita il loro gusto estetico, romantico il sentimento che scaturisce dai loro suoni (e dalle loro anime)» (da VS X). I Gothica sanno creare atmosfere di profonda malinconia ed elegiaca solitudine, ci immergono in paesaggi di oscura bellezza, facendoci viaggiare in luoghi lontani nel tempo e nello spazio… Certo a trasmettere queste sensazioni contribuiscono non poco anche gli splendidi testi, veri e propri gioelli poetici, scritti dalla stessa Alessandra o ripresi dalla tradizione letteraria (Dante Gabriele Rossetti, Gustavo Adolfo Bécquer, Delgado José Espronceda) e le splendide immagini del booklet di presentazione (Friedrich, Waterhouse, Rossetti, Delaroche, etc.) non fanno che confermare la profondità della ricerca culturale che sta alla base del loro progetto. (Mircalla) Lupercalia: Soehrimnir (World Serpent). Ancora da Napoli e provincia giunge uno dei prodotti italiani più interessanti di questa stagione. Si tratta del cd di debutto dei Lupercalia, progetto nato nel 1998 come duetto classico-sperimentale formato da Riccardo Principe (chitarra classica, dulcimer e synth) e Pierangelo Fevola (violino a cinque corde e mandolino). I brani presenti nel lavoro sono tutti strumentali, fatto che potrebbe rendere ostico ad alcuni l’ascolto; in realtà la varietà e la ricchezza delle composizioni, che spaziano tra sonorità antiche, medievali, barocche e della tradizione popolare, conferiscono un senso di leggerezza e di soavità all’insieme. Non mancano le atmosfere gotiche e teatraleggianti (soprattutto negli intro, spesso oscuri e sepolcrali, con campane a morto e ululati che rimandano alle notti di tregenda!) e all’ascolto risulta evidente come la ricerca dei Lupercalia si estenda ben oltre una sperimentazione musicale che cerca di conciliare passato e presente, per comprendere anche tutta una serie di richiami al mondo artistico e letterario. L’inserimento previsto di pezzi cantati da due voci femminili non potrà che dare ancora maggiore spessore a questa già ottima formazione. (Mircalla) Kirlian Camera: Still Air (Radio Luxor /Ende). Ogni volta che mi trovo a dover commentare un’opera dei Kirlian Camera sono al tempo stesso felice e preoccupato. Felice perché ho modo di parlare di uno dei gruppi che più amo in assoluto; preoccupato perché ormai non so più quali aggettivi usare per descrivere i loro capolavori. Still Air è l’ennesimo gioiello di questa band, sempre pronta a rimettersi in discussione e che non si culla sugli allori del disco precedente. Il nuovo lavoro si presenta bene sin dalla foto di copertina del booklet: una torreripetitore avvolta in un cielo grigio scuro opprimente, soffocante, un’aria immobile appunto. Atmosfera perfettamente resa dalle note lente e cadenzate della prima traccia del cd, “The unreachable one”, un andamento solenne che ci introduce in uno dei dischi più belli mai fatti dai Kirlian Camera; un‘opera che richiede almeno un paio di ascolti per farsi apprezzare completamente, ma che poi conquista e affascina dalla prima all’ultima traccia. Vediamo alcuni di questi brani: “Black harbour/Helma Nah ‘Shmarr” è un pezzo decisamente originale, con percussioni tribali in primo piano e il testo cantato in una lingua francamente a me sconosciuta (scusate l’ignoranza); “Absentee” e “At any moment now” sono i due brani più “immediati” del disco, la prima cantata da Emilia Lo Jacono mi ricorda per certi versi l’atmosfera di alcuni brani del cd Pictures from Eternity mentre la seconda (per me miglior brano del cd!!), cantata dalla bravissima Elena Fossi è l’ideale anello di congiunzione col cd precedente Unidentified Light, uno stile, fatte le debite proporzioni, “simil Portishead”. Atmosfere tipicamente “Kirlian Camera” affiorano nella strumentale “Uninhabited” semplicemente perfetta, colonna sonora di un freddo pomeriggio invernale quando la nebbia comincia a scendere sulle campagne. Tensione drammatica, senso d’oppressione (ancora l’immagine del booklet scolpita nella mia mente) si ritrovano in “The hidden voices” e “Anti-light”, pur così diverse tra loro. L’unico brano che non mi convince in pieno è “Heaven’s Darkest Shore” composta con Patrick Leagas alias 6th Comm... pazienza, rimane comunque ampiamente positivo il bilancio di questo cd, una delle pietre miliari della discografia della band emiliana. (Candyman) Miraspinosa: Duel (CD – autoprodotto/Audioglobe). I Miraspinosa sono rimasti orfani di una label dopo il dissolversi del “Consorzio”, l’etichetta dei CSI e così per questa seconda fatica hanno deciso di seguire la strada dell’autoproduzione. Auguriamo loro tanti sinceri auguri perché sono davvero un gruppo di prim’ordine. Destino ha voluto che il loro nome somigli molto a quello degli americani Mira e in effetti a guardare bene le due formazioni casualmente hanno qualche vago punto di contatto, a partire dalle due ottime vocalist femminili. Se però il gruppo della Projekt propone uno stile piuttosto uniforme la cifra stilistica dei Miraspinosa è assai più ricca. Si va infatti da brani rock-wave piuttosto atipici e aperti a contaminazioni con suoni e sensazioni le più disparate (“Waves”, l’interessante commistione di suoni elettronici e di archi in “Mantras”) a sperimentazioni elettroniche di sapore trip-hop (“Peregrinare”, “Distanze”), fino a qualche pezzo più oscuro di gusto darkwave (la straordinaria “Fallen”, un brano che piacerebbe senza dubbio a Sam Rosenthal). Filippo e Mirka scelgono di non concentrarsi su un unico sound e tentano varie cifre stilistiche. Al contempo sembrano essere in dubbio se creare un suono internazionale oppure qualcosa più legato al nuovo rock italiano, qualcosa quindi con maggiori possibilità di successo (diciamo interesse) qui da noi (“Va tutto bene” è l’esempio più chiaro in questo senso). Duel è quindi un disco a metà del cammino, aperto e innovativo quanto legato alla tradizione dei gruppi del Consorzio. Non che questo sia un difetto, sia chiaro, è solo che il disco lascia intravedere un potenziale inespresso ancora maggiore (gli arrangiamenti del disco sono, tanto per fare un esempio, eccellenti). A questo punto è molta la curiosità di vederli dal vivo e di ascoltare il loro nuovo materiale. Nel frattempo ritengo che questo CD meriti l’attenzione dei lettori di Ver Sacrum: è vero, i punti di contatto dei Miraspinosa con la scena oscura sono assai flebili, e probabilmente casuali, ciononostante Duel potrebbe piacere, e molto, a chi apprezza le produzioni Projekt e i gruppi pop-wave. (Christian Dex)

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Ordo Equitum Solis: Metamorphosis Personam Impono (CD – Sinope). Ennesima ottima prova per gli O.E.S. che ultimamente, sempre più ispirati dal fuoco sacro dell’arte, stanno sfornando a ritmo serrato una serie di lavori uno migliore dell’altro. E così come si può non rimanere incantati dinanzi alle atmosfere suadenti di questo ultimo CD, che presenta dei brani davvero unici per intensità musicale e di sentimenti. Apre “L’uomo dei vermi”, forse il brano più interessante dell’opera, fatto di suoni minimali e rarefatti, di percussioni in primo piano, di sensazioni cupe, di medievali liturgie, che accompagnano un testo dalle immagini davvero inquietanti declamato in italiano da Deraclamo con intensa passione. Atmosfere più morbide e distese accompagnano i due brani successivi, la suadente “Ave Bacchus”, cantata in latino, e l’avvolgente “Tomorrow cries”, con una calda tromba in sottofondo, in cui Leitana dà l’ennesima prova della sua bravura vocale. Di nuovo un brano “di ricerca” con “Instrumental”, in cui dominano gli echi di sonorità classiche e di sinfonie maestose, per poi lasciarci intrigare dalle note di “The Cursed sings its song”, splendida ballata oscura e conturbante. Si torna alle sonorità tipiche della migliore tradizione O.E.S. con i brani successivi, “Oblivion” ed “Empty Space”, mentre ”Leave me alone”, cantata a due voci, avvolge l’ascoltatore in un mondo di magia e di sogno. Chiusura in dolcezza con “Reprise” e soprattutto “The last hopes in me”, in cui la sirena incantatrice Leithana ci avvolge ancora una volta tra le sue spire e ci culla delicatamente, finché non ci abbandoniamo completamente alla sua malia. (Mircalla) Pulcher Femina: Fallen Angel (CD - Decadance Records). Avevo sentito parlare bene di questo duo romano ed in effetti dopo l’ascolto del loro cd d’esordio non posso che concordare e far loro i complimenti: veramente un esordio coi fiocchi ed è inevitabile pensare che se questi ragazzi fossero nati in Germania o Scandinavia questo disco avrebbe avuto ben altro riscontro. Fallen Angel è costituito da 12 ottimi brani che spaziano dall’elettro-dance di “Burn my chains”, “Scream and die” e “Subversion” alla wave di “Darkest hours” e “Silence”; impossibile non scomodare i Dead Can Dance (anche se mi rendo conto che si tratta di uno scomodo termine di paragone) per la bellissima “Breathe” dove spicca la bella voce di Anna Consuelo Cerichelli, mentre in “Death” il cantato in italiano mi ha ricordato i Carillon del Dolore. Avendo fatto i complimenti alla componente femminile del duo mi sembra doveroso citare anche Roberto Conforti, autore di tutte le musiche e anche lui dotato di una voce niente male (personalmente trovo che la sua voce abbia un’impostazione “wave” stile Clan of Xymox, o restando sul suolo italico, Frozen Autumn). Ribadisco, ottimo esordio!!! In bocca al lupo ragazzi. (Candyman) Raison d’être: The empty hollow unfolds (CD - Cold Meat Industry). Se la Cold Meat Industry rappresenta oggi un punto di riferimento dal quale non può prescindere chi ascolti e apprezzi un certo genere di musica, una fetta importante di merito va sicuramente ad un signore che si chiama Peter Andersson, ma che preferisce nascondersi sotto vari pseudonimi, dei quali il più noto è senza dubbio Raison D’Etre. Non sono in grado di dire con certezza se le cose siano andate veramente così, ma ho la forte impressione che la monumentale (non trovo altra definizione) compilazione Collected Archives, uscita l’anno scorso, abbia costituito una sorta di riflessione, un guardarsi alle spalle prima di pubblicare il nuovo lavoro, che in qualche modo sembra essere un punto di svolta; non si preoccupino coloro che hanno amato i suoi precedenti lavori, le svolte nella musica di Raison d’être sono anche meno repentine dell’incedere dei suoni che produce, ma sono profonde e sentite. Fin qui, quella che è stata la mia reazione emotiva all’ascolto di questo disco; ora viene il brutto: probabilmente ci si aspetta che io riesca a dire in modo razionale in che cosa consiste questa svolta, ed è compito assai difficile; d’altra parte, la musica di Raison d’être è una musica che si presta ad essere assorbita dalla sensibilità emotiva dell’ascoltatore più che dal suo lato razionale. Gli elementi caratteristici che rendono unica ed inconfondibile la musica di questo progetto ci sono ancora tutti: lunghi brani cupi ed ambientali, campionamenti di voci e cori, oscuri rumori industriali sullo sfondo… eppure c’è qualcosa di sottile e sfuggente che mi spinge a dire che il disco ha qualcosa di nuovo, è ancora più inquietante e ostico dei precedenti, ed a tratti non può non far salire qualche brivido ghiacciato lungo la schiena. Forse sono più forti le influenze di certa musica industriale o forse, più ancora che nei lavori precedenti, Raison d’être riesce a trasformare un disco in un unico rituale magico ed oscuro, allo stesso tempo affascinante ed agghiacciante, o forse ancora è riuscito a portare a termine la sua ricerca alchemica, trovando il perfetto equilibrio tra le parti che costituisce la porta verso la perfezione. Non sono in grado di spiegare perché, ma non riesco a non dire che questo è, a mio giudizio, il miglior disco che questo artista abbia prodotto finora. E non è poco. (Ankh) Samsas Traum: Oh luna mein (CD - Armageddon Shadow). Dopo Die liebe gottes, album di debutto uscito esattamente un anno fa, i Samsas Traum ritornano con questo Oh luna mein, che ribadisce l’attitudine all’avantgarde/sympho black metal che i nostri hanno avuto sin dai loro esordi. Immaginatevi di ascoltare la musica di un’orchestra sinfonica alle cui sonorità si affiancano un drumming compatto, riffs potenti e micidiali, una voce maschile incisiva e tagliente (alla quale talvolta se ne affianca anche una femminile) e avrete ancora solo una vaga idea di ciò che i ST suonano, perché nella loro musica c’è anche una forte componente sperimentale che è il punto di forza della band e ciò che la rende davvero unica. Nel brano “Ode an epiphanie” per esempio spicca addirittura il suono di un sax, e in “Dies ist kein traum” c’e una parte iniziale che è un vero e proprio monologo declamato da Johannes Welsch, cantante della band. Se proprio vogliamo trovare dei punti di contatto tra i ST ed altri gruppi, farei senz’altro i nomi di Devil Doll e Lacrimosa, in quanto dei primi viene ripreso l’estro e la genialità compostiva e dei secondi il gusto per gli accostamenti tra sonorità classico/barocche e sonorità metal. Oh luna mein è senza dubbio un’ottima riconferma per una band che, a differenza di tanti gruppi-clone che infestano l’odierna scena musicale, ha l’abilità (e l’ardire?) di comporre musica fuori da ogni schema e soprattutto di prendere le distanze da qualsiasi corrente o genere dai confini troppo definiti. (AB) The Seventh Dawn: The Age to an End shall come (CD - 4Dimension). Davvero un ottimo cd di esordio per i Seventh Dawn, ovvero per il duo Susan e Chris McCarter, quest’ultimo conosciuto soprattutto per il suo lavoro negli Ikon. Dalla lontana Australia ecco giungerci soavi canzoni di eterea grazia e bellezza, sorrette dalla voce calda e appassionata di Susan e da una ricerca sonora raffinata ed elegante. Non si può non rimanere incantati dinanzi alla perfezione cristallina di brani come “Clairevoyant”, “Black Mourning Sky” e “Two of Cups” che rimandano decisamente alle migliori sonorità “Project-like”, o alle morbide tastiere di “He’s not playing far for the King”. Ma esiste anche un’altra anima nei Seventh Dawn, più vicina ad atmosfere folkapocattiliche e alla wave oscura che fu degli Ikon e ne sono testimoni brani come “In light and roses” e “The Rosin Bridge”, che Chris McCarter interpreta magnificamente con quella sua voce cupa e cavernosa. L’ispirazione folkeggiante del gruppo è presente comunque in molti altri pezzi, come nella ballata-traditional “Prelude to Carriage”, in “1881” e “Forever Knows Best”. Non mancano anche sonorità più elettroniche, ma sempre molto oscure, in “In my lonely hours”, l’unico pezzo a due voci e forse il migliore nel testimoniare le alte potenzialità future del gruppo, che si innalza al di sopra della media anche per la varietà delle sua proposta musicale, fatto che lo rende piuttosto originale nel panorama attuale. (Mircalla) VER SACRUM XI

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Sephiroth: Cathedron (CD – Cold Meat Industry). L’ascolto di questo CD mi ha veramente stregato! Cathedron sposa alla perfezione le sonorità dark-industrial con una sensibilità di stampo esoterico-tribale, qualcosa a cavallo tra Raison d’Être e i Mother Distruction. I suoni maestosi di tastiera, composti in minimali melodie e spettrali arrangiamenti, si infiammano improvvisamente con un drumming incalzante, a cui è impossibile resistere. E’ musica di grande fascino e spessore, ieratica e malinconica, un’interessante e riuscita variazione ai “canoni” tradizionali dell’ambient-industrial. Sicuramente i momenti percussivi sono la colonna centrale di questo lavoro, ciò che dona originalità e fascino ad un’opera che, per quanto interessantissima e riuscita, avrebbe inevitabilmente provocato una sensazione di “già sentito”. Molto armonici e riusciti sono gli assemblaggi sonori di cui si compongono i sei brani qui presenti, con un imponente muro di tastiere, stile “orchestrale”, in cui si appoggiano, lievi in sottofondo, rumori e inserti di stampo industriale. La musica si trattiene, si sospende, e poi esplode sull’onda di una ritmica incalzante e affascinante, qualcosa che di tanto in tanto, anche nello spazio di un attimo, piacerebbe sentire nelle discoteche goth. Cathedron non è che l’esordio di Sephiroth, sigla dietro cui si cela il solo Ulf Söderberg: se questo “non era che un debutto” aspetto con ansia altre prove da questo straordinario artista. (Christian Dex) Siecthum: Gesellschaft: mord (CD – Matrix Cube/Trisol). Se non è il disco electro-industrial dell’anno poco ci manca! Decisamente ottimo è infatti questo esordio del gruppo di Thomas Rainer, ben più noto come cantante degli ottimi L’Âme Immortelle, che abbandona le facili e accattivanti melodie della band austriaca per votarsi, con l’aiuto di un fido compare, a sonorità più ruvide e sperimentali. In questo tentativo estremo non va affatto perso il gusto per i ritmi danzabili e sono molti i pezzi di Gesellschaft: mord che farebbero furore nelle più illluminate discoteche oscure. La title-track ad esempio è per il brano perfetto, che unisce suoni aspri, freddi e violenti ad una dolcissima linea melodica, adagiando il tutto su una base ritmica irresistibile! In generale è questo melange di industrial ed EBM (non lasciatevi ingannare dall’iniziale eterea “Stilbruch”!) appare equilibrato oltre che ispirato e non deluderà chi si appassiona per le sonorità più estreme o chi invece ama scatenarsi nei dancefloor. Forse il difetto maggiore dell’album è una certa mancanza di varietà, che fa mostrare un po’ la corda all’operazione nei brani meno ispirati (es. “Puppet Master”). L’assenza totale del cantato contribuisce poi a dare una certa pesantezza all’insieme. Il risultato complessivo è comunque eccelso e supera per qualità a mio modesto avviso le recenti prove degli Âme Immortelle. (Industrial) Music for the Masses! (C. Dex) Sophia: Sophia (CD – Cold Meat Industry). A pochi mesi di distanza dall’ennesimo capolavoro degli Arcana esce a sorpresa il lavoro solista di Peter Pettersson, che abbandona momentaneamente la sua bravissima partner per avventurarsi verso nuovi territori. In realtà, inevitabilmente, le distanze con il gruppo principale non sono poi tante: si ritrova in questo CD quella qualità indiscutibile e unica degli Arcana di comporre solenni ed eleganti melodie, di ricreare, seppur con strumenti elettrici, la grandiosità delle orchestre. Più che il lato neoclassico degli Arcana vengono qui esasperate le ispirazioni ambient-industrial di Pettersson, mentre nell’uso delle percussioni, nettamente in primo piano, o nella scelta dei campionamenti, viene mostrata un’affinità con le band folk-apocalittiche. Il CD si compone di dieci brani, di cui i primi nove vanno a formare una piccola sinfonia, fatta di vari momenti che si aprono e chiudono con ritmi, tempi e sonorità diverse, pur mantenendo una ieratica atmosfera marziale. L’ultimo brano si apre dopo qualche minuto di silenzio, e si compone di suoni soffusi e lugubri, un tintinnio di campane, una linea di pianoforte, mentre lontano è l’incedere dei tamburi, come l’eco della battaglia che proviene da spazi (e da tempi?) lontani. Un lavoro estremamente valido anche se, lasciatemelo dire, il fascino degli Arcana rimane insuperato. (C. Dex) Sunday Munich: Vinculum (CD – Precipice). L’esordio dei Sunday Munich (Pneuma) non mi aveva coinvolto più di tanto e con un filo di prevenzione mi sono avvicinato a questa loro seconda opera. Fortunatamente le cose sono cambiate, una volta tanto per il meglio, nettamente. Le incertezze dell’esordio sono scomparse e i brani qui presenti mostrano una finalmente raggiunta maturità espressiva. Le coordinate musicali del gruppo di Atlanta non sono cambiate, siamo ancora prossimi ai territori del trip-hop (il nome dei Portishead compare spessissimo associato a loro) pur con un’innegabile e affascinante impronta oscura, fatta di atmosfere malinconiche, melodie dal gusto spleen, aspri suoni electro-industrial (sempre in secondo piano), il tutto combinato a creare un insieme minimale, fatto per sottrazione più che per accumulo (qualcuno li ha definiti acutamente “dread ‘n bass”). Rispetto alla scena di Bristol i Sunday Munich si distinguono per un suono più sanguigno, meno freddo e cerebrale, più “blues” in senso lato (ascoltate la struggente “Feeling here” per capire di cosa parlo). La voce di Sarah Hubbard si dimostra solida e convincente e in alcuni brani viene affiancata efficacemente da un secondo vocalist. Assolutamente da menzionare è poi il gran lavoro agli strumenti (chitarre, violoncello e tastiere) e arrangiamenti di Avis, probabilmente la mente del progetto Sunday Munich. Più che i singoli brani Vinculum va apprezzato nel suo insieme, nella compattezza delle atmosfere, è come un film che avvince man mano che procedono le scene/canzoni. Segnaliamo come curiosità la presenza di “Wish you were here”, storico brano dei Pink Floyd, a chiusura di un album ineccepibile. (Christian Dex) Vidi Aquam: Queen of Spades (MCD – autoprodotto). Tornano i Vidi Aquam, formazione meneghina attiva da anni, in quella che sembra essere ormai la formazione stabile, che vede Serena alla voce, Daniele alla chitarra e al basso, nonché Nikita, storico fondatore del gruppo e ben noto per le sue molteplici attività (fanzine Rosa Selvaggia, negozio Naiadi, dj ...). Gli scenari sperimentali degli esordi, caratterizzati da un minimalismo sonoro ed emotivo (cfr. recensioni su VS VII e IX), sono pressoché scomparsi in Queen of Spades, trasfigurati in una forma complessa e originale, che unisce sapientemente il romanticismo della prima cold-wave all’energia del Gothic anni ‘80. Le suggestioni di questi due storici generi vengono assorbite dal gruppo, attualizzate e restituite in sei pezzi affascinanti e curati negli arrangiamenti. Le tastiere, sempre in primo piano, infondono malinconiche suggestioni e si intrecciano in complessi e raffinati quadri sonori. La voce femminile è sempre ben bilanciata e convincente, sia in brani irruenti come “Le Silénce” e “Lost in Time” che nelle romantiche atmosfere de “I Dannati” e “Fugge dal nulla”. Una prova di grande maturità. Informazioni: http://go.to/vidiaquam (C. Dex) Velvet Acid Christ: Twisted Thought Generator (CD – Metropolis). Nelle note di copertina si legge “Dedico questo CD alla mia sopravvivenza negli ultimi 10 anni: ce l’ho fatta per un pelo”. Questo descrive per bene lo stato d’animo che passava per Bryan Erickson mentre componeva i nove brani di questo CD. Sono in molti a dire che la sofferenza, quella vera, provochi dei capolavori e se è vero che Twisted Thought Generator non è un’opera epocale, al contempo si tratta indubbiamente del lavoro più maturo, e secondo me riuscito, dei Velvet Acid Christ, fra i più rappresentativi artisti americani del genere electro. Anziché inseguire la creazione di brani dance accattivanti ad ogni costo, magari un po’ leggerini, (che comunque non mancano, si senti ad esempio “Mindphlux” o “Lysergia” con i loro suoni trance) Erickson ha scavato a fondo dentro di sé, mettendo allo scoperto il suo malessere, amplificato da un uso a quanto pare smodato di droghe (sorprende leggere dagli autori di Fun with Drugs una nota come “Ho deciso di attenuare la mia glorificazione delle droghe per raccontare alla gente come queste possono rovinarti la vita”). Questo ha prodotto un lavoro molto oscuro fatto di brani piuttosto riusciti, sì danzerecci, ma con un’anima, mai di maniera e scontati. Occasionalmente si sfiora il capolavoro come nell’iniziale “Velvet Pill”. Il maggior difetto dell’album sta nella lunghezza eccessiva dei brani, di norma tra i sei e talvolta i sette minuti, che se tagliati di un po’ avrebbero evitato il sorgere dell’effetto noia. Consigliato ai fan degli Skinny Puppy. (Christian Dex) VER SACRUM XI 65


New Orleans – The City of the Dead (detto anche Vieux Carré). Tutti coprono un’arco temporale ben delimitato, che va dagli inizi alla fine dell’800, e si presentano molto omogenei tra loro sotto l’aspetto delle scelte architettoniche. Tra questi i più importanti e conosciuti sono il Saint Louis n°1 e il Lafayette n° 1, ben noti ai lettori di Ann Rice dato che sono ripetutamente citati sia nei romanzi della saga del vampiro Lestat che in quella delle streghe Mayfair. La particolarità maggiore dei cimiteri di New Orleans è legata al fatto che le tombe non sono scavate nel terreno, ma costruite sopra di esso; non si tratta cioè di semplici lapidi poste a chiusura di una fossa, ma di vere e proprie case sepolcrali a cielo aperto che racchiudono i resti dei defunti, le cosiddette “above-ground graves”. Questa scelta insolita in terra americana è legata alle particolari condizioni geologiche del terreno su cui fu fondata New Orleans, una specie di laguna paludosa di ben sei metri sotto il livello del mare, che in passato durante le stagioni più piovose si trasformava in un vero e proprio acquitrino e tendeva a portare in superficie tutto ciò che stava sottoterra, ossa comprese. Quando nel 1721 fu costruito il primo cimitero della città, il S. Peter Street Cemetery, a fianco della chiesa principale nel centro del Quartiere francese, gli abitanti vi fecero delle normali sepolture sotto terra, ma poi si resero conto che ad ogni forte pioggia l’area rischiava di trasformarsi in una piscina in cui galleggiavano i cadaveri. Così nel 1788, quando uno spaventoso incendio seguito da un’inondazione provocò gravissimi danni e molti morti, fu decisa la realizzazione di un nuovo cimitero ai limiti della città, in cui le tombe non fossero più sotto, bensì sopra il livello del terreno. Nacque così il S. Louis n° 1, il più antico cimitero ancora esistente, nel quale furono trasportate molte delle tombe del St. Peter, che fu completamente demolito e pavimentato. Si tratta di un cimitero di rito cattolico, come la maggior parte di quelli di New Orleans, anche se una piccola zona lungo le mura che lo racchiudono è riservata ai protestanti. Le sue tombe “a camera” seguono la logica molto funzionale del “riciclo” e sono pertanto organizzate su due piani: in quello superiore sono posti i cadaveri più recenti, mentre i resti dei precedenti defunti vengono spinti in fondo e fatti cadere nella cella sottostante. Alcune più elaborate, come le cosiddette “society tombs”, tombe collettive di società o organizzazioni di beneficienza mantenute dai loro membri, hanno una grande camera centrale in cui vengono gettati tutti i resti per far spazio a quelli nuovi. Le tombe sono per lo più costruite in mattoni ricoperti di marmo o solo intonacati di bianco e architettonicamente seguono le mode del

ew Orleans, conosciuta in Italia soprattutto

come patria del jazz, è nota negli Stati Uniti N anche per i suoi splendidi cimiteri storici, presenti in numero davvero esorbitante (41!), dai quali le deriva l’appellativo di “Città dei morti”. Per capire i motivi di questa fitta presenza in una città che oggi non supera il milione di abitanti bisogna tornare nel passato: New Orleans fu fondata dai francesi nel 1718 e nel giro di breve tempo divenne una delle colonie più prospere del nuovo mondo. Nel corso dell’Ottocento, oramai territorio americano, si ingrandì notevolmente, anche grazie all’arrivo di molti immigrati dall’Irlanda e dalla Germania che si affiancarono ai residenti creoli e alla numerosa popolazione afro-americana impegnata a lavorare nelle piantagioni di cotone. Il fatto che New Orleans fosse fondata sulle paludi del Missisippi portò però allo scoppio di terribili e cicliche epidemie di febbre gialla, di cui le più gravi negli anni tra il 1851 e il 1855, che nel giro di poco tempo sterminavano buona parte della popolazione. Dunque si rese necessaria la costruzione di numerosi cimiteri, che furono collocati al di fuori dei limiti della città, ma che oggi risultano inglobati in essa e formano quasi una raggiera intorno al vecchio centro storico, il famoso Quartiere francese

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tempo, passando dalla rivisitazione neoclassica (tempietti d’imitazione greca e romana) a quella neogotica con ornamenti vari e statuette di angeli, putti, donne in preghiera ed altre immagini devozionali. Tipica è poi la recinzione in ferro lavorato intorno alla tomba, con motivi decorativi anche piuttosto complessi, sormontati da numerose croci in ferro. Il St. Louis n. 1 è il cimitero più visitato della città: molti sono i tour organizzati di un’ora che conducono all’interno di questo luogo affascinante per visitare le tombe e le storie delle persone che in esso vi sono sepolte: tra queste primeggia per importanza la famosa voodoo-queen Marie Laveau, una donna di colore libera vissuta nel corso dell’Ottocento che per prima portò le pratiche voodoo da Santo Domingo a New Orleans. La sua tomba è tuttora meta di pellegrinaggio e di turisti ed è sempre decorata di mille oggetti: fiori, croci, rosari, ma anche foto, pipe, statuine e amuleti vari (i gris-gris). Alcuni dicono che il suo fantasma si aggira per il cimitero e di notte è possibile vederlo mentre, avvolto nelle spire di un serpente, guida alla danza gruppi di uomini e donne nudi. Ancora più affascinante, se possibile, è il Lafayette n° 1, posto al centro del Garden District, splendido quartiere residenziale al di fuori del centro storico popolato nell’Ottocento soprattutto da irlandesi e tedeschi. Immerso in una fitta vegetazione questo cimitero è davvero un’oasi di pace e tranquillità e le mute tombe sono disposte lungo semplici vialetti alberati tra i quali è molto piacevole passeggiare. Essendo un cimitero di proprietà comunale, è presente un ampio spettro sociale di popolazione, senza riguardo alla religione, al paese originario di appartenenza o al colore della pelle, insomma un primo esempio di multietnicità. Fondato nel 1833, vanta per lo più tombe neoclassiche di composta eleganza, costruite negli anni 30-60 dell’Ottocento, in mattoni ricoperti di marmo o anche in ferro battuto dipinto di bianco, spesso con splendide statue ed elementi decorativi. Questo cimitero è diventato molto famoso perché vi sono state girate nel 1993 alcune scene del film Interview with the Vampire di Neil Jordan; inoltre è un luogo di culto per i fan di Ann Rice dato che nella sua fiction proprio qui ha situato la tomba di famiglia delle streghe Mayfair; lei stessa poi vive nel Garden District in una splendida casa vittoriana. Nel 1995, in occasione dell’uscita di

Memnoch The Devil, la scrittrice ha inscenato nel Lafayette n° 1 un vero e proprio corteo funebre “all’incontrario” clamorosamente kitsch, facendosi rinchiudere in una bara, vestita con un lungo abito bianco ottocentesco, per poi venire trasportata fuori dal cimitero da due becchini, in una carrozza nera trainata da cavalli, fino alla libreria posta di fronte (specializzata -guarda caso- proprio nelle sue opere) dove doveva svolgersi la presentazione del suo libro! Se questi due sono i cimiteri di New Orleans più frequentati dai turisti non vuol dire che anche gli altri non siano degni di nota. Certo alcuni non sono facilmente visitabili perché si trovano in uno stato di forte degrado o in zone a rischio criminalità (come il St. Louis n° 2, fondato nel 1823 e paragonabile al n° 1 per struttura e bellezza architettonica); altri invece formano dei veri quartieri residenziali all’interno della città. La maggior parte si concentra nell’area di Canal Street ed è raggiungibile facilmente con un apposito bus denominato “Cemeteries”. Tra i più belli il Metaire Cemetery e il St. Lois n° 3, fondati tra il 1838 e il 1854, che si presentano come degli enormi spazi verdi in cui le tombe, sormontate da statue di angeli, si stagliano altissime lungo i viali percorribili anche in automobile, tra fontane e laghetti, come se ci si trovasse all’interno di un grande giardino pubblico. Si tratta di luoghi davvero speciali, in cui non prevale l’atmosfera di tristezza e sofferenza bensì un’aura di mistica bellezza e di profonda pace interiore. New Orleans, città del puro divertimento, si trasforma così in un’oasi di serenità e di contemplazione e la sensazione, davvero straniante, è quella di essere immersi in uno spazio senza tempo, lontano dagli affanni quotidiani, un mondo perduto nel passato e nel ricordo.

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Gianni Morandi è un vampiro? dei Vampiri Nascituri (non ridete, bestie! E’ così), la quale provvede ad avviare la colonizzazione di nuovi mondi inviando queste anime nei corpi dei neonati del pianeta. E come in ogni buon ufficio che si rispetti, si verificano frequentemente disguidi ed errori. La commissione interna all’ufficio, infatti, aveva individuato come luogo ideale per far nascere un vampiro in Terra la Romagna: benessere diffuso, dunque alimentazione ricca e grassa, e per di più genuina, non finta e tossica come in America, che avrebbe garantito un solido nutrimento ai giovani non-morti, facilitando la loro rapida diffusione e la altrettanto rapida colonizzazione del pianeta. Ma in ufficio hanno fatto casino con i nomi, e così, per secoli, i vampiri sono stati fatti nascere, invece che in Romagna, in Romania, con ovvie, disastrose conseguenze. Altro che alimentazione ricca! La cosa migliore mai capitata ai rumeni nella storia è stata Ceausescu, immaginiamoci il resto. Un luogo freddo, squallido, povero, dove ci sono, sì, delle belle foreste, che però sono tetrissime e gelide. Inoltre i vampiri non hanno con gli alberi un rapporto molto positivo: intanto non li mangiano, poi non gli servono nemmeno per appendersi quando assumono la forma di pipistrelli (è noto che per questo scopo usano le grotte, che li riparano anche dal sole); in più gli incasinano il radar, e poi con gli alberi ci si fanno i paletti che ogni tanto si ritrovano nel cuore. Perciò più che subirne il fascino, le foreste danno loro ai nervi. Per forza poi l’immagine classica del vampiro è diventata quella del tenebroso, pallido, smunto, cupo, nemico della vita: non è che il sole dia loro fastidio, è che lì non c’è mai, non ci sono abituati, e per autodifesa psicologica hanno preso ad odiarlo; da lì anche il pallore. Quanto alla cupezza, vorrei vedere voi a crescere in Romania quanto sareste allegri. Lo smunto, poi, è un’ovvia conseguenza dell’alimentazione del luogo, se la si può definire tale. Tutto cambia per il nostro caro Gianni e per il suo amico Romano Prodi, che per un controerrore dell’ufficio sono nati nel posto giusto. Come dite? Certo che anche Prodi è un vampiro, non lo avevate capito? Bastava guardare le sue finanziarie, con le quali ha dissanguato milioni di lavoratori per capirlo. Il buon Romano ha capito presto che appostarsi agli angoli di strada ad aspettare le vittime non faceva per lui, e che si potevano ottenere migliori risultati con un’azione su larga scala. C’è stato sì qualche problema, per il fatto che nella DC tutti portavano il crocifisso, ma i suoi amici di partito lo sapevano, in quanto complici e non meno vampiri di lui, e in sua presenza se lo nascondevano nella camicia, come erano abituati a fare durante i festini e le or … ma questa è un’altra storia.

cusa, come hai detto? No, non ho capito bene: vuoi scherzare? No, dico, è una domanda seria? CERTO che è un vampiro, ci mancherebbe altro; è ovvio, evidente, palese, manifesto, scontato, palmare (palmare?). Altrimenti come si spiegherebbe il fatto che ha duemila anni per gamba e sembra ancora un bambino? Lo stesso sorriso innocente (i maligni dicono ebete; io sono un maligno), sempre giovane e bello (vabbè …) e ancora l’allegria dei vent’anni, che sono quelli che gli daremmo volentieri di carcere, ma servirebbero a poco: lui infatti è un vampiro, vive in eterno e vent’anni gli fanno una s … non lo tangono né poco né punto; inoltre i vampiri sono capaci di trasformarsi in nebbia, e le sbarre di una prigione non lo tratterrebbero a lungo. Ma qual è, allora, la sua storia? Come ha vissuto tutti questi anni da vampiro? E se era un vampiro, come faceva a fare i film ambientati d’estate al mare? Nelle sue canzoni sono forse nascosti riferimenti a questa sua condizione? E quali sono i rapporti tra lui e Prodi e i termini della loro amicizia? Calma, calma, una cosa alla volta; pian piano giungeremo a svelarvi tutti i segreti ed i retroscena di uno dei grandi misteri italiani (visto che sugli altri, come ad esempio sciocchezzuole tipo stragi e simili, sembra non sia possibile sapere un bel c***o di niente, a partire dai colpevoli). Tanto per cominciare, chi sono i vampiri e da dove vengono? Come ci insegnano alcuni pregevoli numeri del fumetto “Hellblazer” ad opera di Garth Ennis e Steve Dillon, i vampiri provengono dallo spazio, atterrano su un pianeta dove, se non muoiono prima di morte violenta, restano finché la vita su di esso non si esaurisce, e allora cambiano pianeta. Quello che il fumetto non spiega, però, è che non sempre i vampiri giungono su un pianeta calando dal cielo (da cui tutti quei film tipo I vampiri dello spazio profondo etc.) ma a volte seguono un’altra via: esiste infatti una struttura c h i a m a t a U.A.A.V.N., Ufficio per l’Amministrazione delle Anime

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Anche “Bella Belinda, innamorata, piange da sola sull’insalata” (giuro, è vera; altro che paletto nel cuore, ci vorrebbe): se è da sola, come fa lui a vederla se non spiandola dalla finestra dopo essersi trasformato in pipistrello? “Si fa sera” e il suo incipit “Ma quando si fa sera siamo ancora qui noi due da soli” non necessitano di commento: il brano è semplicemente il seguito di “Fatti mandare …”; In “Vita, in te ci credo” sta facendo lo spiritoso; “Anche gli angeli…” e versi seguenti è squallida propaganda filovampira che mira a confondere emissari di Dio e creature della notte per migliorare l’immagine di queste ultime. Alcune altre, poi, gli hanno creato problemi diplomatici: per il verso “sui monti di pietra può nascere un fiore” i vampiri rumeni se la sono avuta a male; “Che fai, prendi per i fondelli?” gli hanno detto. Ma il vero capolavoro è “Bella signora”: una straziante autobiografia, nel cui testo Morandi riporta le parole che ripete, ormai stancamente, ad ogni nuova vittima quando la abborda: “Ti sono andato a cercare nel buio delle discoteche / O a mezzogiorno in riva al mare nel sole delle spiagge affollate …Parlami di te, bella signora, […] nella notte scura, io ti trovo bella, non mi fai paura […] portami con te, nei tuoi appartamenti … Signora solitudine”. Ma in questo testo egli descrive anche la sua condizione di popstar, sempre divisa tra oceanici bagni di folle adoranti e la solitudine di quando il sipario è abbassato. E per quanto il pubblico lo ami, ciò non è sufficiente (anche i vampiri soffrono, sebbene nati in Italia): resta sempre quel sentimento di alterità, la coscienza di essere diversi, che rende impossibile una vera confidenza ed un vero legame con le persone che lo circondano e che lo amano. L’unica vera compagna fedele a quel punto è davvero la “Signora Solitudine”, non a caso la canzone migliore della sua carriera. E più vampiro di così …

Il buon Gianni invece, per l’appunto buono di natura, preferisce confrontarsi direttamente con le sue vittime, in un leale confronto uno contro uno. Va detto che ogni tanto si comportava in modo un po’ subdolo, tipo quando fingendosi geloso andava dalle sue neofidanzatine (era più prudente agire prima che i genitori delle sventurate lo conoscessero), e le attirava fuori di casa con frasi marpione tipo “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, ho da dirti ecc …”, e loro, sciocche, ci cascavano: scendevano, e ciao. Mai fidarsi delle facce d’angelo. Altri suoi amici usavano un approccio ancora diverso, sebbene non sempre fortunato. In “C’era un ragazzo …” si descrive un vampiro suo amico che attirava le vittime suonando la chitarra, finché non ha pensato che in Vietnam avrebbe trovato tutto il sangue che voleva senza faticare troppo: ha quindi regalato la chitarra a Morandi ed è partito. Non gli è andata bene, sembra: “nel petto un cuore più non ha”, ma non ci viene detto se ora c’è un paletto di frassino. D’altronde è noto che la vita del vampiro è dura e la sopravvivenza ardua, infatti soltanto “Uno su mille ce la fa”: si intende, ad evitare croci, paletti e agli. A questo punto però nasce un’altra questione: è possibile rintracciare nelle sue canzoni altri elementi di questa doppia vita, celati dietro l’apparenza dei soliti testi stupidi da canzonettaro? Beh, in certi casi sì, sebbene “Innamorato” o come si chiama la canzone che ha presentato a Sanremo 2000, non celi un bel niente, anzi dichiara la scarsezza artistica del compositore (Ramazzotti, a proposito di orrori), e quella estetica dei votanti, che gli hanno regalato (e dico, regalato) un incredibile terzo posto. E come questa, tante canzoni non hanno un senso particolare, dal punto di vista della sua vita vampira (e nemmeno estetico, per dirla tutta); ma tante altre sì. Ad esempio, “In ginocchio da te”: quando mai un italiano negli anni sessanta si sarebbe inginocchiato davanti ad una donna? Nessuno, nemmeno Gianni; ma se proviamo a immaginare questa donna che dorme e lui accanto a lei che si china per addentarle il collo, ecco che tutto acquista un senso.

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Sempre dove sei di Matteo Curtoni Un sorriso feroce appolaiato sulla cancellata di ferro battuto, abiti come fumo e grumi d’inchiostro sospesi nell’aria gelata e, più in là, la strada crepita delle ultime giornate d’inverno riempiendosi di rughe, spaccature, piegandosi e deformandosi mentre il freddo la marchia per poterla riconoscere, un domani. E anche se è solo un attimo, resto a osservare le mani, le unghie incrostate che incidono il gesso seguendo un ritmo che non capisco, che spariscono nei resti di una statua decapitata (un martire o satiro o una vergine malinconica) e l’odore è quello di certi temporali, nei mesi caldi. Una di loro mi sorride, un meccanismo scavato nell’osso che scricchiola tirando la pelle e scoprendo un territorio di denti chiusi da una griglia scura, come un lembo di rete metallica preso a prestito da un sogno di incarcerazione e baracche abbandonate, fumo acre e contrazioni di muscoli che non si trovano sui testi di anatomia e che la cornea e l’occhio non possono accettare. Scavalco un fagotto di stracci che respira, a fatica ma respira, dimenticato in un angolo come se non importasse più a nessuno e probabilmente è così. Non mi fermo ma frugo nelle tasche e c’è soltanto la polvere che mi aspetto di trovare. Le sento cigolare sul metallo, scuotere la cancellata con le dita che sembrano uncini rugosi e Livia rabbrividisce sulla panchina dove l’ho lasciata, sotto una pellicola miserrima di fogli di giornale che ho improvvisato ma non c’era di meglio e forse si rigira nel sonno cercandomi e si chiede. Attraverso la strada senza guardare e sono fortunata. E’ l’ora di punta. * * * Non siamo rimaste durante l’operazione (Gabriele che digrignava i denti e ululava e ballava sanguinando tra i suoi libri e i ceri funebri, le cornee che sembravano cibo andato a male, il fiato greve di hashish e polvere di cemento) e più tardi gli ho chiuso gli occhi, mentre Livia singhiozzava rannicchiata in un angolo tra scatoloni vuoti e sfrigolii poco convinti di cavi scoperti, la schiena premuta contro il muro, lividi di trucco sciolto sulle guance. Gli ho sigillato le palpebre con la cera e la bocca con un bacio triste, prima di andare. Fuori dal capannone, ad aspettarci solo neve e scarichi di macchine e un tappeto di luci al neon come vetri rotti VER SACRUM XI

lasciati a gelleggiare nel latte e ho coperto il volto di Livia con una mano simulando una carezza che non c’era. Qualcosa di scuro si muoveva tra i rami nudi degli alberi, scavando solchi profondi nel legno con le unghie lucide di saliva. E non volevo che lei vedesse. * * * Nevica e la città è uno sfondo di istantanee scure di strade e vicoli fotocopiate cento volte, schizzi di finestre e ingressi chiusi come suture nascoste sotto strati di vernice che comunque non basta mai. Rabbrividisco sulla bocca di Livia che prova a dirmi qualcosa e sogno di poterla nascondere nel nero del mio cappotto, segregare me stessa e lei dentro una crisalide di lana sfrangiata e respiri caldi. Un luogo buio e confortevole dove rifugiarci ad aspettare il tempo della muta. * * * Mangiamo qualcosa dietro la vetrina appannata di un take away cinese, il saké mi scioglie i muscoli del collo e delle spalle a poco a poco e Livia ricomincia a parlare dopo un silenzio che sembrava destinato a durare ma subito le si incrina la voce, come se non potesse essere altrimenti. Gabriele è ancora... e non riesce a dire altro. Io scuoto la testa e il vapore di qualcosa di piccante che non ho ordinato mi punge gli occhi, li fa lacrimare. Paghiamo e usciamo e la fronte le scotta e io vorrei poterle dire che andrà tutto bene, esserne sicura. * * * I giardini di Porta Venezia sono ghiaia e freddo e terra battuta tra monumenti severi e lezioni scheletriche sull’anatomia degli alberi. Cerchiamo un posto dove dormire e alla fine Livia, troppo stanca per continuare, si raggomitola contro i mattoni e il gradino del Museo di Storia Naturale. La raggiungo quasi subito. In un angolo, poco lontano, trovo un vangelo impolverato che puzza di incenso secco e formalina, la copertina strappata e una ciocca di capelli usata come segnalibro. Il freddo mi impietrisce le mani e le dita e comunque copro il libro di terra e foglie morte come posso. Il cuore in gola, immerso nella bile, e il calore aspro e fasullo che il saké mi ha depositato sulla lingua evapora così. In un singhiozzo. * * * 70


Livia mi si stringe contro, una strana bambina in abiti neri, con i denti sporchi di rossetto viola e le palpebre dipinte di scuro e io chiudo gli occhi sul ricordo della a notte in cui Gabriele ha lasciato andare i cani e noi siamo rimasti soli... la bocca piena di tranquillanti rubati e vino rosso e io mi sono morsa le labbra a sangue mentre ascoltavo i gemiti di Livia sotto di lui, la ninnananna del loro sudore che si mischiava negli spazi vuoti tra la carne e le ossa. * * * Il mattino arriva a braccetto con altra neve e mi servo di un bacio per convincere Livia ad alzarsi anche se forse non serve. Ci appoggiamo al bancone di un chiosco fuori dalla cancellata per bere qualcosa che somiglia a un caffé e che si porta via anche gli ultimi spiccioli. Cose che si muovono nella carcassa annerita di un’auto qualche metro più in giù lungo la strada e qualcosa di secco e appuntito graffia il cemento e io cerco di non guardare, accarezzo le trecce e i capelli di Livia già bagnati dalla neve e le sussurro all’orecchio non preoccuparti e per qualche ragione lei scoppia a ridere, rauca, premendomi la fronte che scotta contro il collo. * * * Nella bara rettangolare di un bagno pubblico, mi sollevo il maglione e la t-shirt e con una sigaretta che mi si consuma tra le dita, resto a guardarmi le cicatrici, una collezione di sorrisi storti impressi nella carne che aspettano di riempirsi di denti, forse. Quando alla fine ci incamminiamo verso il capannone, senza dire niente perché in fondo non serve, la neve si sta mischiando a una pioggia imprevista: gocce pesanti sulla nuca e sulle mani e sugli zigomi a ricordarci che il freddo sa sempre dove sei. * * * Tra le spaccature nel legno di una porta che cigola attorno a cardini antiquati intravedo un volto da androgino, bianco come cartilagine, che ci osserva e sorride; dita scarnificate, rosicchiate fino a esporre l’osso che tracciano un segno della croce anfetaminico ridendo nell’aria gelata raccolta dal portone, una corona di chiodi arrugginiti scivolata di lato, lungo la pelle tesa sulle ossa della fronte. Siamo quasi arrivate e Livia si aggrappa a me quasi senza forze e io le respiro sulle dita, provo a scaldargliele. Gabriele è ancora dove lo abbiamo lasciato, le palpebre spalancate dal rigor mortis nonostante la cera che comunque non poteva durare. Livia ricomincia a pian-

gere e prova a sfiorargli con la punta delle dita il volto incrostato di sangue e sputo biancastro e non ci riesce. Uno scalpello di rame stacca l’intonaco marcio dalle pareti, le vesti che puzzano di piscio e carne bruciata, la griglia schiacciata sotto le piaghe delle labbra e tra le mascelle, pronta a spezzarsi per liberare i denti e quello che ci sarà dopo i denti... Mi intrappolo un singhiozzo sotto gli incisivi per non lasciarmelo uscire di bocca e mi inginocchio accanto a lui, lasciandomi quasi cadere. Il pianto febbricitante di Livia è un’invocazione inutile alla neve e al catrame mentre altro intonaco fruscia scivolando piano sul pavimento, grato di abbandonare le pareti, come stanco di mantenere un segreto scomodo. * * * Gli insetti e la corruzione hanno disertato il corpo di Gabriele per ragioni che non voglio conoscere. I genitali gli pendono sbrindellati tra le gambe, ricuciti assurdamente con del filo di ferro, qualche strato di nastro adesivo. Sul petto affollato di escoriazioni che sembrano ancora fresche e forse non dovrebbero esserlo c’è il suo rasoio dall’impugnatura d’avorio, in attesa. Tra le labbra, una ciocca di capelli. Da qualche parte Livia trova un accendino che funziona ancora e senza smettere di singhiozzare rianima le poche candele rimaste, la speranza grottesca che la luce possa cambiare qualcosa, e io resto a guardarla per un attimo, avvolta dal conforto orrendo dell’intonaco che continua a cadere a terra... Poi incomincio a raccogliere i brandelli del vangelo dalla copertina e le foglie cadute per la bocca socchiusa di Gabriele. Qualcosa grida in fondo al capannone. E io cerco di non voltarmi a guardare. Immagine di Matteo Curtoni

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