Anno Luce • Lyòs • Thesis Design • Luca Pelucchi

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ANNO LUCE

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Nuova Accademia di Belle Arti - Milano | Diploma Accademico di I° livello | a.a. 2016/2017 Docente: Dante Donegani | Studente: Luca Pelucchi | N°6120D | Corso: Design






C on te n uti R ICE R CA

Luce | Materia | Spazio

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INT R O

Light & Space

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ART E

James Turrell

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ART E

Robert Irwin ART E

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C on te n uti R ICE R CA

Doug Wheeler

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ART E

Olafur Eliasson

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ART E

Luis Barragan

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ARCH I T ET T U R A

Louis Kahn ARCH I T ET T U R A

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C on te n uti R ICE R CA

Robert Wilson TEAT R O

Studio Formafantasma

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CAS I ST U D I O

Daniel Rybakken

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CAS I ST U D I O

LED T EC H

– 225 –



In di ce P R O G E T TO

Lyos | 239 |

Studio | 243 |

Finestra | 285 |

Ricerca formale | 295 |

Ricerca materiali | 307 |


Moodboard | 285 |

Sketches | 291 |

Disegni Tecnici | 299 |

Render | 303 |

Foto | 312 |



Pr e f az i o n e

Questo progetto di tesi, nasce con la volontà di esplorare la luce, trattando questo elemento come materia fisica in grado di plasmare spazi e forme. L’aspetto da me analizzato è stato la capacità di diversi materiali di fungere da catalizzatore per la luce e dunque di modificarne il suo aspetto. A tal proposito mi sono concetrato sull’impatto emotivo e scenografico della luce, cercando di ricreare delle atmosfere. “Anno Luce”, in astronomia è un’unità di misura con la quale si calcola la distanza che intercorre fra gli oggetti celesti. Il nome, da me usato in forma metaforica, sta ad indicare: la distanza che intercorre fra la fonte luminosa ed il materiale che ne modificherà il suo aspetto.



Intro


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Luce — Spazio — Materia

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«L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce.»

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L

a luce è scientificamente definita come: energia radiante elettromagnetica che l’occhio umano è capace di percepire.

Invisibile e impalpabile eppure dà forma al mondo e innesca la scintilla vitale negli esseri viventi. La luce è l’elemento primo indispensabile che rende visibile il circostante e percepibile l’istantaneità. Mai identica, mai statica, tante piccole particelle inseparabili costituiscono la sua essenza; inalterabili, risultano comprensibili soltanto nella loro visione d’insieme. La luce è questo e molto altro, ma ciò che interessa esplorare è la capacità della luce di creare lo spazio architettonico rivelandone l’essenza. Dunque si parla di interni, di luoghi chiusi nei quali l’apertura di una finestra o di un semplice foro riesce a materializzare lo spazio costruito. Indispensabile all’architettura, senza la luce nessuna opera sarebbe leggibile e grazie ad essa le strutture assumono forme determinate. Un rapporto viscerale ed effervescente lega da sempre la realizzazione delle opere di chi scrive alle sue cangianti conformazioni: materia concreta eppure emozionale la luce plasma e rende plasmabili le superfici. Il suo essere è necessario al fine di rendere lo spazio vivo, significativo, abile nel generare sensazioni intense nell’animo umano.


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L’illuminazione artificiale è un elemento da curare attentamente perché è ciò che consente di far risaltare un mobile, una decorazione, di creare un’atmosfera, di rimpicciolire o ingrandire un ambiente. La luce concorre, assieme agli elementi architettonici quali pavimento, pareti e soffitti, a creare uno spazio: per esempio illuminazione e colore non possono essere scelti a posteriori, anzi a volte sono proprio elementi come questi a determinare. scelte spaziali. Inoltre la scelta di un certo tipo di illuminazione può avere delle ripercussioni sul modo di vivere e percepire uno spazio. Oltre ad essere un elemento vitale per l’uomo è un fattore indispensabile per il suo equilibrio psico-fisico; così come per piante e animali. Sono state svolte delle ricerche per valutare l’influsso che hanno luce e colore sugli aspetti fisiologici e psicologici dell’uomo. Ma senza svolgere tante ricerche è risaputo che una buona qualità della luce e dell’illuminazione contribuisce ad elevare il livello del comfort.

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La luce è una componente essenziale, imprescindibile per la costruzione degli spazi. È materia e materiale. Come la pietra. Inquantificabile e qualificabile. Controllabile e misurabile. Senza luce non c’è spazio. La luce è l’unica capace di mettere in tensione lo spazio per l’uomo, di porre in relazione l’uomo con lo spazio creato per lui.


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Arte


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Light & Space

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«Transparency, Reflection, Light, Space»

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I

l 16 maggio 1960, Theodo H. Maima azionò il primo laser funzionante a Malibù in California presso i laboratori della Hughes Research e a metà degli anni Sessanta, alcuni artisti vagamente collegati e geograficamente vicini rivolgono la loro attenzione dalla creazione di oggetti tradizionali verso una produzione legata alla percezione sensoriale immersa nella luce e nello spazio.


Nasce il movimento Light and Space, legato alle esperienze della Op Art, del Minimalismo e dell’ Astrattismo Geometrico. Il nome Light and Space, riprende il titolo della mostra Transparency, Reflection, Light, Space all’UCLA di Los Angeles nel 1971, alla quale parteciparono Robert Irwin, Peter Alexander, Larry Bell, John McCracken e Craig Kauffman. Il Minimalismo, a differenza del Light and Space Movement, rifiutava decisamente l’illusionismo: bisognava sbarazzarsi del problema dell’illusionismo e dello spazio reale, spazio dentro e attorno ai segni e ai colori e con ciò liberarsi di una delle reliquie più rilevanti e insieme più criticabili dell’arte europea.

Il Minimalismo ci interessa per almeno un motivo: le relazioni formali all’interno delle sculture che produce sono ridotte al minimo, lasciando derivare la tensione estetica soprattutto dal rapporto con lo spazio espositivo. L’opera minimalista è infatti costruita architettonicamente da volumi geometrici immediatamente riconoscibili come unità o elementi modulari standard, che riprendono la produzione seriale anche nei materiali usati (metallo, formica, fiberglass, plexiglas ecc). Si definisce in questo modo un rapporto di reciprocità con gli spazi che ospitano le opere e un linguaggio proficuo per un dialogo con l’architettura.

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Il collegamento fra colore, luce e spazio energetico è sicuramente riconducibile alle filosofie orientali diffuse alla fine degli anni ’60, ma il Light and Space Movement, così come il minimalismo, rifiuta possibili contenuti trascendenti: la percezione è una forma di conoscenza del mondo.

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L’accantonamento dell’astrattismo è una conseguenza della potenzialità offerta alla produzione artistica dalle nuove tecnologie che non mutarono, però, la percezione dell’uomo e dell’Artista verso il colore; il colore viene sottratto alla dimensione del gioco spirituale semplicemente perché neutrale rispetto al nuovo spirito di questi anni. Il movimento incentrava la sua ricerca sull’influenza che le forme geometriche e l’uso della luce potevano avere sull’ambiente e sulla percezione dello spettatore, dando vita a installazioni di grandi dimensioni in grado di coinvolgere il pubblico in un’esperienza sensoriale travolgente, che può essere letta come un moderno concetto di sublime.


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In conclusione, alcuni dei motivi chiave nella definizione del movimento Light and Space sono propri di diversi artisti contemporanei, per i quali il coinvolgimento del fruitore, anche a livello sensoriale, costituisce una relazione alle precedenti tendenze del post-moderno e alla frammentazione del tempo e dello spazio nella società mediatica. La volontà di fare del visitatore il protagonista dell’opera, e l’interesse per questioni fenomenologiche e percettive in stretto rapporto con l’architettura, è oggi tuttavia spesso declinata in una monumentale spettacolarizzazione che accentua il carattere teatrale e illusionista di questi lavori.


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J a m es Tu r r el l

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«I make spaces that apprehend light for our perception, and in some ways gather it, or seem to hold it my work is more about your seeing than it is about my seeing, although it is a product of my seeing»


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«I am interested in this new landcsape without horizon.» 42

J

ames Turrell, (Los Angeles 1943), è un artista americano pioniere dell’arte ambientale. Da oltre mezzo secolo dedica la sua vita allo studio delle modalità di percezione umana della luce in ambienti controllati o in condizioni di alterazione percettiva. L’ampiezza e la singolarità delle sue ricerche, la potente dimensione spirituale insita nella sua opera ambiziosa fanno di Turrell una personalità unica nel panorama dell’arte contemporanea mondiale, nonché uno dei maggiori esponenti del Light and Space, movimento nato in California negli anni Sessanta, fra i primi a liberare la luce dal suo supporto per farne un’opera d’arte.

Nel 1966, Turrell cominciò a sperimentare con la luce affittando il Mendota Hotel, un albergo dismesso di Santa Monica e facendolo diventare il suo studio. Turrell ha creato le sue prime proiezioni di luce coprendo le finestre e consentendo alla luce della strada di raggiungere la stanza attraverso delle tende, in modo tale da poterne controllare l’intensità. Nella sua prima opera rilevante del 1968, Shallow Space Constructions, Turrell ha usato delle partizioni di uno schermo, consentendo una effusione di luce nascosta per creare un effetto specchio all’interno dello spazio appiattito artificialmente.


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«For me, it’s using light as a material to influence or affect the medium of perception...»

Nello stesso anno Turrell ha partecipato ad una serie di letture all’Art and Technology Program del County Museum di Los Angeles, indagando fenomeni percettivi con l’artista Robert Irwin e lo psicologo Edward Wortz, entrambi membri del cosiddetto gruppo ‘Luce e Spazio’. In questa occasione Turrell osserva da vicino i fenomeni di deprivazione sensoriale degli astronauti in missione in orbita e perfeziona lo studio dei campi luminosi omogenei, i cosidetti Ganzfeld. Il termine tedesco “Ganzfeld” (in italiano ‘campo totale‘) indica in psicologia una tecnica di deprivazione sensoriale che descrive il fenomeno della perdita totale di percezione della profondità. Sulla base di questi studi, Turrell riproduce artificialmente lo stesso spazio esperienziale. Per mezzo di un dispositivo che permette un uso controllato della luce, di angoli arrotondati e di un piano inclinato, darà vita a dei veri e propri ambienti sensoriali, in cui la luce appare come sostanza generatrice di spazi.

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«My art is about seeing, like the wordless thought that comes from looking into fire.» 52

Tra il 1974 e il 1976, l’artista californiano realizza alcune installazioni per il collezionista italiano Giuseppe Panza di Biumo, segnatamente uno Skyspace , una Skywindow e un Veil, presso Villa Litta Panza a Biumo Superiore (Varese, Italia). Lo Skyspace è un particolare tipo di Structural Cut posto al di sopra della linea dell’orizzonte e realizzato tramite un’apertura eseguita nella copertura di un ambiente: in questo caso, è il cielo a porsi, virtualmente, sul medesimo piano del soffitto, creando l’illusione che esso sigilli lo spazio sottostante. Per aumentare l’effetto prodotto dalle fonti luminose non naturali, sono impiegati lucernari che permettono alla luce diurna e notturna di mescolarsi con quella artificiale, modificandone l’intensità e la qualità secondo modalità sempre cangianti. La caratteristica peculiare di queste installazioni consiste nella percezione della parete sistemata oltre il velo che, a causa e nonostante l’intensa tonalità della luce colorata emessa dalle lampade, continua ad essere percepita di colore bianco.


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N

el 1977, con le sovvenzioni della Dia Art Foundation, Turrell, acquista il Roden Crater, un cono vulcanico spento nel deserto dell’Arizona del Nord. Culmine delle sue ricerche sulla percezione della luce, psicologia visiva e astronomia: un’opera senza precedenti, su larga scala, creata all’interno di un cono di cenere vulcanica nel quale vi ricava gallerie, passaggi e camere sotterranee aperte al cielo, trasformandolo in un gigantesco osservatorio astronomico, un vero e proprio “monumento alla percezione”. Il basso grado di umidità e il clima favorevole del luogo fornivano le condizioni ideali per proseguire le sperimentazioni dedicate alla luce, che in questo progetto, troveranno il loro più straordinario compimento.


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La visita alla location richiede un viaggio apposito in una zona desertica con cieli notturni estremamente bui. Minimamente invasiva per il paesaggio naturale esterno, all’interno la costruzione è uno spazio sofisticatissimo di aree destinate alla sperimentazione e contemplazione della sfera celeste in tutte le sue forme. Il sito, formato da tunnel collegati ad aperture che danno sul cielo, è stato studiato per diverse finalità: dall’osservazione dei mutamenti della luce diurna, agli spostamenti notturni dei pianeti e delle stelle e assomiglia ad alcuni luoghi costruiti in epoca Incas.

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Roden Crater sarà l’opus magnum della carriera di James Turrell, un lavoro che, oltre ad essere un monumento alla Land Art, funziona come osservatorio naturale per gli eventi celesti dove l’effetto sensoriale è assicurato.


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Rob er t Irwin

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ÂŤHow is it that a space could ever come to be considered empty when it is filled with real and tactile events?Âť


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R

obert Irwin è un artista concettuale americano, meglio conosciuto per le sue installazioni di tubi fluorescenti che esplorano i limiti della percezione umana. Uno dei pionieri del movimento Light and Space. Nato il 12 Settembre del 1928 a Long Beach, California, studiò all’ Otis Art Institute, al Jepson Art Institute e al Chouinard Art Institute. Irwin (88 anni oggi) ha segnato la storia dell’arte del sud della California, molto più significativamente di ogni altro artista oggi vivente.


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«We know the sky’s blueness even before we know it as “blue”, let alone as “sky”.»

Nel 1977, Robert Irwin ha scritto quanto segue su se stesso: « Ho iniziato come pittore nel mezzo del nulla con qualche domanda ... La mia prima vera domanda riguardava l’arbitrarietà dei miei quadri ... Ho usato i miei quadri come un processo step-by-step, ogni nuova serie di lavori agiva in risposta diretta a domande sollevate dalla serie precedente. Ho messo in discussione il segno e il suo senso; ho poi messo in discussione la cornice come contenimento, il bordo come l’inizio e la fine di quello che vedo...considerando la possibilità che nulla trascende mai veramente dall’ambiente circostante...ho cercato di rispondere direttamente ad ogni situazione in cui mi trovavo, senza cambiare in un ambiente nuovo o ideale, ma partecipando direttamente alla natura di come già era. Come è possibile che uno spazio possa essere considerato vuoto quando è pieno di eventi reali e tattili? » – (Robert Irwin, 1977) nozione di Robert Irwin d’arte derivato da una serie di percezioni esperienziali. – Irwin ha presentato l’esperienza prima come percezione e sensazione. Ha concluso che il senso di sapere e la capacità di identificare, contribuisce a chiarire la percezione.

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I primi lavori di Irwin sono con la pittura. Nel 1959, dipinse una serie di oggetti portatili ed espose per la seconda volta, come espositore individuale, alla Ferus Gallery di Los Angeles. L’anno successivo, 1960, gli fu chiesto di esporre lì di nuovo così come al Museo d’Arte di Pasadena. Da quel momento ha iniziato una serie continua di esperimenti. Nel 1962, ha iniziato ad insegnare presso l’Università della California, Los Angeles ed espone alla Ferus Gallery di nuovo. Quell’anno, ha iniziato i suoi quadri di linea. Nel 1964 presentò un’altro studio: i suoi quadri punti. Tra gli anni 1966-1967, ha iniziato a dipingere dischi di alluminio. Nel 1968, ha iniziato il suo lavoro con i dischi acrilici trasparenti: strutture convesse bianche fissati al muro e illuminati da lampade. Nel 1970, ha iniziato il suo lavoro su “Colonne”, una serie di colonne in acrilico trasparente. Nel 1972, ha iniziato il suo studio sulla “visuale” e “luoghi”.


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“Excursus” è un omaggio al Square3. Fu originariamente commissionato da Dia:Beacon, museo a New York City. L’installazione ha aperto nell’aprile del 1998 con il titolo “Prologo: x183” e consisteva in diciotto camere comunicanti, divise da tele trasparenti. Irwin colorò le finestre di blu e grigio, invocando una tavolozza di colori sottile che cambiava tono attraverso gli spostamenti della luce naturale. Irwin controllò la regolazione del punto di ingresso, l’installazione di tubi fluorescenti verticalmente in ogni stanza, e l’intensità dei colori. “Retitled Excursus” , la seconda versione è diventato un lavoro seminale per Irwin, che Dia ha acquisito nel 2000. Per questa nuova installazione, l’artista ha ridisegnato Excursus impegnandosi con specificità nell’architettura e nell’illuminazione del museo.


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ÂŤWithout the limitations of thinking about being a painter, you can operate anywhere in the world.Âť

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«What made an artist an artist is a sensibility,»

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Dal 1968, Irwin si è concentrato sul sito stesso con la creazione di installazioni in stanze, giardini, parchi, musei e vari locali urbani. Influenzato, in particolare, dai dipinti di John McLaughlin, Irwin si volle spingere ai confini dell’arte e della percezione. Nel 1970 Robert Irwin lasciò il lavoro in studio per perseguire installazioni d’arte occupandosi direttamente con la luce e lo spazio: la base della percezione visiva. Queste installazioni consentono allo spettatore un’esperienza aperta, alterata, creata manipolando l’ambiente. Nello stesso anno, il MOMA invitò Irwin per creare un’installazione: utilizzando l’intero spazio di progetto, Irwin sospese una tela bianca a dieci piedi da terra e un scintillante filo di acciaio inossidabile collegato a parete.

Per Soft Wall, (1974 Pace Gallery - New York) Irwin semplicemente pulì e dipinse una galleria rettangolare e vi appese un sottile telo bianco traslucido di diciotto pollici di fronte ad una delle pareti lunghe, creando l’effetto di una stanza vuota. Per celebrare il suo 125° anniversario, l’Indianapolis Museum of Art commissionò un opera ad Irwin (Luce e Spazio III), diventando così il primo museo americano ad avere un’installazione interna permanente dell’artista. Per il progetto, Irwin organizzò delle lampade fluorescenti in una griglia irregolare sulle pareti che circondano le scale mobili, con un velo di tela ad incorniciare ogni lato: i visitatori del museo si muovono così attraverso l’opera.


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Alla fine del 2013, Irwin presentò una colonna in acrilico. La colonna rifrange i colori dello spettro solare all’interno della stanza. La fabbricazione delle colonne e la soluzione dei problemi tecnici relativi al materiale, sono stati tutti eseguiti da Jack Brogan, un personaggio centrale nell’evoluzione delle tecniche del movimento Light and Space.


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Irwin, dopo lo sviluppo stilistico verso lo spazio esperienziale, proietta tutto ciò che ha imparato sulla linea, il colore e la luce, sull'ambiente. Dal 1975 Irwin ha concepito cinquantacinque progetti ambientali.



D ou g W h eel er

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«What they expected to see, they saw.»

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P

ioniere del movimento Light and Space, cresciuto nel deserto dell’Arizona, Doug Wheeler ha iniziato la sua carriera come pittore nel 1960 durante gli studi presso il Chouinard Art Institute di Los Angeles. Wheeler è noto per il suo uso della luce industriale per creare ambienti concettuali, costruiti all’interno di pareti bianche delle gallerie. Le sue installazioni sottolineano l’esperienza dello spettatore. Wheeler evidenzia lo spazio quasi interamente attraverso gli effetti di luce, utilizzando lampade fluorescenti principalmente quella ultravioletta, quarzo-alogeno, e lampade al neon. Nelle sue installazioni, la vernice bianca, la luce diffusa, forme minimali e semplici disegni permettono alla luce di risplendere come elemento centrale di costruzione. Smaterializzando lo spazio interno, Wheeler trasforma queste camere in interi mondi astratti.


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Nel 1965, Wheeler ha fatto un importante passo di transizione che avrebbe avuto un’impatto sul resto delle sue opere: cominciò a racchiudere le luci al neon nella parte posteriore dei suoi dipinti. Le tele risultanti creano l’impressione di una luce interiore. Poco dopo, ha abbandonato la pittura e ha iniziato a fare dipinti con luci industriali, scatole laccate illuminate dall’interno da luci al neon, quadrati di plastica bordati all’interno con tubi al neon.


In mostra permanente presso il Los Angeles County Museum of Art, Untitled, Light Encasement (1968). Appesi in una stanza buia, facendo sembrare come se fluttuassero liberamente nello spazio. Le installazioni successive, utilizzano la luce per manipolare l’architettura e creare la percezione di entrare nel vuoto. Opere come SF NM BI SP 2000 (2000) dipinge le pareti con una luce schiacciante, luminosa, bianca che offusca, producendo l’illusione di un graduale passaggio dal giorno alla notte. Costruito direttamente in galleria, impiega un uso continuo della luce fissa.


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La prima mostra personale di Wheeler aprì presso il Museo d’arte di Pasadena nel 1968 ed è stato seguito da altri come: Galleria Ace, Venice, California (1969), e Galerie Schmela, Düsseldorf (1970). Il suo lavoro è stato presentato in mostre collettive presso la Tate Gallery di Londra (1970); P.S.1 Contemporary Art Center,(1976); Biennale di Venezia (1976); Museum of Contemporary Art, Los Angeles (1986). Nel 2011-12, il lavoro di Wheeler è stato incluso nella iniziativa Pacific Standard Time del Getty Research Institute e esposto in California al Museum of Contemporary Art di San Diego. L’artista vive e lavora a Los Angeles e Santa Fe.


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O l a fu r Eli a sson

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« I see the artist as a participant, a co-producer of reality. I do not see the artist as a person who sits at a distance and evaluates. »

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ato a Copenaghen nel 1967, Eliasson è cresciuto sia in Islanda e Danimarca, dove ha studiato alla Royal Danish Academy of Art (1989-1995). Dopo la laurea, si trasferisce a Berlino, dove fonda il suo studio nel 1995. Oggi conta circa settanta artigiani, architetti, geometri, e storici dell’arte. Dal 2009 al 2014, lavora come professore presso l’Università delle Arti di Berlino. Eliasson attualmente vive e lavora a Copenhagen e Berlino. Nel corso degli ultimi due decenni le opere Olafur Eliasson sono servite come strumenti per esplorare le condizioni cognitive e culturali della nostra percezione. Opere che vanno da ambienti immersivi di colore, di luce e movimento, ad installazioni che ricontestualizzano i fenomeni naturali. Il suo lavoro sfida la nozione di arte come oggetto autonomo e si posiziona come parte di uno scambio con il visitatore rendendo la sua esperienza individuale. Descritte dall'artista come "dispositivi per l'esperienza della realtà," le sue opere e progetti inducono un maggiore senso di consapevolezza sul modo in cui ci impegniamo e interpretiamo il mondo.


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Uno dei suoi progetti capolavoro è indubbiamente: “The weather project”, un’installazione pensata per la sala turbine della Tate Modern di Londra, nella quale, grazie ad un sapiente uso dell’illuminazione e ad una ricerca effettuata sui colori della luce solare, l’artista ricreò una vera e propria “stanza del meteo”: una mistura di acqua e zucchero permetteva di ricreare la nebbia, mentre un disco costituito di lampade monocromatiche arancioni ricreava un sole artificiale. Anche il soffitto venne coperto da un grosso specchio, nel quale gli spettatori potevano vedersi riflessi, ma unicamente sotto forma di sagome nere, come annientati dalla luce “solare” che li circondava.

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“The Weather Project” è solo uno dei tanti progetti di Eliasson nei quali la luce, colorata intenzionalmente, contribuisce a ricreare un’atmosfera unica ed emozionante; fra questi, i più sensazionali e celebri sono senza dubbio l’opera “360° Room for all colours”, realizzata per il Musée d’Art moderne di Parigi nel 2002, dove il visitatore era invitato ad entrare in una stanza circolare nella quale venivano proiettate sulle pareti tenui luci colorate dai toni caldi.


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«Light has an evident, functional and aesthetic impact on our lives.»

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Lo stesso concetto de “360° Room for all colours” venne ripreso e portato al suo culmine nel progetto “ Your Rainbow Panorama”, realizzato sul tetto di un edificio a Aarhus, in Danimarca: una passerella circolare di 150 metri, camminando all’interno della quale si osserva il panorama attraverso il vetro colorato del colore che si ha davanti in quell’istante.


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“La mia esposizione mostra ciò che si trova ai confini dei nostri sensi, della nostra conoscenza, della nostra immaginazione e delle nostre prospettive.” 126

Olafur Eliasson ha creato un cosmo di spazi artificiali e dispositivi ottici nelle sale della fondazione Louis Vuitton di Frank Gehry, a Parigi. In “Contact”, un'installazione immersiva che comprende più ambienti. Lo spettatore inizia un percorso nell'opera toccando un meteorite, si ritrova poi in una stanza piena di ombre e forme geometriche in movimento, attraversa un corridoio ricoperto di carta vetrata nera, cammina in un luogo illuminato soltanto da una linea all'orizzonte, incontra un “modello di un buco nero” e finisce sul tetto di fronte a un tracciatore solare. Il lavoro di Eliasson è la prima esposizione di arte contemporanea esposta alla Fondazione Louis Vuitton.


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Architettura



L u is Ba r r a g a n

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« Non uso il verde, lo lascio a Madre Natura ».

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uis Barragán (Guadalajara, 9 Marzo 1902 – Città del Messico, 22 Novembre 1988) è oggi considerato uno dei più grandi architetti messicano del XX Secolo. Attivo già dal 1940, nel 1980 vinse il Premio Pritzker, la massima onorificenza raggiungibile in campo architettonico. Benché avesse una formazione da ingegnere, Barragán scoprì presto di avere una forte affinità per l’architettura e la progettazione d’interni. La sua educazione all’architettura proveniva unicamente dagli studi di ingegneria e dalla conoscenza di altri architetti, oltre che dall’esperienza pratica su alcuni canteri. Solo più tardi riconobbe che la carenza di conoscenza teorica gli permise di liberarsi dalla rigidità accademica di molti suoi colleghi, potendo così raggiungere soluzioni istintive. Sicuramente il periodo trascorso in Europa fu fondamentale per lo sviluppo del suo processo creativo. In particolare fu influenzato dagli scritti di Ferdinand Bac, architetto paesaggista francese, dove si suggeriva che i giardini dovrebbero essere posti incantati per la meditazione, con la capacità di stregare lo spettatore. Queste idee ebbero su di lui una grande influenza, permettendogli di collegare l’ambiente mediterraneo incorniciato dalle illustrazioni di Bac a quello della sua nativa Guadalajara.


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« L’architettura, oltre ad essere spaziale, è anche musicale[...]. » 137

Fu negli anni 30, quando si trasferì a Città del Messico, che Barragan diede il via ad una progettazione più consapevole. L’amicizia con Chucho Reyes, artista, antiquario, e interior designer, appassionato difensore della cultura indigena in Messico, influenzò decisamente la crescita architettonica di Barragan. Durante questo periodo di auto-formazione, Barragán scoprì la cultura e la storia architettonica del suo paese. Come Barragán spiegò: “L’architettura, oltre ad essere spaziale, è anche musicale. Quella musica è interpretata dall’acqua. L’importanza delle pareti è che isolino dallo spazio esterno delle strade. La strada è aggressiva, perfino ostile: le pareti creano silenzio. Da quel silenzio tu puoi fare musica con l’acqua. Dopo, quella musica ti circonda”. L’acqua infatti è un elemento fondamentale nelle opere di Luis Barragàn, così come l’uso di tinte molto intense, il dialogo tra spazio artificiale e natura, la fluidità degli spazi. Colore e acqua sono, per lui, veri e propri elementi architettonici. Le ampie pareti colorate che caratterizzano l’opera dell’architetto messicano sono, in realtà, schermi luminosi che ingannano la materia restituendo una maggiore percezione spaziale.


“Casa Barragan”

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Questa era la casa-studio in cui Barragan viveva e lavorava. Fu definita dalla critica “la casa introversa”, per il senso profondo e quasi religioso che emana. Il progetto si sviluppa su un’area di 700 mq come un blocco compatto intorno al nucleo di una struttura pre-esistente. L’approccio progettuale vuole dare un nuovo significato alle relazioni tra spazi e materiali, spesso inusuali. Il volume si sviluppa su tre livelli, con una distribuzione degli spazi semplice e una chiara divisione tra interni di rappresentanza e locali privati. A muri verticali si intersecano piani ortogonali che giocano con i dislivelli del suolo, creando inattese profondità di campo. I colori poi, spalmati in grandi campiture, spesso su superfici ruvide, contribuiscono a creare giochi di luce e ombre.


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“Casa Gilardi” È considerato il suo testamento architettonico. Sono qui espresse infatti in modo sublime tutte le caratteristiche principali della suo programma stilistico, dall’uso di texture e materiali, alla relazione tra luce naturale all’uso assoluto dei colori. Per esempio il corridoio di accesso alla piscina, dipinto di giallo su consiglio dell’artista messicano Reyes Ferreira, calca l’effetto dei raggi solari che filtrano dalle finestre verticali nella parete laterale; così come la colonna posizionata al centro della piscina, che non ha giustificazione strutturale, ma è solo un espediente per inserire del colore e conferire maggior equilibrio a tutto l’ambiente. La terrazza è uno spazio cieco confinante con il soggiorno del primo piano, dipinto della stessa tonalità di una delle facciate del patio interno. La piscina coperta, con le sue pareti dipinte di blu, rosso e bianco, crea effetti di luce spettacolari.


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L ou i s Kahn

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«L'architettura greca mi ha insegnato che la colonna è dove la luce non c’è, e lo spazio in mezzo è dove la luce c’è. [...]»


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a luce è stato un elemento centrale nella filosofia di Kahn perché la considerava come un “donatore di tutte le presenze:

“Tutto il materiale in natura, le montagne ed i corsi d’acqua e l’aria e noi, sono fatti di luce che è stata spesa, e questo massa sgualcita getta un’ombra e l’ombra appartiene alla luce”.

Per lui, la luce è il creatore dei materiali e lo scopo dei materiali è quello di gettare un’ombra. Kahn ritiene che l’ombra scura è una parte naturale della luce. Kahn non hai mai tentato di creare uno spazio buio puro, per lui, un barlume di luce chiarisce il livello di oscurità: “Un piano di un edificio deve essere letto come una armonia di spazi in luce. Anche uno spazio destinato ad essere buio dovrebbe avere abbastanza luce da qualche misteriosa apertura per dirci come scuro è davvero”


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Il “mistero” dell’ombra è teso a evocare il silenzio e lo stupore. Per Kahn, l’oscurità evoca l’incertezza di non essere in grado di vedere, ma ispira anche mistero profondo. Così, camminando attraverso la sequenza di aperture al portico del Salk Institute riporta alla mente il silenzio oscuro di un chiostro. Linee di ombra scura e buchi, dai precisi stampi definiti, offrono una struttura fine sulle pareti massicce. La pietra bianca e le pareti di cemento grigio presentano una monotona tela tridimensionale per il gioco delle ombre. L’ombra si trasforma in un elemento essenziale per rivelare la disposizione e la forma dei volumi monolitici di Kahn.


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Anche se Kahn ha eretto molti edifici nelle regioni esposte a luce solare estrema, come India e Pakistan, non progetta i suoi edifici per proteggere gli utenti dal sole, ma piuttosto per proteggere la sacralità dell'ombra. Non credeva nell’ombra artificiale, anzi usava finestre e porte per dirigere la luce verso l'interno. 162

Il percorso di progettazione con l’ombra ha attratto numerosi seguaci, come Tadao Ando con la sua Chiesa della Luce, Peter Zumthor e il suo Terme di Vals o Axel Schultes con il suo Crematorium. Tutte opere dotate di ombra come forma donatatrice per gli spazi silenziosi.


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Teatro


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Rob er t Wi l son

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“Il teatro è qualcosa che si sperimenta e l’esperienza è un modo di pensare. Le esperienze non si fanno solo con la mente, bensì con tutto il corpo: sono commosso, sono toccato, provo delle sensazioni”


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R

obert “Bob” Wilson, padre putativo del cosiddetto Teatro Immagine, al suo apparire sulla scena internazionale, alla fine degli anni Sessanta, sconvolse tutti i parametri della rappresentazione, inaugurando una nuova era di ricerca. Sempre attivo su scala internazionale con spettacoli di alto livello stilistico e algido rigore formale, Bob Wilson già da tempo utilizza le risorse visive e sonore dell’elettronica per creare un teatro visionario, che trova nella luce l’elemento strutturante per definire lo spazio, l’immagine e lo stesso impianto drammaturgico.


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« Nei primi Anni 70, quando venni in Europa con uno spettacolo muto, di 7 ore, qualcuno mi portò a Versailles a vedere “Le nozze di Figaro” con la regia di Giorgio Strehler. Rimasi folgorato da come si può “pensare” con la luce».

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Giunto alla scena dopo studi di architettura e fortemente legato al contesto delle arti visive, Wilson nel corso del tempo ha giocato su un processo di sottrazione e di distanziamento dell’immagine, orientandosi verso l’astrazione pittorica, la Minimal Art, le suggestioni della cultura giapponese. Discostandosi dalla pratica tradizionale che attribuisce alla luce la funzione di illuminare il palco e gli attori, egli se ne serve come uno strumento per scolpire le forme e modellare lo spazio, secondo un criterio che è di natura essenzialmente pittorica, che lo porta a controllare la disposizione dei diversi elementi scenici attraverso vari dispositivi luminosi, trattando il fondale, gli attori e gli oggetti, il palcoscenico come unità separate indipendenti l’una dall’altra.

Tutto è limpido, netto, senza sbavature: dai fondali, (spesso creati con il ricorso al ciclorama) costituiti da vaste campiture cromatiche di un colore terso e abbagliante che sfuma nel bianco verso la linea di orizzonte; agli attori e agli oggetti che, colpiti da una luce di taglio, si stagliano nitidi nello spazio con un risalto marcato che l’assenza di ombre contribuisce a enfatizzare. Anche il piano orizzontale del palcoscenico, illuminato in maniera uniforme e soffusa, entra a far parte della rigorosa definizione dello spazio da cui sono eliminate ogni dispersione, ogni incidenza fortuita, come le ombre proiettate. In alcuni spettacoli (come, per es., Monsters of Grace, 1998, diretto insieme a Philip Glass) egli ha sperimentato anche procedimenti di animazione mediante il ricorso a immagini computerizzate in tre dimensioni.


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Tornato a confrontarsi con il testo, sostituito nei suoi primi spettacoli da forme di comunicazione non verbale, Wilson si indirizza oggi verso opere drammaturgiche di forte impianto simbolico, sottratte all’ipoteca del naturalismo, più congeniali al suo particolare mondo poetico. Restringendo il campo alle opere realizzate, in questa prima decade del nuovo secolo ci limitiamo a citare il Woyzeck di Georg Büchner allestito nel 2000 a Copenaghen, Il sogno di August Strindberg, realizzato a Londra nel 2001, Les fables de La Fontaine presentato alla Comédie Française nel 2004, il Peer Gynt di Henrik Ibsen messo in scena a Oslo nel 2005 in occasione del centenario ibseniano. Particolarmente significativo per la sua relazione con le arti visive è il Woyzeck realizzato con una compagnia danese, il Betty Nansen Teatret. Scartata la partitura di Alban Berg, Wilson si è rivolto per la musica al compositore Tom Waits, già suo collaboratore in precedenti spettacoli.

Seguendo una linea di semplificazione estrema, Wilson crea una scena astratta, inondata dal colore, dove un gioco di proiezioni luminose disegna una trama di figure geometriche sghembe e giganteschi segnali visivi, quasi ad alludere al disorientamento dell’individuo in un mondo che ha perso ogni equilibrio. Anche gli oggetti sono piccole sculture geometriche di sapore minimale, funzionali alle esigenze di scena, ma che escludono qualsiasi volontà di ricostruzione ambientale. Unico richiamo al mondo culturale dell’autore è il riferimento alla pittura espressionista, largamente citata nel taglio dei costumi asimmetrici dalle linee spezzate e puntute, direttamente ispirati alle immagini pittoriche di Kirchner, nell’andamento sghembo dei riquadri geometrici proiettati sui telai scenici, nella violenta accensione dei rossi e dei gialli che scandiscono le sequenze dell’azione, nell’impasto cromatico di segni aspri ed elementari disseminati su uno dei fondali scenici.


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« Einstein ha detto che la luce è la misura di tutte le cose. Senza la luce lo spazio non esiste”.

In questo spazio vuoto di sapore astratto, gli attori si muovono con gesti controllati e angolosi, componendo un tracciato di linee tra luce e controluce. Riprendendo alcuni tipici espedienti della tecnica cinematografica, il regista texano fa svolgere l’azione attraverso un montaggio di sequenze cromatiche, non trascurando di ricorrere all’effetto di ‘primo piano’, illuminando in alcuni momenti con tinte smaccatamente artificiali il viso oppure alcune parti del corpo. Allontanandosi dalle versioni correnti del Woyzeck, Wilson elimina ogni concessione al patetico, prendendo le distanze dal melodramma attraverso un rigoroso controllo mentale di tutti gli elementi in gioco. Ne deriva uno spettacolo di straordinaria bellezza visiva, dove la storia, lineare nella sua semplicità, è consegnata a una suggestiva partitura di immagini e alla forza trainante della tensione espressiva offerta dal colore e dal suono.


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Casi Studio


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F o rma fa n t a sm a — “Anno Tropico”

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ÂŤAbbiamo cercato di capire come dare forma alla luce attraverso strumenti diversi dagli apparecchi luminosi.Âť


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«L’oggetto, a volte ridotto a un semplice segno grafico, scompare a favore dell’effetto che vogliamo ottenere.»

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a mostra realizzata per Peep-Hole riflette il recente interesse dei progettisti nelle qualità funzionali ed espressive della luce, presentando una serie di opere realizzate con tecniche e materiali diversi, insieme ad una installazione site-specific che sposta la loro sperimentazione su scala architettonica. L’intero progetto si inserisce in una situazione ambientale, che attraverso la costruzione di muri-diaframma in corrispondenza di finestre, modula l’intensità della luce del giorno. La natura di questo lavoro trasforma, non solo l’architettura, ma anche il funzionamento dello spazio espositivo, in cui gli orari di apertura variano a seconda delle variazioni stagionali dell’illuminazione.

Vista come “materiale”, la luce è al centro di un processo di ricerca che indaga il rapporto tra luce naturale e artificiale, passando dai sistemi di riferimento tradizionali alle innovazioni contemporanee di illuminazione a LED. Il percorso espositivo è organizzato su diversi livelli. Questi oggetti segnano un passaggio importante nella pratica dei progettisti, ora più vicini alla sfera industriale che artigianale. Allo stesso tempo, i modelli di lavoro confermano che il procedimento e l’approccio sono ancora basati sull’intuizione e sperimentazione.


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ÂŤLe nostre non sono luci tecniche. O meglio, partono da una prospettiva tecnica ma cercano di trovare una dimensione espressivaÂť

Questi modelli raccontano il percorso che viene prima dell’invenzione degli oggetti finiti: vetro dicroico, lenti ottiche e uno specchio parabolico, sono assemblati con materiali industriali come mattoni e tondini di ferro e modellano la luce, generando riflessi e ombre nello spazio.

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Sulle pareti vi sono rendering 3D stampati su carta millimetrica, che riproducono i dettagli degli oggetti in esposizione, sovrapposti su grafici e dati numerici disegnati con una matita. I dettagli delle lampade sono isolati e descritti da punti di osservazione vicini e insoliti, mentre le linee che definiscono le loro forme sembrano estendersi, diventando ipotetici assi di diagrammi che alludono a un consumo esponenziale di energia: la modellazione digitale non viene utilizzata come strumento di simulazione e chiarezza, ma invece rende gli oggetti appena riconoscibili. Invece di avere una funzione informativa su questioni legate alle problematiche ambientali, le composizioni ed i dati hanno il chiaro scopo di innescare un rapporto tra la professione del designer e la sua partecipazione implicita dei consumi e dello sfruttamento delle risorse naturali.


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Dal un punto di vista formale, i materiali utilizzati, hanno un linguaggio scultoreo: l’astrazione e la geometria delle forme assolute come l’artista Brancusi, sono accompagnati dall’uso di uno dei materiali piÚ tradizionali della scultura: il bronzo, che si applica, per le sue caratteristiche intrinseche di peso e di riflessione. Gli oggetti sono stati progettati partendo da strutture circolari, che ricordano gli anelli astronomici e la sfera armillare utilizzati in passato per monitorare le trasformazioni del cosmo. Questo ci riporta al video, installata alla fine del percorso espositivo, trasmettendo le sue premesse teoriche.


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In Anno Tropico luci astratte e ombre si alternano con la presenza di elementi più familiari, come il gesto di una mano, oggetti in movimento: gli esperimenti condotti dai progettisti nel loro studio per conoscere questo nuovo materiale, sono accompagnati da una voce fuori campo che descrive fenomeni luminosi a livello cosmologico. La colonna sonora, sulla base di un testo scritto insieme a Edoardo Tescari, astronomo presso l’Università di Melbourne, sposta l’oggetto su di un piano esistenziale più filosofico.


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D a niel R yb a k k en

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N

ato nel 1984, Daniel Rybakken cresce a Oslo, Norvegia. Studia design alla Oslo School of Architecture e alla School of Arts & Crafts a Gotenborg, Svezia. Laureatosi con un Master in Belle Arti, nel 2008 apre il suo studio di design sia a Oslo che a Goteborg. Rybakken ha ricevuto numerosi premi, incluso il Red Dot Award a Singapore nel 2007; "Anders Jahre's Cultural Prize for Young Artists" a Oslo nel 2008 e il "Design Report Award" come miglior designer al Salone Satellite di Milano nel 2009. Il lavoro di Daniel Rybakken si pone tra arte e design, formando edizioni limitate, installazioni artistiche e prototipi per produzioni di serie.


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“Daylights comes Sideways” L’idea è di creare una sensazione di spazio espanso, attraverso un’illusione di luce naturale, rivelando l’idea di uno spazio oltre la camera reale. Il concetto è stato quello di creare una finestra offuscata, semi-trasparente, cercando di ricreare una luce naturale, creando delle ombre dinamiche come se ci fosse qualcosa di fisico al di là della fisicità della stanza. Questo effetto viene creato controllando singolarmente l’intensità dei 1100 LED, disposti dietro una superficie in acrilico semitrasparente. Con l’aggiunta del movimento, l’illusione subconscia della luce naturale è aumentata.


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“Subconscious Effect of Daylight” “Non guardare il tavolo, guarda l’ombra sotto.” Dà l’illusione di una luce naturale nella stanza, creando una proiezione di luce ed ombre al suolo.


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“Surface Daylight 1-2” Questo progetto è una ripresa dei pensieri nati con “Subconscious Effect of Daylight” e “Daylights comes Sideways”. Invece di proiettare la luce, ora la sorgente luminosa è posta dentro il materiale stesso.

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“Daylight Entrance” 218

L’intenzioni di questo progetto erano quelle di incorporare gli esperimenti fatti precedentemente con la luce nell’architettura. Il progetto è posto all’ingresso di un palazzo di uffici nel centro di Stoccolma. Sia le entrate che le scale non hanno luce naturale; era dunque importante ricreare l’effetto piacevole, sensoriale della luce naturale. Il lavoro è stato realizzato sulla base tecnica di “Surface Daylight 1-2”. I LED sono posti all’interno di un area lavorata tramite CNC, nella quale son collocati 6.000 sorgenti luminose.


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Tech


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LED

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I

n elettronica il LED (Light Emitting Diode) o diodo a emissione di luce è un dispositivo optoelettronico che sfrutta la capacità di alcuni materiali semiconduttori di produrre fotoni attraverso un fenomeno di emissione spontanea. Nel 1907, Henry Joseph Round pubblicò una breve descrizione dell’effetto luminoso del diodo. Venti anni dopo, Oleg Losev indagò il fenomeno e formulò una teoria in una pubblicazione russa. I primi diodi ad emissione luminosa erano disponibili solo nel colore rosso. Venivano utilizzati come indicatori nei circuiti elettronici, nei display a sette segmenti e negli optoisolatori. Successivamente, ne vennero sviluppati alcuni che emettevano luce gialla e verde e vennero realizzati dispositivi che integravano due LED, generalmente uno rosso e uno verde, nello stesso contenitore permettendo di visualizzare quattro stati (spento, verde, rosso, verde+rosso=giallo) con lo stesso dispositivo.

Ora, esistono LED, i cosiddetti “bicolore”, che integrano nello stesso package due diodi LED in antiparallelo, ciascuno di diverso colore: in questo modo, per variare la colorazione del LED, è sufficiente alimentarlo con polarità opposta. Negli anni novanta, vennero realizzati LED con efficienza sempre più alta e in una gamma di colori sempre maggiore, fino a quando, con la realizzazione di LED a luce blu, fu possibile realizzare dispositivi che potevano generare qualsiasi colore integrando tre diodi di colore rosso, verde e blu. Parallelamente, è aumentata la quantità di luce emessa a livelli competitivi con quelli delle comuni lampadine. Nell’illuminotecnica, il LED si configura come una tecnologia ad alta efficienza che garantisce un ottimo risparmio energetico.


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Una particolaritĂ fisica dei LED rende possibile l'applicazione per sistemi di ricezione di impulsi luminosi. Intorno a questa proprietĂ sono stati sviluppati molti prodotti industriali come sensori di distanza, sensori di colore, sensori tattili e ricetrasmettitori. Il LED ha una durata molto variabile a seconda del flusso luminoso, della corrente di lavoro e della temperatura d'esercizio.


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La tecnologia LED offre molti vantaggi, tra cui il basso consumo energetico e una lunga durata. Sono le piccole dimensione del LED che hanno dato vita alle più interessanti soluzione nel light design. Gli ultimi prodotti rivelano come le industrie manifatturiere stiano scoprendo e sfruttando l’enorme versatilità del LED in sistemi modulari che li rende flessibili e personalizzabili. Le sue dimensioni sono dunque ideali per soluzioni minimaliste e architettoniche, dove la fonte luminosa quasi scompare. Le recenti innovazioni nei sistemi LED ci permettono di ricreare l’intero spettro dinamico, creando effetti di luce sempre diversi e intricati , portando la luce da semplice fonte luminosa a materia esperenziale. Tra i vantaggi ulteriori c’è l’alta programmabilità del LED: essi possono essere dimmerati, controllati a distanza in maniera semplice, risultando appetibili per le nuove necessità dei consumatori. I prodotti odierni, che possono essere controllati da gesti o applicazioni , sbloccano uno svariato numero di soluzioni possibili, e con l’avvento de Internet of Things, le potenzialità sono esponenziali. Basso consumo, lunga durata, alta programmabilità, minime dimensioni, fanno del LED uno strumento privo di vincoli per i designer odierni, i quali possono sperimentare soluzioni prima d’ora ritenute impossibili.


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Lyรณs

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“Lyós” è una lampada da parete per interni, che vuole simulare la luce naturale proveniente da una finestra. Essa è il risultato di una ricerca sulla luce, in particolare sulla capacità dell’uomo di percepire uno spazio grazie ad essa e come quest’ultima sia in grado di modificare le caratteristiche dello spazio stesso. Lo scopo progettuale è di voler creare nell’utente una sensazione di percezione aumentata dello spazio, attraverso la simulazione di una atmosfera comune, come la luce naturale che entra da una finestra. L’effetto è dato dall’uso di sorgenti luminose LED in grado di simulare il colore naturale della luce e di materiali, quali plexiglass, in grado di diffondere la luce in maniera omogenea su tutta l’area di interesse. L’aggiunta di un velo semi-trasparente, oltre a fungere da ulteriore diffusore, va a ricreare una tenda, aumentando così la sensazione da me ricercata. Il nome deriva dalla traduzione islandese della parola: “luce”.

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Studio |

Analisi Luce

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Il progetto è nato in seguito a un’analisi approfondita sulle varie tipologie di luce e le qualità che essa offre. La ricerca è stata svolta analizzando un libro di fotografia – Capturing Light di Michael Freeman – incentrato sulle differenze di illuminazione interne ed esterne riscontrabili nella realtà quotidiana. Il libro in questione si occupa di come fotografare vari ambienti, soggetti, luoghi, in base alla luce del momento, il cui autore chiama “luce trovata”. L’obbiettivo dell’autore è quello di capire come scattare con la luce naturale disponibile, a partire dalla conoscenza delle sue caratteristiche.

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Da questo libro son state selezionate da me, alcune tipologie di illuminazione ritenute interessanti a livello emozionale e sensoriale e con un potenziale progettuale. Le tipologie di luce da me analizzate sono le seguenti: • Luce Dura • Controluce & Materiali Traslucidi • Lume di Candela • Luce Caustica • Luce Soffusa • Luce della Nebbia • Finestre & Tende Colorare • Luce Finestra


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Luce Dura

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L’aggettivo “dura” si riferisce alle ombre che proietta: quando il sole è intenso, a picco nel cielo limpido, viene meno l’effetto filtrante del pulviscolo atmosferico che ammorbidisce la luce: il risultato sono ombre contorni molto netti e un inevitabile alto contrasto. La luce forte e verticale crea ombre dure e un’intensità che, con il soggetto adatto, si presta all’astrazione. Astrarre un’immagine significa portarla un passo oltre il reale, trasformarla in qualcosa di diverso, perlomeno finchè l’occhio dell’osservatore, non si adatta e la decodifica. La casa dell’architetto Ricardo Legorreta a Los Angeles è un esempio perfetto: tutto è ortogonale, spigoloso e scultoreo.

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I soggetti spigolosi tendono a risultare bene con una luce che mostri al meglio i loro angoli retti e le superfici contrastanti. L’angolo di incidenza della luce diventa critico in assenza di diffusione, ma quando si riesce a trovare quello giusto per il soggetto si ottiene un effetto potente, accativante e di grande impatto.


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Il bianco e nero ha una propria estetica, molto diversa rispetto al colore. Tra i particolari pregi del bianco e nero, due lo rendono una soluzione molto pratica ai problemi posti dall’illuminazione, per esempio dalla luce dura. Il primo pregio è che il bianco e nero è di certo meno sensibile all’ora del rispetto al colore. Il secondo pregio è che spingere i toni verso gli estremi è molto più accettabile in bianco e nero di quanto lo sia a colori. Un trattamento duro e cntrastato, che potrebbe essere spiacevole a colori, può risultare splendido in monocromia.

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M a t e r i a l i Tr a s l u c i d i

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Un’ampia sorgente luminosa in controluce è una delle soluzioni preferite in studio, perchè crea una sorta di fondale bianco davanti a cui collocare oggetti o persone in modo chiaro e semplice. Se poi gli oggetti sono trasparenti o semitrasparenti, il controluce è di sicuro una scelta vincente perchè permette alla luce di scintillare attraverso il soggetto senza elementi di distrazioni sullo sfondo. È un classico allestimento per still-life in studio e richiede un’illuminazione speciale. Per risultare del tutto neutri, è meglio che siano privi di qualsiasi texture: l’ideale sono materiali come vetro sabbiato o plexiglass bianco.

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L’omogeneità con cui un foglio di materiale traslucido diffonde la luce dipende dal suo spessore e dal modo in cui diffonde. Il plexiglass crea un’omogeneità migliore rispetto al vetro sabbiato ed entrambi diffondono meglio quando sono più spessi. Il maggior spessore trasmette però meno luce.

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Candela

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Le candele sono speciali, non solo perchè illuminano, ma perchè nel farlo diventano il centro dell’attenzione. Non sono molte le sorgenti luminose a risultare piacevoli, sia come soggetto sia come metodo di illuminazione di uno spazio. Nel libro dell scrittore giapponese Jun’ichirŌ Tanizaki “Libro d’ombra”, egli loda l’effetto della luce tremolante di una candela che passa davanti a una superficie semilucida, come una lacca dorata. La luce delle candeleci porta indietro nel tempo e parla di un mondo caldo, tremolante, chiuso. È possibile scattare interamente al lume di candela, senza flash nè altre forme di riempimento. Con la luce di candela si parla di sfere di luce. Le candele sono luci pratiche in termini cinematografici: sono sorgenti luminose visibili. Per questo motivi, riprenderle a pellicola, senza l’aiuto degli alti livelli di sensibilità ISO, era difficile. Kubrick, per un suo film, si fece modificare un’obiettivo con un’eccezionale apertura focale, per non dover alterare la luce naturale, rendendo così la luce della candela reale e non alterata da altri stratagemmi cinematografici.

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Luce Caustica

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Questo è un tipo particolare di concentrazione della luce, riflessa o rifratta, che crea forme curve con cuspidi, spesso nei colori dello spettro. Non è per nulla comune, ma quando appare è davvero il caso di prestarle attenzione, soprattutto perchè aggiunge suggestione a una scena ordinaria. La manifasteazione più conosciuta è quella del sole che brilla attraverso un bicchiere su una tovaglia bianca. Un’altra è la rete di motivi curvi proiettata dalle onde attraverso l’acqua trsparente, come sul fondo di una piscina. Queste complesse e intense curve e intersezioni possono essere chiamate “luce caustica” perchè, un’intensa concentrazione di luce, per esempio, attraverso una lente di ingrandimento, brucia. Inaspettatamente, una forma ben nota di luce caustica è proprio l’arcobaleno. I suoi archi ricurvi sono creati tramite lo stesso processo, con ogni lunghezza d’onda che ha un raggio leggermente diverso.

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Luce della Nebbia

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La nebbia non è mai solo nebbia. È una condizione più ampia, visiva e fisica, che sommerge e stravolge il paesaggio. Determina quanto lontano possiate vedere e non solo la quantità di luce, ma anche la possiblità di percepirne la direzione. La nebbia fitta è una coperta grigia che diffonde la propria limitata e grigia luminosità su tutte le cose, senza accenni di alte luci o ombre. Un po’ meno fitta, concede un indizio sulla posizione del sole nel cielo. Ha infinite gradazioni e in fotografia, oltre ad ammantare e celare, è utile soprattuttto per separare piani e distanze.

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La nebbia è come un filtro morbido e grigio tridimensionale. È di fatto una nuvola, anche se vicina a terra e scollegata da quelle aeree. Montagne e colline però offrono a volte l’esperienza di trovarsi letteralemnte immersi nelle nuovole.


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F i n e s t r e & Te n d e C o l o r a t e

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Colorare la luce di proposito, come a volte capita negli scatti di moda, è rischioso. Il confine tra suggestivo e volgare è incerto e nonè facile gestirlo con eleganza. Quando però la stessa cosa si verifica nel mondo reale, il risultato è affascinante. Le vetrate istoriate di una cattedrale, nel momento in cui il sole brilla attraverso di loro, sono un esempio facile.

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Luce Finestra

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Molto prima che fossero inventati i softbox, nel mondo della fotografia professionale per addolcire la luce del flash erano in uso grosse “scatole” di alluminio, più pesanti e ingombranti. Erano molto usati negli studi, soprattutto per still-life pubblicitari. Erano detti “bank” , ma anche “window light” perchè era proprio questo tipo di illuminazione che replicavano: una fonte di luce bianca rettangolare e vicina. Queste lampade quando furono inventate divennero subito molto popolari, proprio a causa delle splendide qualità modellanti della luce delle finestre orientate a nord.

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In storia dell’arte molti pittori, per i propri studi, prediligevano sempre lucernari orientati a nord. In tal modo, in nessun momento della giornata il sole riusciva a penetrare direttamente, come un faro e cambiare la natura dell’illuminazione. Al contrario, la finestra è simile a un bank rettangolare e crea un equilibrio molto attraente tra luce modellante e morbida. Nello specifico, la luce è direzionale , e quindi proietta ombre e scolpisce le forme, ma allo stesso tempo le ombre hanno contorni morbidi e trattengono un minimo di dettaglio. L’effetto era amato da molti pittori, soprattutto fiamminghi, con la loro predilezione per la fredda luce settentrionale. “La lattaia” di Jan Vermeer è la quintessenza del ritratto realizzato nella luce modellante ma morbida di una finestra adiacente. Trovandosi quest’ultima vicina all’angolo della stanza, Vermeer usa il contrappunto delle ombre per modellare le forme: l’ombra sulla figura è opposta a quella sulla parete alle sue spalle, da cui il soggetto si stacca di netto.


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A condizione che il sole non batta mai direttamente, la luce di una finestra è costante nella qualità , anche se non nel colore.


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Finestra |

Analisi Fotografica

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In questa fase mi son dedicato alla rappresentazione fotografica della luce luce proveniente dalle finestre: dall’illuminazione delle tende, ai riflessi creati all’interno delle stanze. Gli scatti qui presenti non sono altro che momenti casuali, ripresi durante una giornata tramite telefono e/o macchina fotografica. Questa documentazione mi è servita al fine di capire come si propaga la luce che entra da una finestra, che atmosfera crea questa luce e come le tende ne filtrino il suo passaggio.


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Ricerca Formale

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Qui di seguito e nelle pagine successive, ho riportato ciò che è stato il percorso di ricerca formale del progetto, tramite schizzi, bozzetti, mostrando così l’evoluzione: partendo dal fascino della luce proveniente da una finestra, passando dall’idea di creare una lampada da terra, poi da soffitto ed infine da parete.


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All’inizio della ricerca, mi son interessato sui materiali, in particolare su qualunque cosa che fosse leggero e “libero� di muoversi, come un velo mosso dal vento. Ipotizzando poi le possibili forme e modi di illuminazione che questo materiale poteva essere sottoposto.


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Ho provato poi a pensare a delle strutture, il più invisibili possibile e che lasciassero il velo libero di muoversi. Nei primi momenti ero maggiormente attratto da come il tessuto fungesse da filtro naturale, tralasciando la componente “finestra” intesa come “riquadro di luce” a favore dell’estetica del materiale principale.

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Proseguendo con la ricerca di una forma adatta, son passato a pensare a delle strutture a sospensione, le quali davano una sensazione di leggerezza e libertà più ampia rispetto alle precedenti, ma ancora mancava l’effetto “finestra” da me cercato.


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Una struttura a parete, in fine, è sembrata la più adatta allo scopo. All’inizio il riquadro di luce non era stato ancora pensato, ma la luce sarebbe dovuta provenire dall’alto, posta all’interno della struttra. Sperimentando, è risultato che l’effetto ottenuto non era quello sperato, è stato dunque in fine aggiunto un diffusore a parete, per ricreare quell’idea di “finestra” che mi ero preposto.

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Ricerca Materiali

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I materiali scelti per la realizzazione strutturale son i seguenti: ottone, plexiglass satinato e plexiglass opalino. Questi materiali son stati scelti in base alle loro caratteristiche tecniche e alla loro estetica.


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L’ottone è una lega rame-zinco, il cui tenore di quest’ultimo determina le proprietà come la resistenza meccanica, il colore, la lavorabilità all’utensile, la duttilità, la conduzione di elettricità e calore, la resistenza all’abrasione e alla corrosione. Il giallo è il classico colore dell’ottone, ma dipende dalla suacomposizione. Una lega con il 10% di zinco è chiamata “similoro”, per la sua tonalità e brillantezza simile all’oro. Un’altra lega spesso impiegato nei serramenti, viene comunemente chiamata “bronzo architettonico”, perchè richiama il bronzo. L’alta duttilità dell’ottone permette di essere facilmente lavorato ed uno svariato numero di finiture possibili. Per questo progetto si è optato per una finitura “spazzolata”.


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Il plexiglass di norma è molto trasparente, più del vetro, al punto che possiede caratteristiche di comportamento assimilabili alla fibra ottica per qualità di trasparenza, e con la proprietà di essere più o meno in percentuali diverse, infrangibile a seconda della sua “mescola”. Offre ,dunque, una maggiore duttilità rispetto al vetro, facilità di lavorazione e soprattutto una maggior conducibilità della luce. La possibilità di ottenere facilmente varie finiture del materiale, dà la possibilità di sperimentare svariate configurazione illuminotecniche. Per questo progetto son stati utilizzati due tipi di plexiglass: uno opalino ed uno satinato.


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Nelle prossime pagine son riportarti alcuni materiali sperimentati, durante lo studio della luce, per fungere da “tenda�.

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La carta velina è un materiale interessante: estremamente leggero e delicato ed un ottimo diffusore, difficile però da gestire e da lavorare, per la funzione di “tenda”.


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La carta di riso a differenza di quella velina è piÚ rigida ma interessante per le sue texture delle quali è composta. Proprio questa sua caratteristica mi ha interessato al fine di utlizzarla come diffusore esterno.


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Ho sempre trovato affascinante questo materiale plastico. Generalmente usato in fase di tinteggiatura degli interni per coprire il pavimento. Leggero e semitrasparente ma ciò che lo rende a mio parere affascinante è la sua consistenza e il suo comportamento se mosso dall’aria: quasi come se “danzasse”.


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È un tessuto spalmato, di silicone opaco. Sembra quasi un velo di nebbia. Ha ottime qualità di diffusione della luce, ma la sua rigidezza non era adatta ad assolvere il compito di “tenda”. Inoltre è un materiale che risulta più interessante se usato per celare qualcosa e se sottoposta a trazione, data la sua enorme elasticità.


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Tessuto bianco perla, sintetico a trama fitta. Un tessuto pesante, con poca capacitĂ di trasmissione della luce.


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Tessuto in poliestere, semitrasparente, simile all’organza ma con una trama piÚ fitta. Leggero, con una ottima trasmissione della luce.


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Moodboard

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Atmosfera

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Materiali |




Sketches

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Disegni Tecnici

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Vista Frontale |


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Vista Laterale |


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Vista dall’Alto |


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Vista Ambientata |


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Diffusore

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Costituito da una “cornice” in ottone a profilo a “T”, una lastra di ottone sulla quale alloggiano i LED e due strati di plexiglass: uno satinato ed uno opalino. Il plexiglass satinato permette una prima diffusione della luce, la quale viene poi trasmessa al plexiglass opalino che ne aumenta l’effetto, creando così una superficie omogenea. I LED emanano una luce bianco naturale, per ricreare un’atmosfera diurna, imitando la luce solare. Il diffusore è appeso, tramite cavi d’acciaio, per rendere l’oggetto meno ingombrante visivamente.


Vi s t e DIFFUSORE

357

Scala 1:10


E s pl o s o DIFFUSORE

1 2 3

1 2 3

Cornice in ottone satinato. Profilo a “T�. Lastra plexiglass satinato. Lastra plexiglass opalino. Scala 1:10


Sezione DIFFUSORE

Scala 1:1


Pr o f i l o “ T” DIFFUSORE

360

Scala 2:1


E sp l o s o P r o f i l o “ T” DIFFUSORE

361

Scala 1:10


S al d at u r a DIFFUSORE

Scala 1:2



P l ex i g l as s O pal i n o DIFFUSORE

Scala 1:5


P l ex i g l as s O pal i n o DIFFUSORE

Scala 2:1


P l ex i g l as s S at i n at o DIFFUSORE

Scala 1:5


P l ex i g l as s S at i n at o DIFFUSORE

Scala 2:1


LED DIFFUSORE

Scala 2:1



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Lastra

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La lastra in ottone satinato, viene appesa tramite viti al muro e funge da sostegno per il diffusore e la tenda.


Vi s t e LASTRA

Scala 1:5


Vi s t e LASTRA

Scala 1:1


Sezione LASTRA

Scala 1:1


D e t t ag l i o V i t e LASTRA

376

Scala 1:1



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Te n d a

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La tenda è un tessuto in poliestere leggero, che funge da diffusore, serve per creare quella sensazione di “finestra” e si inserisce all’interno di una fresatura sulla lastra e si blocca grazie ad un profilo tondo in ottone.


V is t a F r o n t al e TENDA

Scala 1:10


I nser im e n t o Te n d a TENDA

Scala 1:1


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Tiranti

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I tiranti in acciaio, servono per sospendere il diffusore alla lastra attaccata al muro. Ho voluto utilizzare questa soluzione per aumentre il senso di “finestra�, scarnificando la struttura.


Vi s t e TIRANTI

Scala 1:1


E s pl o s o TIRANTI

Scala 1:1


A t t ac c o L as t r a TIRANTI

Scala 1:1


A t t a cc o D i f f u s o r e TIRANTI

Scala 1:1



Render

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Foto

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Ri n g r az i am e n t i

Ringrazio anzitutto il Prof. Dante Donegani, relatore di questa tesi di laurea, che ha seguito pazientemente lo sviluppo di questo progetto e mi ha fornito preziosi suggerimenti. Un grazie va alla docente Sara Ricciardi, per il tempo da lei dedicatomi e per i suoi importanti consigli. Ringrazio “Percassi Antonio - Fonderia Artistica” i quali, con pazienza e professionalità, hanno creato la struttura in ottone, “Plexform” i quali oltre ad aver realizzato le parti in plexiglass, si son resi disponibili nel darmi materiali vari per esperimenti di ricerca. Un ringraziamento speciale va ad amici di famiglia, che grazie alla loro esperienza, mi hanno aiutato nell’installazione delle componenti elettroniche e nell’assemblaggio finale della lampada. In fine ringrazio e abbraccio tutti coloro che mi hanno supportato in questo lavoro, in primis la mia famiglia, che si sono sempre resi disponibili nell’assecondare i bisogni necessari allo sviluppo del progetto ed a sostenermi in ogni momento, i miei amici e la mia fidanzata la quale, oltre a darmi consigli, mi ha aiutato emotivamente ad affrontare il tutto. Grazie

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Fonti

lucenews.it — Luce e Materia wikipedia.org — Light and Space collezionedatiffany.com — Light Art artspace.com — Light and Space wikipedia.org — James Turrell guggenheim.org — James Turrell archdaily.com — James Turrell wikipedia.org — Robert Irwin 408

pacegallery.com — Robert Irwin artsy.net — Robert Irwin artnet.com — Robert Irwin hirshhorn.si.edu — Robert Irwin apollo-magazine.com — Robert Irwin davidzwirner.com — Doug Wheeler wikiart.org — Doug Wheeler


artnews.com — Doug Wheeler guggenheim.org — Doug Wheeler nytimes.com — Doug Wheeler artsy.net — Olafur Eliasson theguardian.com — Olafur Eliasson tanyabonakdargallery.com — Olafur Eliasson olafureliasson.net — Olafur Eliasson wikipedia.org — Robert Wilson 409

lightingnow.net — Robert Wilson corriere.it — Robert Wilson treccani.it — Robert Wilson formafantasma.com — Studio Formafantsma danielrybakken.com — Daniel Rybakken FRAME Magazine - n°112 Capturing Light - Micheal Freeman


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