Si è accesa una "Luce gentile" n. 3

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Durante un lungo viaggio in Italia, l’allora anglicano John Henry Newman – beatificato nel settembre 2010 da Papa Benedetto XVI, e proclamato Santo nell’ottobre 2019 da Papa Francesco –, compose una celebre preghiera-poesia che iniziava così: “Guidami Tu, Luce gentile, attraverso il buio che mi circonda, sii Tu a condurmi!”.

Era il 16 giugno 1833, ed oggi, con questo cartabèllo, desideriamo alimentare una “Luce gentile”, capace di suscitare e riproporre un giudizio cristiano sulle realtà del nostro tempo, un tempo che i sociologi chiamano “post-moderno”.

Aprile 2023 - 3°

Per introdurre il tema dei “diritti”, sul quale si svolgono gli approfondimenti ed insieme le sollecitazioni di questo terzo cartabèllo, prendiamo a prestito alcuni passaggi pubblicati da Gian Marco Sperelli il 26 luglio 2016 in occasione della presentazione del libro di Marcello Pera “Diritti umani e cristianesimo”.

Ci sono sembrati emblematici e attualissimi perché oggi – frutto di una dominante e travolgente concezione manichea della realtà dove, a nostro piacimento, prima definiamo il bene ed il male, e poi ci schieriamo tra i buoni, per abbattere i cattivi (che sono sempre gli altri) – la parola diritti contrappone, con prepotenza comunicativa, le persone per bene (quelle che li auspicano, li promuovono e li difendono), ai cattivi e ignoranti cialtroni che, si dice, li vogliono negare, persino ai bambini!

Sono spunti che offriamo alla riflessione dei nostri quattro lettori, partendo dall’invettiva di un autore, noto come il Nietzsche del Sudamerica, Nicolas Gomez Davilà: “Dal Romanticismo in poi, i grandi scrittori sono prigionieri che scuotono freneticamente le sbarre di quella gabbia che è diventato il mondo senza Dio... Per l’Occidente, ormai, la secolarizzazione è divenuta sinonimo di democrazia; sintomo di questa nuova concezione culturale è la dottrina dei diritti umani, che ha assunto i connotati di una vera e propria “religione”.

Continua Sperelli: “Per comprendere il nodo cruciale della questione dei diritti, l’unica via – anche se la meno battuta – da percorrere e attraversare è quella della dottrina dei doveri, intesa naturalmente nell’accezione cristiana. Con tale intuizione, Pera svela la chiave di volta del rapporto tra liberalismo e cristianesimo, e in particolar modo il grande fraintendimento che l’ideologia dei diritti ha portato nella dottrina cristiana dei doveri, giungendo a snaturarla quasi del tutto.

Il fondamento della dottrina liberale, pilastro a volte dimenticato delle nostre odierne democrazie, trova la sua attestazione più forte nella carta d’indipendenza americana (1776), all’interno della quale la libertà è definita come “un dono di Dio”: la libertà viene quindi definita nel suo fondamento come un dovere dell’uomo dinanzi a Dio. I diritti umani, invece, quale giustificazione possono portare di fronte al Tribunale secolare?

Una società che si vuole fondata unicamente sui “diritti-desideri individuali” potrà mai, come frutto buono, generare una società solidale, nella quale dovrebbero prevalere, non i miei diritti-desideri personali, ma i bisogni e le aspirazioni degli altri?

Buona lettura!

IL DIRITTO, I DIRITTI

“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio, canto I, vv. 70-72); le parole rivolte da Virgilio a Catone Uticense, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, solennemente ci richiamano uno dei temi più cari alla tradizione filosofica e giuridica del nostro Occidente. Tema affascinante, difficile da afferrare nella sua complessità, punto di intersezione tra privato e pubblico, tra individuo e società, tra filosofia, diritto e politica.

Le civiltà arcaiche in genere concepiscono l’uomo come un essere finito, dominato da forze oscure che lo sovrastano e lo dominano; l’unica possibile libertà per l’individuo è la serena accettazione del proprio destino, il fato dei Greci, implacabile necessità alla quale tutti, compresi gli dèi, sono sottoposti. Nel mondo ellenico la libertà è intesa soprattutto in senso politico e collettivo, riferita cioè alla polis, e gli interessi e le aspirazioni del singolo devono essere sottomessi all’interesse pubblico. Questa subordinazione è anzi ritenuta condizione necessaria perché vi sia sufficiente compattezza nel corpo sociale. La libertà individuale è concepita perlopiù in senso negativo, come assenza di coercizione, ciò che distingue l’uomo libero dallo schiavo, ma già Aristotele nell’Etica Nicomachea introduce il tema della libertà positiva, intesa come possibilità di scelta, cioè di desiderio deliberato. L’uomo greco intuisce anche la possibilità di un contrasto profondo tra i decreti dell’autorità sovrana ed una legge superiore, inscritta nel cuore dell’uomo, di origine divina: esemplare è l’Antigone, celebre tragedia di Sofocle, la cui protagonista, contravvenendo agli ordini del tiranno di Tebe Creonte, rende gli onori funebri al corpo del fratello rimasto insepolto nella pianura antistante la città, pagando con la vita il suo atto di pietà ed amore fraterno. Le intuizioni degli Elleni, in particolare dei filosofi stoici, vengono riprese e sistematizzate dal mondo romano, in particolare da uno dei suoi più versatili ingegni, Marco Tullio Cicerone, in due opere fondamentali, De legibus e De re publica.

Se il diritto si costituisse solo sulle decisioni dei popoli, attraverso i decreti dei principi, per le sentenze dei giudici, allora ci sarebbe il diritto di rubare, di commettere adulterio

di Gianni Savoldi

e di falsificare i testamenti, qualora questo fosse approvato attraverso i decreti o le votazioni delle masse. Ma se le deliberazioni e gli ordini degli stolti potessero avere così tanto potere da essere in grado di stravolgere l’ordine della natura attraverso il loro verdetto, perché allora non decidono anche che ciò che è nocivo e pericoloso deve essere ritenuto buono e salutare? Oppure, se la legge positiva può rendere l’ingiusto giusto, perché non può fare di ogni male un bene? In realtà noi non possiamo distinguere una legge buona da una cattiva in nessun altro modo se non in base ad una norma della natura; non solo il giusto e l’ingiusto vengono distinti per natura, ma anche tutto ciò che è buono e ciò che è turpe […] pensare che queste cose siano frutto dell’opinione e non poste dalla natura, è da pazzi. (De legibus, I, XVI, 43-44)

Cicerone pone le basi del giusnaturalismo, affermando che la legittimità di una legge non dipende dal fatto che sia emanata da un’autorità riconosciuta e a ciò deputata, ma dalla sua conformità ad una legge naturale, permeata dalla ragione divina. E’ da notare che in Cicerone, di formazione stoico-panteista Dio, Natura e Ragione finiscono per coincidere, ed il concetto di natura risulta piuttosto indeterminato, così come nei giureconsulti di epoca imperiale, come Ulpiano, che definisce come natura l’atavico senso comune anche agli esseri irrazionali (Digesto 1, 1-11)

La fiosofia e la teologia cristiane attingeranno a piene mani da questa sapienza pagana, facendo parzialmente propria la visione giusnaturalista, ma già i Padri della Chiesa, e in epoca medievale S.Tommaso D’Aquino e gli autori scolastici daranno una definizione più precisa al concetto di Natura, lasciato, come abbiamo visto, in una certa indeterminatezza dagli autori classici. La Natura è l’ordine voluto dal Creatore di cui è permeato il mondo, un ordine razionale e comprensibile alla ragione umana. Le leggi umane sono quindi il riflesso di una Legge divina che le precede e le sovrasta, riconducibili in ultima istanza alla Rivelazione ed in particolare al Decalogo il quale ci impone una serie di doveri verso Dio e verso i nostri simili. Doveri verso Dio che nella Tradizione cristiana assumono la forma di precetti, da seguire volontariamente e liberamente per amare più intensamente Dio ed il prossimo, non comandi imposti da un autocrate, non imperativi categorici kantiani…

Il pensiero cristiano, a partire da sant’Agostino (De gratia et libero arbitrio) sviluppa altresì il tema del libero arbitrio, che viene identificato come possibilità di autodeterminazione dell’uomo, cioè con una sua

possibilità di scelta in ordine ai mezzi, non rispetto al Fine ultimo, che è la salvezza eterna della propria anima, raggiungibile solo con l’aiuto della Grazia (ma rimane sempre possibile la ribellione ed il rifiuto da parte dell’essere umano…). Resta inteso che le libertà umane non sono mai assolute, ma vanno regolate e, se necessario, limitate da norme oggettive poste dalla legittima autorità, le quali, come abbiamo visto, sono pur sempre il riflesso di una superiore Legge divina. E’ da notare che anche la società medievale pone in rilievo le libertà collettive, riferite cioè all’appartenenza ai corpi intermedi, che siano le arti e le corporazioni, le confraternite, la stessa Chiesa, più che le libertà individuali; la cosa non deve stupire, trattandosi di società organiche, nelle quali l’identità si forgia in una appartenenza.

Questo legame tra ordini terreni e Ordine divino viene meno con l’età moderna, ed il pensiero liberale ufficializza tale “divorzio”: la dottrina politica di John Locke (Due trattati sul governo, 1689) postula che la legittimità della legge sta nel consenso, non in un Ordine immutabile che la trascende e la legittima. Si noti che tale principio discende direttamente dal Protestantesimo: Lutero, com’è noto, sostiene che: “Non si possono imporre in nessun modo delle leggi, sia dagli uomini, sia dagli angeli, se non quando essi le accettino liberamente” (M. Lutero, La cattività babilonese della Chiesa, ora in Scritti politici).

Tale postulato, detto per inciso, sembra essere oggi applicato con disinvoltura alla stessa Legge divina, ai Dieci comandamenti, alla dottrina morale, ritenute da settori della Chiesa non più cogenti nella misura in cui non sono più accettati dalla società (basti pensare alle richieste del cosiddetto “sinodo” tedesco)

I pensatori liberali, in genere deisti, ed anche gli Illuministi ammettono in linea di principio l’esistenza di un diritto naturale, ma, a differenza dei medievali, slegato dal Decalogo e quindi, dalla Rivelazione giudaico-cristiana, finendo per ricadere in quell’indeterminatezza che caratterizza il giusnaturalismo dei giureconsulti romani. Parafrasando don Alfonso, protagonista di “Così fan tutte”, celebre opera buffa di Mozart, si potrebbe dire che è il diritto naturale moderno come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa! Da qui la tragica beffa della solenne Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, cui seguirono gli orrori rivoluzionari del Terrore e della Vandea, primo genocidio dell’epoca contemporanea e la sostanziale inutilità della Dichiarazione universale dei diritti umani ONU del 1948, sottoscritta, com’è noto, anche da numerosi stati che da sempre sistematicamente non riconoscono o violano le libertà fondamentali ai propri cittadini e che continuano a farlo indisturbati…

Il liberalismo, ideologia della borghesia trionfante è, nella sua sua essenza, il rifiuto di ogni ordine soprannaturale, segna la fine della “Societas Christiana” , società organica per eccellenza, guarda con malcelata diffidenza ai corpi intermedi e alle loro libertà, esalta le libertà individuali, preludio ad una società atomizzata fatta di individui autonomi nel senso letterale della parola.

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In questo nuovo mondo, dove i corpi intermedi sono indeboliti, esausti, sfibrati, ogni individuo è (o si illude di essere) norma a se stesso, privo di legami con la tradizione o che non siano funzionali al soddisfacimento dei suoi bisogni. E’ il regno della libertà assoluta preconizzato già dagli Illuministi e dai Marxisti e celebrata nel ‘900 da Jean Paul Sartre, libertà illimitata e incondizionata che rifiuta sdegnosamente ogni limite, compreso quello costituito dalla natura umana, autodeterminazione che si sostanzia nell’autonoma scelta dei fini e dei mezzi atti a conseguirli. La persona, come afferma Mounier, non “è”, non ha una propria natura, ma si “fa”, autodeterminando la volontà di “farsi” qualunque cosa: Dio o bestia, come scrisse Pico della Mirandola, parole che risuonano singolarmente attuali…

E’ normale che in un simile contesto prevalga una visione giuspositivista, seguendo l’insegnamento di Hans Kelsen: non esiste una natura umana, non può esistere nemmeno un diritto naturale; la legge è allora la mera volontà di chi comanda, nominalmente il popolo sovrano, di fatto le élites borghesi, in grado di controllare e manipolare l’opinione pubblica. Le norme giuridiche non potranno che essere la ratifica di desideri, interessi,stili di vita, prassi introdotte, coltivate, pazientemente propagandate nelle masse popolari, o pura espressione di volontà di potenza, quando non, addirittura, prometeico tentativo di riscrivere l’alfabeto della Creazione.

Eppure Nostro Signore continua ad ammonirci “Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi”,(Gv, 8,32) e noi sappiamo che gli uomini passano, così come le idee e le civiltà, anche il cielo e la Terra passeranno, le Sue parole non passeranno.

INVITO ALLA LETTURA

SE LA VITA FOSSE...

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

di Luciano Pace

La struttura della Kalenda è simile a quella del Prologo del Vangelo di Giovanni che si proclama nella Messa del giorno di Natale (la liturgia del Natale prevede tre formulari di Messe: della notte, dell’aurora e del giorno) perché entrambi indugiano a lungo su uno sguardo “grande”. disporre tutt

Una volta all’anno propongo agli studenti delle classi quinte della Scuola Secondaria di Secondo Grado (le vecchie “superiori”) che frequentano la mia materia un esperimento mentale. Chiedo loro di ipotizzare una conclusione alle seguenti affermazioni: “Se la vita fosse un diritto...”, “Se la vita fosse un previlegio...”; “Se la vita fosse un mistero...”; “Se la vita fosse un dono...”; “Se la vita fosse una condanna...”. Ecco alcuni dei risultati di questo esperimento. “Se la vita fosse un diritto, non la si dovrebbe negare a nessuno”. “Se la vita fosse un diritto, non la si potrebbe togliere a nessuno”. “Se la vita fosse un mistero, ciascuno sarebbe sempre un’incognita a se stesso”. “Se la vita fosse un mistero, comprenderne il senso richiederebbe un grande impegno”. “Se la vita fosse un previlegio, ciascuno dovrebbe dimostrare di meritarla”. “Se la vita fosse un dono, andrebbe sempre accolta con meraviglia”. “Se la vita fosse un dono, sarebbe importante trattarla con premura”. “Se la vita fosse una condanna, tanto varrebbe togliersela di persona”. “Se la vita fosse una condanna, meglio sarebbe non esser nati”.

Di fronte a simili pensieri, si constata anzitutto come sia ancora spiccata l’intelligenza degli adolescenti. È sufficiente dar loro l’occasione di esprimere ciò a cui hanno pensato. In secondo luogo, le loro risposte lasciano intendere gli immaginari collegati ad alcuni concetti che, nella vita quotidiana, utilizziamo senza troppo farvi attenzione: diritto, previlegio, dono, condanna, mistero. Su questi concetti provo ad offrire qualche invito al pensiero, nella speranza che sia di aiuto alla personale meditazione.

Cominciamo con la parola “diritto”. Essa è normalmente considerata contraria a “previlegio”: questo è ciò che si acquisisce per merito: quello è ciò

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che deve essere garantito a tutti. Negare un diritto è togliere ciò che spetta. Tuttavia, da cosa dipende tale “spettanza”? Che cosa la giustifica? Nel caso del privilegio è facile rispondere: la sua spettanza dipende dal corrispondere ad un’esigenza di chi lo può concedere. Pensiamo al feudo medievale: era concesso come privilegio da un signore al suo vassallo a motivo del legame di vassallaggio.

Nel caso di un diritto, per esempio il diritto alla vita, il diritto umano alla base di ogni ordinamento giuridico democratico, chi ne è il garante? “Un parlamento” si risponderà quasi automaticamente. Tuttavia, una simile giustificazione ha un difetto: come possono coloro che godono di un diritto (gli esseri umani) essere al contempo coloro che se lo attribuiscono? Non sarebbe questo qualcosa di più simile ad un privilegio, concettualmente parlando. Certo! Di fatto è così.

L’esempio più chiaro per comprendere questo paradosso sono le leggi democratiche sull’Interruzione volontaria della gravidanza. In teoria stabiliscono che il diritto alla vita è riconosciuto a tutti fin dal suo inizio, cioè il concepimento. Poi, in pratica, decretano che venire al mondo diventa un previlegio concesso dai genitori o dalla madre. Questa contraddizione, penso, sorge appunto per un vizio di fondo: un diritto non può essere stabilito da chi lo concede a chi lo detiene, ma deve trovar ragione nella natura di chi lo possiede già ed, eventualmente, se lo può veder negato da chi gli fa prepotenza. Ma se le leggi umane non sono che un ulteriore modo per permettere ai forti di prevaricare sui deboli, dove risiede il loro valore di diritto?

L’esito di questa contraddizione è che ciò che dovrebbe esser percepito come diritto, la vita, lo si interpreta alle volte come una “condanna”: la condanna a vivere. Fra le motivazioni che vengono addotte a favore dell’aborto, molte vanno in questa direzione. Per esempio, quando si crede che una vita menomata nella salute fin dal suo inizio sia necessariamente destinata ad esser pessima o infelice. Oppure, quando si ritiene che le circostanze dolorose del concepimento determineranno gli esiti infausti della vita del nascituro. Nessuno, in realtà, ha una magica clessidra sul futuro: la nostra mente umana non può predeterminare in assoluto ciò che accadrà.

Oppure ancora si ritiene la vita una condanna quando alcune condizioni di salute intervenute nella vita, sono sentite come impedimenti all’espressione di sé: malattie gravi, forme più o meno gravi di paralisi, ecc... In tutti questi casi, il considerare la vita come diritto assegnato dagli uomini, conduce, per assurdo a percepirla come un peso doloroso da sopportare, tanto da concludere tragicamente: “varrebbe la pena non esser mai nati”, frase che lo stesso Giobbe affermò nelle dolorose circostanze in cui si trovò a vivere.

Per uscire da questa sorta di circolo vizioso “diritto-privilegio-condanna” cui siamo costretti dalla

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

mentalità odierna, potrebbe essere utile lasciarsi ispirare dagli altri due concetti: dono e mistero. Partiamo dal secondo. Qualcosa è un mistero quando non è un semplice “enigma”. Un enigma può essere risolto con la forza di un ragionamento. Un mistero, invece, è qualche cosa di fronte a cui si prova sempre meraviglia: ci si accorge che non gli si può dare spiegazione. Ecco: la vita è spesso proprio così: appare inspiegabile. Pensiamo alle buone o infauste circostanze che la costellano. Agli incontri casuali con altri che diventano motivo di crescita o di guai.

Molto della vita accade al di là di ciò che attendiamo, nel bene e nel male. Perciò, o essa è frutto del caso, della fortuna o dell’arbitrio di divinità illogiche. Oppure, essa è percepibile realmente, dentro un cammino di comprensione lento e faticoso, come un dono continuamente regalato da Colui che ne è l’unico vero Signore. Un dono che è opportunità; in particolare, opportunità di crescita in umanità, attraverso processi di umanizzazione. Noi esseri umani, infatti, non nasciamo bell’e fatti: siamo chiamati a perseguire una finalità stando in vita: diventare gli uomini che Dio sa possiamo essere, quando lo vogliamo con cuore sincero.

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In questo, il dono che ci viene fatto da Dio, la vita, non è un souvenir da mettere in mostra. È un prestito da investire per far crescere un’impresa: l’impresa di raggiungere quel previlegio che è la salvezza di un’anima imperfetta, che, non sentendosi condannata al peccato, può imparare nel tempo a purificarsi, cogliendo il meraviglioso mistero della misericordia divina, per giungere alla felicità a cui aspira... per diritto divino.

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SULLA DIGNITÀ UMANA

“Dignità della persona” è una delle parole più inflazionate e sconosciute nel loro significato. In bioetica, tutti la utilizzano e la invocano: sia coloro che combattono contro l’eutanasia, sia coloro che la sostengono. Dignità della persona, infatti, è espressione anfibologica, ossia un’espressione contenente un’ambiguità sintattica o semantica e dunque interpretabile in modi diversi a seconda del modo di leggerla. La nozione di dignità non è univoca, se così non fosse non accadrebbe che alcuni, in nome della dignità, invocassero ad esempio l’eutanasia come diritto umano e altri, in nome della stessa dignità, all’opposto la considerassero un delitto. Non è questione di applicazione del termine, ma del suo significato. Ma «le parole sono la sola cosa per la quale valga la pena combattere»1, come diceva Chesterton. Ne va del destino dell’uomo. Partiamo dalla definizione riportata dalla Garzanti:2 1. nobiltà morale che deriva all’uomo dalla sua natura, dalle sue qualità, e insieme rispetto che egli ha di sé e suscita negli altri in virtù di questa sua condizione: comportarsi con dignità; una persona priva di dignità; difendere la propria dignità

La dignità, secondo tale definizione, deriva dalla natura stessa dell’uomo. Stessa cosa si legge nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo: « L’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità ». Ma è veramente così? Tali definizioni ci dicono da dove la dignità deriva senza, però, dimostrarlo. Diventa significativo il terzo significato riportato dalla Garzanti: 3 (non com.) principio filosofico generale; postulato, assioma.

La dignità è un postulato od un’assioma? La risposta a questa domanda è decisiva. Secondo la filosofia scolastica, la dignità è un’assioma, che è “verità, principio che per la sua evidenza non ammette discussioni | (filos., mat.) verità di per sé evidente e indiscutibile, che sta alla base di ogni dimostrazione” 3 . I medievali per significare il primato assoluto di questi principi usarono il temine dignitas, li chiamarono dignitates, ciò che per noi è “assioma”

per i medievali era “dignitas”. “Dignità” vuol dire “non dipendere da nessuno”; un mezzo dipende da chi lo usa, se c’è qualcosa che non dipende da nessuno certo non è un mezzo; da qui deriva il fatto che la persona non può essere un mezzo ma deve essere sempre un fine.

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

La struttura della Kalenda è simile a quella del Prologo del Vangelo di Giovanni che si proclama nella Messa del giorno di Natale (la liturgia del Natale prevede tre formulari di Messe: della notte, dell’aurora e del giorno) perché entrambi indugiano a lungo su uno sguardo “grande”.

Problema risolto? Per nulla! In che cosa consiste questa dignità? Bisogna trovare nell’uomo qualche cosa che lo renda a tal punto assoluto da non appoggiarsi solamente su se stesso. Allora diventa chiaro che la dignità della persona umana è strettamente, metafisicamente legata alla presenza intima di Dio nell’uomo. Paolo Pasqualucci, nel suo ottimo libro4, cita padre Serafino Lanzetta: “La dignità umana deve esser rinvenuta nel momento iniziale della creazione, quando Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, elevandolo in tal modo alla condizione della giustizia originaria. Con il peccato, l’uomo ha perduto la giustizia e ha perduto la sua dignità, che gli sarà restituita da Cristo con la grazia santificante. Così l’uomo viene giustificato e ricreato grazie a Dio nella giustizia e nella verità, costituendo esse la radice della sua dignità”.

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Continua Pasqualucci: “L’autentica concezione cristiana dell’uomo, in quanto natura creata, sulla quale fondare in modo corretto il concetto della dignità, è dunque così articolata: una natura pura, creata da Dio, cui si aggiunge la natura creata ed elevata da Dio, capace del bene come del male a causa della libertà di cui gode ma già orientata verso il fine sovrannaturale, costituito dalla vita eterna nella Visione Beatifica. Questa concezione è unitaria nonostante debba distinguere tra natura, preternaturale, sovrannaturale. Ecco dunque l’emergere della vera dignità dell’uomo. Era quella dell’uomo eletto ad essere “immagine e somiglianza di Dio” grazie ai doni preternaturali. Dopo il peccato di disobbedienza, l’immagine, significante la condizione della semplice natura creata, corpo e anima, è rimasta, sia pure con le limitazioni imposte dalle conseguenze della Caduta, mentre la somiglianza, nella quale si attuava lo stato di giustizia e santità originarie, è andata perduta. E con ciò la vera dignità dell’uomo è stata ferita. L’equilibrio tra uomo e Dio, quale si aveva nell’Eden, è scomparso. Questa è dunque la verità da ristabilire a proposito del concetto cattolico della dignità dell’uomo: non esiste una dignità dell’uomo in sé, in quanto uomo”.

Se si toglie di mezzo Dio la dignità scade a postulato, che è una “proposizione non dimostrata e non dimostrabile che viene ammessa come vera, in quanto necessaria per dimostrare un fatto, una

2 https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=dignit%C3%A0

3 http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=assioma

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1 Citato da M. De Corte ne “Della Prudenza. La più umana delle virtù” Edizioni Piane
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4 “La falsa dignità. Una visione dell’uomo spesso fraintesa” Paolo Pasqualucci ed. Fede & Cultura di Andrea Mondinelli

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teoria ecc.”5 Questa accezione che tanto piace al mondo laico, perché toglie di mezzo Dio, allo stesso tempo depotenzia in maniera spaventosa il concetto di dignità, che, diventando una semplice convenzione umana, non è più un principio primo, non è più né verità, né virtù. Infatti, mentre l’assioma è verità indiscutibile, il postulato è solamente ammesso come vero, non è vero di per sé. Quel come è molto significativo, perché ci ricorda Gen. 3,4-5: “Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male»”. La dignità come postulato è una moneta falsa, taroccata e manipolabile. Ora, si capisce il motivo della contraddizione da cui siamo partiti: la parola dignità è la stessa, ma il significato, il concetto che esprime è sottilmente diverso, è quasi uguale, ma come ci ricorda bene G.K. Chesterton:6 “La falsità mai è tanto falsa quanto più è vicina alla stessa verità. Quando il dardo colpisce vicino al nervo della verità, la coscienza cristiana grida alto per il dolore”.

Abbiamo eliminato l’equivoco: è l’uomo stesso che normatore di se stesso (autonomos) dichiara chi ha o non ha dignità, in base ad una convenzione consensuale, o meno. Per rendersene conto, basta cogliere il pensiero dei campioni bioeticisti della cultura della morte. T.H. Engelhardt7 dichiara che i diritti di non interferenza possono trovare attuazione anche in assenza di convergenze non puramente formali su una nozione di bene. Basta il riconoscimento che, quando ci incontriamo come stranieri morali, noi possiamo derivare una comune autorità morale dal consenso, anche se non riusciamo a metterci d’accordo su come derivarla da Dio o dalla ragione. Ed uno dei “consensi” riportati nel suo manuale di bioetica è il seguente: “Non tutti gli esseri umani sono persone. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di nonpersone umane. Tali entità sono membri della specie umana, ma non persone autonome e quindi degne di tutela”8 . Togliere di mezzo Dio, come fondamento della dignità umana, porta ad un vero e proprio delirio di onnipotenza laicista: “uccidere un neonato con malformazioni non è moralmente equivalente a uccidere una persona. E molto spesso non è per niente sbagliato”9

L’unico modo di contrastare questa vera e propria follia è quello di essere testimoni coraggiosi e senza cedimenti della verità tutta intera, usando bene quel

5 http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=postulato%201

6 G.K. Chesterton “San Tommaso d’Aquino”

7 intervento apparso su Il Sole 24 Ore del 16 aprile 1999: http://centrotobagi.altervista.org/engelhardt.html

T.H. Engelhardt Manuale di bioetica, cit., p.126

9 Peter Singer. Etica pratica pag. 140 ed. italiana

grande dono di Dio che è la ragione umana, illuminata dalla fede.

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

In conclusione, un abisso separa la concezione cristiana della dignità dell’uomo da quella laica, oggi dominante. Ecco il punto fermo da tener presente: il fondamento della dignità della persona risiede in Dio e, di conseguenza, il concetto della nostra dignità è inseparabile dall’illustrata dialettica di peccato e redenzione.

La struttura della Kalenda è simile a quella del Prologo del Vangelo di Giovanni che si proclama nella Messa del giorno di Natale (la liturgia del Natale prevede tre formulari di Messe: della notte, dell’aurora e del giorno) perché entrambi indugiano a lungo su uno sguardo “grande”.

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LIBRO CONSIGLIATO

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“La falsa dignità. Una visione dell’uomo spesso fraintesa” Paolo Pasqualucci ed. Fede & Cultura

RIFLESSIONI A MARGINE DELL’ENCICLICA “CARITAS IN VERITATE”

di Paolo Maggi

Il compianto pontefice Benedetto XVI (1927-2022) scrisse tre encicliche, di cui la “Caritas in veritate” (per comodità la abbrevieremo in CIV) è l’ultima in ordine di tempo essendo uscita nel 2009. In essa quanto già enunciato in ambito teologico ed antropologico nella “Deus caritas est” (2006), sua prima enciclica, viene applicato al campo della dottrina sociale della Chiesa e sviluppato guardando anche alla globalizzazione con occhio cristiano.

I due documenti magisteriali andrebbero letti come in sinossi perché si integrano e si richiamano a vicenda.

Qui desideriamo sviluppare soltanto alcune brevi riflessioni. Soffermiamoci solo sui due termini cardine: ‘verità’ e ‘carità’. Possiamo asserire che: (1) la verità è trinitaria (Gesù ha detto di essere la Verità. E’ Vero il Figlio come è Vero il Padre e Vero lo Spirito Santo. “Con il tuo unico Figlio e con lo Spirito Santo, sei un solo Dio, un solo Signore; non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza”)1; (2) cristologica (nel Credo recitiamo: “Gesù Cristo...Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”; Gv. 14,6: “Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”)2 ; (3) eucaristica e perciò stesso liturgica ed ecclesiale (nel Canone della S. Messa: “Questo è il mio corpo”… “Questo è il calice del mio sangue, della nuova ed eterna alleanza”);

(4) fondante la liberazione dell’uomo (Gv. 8, 32: “ La verità vi farà liberi”); (5) processuale (Gv. 3, 21: “Ma chi opera [fa] la verità viene alla luce”. Giovanni usa il verbo greco ‘poièin’ che indica il creare, il fare, un fare creativo in cui mente e materia cooperano pienamente);

(6) escatologica (1 Cor. 13,13: “Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”. Vi è il tema di Dio che dice la verità dell’uomo all’uomo).

Si potrebbero sviluppare le stesse asserzioni specularmente anche per quanto attiene la ‘carità’. Semplificando facciamo notare che dal momento che Dio è ‘caritas’, essa è sicuramente trinitaria e cristologica, eucaristica-liturgica-ecclesiale (Gv. 22, 1920: “Questo è il mio corpo che è dato per voi… “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”), liberante l’uomo (1 Gv. 4,16: “chi sta

nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Non è possibile che Dio non sia libero e non voglia la nostra libertà se ci vuol fare dimorare in Lui), processuale (2 Gv. 6: “E in questo sta l’amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti”), escatologica (Mt. 25, 34-36: “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venire, benedetti dal Padre mio... Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”).

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

La verità è nell’Essere, in Dio, da cui viene ogni creatura (che presenta la duplice caratteristica di ‘esistere’, cioè di collocazione nella realtà, e di ‘possedere un’essenza’, cioè un proprium specifico connotante). Da ciò si comprende come ogni creatura sia vera, perché viene dal Vero e dal Vero viene intessuta di una sua propria verità.

La struttura della Kalenda è simile a quella del Prologo del Vangelo di Giovanni che si proclama nella Messa del giorno di Natale (la liturgia del Natale prevede tre formulari di Messe: della notte, dell’aurora e del giorno) perché entrambi indugiano a lungo su uno sguardo “grande”.

Così è anche per la carità che non può non risiedere nell’Essere (1 Gv. 4,8: “Dio è amore [carità]”) da cui procede una Sua comunicazione all’uomo, creatura morale capace di atti di carità e fatta capace, dalla grazia divina che concorre con le buone disposizioni del cuore umano, di compierne.

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Tra verità e carità vi è reciprocità (dall’una vai all’altra), circolarità (l’una non è senza l’altra. Ef. 4,15: “...vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui che è il capo, Cristo”), origine extraumana (l’uomo non la rinviene in sé, ma la scopre dentro di sé con l’aiuto della grazia).

Ciò perché la verità nostra (a livello essenziale), quella su di noi, ci è prima di tutto data (è esogena, proviene da fuori degli angusti confini del nostro ego). Come l’amore non nasce dal pensare o dal volere, ma in certo qual modo si impone all’essere umano (CIV, n. 89).

La carità, pure, è un ‘dare’ perché ci viene da Dio e ci consente, con la Sua grazia, di vincere (almeno puntualmente) il nostro egoismo, le passioni, i vizi e di esercitare le opere di misericordia corporale e spirituale perché altrimenti risulterebbe vana se non

1 Traduzione italiana del Prefazio della SS.Trinità, Missale Romanum editio typica 1962 2 Per le citazioni bibliche usiamo la traduzione italiana de: La Sacra Bibbia, versione ufficiale C.E.I. 1974.
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s’incarnasse nel nostro orizzonte vitale e morale, come ci ricorda ancora la Parola di Dio (Gc. 2,26: “Infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere”).

L’uomo esercita la propria verità e manifesta l’amore (ci verrebbe voglia di usare uno strano neologismo, e cioè che l’uomo esercita e manifesta davvero la propria ‘vericarità’) quando si riconosce nelle parole bibliche: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen, 1,27) e: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen. 2,15).

‘Coltivazione’ e ‘custodia’ sono le due parole in cui collocare operosamente la nostra verità e la nostra carità di cristiani. Esse ci schiudono gli occhi interiori sui problemi globali che attendono anche una nostra risposta.

Francesco nell’enciclica “Laudato si’ ”, a proposito della problematica ambientale (uno dei tanti aspetti trattati dalla dottrina sociale cattolica), scrive: “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola complessa crisi socio-ambientale” (LS, n. 139) e, ancora, nell’esortazione apostolica: “Querida Amazonia”: “ Non ci sarà ecologia sana e sostenibile, in grado di cambiare qualcosa, se non cambiano le persone, se non le si sollecita ad adottare un altro stile di vita, meno vorace, più sereno, più rispettoso, meno ansioso, più fraterno” (QA, n. 58).

Questo perché la radice dei molti problemi globali che sollecitano risposte di giustizia sociale è anzitutto morale e spirituale.

L’uomo, lo ribadiamo, è davvero libero quando pratica la carità, cioè quando la vive nella concretezza della brevità della sua vita. Non nasciamo liberi (alla nascita siamo condizionati dalla caducità e da molteplici ostacoli sia interni alla nostra natura sia esterni); lo possiamo diventare seguendo Gesù Cristo e la carità è via maestra di santificazione e di conseguimento della libertà autentica e piena.

Se volessimo riflettere ad esempio sul diritto (assumiamolo in tutta la sua importanza perché è norma del vivere sociale e l’uomo è pure un animale sociale), che concorre a fondare le regole del vivere civile e degli ordinamenti istituzionali e sociali che ne derivano dovremmo trovare il modo di rimandare alla sua sorgente che è la legge naturale voluta da Dio, verità e carità del mondo.

Il diritto per non diventare qui sulla terra, nel tempo della nostra vita, un arbitrio disumano a sedicente ispirazione divina (come, ad esempio, nelle “teocrazie” degli ayatollah, dei taliban, del Daesh) oppure una anonima (altrettanto disumana) congerie di gruppi d’interesse e di poteri assolutamente autonomi (nel senso di non rendenti conto a nessuno) deve trovare il suo giusto alveo nella cooperazione tra poteri temporali e poteri spirituali.

Il testo della Kalenda ripercorre alcuni eventi storici molto circostanziati; anzi, si coglie una vera e propria insistenza sui numeri (gli anni trascorsi da tali eventi e addirittura i mesi della gestazione nel grembo di Maria), sui luoghi (Ur dei Caldei, Egitto e Betlemme) e sui nomi (Abramo, Mosè, Davide, Daniele, Cesare Ottaviano Augusto, la Vergine Maria, Gesù Cristo). Nel testo precedente all’ultima riforma liturgica c’era anche il conto, ovviamente ipotetico, degli anni trascorsi dalla creazione, cinquemilacentonovantanove, oggi più pudicamente espresso come “molti secoli”. Questa precisione ha un significato immediato che è quello di ribadire la verità che Cristo è nato davvero nella carne, contro ogni gnosticismo, tentazione anche oggi in agguato.

Si tratterà, pertanto, di tentare una loro convergenza ispirata dal Vangelo che, pur soggetta ai limiti della condizione umana, sia improntata a fratellanza (che rimanda alla comune origine dell’umanità)3 e giustizia intergenerazionali per tendere al fine dello sviluppo integrale della nostra umanità, che i cattolici ritengono risiedere nella santità (nostra interpretazione di CIV, nn. 57 e 59).

Come “invito alla lettura” proponiamo, come altro punto di vista, “Catechismo dei diritti divini sull’ordine sociale”, un’opera agile di 66 pagine del redentorista Padre A. Philippe CSSR, un e-book scaricabile in formato PDF dal sito Internet “Totus tuus” (http://www. totustuus.cloud).

La struttura della Kalenda è simile a quella del Prologo del Vangelo di Giovanni che si proclama nella Messa del giorno di Natale (la liturgia del Natale prevede tre formulari di Messe: della notte, dell’aurora e del giorno) perché entrambi indugiano a lungo su uno sguardo “grande”.

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INVITO ALLA LETTURA

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3 Preferiamo tale termine a quello di ‘solidarietà’, che ci sembra avere una connotazione più sociologica ed economica, a nostro giudizio meno appropriata.

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