Tutto ciò che si manifesta è luce

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Numero 1/2012 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica Tutto ciò che si manifesta è Luce

La Siria e le nuove vittime

La manovra fiscale del Governo

Identità cristiana e nuova evangelizzazione

Celebrare e comprendere il mistero pasquale

Testimonianza cristiana e pluralismo religioso



Editoriale

Sommario 1/2012 4 5 6 8 9 10 12 14 16 22 23 24 30 32 33 35 37 39 40 42 44 45 46 47

Editoriale di Edoardo Scognamiglio Finestra sul mondo di Felice Autieri Il Punto di Filippo Suppa Politica-Economia di Vienna Iezzi Psicologia di Caterina Crispo Costume-Società di Carmine Vitale Dialogo di Edoardo Scognamiglio Voci di Chiesa La Redazione Famiglia di Gianfranco Grieco Evangelizzazione La Redazione Orizzonte Giovani di Luca Baselice Missioni di Giambattista Buonamano Liturgia di Giuseppe Falanga Credere oggi di Pietro De Lucia Spiritualità di Clara Fusciello Asterischi francescani di Orlando Todisco Pastorale di Antonio Vetrano Approfondimenti di Edoardo Scognamiglio Un po’ di storia di Felice Autieri Arte di Paolo D’Alessandro Eventi La Redazione Sport La Redazione Cinema di Giuseppina Costantino In book La Redazione Fumetti La Redazione

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Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana. Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006. Anno VII – n. 1/2012 Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro – e-mail: pdart@libero.it

Abbonamento annuale 20 euro CCP: 11298809, intestato a E. Scognamiglio, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli Clausola: abbonamento Luce Serafica 3

L’immortalità viene dalla risurrezione della carne

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e la filosofia coltiva la conoscenza della morte e, secondo Platone, insegna l’arte del ben morire (ars moriendi), solo la fede cristiana insegna come bisogna morire nella risurrezione. L’incarnazione del Verbo, l’Emmanuele, rappresenta già la risurrezione. In effetti, il Verbo si unisce alla natura “morta” per vivificarla e guarirla dallo stato di suprema disgregazione in cui si trova. L’immortalità, dunque, viene dalla risurrezione della carne, dalla penetrazione dello Spirito di vita in tutte le nostre strutture e forme. Questo è il mistero della Pasqua. Carissimi amici e fratelli, è così che mi piace pensare all’avvicinarsi della Pasqua: la Luce che si manifesta nella Notte santa non solo rivela quello che siamo realmente (il giudizio) e vince la morte e il peccato, ma ci introduce nel cuore di Dio, della Trinità, e ci lascia contemplare fino in fondo l’amore del Padre per il Figlio nella forza inconcepibile dello Spirito Santo. La Pasqua, allora, è il mistero della Luce che vince per sempre le oscurità del mondo e del male. La Pasqua è l’inizio di un nuovo dialogo tra Dio e l’umanità. Questo dialogo, questa parola, è il Verbo crocifisso e risorto che spalanca a ogni persona di buona volontà le porte del Cielo. La risurrezione di Gesù afferma che tutto è sotto il dominio del Padre e che la porta della morte è cambiata in porta della vita. Durante gli uffici della notte di Pasqua, nella liturgia ortodossa del sabato santo, il sacerdote e il popolo lasciano la chiesa. La processione si ferma all’esterno davanti alla porta chiusa del tempio. Per un breve istante, questa porta chiusa rappresenta la tomba del Signore, la morte, gli inferi. Il sacerdote fa il segno della croce sulla porta e per la forza irresistibile di questo segno la porta – come d’altronde le porte degli inferi – si apre totalmente e tutti entrano nella chiesa inondata di luce cantando: “Cristo è risorto dai morti, ha vinto la morte con la morte e ai dormienti nei sepolcri ha donato la vita”. Così, la porta degli inferi ritorna ad essere la porta della Chiesa. Auguriamoci di attraversare la porta della vita illuminati dalla grazia dello Spirito Santo. Buona Pasqua! P. Edoardo Scognamiglio Ofm conv.


FINESTRA SUL MONDO di Felice Autieri

Il rigido inverno e la chiarezza dei valori

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l freddo di questo periodo ha messo un po’ a soqquadro la nostra penisola, causando diverse difficoltà a seguito delle rigide temperature e dell’abbondante caduta di neve in diverse zone della penisola. Gli estenuanti bollettini meteo, le immagini di città come Roma innevate, ci fa capire come il creato non dipenda dalla nostra volontà, ma da tutta una serie di fattori che possono rendere la vita imprevedibile. Quanti di noi si sarebbero aspettati un inverno così rigido con tutte le conseguenze che ne scaturiscono? Ebbene, l’imprevedibilità meteorologica di questo rigido inverno ci potrebbe suggerire una serena riflessione su ciò che accade in noi e intorno a noi. Quante volte pensiamo che le cose dovrebbero andare in “un certo modo”, a condizione che questo “modo” corrisponda alla nostra volontà e ai nostri desideri? Questo è, più che giusto, ma ritengo che, dinanzi alle scelte più o meno significative o importanti della nostra vita, siamo chiamati sempre a capire se questo “modo” è veramente giusto per noi, se veramente può farci del bene o farci del male. Penso che nella nostra società manchi spesso questa “semplice” chiarezza di comprendere ciò che è bene e ciò che è male, evitando qualsiasi moralismo o atteggiamento manicheo. La chiarezza dei valori è importante proprio in un mondo che fa del relativismo uno stile di vita, dimenticando che non è possibile che tutto sia relativo. La domanda è molto semplice: relativo verso che cosa? Il credente ha la certezza della presenza di Cristo, capace di donarci quella linfa vitale che ci consente di recuperare

la parte più vera di noi stessi, partendo dal bene che c’è in noi e da quel seme di verità, da cui scaturisce quello spirito di discernimento che ci consente di maturare delle scelte valoriali importanti non solo per le nostre persone, ma anche per quel piccolo mondo nel quale viviamo e ci rapportiamo. La ben nota questione morale per un credente, non è pertanto un concetto astratto, ma il recuperare i valori che sono presenti nel nostro patrimonio culturale e religioso. Purtroppo, il passato è stato spesse volte ridimensionato per scelte ideologiche oppure per banali correnti culturali che si sono sviluppate dal ’68 in poi. Una scelta di campo è obbligatoria per tutti, chiesa e laici, non è un’opzione che riguardi solo una categoria a discapito dell’altra, tutti abbiamo necessità di recuperare qualcosa rispetto alla necessità di rispondere ad un vuoto che è presente in tutti gli ambiti della società e che non può essere sottaciuta. Partiamo oggi da quelle realtà vive della nostra società, forse poco riconoscibili perché lontani dagli schiamazzi dei media o da un certo mediocre presenzialismo e seguiamo la scia di quanti nella silenziosa operatività s’impegnano per dare un contributo positivo allo sviluppo umano e spirituale del nostro paese. Non può essere pertanto un periodo di freddo rigido a sorprenderci, ma la nostra capacità di poter attingere al nostro percorso di fede per maturare quegli stimoli significativi che con consentano di opporre ad una cultura disfattista o precaria quell’equilibrato ottimismo cristiano capace di trasformare il male in bene, il dubbio in una fiducia radicata in Cristo.

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IL PUNTO di Filippo Suppa

Siria: l’esercito intensifica l’offensiva Il cinismo di Assad e le nuove

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’esercito siriano intensifica l’offensiva su Idlib, mentre prosegue con scarsi progressi la missione di Kofi Annan. I video amatoriali – come sempre difficili da verificare – mostrano attacchi, combattimenti e manifestazioni di protesta, da Homs a Deraa, fino a Idlib. È qui, nel nordest del Paese, che sembra concentrarsi ora l’attenzione delle forze governative, decise a piegare gli oppositori. L’inviato speciale di Nazioni Unite e Lega Araba – l’ex-Segretario generale dell’Onu Kofi Annan – ha iniziato nella seconda settimana di marzo la sua visita in Siria, proseguendo per Doha. Ma gli incontri del 10 e dell’11 marzo a Damasco con Bashar al Assad sembrano rivelarsi infruttuosi. E forse, di questa prima missione non gli resterà molto di più di un souvenir ricevuto in dono dai leader religiosi incontrati nella capitale. Annan ha sottoposto ad Assad una serie di proposte concrete. Assad ha ribadito di essere contrario a soluzioni politiche prima che i terroristi – alludendo agli oppositori – siano neutralizzati. Intanto, l’Osservatorio siriano dei Diritti umani aggiorna un bilancio ormai fatto di migliaia di morti. Nella seconda settimana di marzo sarebbero stati un centinaio. Sotto una pioggia di colpi di mortaio, raffiche di mitra, colpi di cecchini e rastrellamenti dell’esercito del presidente, sempre più civili siriani cercano di sfuggire alla repressione. Sono tra mille e duemila, secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, i siriani che da Qusair stanno attraversando la frontiera con il Libano. Cercano la salvezza: la città si trova ad appena una doz-

zina di chilometri dal confine. Donne e bambini arrivano principalmente a piedi. Sul campo sono numerose le zone teatro di scontri. L’esercito ha colpito nuovamente Homs, dove la croce Rossa ha iniziato a distribuire gli aiuti ricevendo anche l’ok per entrare a Bab Amro, quartiere abbandonato dai ribelli nei giorni scorsi dopo un mese di bombardamenti. Gli attivisti riferiscono di raid delle forze governative ad Hama e di una pesante offensiva anche a Rastan, nella provincia di Homs. Il regime siriano punta alla caduta di Idlib mentre continua l’assedio ad Homs e si registrano violenti scontri nella città di Deraa. Fonti del Libero Esercito di Siria affermano di aver attaccato contingenti delle forze fedeli al Presidente Bashar Al-Assad a Deraa. Intanto, l’assedio alla roccaforte della ribellione Homs, che dura da quasi un mese, si fa sempre più duro, con il fulcro dei combattimenti nella periferia di Bab Amro. La Croce Rossa Internazionale e la Mezzaluna Rossa hanno potuto cominciare a distribuire cibo nelle località circostanti Homs, ma non hanno ancora l’accesso alla città sotto assedio. Se la repressione del regime di Bashar al Assad contro i ribelli non conosce sosta, dopo 358 giorni la diplomazia lentamente muove qualche passo: “il dittatore cadrà” ha detto Barak Obama e il segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta ha ammesso che si sta valutando la possibilità di fornire aiuto agli insorti, ma non armi. A New York, nel frattempo, i cinque componenti permanenti dell’Onu più il Marocco, discutono su una nuova bozza di risoluzione che possa avere l’ok anche di Russia e Cina.

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POLITICA-ECONOMIA di Vienna Iezzi

Manovra Monti: le misure fiscali del Governo

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assato il rumors mediatico attorno alla tanto discussa Manovra Monti, proviamo a fare un breve riassunto in pillole sui vari provvedimenti contenuti nel decreto Salta Italia. Lo facciamo senza scendere nell’analisi precisa ma semplicemente limitandoci a definire le coordinate di fondo. TFR e compensi per gli amministratori di società di capitale Le indennità di fine rapporto per i lavoratori dipendenti e assimilati, nonché, in ogni caso i compensi e le indennità percepiti dagli amministratori delle società di capitali, il cui diritto alla percezione è sorto dal 1° gennaio 2011, non sono ammesse a tassazione separata per l’importo complessivamente eccedente un milione di euro. L’eccedenza è soggetta insieme agli altri redditi all’imposizione ordinaria. Prescrizione anticipata per le Lire Le banconote e le monete in Lire non possono più essere convertite in Euro.

Abolizione province In attesa della loro soppressione, per la quale necessita una legge di natura costituzionale, avranno solo funzioni di indirizzo politico e di coordinamento dei Comuni. Organi della provincia sono il presidente del Consiglio provinciale eletto tra i membri del Consiglio, ed il Consiglio stesso, composto da non più di 10 membri eletti dai Comuni compresi nella provincia. Gli eletti restano in carica per 5 anni. Entro il 31/12/2012 con specifiche leggi, le funzioni, le risorse ed il personale in forza alle attuali Provincie saranno trasferite ai Comuni ed alle Regioni. ISEE Entro il 31 maggio prossimo il “riccometro” verrà rivisto, per renderlo più preciso soprattutto per quanto riguarda la ricchezza patrimoniale delle famiglie e la percezione di somme esenti da imposte. Il parametro ISEE potrà essere utilizzato anche per stabilire il diritto alle deduzioni ed alle detrazioni per la dichiarazione dei redditi. Intensificati i controlli. 6

Tracciabilità pagamenti Il limite all’uso del contante si riduce da euro 2.499 a euro 999,99. L’adeguamento riguarda anche i libretti di deposito al portatore da ridurre entro il suddetto importo entro il 31/03/2012. Stipendi, pensioni e prestazioni pagabili solo tramite banca I pagamenti per importi superiori a euro 1.000 effettuati dalla Pubblica amministrazione per prestazioni, stipendi e pensioni, devono essere effettuati con accrediti su conti correnti bancari o postali, carte di credito o prepagate. Verranno concordate con le banche le modalità di assegnazione ai contribuenti di un conto corrente base che non avrà costi per i pensionati al minimo e per i titolari di assegno o pensione sociale. Mutui prima casa Aumentato il fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa.


Accise carburanti Dal 7 dicembre le accise sui carburanti sono aumentate per oltre euro 0,13 per il gasolio e euro 0,10 per la benzina Iva inclusa. Tassa sul lusso Viene inasprita l’addizionale sulle auto di potenza superiore a 185 Kw (252 cavalli): euro 20 per ogni Kw di potenza eccedenti 185, a scendere in relazione all’età del mezzo. Addizionale regionale Irpef Con effetto già risentito fin dal 2011, l’aliquota base dell’addizionale regionale passa da 0,9% all’1,23%. I primi a risentire dell’aumento saranno i dipendenti e i pensionati, le somme in pagamento a gennaio subiranno il maggior prelievo. Imposta sugli immobili all’estero Nuova imposta patrimoniale dello 0,76% sul valore degli immobili all’estero. Sono soggetti le persone fisiche residenti in Italia proprietarie o titolari di diritti reali sugli stessi immobili. Il valore dell’immobile su cui calcolare l’imposta è pari al costo risultante dall’atto di acquisto. In

mancanza di tale valore, il valore di mercato rilevato nel luogo dell’immobile. Deducibilità IRAP Dal 2012 è deducibile dal reddito di impresa la quota Irap pagata e determinata sulle spese per il personale dipendente. Per i lavoratori di sesso femminile e per quelli di età inferiore a 35 anni, assunti anche prima del 2012 con contratti a tempo indeterminato, è disposta una deduzione dall’Irap di euro 10.600 (euro 15.200 per Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia). Imposta Municipale Propria (ex Ici) In sostituzione dell’Ici, debutta nel 2012 l’Imposta Municipale Propria. Assorbe la maggiorazione del 33% ai fini Irpef per gli immobili tenuti a disposizione (sfitti). È soggetta alla “nuova Ici” anche la casa di abitazione e la relativa pertinenza, anche se rurale. Tributo comunale sui servizi Dal 2013 è istituita una nuova ta-

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riffa/tributo per il servizio di raccolta rifiuti e servizi comunali indivisibili. Sostituisce la Tassa sui rifiuti (e la Tia) e istituisce il nuovo tributo sui servizi comunali. Il tributo è unico ma composto da due parti, determinate con modalità diverse che verranno stabilite con un provvedimento del Ministero dell’economia. Obbligato a pagare è il detentore dell’immobile, compreso l’inquilino se occupa l’immobile per almeno 6 mesi. Aumento aliquote IVA Dal primo ottobre 2012, le aliquote IVA del 10 e del 21% aumenteranno di due punti percentuali se non verranno effettuati i previsti risparmi attesi dalla prossima riforma fiscale. Ulteriore aumento dello 0,5% dal primo gennaio 2014. Scudo fiscale Le somme rimpatriate con pagamento del 5% di imposta sostitutiva, sono soggette a un imposta di bollo del 0,1% per il 2012, 0,135% per il 2013 e 0,04% per il 2014.


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Il mistero della nostra indentità

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e qualche vero saggio ci dovesse improvvisamente chiedere chi realmente siamo, subito ci verrebbero in mente i rapporti parentali, le relazioni sociali, la nostra struttura biologica in relazione all'ecosistema, la nostra storia personale con i fatti, gli eventi, le emozioni, gli affetti, i sentimenti, i disagi, ecc. Forse tutto verrebbe sintetizzato superficialmente nel nostro “nome e cognome”. Molti vi aggiungono titoli accademici, onorifici o nobiliari e così pensano di poter essere subito identificati per il loro prestigio. S’immedesimano talmente nel loro ruolo che alla domanda “chi realmente sei?” non riuscirebbero a capire le reali intenzioni dell’interlocutore saggio. Affermerebbero, impacciati, di essere l’avvocato Tal dei Tali, il prof. Pinco Pallino, il dott. Sempronio, l’imprenditore Caio ecc. Ma è

come se rispondessero: “io sono ciò che penso di fare”. Se il saggio suggerisse loro di lasciar perdere tutte le maschere sociali per definire più onestamente se stessi, molti entrerebbero in crisi. In effetti noi pensiamo di essere qualcuno perché ci identifichiamo quasi sempre nel ruolo in modo convenzionale. Ma la domanda CHI SEI? presuppone una seria riflessione sul nostro “esserci” qui e adesso nel senso esistenziale. La nostra più profonda riflessione dovrebbe portarci a smascherare le illusioni sul concetto di “io” che abbiamo. Se mettessimo coraggiosamente tra parentesi ruoli sociali, legami affettivi e di sangue, lo stesso cognome e nome, rimarrebbe puramente la nostra persona con il suo DNA e il suo temperamento. E approfondendo ci accorgeremmo che nemmeno la nostra struttura

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biologica ereditata dal patrimonio umano o la nostra psiche formata nel contesto sociale, basterebbero ad identificarci. Questo perché sappiamo bene che tutto l’Universo muta continuamente e noi non siamo mai uguali al nostro “io” precedente, come nessuna essenza è perfettamente identica all’altra. Allora, chi siamo? Risposta difficile, misteriosa, che presuppone un punto di riferimento saldo, immutabile, eterno. Se ogni persona (i sei miliardi di uomini che abitano sulla terra sono un numero esiguo a confronto di quello delle stelle del cielo) cominciasse seriamente a domandarsi chi realmente è per cercare di darsi una risposta non superficiale, cambierebbero molte cose già in questo mondo e forse riscopriremmo tutti con stupore il senso del mistero e la nostra dignità di figli di Dio.


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TUME OCIETÀ

di Carmine Vitale

Nuovi passi contro l’individualismo

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ssere consapevoli della destinazione universale dei beni. Costruire un nuovo «territorio», che favorisca relazioni e tutela dei diritti. Sono questi i passi di un vero cammino di conversione personale e comunitaria. Due gli eventi principali che oggi fanno da cornice alla nostra riflessione sul vizio dell’individualismo e del consumismo: la crisi dilagante e la Quaresima che, nonostante sia ormai avviata alla fine, ci esorta a intraprendere sempre nuovi percorsi di conversione. Qual è l’atteggiamento che il cristiano deve avere? Quello di chi, mentre la folla si dirige in un senso, va invece in tutt’altra direzione. E però, mostrando il volto alla folla controcorrente, ridesta in coloro che lo osservano qualcosa di grande. Mentre tutti parlano di crisi economica, di difficoltà a guadagnare abbastanza e rischiano di ripiegarsi sempre più su se stessi, ecco che il Papa si mette a parlare di digiuno ed elemosina. Ci invita a una relazione più serena, sobria, essenziale con noi stessi. Non perché restiamo lontani dalla gente, ma perché sappiamo immergerci nel mondo che ci circonda con azioni di comunione, di fraternità, di servizio e di carità. Ci prende in contropiede, ma rammenta a tutti qualcosa di essenziale. Senza l’essenziale, infatti, ogni preoccupazione rischia di trasformarsi in ansia quasi patologica degli individui e della società. Perciò, mentre tutti si preoccupano dei soldi, il Papa ci parla di gesti di aiuto per rammentarci che non siamo padroni della vita e dei beni. Per ricordarci che la natura umana è fatta per amare, è fatta per la gratuità. Per invitarci, in definitiva, a vivere l’ordinarietà a partire dalle persone ultime: da chi manca di tutto, da chi non ha lavoro, da chi soffre, da chi non ha una famiglia, da chi è ferito in tanti modi, per riordinare la comunità nel segno della fraternità e della solidarietà. È questa la carta vincente contro l’individualismo, ed è un gesto realista perché prende atto che il bisogno dei poveri attorno a noi è tale che tante nostre pretese e lamenti suonano spesso ad-

dirittura indegni. La carità ricevuta da Dio – nella sua gratuità ma anche espressa dai nostri gesti e dalle nostre parole – diventa carta vincente in una società che ha bisogno soprattutto di cogliere dei segni. D’altro canto la crisi in atto può essere il momento del «fermiamoci e ragioniamo». Proviamo a individuare i passi di un vero cammino di conversione personale e pastorale. In primo luogo i passi dell’utilizzo dei beni rispetto al bene della persona e della comunità. Sono i passi della destinazione universale dei doni che Dio ci elargisce, che chiede l’uscita da ogni forma di mercato e di spreco quotidiano di alcuni beni essenziali: l’acqua, la terra, l’energia…; e relazionali: la pace, l’istruzione, l’informazione, la salute… per arrivare a una condivisione diffusa nel rispetto dell’ambiente, nella moderazione e sobrietà nell’uso delle risorse naturali, e nell’attenzione alla qualità della vita contro uno sviluppo disordinato. Proviamo a individuare nei nostri consumi e stili di vita, anche se apparentemente innocui, abitudini da superare perché sia possibile una giustizia vera, equa per tutti. Ricerchiamo comportamenti e scelte coerenti, che non si accontentano della denuncia, né del singolo gesto benefico; aderiamo a proposte quali il «commercio equo e solidale», il «consumo critico», l’operazione «bilanci di giustizia», le varie forme di «finanza etica». Inoltre, i passi della costruzione di nuovo «territorio», chiamato a favorire incontri, relazioni, confronto, tutela dei diritti. Un territorio aperto che sa gestire il passare delle persone in una logica di prossimità più che di invisibilità. Un territorio che rende accessibili i suoi beni più che farli diventare strumento di differenza e di nuovo protezionismo. Sono passi che ci allontanano dal vizio dell’individualismo e del consumismo, ma che esigono concreti impegni di cambiamento nella vita delle singole persone e di ogni comunità parrocchiale e hanno anche bisogno di essere sostenuti da percorsi educativi che possono dare voce e futuro a queste attenzioni.

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DIALOGO di Edoardo Scognamiglio

Testimonianza cristiana in un mondo multi-religioso I fondamenti dell’agire cristiano in un contesto pluralista

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e linee guida per il comportamento che le Chiese cristiane devono tenere nel professare la loro fede coerentemente con i principi del Vangelo in contesti dove convivono altre religioni sono state oggetto di riflessione da parte del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) e dell’Alleanza evangeli cale mondiale. Queste diverse realtà impegnate per l’ecumenismo e il dialogo hanno lavorato per cinque anni e poi giungere a un accordo su alcune questioni pratiche connesse alla missione in un mondo pluralistico, fatto molto significativo se si considerano i promotori: la maggiore unione fraterna di Chiese cristiane protestanti e ortodosse (Cec), un dicastero della Chiesa di Roma e l’associazione che rappresenta il ramo cristiano maggiormente diffuso nel Sud del mondo e in forte crescita, quello evangelicale. Il documento, esplicitamente intitolato Testimonianza cristiana in un mondo multireligioso. Raccomandazioni di condotta, nella premessa afferma che la missione appartiene all’essenza stessa della Chiesa e che proclamare la Parola e testimoniarla al mondo è fondamentale per ogni cristiano. Scopo del documento è incoraggiare i cristiani a riflettere sulle loro pratiche attuali e a utilizzare le raccomandazioni che esso contiene per preparare, ove opportuno, proprie linee guida relative

alla testimonianza e alla missione tra coloro che professano religioni diverse o che non ne professano alcuna in particolare. Le basi della testimonianza cristiana si possono così sintetizzare: 1. Per i cristiani è un privilegio e una gioia rendere ragione della speranza che è in loro e farlo con dolcezza e rispetto (cf. 1Pt 3,15). 2. Gesù Cristo è il supremo Testimone (cf. Gv 18,37). La testimonianza cristiana è sempre una partecipazione alla sua testimonianza, che assume la forma di proclamazione del Regno, servizio al prossimo e dono totale di sé, anche se quest’atto di donazione conduce alla croce. 3. L’esempio e l’insegnamento di Gesù Cristo e della Chiesa primitiva devono essere le guide per la missione cristiana. Per due millenni i cristiani hanno cercato di seguire la via di Cristo, partecipando la buona notizia del Regno di Dio (cf. Lc 4, 16-20). 4. La testimonianza cristiana in un mondo pluralista comprende l’impegno a dialogare con persone di differenti religioni e culture (cf. At 17, 22-28). 5. In alcuni contesti, vivere e annunciare il Vangelo è difficile, impedito o addirittura proibito, tuttavia i cristiani hanno ricevuto da Cristo il mandato di proseguire fedelmente in solidarietà reciproca nel rendergli testimonianza (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,14-18; Lc 24,44-48; Gv 20,21; At 1,8). 6. Se i cristiani adottano metodi inappropriati di esercitare la mis10

sione ricorrendo all’inganno e a mezzi coercitivi, essi tradiscono il Vangelo e possono causare sofferenza agli altri. Tali deviazioni esigono il pentimento e ci ricordano che abbiamo sempre bisogno della grazia di Dio (cf. Rm 3,23). 7. I cristiani affermano che, mentre è loro responsabilità testimoniare Cristo, la conversione è in definitiva opera dello Spirito Santo (cf. Gv 16, 7-9; At 10,44-47). Essi riconoscono che lo Spirito soffia dove vuole in modi che nessuno può controllare (cf. Gv 3,8). I principi del nostro agire da testimoni si possono così riconoscere: 1. Agire nell’amore di Dio. I cristiani credono che Dio è la sorgente di ogni amore e, di conseguenza, nella loro testimonianza sono chiamati a vivere una vita di amore e ad amare il prossimo come se stessi (cf. Mt 22,34-40; Gv 14,15). 2. Imitare Gesù Cristo. In tutti gli aspetti della vita, e soprattutto nella loro testimonianza, i cristiani sono chiamati a seguire l’esempio e gli insegnamenti di Gesù Cristo, condividendo il suo amore, dando gloria e onore a Dio Padre, nella potenza dello Spirito Santo (cf. Gv 20, 2123). 3. Virtù cristiane. I cristiani sono chiamati a comportarsi con integrità, carità, compassione e umiltà, e a superare ogni arroganza, condiscendenza e denigrazione (cf. Gal 5,22). 4. Azioni di servizio e di giustizia. I cristiani sono chiamati ad agire con giustizia e ad amare con tenerezza (cf. Mi 6,8).


5. Discernimento nei ministeri di guarigione. Come parte integrante della loro testimonianza evangelica, i cristiani esercitano ministeri di guarigione. Essi sono chiamati a esercitare il discernimento nello svolgere questi ministeri garantendo il pieno rispetto della dignità umana e assicurando che non siano sfruttati la vulnerabilità delle persone e il loro bisogno di guarigione. 6. Rifiuto della violenza. I cristiani sono chiamati a respingere ogni forma di violenza, anche psicologica o sociale, compreso l’abuso di potere nella loro testimonianza. Rifiutano anche la violenza, l’ingiusta discriminazione o la repressione esercitata da qualsiasi autorità religiosa o civile, comprese la violazione o la distruzione di luoghi di culto, di simboli o testi sacri. 7. La libertà di religione e di credo. La libertà religiosa, comprendente il diritto a professare, praticare, diffondere e cambiare religione pubblicamente scaturisce dalla dignità stessa della persona umana, fondata nella creazione di tutti gli esseri

umani a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gn 1,26). Di conseguenza, tutti gli esseri umani hanno uguali diritti e responsabilità. Laddove una qualsiasi religione sia strumentalizzata per fini politici, o laddove avvengano persecuzioni religiose, i cristiani sono chiamati a impegnarsi in una testimonianza profetica di denuncia di tali azioni. 8. Reciproco rispetto e solidarietà. I cristiani sono chiamati ad impegnarsi a lavorare con tutte le persone nel mutuo rispetto, promuovendo insieme la giustizia, la pace ed il bene comune. La cooperazione interreligiosa è una dimensione essenziale di tale impegno. 9. Rispetto per tutte le persone. I cristiani riconoscono che il Vangelo è sia una sfida che un arricchimento delle culture. Anche quando il Vangelo mette in discussione alcuni aspetti delle culture, i cristiani sono chiamati a rispettare tutte le persone. Essi sono chiamati anche a discernere gli elementi che nelle loro culture sono smessi in discussione

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dal Vangelo. 10. Rinuncia a dire falsità. I cristiani devono parlare sinceramente e rispettosamente, devono ascoltare per imparare e capire le credenze e le pratiche altrui, e sono incoraggiati a riconoscere ed apprezzare ciò che in esse vi è di vero e di buono. Qualsiasi commento o approccio critico deve essere fatto in uno spirito di mutuo rispetto, facendo attenzione a non dire falsità riguardo alle altre religioni. 11. Garantire il discernimento personale. I cristiani devono riconoscere che cambiare la propria religione è un passo decisivo che deve essere accompagnato da un tempo sufficiente per un’adeguata riflessione e preparazione, attraverso un processo che garantisca piena libertà personale. 12. Costruire relazioni interreligiose. I cristiani devono continuare a costruire rapporti di rispetto e di fiducia con persone di differenti religioni in modo da facilitare una più profonda comprensione reciproca, la riconciliazione e la cooperazione per il bene comune.


VOCI

CHIESA La redazione

DI

Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione

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n occasione della 46ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si terrà il prossimo 20 maggio, Benedetto XVI ci invita a riflettere su Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione. Il silenzio e la parola sono due momenti della comunicazione che devono equilibrarsi, succedersi e integrarsi per ottenere un autentico dialogo e una profonda vicinanza tra le persone. Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora, o perché provoca un certo stordimento, o perché, al contrario, crea un clima di freddezza; quando, invece, s’integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato. L’importanza del silenzio «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto.

Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. Tacendo si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee. Si apre così uno spazio di ascolto reci-

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proco e diventa possibile una relazione umana più piena. Nel silenzio, ad esempio, si colgono i momenti più autentici della comunicazione tra coloro che si amano: il gesto, l’espressione del volto, il corpo come segni che manifestano la persona. Nel silenzio parlano la gioia, le preoccupazioni, la sofferenza, che proprio in esso trovano una forma di espressione particolarmente intensa. Dal silenzio, dunque, deriva una


comunicazione ancora più esigente, che chiama in causa la sensibilità e quella capacità di ascolto che spesso rivela la misura e la natura dei legami. Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti, il si-lenzio diventa essenziale per discernere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio. Una profonda riflessione ci aiuta a scoprire la relazione esistente tra avvenimenti che a prima vista sembrano slegati tra loro, a valutare, ad analizzare i messaggi; e ciò fa sì che si possano condividere opinioni ponderate e pertinenti, dando vita ad un’autentica conoscenza condivisa. Per questo è necessario creare un ambiente propizio, quasi una sorta di “ecosistema” che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni». I motori di ricerca e le risposte «Gran parte della dinamica attuale della comunicazione è orientata da domande alla ricerca di risposte. I motori di ricerca e le reti sociali sono il punto di partenza della comunicazione per molte persone che cercano consigli, suggerimenti, informazioni, risposte. Ai nostri giorni, la Rete sta diventando sempre di più il luogo delle

domande e delle risposte; anzi, spesso l’uomo contemporaneo è bombardato da risposte a quesiti che egli non si è mai posto e a bisogni che non avverte. Il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti. Nel complesso e variegato mondo della comunicazione emerge, comunque, l’attenzione di molti verso le domande ultime dell’esistenza umana: chi sono? che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare? E’ importante accogliere le persone che formulano questi interrogativi, aprendo la possibilità di un dialogo profondo, fatto di parola, di confronto, ma anche di invito alla riflessione e al silenzio, che, a volte, può essere più eloquente di una risposta affrettata e permette a chi si interroga di scendere nel più profondo di se stesso e aprirsi a quel cammino di risposta che Dio ha iscritto nel cuore dell’uomo». Dio parla anche nel silenzio «Nel silenzio della Croce parla l’eloquenza dell’amore di Dio vis-

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suto sino al dono supremo. Dopo la morte di Cristo, la terra rimane in silenzio e nel Sabato Santo, quando “il Re dorme e il Dio fatto carne sveglia coloro che dormono da secoli” (cf. Ufficio delle Letture del Sabato Santo), risuona la voce di Dio piena di amore per l’umanità. Se Dio parla all’uomo anche nel silenzio, pure l’uomo scopre nel silenzio la possibilità di parlare con Dio e di Dio. Abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice. Nel parlare della grandezza di Dio, il nostro linguaggio risulta sempre inadeguato e si apre così lo spazio della contemplazione silenziosa. Da questa contemplazione nasce in tutta la sua forza interiore l’urgenza della missione, la necessità imperiosa di “comunicare ciò che abbiamo visto e udito”, affinché tutti siano in comunione con Dio (cf. 1Gv 1,3). La contemplazione silenziosa ci fa immergere nella sorgente dell’Amore, che ci conduce verso il nostro prossimo, per sentire il suo dolore e offrire la luce di Cristo, il suo Messaggio di vita, il suo dono di amore totale che salva».


Il VII incontro mondiale: «La famiglia: il lavoro e la festa» Milano 2012 è alle porte

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arte dalla famiglia per aprirla al mondo, il trinomio famiglia, lavoro, festa, tema che ci sta guidando verso Milano 2012. Il lavoro e la festa sono «luoghi» in cui la famiglia abita lo spazio sociale e vive il tempo umano. Il tema, mette in rapporto la coppia uomo donna con i suoi diversi stili di vita: il modo di vivere le relazioni (la famiglia); di abitare e trasformare il mondo (il lavoro); di umanizzare il tempo libero (la festa). Queste e altre riflessioni sono contenute nelle dieci catechesi preparatorie per il VII incontro mondiale

delle Famiglie in programma a Milano dal 30 al 3 giugno 2012. Dal mese di settembre 2011 tutte le comunità ecclesiali del mondo sono impegnate nella preparazione, studiando, commentando e attualizzando analisi e proposte raccolte nel documento presentato nella sala stampa della sede santa sia il 24 maggio che il 25 settembre 2011. Il segreto di Nazareth; la famiglia genera la vita; la famiglia vive la prova e anima la società; il lavoro e la festa nella famiglia; il lavoro risorsa e sfida per la famiglia; la festa tempo per la famiglia; tempo per il Signore e per la comunità: questi i

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titoli dei dieci capitoli che legano riflessioni ed esperienze calate nell’oggi nella comunità familiare che vive e opera tra impegni di lavoro e momenti di festa. Il documento parte dal «segreto di Nazareth», dove la Madre è «cuore» e «anima» del nuovo inizio della storia della salvezza per arrivare ai piedi della Croce dove la Madre riceve in dono il figlio ed il figlio la Madre. Il mistero profondo di Nazareth e Gesù Cristo, Parola del Dio vivente, che per 30 anni si è immerso nella nostra umanità. Altro punto determinate delle catechesi è il tema seguente: se è la fa-


miglia a generare la vita, è in modo particolare la Madre a portare a compimento questa missione. Il suo ruolo è decisivo. Contrariamente a quello che sostiene oggi l’ideologia del gender, la differenza dei due sessi è molto importate. È il presupposto perché ognuno possa sviluppare la propria umanità nella relazione e nell’interazione con l’altro. Mentre i due coniugi si donano totalmente l’uno all’altro, insieme si donano anche ai figli che potrebbero nascere. Questa dinamica del dono è impoverita ogni qual volta si fa uso egoistico della sessualità, escludendo ogni apertura alla vita, ogni offerta di amore. Nei dieci capitoli delle catechesi il ruolo della Madre è determinante: nella prova e nel dare un’anima alla società; il lavoro e la festa in famiglia sono condizionate dalla presenza della Madre; il lavoro risorsa della famiglia proposto dai passi del Proverbi 31,10-31 è un inno alla vita e all’amore; il lavoro sfida per la famiglia coinvolge in prima persona anche la Madre; la festa

tempo per la famiglia dipende dalla fantasia e dall’intelligenza della Madre; la festa tempo per il Signore e per la comunità sono «esaltate» dalla passione umana e spirituale che la Madre porta nel cuore e la riversa su quanti la circondano in casa e fuori casa. Le catechesi hanno questa valenza e si propongono come sussidi di grande attualità sociale ed ecclesiale. Un altro significativo traguardo è stato raggiunto in questi giorni dal pontificio consiglio per la famiglia: il volume con le dieci catechesi in preparazione al VII incontro mondiale di Milano: «La famiglia: il lavoro e la festa» edito dalla Libreria Editrice Vaticana è stato tradotto anche nelle catalana e slovena. In tutto sono ben 11 le traduzioni: francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, polacco, romeno, ungherese, arabo, catalano, slovacco. E’ in preparazione la traduzione in lingua russa. Il tema di Milano è stato presentato nei giorni scorsi in diverse occasioni. Il cardinale presidente Anto-

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nelli a Barcellona; il segretario mons. Jean Laffitte a Cotonou, in Benin; il padre Gianfranco Grieco, capo ufficio del pontificio consiglio per la famiglia ha parlato a Maddaloni – Caserta – presso il Centro studi del dialogo interreligioso e della cultura, diretto dal teologo padre Edoardo Scognamiglio, consultore del pcf, a un folto gruppo di allievi e di famiglie coinvolte nella pastorale familiare; don Andrea Ciucci, officiale del dicastero ha presentato le tematiche dell’evento di Milano durante le consuete attività del dicastero: ai tre gruppi di vescovi statunitensi in visita «ad limina apostolorum»; al comitato internazionale dell’associazione Incontro Matrimoniale Cristiano; ad alcune associazioni familiari riunite a Roma per una sessione congiunta di lavoro; al gruppo di lavoro internazionale appositamente costituito dalle Acli. Milano è alle porte e tutto è già pronto per celebrare il grande evento. GIANFRANCO GRIECO


EVANGELIZZAZIONE La redazione

Identità cristiana e nuova evangelizzazione Educare-formare alla vita buona – bella – del Vangelo

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i piacerebbe rileggere il tema della conversione per la missione in termini d’identità cristiana e di nuova evangelizzazione. Non è possibile annunciare il Vangelo e testimoniare Gesù Cristo senza un’esperienza concreta della nostra fede. Tale esperienza, poi, richiede di essere comunicata – partecipata – attraverso uno stile di vita che richiama necessariamente un processo di formazione o di educazione. Com’è possibile educare alla vita buona – bella – del Vangelo in un tempo di crisi? Quanto della forza dell’annuncio cristiano viene meno nel nostro stile di vita? Le Chiese locali hanno ancora qualcosa da dire al mondo e alla società? Si può parlare di “pretesa” e d’“identità cristiana”? Se è vero che nella vita non è importante rispondere a tutte le domande, bensì porsi l’interrogativo giusto, allora le questioni sopra indicate sono giustificabili per riflettere sulla natura missionaria delle Chiese e sul bisogno di recuperare la categoria del racconto e dell’esperienza – la testimonianza o la credibilità della fede – all’interno del progetto educativo della Chiesa non solo italiana. Benedetto XVI, nella Lettera apostolica La porta della fede (11-10-2011), pubblicata in forma di motu proprio, ha affermato: «Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del

vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» (n. 2). Essenzialmente, la nuova evangelizzazione è la riscoperta del senso vivo della fede nelle comunità d’antica cristianità che hanno smarrito la forza del Vangelo e l’efficacia del suo annuncio sia nei contenuti che nei metodi e nelle proposte operative e pastorali. Annunciare la buona novella della risurrezione non significa parlare di una dottrina da imparare a memoria o del contenuto di una sapienza da meditare. Evangelizzare è, innanzitutto, testimoniare una trasformazione all’interno stesso dell’essere umano: con la risurrezione di Cristo, tutto è cambiato, anche il senso della nostra vita e il destino del mondo. 1. Alcune premesse e precisazioni Prima di procedere in questa riflessione, mi sembra opportuno stabilire alcuni punti fermi o premesse per chiarire bene cosa intendiamo per missione e per conversione. Sinteticamente, provo a definire quanto segue.

a) Spiritualità: è la mia esistenza concreta davanti a Dio (K. Rahner) e non 16

quello che vorrei essere o che penso di essere. È bene liberarsi, quindi, da una visione gnostica dell’esistenza e da un certo rapporto idealistico con il Signore. b) Conversione: non è uno sforzo etico o una questione di buona volontà. Non è una sorta di moralismo: è il ritorno a Dio con tutto il cuore (cf. Gl 2), cioè un cambiamento del modo d’agire e d’essere, di pensare e di conoscere, di costruire relazioni e di fare esperienza di Dio e di comunione. Occorre ritornare ad annunciare il Vangelo di Gesù Cristo senza alcuna pretesa d’essere riconosciuti e ascoltati, e soprattutto dopo che sia avvenuta in noi la riconciliazione con noi stessi, possibilmente con i fratelli e in ultimo con Dio. Nel termine conversione occorre fare entrare tutta la dimensione antropologica e affettiva della nostra esistenza concreta, diversamente resteremo sempre delle persone deluse, frustrate e prive di speranza. Occorre, perciò, dare un nome o volto concreto ai nostri idoli e a quei sentimenti che dentro ci possono lacerare in profondità e senza via d’uscita (invidia, gelosia, egoismo, carrierismo…). c) Missione: è l’annuncio del Vangelo oggi – in ogni contesto – in un mondo che è già cambiato, cioè che pone ai margini la proposta cristiana. Tale missione la concepiamo nell’ottica dell’educazione alla vita buona-bella del Vangelo. Il mondo non è il nostro nemico, bensì il partner con il quale dobbiamo camminare. La Chiesa esi-


ste, infatti, grazie al mondo, cioè per riconciliare le persone, le società, i popoli, le nazioni… 2. Una questione di fede e di libertà La formazione, come l’evangelizzazione e la conversione, è questione di fede e di libertà, cioè di disponibilità o docilità. Anche la crisi economica, politica, sociale e culturale dei nostri tempi è un problema di fede e di libertà. Per agire è sempre necessario affidarsi a qualcuno liberamente. Pedagogo è chi vive un’esperienza gratuita che pienamente gli cambia l’esistenza e ha, dunque, qualcosa – un contenuto – da raccontare e da trasmettere agli altri. In questo caso, il Vangelo di Gesù Cristo! Maestro è soltanto chi fa della gratitudine e della libertà ricevuta l’offerta di sé. Cosa, infatti, noi doniamo agli altri, ai giovani, al mondo, affinché essi possano riconoscere Gesù Cristo quale Signore della vita? La gratitudine non è una formula compromissoria del nulla o di un’idea o di un progetto, ma è il compendio di un’esistenza donata. Pedagogo è chi genera – smuove l’esistenza – alla gratitudine e alla fede. In tal senso, il cristianesimo è l’esperienza della gratitudine – il Vangelo donato – e l’imitazione della natura divina (Gesù Cristo). La crisi è un’opportunità per rinnovare la nostra fiducia in Dio e riscoprire il senso genuino

della fede. Jhwh rivela al profeta Geremia: “Io sono con te” (cf. Ger 1,8), cioè “Io sono dalla tua parte, sempre vicino a te, sono presente alla tua vita”. Solamente Dio è colui che ci può rendere stabili. Liberandoci da eccessive e, a volte, inutili e catastrofiche analisi sociologiche ed economiche, occorre ripartire dall’esperienza della fede, dal Vangelo come vissuto o forma di vita che ci rinnova e apre i cuori a una gioia più grande. È stata questa l’esperienza degli apostoli che, dopo aver incontrato il Risorto, l’hanno annunciato con la vita. Nell’identità cristiana vige un principio che ci rende fedeli al Vangelo e che al meglio esprime la natura del cristianesimo: “Siamo nascosti con Cristo in Dio” (cf. Gal 2-3; Col 3,3). Il peccato consiste in una resistenza passiva innanzi alla novità di vita suscitata dal Vangelo di Gesù Cristo e indicata dai segni dei tempi. Nell’annuncio del Vangelo occorre rimanere fedeli alla logica della croce, liberandoci da ogni sorta di trionfalismo. Spesso parliamo di sklerokardia e anche di poròsis: sono l’indurimento del cuore e l’indifferenza davanti ai segni della storia e alla profezia del Signore. 3. La metafora del vetro e del giardino Ci sono due immagini che aiutano a comprendere come possiamo cammi-

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nare in questo mondo che è cambiato: quella del vetro e del giardino. Secondo la metafora del vetro, dobbiamo essere trasparenti come la realtà che si può vedere integralmente anche dietro a un vetro che riflette la luce e, quindi, rivela. Una Chiesa legata al potere, che trova stabilità con alleanze e nelle sole risorse economiche, non è più credibile e non ha niente da comunicare al mondo. Attraverso la metafora del giardino, invece, possiamo comprendere che Cristo è il nostro giardino o Eden. Il Padre ha collocato l’uomo (Adamo) in Cristo, da sempre. È questa la lettura di molti padri della Chiesa e di autori cristiani antichi: l’uomo è da sempre collocato in Cristo e non allontanato dal paradiso. Evangelizzare o educare significa, quindi, continuare l’opera della creazione in Cristo. Adamo non è cacciato dal giardino, bensì immesso nella storia della salvezza. Egli è un inviato, un piantato-collocato nel giardino del mondo. La Chiesa cattolica, dunque, deve prendersi cura di Adamo, cioè orbitare attorno all’uomo, alle nuove esigenze antropologiche. Evangelizzare, formare e convertirsi vuol dire imparare a viaggiare intorno all’uomo e conoscere le frontiere antropologiche dell’umanità. Occorre coltivare il gusto di viaggiare intorno alle persone. Dobbiamo avere tempo per ascoltare gli altri. La mancanza di fede nelle comunità


cristiane è il vero problema dell’annuncio e della crisi profonda del cristianesimo oggi. La trasmissione della fede è diventata difficile e complessa per una mancanza di fede. Corriamo il rischio di diventare un corpo che non parla più di Gesù Cristo ma solo di se stesso. Sono da prendere in considerazione alcuni mali del nostro agire da cristiani: l’individualismo, il trionfalismo, il culturalismo e il fideismo. Cristo è stato maestro e pedagogo perché ha agito con autorità, sapienza e passione. Egli è il predicatore del Padre, l’esegesi-passione del Dio nascosto, e si è posto sempre nella prospettiva della croce e dello svuotamento o kenosis. C’è un cammino di conversione da mettere in atto e da prendere sul serio se vogliamo essere efficaci nell’annuncio del Vangelo. Perché l’unica cosa che noi possiamo testimoniare è la nostra esperienza di Gesù Cristo. Il coraggio dell’evangelizzazione e la forza educatrice nascono dall’esperienza concreta di Gesù Cristo nella vita del credente. Non è questo più il tempo in cui possiamo pretendere che gli altri riconoscano la verità del Vangelo. Nel tempo della post-modernità, ove il Tutto ha ceduto il posto al frammento e al pluralismo delle verità e dei valori, siamo in grado solamente di testimoniare la verità, cioè di rendere credibile la proposta di vita di Gesù Cristo con la nostra vita e come scelta dell’esistenza (è la logica del “se vuoi”). 4. “Essere anti-segno”

grado di leggere la nostra storia. La missione è creatività, genialità, novità. La missione è prassi e non un’idea. Il vero contenuto dell’evangelizzazione è il Vangelo vivo di Gesù Cristo. La missione è poiesis (creatività). L’evangelizzazione non ha metodi fissi perché ci sono cambiamenti sempre in atto nella storia. Occorre, nel campo dell’evangelizzazione, coniugare sempre due termini: Parola (Verbum Domini) e Historia (come luogo teologico). La crisi dell’evangelizzazione dipende anche dal mancato processo d’inculturazione delle Chiese. Non possiamo non considerare due sfide fondamentali: la tecnocrazia e la trasformazione del ruolo delle religioni. La tecnocrazia ha svilito l’uomo e ridotto il significato dei valori religiosi a mito. L’unica verità è la scienza, anzi, quella prodotta dalla comunicazione. Il vero messia è rappresentato dai mezzi di comunicazione sociale. Sono i mezzi di comunicazione a creare la verità, a fare cultura. Ad esempio, il servizio e le opere di carità che la Chiesa porta avanti non sono riconosciute dal mondo come tali, bensì ritenute o interpretate spesso come una forma di potere. Le religioni, poi, oggi svolgono un ruolo importante: si assiste a un loro revival. Il buddhismo, ad esempio, in Europa è più efficace dello stesso islam. C’è una nuova e diffusa pratica dei metodi di preghiera orientali che non si deve più sottovalutare. C’è una rinascita delle religioni orientali in Occidente che non abbiamo an-

La crisi che oggi vive il cristianesimo fu già annunciata da Karl Rahner nel momento in cui egli individuò una forma nuova di negazione di Dio: l’“ateismo preoccupato”. Ci vergogniamo di annunciare il Vangelo, di predicare la Parola della fede in ogni occasione, opportuna e inopportuna, favorevole e non (cf. 2Tm 1-2). Non raccontiamo quasi mai la nostra esperienza concreta di Gesù Cristo. La marginalità della fede e la condizione di limite – in cui sono posti l’annuncio del Vangelo e la proposta educativa cristiana oggi –, obbligano a riflettere sul tema sempre attuale della testimonianza e della credibilità. Incarnare i valori del Vangelo nella propria vita significa andare contro corrente e fare scelte impopolari e poco “seducenti” per la società, allontanandosi quasi completamente dalla mentalità di questo secolo. Così, l’identità cristiana si esprime nell’“essere anti-segno”, nell’attraversare tutte le culture senza assumerne in misura totalizzante alcuna, come anche nel non averne una in particolare ma tutte. L’annuncio del Vangelo e la formazione ai valori cristiani restano una grande sfida e si possono affermare solamente come opportunità e non necessità, cioè sempre secondo la logica evangelica del “se vuoi” (cf. Mc 8,27-35). La crisi che viviamo è determinata anche dalla nostra incapacità di saper leggere i segni dei tempi. Non siamo in 18


L’immagine vera della missione e della pedagogia cristiana è il Crocifisso che seduce solamente attraverso il potere dell’amore che si dona e che svincola da ogni legge. È utile sviluppare anche un senso di gratitudine per il dono della fede e per l’incontro con il Vangelo di Gesù Cristo. In tal senso, la missione è liturgia, sacrificio, ma anche debolezza: siamo stati salvati dalla debolezza di Dio che è la creatività dell’evangelizzazione. Dunque, è indispensabile formarsi alle virtù forti: coraggio, fedeltà, lealtà, trasparenza. Una Chiesa che non trova nella Parola della croce la sua forza non ha nulla da comunicare al mondo. Una Chiesa che ripete al suo interno le logiche del mondo – della corruzione, della competitività, del trionfalismo, del carrierismo – non ha niente da dire agli uomini e alle donne del nostro tempo. C’è da recuperare la prospettiva missionaria ed escatologica della Chiesa che vive relativamente all’annuncio del regno dei cieli e alla manifestazione gloriosa del Signore risorto. Si tratta di essere Chiesa, di vivere, di possedere, “come se non vivessimo, come se non possedessimo” (cf. 1Cor 7,2931). La Chiesa esiste solo “nel frattempo”, “fino” alla manifestazione del Signore Gesù Cristo, il Crocifisso-Risorto. È lo iato esitente tra la parusìa e la nostra storia di uomini a giustificare la forma della Chiesa nel mondo oggi. Non si tratta di finzione-funzione rappresentativa ma di prendere sul serio la categoria della provvisorietà. La Chiesa è al servizio del Regno che viene. Nessuna espressione dell’esistenza riempie la totalità della vita, perché è solo un tratto, un momento della vita. L’orizzonte dell’esistenza è più ampio: “vivere come non”. L’identità cristiana consiste nel non averne alcuna specifica. Si tratta di un atteggiamento che ci permette di non assolutizzare la nostra particolare identità. Identità è non averne una ma tutte potenzialmente. Ognuno di noi è il riflesso della libertà creativa di Dio. Le culture sono l’espressione della libertà creativa dei popoli. La libertà è il fondo nascosto delle cose e anche del nostro essere corpo di Cristo.

cora studiato in profondità. L’uomo è alla ricerca di pienezza di senso perché si sente svuotato dalla tecnica e dalla stessa ragione e dal potere della scienza. I nostri linguaggi sono diventati metastorici e non hanno più nulla da comunicare oggi. È sufficiente costatare l’inefficacia delle nostre omelie nelle celebrazioni liturgiche domenicali. Dobbiamo evidenziare il carattere integrale dell’evangelizzazione: Cristo libera tutto l’uomo. Il cristianesimo è una religione calata nella storia e considera l’agire concreto o prassi che produce creatività anche nella missione. La vera risorsa che abbiamo è la potenza del Vangelo. L’evangelizzazione deve operare anche una lettura critica della storia e del nostro essere comunità di credenti.

6. La libertà creativa e amante di Dio 5. La Chiesa, un corpo inquieto Il messaggio cristiano è l’espressione concreta della libertà amante di Dio. Non dobbiamo appesantire il discorso sulla libertà attraverso un orizzonte di senso normativo o giuridico. Il mondo è l’espressione della libertà creativa di Dio. Nella visione filosofica aristotelica, il mondo è così per sempre: avviene per il passaggio dall’“Essere all’essere (o all’ente)”. Per noi cristiani, ci ricorda san Bonaventura, invece, il mondo si forma dal “non essere all’Essere” (ex nihilo). Il cosmo pagano è il luogo della stabilità e della permanenza o fissità (nulla cambia e tutto è immutabile). Da qui il senso della legge naturale o anche il senso kan-

Per educare alla vita bella del Vangelo occorre, anzitutto, recuperare quel senso di preoccupazione o d’inquietudine che è la sollecitudine propria delle Chiese provocata dal Vangelo stesso. Dobbiamo recuperare il respiro del Vangelo e aprirci al mondo. “Evangelizzare è amore che va fuori”: la Chiesa non esiste per se stessa; essa è il corpo inquieto di Cristo che si lascia mettere in crisi e purificare dalla croce del Signore risorto. La Chiesa è il corpo inquieto di Cristo che sperimenta sulla propria pelle le attese e le sfide del mondo.

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tiano del “tu devi” (“fai il bene ed evita il male”). Nella visione cristiana, invece, le “leggi della natura” sono norme donate “alla natura” e non semplicemente “della natura” o insite “nella natura”. Sarebbe troppo poco il nostro agire morale per il bene. Ciò significa che Dio è, in un certo senso, “mutevole” (cf. Fil 2,5-11: “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio…”). Fino a due secoli fa, la natura dominava attraverso l’energia delle braccia, dei venti, del carbone… Poi è sopraggiunta la rivoluzione industriale che ha smosso la natura. Ha fatto seguito la rivoluzione biologica (da qui il post-umanesimo), fino a oggi, con il sopravvento delle scienze o del sapere tecnico che controlla la natura. Il cristiano ha una propria sensibilità per stare nella storia ed è contro ogni sorta d’immobilismo e di conservatismo, ma altresì d’efficentismo. Il cristiano è uno che vive il suo tempo, inserito nella storia e attingendo dalla sorgente della libertà amante e donante di Dio-Trinità. Il Vangelo è la nostra risorsa, una creatività inesauribile. In tal senso, la comunità dei credenti è spazio-luogo di condivisione, è cum-munera, cioè partecipazione dei doni ove il senso della libertà, della trasparenza e della gratuità si afferma pienamente. La forza immunizzante e coesiva della Chiesa è Gesù Cristo. Egli è l’umanis-

simo Dio. La comunità dei credenti allude, così, al “non essere”: si sta assieme perché ci manca qualcosa, perché attendiamo la manifestazione del Signore risorto (la parusìa). Non siamo i diffusori o gli amministratori della ricchezza divina o dei ministeri ricevuti come dono. C’è da recuperare, per meglio comprendere l’inquietudine della Chiesa, il senso del vuoto e della mancanza. Nella Chiesa dobbiamo sviluppare la coscienza della provvisorietà e del limite: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». C’è crisi nelle comunità cristiane perché manca la coscienza del senso del limite e viene meno l’indole escatologica della Chiesa (cf. LG 48). D’altronde, la provvisorietà è nel nostro statuto di battezzati e di creature viventi. La Chiesa non è il regno di Dio sulla terra, bensì semplicemente – in germe – un suo segno o inizio (cf. LG 5), dunque la sua missione-funzione è di servizio al regno di Dio e non di sostituzione. 7. Entrare in tutte le culture Compito del cristiano è entrare in tutte le culture per ammorbidirle senza assumerne nessuna in misura totale. Il cristianesimo è tendenzialmente ecumenico e liberante e non può ammettere alcuna ideologia o to20

talitarismo. Non sempre siamo consapevoli delle nostre immense energie. Dobbiamo, perciò, riscoprire il senso del limite come risorsa e non come chiusura. È il recupero della nostra capacità creativa e volitiva. La globalizzazione è il tentativo di riunire i frammenti del mondo almeno dal punto di vista economico, sociale e culturale. Con l’incarnazione del Verbo, Dio recupera, invece, il contributo di ciascuno. Non dobbiamo andare dietro a una cultura ma assumerle tutte e trascenderle, nella consapevolezza che non esiste una supercultura. Perché il cristianesimo non s’identifica in nessuna cultura o forma storica. Il discepolo di Gesù Cristo è il testimone della pluralità e del contributo che ognuno può dare nella diversità. Il cristiano sa che la pluralità è espressione dell’unità di cui ogni cultura è portatrice. È come lo specchio dell’acqua che separa e unisce allo stesso tempo le diverse isole sparse nel mare. Occorre recuperare il sano realismo dell’incarnazione che apre all’accoglienza delle diversità senza troppi conflitti. Si tratta di cogliere le esigenze di tutti. Questa è la proposta giovanile e convincente della fede e dello stesso Vangelo. 8. Riconoscere dai frutti La pedagogia della libertà cristiana propone una “morale autonoma” che permette di giudicare-riconoscere dai frutti. È la pedagogia della libertà e della creatività che stenta a prendere forma nelle Chiese. Il cristiano arriva a Dio non per ciò che non c’è ma per ciò che c’è e vuole. Il cristiano esalta la vita come dono e sa bene che non gli appartiene una concezione lacrimosa del Vangelo bensì la percezione positiva e bella della realtà. La missione, dunque, è il nostro impegno nel tempo affinché Adamo – tutto l’uomo e ogni essere vivente – sia collocato definitivamente, per quello che è pos-


sibile, cioè liberamente, in Cristo, Figlio di Dio e nuovo Adamo. Il cristianesimo ha dato una nuova qualità all’esistenza umana riscoprendone il carattere gratuito, liberante, creativo e amante. L’ethos cristiano si esprime ancora troppo in maniera giuridica e kantiana, e ancora troppo poco in misura pasquale e trinitaria: amore come dono di sé fino alla morte, alla perdita della vita. Siamo chiamati a educare le comunità a decidere e a scegliere il bene con responsabilità e non per paura o per negazione. Non ha più niente da dire una morale che si basa sul “fare il bene ed evitare il male”. L’etica cristiana è legata al “perdere la vita” per amore di Cristo, cioè all’amore per i nemici, senza reciprocità, senza aspettarsi nulla in cambio. 9. Alcuni rilievi conclusivi Per la prassi, è bene riconsiderare alcuni contesti o ambiti della conversione e della missione. a) La postmodernità ci invita a riflettere sull’amore liquido, sul significato della società liquida, sulla realtà virtuale. b) La marginalità: nessuno più ci viene dietro; spesso il servizio della Chiesa è giudicato come potere; dobbiamo ri-

nunciare a ogni pretesa, alla stessa reciprocità. Noi siamo una piccola fiaccola o luce che risplende non per tutti, ma per chi decide di lasciarsi illuminare. c) La sfida educativa è da ricentrare: educare significa ex-ducere, cioè “tirare fuori” e non sostituirsi alle scelte degli altri; un luogo educativo per eccellenza è la liturgia. Mi permetto di essere polemico e critico soprattutto sul nostro modo di fare l’omelia che non è una catechesi, né una lezione di teologia, né un panegirico, bensì semplicemente l’attualizzazione della parola di Dio (dovrebbe durare non più di otto minuti). In realtà non sappiamo comunicare, pur essendo esperti di strumenti di comunicazione. d) Rivedere il modello o l’immagine di Chiesa a cui siamo legati, in modo particolare la parrocchia come casa in esilio tra le case in esilio; occorre recuperare la dimensione escatologica e diaconica della Chiesa (stola e grembiule). e) “Formazione” è un termine ormai abusato: conviene interpretarlo come life learning, ovvero quale processo che accompagna tutta la nostra esistenza, vale a dire come un cantiere sempre aperto, in cui la dimensione culturale, teologica e spirituale non

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può essere trascurata. Concretamente, come nutriamo il nostro spirito? Cosa leggono i nostri sacerdoti? Quanto tempo dedicano alla settimana all’aggiornamento, all’approfondimento di particolari tematiche? f) La crisi di fede ci invita a ripartire dal dono della chiamata, cioè dalla grazia di ricominciare e dalla fedeltà di Dio che è stabile, perché egli ama ciò che elegge. È bene verificare il nostro amen, il sì, che contraddistingue la nostra esistenza e la stessa docibilitas, cioè la disponibilità a cambiare, ad ascoltare, a lasciarsi permeare e plasmare, vincendo resistenze e pregiudizi. Si tratta di dire (e di dare) un sì pieno e definitivo, secondo la logica della gratuità e non del rimpianto. Il vero discepoli, infatti, è colui che dice “ho trovato un tesoro” e non “ho lasciato”. g) Gli spazi della missione sono da ripensare in rapporto al mondo, alla società, alle nuove sfide della fede e della storia: ambiente, dialogo interreligioso e interculturale, ecumenismo, giustizia e pace. La nostra prima missione è lo stare tra la gente, nel mondo (missio intra gentes), ricordandoci che il dialogo è il primo vero spazio della missione. Il dialogo e l’accoglienza rappresentano il primo spazio-luogo dell’annuncio del Vangelo.


ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

È gioia che promana dal cielo...

È

sorprendente quanto la grazia di Dio compia attraverso i nostri adolescenti! La testimonianza di questi ragazzi così numerosi, e cioè trecentottanta ragazzi che si sono riuniti al Convento San Francesco dei frati Minori a Baronissi dal 3 al 5 Gennaio, fa sperare nella certezza che esiste un domani migliore, che non è il mondo che viviamo e pensiamo noi. Si riaccende la speranza che questo mondo avvolto e ottenebrato da una mentalità troppo laica che pensa e agisce senza Dio, può tornare alle radici cristiane, attraverso il sorriso e l’impegno dei nostri ragazzi. Che gioia vederli tutti uniti e desiderosi di crescere alla scuola del Vangelo e della testimonianza. Il tema centrale del campo è stata la “relazione umana”. Il relazionarci con gli altri, fa parte del nostro vivere quotidiano, poiché ogni giorno siamo chiamati a interagire

con chi c’è accanto: nell’ambiente lavorativo, scolastico, con i propri amici, con le persone che non la pensano come noi, con le persone che amiamo e soprattutto in fraternità. La fraternità è il luogo dove s’impara a relazionarsi con gli altri, poiché in essi si riscontra il legame più forte che ci sia, ovvero il legame dell’amore in Cristo. È stato presentato ai ragazzi il tema dell’affettività e della sessualità. In questo, sono stati guidati da fra Massimo Squitieri Ofm, e Anna Spinelli, presidente dell’associazione “Progetto Famiglia Vita”. Nei giorni seguenti, si sono alternati testimoni e relatori. In particolare, si è riflettuto sulla corporeità come espressione dei nostri sentimenti. Essa, come tutto il nostro corpo, è un dono di Dio e, pertanto, non va repressa ma valorizzata come autentica manifestazione del proprio io, all’interno di un serio cammino 22

di educazione umana. Si è parlato dell’Amore in tutte le sue forme: Eros, inteso come amore passionale; Philìa, ovvero l’amore inteso come amicizia; Agàpe, l’amore inteso come donarsi totalmente all’altro, proprio come ha fatto Dio attraverso il dono del suo Figlio Gesù. Il valore della castità nelle nostre relazioni alla luce del nostro cammino cristiano è molto importante per l’educazione dei sentimenti. Soprattutto questo incide nelle nostre relazioni umane. Il campo si è concluso con la Santa Messa, e subito dopo saluti e partenze, i ragazzi hanno fatto ritorno a casa, portando la gioia e la consapevolezza di aver imparato che per costruire un mondo migliore c’è bisogno di preghiera e di tanto impegno e tanta perseveranza per capire che il bene è a un passo da noi, è dentro di noi.


MISSIONI di Giambattista Buonamano

Filippine: La missione nella St. Anthony Clinic

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arissimi, la Clinica di S. Antonio di Novaliches nelle Filippine continua a operare come Medical Clinic all’interno della suddivisione Greenfields. La missione della Clinica nell’aiutare i meno fortunati in diversi campi è generalmente apprezzata, in particolare lo sforzo dei francescani conventuali nella gestione della chiesa parrocchiale e della clinica. La missione della clinica è iniziata curando una malattia che nelle Filippine è endemica, la Tubercolosi (Tbc). Le Filippine sono uno dei Paesi più poveri del mondo. Qui non esiste assistenza sanitaria ed essere malati equivale a una condanna. La povertà, che è la condizione in cui vive la maggior parte della popolazione, uccide ogni anno migliaia di persone affette da patologie a volte anche banali, costrette dalla loro situazione a non potersi sottoporre ad alcun tipo di terapia. È uno dei tanti luoghi in cui la stragrande maggioranza delle persone muore di fame: la tutela sanitaria è un privilegio di pochissimi, la maggior parte della popolazione deve fronteggiare quotidianamente problemi legati alla povertà, alla precarietà, alla quasi inesistenza di alloggi dotati di impianti igienici, alla malnutrizione, che favoriscono l’evoluzione delle malattie legate al clima tropicale. Per la maggior parte di loro, morire è la conseguenza diretta dell’impossibilità di ricevere le cure adatte.

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Un esempio emblematico è quello della tubercolosi che in molti paesi, grazie ai vaccini, è praticamente debellata e che nelle Filippine è addirittura la terza causa di morte. Almeno l’8% della popolazione risulta affetta da Tbc in fase evolutiva. Le vittime dei tifoni fanno certamente più notizia ma è molto più grande il numero di coloro che soccombono silenziosamente alla tubercolosi e alle altre malattie infettive e che potrebbero, invece, essere salvati facilmente. Manca una programmazione sanitaria di base, i servizi sono sporadici e manca la fiducia da parte dei pazienti verso i medici curanti e i volontari sanitari. Le condizioni minime per non sviluppare infezioni e rispondere alle esigenze basilari di un ospedale non sono aiutate dalla mancanza di mezzi e soprattutto di soldi. Le apparecchiature presenti negli ospedali sono scarse e obsolete e, molte volte, sono ammassati nei magazzini per mancanza di assistenza tecnica. Inoltre, la mancanza di conoscenza delle norme basilari igieniche e di allattamento è una delle cause principali della mortalità infantile, soprattutto nelle zone periferiche delle grandi città, cioè in quei quartieri denominati Baraccopoli. Un grazie a tutti i benefattori che sostengono la clinica sperando che aumentino per poter far fronte a tutte le esigenze giornaliere.


LITURGIA di Giuseppe Falanga

Comprendere, celebrare e vivere il “mistero pasquale”

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ell’accezione comune, “mistero” significa verità nascosta, qualcosa di impenetrabile, che suscita attenzione, ma anche stupore, silenzio, senso del limite di fronte alla vita e alla morte, al dolore e all’amore. Esso indica anche attesa di un superamento, di un salto, di un passaggio, desiderio e ricerca di pienezza. Per noi cristiani, “mistero”, in senso paolino, indica sia il piano divino o progetto eterno di salvezza di tutti gli uomini in Cristo (cf. Ef 1,3-14), sia le azioni divine di Cristo che effettivamente lo hanno realizzato. In senso liturgico, indica le azioni cultuali che lo celebrano e ne comunicano i frutti. Con un’espressione onnicomprensiva, noi parliamo di “mistero pasquale”: esso indica “passaggio” e “approdo”, abbracciando la natura e la storia, l’umano e il divino, il tempo e l’eterno, ed esige di essere

celebrato e vissuto. Infatti, l’uomo, viandante e pensante, strutturalmente “religioso”, sente il bisogno di punti sicuri di riferimento sul duplice versante del suo passato e del suo futuro. 1. La vita tra mito, storia e futuro Ricca di questi contenuti, la festa del passaggio o “Pasqua” è antichissima ed è legata originariamente ai cicli naturali. Gli antichi popoli erano molto sensibili al succedersi delle stagioni: primavera, estate, autunno e inverno erano visti come segno della vita dell’uomo. Egli, infatti, ha un suo inizio bello e promettente, come la primavera; un periodo fecondo di attività, come l’estate; una fase di declino, come l’autunno; e, infine, il tramonto della sua vita, il freddo della morte, come l’inverno. Ma poi la vita ricomincia: ecco la celebrazione festosa 24

del passaggio dalla morte invernale della natura, che era ammantata di neve, al risveglio della primavera, che è speranza di nuova vita. Nei cicli stagionali l’uomo, profondamente legato alla natura, vide un segno del suo destino di nascita, morte e rinascita. E si pensò coinvolto nel “mito dell’eterno ritorno”. I segni della festa pasquale erano l’offerta alla divinità di fiori e primizie della terra e del gregge: spighe di orzo o di grano tenero e un agnello. Perciò, ancora oggi, a Pasqua si usa mangiare l’agnello e fare torte di grano; prima di diventare simboli cristiani di Gesù e dell’Eucaristia, il grano e l’agnello sono simboli naturali di vita. Nel XIII secolo a.C., in occasione della Pasqua naturale, gli ebrei furono liberati dalla schiavitù egiziana. Allora questa festa divenne la celebrazione dell’intervento decisivo di Dio che, mediante Mosè, condusse il


popolo ebreo attraverso il deserto fino alla terra promessa. Poi ci fu la vicenda storica di Gesù, il quale fu crocifisso alla vigilia del sabato pasquale degli ebrei: egli, vero Agnello di Dio, fu immolato proprio mentre nel tempio migliaia di agnelli venivano sacrificati per essere poi consumati alla cena pasquale, che ricordava, appunto, come le case degli ebrei erano state risparmiate dalla morte, perché vi era stato tracciato un segno distintivo col sangue dell’agnello (cf. Es 12,1-13,16). I primi cristiani, illuminati dallo Spirito Santo e guidati dagli apostoli, videro nella morte di Gesù non semplicemente la crudele esecuzione di una sentenza ingiusta, ma il gesto sacrificale e redentore del Dio fatto uomo. Perciò Pasqua significa, per noi credenti, il duplice passaggio di Gesù: dalla vita alla morte e dalla morte alla vita nuova di risorto.

Pasqua è il centro della vita cristiana, perché celebra Cristo crocifisso e glorificato. Pasqua, come scrive il grande teologo Hans Urs von Balthasar, è «il mistero ineffabile del Signore che si fa servitore e del servitore che viene riconosciuto Signore». Questo mistero di umiliazione e glorificazione provoca la nostra adorazione gioiosa e riconoscente. 2. Il Triduo pasquale Tutta la nostra attenzione è concentrata, in questi giorni, sulla croce. Anticamente essa era simbolo e strumento di morte violenta e ignominiosa. Fuori delle città, su una collinetta, ben visibili, erano infissi nel terreno dei pali già pronti per la crocifissione, a monito e minaccia di morte. Il giudice, indicando al reo quei pali, gli diceva: Ibis ad crucem (“Farai quella fine!”).

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La croce era sinonimo di fallimento e di disperazione. Anche nella Bibbia è scritto: «Maledetto chi pende dalla croce» (Dt 21,23). Ma, da quando Gesù vi morì da innocente, per amore verso il Padre e tutti noi, la croce è diventata luminosa, simbolo di salvezza. Ecco perché essa è gloriosa, gemmata, come risplende, ad esempio, nei mosaici di Ravenna o pende sugli altari d’oro di San Marco a Venezia o di Sant’Ambrogio a Milano. Nella morte di Cristo Dio parla, promette e fa vivere. Nell’obbedienza assoluta di Cristo, che ha come conseguenza la morte e la discesa agli inferi, c’è l’autorivelazione divina nella storia. Sia nell’incarnazione sia nel mistero pasquale la gloria è sempre legata al movimento kenotico, cioè all’amore che porta al dono totale di sé. Gloria cantano gli angeli sul Dio bambino a Betlemme. Alleluia can-


tano i redenti dal Crocifisso-risorto nel giorno di Pasqua. Noi cristiani guardiamo al Crocifisso con fede e gratitudine, perché possiamo dire come san Paolo: «Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La croce è la garanzia suprema dell’affermazione di Cristo: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Egli, infatti, va a morire non per obbedire a un destino anonimo, ma alla persona del Padre. Così la sua morte non è il semplice risultato dell’odio concentrico dei suoi nemici “tutti contro l’Uno”, e neanche è l’atto di un fanatico religioso. Essa è il compimento obbediente a un comando divino. Cristo, elevato in croce, attrarrà tutti a sé. Nell’Ecce homo flagellato, coronato di spine, è l’Ecce Deus. Nell’immagine della piena umiliazione «risplende sul volto di Cristo la gloria di Dio» (2Cor 4,6). Perciò, la risurrezione è lo splendore del Crocifisso. Gesù, facendosi uomo, ha eliminato il primo ostacolo e, nella sua carne, ha congiunto la natura umana con la natura divina. Facendosi uccidere ha vinto il peccato, perché ha detto “sì” al Padre (cf. 2Cor 1,1920). Risorgendo ha superato la morte. Non si arriva al cuore della Pasqua se non si parla di morte e di vita: «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto, ma ora è vivo e risorto», così ci fa cantare la Sequenza nella Messa del Giorno di Pasqua. Il messaggio pasquale è questo: Dio si è schierato con Gesù, l’Escluso, il Crocifisso. Egli dalla morte lo ha trasferito in una dimensione nuova, non più vulnerabile, inaccessibile a qualsiasi violenza umana (cf. Rm 6,10). Oggi c’è un rinnovato interesse per la risurrezione. Dall’inizio del secolo scorso ai nostri giorni sono più

di 1.600 i titoli (tra libri e articoli) che la riguardano. In realtà, a partire da san Paolo (cf. 1Cor 15,17), la risurrezione è stata sempre vista come elemento centrale e portante del cristianesimo. Però, fino a non molti anni addietro, la teologia non nominava la risurrezione, perché l’opera salvifica di Cristo si vedeva portata a compimento mediante il ciclo incarnazione-vita-morte in croce. La risurrezione era studiata a parte, come il trionfo personale di Cristo sui suoi nemici e come prova decisiva della sua divinità. Perciò il teologo Karl Rahner parla di “atrofia della risurrezione”. In realtà, la risurrezione è l’avvenimento fondamentale della storia della salvezza e della fede cristiana, riconosciuta come tale in tutti i Simboli di fede fin dall’inizio del cristianesimo. Essa è il mistero della pienezza: è insieme mistero cristologico, ecclesiale, temporale, escatologico. In esso l’incarnazione si realizza, la parusia s’inaugura, la Chiesa e i sacramenti sono costituiti nella loro sorgente eterna e attuale, la pienezza dei tempi viene raggiunta nella vita eterna. 3. La celebrazione del mistero pasquale Se la Pasqua è il mistero centrale della storia della salvezza e l’inizio di una nuova storia dell’umanità; se l’accoglienza del Crocifisso-risorto è la condizione fondamentale della fede cristiana, quali conseguenze se ne possono dedurre sul piano liturgico e su quello della vita cristiana? La liturgia, nelle sue categorie fondamentali di memoriale e momento-sintesi della storia della salvezza, celebra la vita, nei suoi drammi e nelle sue attese, e fa sempre riferimento a eventi o persone o valori che ritiene fondativi per la storia e l’identità di una comunità. Certo, la risurrezione, essendo un 26

intervento divino, è un evento metastorico nel suo prodursi, ma anche un evento storico nel suo rivelarsi. Difatti, si è mostrata con segni concreti, verificati da testimoni attendibili (la tomba vuota e le apparizioni), provocando un movimento religioso che lentamente ha invaso tutta la terra. La novità assoluta di quest’irruzione del divino nella trama dell’umano esige di essere celebrata. Pertanto, il mistero pasquale, come è al centro della riflessione teologica e della predicazione, così è anche il nucleo essenziale e onnipresente della liturgia cristiana. In realtà, ogni liturgia celebra sempre il mistero pasquale: lo ripresenta, lo attualizza e lo partecipa nei suoi molteplici aspetti diversificati e convergenti. Per questo motivo le nostre celebrazioni dovrebbero essere sempre gioiose e piene di speranza, perché noi celebriamo Cristo crocifisso e risorto: la nostra festa è Cristo vivo! In ogni celebrazione, come avvenne per gli apostoli nel cenacolo o in riva al lago, noi ci incontriamo col Risorto, che si rende presente “sotto vari aspetti”. La liturgia non è semplicemente esecuzione di un rito, ma celebrazione rituale che deve favorire l’incontro con il Vivente, il quale ritorna tra noi e ci interpella, presente nell’assemblea, nel ministro della Chiesa, nella Parola, nell’Eucaristia, nella vita (cf. Sacrosanctum Concilium 7). Perciò,


le nostre celebrazioni dovrebbero essere non monotone, ripetitive, formali, sempre uguali, senza slancio e senza coloritura specifica dei vari tempi liturgici, ma vive e gioiose. Ogni celebrazione, pertanto, va curata con fede, con diligenza, e va attuata con serietà e con fremito d’amore, in modo che diventi esperienza viva di Cristo. In particolare, la Veglia pasquale, che è il vertice e la sorgente dell’anno liturgico, va preparata con grande attenzione, tenendo presente che non è una semplice Messa, ma è una celebrazione unica e polivalente, che richiede una ministerialità (di gesti, canti, servizi) convinta, precisa e armonica, tale da poter suscitare la partecipazione fruttuosa non solo dei cristiani solitamente praticanti, ma anche un certo interesse in quei cristiani cosiddetti “natalini” e “pasqualini”, che sono ancora legati alla Chiesa dal sottile filo rosso delle due feste più importanti e potrebbero rimanere affascinati da celebrazioni ben fatte e sentire il bisogno di ritornarvi. Evidentemente, nella vita e nel rito niente si improvvisa e nulla si interrompe senza lasciare traccia. Per questo motivo, la saggezza della Chiesa è andata costruendo tutto un cammino di preparazione alla Pasqua (il Triduo, la Settimana santa, la Quaresima) e di riflessione (la cinquantina pasquale), in modo

da favorire una solenne celebrazione e una crescente assimilazione vitale del mistero pasquale. Come scriveva l’allora cardinale Joseph Ratzinger, «la Pasqua riguarda l’inconcepibile: il suo evento ci viene incontro dapprima solo attraverso la Parola». Perciò, nella Veglia pasquale si dà largo spazio a letture bibliche che segnano, fin dalla creazione, le varie tappe della storia della salvezza, culminante in Cristo. Se ne curi una conveniente proclamazione, introducendole e collegandole con brevi monizioni e sollecitando la risposta dell’assemblea nel canto almeno del ritornello del salmo responsoriale. «Però, poiché ora pensiamo con i sensi, la fede della Chiesa ha tradotto la Parola pasquale anche in simboli, che fanno presagire il non detto della Parola», continuava Ratzinger. Si tratta di simboli vitali, da vedere in chiave cristologica, perché Cristo non è un “di più” marginale, come un dolcetto che può essere servito a conclusione del pranzo, ma una realtà essenziale. E, difatti, Gesù parla di sé come via, verità, vita, pane, acqua, luce, risurrezione. Tutte realtà indispensabili, di cui non si può fare a meno. Effettivamente, la Veglia pasquale è scandita da quattro parti che ne costituiscono la struttura: liturgia del fuoco e della luce, della Parola, dell’acqua battesimale, del pane eucaristico. a) Segno e condizione di vita è il fuoco-luce. L’onore reso al cero pasquale, acceso al fuoco nuovo, che avanza nella chiesa buia e da cui ricevono luce le candele dei fedeli, diventa inno gioioso a Cristo risorto, vincitore della morte (canto dell’Exultet). L’evento viene tradotto nel nostro presente: dove la luce sconfigge il buio, accade qualcosa della risurrezione. «Habet mundus iste noctes suas, et non paucas», dice san Bernardo (Sermo-

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nes in cantica LXXV). Tutte le notti del mondo sono riassunte nella notte di Gesù: il Getsemani, il processo, le torture, la croce, la tomba. Ma il buio di quelle notti è rischiarato dalla luce del Risorto. b) Anche l’acqua è simbolo pasquale, perché è, insieme, minaccia di morte e promessa di vita. Il protagonista della Pasqua, Gesù Cristo, era sceso nel regno dei morti, ma ne è tornato vivo e dà vita. Il Battesimo, che trova il suo contesto celebrativo ideale nella Veglia pasquale, è sacramento di morte e comunica risurrezione (cf. Rm 6,39). Esso comincia la vita nuova, che è partecipazione della vita divina (cf. 2Pt 1,4), rende, come dice Léon Bloy, “miliardari spirituali” e offre il pegno della beatitudine eterna. c) Il canto solenne del triplice Alleluia pasquale, che risuona nuovo e gioioso dopo il lungo silenzio quaresimale, è “l’inno dei redenti” e con il suo iubilus, commenta sant’Agostino nelle sue Enarrationes in Psalmos, esprime l’inesprimibile, dando voce alla gioia e alla speranza dei pellegrini, che cantano e camminano. d) Ma soprattutto il pane e il vino eucaristizzati, che inverano, superandolo, l’agnello pasquale ebraico, sono il segno del sacrificio redentore che Dio stesso si è preparato e ha gradito, così come “provvide” ad Abramo la vittima (cf. Gen 22,8). L’agnello sacrificale lo troviamo nelle prime pagine della Bibbia quale sacrificio del pastore Abele e diviene il centro del cielo e della terra nell’ultimo libro della Sacra Scrittura. Secondo l’Apocalisse, solo l’Agnello può sciogliere i sigilli della storia. All’Agnello, che appare sgozzato e tuttora vive, è diretto l’omaggio di tutte le creature del cielo e della terra. Il mondo vive di Colui che si sacrifica. In questo sacrificio è la vera vittoria. Da esso deriva la vita


che, attraversando tutte le atrocità, dà senso alla storia e la trasforma in un canto di gioia. Come Isacco, vedendo il montone, fu liberato dall’angoscia di morte e gioì per la vita riavuta, così noi, guardando all’Agnello, possiamo gioire e ringraziare. La massima solennità dell’anno liturgico ci incoraggia, guardando a Colui che è stato ucciso ed è risorto, a scoprire – nell’apertura dei cieli – l’esito finale del progetto divino di salvezza. Si compie, così, la parola che Gesù rivolse ai suoi nel discorso di addio, quando annunciò la sua nuova venuta: «Vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,2b-3) e «la vostra afflizione si trasformerà in gioia» (Gv 16,20).

Pasqua del mio Signore, Pasqua della mia vita! Canto la tua vittoria Salvatore del mondo, Gesù Risorto.

ATTENZIONI RITUALI

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iteniamo utile ricordare alcune norme rituali riguardanti le feste pasquali. E lo facciamo richiamando la Lettera circolare Paschalis sollemnitatis sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, un documento della Congregazione per il Culto Divino forse un po’ trascurato, a cui rinviamo per una lettura integrale, seria e approfondita. 1. Settimana santa Affinché le celebrazioni riescano bene, siano comprese e partecipate, è necessario che si preparino bene anzitutto i ministri, i ministranti e i canti (n. 41). Si eseguano in canto la grande preghiera universale del Venerdì santo, l’ostensione e l’adorazione della croce, le acclamazioni alla processione con il cero e il Preconio. Si riprenda il canto del triplice Alleluia in gregoriano, alzandolo progressivamente di tono. Si assicuri sempre la partecipazione del popolo al canto (n. 42). La benedizione delle palme o dei rami d’ulivo si fa per portarli in processione e per nessun altro motivo. Conservate nelle case, le palme richiamano alla mente dei fedeli la vittoria di Cristo celebrata con la stessa processione (n. 29) e non hanno nessun altro significato. La storia della passione ha, poi, importanza e solennità particolari: «Si provveda affinché sia cantata o letta secondo il modo tradizionale, cioè da tre persone che rivestono la parte di Cristo, dello storico e del popolo. La passione viene cantata o letta dai diaconi o dai sacerdoti o, in loro mancanza, dai lettori; nel qual caso la parte di Cristo deve essere

riservata al sacerdote. La proclamazione della passione si fa senza candelieri, senza incenso, senza il saluto del popolo e senza segnare il libro; solo i diaconi domandano la benedizione del sacerdote, come le altre volte prima del Vangelo. Per il bene spirituale dei fedeli è opportuno che la storia della passione sia letta integralmente e non vengano omesse le letture che la precedono» (n. 33). È anche esplicitamente prevista, alla fine, una breve omelia (n. 34). Si insista, inoltre, sul digiuno pasquale, affinché sia prolungato possibilmente anche al Sabato santo (n. 39). 2. Giovedì santo Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può fare l’esposizione con l’ostensorio. 28


biamento, preferibilmente in ora pomeridiana. Essa inizia con la prostrazione del presidente (e dei ministri) in assoluto silenzio davanti all’altare spoglio (n. 65). 4. Veglia pasquale Si svolga effettivamente di notte (non di sera), in modo che finisca oltre la mezzanotte. Non sono ammesse deroghe. La Veglia pasquale non è una sorta di Messa prefestiva anticipata della Pasqua. Il Sabato santo, infatti, è un giorno senza Messa. Bisogna esortare caldamente i fedeli a parteciparvi, come del resto già si fa per la notte di Natale, che pur è liturgicamente inferiore e cade d’inverno (nn. 3 e 78). Per il principio liturgico della “verità dei segni”, si accenda un vero fuoco avanti la chiesa e si usi un vero cero pasquale (di cera e non di plastica!), nuovo ogni anno (n. 82), al quale vengano accese le candele dei fedeli. Finito il tempo pasquale, il cero non rimanga nel presbiterio, presso l’ambone, ma sia collocato accanto alla vasca battesimale. Le letture dell’Antico Testamento siano almeno tre, precedute da una breve presentazione. I salmi responsoriali non siano sostituiti da canti popolari (n. 86). Al rinnovo delle promesse battesimali i fedeli stiano in piedi e con le candele accese nuovamente dal cero pasquale (attenzione agli accendini in entrambi i momenti…). Poi vengono aspersi con l’acqua: in tal modo gesti e parole ricordano loro il battesimo ricevuto. Il sacerdote asperge il popolo passando per la navata della chiesa, mentre tutti cantano l’antifona Ecco l’acqua o un altro canto di carattere battesimale (n. 89). Non si mortifichi la liturgia eucaristica con una celebrazione frettolosa, per terminare più presto; tutti i riti e tutte le parole raggiungano la massima forza di espressione (n. 91). Si consiglia, all’inizio delle messe del giorno di Pasqua, il rito dell’aspersione con l’acqua benedetta nella Veglia come atto penitenziale. Durante l’aspersione si canti l’antifona Ecco l’acqua, o un altro canto di carattere battesimale. I vasi che si trovano all’ingresso della chiesa vengano riempiti con la stessa acqua (n. 97).

Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un’urna che possa indurre, come qualsiasi altro elemento, a considerare il luogo della reposizione come “sepolcro”. Si eviti anche questo termine, perché non si vuol rappresentare la sepoltura di Gesù, ma solo custodire il pane eucaristico per la comunione del Venerdì santo e per l’adorazione (nn. 55-56). È bene, al termine della Messa del Giovedì santo, spogliare l’altare e coprire le croci con un drappo rosso o violaceo. Non si accendono luci davanti alle immagini (n. 57). 3. Venerdì santo La celebrazione liturgica ha il primo posto rispetto a qualsiasi altro pio esercizio: si svolga senza alcun cam-

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CREDERE OGGI di Pietro De Lucia

Come leggere i Vangeli? L’importanza della Lectio divina

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a tradizione cristiana ha sviluppato e codificato un metodo, una pedagogía per la lettura della Bibbia e quindi anche dei Vangeli: è il metodo della “Lectio divina”, cioè della “lettura della Parola di Dio in colloquio con Dio”. Si chiama così non soltanto perché i testi che leggiamo contengono ciò che Dio ci dice, ma anche perché è una lettura che si fa in due: chi legge da una parte e lo Spirito del Risorto dall’altra. Lo Spirito ci fa scoprire nel testo del Vangelo la persona viva di Gesù, perché possiamo incontrarlo e sperimentarlo come il “Signore” della nostra vita. La “lectio divina” è dunque la lettura di una pagina evangelica in modo che essa diventi preghiera e trasformi la vita. Essa comprende quattro momenti tutti importanti. Trascurandoli o facendoli disordinatamente si corre il rischio che la lettura risulti sterile o addirittura controproducente. I momenti sono questi: 1. lettura; 2. meditazione; 3. preghiera; 4 contemplazione. 1. La lettura evidenziata Si prende in mano una penna e si apre la pagina del Vangelo. È importante, perché il Vangelo si legge con la penna e non soltanto con gli occhi! “Lettura” vuol dire perciò qui, leggere e rileggere il testo sottolineando i verbi, magari in rosso, si inquadra il soggetto principale, così che sia messo bene in evidenza. Con una crocetta o con un piccolo cerchio si richiama l’attenzione sulle altre parole che mi colpiscono. Là dove non mi è chiaro il senso, segno a margine un punto interrogativo. Occorre insomma che risaltino bene le azioni che

vengono descritte, l’ambiente in cui avviene il fatto, il soggetto che agisce e chi riceva l’azione. Una doppia sottolineatura può indicare quello che per me è il punto centrale del brano. Allora scopriamo elementi che a una prima lettura ordinariati erano sfuggiti, troveremo cose che non ci aspettavamo, anche se pareva di sapere il brano quasi a memoria. Dopo di ciò possiamo anche prolungare questa operazione di “lettura” cercando di ricordare dei brani simili della Bibbia, o di cercarli aiutandoci con le note.

sione sui sentimenti e sui valori diviene fonte di confronto con la situazione ed esperienza personale di chi legge: In quale personaggio del racconto evangelico mi ritrovo? La meditazione non è fine a se stessa, ma tende a farmi entrare in dialogo con Gesù, a diventare preghiera.

2. La meditazione Dopo il primo momento di lettura si passa a quello successivo: il gradino della meditazione. La meditazione è la riflessione su ciò che il testo ci vuole dire, sui sentimenti e sui valori permanenti nel testo. Si cerca cioè di comprendere quali giudizi e proposte di valore sono espliciti e impliciti nelle parole, negli atteggiamenti, nelle azioni. Lo si fa attraverso domande come queste: come sono comportanti i personaggi del brano? Qual è il loro atteggiamento verso Gesù? Quali i sentimenti di Gesù nel loro riguardi? Come mai sono state dette quelle parole? Che senso hanno quei gesti? In questo modo cominciano ad emergere i sentimenti e i calori perenni e centrali: i sentimenti dell’uomo di ogni tempo come il timore, la gioia, la speranza e all’opposto la paura dell’affidarsi, il dubbio, la solitudine. Gli atteggiamenti di Dio verso di noi: la bontà, il perdono, la misericordia, la pazienza. La rifles-

3. La preghiera Il terzo momento della lettura divina è la preghiera. Dal fatto narrato si rivela gradualmente, a me che ho meditato, la presenza del Signore, intuisco che quelle parole sono un invito personale che oggi viene fatto a me. La preghiera comincia a coinvolgermi. Entro nei sentimenti religiosi che il testo evoca e suscita: la lode a Dio per la sua grandezza, per la sua bontà verso di noi, di ringraziamento, di richiesta di grazie, chiedo perdono perché di fronte ai valori proposti dal brano evangelico mi trovo mancante. Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni di Gesù. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera, poi, si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli

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uomini. A un certo punto, dal momento della preghiera si passa a quello della contemplazione, quasi senza accorgersene. 4. La contemplazione La contemplazione è qualcosa di molto semplice. Quando si prega e si ama molto, le parole vengono quasi a mancare e non si pensa più tanto ai singoli elementi del brano letto e a ciò che abbiamo compreso di noi. Si avverte il bisogno di guardare solo a Gesù, lasciarsi raggiun-

gere dal suo mistero, di riposare in lui, di amarlo come il più grande amico del mondo, di accogliere il suo amore per noi. È una esperienza meravigliosa, ma che tutti possono fare perché fa parte della vita del battezzato, della vita di fede. È l’intuizione, profonda e inspiegabile che al di là delle parole, dei segni, del fatto raccontato, delle cose capite, dei valori emersi, c’è qualcosa di più grande, c’è un orizzonte immenso. È l’intuizione del

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regno di Dio dentro di me, la certezza di avere toccato Gesù. Allora la lettura divina dei Vangeli, con i suoi quattro momenti che essa comporta, non è soltanto una “scuola di preghiera”, diventa una scuola di vita. Perché l’aver sperimentato personalmente Gesù come il salvatore e il liberatore cambia, e diventa la “confessione pratica, vissuta nelle mie scelte quotidiane, che lui è il Signore della mia storia e della storia di tutti gli uomini, che è il Signore del mondo.


SPIRITUALITÀ di Clara Fusciello

Dal buio alla luce

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a notte della domenica delle Palme del 27/28 marzo 1211, Chiara lasciava furtivamente Assisi per scendere verso Santa Maria della Porziuncola. La Porziuncola dista solo una manciata di chilometri da Assisi. Oggi la strada è una comoda passeggiata per i pellegrini che vogliono gustare il paesaggio a “misura d’uomo”. Al tempo di Chiara tutta l’area era coperta dal bosco e la Porziuncola non era che una piccola chiesetta quasi diroccata immersa nella vegetazione. Francesco all’inizio della sua conversione l’aveva ristrutturata alla meglio riparandone il tetto. Chiara esce non per la porta consueta, ma per la cosiddetta

“porta del morto”, una porta di solito ostruita perché aperta soltanto nei funerali per trasportare fuori la salma del morto. Le porte della casa erano sprangate di notte… o forse vuole dare un messaggio di definitività a quelli di casa? Una corsa nel buio, col cuore appena rischiarato da un desiderio a lungo coltivato: «Come Chiara seppe, che santo Francesco aveva eletta la via de la povertà, propose nel suo cuore di fare anche lei quello medesimo» dice una sua sorella al processo per la canonizzazione. E alla Porziuncola c’era Francesco e c’erano i suoi frati con le fiaccole accese ad accoglierla per iniziare 32

un’avventura oramai lunga otto secoli. Pochi chilometri dalla propria casa, ma quale grande distanza percorse Chiara quella notte! Dall’agiatezza della sua vita aristocratica all’incertezza di una condizione dura e povera. Dall’alta e comoda posizione di chi è servito alla bassezza di chi serve, di chi volontariamente sceglie di stare all’ultimo posto senza altra sicurezza che la Parola del Vangelo. «O povertà santa! A quanti ti possiedono e desiderano, Dio promette il regno dei cieli, e offre in modo infallibile eterna gloria e vita beata». Era l’inizio della settimana santa. Anche Gesù sarebbe passato in pochi giorni dalle grida di «osanna» al grido: «crocifiggilo!». C’è nella scelta di Chiara l’eco del Signore Gesù, delle sue scelte, del suo scendere dalla gloria del Padre alla fragilità della nostra condizione umana: «io sono venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Facciamo memoria in questa Pasqua dei percorsi bui, delle sofferenze che ci fanno toccare con mano la nostra fragilità, la nostra impotenza. Ma se tutto questo è attraversato con il Signore, allora si apre qualcosa di nuovo e la morte non è più l’ultima parola. Fare come ha fatto Gesù, che ha “dimenticato” se stesso per amore nostro, è la chiave per avere la vita. E allora anche la nostra esistenza fatta di cose quotidiane, forse piccole, diventa un’eco di Vangelo. Diventa bella come bello è il bene: non fa rumore, non è appariscente… ma regge il mondo!


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Francesco tra Regola e vita

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’invito che seduce Francesco è formulato in termini condizionali –“se vuoi” – e allude a un’onda d’amore che lo spinge a muoversi con leggerezza, oltre ogni armatura. “Se vuoi”. È una scossa salutare. Sepolta sotto il peso della tradizione, emarginata dallo spirito del tempo, la volontà, che sembrava incapace di un sussulto esistenziale, s’impone modificando stile e direzione di vita. La libertà riconquistata non conosce legami stabili a luoghi o a persone. Si è nel mondo non per sottomettere gli altri a sé, ma “per sottomettersi” (eis subiectis). Non si tratta di proclamare la verità, ma di mostrarne la bellezza attraverso la vita, essendo di questa la forma espressiva. Occorre andare senza bastone, e cioè non per l’autodifesa o per l’offesa, anche se si va incontro a banditi o a lebbrosi. Ebbene, questo stile era una novità così radicale che, presente nella prima Regola (non bullata), risulta attenuato nella Regola bullata, quando a redigerla non è la mano di Francesco. Non è irrilevante ai fini della centralità di que-

sta libertà itinerante rilevare che l’Anonimo Perugino (1240-1241) data l’origine dell’Ordine francescano non dalla conversione del fondatore (1206) o dal riconoscimento verbale da parte di Innocenzo III della Protoregola (1209) o dal riconoscimento ufficiale della Regola bollata (1223). L’inizio è fatto coincidere con l’invito del Crocifisso ad “andare e a riparare la sua chiesa”. Il mondo è lo spazio della libertà e i privilegiati sono i poveri, gli eterni viandanti. Non ci sono regni da conquistare o terre sante da ripulire. L’unica sorgente, a cui far ritorno, è il Vangelo. Se inizialmente pensava che dovesse dar luogo a una regola con precetti specifici (quod deberem facere), l’Altissimo gli fece comprendere che non di questo doveva preoccuparsi, ma piuttosto di “vivere” (quod deberem vivere) secondo il Vangelo. La vita di Cristo è la regola: è la vita sulla quale esemplare la propria vita. Una vita, dunque, modellata sulla vita, o anche, una forma di vita, non un codice di norme e di precetti. È la vita al centro.

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È la vittoria della libertà, anima della vita, la quale non si lascia imprigionare da alcunché, né valutare in base a ciò che invece ad essa è funzionale. Il proposito di Francesco è d’immettere la vita di Cristo nei solchi della storia e del proprio tempo. Il monachesimo incarna lo stile liturgico che trasforma la vita in una specifica e continua lode a Dio. Qui è la forma che prevale sulla vita e questa, per quanto innalzata, si ritrova su un sentiero solitario, a differenza di Cristo che ha percorso le molte strade della vita. Da qui il senso della decisione di vivere non secondo una regola monacale, né però secondo la forma della santa Chiesa romana, caratterizzata dall’officium sacerdotale – Francesco resterà diacono. È l’altissima paupertas che splende, dalla cui altezza s’impone la funzionalità delle istituzioni come di qualunque espressione dottrinale, da rispettare, se feconda, non da idolatrare. La regola in funzione della vita, non la vita in funzione della regola. È la libertà di Francesco.


LA POTENZA SENZA POTERE L’affascinante lezione di Assisi

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l cospetto di sofferenze e angustie della sua gente, Gesù Cristo dimostra potenza e potere, al punto da suscitare in tutti meraviglia e ammirazione: “Non è costui il figlio di Maria e di Giuseppe il carpentiere, si dicevano l’un l’altro?” (Mc 6,3). Nell’ora decisiva della morte, però, quando ha voluto svelare il senso ultimo del suo messaggio, Egli non dimostra alcun potere. Si impone la Croce. E l’immagine della Croce è quella della potenza senza potere. Ebbene, è questa la chiave del mistero cristiano. Non è forse il crocefisso che ricorda nel tempo la divinità di Cristo? Il centurione esclama - “costui è veramente Figlio di Dio!” (Mc 15,39) – quando è in croce, non quando moltiplica i pani o risuscita Lazzaro, e dunque quando non ha più alcun potere. Non è solo il Crocefisso la cifra della potenza senza potere. Anche il Padre, l’onnipotente, lo è, poiché non soccorre il Figlio nel momento più alto della Passione – “Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Cosa, dunque, rivela la religione cristiana? La religione rivela il non potere della potenza, offrendoci il Dio in croce. E’ facile intenderne il significato? “Vi manderò lo Spirito” (Gv 14,16; 16,7) – dice Gesù agli apostoli sconcertati, perché ancora legati al potere. È lo Spirito che vi farà comprendere quanto ho detto e fatto – ribadisce loro Gesù - e cioè il senso della

potenza senza potere. Come esprimerlo? In mille modi, dicendolo dai tetti, senza timore– ecco la sua potenza - ma senza imporre alcunché ad alcuno – assenza di potere. E’ la libertà creativa della Croce, dove Cristo ‘espone’ il suo corpo, immobilizzato dai chiodi, autentico scenario della potenza senza potere. Ora, di cosa Francesco è testimone? della potenza senza potere. È bene ricordare il 29 settembre 1220 quando, in occasione dell’assise generale dei frati, Francesco rinuncia al ruolo di ‘superiore’ della famiglia, che pure aveva faticosamente partorito, affidando la responsabilità del comando a frate Elia. Egli vuole che il potere carismatico, che egli incarna, non prevalga sull’Istituzione, ma ne sia l’anima ispiratrice, in maniera che la ‘povertà’, che la caratterizza, abbia la sua vera fonte e ne sia la luce. Infatti, o è carismatica o la povertà è solo miseria. E che dire della scelta di Francesco a favore dei poveri? Costoro, nell’ottica dell’ideologia sociale, non hanno alcun potere, mentre agli occhi dell’Assisiate si impongono come i privilegiati di Dio. La scelta dei poveri dunque, è motivata dal fatto che sono l’immagine della potenza senza potere. Dopo aver rinunciato sulla piazza d’Assisi al diritto d’eredità paterna, Francesco rinuncia anche al diritto di fondatore, perché la libertà cristiana risplenda nel tempo come una potenza senza potere. E di cos’altro la famiglia francescana è chiamata a farsi restiome e interprete?

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Questa la kenosi cristiana nella versione francescana. Il suo tratto caratterizzante è la disponibilità, non il potere, come in famiglia, dove ognuno è superiore e suddito a un tempo. E in cos’altro consiste il valore universale del messaggio francescano? “”“”“”“”“”“”“”“””””””””””””””””” Nell’ottobre del 1986, in Assisi, le religioni non erano una accanto all’altra, immagini di mondi estranei. Ammirando quello scenario, non fu difficile percepire che le religioni, convocate da Giovanni Paolo II, erano legate tra loro da un filo invisibile di matrice francescana o anche, erano tutte entro lo stesso spazio teologico, inteso come potenza senza potere. È la concezione del Dio francescano che si impone e tiene insieme tutte le religioni. Pur essendo fonte dell’essere, Dio non si propone come fondamento d’alcunché – matrice remota dei fondamentalismi – ma come sorgente del nuovo, da progettare e costruire, con fiducia e con fatica. Secondo quale stile? Lo stile della Croce, ispirato alla potenza senza potere, e cioè offrendo, dispiegando, esponendo tutto ciò che si è e si ha, come il sole, la cui luce ti illumina, ma solo se apri la finestra, o come la rosa che espone la sua bellezza, anche se non le doni uno sguardo. E ora, quelle stesse religioni, convocate per il 27 ottobre da Benedetto XVI, di cosa saranno l’immagine se non della potenza senza potere? E di cos’altro ha bisogno l’umanità? E’ l’affascinante lezione di Assisi!


Perdono... perdono... per-dono

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ietro scopre che il volto di Dio, che Gesù racconta, è un volto amorevole e misericordioso, ma di un amore serio ed esigente: Dio è disposto ad amare fino a morire. E la sofferenza, in questa logica, non rappresenta uno sbaglio, un errore di percorso, una cosa da evitare a tutti i costi, ma può diventare il modo d’esplicitare l’affetto. La sofferenza è l’altra faccia dell’amore. In gioco vi è la libertà; un amore non corrisposto, un amore deluso, è sorgente di dolore. Dio soffre, proprio perché è il grande amante. Seguire il Nazareno, significa essere disposti ad amare sempre, ad ogni costo. Fino a provare dolore. Superando se stessi, la propria gratificazione. È un equilibrio difficile da raggiungere, continuamente sospesi in una sorta di autolesionismo, che affonda le sue malsane radici in una scorretta visione di Dio: Dio non ama la sofferenza. Ma, talora, la sofferenza si rende necessaria, per poter amare. Gesù propone di donare la propria vita agli altri, proprio perché lui per primo ha fatto così. San Paolo ci introduce a un approfondimento di questo tema, affer-

mando che i precetti, che Israele ha ricevuto, sono sintetizzabili tutti nel comandamento dell’amore verso il prossimo. Strana riflessione, quella dell’apostolo. Noi viviamo l’amore come una contrapposizione al comando: associamo la parola “amore” a concetti come “passione”, “creatività”, “emozione”, “follia”; e – al contrario – associamo la parola “precetto” a concetti come “dovere”, “costrizione”, “rigidità”, “noia”. Siamo reduci da decenni di predicazione sul senso del dovere, sul confronto continuo con i vari modelli di buona madre, buon padre, buon figlio, buon insegnante, buon parroco… E – da bravi adolescenti poco cresciuti – il nostro mondo contemporaneo si è ribellato a questa costrizione, proponendoci, in alternativa, una sregolatezza assoluta. La propria sensazione ed emozione, come criterio di giudizio su tutto. Salvo poi arenarci sulla sponda opposta a quella evitata: la frammentazione degli affetti, uno scontento che tenta di alimentare la gioia con l’ebbrezza e l’eccesso. Non è sabato sera se non ti cuoci! Il supereroe proclama: io reggo benis-

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PASTORALE di Antonio Vetrano

simo l’alcol!, e Questo non mi fa niente! La Scrittura, al solito, ci viene incontro con sano realismo, proponendo un equilibrio tra un moralismo rigido e una dissennata emotività. Gesù ci chiede di amare. E l’amore è ciò che l’uomo desidera più di ogni altra cosa: solo nell’amore realizziamo il nostro volto più autentico. Ma: “Che coss’è l’amor?”, canta Vinicio Capossela… Spontaneamente pensiamo alla splendida esperienza dell’innamoramento. Sappiamo, però, che essa è solo una tappa – necessaria ed entusiasmante – di un percorso, che continua e sfocia nell’assumere con responsabilità l’altra persona: ti amo nella tua interezza; ti prendo e mi offro nella quotidianità; voglio te come compagno/a di viaggio, te come compagno/a alla ricerca della felicità. Così è per l’amore verso i figli, l’arte difficile del rendere autonomo un cucciolo d’uomo. Così per l’amicizia, complicità festosa, che si trasforma in legame indissolubile, nella difficoltà. Lo so, sono molto ottimista. Ma la sintesi del Vangelo è straordinaria: ama col cuore e con la testa, rendi


concreto il tuo affetto. Mettiti in gioco oltre l’emozione. Scegli, schierati. Dona e donati. Ma fai questo, perché hai sentito amore dal tuo grande Dio. Imitalo, nel tuo gesto, perché egli ti ha riempito il cuore... ama il prossimo come te stesso. Dapprima trova equilibrio nell’amore verso te stesso; accogli le tue fragilità senza vergogna, mettile nelle mani di Dio, con abbandono filiale... L’amore è il cuore della fede, del Vangelo. La fede non è seguire una regola, ma amare una persona. Il Signore Gesù, e l’amore per Cristo, mi porta a un cambiamento di vita, a una vita nuova. Questa è una verità cardine del cristianesimo. Il criterio del Vangelo è pieno di amorevole buon senso: ti voglio bene al punto che, dopo aver pregato, ti chiedo di interrogarti sui tuoi atteggiamenti. La franchezza evangelica è un modo concreto di amare, di essere solidali. Anche con durezza. Come ha fatto Gesù con la cananea, e con Pietro. Nelle nostre comunità abbiamo bisogno di scoprire questo modo concreto di intervenire, di prendere a cuore il destino dei fratelli. Senza nasconderci dietro un ipotetico rispetto, che non mi interpella e lascia il fratello nella propria inquietudine. Se davvero il Rabbì mi ha cambiato la

vita, ha cambiato anche il modo di vedere gli altri. E di occuparmi degli altri. L’atteggiamento del perdono lo maturiamo nella consapevolezza del nostro limite. Il Signore desidera talmente superare il nostro limite, che ha istituito il sacramento della Riconciliazione. Che è un momento straordinario, poco valorizzato da noi cristiani. Ci presentiamo alla Confessione come quando compiliamo l’Unico o il 740: meno dichiariamo, meno paghiamo! Ah, se sapessimo, se riuscissimo a comprendere, se capissimo di quanto amore il Signore è capace di colmarci! Se riuscissimo a costruire delle comunità di perdonati! Il nostro mondo ha smarrito la dimensione del proprio limite, e fatica a trovare il perdono profondo che solo l’amore di Dio può dare. Ci vuole impegno, però, perché le nostre comunità diventino luogo di comunione, di accoglienza, di perdono dato e ricevuto. Per diventare testimoni credibili dell’amore di Dio. Perdonare. Ma perdonare è una debolezza, dice il mondo violento intorno a noi. Andiamoci piano, per cortesia, il perdono è una cosa seria. Lo sa chi è stato ferito. Lo sa chi ha ferito; e

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ne ha consapevolezza, di aver ferito. Al tempo di Gesù i rabbini suggerivano di perdonare fino a tre volte un torto subito, manifestando clemenza. Quattro, per i familiari (figli, fratelli, genitori…). Pietro – furbacchione! –, nel Vangelo di Matteo, vuole esagerare rispetto ai rabbini, proponendo di perdonare fino a sette volte. Ma ha fatto male i suoi conti... La proposta di Pietro è generosa ed eroica, quella di Gesù – perdonare sempre – è folle. Siamo chiamati a perdonare sempre, perché siamo perdonati sempre. Il piccolo credito, che abbiamo verso i fratelli, non è nulla rispetto al debito mostruoso, che abbiamo contratto verso Dio. E che egli ha cancellato. Non devo perdonare, perché l’altro migliori. O si converta. O si intenerisca… Non perdono perché l’altro cambi, ma perché io ho urgente bisogno di cambiare! Quanto è adulto e virile il perdono! Quanto è forte e deciso! Quanto è eroico e, allo stesso tempo, umano! Abbiamo bisogno di donare e ricevere il perdono. Come ha intuito Giovanni Paolo, riprendendo e ampliando Isaia: non c’è pace senza giustizia. …Ma non c’è giustizia senza perdono! Proviamo?


APPROFONDIMENTI di Edoardo Scognamiglio

Tutto ciò che si manifesta è luce La tradizione ortodossa e le energie divine

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a Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare al tema della luce, mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza mistica. La Chiesa prega il Signore di “far risplendere la santificazione”. Così il tempo di Quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione: «E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1Pt 1,12). Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli “colti dal più profondo stupore si velano il volto”. Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: “fa’ risplendere il tuo

volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito”. Il sacramento dell’illuminazione Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: “sacramento dell’illuminazione” e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di “illuminati”. «Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore» (Ef 5, 8). Nel battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l'uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente “figlio della luce”. Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al “trionfo dell’ortodossia”, la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas. Il Sinassario lo indica come “il luminoso dottore della Grande Luce”.

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La dottrina di san Gregorio Palamas Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1,4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di “partecipi della Luce divina”. È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che, quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare: «La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà». Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale. Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si


contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza. Difatti, tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi a una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso. La presenza di Dio nel mondo e nell’uomo La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e la differenza dei modi d'esistenza in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita... Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma “energetica”. Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo. Queste precisazioni offerte dal dottore luminoso chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come divinizzazione e, in termini mistici, indica come illuminazione: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce. 38

L’insegnamento patristico

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er molti Padri della Chiesa, la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione, bensì alla vita. Qui la ragione non trova né parole né pensieri e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui lo stupore è l’inizio della sapienza, indica il solo atteggiamento corretto: sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita. Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione. La luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le “seconde luci”, poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti. La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è seconda luce perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è simili e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli. L’illuminato è colui che è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia. Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5,14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5,16) – non è per nulla allegorico. La Théotokos liturgicamente porta il nome di Madre della Luce, e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3,7).


UN PO’ DI STORIA di Felice Autieri

Due anniversari: fra Giovanni Recupido e Mons. Giuseppe Palatucci

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uest’anno, la nostra Provincia religiosa ha festeggiato due anniversari di due religiosi che hanno segnato la vita spirituale e culturale della Provinicia di Napoli dei Frati Minori Conventuali. Mi riferisco alle figure di P. Giovanni Recupido e Mons. Giuseppe Palatucci, Vescovo di Campagna (Salerno). Forse ai più questi due nomi non dicono nulla, ma a quanti li hanno conosciuti, frati o laici che siano, questi due religiosi hanno lasciato un segno indelebile. Andiamo per ordine cronologico. P. Giuseppe Palatucci non è stato solo un frate della Provincia religiosa Ofm Conv. di Napoli, ma è stato uno studioso di Sacra Scrittura, professore, formatore dei futuri frati e di clarisse, valente predicatore, fondatore della rivista Luce Serafica e successivamente nominato vescovo di Campagna. In questo paese della campagna cilentana profuse la sua esperienza di uomo e di sacerdote, visitando di lungo e in largo una diocesi anche nei paesi più lontani e difficilmente raggiungibili se non a dorso di un asino, come fece. Il suo nome è legato all’opera da lui profusa per mitigare, aiutare gli internati ebrei nei due ex conventi di Campagna, cercando di rendere più umana possibile la loro permanenza in questo luogo o aiutandoli con sostegni economici personali o della Santa Sede. Il suo operato è strettamente collegato all’opera del nipote, Giovanni Palatucci, questore a Fiume, oggi in Croazia. Il nipote si adoperò per inviare il più alto numero di persone dallo zio a Campagna, sapendo bene che avrebbero ricevuto un trattamento decisamente più umano rispetto a quello che sarebbe spettato loro nei campi di concentramento tedeschi

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o polacchi. È questa la fine che toccò a Giovanni che morì a Dachau nel gennaio 1945, pochi mesi prima della liberazione degli americani. P. Giovanni Recupido era il nipote di Giuseppe e fu anche nei primi anni di sacerdozio il suo segretario personale. Successivamente, fu inviato durante il secondo conflitto mondiale, dall’altro zio P. Alfonso Palatucci, Ministro provinciale, di comunità nel convento di S. Lorenzo Maggiore a Napoli dove fu tra l’altro primo Parroco della nuova parrocchia (1951-1958) e dove profuse le sue migliori energie non solo in campo pastorale ma soprattutto per il recupero e lo sviluppo del patrimonio storico culturale dell’insula francescana. Uomo dalla forte tempra caratteriale e volitivo negli impegni che si prefiggeva, combatté con fermezza perché iniziassero i lavori degli attuali scavi di S. Lorenzo maggiore, della fondazione di un museo dove poter contenere le opere più significative del complesso e della Basilica. Rispettato e stimato dalle autorità civili e religiose, egli è, senz’ombra di dubbio, il vero motore di ciò che poi sarebbe diventata l’insula francescana di S. Lorenzo maggiore. Concludiamo ricordando che in questo 2012 celebreremo un altro importante anniversario: il 75° anno del ritorno dei frati nel convento di S. Lorenzo maggiore che avvenne il 27 novembre 1937 con l’ordinazione episcopale di Mons. Giuseppe Palatucci. È questo un anniversario che ci lega ancora una volta a questa figura di frate e di vescovo che, con il nipote P. Giovanni, ha lasciato un segno davvero particolare in quanti hanno saputo cogliere, al di là dei ruoli svolti, le poliedriche personalità e soprattutto il bene che hanno fatto.


ARTE di Paolo D’Alessandro

Una via di Salvezza

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a Basilica di San Lorenzo Maggiore di Napoli mi ha da sempre affascinato non solo per le vicissitudini storiche che si sono sovrapposte nei secoli ma anche per la spiritualità e l’arte che promana. Il presentarsi all’esterno con una piccola facciata barocca, quasi anonima, mentre all’interno lo spazio si dilata in una grande aula liturgica che termina nella luminosa e slanciata abside di stile gotico francese, mi ha sempre colto di sorpresa suscitando in me sentimenti di stupore e ammirazione. Tra le opere d’arte presenti in basilica quella che più mi ha incuriosito, tanto da intraprendere delle ricerche storiche, è un grande dipinto di soggetto francescano, posto nella controfacciata sopra il portone d’ingresso. Esso è tra le opere più straordinarie di tutta la pittura napoletana del Cinquecento indicata dalle guide come: l’Allegoria dell’Ordine francescano di Francesco Curia (+ 1608 Napoli) (foto 1). Originariamente questo dipinto faceva parte di una pala d’altare (detta anche “cona”), con predella, cornici di legno dorato e che terminava con un ovale identificato con la Madonna col Bambino, due angeli e san Francesco (cm 190x155) esposto ora nel Museo di San Lorenzo Maggiore (foto 2). Che cosa raffigura questa grande cona piena di personaggi? Quando fu creata e perché? E come mai è stata smembrata e posta ora sulla controfacciata? A questi interrogativi occorre consultare la Storia... Papa Sisto V, al secolo Felice Peretti (1520/21 – 1590), istituì con Bolla del 30 dicembre 1585 la Confraternita del cordone di san Francesco, concedendo indulgenza plenaria a tutti gli iscritti (foto 3). Nel 1586 il padre generale dei frati minori conventuali Nicolò Cicaglia costituì la medesima Confraternita facendo eseguire un’incisione da Agostino Carracci che gliela dedicò (foto 4). Nel novembre del 1587, l’allora guardiano del convento di San Lorenzo, fra Pietro Magno da Fucecchio, firma il contratto con il Curia per questa grandiosa cona, per l’altare della cappella della Confraternita del cordone di san Francesco. Nel contratto non si accenna alla complessa iconografia, che deriva dalla xilografia di autore anonimo che accompagnava la Bolla papale e dall’incisione del Carracci, ma vi è una sola preoccupazione del frate committente, quella di farsi inserire nella cona «de naturale in atto de cingere il cordone ad un confrate in quel loco de ditta cona dove parerà più conveniente». Inoltre, dal contratto si evince un particolare interessante cioè la cona doveva essere realizzata all’interno del convento, come se il guardiano dovesse

1 controllare secondo il rigore controriformistico, la corretta elaborazione dell’opera. Nel 1635, in occasione dei lavori di rinnovamento della zona dell’altare maggiore, commissionata dal guardiano del convento di San Lorenzo fra Ilario de Rossi, la grande cona venne spostata sulla controfacciata sopra la porta della chiesa. Lo smontaggio della stessa risale probabilmente al 1732 quando, a seguito di un terremoto, l’architetto Ferdinando Sanfelice (+ Napoli 1748) fu incaricato di ricostruire la facciata della basilica, comportando così lo smembramento dell’ovale, la distruzione della cornice e la dispersione della predella. Ma che cosa vi è raffigurato? Partiamo col leggerla dall’alto in basso. In alto al dipinto ritroviamo la scena della Sequela Christi, cioè la raffigurazione di san Francesco che segue Cristo, entrambi con la croce sulle spalle. L’iconografia deriva da un’impostazione del pensiero francescano fin dal Medioevo che vuole sottolineare l’immedesimazione di Francesco con Cristo. Questo soggetto appare per la prima volta nella Franceschina miniata della metà del XV secolo, e ripresa anche nella xilografia posta come intestazione della Bolla Pontificia dell’istituzione del Cordone di san Francesco promulgata da Sisto V. In cima Dio Padre, raffigurato come l’antico dei giorni, appare a mezzo busto con il manto svolazzante mentre benedice con la mano destra la 40


scena sottostante. Egli è sorretto da tre angeli dalla sciolta vitalità, ed è circondato da altre testine di angeli racchiuse nel primo emisfero divino entro un arco descritto dal cordone che raggiunge prima Cristo a sinistra, passa poi sulla destra nella mano di san Francesco che lo dona a sua volta a una giovane donna posta sotto di lui. Questa, ha le vesti svolazzanti agitate dal soffio dello Spirito Santo che è raffigurato sotto forma di colomba sopra il suo capo. La donna, che è in piedi, e che si volta a guardare san Francesco, ha, sotto il braccio sinistro, un grosso libro e delle rose, mentre stringe nella mano una grossa chiave. Essa rappresenta la Chiesa. Ai suoi piedi ci sono tre bellissime giovani donne accovacciate che raffigurano le virtù francescane: l’Obbedienza, sulla destra, sottoposta al giogo. La Fedeltà, sulla sinistra, dalla bellezza fiera e altezzosa, che è avvolta in 2 un manto e contrassegnata dall’attributo degli anelli contenuti nel piccolo vaso posto sul suo capo. La Povertà, avvolta in un manto scuro da cui appena sporgono il capo e le mani con le quali cerca di proteggersi, è inginocchiata e rivolge il suo sguardo alla Chiesa e al cielo. Tutte loro, sono sopra un altare di marmo, scolpito con varie figure di angeli, e al cui centro vi è una sorta di tabernacolo in cui s’intravede il calice e l’ostia. A destra dell’altare troviamo in ginocchio il papa Sisto V che apre la porticina del tabernacolo con una grossa chiave. Al suo fianco troviamo dipinto il guardiano del convento, fra Pietro Magno da Fucecchio che cinge con il cordone un confratello. Dietro vi è una grande folla di congregati. Ancora più dietro, sullo 3 sfondo, si notano le anime degli aderenti alla confraternita che, attraverso l’indulgenza plenaria, ascendono, dalla bocca degli inferi, direttamente al cielo. Sulla sinistra in primo piano vi sono san Luigi d’Angiò, san Ludovico di Tolosa riconoscibile nel dipinto per la presenza dei gigli di Francia, sant’Antonio e santa Chiara in ginocchio. Dietro di loro una grande folla in processione, com’era abitudine dei congregati, che partecipa all’evento di essere cinti dal cordone, aiutati da chi lo ha già avuto. Sullo sfondo, invece, lo

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sguardo si perde in un paesaggio al di là di una imponente chiesa. Dopo aver individuato i vari personaggi raffigurati nella cona dipinta dal Curia, possiamo dare ora una breve chiave di lettura teologica. Dio Padre, nel suo progetto di salvezza per l’umanità manda il suo Figlio prediletto che offre la sua vita per noi attraverso la via dell’obbedienza, della povertà e della fede rappresentata dal cordone. È la stessa via che segue san Francesco e che egli offre alla Chiesa guidata dallo Spirito Santo. La salvezza è resa attuale, nella Chiesa, dal sacrificio di Cristo sull’altare, il quale è sempre presente nell’ostia conservata nel tabernacolo, come ci mostra papa Sisto V. Questa via di salvezza seguita da san Francesco e dai suoi seguaci, ha condotto alla santità (i santi raffigurati in primo piano a sinistra), e ora, grazie alla volontà papale, è offerta ai membri della Confraternita del cordone di san Francesco, in primis dal guardiano del convento di San Lorenzo (raffigurato a fianco a papa Sisto V), e poi dagli altri fraticelli ritratti in mezzo alla folla. E questa è una via di santità e di salvezza anche per i confratelli defunti, come si vede dalla raffigurazione sullo sfondo a destra. Possiamo terminare allora il nostro discorso dicendo che questo dipinto del Curia era destinato a diventare non solo un potente strumento devozionale ma anche una risposta precisa alla negazione protestante della presenza reale e permanente di Cristo nelle specie eucaristiche del pane e del vino, dei meriti, del ruolo e dei “benefici” della Chiesa di Roma.

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EVENTI

pitolo spirituale Baia Domizia, Ca 1 febbraio 2012

o dell’ordinazione Salerno, 40° anniversariParente sacerdotale di P. Enrico

a ventura da Potenz

sul Beato Bona Ravello, Convegno 17 dicembre 2011

San Miniato, i postulanti Ritiro spirituale de

Sant’Anastasia, 40° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di P. Giacomo Verrengia Napoli, 7 marzo 2012 Cimp Incontro di formazione

Ritiro spirituale, Melfi, 14 marzo 2012


Montella, giornata di neve

Baia Domizia, Beato GiovannLettura sul i Paolo II

Inviate alla nostra redazione via e-mail foto e notizie e saranno pubblicate 43


Siena non sbaglia un colpo, Milano ko 77-68 La Montepaschi Siena ha battuto l’Armani Jeans Milano 77-68 nel posticipo della sesta giornata di ritorno del campionato di basket di serie A. Con questa vittoria la squadra di Simone Pianigiani si conferma capolista solitaria del campionato con 32 punti, contro i 26 di Milano, Cantù, Bologna, Sassari e Venezia. Per i campioni d’Italia 13 punti di Zisis e Andersen, 11 di Thonrton. Per Milano, 16 punti di Mancinelli e 14 di Bourousis. Paura nel primo tempo per un brutto colpo alla testa di Gentile, costretto ad uscire dopo soli 4'. I risultati delle altre partite: Teramo-Venezia 68-78 (giocata ieri), Avellino-Cantù 63-72, VareseBologna 86-63, Cremona-Roma 87-71, Pesaro-Caserta 75-81, Biella-Montegranaro 63-73, Treviso-Casale Monferrato 66-63. La classifica del campionato di serie A di basket dopo la sesta giornata di ritorno: Siena 32 punti, Venezia, Cantù, Sassari, Milano e Bologna 26, Varese e Avellino 24, Pesaro 22, Caserta, Biella e Roma 20, Treviso 18, Montegranaro 16, Cremona e Teramo 14, Casale Monferrato 10.

Mou verso la Premier, il Real Madrid cerca già il sostituto Il ritorno in Inghilterra di José Mourinho, al Chelsea o al Manchester City, è sempre più probabile e in casa Real Madrid si pensa già al sostituto. A riferirlo è il quotidiano spagnolo El Mundo Deportivo secondo il quale lo Special One si accinge a tornare in Premier League, attratto da un ritorno sulla panchina di Stamford Bridge o da un'esperienza al City, mentre il presidente del club spagnolo, Florentino Perez, avrebbe identificato in Rafa Benitez e nell'attuale commisario tecnico della Germania, Joachim Löw, i possibili sostituti.

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di Giuseppina Costantino

Benvenuti al nord In Benvenuti al nord, Alberto e Mattia, sono in crisi con le rispettive mogli. Silvia detesta Milano a causa delle polveri sottili e dell’ozono troposferico e accusa Alberto di pensare solo al lavoro e poco a lei. Intanto Mattia, il solito irresponsabile, vive con la moglie Maria e il figlio Edinson a casa della madre, lavora poco e proprio non riesce a pronunciare la parola “mutuo”. Mattia, suo malgrado, finirà a lavorare a Milano, incastrato dall’ingenuità dei suoi amici che lo affidano alle cure di Alberto. L’impatto del napoletano con la città sarà terribile: partito con un giubbotto fendinebbia, il povero Mattia finirà col rovinare la sua vita e quella dell’amico Alberto. Ma, piano piano, i pregiudizi inizieranno a sciogliersi... GENERE: Commedia REGIA: Luca Miniero SCENEGGIATURA: Luca Miniero, Fabio Bonifacci ATTORI: Claudio Bisio, Alessandro Siani, Angela Finocchiaro, Paolo Rossi, Valentina Lodovini, Giacomo Rizzo, Nando Paone, Nunzia Schiano, Fulvio Falzarano, Salvatore Misticone, Francesco Migliaccio, Francesco Brandi, Ippolita Baldini, Alessandro Vighi, Gianmarco Pozzoli.

E ora dove andiamo?: Sul bordo di una strada dissestata, un corteo di donne avanza in processione verso il cimitero del villaggio. Takla, Amale, Yvonne, Afaf e Saydeh affrontano stoicamente il caldo soffocante di mezzogiorno, reggendo le fotografie dei loro amati uomini, perduti in una guerra futile, lunga e lontana. Alcune di loro portano un velo, altre indossano croci di legno, ma tutte sono vestite di nero, unite da una sofferenza condivisa. Giunta alle porte del cimitero, la processione si divide in due congregazioni: musulmani da una parte e cristiani dall'altra. Unite da una causa comune, l’impensabile amicizia tra queste donne supera, contro ogni aspettativa, tutti i punti di contrasto religiosi che creano scompiglio nella loro società e, insieme, grazie alla loro straordinaria inventiva, mettono in atto dei piani esilaranti cercando di distrarre gli uomini del villaggio, in modo da allentare la tensione interreligiosa. USCITA CINEMA: 20/01/2012 GENERE: Commedia, Drammatico REGIA: Nadine Labaki SCENEGGIATURA: Nadine Labaki, Jihad Hojeily, Rodney Al Haddad ATTORI: Claude Msawbaa, Leyla Fouad, Antoinette El-Noufaily, Nadine Labaki FOTOGRAFIA: Christophe Offenstein MONTAGGIO: Véronique Lange MUSICHE: Khaled Mouzanar PRODUZIONE: Les Films des Tournelles DISTRIBUZIONE: Eagle Pictures PAESE: Francia, Libano 2011 DURATA: 110 Min

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IN BOOK La Redazione E. SCOGNAMIGLIO, Dia-Logos. II. Per una teologia del dialogo. Orientamenti, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012, euro 36,90. Questo volume rilegge gli orientamenti principali del dialogo interreligioso a partire dal Concilio ecumenico Vaticano II. “Dia-logos” vuol dire lasciarsi attraversare dalla parola e dall’esperienza di fede dell’altro; vuol dire permettere all’altro di rivelarsi nella sua alterità e di testimoniare il suo vissuto di fede attraverso gesti d’amicizia e parole che colpiscono dritto al cuore. Il dialogo è la profezia dell’Amore: perché se è vero che la vita si esprime nel suo significato più profondo attraverso l’arte di amare, la comunicazione rivela a ciascuno di noi la capacità di saper vivere in questo mondo. All’origine della nostra capacità di comunicare vi è sempre l’esperienza fondante dell’amore. Perché l’amore ci costituisce, ci personalizza, ci rende veramente autentici, ci dona il fondamento di noi stessi. L’autore offre un lucido e critico excursus sulla teologia del dialogo rileggendo il magistero di Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e i diversi esponenti della teologia delle religioni.

G. RAGOZZINO, La Madonna dei musulmani. Sittina Maryam, Collana HiwarDialogo, Messaggero, Padova 2012, pp. 111, Euro 10,50. Che cosa pensano i musulmani della Vergine Maria? Il professore Ragozzino, già docente di Storia delle Religioni presso la Pontificia Facoltà Teologica di Napoli, prova a rispondere a queste e altre domande circa il culto mariano abbastanza diffuso anche negli ambienti musulmani. L’autore illustra la figura coranica di Maria tale quale essa è. In parte uguale in parte assai diversa da quella della narrazione evangelica e della riflessione cristiana. Anche per i musulmani la madre di Gesù è la Madonna, ma è la loro Madonna. Il libro è suddiviso in sei agili capitoli: Cardini della dottrina islamica, Maria nel Corano, La figlia di Imran, La madre di Gesù, Eccellenza di Maria, Il musulmano e Maria. Buone le indicazioni bibliografiche e utile l’appendice e le notizie sugli antichi autori musulmani citati. Il libro è accessibile a un vasto pubblico.

E. SCOGNAMIGLIO, Homo religiosus et symbolicus. Breve introduzione alla storia delle religioni, LDC, Leumann (Torino) 2012, euro 10. La storia delle religioni non può limitarsi semplicemente a valutare le forme del sacro nel tempo e a interpretarle. Deve, infatti, confrontarsi non soltanto con la fenomenologia del sacro, ma altresì con l’antropologia religiosa, le scienze umane, la teologia, la filosofia e tutto ciò che concerne la conoscenza dell’uomo e delle sue possibili relazioni con la Trascendenza. Perché dietro ogni forma del sacro si nasconde l’uomo con le sue attese e speranze, con il suo stesso bisogno di pienezza d’essere. Il revival religioso nella post-modernità, pur con tutte le sue ambiguità di significato, di contenuto e di prassi, è sintomo evidente di quella cifra della Trascendenza – il divino che è in noi o Assoluto – che ci portiamo dentro da sempre e che mai potremo soffocare. Questo breve saggio vuole essere una piccola introduzione allo studio della storia delle religioni e alla conoscenza del metodo di ricerca in ambito storico-critico, socio-religioso e simbolico-culturale. È il frutto di alcune lezioni tenute alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli, Sez. Capodimonte) all’interno del corso di storia delle religioni. Non si entrerà in merito al concetto di sacro e all’esperienza del Totalmente Altro in ogni singola religione. L’attenzione è rivolta soprattutto alle indicazioni metodologiche e alle categorie centrali del sistema religioso preso nel suo insieme simbolico, cultuale e rituale. 46


VOCIFUMETTI DI CHIESA

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