Luce serafica 3 2016 definitiva web

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Numero 3/2016 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Rivista francescana fondata a Ravello nel 1925

Luceerafica S

A Cracovia con Porziuncola L’Europa Laudato si’ S. Giovanni Paolo II La visita e il perdono di Francesco Un anno dopo



Editoriale

Dio converta il cuore dei violenti accecati dall’odio Papa Francesco, 15 luglio 2016

Gianfranco Grieco

C

i volava ancora una strage, quella di Nizza, dopo la Brexit, per complicare il discorso sull’Europa che diventa sempre più incomprensibile. Da una parte si lavora per abbattere muri e costruire ponti e, dall’altra, non ci si stanca di spargere sangue innocente per le strade francesi, in Europa e fuori, come a Dacca. Si è parlato, anche se ad alcuni non piace, di scontro di civiltà. Ma, se non è scontro questo, come chiamare questa catena disumana di odio e di violenza che uccide i nostri vicini di casa e turba le nostre coscienze occidentali, mettendoci ogni giorno, di fronte a stragi e a spargimenti di sangue che feriscono i cuori e uccidono l’anima? Come uscire da questo tunnel? La scelta inglese – quella di sbattere la porta in faccia ed andarsene e, come se non bastasse, la nomina arrogante dell’ex sindaco di Londra a ministro degli esteri del Regno Unito che deve negoziare con Bruxelles, aumentano i problemi ad intra e ad extra dell’Unione e rinviano risposte urgenti a domande che bruciano. La prima cosa da fare è capirsi in primo luogo tra di noi, nel nostro interno. Fino a quando il discorso europeo è solo economico e dipende in particolare modo dalle banche, si resta sempre fermi alla prima stazione. Bisogna andare oltre, andare al di là dei propri nazionalismi e dei particolari interessi e aprirsi al mondo variegato europeo, perché è l’unione che fa la forza. Questo numero estivo di LUCE SERAFICA dedica molte pagine all’Europa e, in particolare, all’Europa di Papa Francesco. Il discorso europeo del Papa dei poveri ha una valenza politica più di quello pronunciato a suo tempo a Strasburgo e all’Onu. Ad ascoltarlo erano i massimi responsabili del presente e del futuro dell’Europa. Tutti ad applaudire

Papa Francesco, ma dopo? La capacità di dialogo, la capacità di generare e la capacità di integrare: è questa la strada che porta lontano. Non vi sono altri percorsi o scorciatoie invisibili. Bisogna ritornare a fare corpo, a fare unità. Papa Francesco, nel discorso europeo, ha citato i giganti precursori dell’Europa: Adenauer, Schumann, De Gasperi. E poi Giovanni Paolo II, Papa europeo tutto d’un pezzo, uscito dalla catastrofe comunista, artefice della caduta del Muro di Berlino e della politica dei due polmoni: est-ovest, oriente e occidente nella fedeltà alle radici cristiane della storia dell’Europa. In questo mondo composito europeo si inserisce da alcuni anni il dramma dei rifugiati e dei migranti: milioni di esseri umani che fuggono dai loro Paesi, che vengono perseguitati ed uccisi e scappano via terra o via mare alla ricerca di un mondo migliore che li faccia sentire come a casa propria. La politica dell’accoglienza: questa è la stagione che deve porre questo dramma sul quotidiano tavolo dei lavori europei. I distruttori di morte non vengono solo da fuori, ma nascono e crescono all’interno della casa comune. Bisogna domandarsi perché crescono come terroristi e non come uomini liberi? Quali rimedi trovare per dare una svolta definitiva a questa stagione di stragi che genera odio, rancore, emarginazione, sofferenze e lutti? Bisogna partire dal cuore, dalla educazione, dal rispetto verso l’altro, dal dialogo, dalla capacità di accogliere il prossimo senza pregiudizi. E, allora, daremo vita, ad un mondo nuovo.


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SOMMARIO

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Luce Serafica 3/2016

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EDITORIALE Ci scrivono... Chi è il mio prossimo? IL PERDONO DI ASSISI Ottavo centenario del Perdono di Assisi Sorrentino: “Il perdono è bellezza” GMG 2016 A CRACOVIA XXXI GMG: Identità e dialogo Dio tocchi il cuore dei terroristi Tutte le religioni vogliono la pace La visita ad Auschwitz Maria nella storia millenaria polacca PAPA FRANCESCO IN VIAGGIO Un grande successo Un popolo che ha testimoniato la fede Papa in Svezia GIUBILEO DEI SACERDOTI AMORIS LAETITIA Il cammino della famiglia nel mondo “Atto di magistero colmo di misericordia” LAUDATO SI’ Le riflessioni del Fai Settimana di studio FAMIGLIA OGGI Bagnasco: Famiglia è indebolita... No all’indiferenza per i bambini scomparsi VITA DELLA CHIESA E STATISTICHE 50 anni del Sinodo dei Vescovi Aumentano i cattolici in Africa e Asia L’abbraccio Papa-Grande Imam SGUARDI SUL MONDO L’europa di Papa Francesco I discorsi dei leader europei Le tre capacità di promuovere Dolore e orrore in Francia Asia: Stragge a Dacca Corea: Un appello di pace India: Chiesa piange mons. D’Souza America: Obama a Cuba e ad Hiroshima Basta armi atomiche Argentina: Aumento del narcotraffico Colombia: Cessato il fuoco dopo 52 anni Africa: Sud Sudan: Appello per la fine della guerra Sud Africa: Disumanità contro immigrati FRANCESCANESIMO «Dove è misericordia e discrezione...» Francesco, maestro di vita spirituale Attualità del Poverello di Assisi Missione francescana Napoli-Manila MOSTRA - ARTE A Pompei: “Per Grazia ricevuta” Luci, volti e colori di Paolo d’Alessandro CINEMA - MUSICA Nuovo film su San Francesco Festival francescano ITINNERARI GIUBILARI - LIBRI Aumentano pellegrini e risorse “Un uomo come voi” EVENTI


ci scrivono...

La foto dei lettori

Caro fra Gianfranco Il Signore ti dia pace! Sino passate già diverse settimane da quando mi hai inviato copia del testo che hai scritto sul padre Bonaventura Mansi e il suo impegno a salvare Assisi dagli orrori della guerra. Nel ringraziarti , desidero augurarti un buon tempo pasquale e ogni bene nel Signore. Fraternamente, Fra Marco Tasca, Ministro generale Roma 17 aprile 2016 Stimato Direttore Ho tra le mani la nostra rivista Luce Serafica e non mi stanco di leggere e rileggere i bei testi pubblicati che spaziano dalla situazione internazionale al messaggio sempre forte di Papa Francesco; dai temi del Giubileo della misericordia ai viaggi pastorali di Papa Bergoglio; dalla attualità del Francescanesimo alla cultura per la famiglia e per la vita. Gradisca i miei complimenti e sempre in bocca al lupo! Imma Basso Torino, 14 giugno 2016 Gentile Direttore Seguo con interesse anche i discorsi geopolitici internazionali che la sua rivista propone con intelligenza e con misurato ottimismo. Sul dialogo internazionale dell’Iran dopo gli accordi di Vienna siete stati esemplari. Avete visto lontano e il collaboratore che scrive da Theran ha saputo percorrere i tempi. Complimenti! Abudabi Hassan Napoli 1 maggio 2016 Caro Direttore Papa Francesco continua ad avere parole dure contro la guerra. Dopo il mea culpa di Blair e non di Bush junior penso a san Giovanni Paolo II che contro quella Guerra del Golfo è stato un profeta non ascoltato. Lei cosa ne pensa? Paolo Gaspare Ventura Roma 25 giugno 2016

COMITATO DI REDAZIONE Orlando Todisco Edoardo Scognamiglio Salvatore Amato Iman Sabbah Emanuela Vinai Assunta Cefola Luigi Buonocore Emiliano Amato Boutros Naaman Mohammad Djafarzadeh

Risposta- Ricordo bene quella stagione del 1991 e gli inviati di Papa Giovanni Paolo II sia in Iraq che in America. I cardinale Etchegaray e Laghi, la diplomazia vaticana “nascosta”. Ma tutto si dimentica presto, anche la politica estera della Santa Sede ai tempi di quel Papa gigante polacco: dalla caduta del muro di Berlino alla Guerra nei Balcani; dalla tragedia libanese alla guerriglia in America Centrale e in Colombia, dall’Africa ferita da migliaia di focolai di guerra all’Asia che ha dimenticato il messaggio di Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Papa Giovanni Paolo II è stato il buon seminatore della pace nel mondo intero. I suoi 104 viaggi internazionali hanno scosso le coscienze del mondo. Ma, i suoi 27 anni di pontificato devono ancora essere storicamente letti da questo punto di vista. Non è mai troppo tardi!

Foto di copertina Ravello vista dal cielo - Gino-Maria Rosaria Schiavo Hanno collaborato: Gianfranco Grieco Federico Lombardi Mons. Felice Accrocca Raffaele Di Muro Jacques Dalarun Edoardo Scognamiglio Tommaso Caputo Giovanni Maria Vian

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“… Chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?... Chi è il mio prossimo? E Gesù risponde con questa parabola. Un uomo, lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, è stato assalito dai briganti, malmenato e abbandonato. Per quella strada passano prima un sacerdote e poi un levita, i quali, pur vedendo l’uomo ferito, non si fermano e tirano dritto (vv. 31-32). Passa poi un samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione; e invece lui, proprio lui, quando vide quel povero sventurato, «ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite […], lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (vv. 33-34); e il giorno dopo lo affidò alle cure dell’albergatore, pagò per lui e disse che avrebbe pagato anche tutto il resto (cfr v. 35). A questo punto Gesù si rivolge al dottore della legge e gli chiede: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita, il samaritano - ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E quello naturalmente - perché era intelligente - risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» (vv. 36-37). In questo modo Gesù ha ribaltato completamente la prospettiva iniziale del dottore della legge – e anche la nostra! –: non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non

essere prossimo - la decisione è mia -, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile. E Gesù conclude: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Bella lezione! E lo ripete a ciascuno di noi: «Va’ e anche tu fa’ così», fatti prossimo del fratello e della sorella che vedi in difficoltà. “Va’ e anche tu fa’ così”. Fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento. Mi viene in mente quella canzone: “Parole, parole, parole”. No. Fare, fare. E mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto. Domandiamoci - ognuno di noi risponda nel proprio cuore – domandiamoci: la nostra fede è feconda? La nostra fede produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Sono di quelli che selezionano la gente secondo il proprio piacere? Queste domande è bene farcele e farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia. Il Signore potrà dirci: Ma tu, ti ricordi quella volta sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Ti ricordi? Quel bambino affamato ero io. Ti ricordi? Quel migrante che tanti vogliono cacciare via ero io. Quei nonni soli, abbandonati nelle case di riposo, ero io. Quell’ammalato solo in ospedale, che nessuno va a trovare, ero io. Angelus 10 luglio 2016 7

alla scuola di papa francesco

Chi è il mio prossimo?


Ottavo centenario del Perdono di Assisi

Assisi - Porziuncola, giovedì pomeriggio 4 agosto 2016. Alle ore 15 Papa Francesco è partito dall’eliporto vaticano per recarsi a Santa Maria degli Angeli ad Assisi, nella ricorrenza dell’VIII Centenario del Perdono di Assisi. All’atterraggio dell’elicottero, al campo sportivo “Migaghelli” a Santa Maria degli Angeli, il Papa è stato accolto da S.E. Mons. Domenico Sorrentino, Arcivescovo-Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, l’On. Catiuscia Marini, Presidente della Regione Umbria; il Dott. Raffaele Cannizzaro, Prefetto di Perugia e dalla Dott.ssa Stefania Proietti, Sindaco di Assisi In auto il Papa ha raggiunto la Basilica di Santa Maria degli Angeli, accolto dal Ministro Generale dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, P. Michael Anthony Perry, dal Ministro Provinciale, P. Claudio Durighetto, e dal Custode della Porziuncola, P. Rosario Gugliotta. Nella Porziuncola Papa Francesco è rimasto a lungo in preghiera silenziosa, quindi in Basilica ha proposto ai fedeli una Meditazione sul brano evangelico di Matteo 18, 21-35, al termine della quale ha esortato i Vescovi e i sacerdoti presenti a mettersi a disposizione per il Sacramento della Riconciliazione, e Lui stesso è rimasto in confessionale per circa un’ora, confessando 19 persone: un frate francescano, due sacerdoti, 4 scout, una signora in sedia a rotelle e 11 volontari del servizio della Basilica. Al termine, il Santo Padre ha salutato i Vescovi presenti, i Superiori Generali degli Ordini Francescani e l’Imam di Perugia, Abdel Qader Mohammad. Prima di lasciare la Basilica ha lasciato in dono 4 mattoni dalle Porte Sante delle 4 Basiliche Papali in Roma, destinando al Vescovo di Assisi quella della Porta Santa di San Pietro Il Papa si è recato poi nell’infermeria del Convento dove ha incontrato una decina di religiosi ammalati, con gli assistenti. Infine ha raggiunto il Sagrato della Basilica ed ha rivolto alcune parole di saluto ai fedeli raccolti nella piazza antistante. Conclusa la visita, il Papa è ripartito in elicottero dal campo sportivo “Migaghelli” di Santa Maria degli Angeli per far ritorno in Vaticano, dove è giunto alle ore 19:05. Riportiamo di seguito il testo della Meditazione tenuta da Papa Francesco nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e il saluto finale ai fedeli dal sagrato. SAN FRANCESCO SI È FATTO “CANALE” DI PERDONO PER GENERARE PARADISO Mi piace ricordare oggi, cari fratelli e sorelle, prima di tutto, le parole che, secondo un’antica tradizione, san Francesco pronunciò proprio qui, davanti a tutto il popolo e ai vescovi: “Voglio mandarvi tutti in paradiso!”. Cosa po-

teva chiedere di più bello il Poverello di Assisi, se non il dono della salvezza, della vita eterna con Dio e della gioia senza fine, che Gesù ci ha acquistato con la sua morte e risurrezione? Il paradiso, d’altronde, che cos’è se non il mistero di amore che ci lega per sempre a Dio per contemplarlo senza fine? La Chiesa da sempre 8

professa questa fede quando dice di credere nella comunione dei santi. Non siamo mai soli nel vivere la fede; ci fanno compagnia i santi e i beati, anche i nostri cari che hanno vissuto con semplicità e gioia la fede e l’hanno testimoniata nella loro vita. C’è un legame invisibile, ma non per questo meno reale, che ci fa essere “un solo corpo”, in


dobbiamo perdonare chi ci fa del male. E’ la carezza del perdono. Il cuore che perdona. Il cuore che perdona accarezza. Tanto lontano da quel gesto: “me la pagherai!” Il perdono è un’altra cosa. Precisamente come nella preghiera che Gesù ci ha insegnato, il Padre Nostro, quando diciamo: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» ( Mt 6,12). I debiti sono i nostri peccati davanti a Dio, e i nostri debitori sono quelli a cui anche noi dobbiamo perdonare. Ognuno di noi potrebbe essere quel servo della parabola che ha un grande debito da saldare, ma talmente grande che non potrebbe mai farcela. Anche noi, quando nel confessionale ci mettiamo in ginocchio davanti al sacerdote, non facciamo altro che ripetere lo stesso gesto del servo. Diciamo: “Signore, abbi pazienza con me”. Voi avete pensato alcune volte alla pazienza di Dio? Ha tanta pazienza. Sappiamo bene, infatti, che siamo pieni di difetti e ricadiamo spesso negli stessi peccati. Eppure, Dio non si stanca di offrire sempre il suo perdono ogni volta che lo chiediamo. E’ un perdono pieno, totale, con il quale ci dà certezza che, nonostante possiamo ricadere negli stessi peccati, Lui ha pietà di noi e non smette di amarci. Come il padrone della parabola, Dio si impietosisce, cioè prova un sentimento di pietà unito alla tenerezza: è un’espressione per

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indicare la sua misericordia nei nostri confronti. Il nostro Padre, infatti, si impietosisce sempre quando siamo pentiti, e ci rimanda a casa con il cuore tranquillo e sereno dicendoci che ci ha condonato ogni cosa e perdonato tutto. Il perdono di Dio non conosce limiti; va oltre ogni nostra immaginazione e raggiunge chiunque, nell’intimo del cuore, riconosce di avere sbagliato e vuole ritornare a Lui. Dio guarda al cuore che chiede di essere perdonato. Il problema, purtroppo, nasce quando noi ci troviamo a confrontarci con un nostro fratello che ci ha fatto un piccolo torto. La reazione che abbiamo ascoltato nella parabola è molto espressiva: «Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”» (Mt 18,28). In questa scena troviamo tutto il dramma dei nostri rapporti umani. Quando siamo noi in debito con gli altri, pretendiamo la misericordia; quando invece siamo in credito, invochiamo la giustizia! E tutti facciamo così, tutti. Non è questa la reazione del discepolo di Cristo e non può essere questo lo stile di vita dei cristiani. Gesù ci insegna a perdonare, e a farlo senza limiti: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (v. 22). Insomma, quello che ci propone è l’amore del Padre, non la nostra pretesa di giustizia. Fermarsi a questa, infatti, non ci farebbe riconoscere come discepoli di Cristo,

Il perdono di assisi

forza dell’unico Battesimo ricevuto, animati da “un solo Spirito” (cfr Ef 4,4). Forse san Francesco, quando chiedeva a Papa Onorio III il dono dell’indulgenza per quanti venivano alla Porziuncola, aveva in mente quelle parole di Gesù ai discepoli: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,2-3). Quella del perdono è certamente la strada maestra da seguire per raggiungere quel posto in Paradiso. E’ difficile perdonare! Quanto costa, a noi, perdonare gli altri! Pensiamoci un po’. E qui alla Porziuncola tutto parla di perdono! Che grande regalo ci ha fatto il Signore insegnandoci a perdonare – o, almeno, ad avere la volontà di perdonare - per farci toccare con mano la misericordia del Padre! Abbiamo ascoltato la parabola con la quale Gesù ci insegna a perdonare (cfr Mt 18,21-35). Perché dovremmo perdonare una persona che ci ha fatto del male? Perché noi per primi siamo stati perdonati, e infinitamente di più. Non c’è nessuno fra noi, qui, che non sia stato perdonato. Ognuno pensi … pensiamo in silenzio le cose brutte che abbiamo fatto e come il Signore ci ha perdonato. La parabola ci dice proprio questo: come Dio perdona noi, così anche noi


che hanno ottenuto misericordia ai piedi della Croce solo in forza dell’amore del Figlio di Dio. Non dimentichiamo, dunque, le parole severe con le quali si chiude la parabola: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (v. 35). Cari fratelli e sorelle, il perdono di cui san Francesco si è fatto “canale” qui alla Porziuncola continua a “generare paradiso” ancora dopo otto secoli. In questo Anno Santo della Misericordia diventa ancora più evidente come la strada del perdono possa davvero rinnovare la Chiesa e il mondo. Offrire la testimonianza della misericordia nel mondo di oggi è un compito a cui nessuno di noi può sottrarsi. Ripeto: offrire la testimonianza della misericordia nel mondo di oggi è un compito a cui nessuno di noi può sottrarsi. Il mondo ha bisogno

di perdono; troppe persone vivono rinchiuse nel rancore e covano odio, perché incapaci di perdono, rovinando la vita propria e altrui piuttosto che trovare la gioia della serenità e della pace. Chiediamo a san Francesco che interceda per noi, perché mai rinunciamo ad essere umili segni di perdono e strumenti di misericordia. Possiamo pregare su questo. Ognuno come lo sente. Invito i Frati, i Vescovi ad andare nei confessionali – anche io ci andrò – per essere a disposizione del perdono. Ci farà bene riceverlo oggi, qui, insieme. Che il Signore ci dia la grazia di dire quella parola che il Padre non ci lascia finire, quella che ha detto il figliol prodigo: “Padre ho peccato contro … ”, e [il Padre] gli ha tappato la bocca, lo ha abbracciato. Noi incominciamo a parlare, e Lui ci tapperà la bocca e ci rivestirà... “Ma, padre, domani ho paura di fare lo

stesso …”. Ma torna! Il Padre sempre guarda la strada, guarda, in attesa che torni il figliol prodigo; e tutti noi lo siamo. Che il Signore ci dia questa grazia. Saluto finale Vi ringrazio tanto per la vostra accoglienza, e chiedo al Signore che vi benedica. Vi ringrazio per questa volontà di essere vicini. E, anche, non dimenticatevi: sempre perdonare. Sempre! Perdonare dal cuore e, se si può, avvicinarsi all’altro, ma perdonare. Perché se noi perdoniamo, il Signore ci perdona; e tutti noi abbiamo bisogno di perdono … Qualcuno qui non ha bisogno di perdono?... Alzi la mano!... Tutti ne abbiamo bisogno. Adesso preghiamo insieme la Madonna e poi vi darò la benedizione. Ave Maria … E per favore pregate per me! Arrivederci!

Il vescovo di Assisi: il perdono è bellezza Un viaggio breve ma significativo. Papa Francesco vuole così quello che già in molti pensano sarà un altro suo gesto storico: la preghiera, intensa e riservata, nella Porziuncola, cuore del perdono francescano, per riflettere sulla potenza e la misericordia di Dio. La visita stata cos’ commentata dal vescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino: Nessuno avrebbe potuto prevedere che l’VIII centenario dell’Indulgenza della Porziuncola, che sottolinea appunto la dimensione della misericordia, cadesse in un anno tutto dedicato alla misericordia. Credo che anche questa coincidenza abbia spinto il Papa a venire: sente la bellezza di un messaggio partito 800 anni fa ad Assisi; lui, Papa che ha preso il nome di Francesco, sente questa coincidenza bella e profonda con quanto lo Spirito Santo gli ha ispirato nell’invitare tutta la Chiesa a fare della misericordia la dimensione privilegiata della sua

esistenza, del suo cammino. E credo che Francesco d’Assisi abbia molto da dire, in questo orizzonte; e Papa Francesco lo vuole evidenziare: è qui per questo. 800 anni dall’Indulgenza: lei per questo ha scritto una Lettera pastorale, “Perdono di Assisi, cammino di Chiesa”. Perché questa scelta di dedicare una Lettera pastorale? Perché è un evento per noi di particolare importanza come Chiesa di Assisi, ma è anche l’occasione buona per dire una parola illuminante su una dimensione che oggi non sempre è compresa. Quando si parla dell’Indulgenza, talvolta non si sa più di che cosa veramente si tratti. Ho voluto, con parole semplici, spiegarlo a tutti e l’ho spiegato in questa maniera: noi siamo destinatari della misericordia di Dio, che arriva a noi in diversi modi e direi anche in diverse tappe. C’è la misericordia 10


E invece oggi … Oggi, l’approfondimento teologico che è stato anche ripreso dal Magistero, ad esempio dal Catechismo della Chiesa cattolica, ci aiuta a capire che la pena del peccato è frutto del peccato stesso. Il peccato porta la pena di se stesso, perché ogni volta che pecchiamo ci facciamo del male, ci sentiamo male e in noi si generano dei processi, dei dinamismi che poi ci spingono a peccare ulteriormente a peccare e questo naturalmente ci allontana da

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Il perdono di assisi

Dio, rende inquieti noi stessi, genera la frattura con gli altri … Ecco, è una realtà molto penosa che va curata o guarita. E per tutto questo c’è bisogno dell’impegno personale, ovviamente; ma senza una particolare grazia del Signore non ce la faremmo. E questa è la grazia che l’Indulgenza ci garantisce per l’intercessione efficace della Chiesa, che fa perno sulla sua implorazione al Padre sui meriti infiniti di Cristo, sui meriti dei Santi che da Lui scaturiscono e con quella autorevolezza sponsale e materna insieme, chiede al Signore – come appunto fece San Francesco – chiede al Signore quella grazia speciale che possa aiutare ciascuno di noi a lasciarsi curare davvero dalle sue ferite, dalle sue piaghe e a diventare in sostanza bello dentro, perché in una figliolanza di Dio che ritorna splendida, ritorna capace di governare le nostre passioni, le nostre fatiche interiori e in questo senso ci procura la gioia interiore, quella che Francesco chiamava “il paradiso”, che non è soltanto il paradiso dell’aldilà: il paradiso, per un cristiano, incomincia anche nell’“aldiquà”, perché è Dio stesso in noi. E più il nostro cuore si apre a Lui, più noi facciamo esperienza di paradiso, sentiamo la bellezza di quell’espressione colorita che Francesco disse: “Voglio mandarvi tutti in paradiso”. Ecco, vuole mandarci tutti, Francesco, nella gioia di Dio, ma questa gioia richiede un risanamento del nostro spirito, l’Indulgenza e la grazia che ci consentono appunto questo processo di guarigione.

fondamentale, che è il perdono dei nostri peccati: pensiamo alla Parabola del Figliol prodigo. Il figlio torna a casa e trova l’abbraccio e il bacio del Padre: questo è il Dio misericordioso che perdona il nostro peccato. Ma il peccato ha anche un’altra dimensione, della quale facciamo esperienza ma alla quale non sempre poniamo mente, e cioè: è una malattia dello Spirito, perché ogni volta che pecchiamo ci allontaniamo, oltre che da Dio, da noi stessi, ci allontaniamo dagli altri, si generano in noi delle ferite, ferite che possono essere anche cicatrizzate ma tante volte, come viene la malattia, devono essere anche ulteriormente curate, tenute sotto controllo … Ecco, tutto questo nella nomenclatura classica della teologica veniva e viene chiamato come la realtà delle pene temporali, che talvolta vengono intese come se ci fosse un Dio che dall’esterno ci attribuisce delle pene per farci scontare i nostri peccati.


XXXI Giornata Mondiale della Gioventù È iniziato nel pomeriggio del 27 luglio il 15° Viaggio Apostolico Internazionale di Papa Francesco che si è recato in Polona in occasione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù in programma a Cracovia dal 26 al 31 luglio sul tema: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5, 7). Nel momento di lasciare il territorio italiano, il Santo Padre Francesco ha fatto pervenire al Presidente della Repubblica, On. Sergio Mattarella, un messaggio in cui rivolgeva a tutti gli italiani il suo affettuoso e beneaugurante saluto che “ accompagna con ogni più cordiale ed orante auspicio di pace e di prosperità”. All’arrivo all’aeroporto internazionale “Giovanni Paolo II” di Balice-Kraków, alle ore 16, di mercoledì 27 luglio 2016 il Santo Padre Francesco è stato accolto dal Presidente della Repubblica di Polonia, S.E. il Sig. Andrzej Duda, e dall’Arcivescovo di Kraków, Card. Stanisław Dziwisz. Erano inoltre presenti Autorità civili ed ecclesiastiche e una rappresentanza di fedeli. Dopo l’esecuzione degli inni, gli onori militari e la presentazione delle rispettive delegazioni, il Papa si è trasferito in auto al Wawel per l’incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico. In risposta al saluto del Presidente della Repubblica, Sig, Andrzej Duda, Papa Francesco ha pronunciato questo discorso:

Al Wawel di Cracovia

comunità nazionale sulla base del suo patrimonio umano, sociale, politico, economico e religioso, per ispirare la società e la cultura, mantenendole fedeli IDENTITA’ E DIALOGO È la prima volta che visito l’Europa centro-orien- alla tradizione e al tempo stesso aperte al rinnovatale e sono lieto di iniziare dalla Polonia, che ha mento e al futuro. In questa prospettiva avete da avuto fra i suoi figli l’indimenticabile san Giovanni poco celebrato il 1050° anniversario del Battesimo Paolo II, ideatore e promotore delle Giornate della Polonia. E’ stato certamente un forte momento di unità nazionale, Mondiali della Gioventù. Egli amava parlare del- La prossima Gmg a Panama nel 2019 che ha confermato come la concordia, pur nella dil’Europa che respira con i La prima volta in Centro America All’Angelus di domenica 31 luglio Papa Fransuoi due polmoni: il sogno cesco si è detto sicuro che dal Cielo anche San versità delle opinioni, sia di un nuovo umanesimo Giovanni Paolo II ha gioito per questa festa di la strada sicura per rageuropeo è animato dal re- giovani di tutto il mondo nella sua Cracovia e giungere il bene comune spiro creativo e armonico ha sottolineato che la Gmg è stata “un’ossige- dell’intero popolo polacco. di questi due polmoni e nazione spirituale”. Quindi, il momento atteso Anche la proficua coopedell’annuncio della prossima Gmg: dalla comune civiltà che “La Provvidenza di Dio sempre ci precede. razione nell’ambito intertrova nel cristianesimo le Pensate che ha già deciso quale sarà la pros- nazionale e la reciproca sima tappa di questo grande pellegrinaggio ini- considerazione maturano sue radici più solide. La memoria contraddi- ziato nel 1985 da san Giovanni Paolo II! E mediante la coscienza e il stingue il popolo polacco. perciò vi annuncio con gioia che la prossima rispetto dell’identità proGiornata Mondiale della Gioventù – dopo le Mi ha sempre impressio- due a livello diocesano – sarà nel 2019 a Pa- pria e altrui. Non può esinato il vivo senso della nama. Con l’intercessione di Maria, invo- stere dialogo se ciascuno storia di Papa Giovanni chiamo lo Spirito Santo perché illumini e non parte dalla propria Paolo II. Quando parlava sostenga il cammino dei giovani nella Chiesa identità. Nella vita quotidei popoli, egli partiva e nel mondo, perché siate discepoli e testimoni diana di ogni individuo, della Misericordia di Dio”. come di ogni società, vi dalla loro storia per farne risaltare i tesori di umanità e spiritualità. La co- sono però due tipi di memoria: buona e cattiva, poscienza dell’identità, libera da complessi di supe- sitiva e negativa. La memoria buona è quella che riorità, è indispensabile per organizzare una la Bibbia ci mostra nel Magnificat, il cantico di 12


La preghiera ai due martiri francescani conventuali polacchi Prima della veglia con i giovani, il Papa ha compiuto una breve visita nella basilica di San Francesco a Cracovia dove si venerano le reliquie di due martiri francescani conventuali polacchi, i Beati Zbigniew Strzałkowski e Michał Tomaszek, uccisi in Perù dai guerriglieri maoisti di “Sendero luminoso”. Qui ha pronunciato la Preghiera per la Pace perché il mondo sia liberato dalla “piaga del terrorismo”. Erano presenti numerosi religiosi francescani conventuali polacchi custodi del tempio e alcuni familiari dei martiri ;” Dio doni al mondo la pace e allontani l’ondata devastante del terrorismo”: la preghiera di Papa Francesco è intensa. Rivolge il suo primo pensiero alle vittime dei “brutali attacchi” e a chi è stato “ferito in questi atti di inumana violenza”: persino bambini, persone innocenti “coinvolte solo per fatalità nel male”. Nello stesso tempo prega perché siano cancellati “l’odio e il desiderio di vendetta” e nasca la “disponibilità a perdonare”, perché si ritrovi “il coraggio per continuare ad essere fratelli e sorelle per gli altri, soprattutto per gli immigrati”. Francesco prega per la conversione dei terroristi, perché Dio tocchi i loro cuori e “riconoscano il male delle loro azioni e tornino sulla via della pace e del bene, del rispetto per la vita e della dignità di ogni uomo, indipendentemente dalla religione, dalla provenienza, dalla ricchezza o

dalla povertà”. Chiede l’intercessione dei due francescani conventuali polacchi uccisi in odio alla fede dai guerriglieri di Sendero Luminoso. Missionari nelle Ande peruviane, avevano condiviso in tutto la vita dei più poveri, offrendo il loro sangue – afferma il Papa – come “valorosi testimoni del Vangelo”. Zbigniew Strzałkowski e Michał Tomaszek sono stati assassinati il 9 agosto 1991 a Pariacoto, in Perù, e beatificati il 5 dicembre 2015 insieme al sacerdote italiano Don Alessandro Dordi, della diocesi di Bergamo, anch’egli ucciso dai "senderisti" in quello stesso anno. Non si erano lasciati scoraggiare da grandi difficoltà, dalla mancanza di luce elettrica e dalle epidemie di colera. Per i guerriglieri la loro presenza e il loro aiuto ai poveri frenava la rabbia del popolo e rallentava la rivoluzione. Durante il periodo del terrore rivoluzionario — dal maggio del 1980 al novembre del 1992 — l'ideologia marxista di Sendero Luminoso causò attentati soprattutto contro la Chiesa e i sacerdoti, incendiando, profanando, distruggendo, calunniando, uccidendo. Per impedire questo assalto diabolico, il coraggioso vescovo di Chimbote, mons. Luis Armando Bambarén, con i sacerdoti, i missionari e i laici della diocesi, iniziarono una intensa campagna di preghiera e di diffusione del messaggio evan-

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gelico a favore della pace, della vita, della dignità della persona, della fraternità e del perdono contro ogni forma di odio e di violenza. 27.000 giovani costruirono la Cruz de la Paz, come simbolo di pace e di difesa della vita, a dimostrazione che la religione cristiana non addormenta i popoli, ma ne promuove gli autentici valori umani, creando giustizia e armonia sociale. Il martirio dei due francescani conventuali polacchi avvenne il 9 agosto del 1991. Dopo la Messa, verso le ore 20.00, un gruppo di terroristi armati, col volto coperto, catturarono i due sacerdoti e li misero su una macchina. In quei momenti padre Zbigniew incoraggiò il suo confratello dicendo: «Michał, sii forte, sii coraggioso!». Si misero poi a pregare, meditando la parola del Signore sul seme di grano che se non muore, resta infecondo. Poco dopo furono uccisi con proiettili di grosso calibro, che fracassarono il loro cranio. Senza processo e senza potersi difendere, i due religiosi furono uccisi in odio alla fede come agnelli portati al macello. Alle loro esequie, officiate dal vescovo, il popolo accompagnò le salme con fiori e lacrime, mentre i bambini cantavano piangendo i canti appresi da padre Miguel. Furono raccolte come preziose reliquie le pietre bagnate dal loro sangue.

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Dio tocchi il cuore dei terroristi


Maria, che loda il Signore e la sua opera di salvezza. La memoria negativa è invece quella che tiene lo sguardo della mente e del cuore ossessivamente fissato sul male, anzitutto su quello commesso dagli altri. Guardando alla vostra storia recente, ringrazio Dio perché avete saputo far prevalere la memoria buona: ad esempio, celebrando i 50 anni del perdono reciprocamente offerto e ricevuto tra gli episcopati polacco e tedesco, dopo la seconda guerra mondiale. L’iniziativa, che ha coinvolto inizialmente le comunità ecclesiali, ha innescato anche un processo sociale, politico, culturale e religioso irreversibile, cambiando la storia dei rapporti tra i due popoli. A questo proposito, ricordiamo anche la Dichiarazione congiunta tra la Chiesa cattolica di Polonia e quella ortodossa di Mosca: un atto che ha avviato un processo di avvicinamento e fraternità non solo tra le due Chiese, ma anche tra i due popoli. Così la nobile nazione polacca mostra come si può far crescere la memoria buona e lasciar cadere

quella cattiva. Per questo si richiede una salda speranza e fiducia in Colui che guida i destini dei popoli, apre porte chiuse, trasforma le difficoltà in opportunità e crea nuovi scenari laddove sembrava impossibile. Lo testimonia proprio la vicenda storica della Polonia: dopo le tempeste e le oscurità, il vostro popolo, ristabilito nella sua dignità, ha potuto cantare, come gli ebrei al ritorno da Babilonia: «Ci sembrava di sognare. […] la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia» (Sal 126,1-2). La consapevolezza del cammino compiuto e la gioia per i traguardi raggiunti danno forza e serenità per affrontare le sfide del momento, che richiedono il coraggio della verità e un costante impegno etico, affinché i processi decisionali e operativi come pure le relazioni umane siano sempre rispettosi della dignità della persona. Ogni attività ne è coinvolta: anche l’economia, il rapporto con l’ambiente e il modo stesso di gestire il complesso fenomeno migratorio. Quest’ultimo richiede un supplemento di saggezza e

TUTTE LE RELIGIONI VOGLIONO LA PACE LA GUERRA, LA VOGLIONO GLI ALTRI Sull’aereo che lo portava in Polonia, Papa Francesco come di consueto si recava a salutare gli operatori dei media che lo accompagnavano sul volo papale. Padre Lombardi: Allora, Santo Padre, benvenuto tra noi. Grazie di prendere anche in questo viaggio un po’ di tempo per salutarci e stare con noi. Noi siamo, come al solito, più di 70 da 15 Paesi diversi e speriamo di fare un buon servizio per diffondere le Sue parole e il Suo messaggio in queste giornate così importanti. Siamo in giornate che ci emozionano tutti, come sappiamo, per quello che sta succedendo nel mondo, per quello che è successo ieri; e allora saremmo anche grati se, prima di salutarci personalmente, ci dicesse una parola su come Lei vive questo momento e come si appresta a incontrare i giovani del mondo in questa situazione. Grazie, Santo Padre. Papa Francesco: Buongiorno, e grazie per il vostro lavoro. Una parola che – su questo che diceva padre Lombardi – si ripete tanto è “insicurezza”. Ma la vera parola è “guerra”. Da tempo diciamo: “il mondo è in guerra a pezzi”. Questa è guerra. C’era quella del ’14, con i suoi metodi; poi quella del ’39 – ’45, un’altra grande guerra nel mondo; e adesso è questa. Non è tanto organica, forse; organizzata, sì, ma organica … dico … Ma è guerra. Questo santo sacerdote, che è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per tutta la Chiesa, è uno; ma quanti cri-

stiani, quanti innocenti, quanti bambini … Pensiamo alla Nigeria, per esempio. “Ma quella è l’Africa …”. E’ guerra. Non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra, perché ha perso la pace. Grazie tante del vostro lavoro in questa Giornata della Gioventù. La gioventù sempre ci dice speranza. Speriamo che i giovani ci dicano qualcosa che ci dia un po’ più di speranza, in questo momento. Per il fatto di ieri io vorrei anche ringraziare tutti quelli che si sono fatti vivi con le condoglianze, in modo speciale il Presidente della Francia, che ha voluto collegarsi con me telefonicamente, come un fratello. Lo ringrazio. Grazie. Padre Lombardi: Grazie, Santo Padre. Stia sicuro che anche noi cercheremo di lavorare con Lei per la pace, in questi giorni. Papa Francesco: Una sola parola vorrei dire per chiarire. Quando io parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione, no. C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. Qualcuno può pensare: “Sta parlando di guerra di religione”. No. Tutte le religioni vogliamo la pace. La guerra, la vogliono gli altri. Capito? 14


Dopo aver celebrato la Santa Messa in privato nella Cappella dell’Arcivescovado di Kraków, Papa Francesco si è trasferito venerdì 29 luglio ad Oświęcim per la visita ad Auschwitz e al Campo di Birkenau. Papa Francesco è giunto alle 9.15 all’arco di ingresso del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, dove lo attendeva il Direttore del Museo. Il Papa è entrato a piedi nel campo di concentramento passando sotto l’arco, per poi avviarsi - a bordo di una vettura elettrica - verso il Blocco 11, zona-simbolo del campo con il “Muro della morte” dove i nazisti fucilavano i prigionieri. Nella Piazza dell’Appello, posto dove avvenivano le impiccagioni e dove S. Massimiliano Kolbe offrì la sua vita in cambio di quella di un altro prigioniero, il Santo Padre ha sostato in preghiera silenziosa e personale. Accolto poi all’ingresso del Blocco 11 dal Primo Ministro della Polonia, la Sig.ra Beata Maria Szydło, Papa Francesco ha incontrato individualmente 12 superstiti del lager, l’ultimo dei quali gli ha consegnato una candela con la quale il Papa ha acceso la lampada da lui recata in dono al Campo, e si è raccolto da solo in preghiera. È seguita la visita alla “cella della fame”, luogo del martirio di S. Massimiliano Kolbe. Papa Francesco, accolto dal Ministro Generale e dal Provinciale dell’Ordine Francescano dei Frati Minori Conventuali, è sceso da solo nella cella di Padre Kolbe, di cui ricorre quest’anno il 75° anniversario del martirio, sostando in preghiera per alcuni minuti. All’uscita dalla Cella del martirio di S. Massimiliano Kolbe, il Papa ha firmato il Libro d’Onore apponendovi le parole in spagnolo che riportiamo di seguito:

“Señor, ten piedad de tu pueblo! Señor, perdón por tanta crueldad!” Franciscus, 29.7.2016 primo e fondamentale nucleo della società, per sovvenire quelle più deboli e povere e sostenerle nell’accoglienza responsabile della vita, saranno in questo modo ancora più efficaci. La vita va sempre accolta e tutelata – entrambe le cose insieme: accolta e tutelata – dal concepimento alla morte naturale, e tutti siamo chiamati a rispettarla e ad averne cura. D’altra parte, allo Stato, alla Chiesa e alla società compete di accompagnare e aiutare concretamente chiunque si trovi in situazioni di grave difficoltà, affinché un figlio non venga mai sentito come un peso ma come un dono, e le persone più fragili e povere non siano abbandonate.

di misericordia, per superare le paure e realizzare il maggior bene. Occorre individuare le cause dell’emigrazione dalla Polonia, facilitando quanti vogliono ritornare. Al tempo stesso, occorre la disponibilità ad accogliere quanti fuggono dalle guerre e dalla fame; la solidarietà verso coloro che sono privati dei loro fondamentali diritti, tra i quali quello di professare in libertà e sicurezza la propria fede. Nello stesso tempo vanno sollecitate collaborazioni e sinergie a livello internazionale al fine di trovare soluzioni ai conflitti e alle guerre, che costringono tante persone a lasciare le loro case e la loro patria. Si tratta così di fare il possibile per alleviare le loro sofferenze, senza stancarsi di operare con intelligenza e continuità per la giustizia e la pace, testimoniando nei fatti i valori umani e cristiani. Alla luce della sua millenaria storia, invito la Nazione polacca a guardare con speranza al futuro e alle questioni che deve affrontare. Tale atteggiamento favorisce un clima di rispetto tra tutte le componenti della società e un confronto costruttivo tra le diverse posizioni; inoltre, crea le condizioni migliori per una crescita civile, economica e persino demografica, alimentando la fiducia di offrire una vita buona ai propri figli. Essi infatti non dovranno soltanto affrontare problemi, ma godranno le bellezze del creato, il bene che sapremo compiere e diffondere, la speranza che sapremo donare loro. Le stesse politiche sociali a favore della famiglia,

Signor Presidente, la Nazione polacca può contare, come è stato in tutto il suo lungo percorso storico, sulla collaborazione della Chiesa Cattolica, perché, alla luce dei principi cristiani che la ispirano e che hanno forgiato la storia e l’identità della Polonia, sappia, nelle mutate condizioni storiche, progredire nel suo cammino, fedele alle sue migliori tradizioni e ricolma di fiducia e di speranza, anche nei momenti difficili. Nel rinnovare l’espressione della mia gratitudine, auguro a Lei e a ciascuno dei presenti un sereno e proficuo servizio al bene comune. La Madonna di Częstochowa benedica e protegga la Polonia! 15

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La visita ad Auschwitz


A Jasna Góra Vicinanza e concretezza di Maria nella storia millenaria polacca Anche la vostra storia, impastata di Vangelo, Croce e fedeltà alla Chiesa, ha visto il positivo contagio di una fede genuina, trasmessa di famiglia in famiglia, di padre in figlio, e soprattutto dalle mamme e dalle nonne, che bisogna tanto ringraziare. In particolare, avete potuto toccare con mano la tenerezza concreta e provvidente della Madre di tutti, che sono venuto qui a venerare come pellegrino e che abbiamo salutato nel Salmo come «onore della nostra gente» (Gdt 15,9). Proprio a lei noi, qui riuniti, guardiamo. In Maria troviamo la piena corrispondenza al Signore: al filo divino si intreccia così nella storia un “filo mariano”. Se c’è qualche gloria umana, qualche nostro merito nella pienezza del tempo, è lei: è lei quello spazio, preservato libero dal male, in cui Dio si è rispecchiato; è lei la scala che Dio ha percorso per scendere fino a noi e farsi vicino e concreto; è lei il

segno più chiaro della pienezza dei tempi. Nella vita di Maria ammiriamo questa piccolezza amata da Dio, che «ha guardato l’umiltà della sua serva» e «ha innalzato gli umili» (Lc 1,48.52). Egli tanto se ne è compiaciuto, che da lei si è lasciato tessere la carne, così che la Vergine è diventata Genitrice di Dio, come proclama un antichissimo inno, che da secoli cantate. A voi, che ininterrottamente vi recate da lei, accorrendo in questa capitale spirituale del Paese, ella continui a indicare la via, e vi aiuti a tessere, nella vita, la trama umile e semplice del Vangelo. A Cana come qui a Jasna Góra, Maria ci offre la sua vicinanza, e ci aiuta a scoprire ciò che manca alla pienezza della vita. Ora come allora, lo fa con premura di Madre, con la presenza e il buon consiglio, insegnandoci a evitare decisionismi e mormorazioni nelle nostre comunità. Quale Madre di

In preghiera nella cella di San Massimiliano Kolbe Blocco 11. Papa Francesco faceva ingresso nel complesso dove si trova la “cella della fame”. Qui gli assassini nazisti lasciavano i detenuti senza cibo fino alla morte. In questo luogo di tenebre, splende la testimonianza di San Massimiliano Kolbe, il francescano conventuale polacco che proprio 75 anni fa – 14 agosto 1941- sacrificò la sua vita per salvare quella di un altro innocente destinato alla morte. Anche qui, nella cella 18 del seminterrato, Francesco restava solo, lungamente in silenzio, assorto in preghiera. Uscendo, firmava sul libro d’onore e lascia questo messaggio: “Signore abbi pietà del tuo Popolo, Signore, perdono per tanta crudeltà”. Era l’ultimo momento della visita ad Auschwitz prima di trasferirsi in auto al lager di Birkenau, un’area immensa di 175 ettari, il più terribile strumento di morte della follia nazista.

I giovani della Gmg: la risposta a barbarie Grande festa per i centomila giovani che mercoledì pomeriggio 27 luglio a Cracovia, nella spianata del Santuario della Divina Misericordia hanno partecipato alla tradizionale festa degli italiani promossa dal Servizio nazionale giovanile della Conferenza episcopale italiana. “Di fronte ai fatti e alle barbarie degli ultimi tempi che lasciano attoniti, la risposta siete voi.” Cosi il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha salutalo i numerosissimi giovani presenti alla tradizionale festa degli italiani. Questa, la sua riflessione:

E' l’invito della Chiesa, attraverso Papa Francesco, che continua questa splendida intuizione di San Giovanni Paolo II di convocare ogni qualche anno i giovani di tutto il mondo, che vengono e che rispondono sempre con grande entusiasmo; rappresentano veramente la gioventù mondiale. È un grande messaggio di speranza per tutti. Eminenza, lei ha detto che questi giovani sono la risposta di fronte alle barbarie degli ultimi avvenimenti ... Sì, perché di fronte all’odio e alla violenza bisogna 16


Quella luce nelle tenebre del lager

rispondere con un supplemento grandioso di amore e di generosità. Questi ragazzi hanno mostrato e mostrano anche in questi giorni con spirito di sacrificio, con tanta gioia, di essere capaci di amare e di creare un mondo diverso, un mondo di bene. Questo è possibile e loro ce lo dicono con la loro testimonianza di presenza. Lei ha chiesto anche di 'incendiare' questo nostro Paese? Cosa vuol dire? Certo! Tirarlo su dalla depressione dalla sfiducia e ridare speranza; dare iniezione di fiducia e di speranza nonostante le difficoltà grandi che ci sono tuttora e che cadono spesso sulle spalle dei più anziani e dei più giovani – penso al lavoro ad esempio – che con la loro forza permanente, interiore

possono reagire e dire a tutto il Paese: “Insieme possiamo farcela”. Dopo la Messa, i giovani si sono recati in pellegrinaggio nel vicino Santuario dedicato a San Giovanni Paolo II , dove la festa è proseguita insieme a nomi noti del mondo dello spettacolo e della musica. Tra loro anche Renzo Arbore che ha detto: Questi giovani insegnano che siamo tutti fratelli. La fraternità è importantissima, perché non c’è! Invece qui si impara che siamo tutti figli del Cielo. La fraternità è importantissima. Naturalmente mi auguro che i ragazzi possano in futuro realizzare i loro sogni. Questo è importante: lavorare realizzando le loro passioni e i loro sogni. Questo è il messaggio più significativo. 17

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famiglia, ci vuole custodire insieme, tutti insieme. Il cammino Andare in Polonia vuol dire anche e, direi soprattutto, andare ad Audel vostro popolo ha superato, schwitz. San Giovanni Paolo II compiva questo pellegrinaggio del donell’unità, tanti momenti duri; la lore e della compassione solo alcuni mesi dopo l’elezione alla Cattedra Madre, forte ai piedi della croce e di Pietro. Era il 7 giugno 1979. La Polonia viveva ancora sotto il peso perseverante nella preghiera con del potere sovietico. Era il primo viaggio del Papa polacco nella sua terra natale. Discorsi storci quelli pronunciati i giorni del viaggio dal 2 al 10 i discepoli in attesa dello Spirito giugno. Seguivano altri sette viaggi: 1983; 1987; 1991- giugno; 1991 agoSanto, infonda il desiderio di ansto; 1995; 1997; 1999; 2002. Prima della caduta del muro di Berlino e dopo la caduta del muro 9 novembre 1989 cambiavano le due stagioni dare oltre i torti e le ferite del passato, e di creare comunione con della storia dell’Europa che doveva respirare con due polmoni: oriente ed occidente, la ritrovata libertà. Dai viaggi in Polonia di san Giovanni tutti, senza mai cedere alla tentaPaolo II la storia dell’Europa centro orientale riprendere il nuovo corso zione di isolarsi e di imporsi. Ritornava in Polonia anche un altro Papa, Benedetto XVI, figlio della La Madonna, a Cana, ha mostrato nazione tedesca. Papa anche lui, coraggioso e profeta, proprio per il ditanta concretezza: è una Madre scorso che faceva in questo luogo dell’annullamento delle libertà individuali e collettive. che si prende a cuore i problemi e Ora, è tornato Papa Francesco, argentino di nascita che, dal punto di interviene, che sa cogliere i movista anagrafico e geografico, non ha nulla a che fare con il vecchio conmenti difficili e provvedervi con tinente. Invece con il conferimento del premio Carlo Magno - 6 maggio 2016 - e con i discorsi europei a Strasburgo ha indicato i nuovi orizzonti discrezione, efficacia e determinadi accoglienza, di condivisione e di solidarietà che la nuova Europa zione. Non è padrona né protagodeve tenere a cuore anche davanti alla stagione delle stragi del cosidnista, ma Madre e serva. detto stato silamicoi che insanguinano le strade e le piazze e perfino le Chiediamo la grazia di fare nostra chiese del continente. Papi, tre biografie, tre percorsi pastorali, tre stili nell’esercizio del la sua sensibilità, la sua fantasia nel Tre ministero petrino. servire chi è nel bisogno, la belStessi gesti di dolore, di costernazione e di totale vicinanza non solo ad lezza di spendere la vita per gli altri, un popolo - quello ebraico - che doveva essere sterminato, ma, ancora una pausa di riflessione nel luogo in cui l’uomo ha toccato la sua miseria senza preferenze e distinzioni. Ella, la sua malvagità più orrenda: l’eliminazione dell’ «altro», fratello ebreo causa della nostra gioia, che porta eo avversario politico, omosessuale o rom . Tutto, nel lager , veniva esela pace in mezzo all’abbondanza guito con lucidità disumana e con freddezza diabolica. del peccato e ai subbugli della stoDopo 75 anni dalla eroica morte di san Massimiliano Maria Kolbe che ria, ci ottenga la sovrabbondanza Papa Francesco ha onorato e “incontrato” nella cella della morte, si nel silenzio del campo di sterminio, il monito del martire podello Spirito, per essere servi buoni rinnova, lacco:”Solo l’amore crea!”. L’odio genera la morte, il rancore porta a più e fedeli. Per sua intercessione la rancore, il disprezzo dell’atro ci chiude a noi stessi. pienezza del tempo si rinnovi La lezione di Auschwitz è questa, e ancora continua! GIANFRANCO GRIECO anche per noi. A poco serve il passaggio tra il prima e il dopo Cristo, se rimane una data negli annali di interiore, una Pasqua del cuore accompagnare da vicino, con cuore storia. Che possa compiersi, per verso lo stile divino incarnato da semplice e aperto. tutti e per ciascuno, un passaggio Maria: operare nella piccolezza e PAPA FRANCESCO, 28 luglio 2016


Visita al Complesso del Memoriale di Tzitzernakaberd

Papa Francesco in Armenia

Sabato mattina 25 giugno Papa Francesco ha lasciato il Palazzo Apostolico di Etchmiadzin e si è trasferito in auto a Tzitzernakaberd per la visita al Complesso dedicato alla memoria delle vittime del Metz Yeghérn, il massacro del popolo armeno sotto l’impero ottomano del 1915. Alle ore 8.40, il Santo Padre e il Catholicos Karekin II che lo accompagnava sono stati accolti dal Presidente della Repubblica Serzh Sargsyan, e insieme hanno percorso a piedi l’ultimo tratto del viale che porta al Memoriale, tra due ali di bambini e giovani che mostravano ricordi e immagini dei martiri del 1915. All’esterno del monumento il Papa ha deposto una corona di fiori, soffermandosi in raccoglimento. Nella camera della fiamma perenne, il Santo Padre ha deposto una rosa bianca e pregato in silenzio, quindi tutti i presenti hanno recitato il Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Il Papa e il Catholicos hanno benedetto l’incenso mentre il coro cantava l’Hrashapar. Dopo alcune letture bibliche il Santo Padre ha pronunciato una preghiera di intercessione. Papa Francesco, il Catholicos e il Presidente si sono quindi trasferiti alla terrazza del Museo. Lungo il percorso del giardino il Papa ha benedetto e innaffiato un albero posto a memoria della visita. Sulla terrazza erano presenti alcuni discendenti di perseguitati armeni che furono messi in salvo e ospitati a suo tempo a Castel Gandolfo da Papa Benedetto XV e poi da Papa Pio XI. Prima di congedarsi il Santo Padre ha firmato il Libro d’Onore del Memoriale, apponendo le seguenti parole: “Qui prego, col dolore nel cuore, perché mai più vi siano tragedie come questa, perché l’umanità non dimentichi e sappia vincere con il bene il male; Dio conceda all’amato popolo armeno e al mondo intero pace e consolazione. Dio custodisca la memoria del popolo armeno. La memoria non va annacquata né dimenticata; la memoria è fonte di pace e di futuro”.

Quel genocidio inaugurò il triste elenco delle immani catastrofi del XX secolo Nei giorni 24-25-26 giugno 2016 Papa Francesco compiva la visita apostolica in Armenia. Nel tardo pomeriggio del 24 incontrava le autorità politiche, i rappresentanti della Società Civile e del mondo della cultura e i membri del Corpo Diplomatico nel salone principale del Palazzo Presidenziale di Yerevan. Dopo il discorso del Presidente della Repubblica dell’Armenia Serzh Sargsyan, il Papa pronunciava il discorso che riportiamo. È per me motivo di grande gioia poter essere qui, toccare il suolo di questa terra armena tanto cara, fare visita ad un popolo dalle antiche e ricche tradizioni, che ha testimoniato con coraggio la sua fede, che ha molto sofferto, ma che è sempre tornato a rinascere. «Il nostro cielo turchese, le acque chiare, il lago di luce, il sole d’estate e d’inverno la fiera borea, […] la pietra dei millenni, […] i libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera» (Elise Ciarenz, Ode all’Armenia). Sono queste alcune immagini potenti che un vostro illustre poeta ci offre per illuminarci sulla profondità della storia e sulla bellezza della natura dell’Armenia. Esse racchiudono in poche espressioni l’eco e la densità dell’esperienza gloriosa e drammatica di un popolo e lo struggente amore per la sua Patria. Le sono vivamente grato, Signor Presidente, per le gentili espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome del Governo e degli abitanti dell’Armenia, e per avermi offerto la possibilità, grazie al Suo cortese invito, di contraccambiare la visita da Lei compiuta l’anno scorso in Vaticano, quando presenziò alla solenne celebrazione nella Basilica di San Pietro, insieme alle Loro Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di Tutti gli Armeni, e Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, e a Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni, recentemente scomparso.

In quella occasione si è fatta memoria del centenario del Metz Yeghérn, il “Grande Male”, che colpì il vostro popolo e causò la morte di un’enorme moltitudine di persone. Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli. E’ tanto triste che – sia in questo come negli altri due - le grandi potenze guardavano da un’altra parte. Rendo onore al popolo armeno, che, illuminato dalla luce del Vangelo, anche nei momenti più tragici della sua storia, ha sempre trovato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo la forza per risollevarsi e riprendere il cammino con dignità. Questo rivela quanto 18


Il viaggio ha avuto tre aspetti fondamentali tutti coronati da grande successo : l’incontro del Papa con il popolo armeno che ha apprezzato molto la vicinanza del Papa, la comprensione della sua storia e della sua tradizione cristiana. Alcuni momenti fondamentali – l’incontro al Palazzo presidenziale e poi soprattutto la grande preghiera ecumenica nella piazza di Yerevan, che è stata veramente una cosa assolutamente eccezionale, perché una manifestazione religiosa, di preghiera in un luogo pubblico con tutti i rappresentanti anche della Nazione, credo che non si fosse mai vista. Poi, l’aspetto ecumenico e quindi l’accoglienza del Catholicos della Chiesa apostolica armena che è stata meravigliosa. Il Papa ha abitato nella casa del Catholicos per tre giorni e quindi veramente è stato un momento di incontro molto profondo e sincero. E ci sono stati anche momenti specifici di preghiera comune, sia alla visita alla Cattedrale di San Gregorio l’Illuminatore proprio all’arrivo, sia poi la grande Divina Liturgia di questa mattina, in cui abbiamo visto tutto lo splendore di questa liturgia orientale, la sua spiritualità profonda, il suo profondo senso dell’adorazione del mistero eucaristico e quindi un vero gusto spirituale per coloro che erano in grado di entrare nel significato dei canti, delle parole e dei riti. E poi, oggi, c’è stata anche a conclusione questa Dichiarazione congiunta che ha sigillato con un documento questi tre giorni. Anche i toni dei discorsi, in particolare da parte del Papa, sono stati di grandissimo incoraggiamento all’ecumenismo, al dialogo e all’unione di intenti e a procedere anche verso l’unità eucaristica. Quindi, direi che è un passo importante nel cammino ecumenico con questa Chiesa orientale molto significativa, perché praticamente si identifica con la Nazione armena. E poi anche l’incoraggiamento per i cattolici armeni che sono una comunità di minoranza, una comunità relativamente piccola ma molto molto viva e ben inserita nella vita del Paese, e che hanno sentito la presenza del Pastore universale e quindi hanno potuto anche raggiungere la loro visibilità con la Messa in piazza a Gyumri: hanno potuto mostrare al Papa la loro attività di carità, l’orfanotrofio e altre attività di carità … Quindi, una grande festa, veramente, anche per i cattolici armeni sia per quelli che sono presenti nella patria storica dell’Armenia sia per quelli che sono nella diaspora, che si sentono molto legati all’origine della Patria. Tanti armeni erano venuti dalle varie parti del mondo per questa occasione sia della Chiesa apostolica sia anche della Chiesa cattolica; c’erano tutti i vescovi armeni cattolici, per esempio, a concelebrare con il Papa. Io direi che tutti questi aspetti sono stati raggiunti pienamente e anche possiamo dire che la presenza del Papa qui, come sempre, ha voluto essere un messaggio di pace per la regione, sperando che questo venga capito e venga apprezzato. Quello che importa è la verità delle intenzioni del Papa, che certamente non aveva intenzione di fare nessuna guerra di religione ma semplicemente di mettere le premesse su una base di riconoscimento delle sofferenze del passato perché invece in futuro queste sofferenze o mancanze di rispetto per la vita e per i diritti degli altri non avvengano mai più. Questa è l’intenzione del Papa e stiamo a questa sua intenzione. FEDERICO LOMBARDI duraturi, che guardino al futuro. La Chiesa Cattolica desidera collaborare attivamente con tutti coloro che hanno a cuore le sorti della civiltà e il rispetto dei diritti della persona umana, per far prevalere nel mondo i valori spirituali, smascherando quanti ne deturpano il significato e la bellezza. A questo proposito, è di vitale importanza che tutti coloro che dichiarano la loro fede in Dio uniscano le loro forze per isolare chiunque si serva della religione per portare avanti progetti di guerra, di sopraffazione e di persecuzione violenta, strumentalizzando e manipolando il Santo Nome di Dio. Oggi, in particolare i cristiani, come e forse più che al tempo dei primi martiri, sono in alcuni luoghi discri-

profonde siano le radici della fede cristiana e quale infinito tesoro di consolazione e di speranza essa racchiude. Avendo davanti ai nostri occhi gli esiti nefasti a cui condussero nel secolo scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio, auspico vivamente che l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori. Si moltiplichino perciò, da parte di tutti, gli sforzi affinché nelle controversie internazionali prevalgano sempre il dialogo, la costante e genuina ricerca della pace, la collaborazione tra gli Stati e l’assiduo impegno degli organismi internazionali, al fine di costruire un clima di fiducia propizio al raggiungimento di accordi

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papa francesco in armenia

Un grande successo


minati e perseguitati per il solo fatto di professare la loro fede, mentre troppi conflitti in varie aree del mondo non trovano ancora soluzioni positive, causando lutti, distruzioni e migrazioni forzate di intere popolazioni. È indispensabile perciò che i responsabili delle sorti delle nazioni intraprendano con coraggio e senza indugi iniziative volte a porre termine a queste sofferenze, facendo della ricerca della pace, della difesa e dell’accoglienza di coloro che sono bersaglio di aggressioni e persecuzioni, della promozione della giustizia e di uno sviluppo sostenibile i loro obiettivi primari. Il popolo armeno ha sperimentato queste situazioni in prima persona; conosce la sofferenza e il dolore, conosce la persecuzione; conserva nella sua memoria non solo le ferite del passato, ma anche lo spirito che gli ha permesso, ogni volta, di ricominciare di nuovo. In tal senso, io lo incoraggio a non far mancare il suo prezioso contributo alla comunità internazionale. Quest’anno ricorre il 25° anniversario dell’indipendenza dell’Armenia. È una felice circostanza per cui rallegrarsi e l’occasione per fare memoria dei traguardi raggiunti e per proporsi nuove mete a cui tendere. I festeggiamenti per questa lieta ricorrenza saranno tanto più significativi se diventeranno per tutti gli armeni, in Patria e nella diaspora, uno speciale momento nel quale raccogliere e coordinare le energie, allo scopo di favorire uno sviluppo civile e sociale del Paese, equo ed inclusivo. Si tratta di verificare costantemente che non si venga mai meno agli imperativi morali di eguale giustizia per tutti e di solidarietà con i deboli e i meno fortunati (cfr Giovanni Paolo II, Discorso di congedo dall’Armenia, 27 settembre 2001: Insegnamenti XXIV, 2 [2001], 489). La storia del vostro Paese va di pari passo con la sua identità cristiana, custodita nel corso dei secoli. Tale identità cristiana, lungi dall’ostacolare la sana laicità dello Stato, piuttosto la richiede e la alimenta, favorendo la partecipe cittadinanza di tutti i membri della società, la libertà religiosa e il rispetto delle minoranze. La coesione di tutti gli armeni, e l’accresciuto impegno per individuare strade utili a superare le tensioni con alcuni Paesi vicini, renderanno più agevole realizzare questi importanti obiettivi, inaugurando per l’Armenia un’epoca di vera rinascita. La Chiesa Cattolica, da parte sua, pur essendo presente nel Paese con limitate risorse umane, è lieta di poter offrire il suo contributo alla crescita della società, particolarmente nella sua azione rivolta verso i più deboli e i più poveri, nei campi sanitario ed educativo, e in quello specifico della carità, come testimoniano

Un popolo che ha testimoniato la fede cristiana col martirio Nei giorni scorsi il Signore mi ha concesso di visitare l’Armenia, la prima nazione ad avere abbracciato il cristianesimo, all’inizio del quarto secolo. Un popolo che, nel corso della sua lunga storia, ha testimoniato la fede cristiana col martirio. Rendo grazie a Dio per questo viaggio, e sono vivamente grato al Presidente della Repubblica Armena, al Catholicos Karekin II, al Patriarca e ai Vescovi cattolici, e all’intero popolo armeno per avermi accolto come pellegrino di fraternità e di pace. Fra tre mesi compirò, a Dio piacendo, un altro viaggio in Georgia e Azerbaigian, altri due Paesi della regione caucasica. Ho accolto l’invito a visitare questi Paesi per un duplice motivo: da una parte valorizzare le antiche radici cristiane presenti in quelle terre – sempre in spirito di dialogo con le altre religioni e culture – e dall’altra incoraggiare speranze e sentieri di pace. La storia ci insegna che il cammino della pace richiede una grande tenacia e dei continui passi, cominciando da quelli piccoli e man mano facendoli crescere, andando l’uno incontro all’altro. Proprio per questo il mio auspicio è che tutti e ciascuno diano il proprio contributo per la pace e la riconciliazione. Come cristiani siamo chiamati a rafforzare tra noi la comunione fraterna, per rendere testimonianza al Vangelo di Cristo e per essere lievito di una società più giusta e solidale. Per questo tutta la visita è stata condivisa con il Supremo Patriarca della Chiesa Apostolica Armena, il quale mi ha fraternamente ospitato per tre giorni nella sua casa. Rinnovo il mio abbraccio ai Vescovi, ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi e a tutti i fedeli in Armenia. La Vergine Maria, nostra Madre, li aiuti a rimanere saldi nella fede, aperti all’incontro e generosi nelle opere di misericordia. Udienza giubilare 30 giugno 2016 l’opera svolta ormai da venticinque anni dall’ospedale “Redemptoris Mater” ad Ashotsk, l’attività dell’istituto educativo a Yerevan, le iniziative di Caritas Armenia e le opere gestite dalle Congregazioni religiose. Dio benedica e protegga l’Armenia, terra illuminata dalla fede, dal coraggio dei martiri, dalla speranza più 20


Una liturgia nella Cattedrale svedese di Lund e un evento pubblico nello stadio di Malmö, aperto alla più ampia partecipazione. Saranno questi i due momenti che caratterizzeranno, il prossimo 31 ottobre, la commemorazione ecumenica congiunta luterano-cattolica dei 500 anni della Riforma, come informa un comunicato congiunto della Federazione Luterana Mondiale e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Come è noto, agli eventi di Lund prenderà parte anche Papa Francesco: il programma completo del viaggio del Pontefice in Svezia - ha affermato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi – comprenderà, tra l’altro, anche una celebrazione eucaristica con la comunità cattolica nella mattina del 1° novembre. L’evento congiunto della Federazione Luterana Mondiale (LWF) e della Chiesa Cattolica Romana – si legge nel comunicato congiunto – intende mettere in evidenza i 50 anni di continuo dialogo ecumenico fra cattolici e luterani e i doni derivanti da tale collaborazione. La commemorazione cattolico-luterana dei 500 anni della Riforma si impernia sui temi del rendimento di grazie, del pentimento e dell’impegno nella testimonianza comune. L’obiettivo è di esprimere i doni della Riforma e chiedere perdono per la divisione perpetuata dai cristiani delle due tradizioni. La cattedrale di Lund, sarà il luogo dove si svolgerà la cerimonia di preghiera comune, basata sulla guida liturgica cattolico-luterana di recente pubblicazione intitolata “Preghiera Comune”, che a sua volta si fonda sul documento: “Dal conflitto alla comunione”. Lo stadio di Malmö sarà lo scenario dove si svolgeranno le attività dedicate all’impegno della testimonianza e del servizio comune di cattolici e luterani nel mondo. Saranno presentati gli aspetti più importanti del lavoro comune del Servizio Mondiale della Federazione Luterana Mondiale

(LWF World Service) e di Caritas Internationalis, come la cura dei profughi, il servizio della pace e la difesa della giustizia climatica. Papa Francesco, il Vescovo Dr Munib A. Younan e il Rev. Dr. Martin Junge, rispettivamente Presidente e Segretario Generale della Federazione Luterana Mondiale, guideranno la cerimonia della preghiera comune a Lund e l’evento nello stadio di Malmö, in collaborazione con i responsabili della Chiesa di Svezia e della Diocesi cattolica di Stoccolma. “È quando le comunità imboccano la via che allontana dai conflitti, che scaturisce la forza. In Cristo siamo incoraggiati a servire insieme nel mondo. La commemorazione congiunta è una testimonianza dell’amore e della speranza che tutti noi abbiamo per merito della grazia di Dio”, hanno dichiarato il Presidente della LWF Younan e il Segretario Generale Junge. Il Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, spiega: “Concentrandosi insieme sulla centralità del problema di Dio e su un approccio cristocentrico, Luterani e Cattolici potranno commemorare ecumenicamente la Riforma, non in un modo meramente pragmatico, ma nel senso profondo della fede in Cristo crocifisso e risorto”. “Siamo in attesa di questo evento che vedrà la partecipazione di 10.000 persone. L’idea alla base della manifestazione nell’arena di Malmö è di descrivere ulteriormente il processo che va dal conflitto alla comunione concentrandosi sulla speranza per il futuro e sul servizio comune nel mondo”, afferma l’Arcivescovo della Chiesa di Svezia Antje Jackélen. Il Vescovo Anders Arborelius della Diocesi cattolica di Stoccolma, aggiunge: “Verrà scritta una pagina di storia quando Papa Francesco e i leader della Federazione Luterana Mondiale visiteranno Lund e Malmö per incoraggiare tutti noi a proseguire nel cammino verso l’unità dei cristiani”. 21

ecumenismo

Il Papa in Svezia per i 500 anni della Riforma


Conversione, contemplazione e amore Signore ci perdona i nostri peccati, sia che si tratti della Introduzione La misericordia, nel suo aspetto più femminile, è il vi- grazia che ci dà per praticare le opere di misericordia scerale amore materno, che si commuove di fronte alla in suo nome. Niente illumina di più la fede che il purfragilità della sua creatura appena nata e la abbraccia, gare i nostri peccati, e niente vi è di più chiaro che Matfornendo tutto quello che le manca perché possa vivere teo 25 e quel «Beati i misericordiosi perché otterranno e crescere (rahamim); e, nel suo aspetto propriamente misericordia» (Mt 5,7) per comprendere qual è la vomaschile, è la fedeltà forte del Padre che sempre so- lontà di Dio, la missione alla quale ci invia. Alla misestiene, perdona e torna a rimettere in cammino i suoi ricordia si può applicare quell’insegnamento di Gesù: figli. La misericordia è tanto il frutto di una “alleanza” «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a - per questo si dice che Dio si ricorda del suo (patto di) voi» (Mt 7,2). Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che misericordia (hesed) -, In occasione del Giubileo dei sacerdoti e dei semi“bastonano” i penitenti, che li quanto un “atto” granaristi (1-3 giugno), Papa Francesco ha predicato rimproverano. Ma così li trattuito di benevolenza e il giorno 2 giugno 2016 il ritiro per i sacerdoti racterà Dio! Almeno per questo, bontà che sorge dalla nocolti nelle Basiliche Papali di Roma. stra più profonda psicoloIl Papa ha tenuto le sue meditazioni a turno rispet- non fate queste cose. La migia e si traduce in tivamente nella Basilica di San Giovanni in Late- sericordia ci permette di pasrano (alle ore 10), di Santa Maria Maggiore (alle sare dal sentirci oggetto di un’opera esterna (eleos, misericordia al desiderio di che diventa elemosina). ore 12) e di San Paolo Fuori le Mura (alle ore 16). I sacerdoti e seminaristi raccolti nelle altre Basilioffrire misericordia. PosQuesta inclusività permette che hanno seguito il Papa grazie al collegamento sono convivere, in una che sia sempre alla portata di operato dal Centro Televisivo Vaticano. sana tensione, il sentitutti agire con misericordia, Di seguito riportiamo il testo dell’introduzione e della prima meditazione che Papa Francesco ha temento di vergogna per i provare compassione per chi propri peccati con il sensoffre, commuoversi per chi nuto nella Basilica di San Giovanni in Laterano. timento della dignità ha bisogno, indignarsi, il rivoltarsi delle viscere di fronte ad una patente ingiustizia e alla quale il Signore ci eleva. Possiamo passare senza porsi immediatamente a fare qualcosa di concreto, con preamboli dalla distanza alla festa, come nella parabola rispetto e tenerezza, per porre rimedio alla situazione. del figlio prodigo, e utilizzare come ricettacolo della miE, partendo da questo sentimento viscerale, è alla por- sericordia il nostro stesso peccato. Ripeto questo, che è tata di tutti guardare a Dio dalla prospettiva di questo la chiave della seconda mediazione: utilizzare come riprimo e ultimo attributo con il quale Gesù ha voluto ri- cettacolo della misericordia il nostro stesso peccato. La misericordia ci spinge a passare dal personale al comuvelarlo per noi: il nome di Dio è Misericordia. Quando meditiamo sulla misericordia accade qualcosa nitario. Quando agiamo con misericordia, come nei midi speciale. La dinamica degli Esercizi Spirituali si po- racoli della moltiplicazione dei pani, che nascono dalla tenzia dall’interno. La misericordia fa vedere che le vie compassione di Gesù per il suo popolo e per gli straoggettive della mistica classica – purgativa, illuminativa nieri, i pani si moltiplicano nella misura in cui vengono e unitiva – non sono mai fasi successive, che si possano condivisi. lasciare alle spalle. Abbiamo sempre bisogno di nuova conversione, di maggiore contemplazione e di un rin- Tre suggerimenti novato amore. Queste tre fasi si intrecciano e ritornano. Tre suggerimenti per questa giornata di ritiro. La gioNiente unisce maggiormente con Dio che un atto di iosa e libera familiarità che si stabilisce a tutti i livelli misericordia – e questa non è una esagerazione: niente tra coloro che si relazionano tra loro con il vincolo della unisce maggiormente con Dio che un atto di misericor- misericordia – familiarità del Regno di Dio, così come dia – sia che si tratti della misericordia con la quale il Gesù lo descrive nelle sue parabole – mi porta a sugge22


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giubileo dei sacerdoti

meditare sulla misericordia senza che tutto si metta in azione. Pertanto, nella preghiera, non fa bene intellettualizzare. Rapidamente, con l’aiuto della Grazia, il nostro dialogo con il Signore deve concretizzarsi su quale mio peccato richieda che si posi in me la Tua misericordia, Signore, dove sento più vergogna e più desidero riparare; e rapidamente dobbiamo parlare di quello che più ci commuove, di quei volti che ci portano a desiderare intensamente di darci da fare per rimediare alla loro fame e sete di Dio, di giustizia e di tenerezza. La misericordia la si contempla nell’azione. Ma un tipo di azione che è onninclusiva: la misericordia include tutto il nostro essere – viscere e spirito – e tutti gli esseri. L’ultimo suggerimento per la giornata di oggi riguarda il frutto degli esercizi, vale a dire, la grazia che occorre chiedere e che è, direttamente, quella di diventare sacerdoti sempre più capaci di ricevere e dare misericordia. Una delle cose più belle, che mi commuovono, è la confessione di un sacerdote: è una cosa grande, bella, perché quest’uomo che si avvicina per confessare i propri peccati è lo stesso che poi offre l’orecchio al cuore di un’altra persona che viene a confessare i suoi. Possiamo centrarci sulla misericordia perché è la realtà essenziale, definitiva. Attraverso gli scalini della misericordia (cfr Enc. Laudato si’, 77) possiamo scendere fino al punto più basso della condizione umana – fragilità e peccato inclusi – e ascendere fino al punto più alto della perfezione divina: «Siate misericordiosi (perfetti) come è misericordioso il Padre vostro». Però sempre per “raccogliere” solamente più misericordia. Da qui devono provenire frutti di conversione della nostra mentalità istituzionale: se le nostre strutture non si

rirvi tre cose per la vostra preghiera personale di questo giorno. La prima ha a che vedere con due consigli pratici che dà sant’Ignazio - mi scuso per la pubblicità “di famiglia” - il quale dice: «Non è il molto sapere che riempie e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose di Dio interiormente» (Esercizi Spirituali,2). Sant’Ignazio aggiunge che lì dove uno trova quello che desidera e prova gusto, lì si fermi in preghiera «senza avere l’ansia di passare ad altro, finché mi soddisfi» (ibid., 76). Così che, in queste meditazioni sulla misericordia, uno può iniziare da dove più gli piace e lì soffermarsi, dal momento che sicuramente un’opera di misericordia vi condurrà alle altre. Se iniziamo ringraziando il Signore, che in modo stupendo ci ha creati e in modo ancor più stupendo ci ha redenti, sicuramente questo ci condurrà a provare pena per i nostri peccati. Se cominciamo col provare compassione per i più poveri e lontani, sicuramente sentiremo anche noi la necessità di ricevere misericordia. Il secondo suggerimento per pregare ha a che vedere con un nuovo modo di usare la parola misericordia. Come vi sarete resi conto, nel parlare di misericordia a me piace usare la forma verbale: bisogna dare misericordia (misericordiar in spagnolo, “misericordiare”, dobbiamo forzare la lingua) per ricevere misericordia, per essere “misericordiati” (ser misericordiados). “Ma Padre, questo non è italiano!” – “Si, ma è la forma che io trovo per andare dentro: “misericordiare” per “essere misericordiato”. Il fatto che la misericordia mette in contatto una miseria umana con il cuore di Dio, fa in modo che l’azione nasca immediatamente. Non si può


vivono e non si utilizzano per meglio ricevere la misericordia di Dio e per essere più misericordiosi con gli altri, possono trasformarsi in qualcosa di molto diverso e controproducente. Di questo in alcuni documenti della Chiesa e in alcuni discorsi dei Papi si parla spesso: cioè della conversione istituzionale, la conversione pastorale. Questo ritiro spirituale, pertanto, si incamminerà per il sentiero di questa “semplicità evangelica” che comprende e compie tutte le cose in chiave di misericordia. E di una misericordia dinamica, non come un sostantivo cosificato e definito, né come aggettivo che decora un po’ la vita, ma come verbo – operare misericordia e ricevere misericordia, “misericordiare” ed “essere misericordiato”. E questo ci proietta verso l’azione nel cuore del mondo. E inoltre, come misericordia «sempre più grande», come una misericordia che cresce e aumenta, avanzando di bene in meglio e passando dal meno al più, poiché l’immagine che Gesù ci offre è quella del Padre sempre più grande – Deus semper maior – e la cui misericordia infinita “cresce” - se si può dire così - e non ha né cima né fondo, perché proviene dalla sua sovrana libertà. Prima meditazione: dalla distanza alla festa E adesso passiamo alla prima meditazione. Ho messo come titolo “Dalla distanza alla festa”. Se la misericordia del Vangelo è, come abbiamo detto, un eccesso di Dio, un inaudito straripamento, la prima cosa da fare è guardare dove il mondo di oggi, e ciascuna persona, ha più bisogno di un eccesso di amore così. Prima di tutto domandarci qual è il ricettacolo per una tale misericordia, qual è il terreno deserto e secco per un tale straripamento di acqua viva; quali sono le ferite per questo olio balsamico; quale è la condizione di orfano che necessita un tale prodigarsi in affetto e attenzioni; quale la distanza per una sete così grande di abbraccio e di incontro… La parabola che vi propongo per questa meditazione è quella del Padre misericordioso (cfr Lc 15,11-31). Ci poniamo nell’ambito del mistero del Padre. E mi viene dal cuore incominciare da quel momento in cui il figlio prodigo si trova in mezzo al porcile, in quell’inferno dell’egoismo che ha fatto tutto quello che voleva e, dove, invece di essere libero, si ritrova schiavo. Osserva i maiali che mangiano ghiande..., prova invidia e gli viene nostalgia. Nostalgia: parola chiave. Nostalgia del pane appena sfornato che i domestici a casa, a casa di suo padre, mangiano per colazione. La nostalgia è un sentimento potente. Ha a che fare con la misericordia perché ci allarga l’anima. Ci fa ricordare il bene primario – la patria da cui proveniamo – e risveglia in noi la

speranza di ritornare. Il nostos algos. In questo ampio orizzonte della nostalgia, questo giovane – dice il Vangelo – rientrò in sé stesso e si sentì miserabile. E ognuno di noi può cercare o lasciarsi portare a quel punto dove si sente più miserabile. Ognuno di noi ha il suo segreto di miseria dentro… Bisogna chiedere la grazia di trovarlo. Senza soffermarci ora a descrivere la miseria del suo stato, passiamo a quell’altro momento in cui, dopo che suo Padre lo ha abbracciato e baciato con trasporto, egli si ritrova sporco, ma vestito a festa. Perché il padre non gli dice: “Va’, fatti la doccia e poi torna”. No. Sporco e vestito a festa. Si pone l’anello al dito al pari di suo padre. Ha sandali nuovi ai piedi. Sta in mezzo alla festa, tra la gente. Qualcosa di simile a quando noi, se qualche volta ci è capitato, ci siamo confessati prima della Messa e immediatamente ci siamo trovati “rivestiti” e nel mezzo di una cerimonia. E’ uno stato di vergognata dignità. Vergognata dignità Soffermiamoci su quella “vergognata dignità” di questo figlio prodigo e prediletto. Se ci sforziamo, serenamente, di mantenere il cuore tra questi due estremi – la dignità e la vergogna – senza tralasciare nessuno di essi, forse possiamo percepire come batte il cuore di nostro Padre. Era un cuore che batteva di ansia, quando tutti i giorni saliva sul terrazzo a guardare. Cosa guardava? Se il figlio tornasse… Ma in questo punto, in questo posto dove ci sono dignità e vergogna, possiamo percepire come batte il cuore di nostro Padre. Possiamo immaginare che la misericordia ne sgorga come sangue. Che Egli esce a cercarci – noi peccatori –, che ci attira a sé, ci purifica e ci lancia nuovamente, rinnovati, verso tutte le periferie, a portare misericordia a tutti. Il suo sangue è il Sangue di Cristo, sangue della Nuova ed Eterna Alleanza di misericordia, versato per noi e per tutti in remissione dei peccati. Questo sangue lo contempliamo mentre entra ed esce dal suo Cuore, e dal cuore del Padre. E’ l’unico nostro tesoro, l’unica cosa che abbiamo da offrire al mondo: il sangue che purifica e pacifica tutto e tutti. Il sangue del Signore che perdona i peccati. Il sangue che è vera bevanda, che risuscita e dà vita a ciò che è morto a causa del peccato. Nella nostra preghiera, serena, che va dalla vergogna alla dignità e dalla dignità alla vergogna – tutte e due insieme – chiediamo la grazia di sentire tale misericordia come costitutiva di tutta la nostra vita; la grazia di sentire come quel battito del cuore del Padre si unisca con il battito del nostro. Non basta sentire la misericordia di Dio come un gesto che, occasionalmente, Egli fa perdonandoci qualche grosso peccato, e per il resto ci 24


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dalla croce. Lo inviterà a camminare sulle acque e lascerà che incominci ad affondare nella sua stessa paura, per poi subito tendergli la mano; non appena si confessi peccatore gli darà la missione di essere pescatore di uomini; lo interrogherà ripetutamente sul suo amore, facendogli sentire dolore e vergogna per la sua slealtà e codardia, ma per tre volte pure gli affiderà il compito di pascere le sue pecore. Sempre questi due poli. Dobbiamo situarci qui, nello spazio in cui convivono la nostra miseria più vergognosa e la nostra dignità più alta. Cosa sentiamo quando la gente ci bacia la mano e guardiamo la nostra miseria più intima e siamo onorati dal Popolo di Dio? Lì c’è un’altra situazione per capire questo. Sempre il contrasto. Dobbiamo situarci qui, nello spazio in cui convivono la nostra miseria più vergognosa e la nostra dignità più alta. Lo stesso spazio. Sporchi, impuri, meschini, vanitosi – è peccato di preti, la vanità – egoisti e, nello stesso tempo, con i piedi lavati, chiamati ed eletti, intenti a distribuire i pani moltiplicati, benedetti dalla nostra gente, amati e curati. Solo la misericordia rende sopportabile quella posizione. Senza di essa o ci crediamo giusti come i farisei o ci allontaniamo come quelli che non si sentono degni. In entrambi i casi ci si indurisce il cuore. O quando ci sentiamo giusti come i farisei, o quando ci allontaniamo come quelli che non si sentono degni. Io non mi sento degno, ma non devo allontanarmi: lì devo essere, nella vergogna con la dignità, tutt’e due insieme. Approfondiamo un po’ di più. Ci domandiamo: Perché è così feconda questa tensione fra miseria e dignità, fra distanza e festa? Direi che è feconda perché mantenerla nasce da una decisione libera. E il Signore agisce principalmente sulla nostra libertà, benché ci aiuti in ogni cosa. La misericordia è questione di libertà. Il sentimento sgorga spontaneo e quando affermiamo che è viscerale sembrerebbe che sia sinonimo di “animale”. Ma in realtà gli animali non conoscono la misericordia “morale”, anche se alcuni possono sperimentare qual-

aggiustiamo da soli, autonomamente. Non basta. Sant’Ignazio propone un’immagine cavalleresca propria della sua epoca, ma poiché la lealtà tra amici è un valore perenne, può aiutarci. Egli afferma che, per sentire «confusione e vergogna» per i nostri peccati (e non smettere di sentire la misericordia) possiamo far uso di un esempio: immaginiamo «un cavaliere che vada davanti al suo re e a tutta la sua corte, pieno di vergogna e confuso per averlo molto offeso, dal momento che da parte del re aveva in precedenza ricevuto molti doni e molte grazie» (Esercizi Spirituali, 74). Immaginiamo quella scena. Tuttavia, seguendo la dinamica del figlio prodigo nella festa, immaginiamo questo cavaliere come uno che, invece di essere svergognato davanti a tutti, il re, al contrario, lo prenda inaspettatamente per la mano e gli restituisca la sua dignità. E vediamo che non solo lo invita a seguirlo nella sua battaglia, ma che lo pone alla testa dei suoi compagni. Con quale umiltà e lealtà lo servirà questo cavaliere d’ora in avanti! Questo mi fa pensare all’ultima parte del capitolo 16 di Ezechiele, l’ultima parte. Sia che si senta come il figlio prodigo festeggiato, sia come il cavaliere sleale trasformato in superiore, l’importante è che ciascuno si ponga nella tensione feconda in cui la misericordia del Signore ci colloca: non solamente di peccatori perdonati, ma di peccatori a cui è conferita dignità. Il Signore non solamente ci pulisce, ma ci incorona, ci dà dignità. Simon Pietro ci offre l’immagine ministeriale di questa sana tensione. Il Signore lo educa e lo forma progressivamente e lo esercita a mantenersi così: Simone e Pietro. L’uomo comune, con le sue contraddizioni e debolezze, e quello che è pietra, quello che possiede le chiavi, quello che guida gli altri. Quando Andrea lo conduce a Cristo, così com’è, vestito da pescatore, il Signore gli dà il nome di Pietra. Appena finisce di lodarlo per la professione di fede che proviene dal Padre, già gli rimprovera duramente la tentazione di ascoltare la voce dello spirito maligno che gli dice di star lontano


cosa di tale compassione, come un cane fedele che rimane al fianco del suo padrone malato. La misericordia è una commozione che tocca le viscere, e tuttavia può scaturire anche da un’acuta percezione intellettuale – diretta come un raggio ma non per questo meno complessa –: si intuiscono molte cose quando si prova misericordia. Si comprende, per esempio, che l’altro si trova in una situazione disperata, al limite; che gli succede qualcosa che supera i suoi peccati o le sue colpe; si comprende anche che l’altro è uno come me, che ci si potrebbe trovare al suo posto; e che il male è tanto grande e devastante che non si risolve solo per mezzo della giustizia… In fondo, ci si convince che c’è bisogno di una misericordia infinita come quella del cuore di Cristo per rimediare a tanto male e tanta sofferenza, come vediamo che c’è nella vita degli esseri umani… Se la misericordia va al di sotto di quel livello, non serve. Tante cose comprende la nostra mente solo vedendo qualcuno gettato per la strada, scalzo, in una mattina fredda, o vedendo il Signore inchiodato alla croce per me! Inoltre, la misericordia si accetta e si coltiva, o si rifiuta liberamente. Se uno si lascia prendere, un gesto tira l’altro. Se uno passa oltre, il cuore si raffredda. La misericordia ci fa sperimentare la nostra libertà ed è lì dove possiamo sperimentare la libertà di Dio, che è misericordioso con chi è misericordioso (cfr Dt 5,10), come disse a Mosè. Nella sua misericordia il Signore esprime la sua libertà. E noi la nostra. Possiamo vivere molto tempo “senza” la misericordia del Signore. Vale a dire, possiamo vivere senza averne coscienza e senza chiederla esplicitamente, finché uno si rende conto che “tutto è misericordia”, e piange con amarezza di non averne approfittato prima, dal momento che ne aveva tanto bisogno! La miseria di cui parliamo è la miseria morale, non trasferibile, quella per cui uno prende coscienza di sé stesso come persona che, in un momento decisivo della sua vita, ha agito di propria iniziativa: ha fatto una scelta e ha scelto male. Questo è il fondo che bisogna toccare per sentire dolore per i peccati e pentirsi veramente. Perché in altri ambiti uno non si sente così libero, né sente che il peccato influisce negativamente su tutta la sua vita e pertanto non sperimenta la propria miseria, e in questo modo si perde la misericordia, che agisce solo a tale condizione. Uno non va in farmacia e dice: “Per misericordia, mi dia un’aspirina”. Per misericordia chiede che gli diano della morfina per una persona in preda ai dolori atroci di una malattia terminale. O tutto o niente. Si va in fondo o non si capisce nulla. Il cuore che Dio unisce a questa nostra miseria morale

è il Cuore di Cristo, suo Figlio amato, che batte come un solo cuore con quello del Padre e dello Spirito. Ricordo quando Pio XII ha fatto l’Enciclica sul Sacro Cuore, ricordo che qualcuno diceva: “Perché un’Enciclica su questo? Sono cose da suore…”. E’ il centro, il Cuore di Cristo, è il centro della misericordia. Forse le suore capiscono meglio di noi, perché sono madri nella Chiesa, sono icone della Chiesa, della Madonna. Ma il centro è il cuore di Cristo. Ci farà bene questa settimana o domani leggere Haurietis aquas… “Ma è preconciliare!” – Sì, ma fa bene! Si può leggere, ci farà molto bene! Il cuore che Dio unisce a questa nostra miseria morale è il cuore di Cristo, suo Figlio amato, che batte come un solo cuore con quello del Padre e dello Spirito. È un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non “si occupa di un caso” ma si impegna con una persona, con la sua ferita. Guardiamo al nostro linguaggio. Quante volte, senza accorgerci, ci viene da dire: “Ho un caso…”. Fermati! Di’ piuttosto: “Ho una persona che…”. Questo è molto clericale: “Ho un caso…”, “ho trovato un caso…”. Anche a me viene spesso. C’è un po’ di clericalismo: ridurre la concretezza dell’amore di Dio, di quello che ci dà Dio, della persona, a un “caso”. E così mi distacco e non mi tocca. E così non mi sporco le mani; e così faccio una pastorale pulita, elegante, dove non rischio niente. E pure dove – non scandalizzatevi! – non ho la possibilità di un peccato vergognoso. La misericordia va oltre la giustizia e lo fa sapere e lo fa sentire; si resta coinvolti l’uno con l’altro. Conferendo dignità – e questo è decisivo, da non dimenticare: la misericordia dà dignità – la misericordia eleva colui verso il quale ci si abbassa e li rende entrambi pari, il misericordioso e colui che ha ottenuto misericordia. Come la peccatrice del Vangelo (Lc 7,3650), alla quale è stato perdonato molto, perché ha amato molto, e aveva peccato molto. Per questo il Padre ha bisogno di fare festa, affinché venga restaurato tutto in una sola volta, restituendo a suo figlio la dignità perduta. Questo permette di guardare al futuro in un modo nuovo. Non che la misericordia non consideri l’oggettività del danno provocato dal male. Però le toglie potere sul futuro, - e questo è il potere della misericordia - le toglie potere sulla vita che scorre in avanti. La misericordia è il vero atteggiamento di vita che si oppone alla morte, che è l’amaro frutto del peccato. In questo è lucida, non è per nulla ingenua la misericordia. Non è che non veda il male, ma guarda a quanto è breve la vita e a tutto il bene che rimane da 26


Dio è eccedere nel riceverla e nel desiderio di comunicarla agli altri. Il Vangelo ci mostra tanti begli esempi di persone che esagerano pur di riceverla: il paralitico, che gli amici fanno entrare dal tetto in mezzo al luogo dove il Signore stava predicando – esagerano -; il lebbroso, che lascia i suoi nove compagni e ritorna glorificando e ringraziando Dio a gran voce e si inginocchia ai piedi del Signore; il cieco Bartimeo, che riesce a fermare Gesù con le sue grida - e riesce anche a vincere la “dogana dei preti” per andare dal Signore; la donna emorroissa che, nella sua timidezza, si ingegna per ottenere una vicinanza intima con il Signore e che, come dice il Vangelo, quando toccò il mantello il Signore avvertì che usciva da lui una dynamis. Sono tutti esempi di quel contatto che accende un fuoco e sprigiona la dinamica: sprigiona la forza positiva della misericordia. C’è anche la peccatrice, le cui eccessive manifestazioni d’amore verso il Signore col lavargli i piedi con le sue lacrime e asciugarglieli coi suoi capelli, sono per il Signore segno del fatto che ha ricevuto molta misericordia e perciò la esprime in quel modo esagerato. Ma sempre la misericordia esagera, è eccessiva! Le persone più semplici, i peccatori, gli ammalati, gli indemoniati…, sono immediatamente innalzati dal Signore, che li fa passare dall’esclusione alla piena inclusione, dalla distanza alla festa. E questo non si comprende se non è in chiave di speranza, in chiave apostolica e in chiave di chi ha ricevuto misericordia per dare a sua volta misericordia. Possiamo concludere pregando con il magnificat della misericordia, il Salmo 50 del Re Davide, che recitiamo alle lodi tutti i venerdì. È il magnificat di «un cuore contrito e umiliato» che, nel suo peccato, ha la grandezza di confessare il Dio fedele, che è più grande del peccato. Dio è più grande del peccato! Situati nel momento in cui il figlio prodigo si aspettava di essere trattato con freddezza e, invece, il Padre lo mette nel bel mezzo di una festa, possiamo immaginarlo mentre prega il Salmo 50. E pregarlo a due cori con lui, noi e il figlio prodigo. Possiamo ascoltarlo che dice: «Pietà di me, o Dio, nel

Gli eccessi della misericordia Una parolina per finire sugli eccessi della misericordia. L’unico eccesso davanti alla eccessiva misericordia di

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fare. Per questo bisogna perdonare totalmente, perché l’altro guardi in avanti e non perda tempo nel colpevolizzarsi e nel compatire sé stesso e rimpiangere ciò che ha perduto. Mentre ci si avvia a curare gli altri, si farà anche il proprio esame di coscienza e, nella misura in cui si aiutano gli altri, si riparerà al male commesso. La misericordia è fondamentalmente speranzosa. E’ madre di speranza. Lasciarsi attrarre e inviare dal movimento del cuore del Padre significa mantenersi in quella sana tensione di dignità vergognata. Lasciarsi attrarre dal centro del suo cuore, come sangue che si è sporcato e andando a dare vita alle membra più lontane, perché il Signore ci purifichi e ci lavi i piedi; lasciarsi inviare ricolmi dell’ossigeno dello Spirito per portare vita a tutte le membra, specialmente a quelle più lontane, fragili e ferite. Un prete raccontava - questo è storico – di una persona che viveva per la strada, e che alla fine andò a vivere in un ostello. Era uno rinchiuso nella sua amarezza, che non interagiva con gli altri. Persona colta, si resero conto più tardi. Qualche tempo dopo, quest’uomo venne ricoverato in ospedale a causa di una malattia terminale e raccontava al sacerdote che, mentre era lì, preso dal suo nulla e dalla sua delusione per la vita, quello che si trovava nel letto accanto al suo gli chiese di passargli la sputacchiera e che poi la svuotasse. E raccontò che quella richiesta che veniva da qualcuno che ne aveva veramente bisogno e che stava peggio di lui, gli aprì gli occhi e il cuore a un sentimento potentissimo di umanità e a un desiderio di aiutare l’altro e di lasciarsi aiutare da Dio. E si è confessato. Così, un semplice atto di misericordia lo collegò con la misericordia infinita, ebbe il coraggio di aiutare l’altro e poi si lasciò aiutare: morì confessato e in pace. Questo è il mistero della misericordia. Così, vi lascio con la parabola del padre misericordioso, una volta che ci siamo “situati” in quel momento in cui il figlio si sente sporco e rivestito, peccatore al quale è stata resa dignità, vergognoso di sé e orgoglioso di suo padre. Il segno per sapere se uno è ben situato è il desiderio di essere, d’ora innanzi, misericordioso con tutti. Qui sta il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra, quel fuoco che accende altri fuochi. Se non si accende la fiamma, vuol dire che uno dei poli non permette il contatto. O l’eccessiva vergogna che non pela i fili e, invece di confessare apertamente “ho fatto questo e questo”, si copre; o l’eccessiva dignità, che tocca le cose con i guanti.


tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità …». E noi dire: «Sì, le mie iniquità (anch’io) le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». E ad una voce dire: «Contro di te, (Padre,) contro te solo ho peccato». E preghiamo a partire da quell’intima tensione che accende la misericordia, quella tensione tra la vergogna che afferma: «Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe»; e quella fiducia che dice: «Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve». Fiducia che diventa apostolica: «Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno». Seconda meditazione: il recettacolo della misericordia Nella Basilica di Santa Maria Maggiore, il Santo Padre Francesco ha tenuto la seconda mediazione degli esercizi da lui proposti il 2 giugno ai sacerdoti ed ai seminaristi in occasione del loro giubileo. Il ritiro predicato dal Papa è stato seguito in videoconferenza anche dai sacerdoti raccolti nelle Basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Paolo fuori le Mura. Dopo aver pregato su quella “dignità vergognata” e “vergogna dignitosa”, che è il frutto della Misericordia, andiamo avanti in questa meditazione sul “ricettacolo della Misericordia”. E’ semplice. Io potrei dire una frase e andarmene, perché è uno solo: il ricettacolo della Misericordia è il nostro peccato. E’ così semplice. Ma spesso accade che il nostro peccato è come un colabrodo, come una brocca bucata dalla quale scorre via la grazia in poco tempo: «Perché due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13). Da qui la necessità che il Signore esplicita a Pietro di “perdonare settanta volte sette”. Dio non si stanca di perdonare, ma siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Dio non si stanca di perdonare, anche quando vede che la sua grazia sembra non riuscire a mettere forti radici nella terra del nostro cuore, quando vede che la strada è dura, piena di erbacce e sassosa. E’ semplicemente perché Dio non è pelagiano, e per questo non si stanca di perdonare. Egli torna nuovamente a seminare la sua misericordia e il suo perdono, e torna e torna e torna… settanta volte sette. Cuori ri-creati Tuttavia, possiamo fare un passo ulteriore in questa misericordia di Dio, che è sempre “più grande della nostra coscienza” di peccato. Il Signore non solo non si stanca

di perdonarci, ma rinnova anche l’otre nel quale riceviamo il suo perdono. Utilizza un otre nuovo per il vino nuovo della sua misericordia, perché non sia come un vestito rattoppato o un otre vecchio. E questo otre è la sua misericordia stessa: la sua misericordia in quanto sperimentata in noi stessi e in quanto la mettiamo in pratica aiutando gli altri. Il cuore che ha ricevuto misericordia non è un cuore rattoppato ma un cuore nuovo, ri-creato. Quello di cui dice Davide: «Crea in me un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo» (Sal 50,12). Questo cuore nuovo, ri-creato, è un buon recipiente. La liturgia esprime l’anima della Chiesa quando ci fa pronunciare quella bella orazione: «O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti» (Veglia Pasquale, Orazione dopo la Prima Lettura). Pertanto, questa seconda creazione è ancora più meravigliosa della prima. È un cuore che sa di essere ricreato grazie alla fusione della sua miseria con il perdono di Dio, e per questo “è un cuore che ha ricevuto misericordia e dona misericordia». È così: sperimenta i benefici della grazia sulla sua ferita e sul suo peccato, sente che la misericordia pacifica la sua colpa, inonda con amore la sua aridità, riaccende la sua speranza. Per questo, quando, nello stesso tempo e con la medesima grazia, perdona chi ha qualche debito con lui e commisera coloro che sono anch’essi peccatori, questa misericordia si radica in una terra buona, nella quale l’acqua non si perde ma dà vita. Nell’esercizio di questa misericordia che ripara il male altrui, nessuno è migliore, per aiutare a curarlo, di colui che mantiene viva l’esperienza di essere stato oggetto di misericordia circa il medesimo male. Guarda te stesso; ricordati della tua storia; raccontati la tua storia; e vi troverai tanta misericordia. Vediamo che, tra 28


I nostri santi hanno ricevuto la misericordia Ci può far bene contemplare altri che si sono lasciati ricreare il cuore dalla misericordia, e osservare in quale “ricettacolo” l’hanno ricevuta. Paolo la riceve nel duro e inflessibile ricettacolo del suo giudizio modellato dalla Legge. La sua durezza di giudizio lo spingeva ad essere un persecutore. La misericordia lo trasforma in modo tale che, mentre diventa un cercatore dei più lontani, di quelli di mentalità pagana, per altro verso è il più comprensivo e misericordioso verso quelli che erano come lui era stato. Paolo desiderava essere considerato anatema pur di salvare i suoi. Il suo giudizio si consolida “non giudicando neppure sé stesso”, ma lasciandosi giustificare da un Dio che è più grande della sua coscienza, facendo appello a Gesù Cristo che è avvocato fedele, dal cui amore niente e nessuno lo può separare. La radicalità dei giudizi di Paolo sulla misericordia incondizionata di Dio, che supera la ferita di fondo, quella che fa sì che abbiamo due leggi (quella della carne e quella dello Spirito), è tale perché recepisce una mentalità sensibile all’assolutezza della verità, ferita proprio lì dove la Legge e la Luce diventano una trappola. La famosa “spina” che il Signore non gli toglie è il ricettacolo in cui Paolo riceve la misericordia di Dio (cfr 2 Cor 12,7). Pietro riceve la misericordia nella sua presunzione di uomo assennato. Era assennato con il solido e sperimentato buon senso di un pescatore, che sa per esperienza quando si può pescare e quando no. È la sensatezza di chi, quando si entusiasma camminando sulle acque e ottenendo una pesca miracolosa e fissa troppo lo sguardo su di sé, sa chiedere aiuto all’unico che lo può salvare. Questo Pietro è stato sanato nella ferita più profonda che si può avere: quella di rinnegare l’amico. Forse il rimprovero di Paolo, quando gli rinfaccia la sua doppiezza, è legato a questo. Sembrerebbe che Paolo sentisse di essere stato il peggiore “prima” di

coloro che lavorano per combattere le dipendenze, coloro che si sono riscattati sono di solito quelli che meglio comprendono, aiutano e sanno chiedere agli altri. E il miglior confessore è di solito quello che si confessa meglio. E possiamo farci la domanda: io come mi confesso? Quasi tutti i grandi santi sono stati grandi peccatori o, come santa Teresina, erano consapevoli che era pura grazia preveniente il fatto di non esserlo stati. Così, il vero recipiente della misericordia è la stessa misericordia che ciascuno ha ricevuto e gli ha ricreato il cuore, quello è «l’otre nuovo» di cui parla Gesù (cfr Lc 5,37), il “pozzo risanato”. Ci poniamo così nell’ambito del mistero del Figlio, di Gesù, che è la misericordia del Padre fatta carne. L’immagine definitiva del ricettacolo della misericordia la troviamo attraverso le piaghe del Signore risorto, immagine dell’impronta del peccato restaurato da Dio, che non si cancella totalmente né si infetta: è una cicatrice, non una ferita purulenta. Le piaghe del Signore. San Bernardo ha due sermoni bellissimi sulle piaghe del Signore. Lì, nelle piaghe del Signore troviamo la misericordia. Lui è coraggioso, dice: Ti senti perduto? Ti senti male? Entra lì, entra nelle viscere del Signore e lì troverai misericordia. In quella “sensibilità” propria delle cicatrici, che ci ricordano la ferita senza molto dolore e la cura senza che ci dimentichiamo la fragilità, lì ha la sua sede la misericordia divina: nelle nostre cicatrici. Le piaghe del Signore, che rimangono tuttora, le ha portate con sé: il corpo bellissimo, i lividi non ci sono, ma le piaghe ha voluto portarle con sé. E le nostre cicatrici. A tutti noi succede, quando andiamo a fare una visita medica e abbiamo qualche cicatrice, il medico ci dice: “Ma questo intervento per che cos’era?”. Guardiamo le cicatrici dell’anima: questo intervento che hai

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fatto Tu, con la Tua misericordia, che hai guarito Tu… Nella sensibilità di Cristo risorto che conserva le sue piaghe, non solo nei piedi e nelle mani, ma nel suo cuore che è un cuore piagato, troviamo il giusto senso del peccato e della grazia. Lì, nel cuore piagato. Contemplando il cuore piagato del Signore noi ci specchiamo in Lui. Si assomigliano, il nostro cuore e il suo, per il fatto che entrambi sono piagati e risuscitati. Però sappiamo che il suo era puro amore e venne piagato perché accettò di essere vulnerato; il nostro cuore, invece, era pura piaga, che venne sanata perché accettò di essere amata. In quell’accettazione si forma il ricettacolo della Misericordia.


conoscere Cristo; però Pietro, dopo averlo conosciuto, lo aveva rinnegato… Tuttavia, essere risanato proprio in quello, trasformò Pietro in un Pastore misericordioso, in una pietra solida sopra la quale si può sempre edificare, perché è pietra debole che è stata sanata, non una pietra che nella sua forza fa inciampare il più debole. Pietro è il discepolo che il Signore nel Vangelo corregge di più. E’ il più “bastonato”! Lo corregge costantemente, fino a quell’ultimo: «A te che importa? – addirittura! - Tu seguimi» (Gv 21,22). La tradizione dice che gli appare di nuovo quando Pietro sta fuggendo da Roma. Il segno di Pietro crocifisso a testa in giù è forse il più eloquente di questo ricettacolo di una testa dura che, per poter ricevere misericordia, si mette in basso anche mentre offre la suprema testimonianza di amore al suo Signore. Pietro non vuole concludere la sua vita dicendo: “Ho imparato la lezione”, ma dicendo: “Poiché la mia testa non imparerà mai, la metto in basso». Più in alto di tutto, i piedi lavati dal Signore. Quei piedi sono per Pietro il ricettacolo attraverso il quale riceve la misericordia del suo Amico e Signore. Giovanni sarà guarito nella sua superbia di volere riparare al male col fuoco e finirà per essere colui che scrive «figlioli miei», e sembra uno di quei nonnini buoni che parlano solo di amore, lui che era stato «il figlio del tuono» (Mc 3,17). Agostino è stato guarito nella sua nostalgia di essere arrivato tardi all’appuntamento: questo lo faceva soffrire tanto, e in quella nostalgia è stato guarito. «Tardi ti ho amato»; e troverà quel modo creativo di riempire d’amore il tempo perduto, scrivendo le sue Confessioni. Francesco riceve sempre di più la misericordia, in molti momenti della sua vita. Forse il ricettacolo definitivo, che diventò piaghe reali, più che baciare il lebbroso, sposarsi con madonna povertà e sentire ogni creatura come sorella, sarà stato il dover custodire in misericordioso silenzio l’Ordine che aveva fondato. Qui io trovo

la grande eroicità di Francesco: il dover custodire in misericordioso silenzio l’Ordine che aveva fondato. Questo è il suo grande ricettacolo della misericordia. Francesco vede che i suoi fratelli si dividono prendendo come bandiera la stessa povertà. Il demonio ci fa litigare tra di noi nel difendere le cose più sante ma con spirito cattivo. Ignazio venne guarito nella sua vanità e, se questo è stato il recipiente, possiamo intuire quanto fosse grande quel desiderio di vanagloria, che venne trasformato in una tale ricerca della maggior gloria di Dio. Nel Diario di un curato di campagna, Bernanos ci presenta la vita di un parroco di paese, ispirandosi alla vita del santo Curato d’Ars. Ci sono due passi molto belli, che narrano gli intimi pensieri del curato negli ultimi momenti della sua improvvisa malattia:«Le ultime settimane che Dio mi concederà di continuare a sostenere la responsabilità della parrocchia… cercherò di agire meno preoccupato per il futuro, lavorerò solamente per il presente. Questo tipo di lavoro sembra fatto su misura per me... E poi, non ho successo che nelle cose piccole. E se sono stato frequentemente provato dall’inquietudine, devo riconoscere che trionfo nelle minuscole gioie». Cioè, un recipiente della misericordia piccolino, è legato alle minuscole gioie della nostra vita pastorale, lì dove possiamo ricevere ed esercitare la misericordia infinita del Padre in piccoli gesti. I piccoli gesti dei preti. L’altro passo dice: «Tutto è ormai finito. Quella specie di sfiducia che avevo di me, della mia persona, si è appena dissolta, credo per sempre. La lotta è finita. Ormai non ne vedo la ragione. Mi sono riconciliato con me stesso, con questo relitto che sono. Odiarsi è più facile di quanto non si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Però, se ogni orgoglio morisse in noi, la grazia delle grazie sarebbe solo amare sé stessi umilmente, come una qualsiasi delle membra sofferenti di Gesù Cristo». Ecco il recipiente: «Amare umilmente sé stessi,

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stato regalato dal popolo messicano, con lo sguardo rivolto alla Madonna, la Vergine di Guadalupe, e lasciandomi guardare da lei, le ho chiesto per voi, cari sacerdoti, che siate buoni preti. L’ho detto, tante volte. E nel discorso ai Vescovi ho detto loro che avevo riflettuto a lungo sul mistero dello sguardo di Maria, sulla sua tenerezza e la sua dolcezza che ci infonde coraggio per lasciarci raggiungere dalla misericordia di Dio. Vorrei adesso ricordarvi alcuni “modi” che ha la Madonna di guardare, specialmente i suoi sacerdoti, perché attraverso di noi vuole guardare la sua gente. Maria ci guarda in modo tale che uno si sente accolto nel suo grembo. Ella ci insegna che «l’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia» (Discorso ai Vescovi del Messico, 13 febbraio 2016). Quello che la vostra gente cerca negli occhi di Maria è «un grembo in cui gli uomini, sempre orfani e diseredati, vanno cercando una protezione, una casa». E questo è legato al suo modo di guardare: lo spazio che i suoi occhi aprono è quello di un grembo, non quello di un tribunale o di un consultorio “professionale”. Se qualche volta notate che si è indurito il vostro sguardo - per il lavoro, per la stanchezza… succede a tutti -, che quando avvicinate la gente provate fastidio o non provate nulla, fermatevi e guardate di nuovo a lei, guardatela con gli occhi dei più piccoli della vostra gente, che mendicano un grembo, ed Ella vi purificherà lo sguardo da ogni “cataratta” che non lascia vedere Cristo nelle anime, vi guarirà da ogni miopia che rende fastidiosi i bisogni della gente, che sono quelli del Signore incarnato, e vi guarirà da ogni presbiopia che si perde i dettagli, la nota scritta “in piccolo”, dove si giocano le realtà importanti della vita della Chiesa e della famiglia. Lo sguardo della Madonna guarisce. Un altro “modo di guardare di Maria” è legato al tessuto: Maria osserva “tessendo”, vedendo come può combinare a fin di bene tutte le cose che la vostra gente le porta. Ho detto ai Vescovi messicani che «nel manto dell’anima messicana Dio ha tessuto, con il filo delle impronte meticce della vostra gente, e ha tessuto il volto della sua manifestazione nella “Morenita”» (ibid.). Un Maestro spirituale insegna che quello che si afferma di Maria in maniera speciale, si afferma della Chiesa in modo universale e di ogni anima singolarmente (cfr Isacco della Stella, Serm. 51: PL 194, 1863). Vedendo

come una qualsiasi delle membra sofferenti di Gesù Cristo». E’ un recipiente comune, come una vecchia brocca che possiamo chiedere in prestito ai più poveri. Il Cura Brochero – è della mia patria! –, il Beato argentino che presto sarà canonizzato, “si lasciò lavorare il cuore dalla misericordia di Dio”. Il suo ricettacolo finì per essere il suo stesso corpo lebbroso. Egli, che sognava di morire galoppando, guadando qualche fiume della sierra per andare a dare l’unzione a qualche malato. Una delle sue ultime frasi fu: «Non c’è gloria compiuta in questa vita». Questo ci farà pensare: «Non c’è gloria compiuta in questa vita». «Io sono molto contento di quello che ha fatto con me riguardo alla vista e lo ringrazio molto per questo”. La lebbra lo aveva reso cieco. «Quando ero in grado di servire l’umanità, ha conservato integri e robusti i miei sensi. Oggi, che non posso più, mi ha privato di uno dei sensi del corpo. In questo mondo non c’è gloria compiuta, e siamo pieni di miserie». Molte volte le nostre cose rimangono a metà e, pertanto, uscire da sé stessi è sempre una grazia. Ci viene concesso di “lasciare le cose” perché le benedica e le perfezioni il Signore. Noi non dobbiamo preoccuparci molto. Questo ci permette di aprirci ai dolori e alle gioie dei nostri fratelli. Era il Cardinale Van Thuán a dire che, nel carcere, il Signore gli aveva insegnato a distinguere tra “le cose di Dio”, alle quali si era dedicato nella sua vita quando era in libertà come sacerdote e vescovo, e Dio stesso, al quale si dedicava mentre era incarcerato (cfr Cinque pani e due pesci, San Paolo 1997). E così potremmo continuare, con i santi, cercando come era il ricettacolo della loro misericordia. Ma ora passiamo alla Madonna: siamo nella sua casa! Maria come recipiente e fonte di Misericordia Salendo la scala dei santi, nella ricerca dei recipienti della misericordia, arriviamo alla Madonna. Ella è il recipiente semplice e perfetto, con il quale ricevere e distribuire la misericordia. Il suo “sì” libero alla grazia è l’immagine opposta rispetto al peccato che condusse il figlio prodigo verso il nulla. Ella porta in sé una misericordia che è al tempo stesso molto sua, molto della nostra anima e molto ecclesiale. Come afferma nel Magnificat: si sa guardata con bontà nella sua piccolezza e sa guardare come la misericordia di Dio raggiunge tutte le generazioni. Ella sa vedere le opere che tale misericordia dispiega e si sente “accolta” insieme a tutto Israele da tale misericordia. Ella custodisce la memoria e la promessa dell’infinita misericordia di Dio verso il suo popolo. Il suo è il Magnificat di un cuore integro, non bucato, che guarda la storia e ogni persona con la sua materna misericordia. In quel momento trascorso da solo con Maria, che mi è


come Dio ha tessuto il volto e la figura della Guadalupana nella tilma di Juan Diego, possiamo pregare contemplando come tesse la nostra anima e la vita della Chiesa. Dicono che non si può vedere come è “dipinta” l’immagine. È come se fosse stampata. Mi piace pensare che il miracolo non sia stato solo quello di “stampare o dipingere l’immagine con un pennello”, ma che “si è ricreato l’intero manto”, trasfigurato da capo a piedi, e ciascun filo – quelli che le donne fin da piccole imparano a tessere, e per i capi di vestiario più fini si servono delle fibre del cuore del maguey (dalle cui foglie si estraggono i fili) - , ogni filo che occupava il suo posto venne trasfigurato, assumendo quelle sfumature che risaltano al loro posto stabilito e, intessuto con gli altri fili, in ugual modo trasfigurati, fanno apparire il volto della Madonna e tutta la sua persona e ciò che le sta attorno. La misericordia fa la stessa cosa con noi: non ci “dipinge” dall’esterno una faccia da buoni, non ci fa il photoshop, ma con i medesimi fili delle nostre miserie – con quelli! – e dei nostri peccati – con quelli! –, intessuti con amore di Padre, ci tesse in modo tale che la nostra anima si rinnova recuperando la sua vera immagine, quella di Gesù. Siate, pertanto, sacerdoti «capaci di imitare questa libertà di Dio, scegliendo ciò che è umile per manifestare la maestà del suo volto, e capaci di imitare questa pazienza divina nel tessere, col filo sottile dell’umanità che incontrate, quell’uomo nuovo che il vostro Paese attende. Non lasciatevi prendere dalla vana ricerca di cambiare popolo - è una nostra tentazione: “Chiederò al vescovo di trasferirmi…” - come se l’amore di Dio non avesse abbastanza forza per cambiarlo» (Discorso ai Vescovi del Messico, 13 febbraio 2016). Il terzo modo – in cui guarda la Madonna – è quello dell’attenzione: Maria osserva con attenzione, si dedica tutta e si coinvolge interamente con chi ha di fronte, come una madre quando è tutta occhi per il suo figlioletto che le racconta qualcosa. E anche le mamme quando il bambino è molto piccolo, imitano la voce del figliolo per fargli uscire le parole: si fanno piccole. «Come insegna la bella tradizione guadalupana – e continuo con il riferimento al Messico –, la “Morenita” custodisce gli sguardi di coloro che la contemplano, riflette il volto di coloro che la incontrano. Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio - non tutti ci guardano nello stesso modo -. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi» (ibid.). Un sacerdote, un prete che si rende impermeabile agli sguardi è chiuso in sé stesso. «Custodire in noi ognuno di loro, conservandoli nel cuore, proteggendoli. Solo una Chiesa capace di proteggere il volto degli uomini che bussano

alla sua porta è capace di parlare loro di Dio» (ibid.). Se tu non sei capace di custodire il volto degli uomini che ti bussano alla porta, non sarai capace di parlare loro di Dio. «Se non decifriamo le loro sofferenze, se non ci rendiamo conto delle loro necessità, nulla potremo offrire loro. La ricchezza che abbiamo scorre unicamente quando incontriamo la pochezza di quelli che mendicano, e tale incontro si realizza precisamente nel nostro cuore di Pastori» (ibid.). Ai Vescovi dissi che prestino attenzione a voi, loro sacerdoti, «che non vi lascino esposti alla solitudine e all’abbandono, preda della mondanità che divora il cuore» (ibid.). Il mondo ci osserva con attenzione ma per “divorarci”, per trasformarci in consumatori… Tutti abbiamo bisogno di essere guardati con attenzione, con interesse gratuito, diciamo. «State attenti – dicevo ai Vescovi – e imparate a leggere gli sguardi dei vostri sacerdoti, per rallegrarvi con loro quando sentono la gioia di raccontare quanto “hanno fatto e insegnato” (Mc 6,30), e anche per non tirarsi indietro quando si sentono un po’ umiliati e non possano fare altro che piangere perché hanno rinnegato il Signore (cfr Lc 22,61-62), e anche per sostenerli, [… ] in comunione con Cristo, quando qualcuno, abbattuto, uscirà con Giuda “nella notte” (cfr Gv13,30). In queste situazioni, che non manchi mai la paternità di voi Vescovi con i sacerdoti. Promuovete la comunione tra di loro; portate a perfezione i loro doni; integrateli nelle grandi cause, perché il cuore dell’Apostolo non è stato fatto per cose piccole» (ibid.). Infine, come guarda Maria? Maria guarda in modo “integro”, unendo tutto, il nostro passato, il presente e il futuro. Non ha uno sguardo frammentato: la misericor32


dia sa vedere la totalità e intuisce ciò che è più necessario. Come Maria a Cana, che è capace di provare compassione anticipatamente per quello che arrecherà la mancanza di vino nella festa di nozze e chiede a Gesù che vi ponga rimedio, senza che nessuno se ne renda conto, così, l’intera nostra vita sacerdotale la possiamo vedere come “anticipata dalla misericordia” di Maria, che, prevedendo le nostre carenze, ha provveduto tutto quello che abbiamo. Se nella nostra vita c’è un po’ di “vino buono”, non è per merito nostro, ma per la sua “anticipata misericordia”, quella che lei già canta nel Magníficat: come il Signore “ha guardato con bontà alla sua piccolezza” e “si è ricordato della sua (alleanza di) misericordia”, una “misericordia che si estende di generazione in generazione” sopra i poveri e gli oppressi (cfr Lc 1,46-55). La lettura che compie Maria è quella della storia come misericordia. Possiamo concludere recitando la Salve Regina, nelle cui invocazioni riecheggia lo spirito del Magnificat. Ella è la Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra. E quando voi sacerdoti aveste momenti oscuri, brutti, quando non sapeste come arrangiarvi nel più intimo del vostro cuore, non dico solo “guardate la Madre”, quello dovete farlo, ma: “andate là e lasciatevi guardare da Lei, in silenzio, anche addormentandovi. Questo farà sì che in quei momenti brutti, forse con tanti sbagli che avete fatto e che vi hanno portato a quel punto, tutta questa sporcizia diventi ricettacolo di misericordia. Lasciatevi guardare dalla Madonna. I suoi occhi misericordiosi sono quelli che consideriamo il miglior recipiente della misericordia, nel senso che possiamo bere in essi quello sguardo indulgente e buono,

Terza meditazione: il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Santo Padre Francesco ha tenuto nel pomeriggio del 2 giugno la terza meditazione degli esercizi per i sacerdoti e i seminaristi presenti a Roma per il giubileo. Tutto il ritiro predicato oggi dal Papa è stato seguito in videoconferenza anche dai sacerdoti raccolti nelle Basiliche di San

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di cui abbiamo sete come solo si può avere sete di uno sguardo. Quegli occhi misericordiosi sono anche quelli che ci fanno vedere le opere di misericordia di Dio nella storia degli uomini e scoprire Gesù nei loro volti. In Maria troviamo la terra promessa – il Regno della misericordia instaurato dal Signore – che viene, già in questa vita, dopo ogni esilio in cui ci caccia il peccato. Presi per mano da lei e aggrappandoci al suo manto. Io nel mio studio ho una bella immagine, che mi ha regalato Padre Rupnik, l’ha fatta lui, della “Synkatabasis”: è lei che fa scendere Gesù e le sue mani sono come scalini. Ma quello che mi piace di più è che Gesù in una mano ha la pienezza della Legge e con l’altra si aggrappa al manto della Madonna: anche Lui si è aggrappato al manto della Madonna. E la tradizione russa, i monaci, i vecchi monaci russi ci dicono che nelle turbolenze spirituali bisogna avere rifugio sotto il manto della Madonna. La prima antifona mariana di Occidente è questa: “Sub tuum praesidium”. Il manto della Madonna. Non avere vergogna, non fare grandi discorsi, stare lì e lasciarsi coprire, lasciarsi guardare. E piangere. Quando troviamo un prete che è capace di questo, di andare dalla Madre e piangere, con tanti peccati, io posso dire: è un buon prete, perché è un buon figlio. Sarà un buon padre. Presi per mano da lei e sotto il suo sguardo possiamo cantare con gioia le grandezze del Signore. Possiamo dirgli: La mia anima ti canta, Signore, perché hai guardato con bontà l’umiltà e la piccolezza del tuo servo. Beato me, che sono stato perdonato! La tua misericordia, quella che hai avuto verso tutti i tuoi santi e con tutto il tuo popolo fedele, ha raggiunto anche me. Mi sono perso, inseguendo me stesso, per la superbia del mio cuore, però non ho occupato nessun trono, Signore, e la mia unica gloria è che tua Madre mi prenda in braccio, mi copra con il suo manto e mi tenga vicino al suo cuore. Desidero essere amato da te come uno tra i più umili del tuo popolo, saziare con il tuo pane quelli che hanno fame di te. Ricordati Signore della tua alleanza di misericordia con i tuoi figli, i sacerdoti del tuo popolo. Che con Maria possiamo essere segno e sacramento della tua misericordia.


ha cessato di impegnarsi, a difenderli e a liberarli» (n. 2448). E questo senza ideologie, soltanto con la forza del Vangelo. Nella Chiesa abbiamo avuto e abbiamo molte cose non tanto buone, e molti peccati, ma in questo di servire i poveri con opere di misericordia, come Chiesa abbiamo sempre seguito lo Spirito, e i nostri santi lo hanno fatto in modo molto creativo ed efficace. L’amore per i poveri è stato il segno, la luce che fa sì che la gente glorifichi il Padre. La nostra gente apprezza questo, il prete che si prende cura dei poveri, dei malati, che perdona i peccatori, che insegna e corregge con pazienza… Il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona. E non è tanto per la ricchezza in sé, ma perché il denaro ci fa perdere la ricchezza della misericordia. Il nostro popolo riconosce “a fiuto” quali peccati sono gravi per il pastore, quali uccidono il suo ministero perché lo fanno diventare un funzionario, o peggio un mercenario, e quali invece sono, non direi peccati secondari perché non so se teologicamente si può dire questo -, ma peccati che si possono sopportare, caricare come una croce, finché il Signore alla fine li purificherà, come farà con la zizzania. Invece ciò che attenta contro la misericordia è una contraddizione principale. Attenta contro il dinamismo della salvezza, contro Cristo che “si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (cfr 2 Cor 8,9). E questo è così perché la misericordia cura “perdendo qualcosa di sé”: un brandello di cuore rimane con la persona ferita; un tempo della nostra vita, in cui avevamo voglia di fare qualcosa, lo perdiamo quando lo regaliamo all’altro, in un’opera di misericordia. Perciò non è questione che Dio mi usi misericordia in qualche mancanza, come se nel resto io fossi autosufficiente, o che ogni tanto io compia qualche atto particolare di misericordia verso un bisognoso. La grazia che chiediamo in questa preghiera è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Per noi sacerdoti e vescovi, che lavoriamo con i Sacramenti, battezzando, confessando, celebrando l’Eucaristia…, la misericordia è il modo di trasformare tutta la vita del popolo di Dio in “sacramento”. Essere misericordioso non è solo un modo di essere, mail modo di essere. Non c’è altra possibilità di essere sacerdote. Il Cura Brochero diceva: «Il sacerdote che non prova molta compassione dei peccatori è un mezzo sacerdote. Questi stracci benedetti che porto addosso non sono essi che mi fanno sacerdote; se non porto nel mio petto la carità, non sono nemmeno cristiano».

Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore. Questo il testo dell’ultima meditazione dettata da Papa Francesco Speriamo che il Signore ci conceda quello che abbiamo chiesto nella preghiera: imitare l’esempio della pazienza di Gesù e con la pazienza superare le difficoltà. Questa terza meditazione ha come titolo: “Il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia”. In questo terzo incontro vi propongo di meditare sulle opere di misericordia, sia prendendone qualcuna, che sentiamo più legata al nostro carisma, sia contemplandole tutte insieme, vedendole con gli occhi misericordiosi della Madonna, che ci fanno scoprire “il vino che manca” e ci incoraggiano a “fare tutto quello che Gesù ci dirà” (cfr Gv 2,1-12), affinché la sua misericordia compia i miracoli di cui il nostro popolo ha bisogno. Le opere di misericordia sono molto legate ai “sensi spirituali”. Pregando chiediamo la grazia di “sentire e gustare” il Vangelo in modo tale che ci renda sensibili per la vita. Mossi dallo Spirito, guidati da Gesù possiamo vedere già da lontano, con occhi di misericordia, chi giace a terra al bordo della strada, possiamo ascoltare le grida di Bartimeo, possiamo sentire come sente il Signore sul bordo del suo mantello il tocco timido ma deciso dell’emorroissa, possiamo chiedere la grazia di gustare con Lui sulla croce il sapore amaro del fiele di tutti i crocifissi, per sentire così l’odore forte della miseria – in ospedali da campo, in treni e barconi pieni di gente –; quell’odore che l’olio della misericordia non copre, ma che ungendolo fa sì che si risvegli una speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando delle opere di misericordia, racconta che santa Rosa da Lima, il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, santa Rosa da Lima senza esitare le disse: «Quando serviamo i poveri e i malati, siamo buon odore di Cristo» (n. 2449). Questo buon odore di Cristo – la cura dei poveri – è caratteristico della Chiesa, sempre lo è stato. Paolo centrò qui il suo incontro con “le colonne”, come lui le chiama, con Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi «ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri» (Gal 2,10). Questo mi ricorda un fatto, che ho detto alcune volte: appena eletto Papa, mentre continuavano lo scrutinio, si è avvicinato a me un fratello Cardinale, mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non dimenticarti dei poveri”. Il primo messaggio che il Signore mi ha fatto arrivare in quel momento. Il Catechismo dice anche, in maniera suggestiva, che «gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non 34


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– non si pronunciò, non applicò la legge. Fece finta di non capire – anche in questo il Signore è un maestro per tutti noi - e, in quel momento, tirò fuori un’altra cosa. Iniziò così un processo nel cuore della donna che aveva bisogno di queste parole: «Neanch’io ti condanno». Tendendole la mano la fece alzare e questo le permise di incontrarsi con uno sguardo pieno di dolcezza che le cambiò il cuore. Il Signore tende la mano alla figlia di Giairo: “Datele da mangiare”. Al ragazzo morto, a Nain: “Alzati”, e lo dà alla sua mamma. E a questa peccatrice: “Alzati”. Il Signore ci rimette proprio come Dio ha voluto che l’uomo stia: in piedi, alzato, mai per terra. A volte mi dà un misto di pena e di indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione, il «non peccare più». E utilizza questa frase per “difendere” Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge. Penso che le parole che usa il Signore sono tutt’uno con le sue azioni. Il fatto di chinarsi a scrivere per terra due volte, creando una pausa prima di ciò che dice a quelli che vogliono lapidare la donna e, prima di ciò che dice a lei, ci parla di un tempo che il Signore si prende per giudicare e perdonare. Un tempo che rimanda ciascuno alla propria interiorità e fa sì che quelli che giudicano si ritirino. Nel suo dialogo con la donna il Signore apre altri spazi: uno è lo spazio della non condanna. Il Vangelo insiste su questo spazio che è rimasto libero. Ci colloca nello sguardo di Gesù e ci dice che “non vede nessuno intorno ma solo la donna”. E poi Gesù stesso fa guardare intorno la donna con la domanda: “Dove sono quelli che ti classificavano?” (la parola è importante, perché dice di ciò che tanto rifiutiamo come il fatto che ci etichettino e ci facciano una caricatura…). Una volta che la fa guardare quello spazio libero dal giudizio altrui, le dice che nemmeno lui lo invade con le sue pietre: «Neanch’io ti condanno». E in quel momento stesso le apre un altro spazio libero: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Il comandamento si dà per l’avvenire, per aiutare

Vedere quello che manca per porre rimedio immediatamente, e meglio ancora prevederlo, è proprio dello sguardo di un padre. Questo sguardo sacerdotale – di chi fa le veci del padre nel seno della Chiesa Madre – che ci porta a vedere le persone nell’ottica della misericordia, è quello che si deve insegnare a coltivare a partire dal seminario e deve alimentare tutti i piani pastorali. Desideriamo e chiediamo al Signore uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di “quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la nostra gente” per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a loro. Perché, come dice il Documento di Aparecida, citando sant’Alberto Hurtado, «nelle nostre opere, il nostro popolo sa che comprendiamo il suo dolore» (n. 386). La prova di questa comprensione del nostro popolo è che nelle nostre opere di misericordia siamo sempre benedetti da Dio e troviamo aiuto e collaborazione nella nostra gente. Non così per altri tipi di progetti, che a volte vanno bene e altre no, e alcuni non si rendono conto del perché non funziona e si rompono la testa cercando un nuovo, ennesimo piano pastorale, quando si potrebbe semplicemente dire: non funziona perché gli manca misericordia, senza bisogno di entrare in particolari. Se non è benedetto è perché gli manca misericordia. Manca quella misericordia che appartiene più a un ospedale da campo che a una clinica di lusso, quella misericordia che, apprezzando qualcosa di buono, prepara il terreno ad un futuro incontro della persona con Dio invece di allontanarla con una critica puntuale… Vi propongo una preghiera con la peccatrice perdonata (cfr Gv 8,3-11), per chiedere la grazia di essere misericordiosi nella Confessione, e un’altra sulla dimensione sociale delle opere di misericordia. Mi commuove sempre il passo del Signore con la donna adultera, come, quando non la condannò, il Signore “mancò” rispetto alla legge; in quel punto sul quale gli chiedevano di pronunciarsi – “bisogna lapidarla o no?”


ad andare, per “camminare nell’amore”. Questa è la delicatezza della misericordia che guarda con pietà il passato e incoraggia per il futuro. Questo «non peccare più» non è qualcosa di ovvio. Il Signore lo dice “insieme con lei”, la aiuta ad esprimere in parole ciò che lei stessa sente, quel “no” libero al peccato che è come il “sì” di Maria alla grazia. Il “no” viene detto in relazione alla radice del peccato di ciascuno. Nella donna si trattava di un peccato sociale, del peccato di qualcuno a cui la gente si avvicinava o per stare con lei o per lapidarla. Non c’era un altro tipo di vicinanza con questa donna. Perciò il Signore non solo le sgombra la strada ma la pone in cammino, perché smetta di essere “oggetto” dello sguardo altrui, perché sia protagonista. Il “non peccare” non si riferisce solo all’aspetto morale, io credo, ma a un tipo di peccato che non la lascia fare la sua vita. Anche al paralitico di Betzatà Gesù dice: «Non peccare più» (Gv 5,14); ma costui, che si giustificava per le cose tristi che gli succedevano, che aveva una psicologia da vittima - la donna no -, lo punge un po’ con quel «perché non ti accada qualcosa di peggio». Il Signore approfitta del suo modo di pensare, di ciò che lui teme, per farlo uscire dalla sua paralisi. Lo smuove con la paura, diciamo. Così, ognuno di noi deve ascoltare questo «non peccare più» in maniera intima e personale. Questa immagine del Signore che mette in cammino le persone è molto appropriata: Egli è il Dio che si mette a camminare con il suo popolo, che manda avanti e accompagna la nostra storia. Perciò, l’oggetto a cui si dirige la misericordia è ben preciso: si rivolge a ciò che fa sì che un uomo e una donna non camminino nel loro posto, con i loro cari, con il proprio ritmo, verso la meta a cui Dio li invita ad andare. La pena, ciò che commuove, è che uno si perda, o che resti indietro, o che sbagli per presunzione; che sia fuori posto, diciamo; che non sia pronto per il Signore, disponibile per il compito che Lui vuole affidargli; che uno non cammini umilmente alla presenza del Signore (cfr Mi 6,8), che non cammini nella carità (cfr Ef 5,2). Lo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi Adesso passiamo allo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi. E, parlando di spazio, andiamo a quello del confessionale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere il confessionale come un luogo in cui la verità ci rende liberi per un incontro. Dice così: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del

giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell'amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). E ci ricorda che «il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all'intenzione e alla carità di Cristo» (n. 1466). Segno e strumento di un incontro. Questo siamo. Attrazione efficace per un incontro. Segno vuol dire che dobbiamo attrarre, come quando uno fa dei segni per richiamare l’attenzione. Un segno dev’essere coerente e chiaro, ma soprattutto comprensibile. Perché ci sono segni che sono chiari solo per gli specialisti, e questi non servono. Segno e strumento. Lo strumento si gioca la vita nella sua efficacia -serve o non serve? -, nell’essere disponibile e incidere nella realtà in modo preciso, adeguato. Siamo strumento se veramente la gente si incontra con il Dio misericordioso. A noi spetta “far sì che si incontrino”, che si trovino faccia a faccia. Quello che poi faranno è cosa loro. C’è un figlio prodigo nel porcile e un padre che tutte le sere sale in terrazza per vedere se arriva; c’è una pecora perduta e un pastore che è andato a cercarla; c’è un ferito abbandonato al bordo della strada e un samaritano che ha il cuore buono. Qual è, dunque, il nostro ministero? Essere segni e strumenti perché questi si incontrino. Teniamo ben chiaro che noi non siamo né il padre, né il pastore, né il samaritano. Piuttosto siamo accanto agli altri tre, in quanto peccatori. Il nostro ministero dev’essere segno e strumento di tale incontro. Perciò ci poniamo nell’ambito del mistero dello Spirito Santo, che è Colui che crea la Chiesa, Colui che fa l’unità, Colui che ravviva ogni volta l’incontro. L’altra cosa propria di un segno e di uno strumento è di non essere autoreferenziale, per dirlo in maniera difficile. Nessuno si ferma al segno una volta che ha compreso la cosa; nessuno si ferma a guardare il cacciavite o il martello, ma guarda il quadro che è stato ben fissato. Siamo servi inutili. Ecco, strumenti e segni che furono molto utili per altri due che si unirono in un abbraccio, come il padre col figlio. La terza caratteristica propria del segno e dello strumento è la loro disponibilità. Che sia pronto all’uso lo strumento, che sia visibile il segno. L’essenza del segno e dello strumento è di essere mediatori, disponibili. Forse qui si trova la chiave della nostra missione in questo incontro della misericordia di Dio con l’uomo. Probabilmente è più chiaro usare un termine negativo. Sant’Ignazio parlava di “non essere impedimento”. Un buon mediatore è colui che facilita le cose e non pone 36


domandano e domandano…: “Ma dimmi, per favore… ”. Tu hai bisogno di tanti dettagli per perdonare oppure “ti stai facendo il film”? Quel cardinale mi ha edificato tanto. La completezza della confessione non è una questione matematica - quante volte? Come? dove?... -. A volte la vergogna si nasconde più davanti al numero che davanti al peccato stesso. Ma per questo bisogna lasciarsi commuovere dinanzi alla situazione della gente, che a volte è un miscuglio di cose, di malattia, di peccato e, di condizionamenti impossibili da superare, come Gesù che si commuoveva vedendo la gente, lo sentiva nelle viscere, nelle budella e perciò guariva e guariva anche se l’altro “non lo chiedeva bene”, come quel lebbroso, o girava intorno, come la Samaritana, che era come la pavoncella: faceva il verso da una parte ma aveva il nido dall’altra. Gesù era paziente. Bisogna imparare dai confessori che sanno fare in modo che il penitente senta la correzione facendo un piccolo passo avanti, come Gesù, che dava una penitenza che bastava, e sapeva apprezzare chi ritornava a ringraziare, chi poteva ancora migliorare. Gesù faceva prendere il lettuccio al paralitico, o si faceva pregare un po’ dai ciechi o dalla donna sirofenicia. Non gli importava se dopo non badavano più a Lui, come il paralitico alla piscina di Betzatà, o se raccontavano cose che aveva detto loro di non raccontare e poi sembrava che il lebbroso fosse Lui, perché non poteva entrare nei villaggi o i suoi nemici trovavano motivi per condannarlo. Lui guariva, perdonava, dava sollievo, riposo, faceva respirare alla gente un alito dello Spirito consolatore. Questo che dirò adesso l’ho detto tante volte, forse qualcuno di voi lo ha sentito. Ho conosciuto, a Buenos Aires, un frate cappuccino - vive ancora -, poco più giovane di me, che è un grande confessore. Davanti al confessionale ha sempre la fila, tanta gente - tutti: gente umile, gente benestante, preti, suore, una fila -, un susseguirsi di persone, tutto il giorno a confessare. E lui è un grande perdonatore. Sempre trova la strada per perdonare e per far fare un passo avanti. E’ un dono dello Spirito. Ma, a volte, gli viene lo scrupolo di aver perdonato troppo. E allora una volta parlando mi ha detto:

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impedimenti. Nella mia terra c’era un grande confessore, il padre Cullen, che si sedeva nel confessionale e, quando non c’era gente, faceva due cose: una era aggiustare palloni di cuoio per i ragazzi che giocavano a calcio, l’altra era leggere un grande dizionario di cinese. Era stato tanto tempo in Cina, e voleva conservare la lingua. Diceva lui che quando la gente lo vedeva in attività così inutili, come aggiustare vecchi palloni, e così a lungo termine, come leggere un dizionario di cinese, pensava: “Posso avvicinarmi a parlare un po’ con questo prete perché si vede che non ha niente da fare”. Era disponibile per l’essenziale. Lui aveva un orario per il confessionale, ma era lì. Evitava l’impedimento di avere sempre l’aspetto di uno molto occupato. E’ qui il problema. La gente non si avvicina quando vede il suo pastore molto, molto occupato, sempre impegnato. Ognuno di noi ha conosciuto buoni confessori. Bisogna imparare dai nostri buoni confessori, di quelli ai quali la gente si avvicina, quelli che non la spaventano e sanno parlare finché l’altro racconta quello che è successo, come Gesù con Nicodemo. E’ importante capire il linguaggio dei gesti; non chiedere cose che sono evidenti per i gesti. Se uno si avvicina al confessionale è perché è pentito, c’è già pentimento. E se si avvicina è perché ha il desiderio di cambiare. O almeno desidera il desiderio, e se la situazione gli sembra impossibile (ad impossibilia nemo tenetur, come dice il brocardo, nessuno è obbligato a fare l’impossibile). Il linguaggio dei gesti. Ho letto nella vita di un santo recente di questi tempi che, poveretto, soffriva nella guerra. C’era un soldato che stava per essere fucilato e lui andò a confessarlo. E si vede che quel tale era un po’ libertino, faceva tante feste con le donne… “Ma tu sei pentito di questo?” - “No, era tanto bello, padre”. E questo santo non sapeva come uscirne. C’era lì il plotone per fucilarlo, e allora gli disse: “Di’ almeno: ti rammarichi di non essere pentito?” - “Questo sì” - “Ah, va bene!”. Il confessore cerca sempre la strada, e il linguaggio dei gesti è il linguaggio delle possibilità per arrivare al punto. Bisogna imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono. Io sono rimasto tanto edificato da uno dei Cardinali della Curia, che a priori io pensavo che fosse molto rigido. E lui, quando c’era un penitente che aveva un peccato in modo che gli dava vergogna a dirlo e incominciava con una parola o due, subito capiva di che cosa si trattava e diceva: “Vada avanti, ho capito, ho capito!”. E lo fermava, perché aveva capito. Questa è delicatezza. Ma quei confessori – perdonatemi – che


“A volte ho questo scrupolo”. E io gli ho chiesto: “E cosa fai quando hai questo scrupolo?”. “Vado davanti al tabernacolo, guardo il Signore, e gli dico: Signore, perdonami, oggi ho perdonato molto. Ma che sia chiaro: la colpa è tua perché sei stato tu a darmi il cattivo esempio! Cioè la misericordia la migliorava con più misericordia. Infine, su questo tema della Confessione, due consigli. Uno, non abbiate mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso. La misericordia ci libera dall’essere un prete giudice-funzionario, diciamo, che a forza di giudicare “casi” perde la sensibilità per le persone e per i volti. Io ricordo quando ero in II Teologia, sono andato con i miei compagni a sentire l’esame di “audiendas”, che si faceva al III Teologia, prima dell’ordinazione. Andammo per imparare un po’, sempre si imparava. E una volta, ricordo che ad un compagno hanno fatto una domanda, era sulla giustizia, de iure, ma tanto intricata, tanto artificiale… E quel compagno disse con molta umiltà: “Ma padre, questo non si trova nella vita” - “Ma si trova nei libri!”. Quella morale “dei libri”, senza esperienza. La regola di Gesù è “giudicare come vogliamo essere giudicati”. In quella misura intima che si ha per giudicare se si viene trattati con dignità, se si viene ignorati o maltrattati, se si è stati aiutati a mettersi in piedi…. Questa è la chiave per giudicare gli altri. Facciamo attenzione che il Signore ha fiducia in questa misura che è così soggettivamente personale. Non tanto perché tale misura sia “la migliore”, ma perché è sincera e, a partire da essa, si può costruire una buona relazione. L’altro consiglio: non siate curiosi nel confessionale. L’ho già accennato. Racconta santa Teresina che, quando riceveva le confidenze delle sue novizie, si guardava bene dal chiedere come erano andate poi le cose. Non curiosava nell’anima delle persone (cfr Storia di un’anima, Manoscritto C, Alla madre Gonzaga, c. XI 32r). E’ proprio della misericordia “coprire con il suo manto”, coprire il peccato per non ferire la dignità. E’ bello quel passo dei due figli di Noè che coprirono con il mantello la nudità del padre che si era ubriacato (cfr Gen 9,23). La dimensione sociale delle opere di misericordia Adesso passiamo a dire due parole sulla dimensione sociale delle opere di misericordia. Alla fine degli Esercizi, sant’Ignazio pone la “Contemplazione per giungere all’amore”, che congiunga ciò che si è vissuto nella preghiera con la vita quotidiana. E ci fa riflettere su come l’amore va posto più nelle opere che nelle parole. Tali opere sono le opere di misericordia, quelle che il Padre «ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,10), quelle che lo Spirito ispira a

ciascuno per il bene comune (cfr 1 Cor 12,7). Mentre ringraziamo il Signore per tanti benefici ricevuto dalla sua bontà, chiediamo la grazia di portare a tutti gli uomini la misericordia che ha salvato noi. Vi propongo, in questa dimensione sociale, di meditare su alcuni dei passi conclusivi dei Vangeli. Lì, il Signore stesso stabilisce tale connessione tra ciò che abbiamo ricevuto e ciò che dobbiamo dare. Possiamo leggere queste conclusioni in chiave di “opere di misericordia”, che pongono in atto il tempo della Chiesa nel quale Gesù risorto vive, accompagna, invia e attira la nostra libertà, che trova in Lui la sua realizzazione concreta e rinnovata ogni giorno. La conclusione del Vangelo di Matteo, ci dice che il Signore invia gli apostoli e dice loro: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cfr 28,20). Questo “insegnare a chi non sa” è in sé stessa una delle opere di misericordia. E si rifrange come la luce nelle altre opere: in quelle di Matteo 25, che consistono piuttosto nelle opere cosiddette corporali, e in tutti i comandamenti e consigli evangelici, di “perdonare”, “correggere fraternamente”, consolare chi è triste, sopportare le persecuzioni, e così via. Marco termina con l’immagine del Signore che “collabora” con gli apostoli e “conferma la Parola con i segni che la accompagnano” (cfr 16,20). Questi “segni” hanno la caratteristica delle opere di misericordia. Marco parla, tra l’altro, di guarire i malati e scacciare gli spiriti cattivi (cfr 16,17-18). Luca continua il suo Vangelo con il Libro degli “Atti” – praxeis – degli Apostoli, narrando il loro modo di procedere e le opere che compiono, guidati dallo Spirito. Giovanni termina parlando delle «molte altre cose» (21,25) o «segni» (20,30) che Gesù fece. Gli atti del Signore, le sue opere, non sono meri fatti ma sono segni nei quali, in modo personale e unico per ciascuno, si mostrano il suo amore e la sua misericordia. Possiamo contemplare il Signore che ci invia a questo lavoro con l’immagine di Gesù misericordioso, così come fu rivelata a Suor Faustina. In quella immagine possiamo vedere la Misericordia come un’unica luce che viene dall’interiorità di Dio e che, passando attraverso il cuore di Cristo, esce diversificata, con un colore proprio per ogni opera di misericordia. Le opere di misericordia sono infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. 38


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opere di misericordia. Basta venire ad una delle udienze generali del mercoledì e vediamo quanti ce ne sono: gruppi di persone che si mettono insieme per fare opere di misericordia. Tanto nelle celebrazioni – penitenziali e festive – quanto nell’azione solidale e formativa, la nostra gente si lascia radunare e pascolare in un modo che non tutti riconoscono e apprezzano, malgrado falliscano tanti altri piani pastorali centrati su dinamiche più astratte. La presenza massiccia del nostro popolo fedele nei nostri santuari e pellegrinaggi, presenza anonima per eccesso di volti e per desiderio di farsi vedere solo da Colui e Colei che li guardano con misericordia, come pure per la collaborazione numerosa che, sostenendo col suo impegno tante opere solidali, dev’essere motivo di attenzione, di apprezzamento e di promozione da parte nostra. E per me è stata una sorpresa come qui in Italia queste organizzazioni siano tanto forti e radunino tanto il popolo. Come sacerdoti, chiediamo due grazie al Buon Pastore: quella di lasciarci guidare dal sensus fidei del nostro popolo fedele, e anche dal suo “senso del povero”. Entrambi i “sensi” sono legati al “sensus Christi”, di cui parla san Paolo, all’amore e alla fede che la nostra gente ha per Gesù. Concludiamo recitando l’Anima Christi, che è una bella preghiera per chiedere misericordia al Signore venuto nella carne, che ci usa misericordia con i suoi stessi Corpo e Anima. Gli chiediamo che ci usi misericordia insieme con il suo popolo: alla sua anima chiediamo “santificaci”; il suo corpo supplichiamo “salvaci”; il suo sangue imploriamo “inebriaci”, toglici ogni altra sete che non sia di Te; all’acqua del suo costato chiediamo “lavaci”; la sua passione imploriamo “confortaci”; consola il tuo popolo; Signore crocifisso, nelle tue piaghe, Ti supplichiamo, “nascondici”… Non permettere che il tuo popolo, Signore, si separi da Te. Che niente e nessuno ci separi dalla tua misericordia, la quale ci difende dalle insidie del nemico maligno. Così potremo cantare le misericordie del Signore insieme a tutti i tuoi santi quando ci comanderai di venire a Te. [Preghiera dell’Anima Christi] Ho sentito qualche volta commenti dei sacerdoti che dicono: “Ma questo Papa ci bastona troppo, ci rimprovera”. E qualche bastonata, qualche rimprovero c’è. Ma devo dire che sono rimasto edificato da tanti sacerdoti, tanti preti bravi! Da quelli – ne ho conosciuti – che, quando non c’era la segreteria telefonica, dormivano con il telefono sul comodino, e nessuno moriva senza i sacramenti; chiamavano a qualsiasi ora, e loro si alzavano e andavano. Bravi sacerdoti! E ringrazio il Signore per questa grazia. Tutti siamo peccatori, ma possiamo

Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape. Perché la misericordia è feconda e inclusiva. Queste due caratteristiche importanti: la misericordia è feconda e inclusiva. E’ vero che di solito pensiamo alle opere di misericordia ad una ad una, e in quanto legate ad un’opera: ospedali per i malati, mense per quelli che hanno fame, ostelli per quelli che sono per la strada, scuole per quelli che hanno bisogno di istruzione, il confessionale e la direzione spirituale per chi necessita di consiglio e di perdono… Ma se le guardiamo insieme, il messaggio è che l’oggetto della misericordia è la vita umana stessa e nella sua totalità. La nostra vita stessa in quanto “carne” è affamata e assetata, bisognosa di vestito, di casa, di visite, come pure di una sepoltura degna, cosa che nessuno può dare a sé stesso. Anche il più ricco, quando muore, si riduce a una miseria e nessuno porta dietro al suo corteo il camion del trasloco. La nostra vita stessa, in quanto “spirito”, ha bisogno di essere educata, corretta, incoraggiata, consolata. Parola molto importante, questa, nella Bibbia: pensiamo al Libro della consolazione di Israele, nel profeta Isaia. Abbiamo bisogno che altri ci consiglino, ci perdonino, ci sostengano e preghino per noi. La famiglia è quella che pratica queste opere di misericordia in maniera così adatta e disinteressata che non si nota, ma basta che in una famiglia con bambini piccoli manchi la mamma perché tutto vada in miseria. La miseria più assoluta e crudelissima è quella di un bambino per la strada, senza genitori, in balia degli avvoltoi. Abbiamo chiesto la grazia di essere segno e strumento; ora si tratta di “agire”, e non solo di compiere gesti ma di fare opere, di istituzionalizzare, di creare una cultura della misericordia, che non è lo stesso di una cultura della beneficienza, dobbiamo distinguere. Messi all’opera, sentiamo immediatamente che è lo Spirito Colui che spinge, che manda avanti queste opere. E lo fa utilizzando i segni e gli strumenti che vuole, benché a volte non siano in sé stessi i più adatti. Di più, si direbbe che per esercitare le opere di misericordia lo Spirito scelga piuttosto gli strumenti più poveri, quelli più umili e insignificanti, che hanno loro stessi più bisogno di quel primo raggio della misericordia divina. Questi sono quelli che meglio si lasciano formare e preparare per realizzare un servizio di vera efficacia e qualità. La gioia di sentirsi “servi inutili”, per coloro che il Signore benedice con la fecondità della sua grazia, e che Lui stesso in persona fa sedere alla sua mensa e ai quali offre l’Eucaristia, è una conferma che si sta lavorando nelle sue opere di misericordia. Al nostro popolo fedele piace raccogliersi intorno alle


dire che ci sono tanti bravi, santi sacerdoti che lavorano in silenzio e nascosti. A volte c’è uno scandalo, ma noi sappiamo che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. E ieri ho ricevuto una lettera, l’ho lasciata lì, con quelle personali. L’ho aperta prima di venire e credo che sia stato il Signore a suggerirmelo. E’ di un parroco in Italia, parroco di tre paesini. Credo che ci farà bene sentire questa testimonianza di un nostro fratello. E’ scritta il 29 maggio, da pochi giorni. “Perdoni il disturbo. Colgo l’occasione di un amico sacerdote che in questi giorni si trova a Roma per il Giubileo sacerdotale, per farLe pervenire senza alcuna pretesa - da semplice parroco di tre piccoli parrocchie di montagna, preferisco farmi chiamare ‘pastorello’ alcune considerazioni sul mio semplice servizio pastorale, provocate - La ringrazio di cuore – da alcune cose che Lei ha detto e che mi chiamano ogni giorno alla conversione. Sono consapevole di scriverLe nulla di nuovo. Certamente avrà già ascoltato queste cose. Sento il bisogno di farmi anche io portavoce. Mi ha colpito, mi colpisce quell’invito che Lei più volte fa a noi pastori di avere l’odore delle pecore. Sono in montagna e so bene cosa vuol dire. Si diventa preti per sentire quell’odore, che poi è il vero profumo del gregge. Sarebbe davvero bello se il contatto quotidiano e la frequentazione assidua del nostro gregge, motivo vero della nostra chiamata, non fosse sostituito dalle incombenze amministrative e burocratiche delle parrocchie, della scuola dell’infanzia e di altro. Ho la fortuna di avere dei bravi e validi laici che seguono dal di dentro queste cose. Ma c’è sempre quell’incombenza giuridica del parroco, come unico e solo legale rappresentante. Per cui, alla fine, lui deve sempre correre dappertutto, relegando a volte la visita agli ammalati, alle famiglie come ultima cosa, fatta magari velocemente e in qualche modo. Lo dico in prima persona, a volte è davvero frustrante constatare come nella mia vita di prete si corra tanto per l’apparato burocratico e amministrativo, lasciando poi la gente, quel piccolo gregge che mi è stato affidato, quasi abbandonato a se stesso. Mi creda, Santo Padre, è triste e tante volte mi viene da piangere per questa carenza. Uno cerca di organizzarsi, ma alla fine è solo il vortice delle cose quotidiane. Come pure un altro aspetto, richiamato anche da Lei: la carenza di paternità. Si dice che la società di oggi è carente di padri e di madri. Mi pare di constatare come a volte anche noi rinunciamo a questa paternità spirituale, riducendoci brutalmente a burocrati del sacro, con la triste conseguenza poi di sentirci abbandonati a noi stessi. Una paternità difficile, che poi si ripercuote inevitabilmente

anche sui nostri superiori, presi anche loro da comprensibili incombenze e problematiche, rischiando così di vivere con noi un rapporto formale, legato alla gestione della comunità, più che alla nostra vita di uomini, di credenti e di preti. Tutto questo – e concludo – non toglie comunque la gioia e la passione di essere prete per la gente e con la gente. Se a volte come pastore non ho l’odore delle pecore, mi commuovo ogni volta del mio gregge che non ha perso l’odore del pastore! Che bello, Santo Padre, quando ci si accorge che le pecore non ci lasciano soli, hanno il termometro del nostro essere lì per loro, e se per caso il pastore esce dal sentiero e si smarrisce, loro lo afferrano e lo tengono per mano. Non smetterò mai di ringraziare il Signore, perché sempre ci salva attraverso il suo gregge, quel gregge che ci è stato affidato, quella gente semplice, buona, umile e serena, quel gregge che è la vera grazia del pastore. In modo confidenziale Le ho fatto pervenire queste piccole e semplici considerazioni, perché Lei è vicino al gregge, è capace di capire e può continuare ad aiutarci e sostenerci. Prego per Lei e La ringrazio, come pure per quelle “tiratine di orecchie” che sento necessarie per il mio cammino. Mi benedica Papa Francesco e preghi per me e per le mie parrocchie”. Firma e alla fine quel gesto proprio dei pastori: “Le lascio una piccola offerta. Preghi per le mie comunità, in particolare per alcuni ammalati gravi e per alcune famiglie in difficoltà economica e non solo. Grazie!” Questo è un fratello nostro. Ce ne sono tanti così, ce ne sono tanti! Anche qui sicuramente. Tanti. Ci indica la strada. E andiamo avanti! Non perdere la preghiera. Pregate come potete, e se vi addormentate davanti al Tabernacolo, benedetto sia. Ma pregate. Non perdere questo. Non perdere il lasciarsi guardare dalla Madonna e guardarla come Madre. Non perdere lo zelo, cercare di fare… Non perdere la vicinanza e la disponibilità alla gente e anche, mi permetto di dirvi, non perdere il senso dell’umorismo. E andiamo avanti! 40


Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, giovedì 16 giugno 2016, Papa Francesco commentava, a lungo, e, per la prima volta, l’Esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia. Il Papa parlava in apertura dell’annuale convegno ecclesiale della diocesi di Roma. può fare soltanto in un clima di fede. È la fede che ci spinge a non stancarci di cercare la presenza di Dio nei cambiamenti della storia. Ognuno di noi ha avuto un’esperienza di famiglia. In alcuni casi sgorga il rendimento di grazie con maggior facilità che in altri, ma tutti abbiamo vissuto questa esperienza. In quel contesto, Dio ci è venuto incontro. La sua Parola è venuta a noi non come una sequenza di tesi astratte, ma come una compagna di viaggio che ci ha sostenuto in mezzo al dolore, ci ha animato nella festa e ci ha sempre indicato la meta del cammino (AL, 22). Questo ci ricorda che le nostre famiglie, le famiglie nelle nostre parrocchie con i loro volti, le loro storie, con tutte le loro complicazioni non sono un problema, sono una opportunità che Dio ci mette davanti. Opportunità che ci sfida a suscitare una creatività missionaria capace di abbracciare tutte le situazioni concrete, nel nostro caso, delle famiglie romane. Non solo di quelle che vengono o si trovano nelle parrocchie – questo sarebbe facile, più o meno –, ma poter arrivare alle famiglie dei nostri quartieri, a quelli che non vengono. Questo incontro ci sfida a non dare niente e nessuno per perduto, ma a cercare, a rinnovare la speranza di sapere che Dio continua ad agire all’interno delle nostre famiglie. Ci sfida a non abbandonare nessuno perché non è all’altezza di quanto si chiede da lui. E questo ci impone di uscire dalle dichiarazioni di principio per addentrarci nel cuore palpitante dei quartieri romani e, come artigiani, metterci a plasmare in questa realtà il sogno di Dio, cosa che possono fare solo le persone di fede, quelle che non chiudono il passaggio all’azione dello Spirito, e che si sporcano le mani. Riflettere sulla vita delle nostre famiglie, così come sono e così come si trovano, ci chiede di toglierci le scarpe per scoprire la presenza di Dio. Questa è una prima immagine biblica. Andare: c’è Dio, lì. Dio che anima, Dio che vive, Dio che è crocifisso… ma è Dio. 2. Ora la seconda immagine biblica. Quella del fariseo, quando pregando diceva al Signore: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,

“La Letizia dell’amore: il cammino delle famiglie a Roma”: questo è il tema del vostro Convegno diocesano. Non inizierò parlando dell’Esortazione, dal momento che ne farete oggetto di esame in diversi gruppi di lavoro. Vorrei recuperare insieme a voi alcune idee/tensioni-chiave emerse durante il cammino sinodale, che ci possono aiutare a comprendere meglio lo spirito che si riflette nell’Esortazione. Un Documento che possa orientare le vostre riflessioni e i vostri dialoghi, e così «arrechi coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà» (AL, 4). E questa presentazione di alcune idee/tensioni-chiave, mi piacerebbe farla con tre immagini bibliche che ci permettano di prendere contatto con il passaggio dello Spirito nel discernimento dei Padri Sinodali. Tre immagini bibliche. 1. «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). Questo fu l’invito di Dio a Mosè davanti al roveto ardente. Il terreno da attraversare, i temi da affrontare nel Sinodo, avevano bisogno di un determinato atteggiamento. Non si trattava di analizzare un argomento qualsiasi; non stavamo di fronte a una situazione qualsiasi. Avevamo davanti i volti concreti di tante famiglie. E ho saputo che, in alcuni gruppi di lavoro, durante il Sinodo, i Padri sinodali hanno condiviso la propria realtà familiare. Questo dare volto ai temi – per così dire – esigeva, ed esige, un clima di rispetto capace di aiutarci ad ascoltare quello che Dio ci sta dicendo all’interno delle nostre situazioni. Non un rispetto diplomatico o politicamente corretto, ma un rispetto carico di preoccupazioni e domande oneste che miravano alla cura delle vite che siamo chiamati a pascere. Come aiuta dare volto ai temi! E come aiuta accorgersi che dietro le carte c’è un volto, come aiuta! Ci libera dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. Ci protegge dall’ideologizzare la fede mediante sistemi ben architettati ma che ignorano la grazia. Tante volte diventiamo pelagiani! E questo, si

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Il cammino della famiglia nel mondo


adulteri, e neppure come questo pubblicano» (Lc 18,11). Una delle tentazioni (cfr AL, 229) alla quale siamo continuamente esposti è avere una logica separatista. E’ interessante. Per difenderci, crediamo di guadagnare in identità e in sicurezza ogni volta che ci differenziamo o ci isoliamo dagli altri, specialmente da quelli che stanno vivendo in una situazione diversa. Ma l’identità non si fa nella separazione: l’identità si fa nell’appartenenza. La mia appartenenza al Signore: questo mi dà identità. Non staccarmi dagli altri perché non mi “contagino”. Considero necessario fare un passo importante: non possiamo analizzare, riflettere e ancor meno pregare sulla realtà come se noi fossimo su sponde o sentieri diversi, come se fossimo fuori dalla storia. Tutti abbiamo bisogno di convertirci, tutti abbiamo bisogno di porci davanti al Signore e rinnovare ogni volta l’alleanza con Lui e dire insieme al pubblicano: Dio mio, abbi pietà di me che sono un peccatore! Con questo punto di partenza, rimaniamo inclusi nella stessa “parte” – non staccati, inclusi nella stessa parte – e ci poniamo davanti al Signore con un atteggiamento di umiltà e di ascolto. Giustamente, guardare le nostre famiglie con la delicatezza con cui le guarda Dio ci aiuta a porre le nostre coscienze nella sua stessa direzione. L’accento posto sulla misericordia ci mette di fronte alla realtà in modo realistico, non però con un realismo qualsiasi, ma con il realismo di Dio. Le nostre analisi sono importanti, sono necessarie e ci aiuteranno ad avere un sano realismo. Ma nulla è paragonabile al realismo evangelico, che non si ferma alla descrizione delle situazioni, delle problematiche – meno ancora del peccato – ma che va sempre oltre e riesce a vedere dietro ogni volto, ogni storia, ogni situazione, un’opportunità, una possibilità. Il realismo evangelico si impegna con l’altro, con gli altri e non fa degli ideali e del “dover essere” un ostacolo per incontrarsi con gli altri nelle situazioni in cui si trovano. Non si tratta di non proporre l’ideale evangelico, no, non si tratta di questo. Al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta. E questo non significa non essere chiari nella dottrina, ma evitare di cadere in giudizi e atteggiamenti che non assumono la complessità della vita. Il realismo evangelico si sporca le mani perché sa che “grano e zizzania” crescono assieme, e il miglior grano – in questa vita – sarà sempre mescolato con un po’ di zizzania. «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione», li comprendo. «Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui

esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”». Una Chiesa capace di «assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37)» (AL, 308). E qui faccio una parentesi. Mi è venuta tra le mani – voi la conoscete sicuramente – l’immagine di quel capitello della Basilica di Santa Maria Maddalena a Vézelay, nel Sud della Francia, dove incomincia il Cammino di Santiago: da una parte c’è Giuda, impiccato, con la lingua di fuori, e dall’altra parte del capitello c’è Gesù Buon Pastore che lo porta sulle spalle, lo porta con sé. E’ un mistero, questo. Ma questi medievali, che insegnavano la catechesi con le figure, avevano capito il mistero di Giuda. E Don Primo Mazzolari ha un bel discorso, un Giovedì Santo, su questo, un bel discorso. E’ un prete non di questa diocesi, ma dell’Italia. Un prete dell’Italia che ha capito bene questa complessità della logica del Vangelo. E quello che si è sporcato di più le mani è Gesù. Gesù si è sporcato di più. Non era uno “pulito”, ma andava dalla gente, tra la gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere. Torniamo all’immagine biblica: “Ti ringrazio, Signore, perché sono dell’Azione Cattolica, o di questa associazione, o della Caritas, o di questo o di quello …, e non come questi che abitano nei quartieri e sono ladri e delinquenti e …”. Questo non aiuta la pastorale! 3. Terza immagine biblica: “Gli anziani faranno sogni profetici” (cfr Gl 3,1). Tale era una delle profezie di Gioele per il tempo dello Spirito. Gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni. Con questa terza immagine vorrei sottolineare l’importanza che i Padri sinodali hanno dato al valore della testimonianza come luogo in cui si può trovare il sogno di Dio e la vita degli uomini. In questa profezia contempliamo una realtà inderogabile: nei sogni dei nostri anziani molte volte risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro –penso ai giovani di Roma, delle periferie di Roma –, abbiano un domani, abbiano una speranza. Ma se il 40% dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro, quale speranza possono avere? Qui a Roma. Come trovare la strada? Sono due realtà – gli anziani e i giovani – che vanno assieme e che hanno bisogno l’una dell’altra e sono collegate. È bello trovare sposi, coppie, che da anziani continuano a cercarsi, a guardarsi; continuano a volersi bene e a scegliersi. È tanto bello trovare “nonni” che mostrano nei loro volti raggrinziti dal tempo la gioia che nasce dall’aver fatto una scelta d’amore e per amore. A Santa Marta vengono 42


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sogni, perché possiamo avere profezie del domani. E qui vorrei fermarmi un momento. Questa è l’ora di incoraggiare i nonni a sognare. Abbiamo bisogno dei sogni dei nonni, e di ascoltare questi sogni. La salvezza viene da qui. Non a caso quando Gesù bambino viene portato al Tempio è accolto da due “nonni”, che avevano raccontato i loro sogni: quell’anziano [Simeone] aveva “sognato”, lo Spirito gli aveva promesso che avrebbe visto il Signore. Questa è l’ora – e non è una metafora – questa è l’ora in cui i nonni devono sognare. Bisogna spingerli a sognare, a dirci qualcosa. Loro si sentono scartati, quando non disprezzati. A noi piace, nei programmi pastorali, dire: “Questa è l’ora del coraggio”, “questa è l’ora dei laici”, “questa è l’ora…”. Ma se io dovessi dire, questa è l’ora dei nonni! “Ma, Padre, lei va indietro, lei è preconciliare!”. E’ l’ora dei nonni: che i nonni sognino, e i giovani impareranno a profetizzare, e a realizzare con la loro forza, con la loro immaginazione, con il loro lavoro, i sogni dei nonni. Questa è l’ora dei nonni. E su questo mi piacerebbe tanto che voi vi soffermaste nelle vostre riflessioni, mi piacerebbe tanto. Tre immagini, per leggere l’Amoris laetitia: 1. La vita di ogni persona, la vita di ogni famiglia dev’essere trattata con molto rispetto e molta cura. Specialmente quando riflettiamo su queste cose. 2. Guardiamoci dal mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti. 3. Diamo spazio agli anziani perché tornino a sognare. Tre immagini che ci ricordano come «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso» (AL, 181). Non come quei perfetti e immacolati che credono di sapere tutto, ma come persone che hanno conosciuto l’amore che Dio ha per noi (cfr 1 Gv 4,16). E in tale fiducia, con tale certezza, con molta umiltà e rispetto, vogliamo avvicinarci a tutti i nostri

tante coppie che fanno 50, 60 anni di matrimonio, e anche nelle udienze del mercoledì, e io sempre li abbraccio e li ringrazio della testimonianza, e chiedo: “Chi di voi ha avuto più pazienza?”. E sempre dicono: “Tutti e due!”. A volte, scherzando, uno dice: “Io!”, ma poi dice: “No, no, è uno scherzo”. E una volta c’è stata una risposta tanto bella, credo che tutti lo pensavano ma c’è stata una coppia sposata da 60 anni che è riuscita a esprimerla: “Ancora siamo innamorati!”. Che bello! I nonni che danno testimonianza. E io sempre dico: fatelo vedere ai giovani, che si stancano presto, che dopo due o tre anni dicono: “Torno da mamma”. I nonni! Come società, abbiamo privato della loro voce i nostri anziani – questo è un peccato sociale attuale! –, li abbiamo privati del loro spazio; li abbiamo privati dell’opportunità di raccontarci la loro vita, le loro storie, le loro esperienze. Li abbiamo accantonati e così abbiamo perduto la ricchezza della loro saggezza. Scartandoli, scartiamo la possibilità di prendere contatto con il segreto che ha permesso loro di andare avanti. Ci siamo privati della testimonianza di coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma che conservano nel loro cuore la gratitudine per tutto ciò che hanno vissuto (cfr AL, 38). Questa mancanza di modelli, di testimonianze, questa mancanza di nonni, di padri capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”. E rimangono fermi. Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura. Solo la testimonianza dei nostri genitori, vedere che è stato possibile lottare per qualcosa che valeva la pena, li aiuterà ad alzare lo sguardo. Come pretendiamo che i giovani vivano la sfida della famiglia, del matrimonio come un dono, se continuamente sentono dire da noi che è un peso? Se vogliamo “visioni”, lasciamo che i nostri nonni ci raccontino, che condividano i loro


fratelli per vivere la gioia dell’amore nella famiglia. Con tale fiducia rinunciamo ai “recinti” «che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza» (AL, 308). Questo ci impone di sviluppare una pastorale familiare capace di accogliere,accompagnare, discernere e integrare. Una pastorale che permetta e renda possibile l’impalcatura adatta perché la vita a noi affidata trovi il sostegno di cui ha bisogno per svilupparsi secondo il sogno – permettetemi il riduzionismo – secondo il sogno del “più anziano”: secondo il sogno di Dio. Grazie. Prima domanda Santità, buona sera. Nell’Esortazione Evangelii gaudium, Lei dice che il grande problema di oggi è l’ “individualismo comodo e avaro”; e in Amoris laetitia dice che bisogna creare reti di relazione tra le famiglie. Usa un’espressione che in italiano suona anche un po’ male: “la famiglia allargata”. Famiglia allargata, reti di relazioni tra famiglie, non solo nella Chiesa ma anche nella società, dove i più piccoli, i più poveri, le donne sole, gli anziani possano essere accolti. E' necessaria una rivoluzione della tenerezza, una fraternità mistica. Ecco, anche noi sentiamo il virus dell’individualismo nelle nostre comunità; siamo anche noi figli di questo tempo. Allora abbiamo bisogno di un aiuto per creare questa rete di relazione tra le famiglie, capace di rompere la chiusura e di ritrovarsi. Questo, forse, può significare cambiare tante cose nelle nostre parrocchie, tante cose che forse con il tempo si sono sedimentate: ostilità, divisioni, vecchi risentimenti. Papa Francesco: E’ vero che l’individualismo è come l’asse di questa cultura. E questo individualismo ha tanti nomi, tanti nomi di radice egoistica: cercano sempre sé stessi, non guardano l’altro, non guardano le altre famiglie… Si arriva, a volte, a vere crudeltà pastorali. Per esempio, parlo di un’esperienza che ho conosciuto quando ero a Buenos Aires: in una diocesi vicina, alcuni parroci non volevano battezzare i bambini delle ragazze-madri. Ma guarda! Come fossero animali. E questo è individualismo. “No, noi siamo i perfetti, questa è la strada…”. E’ un individualismo che cerca anche il piacere, è edonista. Starei per dire una parola un po’ forte, ma la dico tra virgolette: quel “maledetto benessere” che ci ha fatto tanto male. Il benessere. Oggi l’Italia ha un calo delle nascite terribile: è, credo, sotto zero. Ma questo è incominciato con quella cultura del benessere, da alcuni decenni … Ho conosciuto tante famiglie che preferivano

– ma per favore, non accusatemi, gli animalisti, perché non voglio offendere nessuno – preferivano avere due o tre gatti, un cane invece di un figlio. Perché fare un figlio non è facile, e poi, portarlo avanti… Ma quello che più diventa una sfida con un figlio è che tu fai una persona che diventerà libera. Il cane, il gatto, ti daranno un affetto, ma un affetto “programmato”, fino a un certo punto, non libero. Tu hai uno, due, tre, quattro figli, e saranno liberi, e dovranno andare nella vita con i rischi della vita. Questa è la sfida che fa paura: la libertà. E torniamo all’individualismo: io credo che noi abbiamo paura della libertà. Anche nella pastorale: “Ma, cosa si dirà se faccio questo?... E si può?...”. E ha paura. “Ma tu hai paura: rischia! Nel momento in cui sei lì, e devi decidere, rischia! Se sbagli, c’è il confessore, c’è il vescovo, ma rischia! E’ come quel fariseo: la pastorale delle mani pulite, tutto pulito, tutto a posto, tutto bello. Ma fuori da questo ambiente, quanta miseria, quanto dolore, quanta povertà, quanta mancanza di opportunità di sviluppo! E’ un individualismo edonista, è un individualismo che ha paura della libertà. E’ un individualismo – non so se la grammatica italiana lo permette – direi “ingabbiante”: ti ingabbia, non ti lascia volare libero. E poi, sì, la famiglia allargata. È vero, è una parola che non sempre suona bene, ma secondo le culture; io l’Esortazione l’ho scritta in spagnolo … Ho conosciuto, per esempio, famiglie … Proprio l’altro giorno, una settimana fa o due, è venuto a presentare le credenziali l’ambasciatore di un Paese. C’era l’ambasciatore, la famiglia e la signora che faceva le pulizie nella loro casa da tanti anni: questa è una famiglia allargata. E questa donna era della famiglia: una donna sola, e non solo la pagavano bene, la pagavano in regola, ma quando sono dovuti andare dal Papa a dare le credenziali: “tu vieni con noi, perché tu sei della famiglia”. E’ un esempio. Questo è dare posto alla gente. E fra la gente semplice, con la semplicità del Vangelo, quella semplicità buona, ci sono esempi così, di allargare la famiglia … E poi, l’altra parola-chiave che tu hai detto, oltre all’individualismo, alla paura della libertà e all’attaccamento al piacere, tu hai detto un’altra parola: la tenerezza. E’ la carezza di Dio, la tenerezza. Una volta, in un Sinodo, è uscito questo: “Dobbiamo fare la rivoluzione della tenerezza”. E alcuni Padri – anni fa – hanno detto: “Ma non si può dire questo, non suona bene”. Ma oggi lo possiamo dire: manca tenerezza, manca tenerezza. Accarezzare non solo i bambini, gli ammalati, accarezzare tutto, i peccatori … E ci sono esempi buoni, di tenerezza … La tenerezza è un linguaggio che vale per i più piccoli, per quelli che non hanno niente: un bambino 44


terribile quel capitolo – soprattutto a me fa impressione quando parla del quarto comandamento e dice: “Voi, che invece di dare da mangiare ai vostri genitori anziani, dite loro: ‘No, ho fatto la promessa, è meglio l’altare che voi’, siete in contraddizione” (cfr Mc 7,10-13). Gesù era così, ed è stato condannato per odio, gli mettevano sempre dei trabocchetti davanti: “Si può far questo o non si può?”. Pensiamo alla scena dell’adultera (cfr Gv 8,1-11). Sta scritto: dev’essere lapidata. E’ la morale. E’ chiara. E non rigida, questa non è rigida, è una morale chiara. Dev’essere lapidata. Perché? Per la sacralità del matrimonio, la fedeltà. Gesù in questo è chiaro. La parola è adulterio. E’ chiaro. E Gesù si fa un po’ il finto tonto, lascia passare il tempo, scrive per terra… E poi dice: “Incominciate: il primo di voi che non abbia peccato, scagli la prima pietra”. Ha mancato verso la legge, Gesù, in quel caso. Se ne sono andati via, incominciando dai più vecchi. “Donna, nessuno ti ha condannato? Neppure io”. La morale qual è? Era di lapidarla. Ma Gesù manca, ha mancato verso la morale. Questo ci fa pensare che non si può parlare della “rigidità”, della “sicurezza”, di essere matematico nella morale, come la morale del Vangelo. Poi, continuiamo con le donne: quando quella signora o signorina [la Samaritana, cfr Gv 4,1-27], non so cosa fosse, incominciò a fare un po’ la “catechista” e a dire: “Ma bisogna adorare Dio su questo monte o in quello?...”. Gesù le aveva detto: “E tuo marito?...” – “Non ne ho” – “Hai detto la verità”. E in effetti lei aveva tante medaglie di adulterio, tante “onorificenze”… Eppure è stata lei, prima di essere perdonata, è stata l’“apostolo” della Samaria. E allora come si deve fare? Andiamo al Vangelo, andiamo a Gesù! Questo non significa buttare l’acqua sporca con il bambino, no, no. Questo significa cercare la verità; e che la morale è un atto d’amore, sempre: amore a Dio, amore al prossimo. E’ anche un atto che lascia spazio alla conversione dell’altro, non condanna subito, lascia spazio.

Seconda domanda Santità buonasera, torno su un argomento che Lei ha già accennato. Noi sappiamo che come comunità cristiane non vogliamo rinunciare alle esigenze radicali del Vangelo della famiglia: il matrimonio come Sacramento, l’indissolubilità, la fedeltà del matrimonio; e, dall’altra parte, all’accoglienza piena di misericordia verso tutte le situazioni, anche quelle più difficili. Come evitare che nelle nostre comunità nasca una doppia morale, una esigente e una permissiva, una rigorista e una lassista? Papa Francesco: Entrambe non sono verità: né il rigorismo né il lassismo sono verità. Il Vangelo sceglie un’altra strada. Per questo, quelle quattro parole – accogliere, accompagnare, integrare, discernere – senza mettere il naso nella vita morale della gente. Per la vostra tranquillità, devo dirvi che tutto quello che è scritto nell’Esortazione – e riprendo le parole di un grande teologo che è stato segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Schönborn, che l’ha presentata – tutto è tomista, dall’inizio alla fine. E’ la dottrina sicura. Ma noi vogliamo, tante volte, che la dottrina sicura abbia quella sicurezza matematica che non esiste, né con il lassismo, di manica larga, né con la rigidità. Pensiamo a Gesù: la storia è la stessa, si ripete. Gesù, quando parlava alla gente, la gente diceva: “Costui parla non come i nostri dottori della legge, parla come uno che ha autorità” (cfr Mc1,22). Quei dottori conoscevano la legge, e per ogni caso avevano una legge specifica, per arrivare alla fine a circa 600 precetti. Tutto regolato, tutto. E il Signore – l’ira di Dio io la vedo in quel capitolo 23 di Matteo, è

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conosce il papà e la mamma per le carezze, poi la voce, ma è sempre la tenerezza. E a me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al bambino che incomincia a parlare, anche il papà e la mamma si fanno bambini [fa il verso], parlano così … Tutti lo abbiamo visto, è vero. Questa è la tenerezza. E’ abbassarmi al livello dell’altro. E’ la strada che ha fatto Gesù. Gesù non ha ritenuto un privilegio essere Dio: si è abbassato (cfr Fil 2,6-7). E ha parlato la nostra lingua, ha parlato con i nostri gesti. E la strada di Gesù è la strada della tenerezza. Ecco: l’edonismo, la paura della libertà, questo è proprio individualismo contemporaneo. Bisogna uscire attraverso la strada della tenerezza, dell’ascolto, dell’accompagnare, senza chiedere … Sì, con questo linguaggio, con questo atteggiamento le famiglie crescono: c’è la piccola famiglia, poi la grande famiglia degli amici o di quelli che vengono… Non so se ho risposto, ma mi sembra, mi è venuto così.


Una volta – ci sono tanti preti, qui, ma scusatemi – il mio predecessore, no, l’altro, il Cardinale Aramburu, che è morto dopo il mio predecessore, quando io sono stato nominato arcivescovo mi ha dato un consiglio: “Quando tu vedi che un sacerdote vacilla un po’, scivola, tu chiamalo e digli: ‘Parliamo un po’, mi hanno detto che tu sei in questa situazione, quasi di doppia vita, non so…’; e tu vedrai che quel sacerdote incomincia a dire: ‘No, non è vero, no…’; tu interrompilo e digli: ‘Ascoltami: vai a casa, pensaci, e torna tra quindici giorni, e ne riparliamo’; e in quei quindici giorni quel sacerdote – così mi diceva lui – aveva il tempo di pensare, ripensare davanti a Gesù e tornare: ‘Sì, è vero. Aiutami!’”. Sempre ci vuole tempo. “Ma, Padre, quel prete ha vissuto, e ha celebrato la Messa, in peccato mortale in quei quindici giorni, così dice la morale, e Lei cosa dice?”. Cosa è meglio? Cosa è stato meglio? Che il vescovo abbia avuto quella generosità di dargli quindici giorni per ripensarci, con il rischio di celebrare la Messa in peccato mortale, è meglio questo o l’altro, la morale rigida? E a proposito della morale rigida, vi dirò un fatto a cui ho assistito io stesso. Quando noi eravamo in teologia, l’esame per ascoltare le Confessioni – “ad audien-

das”, si chiamava – si faceva al terzo anno, ma noi, quelli del secondo, avevamo il permesso di andare ad assistere per prepararci; e una volta, a un nostro compagno, è stato proposto un caso, di una persona che va a confessarsi, ma un caso così intricato, riguardo al set-

Schönborn: Amoris Laetitia atto di magistero colmo di misericordia “L’Amoris Laetitia è un atto del magistero che rende attuale” l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia. E’ quanto afferma il cardinale Christoph Schönborn in una lunga intervista con il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, pubblicata sul numero in uscita il giorno 8 luglio del quindicinale dei Gesuiti. L’arcivescovo di Vienna - che aveva presentato il testo dell’Esortazione apostolica post-sinodale durante la conferenza stampa ufficiale, l’8 aprile – sottolinea che con questo documento, nel segno della Misericordia, si superano le categorie nette di “regolare” e “irregolare” nel guardare alle famiglie. L’inclusione, evidenzia, è la parola chiave del documento. Amoris Laetitia colpisce per “la sua semplicità e il suo sapore di Vangelo”. Esordisce così il cardinale Christoph Schönborn nella lunga e articolata intervista Il direttore de La Civiltà Cattolica non manca di rivolgere al porporato austriaco le domande “scomode” che sono emerse in alcuni ambienti riguardo all’Esortazione apostolica che ha concluso il cammino dei due Sinodi sulla famiglia. Alcuni, annota il gesuita, hanno parlato di Amoris Laetitia come di un “documento minore”, “senza pieno valore magisteriale”.

Amoris Laetitia, atto di magistero di grande qualità pastorale Per il cardinale Schönborn, questa osservazione è

inaccettabile. E’ evidente, afferma, che “si tratta di una atto di magistero”, è chiaro che il Papa esercita qui “il suo ruolo di pastore, di maestro e di dottore della fede”. E aggiunge che è giusto parlare di “un documento pontificio di grande qualità, di un’autentica lezione di sacra doctrina, che ci riconduce all’attualità della Parola di Dio”. Per l’arcivescovo di Vienna, l’Esortazione è “un atto del magistero che rende attuale nel tempo presente l’insegnamento della Chiesa”. Amoris laetitia, riprende, “è il grande testo di morale che aspettavamo dai tempi del Concilio e che sviluppa le scelte già compiute dal Catechismo della Chiesa Cattolica e dalla Veritatis Splendor” di San Giovanni Paolo II. Francesco espone la dottrina in maniera dolce, con misericordia Il porporato austriaco sottolinea che Francesco ha uno sguardo realista sulla situazione delle famiglie ai nostri tempi ma al tempo stesso “non rinuncia all’ideale o al patrimonio dottrinale”. Altro elemento che colpisce, soggiunge, è il linguaggio misericordioso dell’Amoris Laetitia che incarna una “pastorale positiva” tesa ad “esporre la dottrina in maniera dolce, collegandola alle motivazioni profonde delle donne e degli uomini”. 46


timo comandamento, “de justitia et jure”; ma era proprio un caso talmente irreale...; e questo compagno, che era una persona normale, disse al professore: “Ma, padre, questo nella vita non si trova” – “Sì, ma c’è nei libri!”. Questo l’ho visto io. Francesco supera le categorie di regolare e irregolare Tra le voci critiche, annota il direttore di Civiltà Cattolica, c’è chi ritiene che Amoris Laetitia cada “nell’etica della situazione”, quindi in una “gradualità della legge”. Un’obiezione non ricevibile, per il porporato, perché “dietro a una chiara oggettività del bene e della verità, l’Esortazione evidenzia il progresso nella conoscenza e nell’impegno a compere il bene dell’uomo in via”. In questo “percorso di crescita”, dunque, “sussistono fattori che possono spiegare che è possibile non essere soggettivamente colpevoli, se non rispettiamo oggettivamente una norma”. Il cardinale Schönborn evidenzia inoltre che “il fatto rilevante di questo documento è che esso supera le categorie di regolare e irregolare”, giacché “siamo tutti soggetti al peccato e tutti abbiamo bisogno della misericordia”. Non si tratta affatto, precisa, di “relativismo, ma al contrario” il Papa è “molto chiaro sulla realtà del peccato”, ma “va al di là di questa prospettiva per mettere in pratica il Vangelo: chi tra voi non ha mai peccato scagli la prima pietra”.

avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente”. Già Giovanni Paolo II, in Familiaris Consortio, ribadisce “distingueva alcune situazioni”, “apriva dunque la porta a una comprensione più ampia passando per il discernimento delle differenti situazioni che non sono oggettivamente identiche, e grazie alla considerazione del foro interno”. Francesco ha perciò proseguito nella direzione indicata da Karol Wojtyła “ma facendo un passo in avanti”. Papa non vuole casistica astratta, coscienza ha ruolo fondamentale Qualcuno, incalza padre Antonio Spadaro, critica il fatto che il Papa, in questo ambito, si riferisca a “certi casi” senza “farne una sorta di inventario”. Se lo facesse, risponde il cardinale Schönborn, si cadrebbe “nella casistica astratta” e si creerebbe anche “un diritto a ricevere l’Eucaristia in situazione oggettiva di peccato”. Il Papa, invece, ci mette “di fronte all’obbligo per amore della verità, di discernere i casi singoli in foro interno come in foro esterno”. La coscienza assume dunque “un ruolo fondamentale”. L’arcivescovo austriaco conclude la sua conversazione con il direttore di Civiltà Cattolica mettendo l’accento sull’appello alla misericordia di cui è permeato tutto il documento. Un appello che rimanda “all’esigenza di uscire da noi stessi” per incontrare Cristo. Un incontro d’amore che dona gioia, Evangelii Gaudium, ma che “non può avvenire se non andando all’incontro con gli altri”.

Amoris Laetitia fa passo avanti nella direzione di Familiaris Consortio L’arcivescovo di Vienna si sofferma poi sulla questione dell’accesso ai Sacramenti dei divorziati risposati. Amoris Laetitia, osserva, si colloca a “livello molto concreto della vita di ognuno” e rileva che “un soggetto, pur conoscendo bene la norma può

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Terza domanda Santità, buonasera. Dovunque andiamo, oggi sentiamo parlare di crisi del matrimonio. E allora Le volevo domandare: su cosa possiamo puntare oggi per educare i giovani all’amore, in particolar modo al matrimonio sacramentale, superando le loro resistenze, lo scetticismo, le disillusioni, la paura del definitivo? Grazie. Papa Francesco: Ti prendo l’ultima parola: noi viviamo anche una cultura del provvisorio. Un vescovo, ho sentito dire, alcuni mesi fa, che gli si è presentato un ragazzo che aveva finito gli studi universitari, un bravo giovane, e gli ha detto: “Io voglio diventare sacerdote, ma per dieci anni”. E’ la cultura del provvisorio. E questo succede dappertutto, anche nella vita sacerdotale, nella vita religiosa. Il provvisorio. E per questo una parte dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli, perché loro [gli sposi] dicono: “Sì, per tutta la vita”, ma non sanno quello che dicono, perché hanno un’altra cultura. Lo dicono, e hanno la buona volontà, ma non hanno la consapevolezza. Una signora, una volta, a Buenos Aires, mi ha rimproverato: “Voi preti siete furbi, perché per diventare preti studiate otto anni, e poi, se le cose non


Buenos Aires: i parroci, quando facevano i corsi di preparazione, c’erano sempre 12-13 coppie, non di più, non arrivare a 30 persone. La prima domanda che facevano: “Quanti di voi siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro. Non dire subito: “Perché non ti sposi in chiesa?”. No. Accompagnarli: aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà. Nella campagna argentina, nella zona del Nordest, c’è una superstizione: che i fidanzati hanno il figlio, convivono. In campagna succede questo. Poi, quando il figlio deve andare a scuola, fanno il matrimonio civile. E poi, da nonni, fanno il matrimonio religioso. E’ una superstizione, perché dicono che farlo subito religioso spaventa il marito! Dobbiamo lottare anche contro queste superstizioni. Eppure davvero dico che ho visto tanta fedeltà in queste convivenze, tanta fedeltà; e sono sicuro che questo è un matrimonio vero, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno. Ma ci sono superstizioni locali. È la pastorale più difficile, quella del matrimonio. E poi, la pace nella famiglia. Non solo quando discutono tra loro, e il consiglio è sempre di non finire la giornata senza fare la pace, perché la guerra fredda del giorno dopo è peggio. E’ peggio, sì, è peggio. Ma quando si immischiano i parenti, i suoceri, perché non è facile diventare suocero o suocera! Non è facile. Ho sentito una cosa bella, che piacerà alle donne: quando una donna sente dall’ecografia che è incinta di un maschietto, da quel momento incomincia a studiare per diventare suocera! Torno sul serio: la preparazione al matrimonio, la si deve fare con vicinanza, senza spaventarsi, lentamente. E’ un cammino di conversione, tante volte. Ci sono, ci sono ragazzi e ragazze che hanno una purezza, un amore grande e sanno quello che fanno. Ma sono pochi. La cultura di oggi ci presenta questi ragazzi, sono buoni, e dobbiamo accostarci e accompagnarli, accompagnarli, fino al momento della maturità. E lì, che facciano il sacramento, ma gioiosi, gioiosi! Ci vuole tanta pazienza, tanta pazienza. E’ la stessa pazienza che ci vuole per la pastorale delle vocazioni. Ascoltare le stesse cose, ascoltare: l’apostolato dell’orecchio, ascoltare, accompagnare … Non spaventarsi, per favore, non spaventarsi. Non so se ho risposto, ma ti parlo della mia esperienza, di quello che ho vissuto come parroco.

vanno e il prete trova una ragazza che gli piace… alla fine gli date il permesso di sposarsi e fare una famiglia. E a noi laici, che dobbiamo fare il sacramento per tutta la vita e indissolubile, ci fanno fare quattro conferenze, e questo per tutta la vita!”. Per me, uno dei problemi, è questo: la preparazione al matrimonio. E poi la questione è molto legata al fatto sociale. Io ricordo, ho chiamato – qui in Italia, l’anno scorso – ho chiamato un ragazzo che avevo conosciuto tempo fa a Ciampino, e si sposava. L’ho chiamato e gli ho detto: “Mi ha detto tua mamma che ti sposerai il prossimo mese … Dove farai?…” – “Ma non sappiamo, perché stiamo cercando la chiesa che sia adatta al vestito della

mia ragazza … E poi dobbiamo fare tante cose: le bomboniere, e poi cercare un ristorante che non sia lontano …”. Queste sono le preoccupazioni! Un fatto sociale. Come cambiare questo? Non so. Un fatto sociale a Buenos Aires: io ho proibito di fare matrimoni religiosi, a Buenos Aires, nei casi che noi chiamiamo “matrimonios de apuro”, matrimoni “di fretta” [riparatori], quando è in arrivo il bambino. Adesso stanno cambiando le cose, ma c’è questo: socialmente deve essere tutto in regola, arriva il bambino, facciamo il matrimonio. Io ho proibito di farlo, perché non sono liberi, non sono liberi! Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano. La crisi del matrimonio è perché non si sa cosa è il sacramento, la bellezza del sacramento: non si sa che è indissolubile, non si sa che è per tutta la vita. E’ difficile. Un’altra mia esperienza a

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In occasione del primo anniversario della pubblicazione dell’Enciclica di Papa Francesco “Laudato si”, il Fondo ambiente Italiano (Fai) ha presentato a Milano una raccolta di riflessioni di artisti e intellettuali relative al testo del Papa, curate da Pasquale Chessa. Molti i punti di vista espressi nel volumetto, che in copertina riporta l’immagine di un antico affresco che ritrae San Francesco. Ma quale il motivo di questa iniziativa? Adriana Masotti lo ha chiesto ad Andrea Carandini, presidente Fai, autore di uno dei contributi pubblicati: Il Fai non ha né una religione né una politica propria: il Fai va sui problemi e sulle cose concrete. In una situazione mondiale così allarmante, dal punto di vista ecologico, l’Enciclica del Papa ci ha sorpreso molto favorevolmente, perché al di là di quelle che possono essere delle inflessioni diverse nel percepire i fenomeni del mondo, lì c’è un elemento che ci ha fortemente impressionato, che è quello di vedere tutto unito: la società, la terra e la cultura. Spesso, infatti, gli ecologisti ragionano solo sulla natura e

gli uomini di cultura, spesso, si interessano poco di ecologia, poi c’è il problema sociale del mondo… Quindi, il Fai ha aperto un dibattito sul proprio sito e poi ha trasformato questi interventi scelti in un “librino”, che abbiamo presentato. Noi vogliamo fare di tutto, perché questa Enciclica venga letta, venga discussa. Questo “librino”, dunque, verrà distribuito gratuitamente a tutti i nostri volontari, proprio per diffondere questo documento fondamentale della nostra epoca e farlo proprio.

se la specie non si riconverte rischia di finire come è finito l’uomo di Neanderthal. Non c’è che da immaginare una rete di piccole azioni che poi diventano azioni più grandi, proprio perché si riconnettono. Gruppi di Paesi che prendono delle decisioni in accordo con altri gruppi di Paesi, sperando che tutto questo possa effettivamente portare a una rete generale del mondo e del globo, in cui l’Homo Sapiens comincerà ad essere veramente “sapiens” e non un predatore come molto spesso nella sua storia è stato.

E’ questa visione integrale dell‘ecologia, l’aspetto rivoluzionario sottolineato da molti contributi, una visione che richiede un grande cambiamento … In questi giorni, ho voluto ripercorrere un pochino la storia della nostra specie e sono risalito all’Homo Sapiens. La cosa molto impressionante è che quando l’Homo Sapiens si è spostato dall’Africa, distribuendosi nei vari continenti, ovunque è andato ha fatto disastri: per esempio ha quasi dimezzato la fauna dell’Australia e ha fatto lo stesso nelle due Americhe. L’Homo Sapiens ha dentro di sé una potenza creativa la potenza creativa della civiltà - ma ha anche una potenza distruttiva. Come farà questa specie a riconvertirsi? Il problema certamente è enorme e di non facile soluzione, proprio perché è un problema da villaggio globale. Naturalmente, l’Enciclica non può dare le soluzioni, non è questo che spetta all’Enciclica, ma è chiaro che se la specie si riconverte avrà un futuro,

Molti sono coloro che hanno desiderato commentare da diversi punti di vista l’enciclica del Papa … Sono inflessioni diverse. Io stesso ho osservato che fra le virtù che il Papa ci suggerisce non c’è la libertà. Ora, io, personalmente, ma anche altri hanno osservato che le libertà individuali che esistono in certi luoghi del mondo, ma ahimè in altri no, questa libertà è un qualcosa che dovrebbe andare insieme alla svolta richiesta ed è un elemento che potrebbe essere forse più sviluppato, perché certamente non è facilissimo combinare la libertà con la giustizia.

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C’è anche una critica al capitalismo, in questa Enciclica … Mi pare ci sia una critica alle sue degenerazioni finanziarie soprattutto. Quando il mercato stritola l’uomo, quando crea ingiustizia … Appunto, le degenerazioni finanziarie, le degenerazioni del mercato, è chiaro. E su questo non credo che ci possa essere alcun dissenso.

laudato si’

Laudato si’ Le riflessioni del Fai


Settimana di studio sulla Laudato si’ Per il primo anniversario dell’Enciclica Una settimana di iniziative in tutto il mondo per celebrare il primo anniversario della pubblicazione nel 2015 dell’Enciclica “Laudato si’” sulla cura della casa comune di Papa Francesco. A promuoverla, dal 12 al 19 giugno, è stato il Global Catholic Climate Movement (Gccm), la rete globale cattolica sui cambiamenti climatici creata nel 2015 in vista dell’ultima Conferenza mondiale sul clima a Parigi (Cop21), e impegnata oggi a diffondere i contenuti del documento pontificio e a promuoverne l’applicazione. L’obiettivo realizzare 1000 eventi in una settimana Centinaia di parrocchie e comunità ecclesiali in tutto il mondo organizzeranno eventi di vario genere per sensibilizzare l’opinione pubblica e discutere come mettere in pratica l’ecologia integrale proposta da Papa Francesco. Tra le iniziative proposte dalla Gccm sul portalehttp://laudatosiweek.org/ : seminari sull’Enciclica e sull’attuale crisi ecologica nel mondo; incontri di preghiera sul tema della cura del Creato; la pubblicizzazione di iniziative concrete per l’ambiente, come l’installazione di pannelli solari e campagne di sensibilizzazione per l’energia pulita; la promozione

di petizioni alle autorità locali e nazionali; manifestazioni, flash mob ecc... L’obiettivo del Gccm è di raggiungere mille eventi durante la settimana. In programma anche webiners, seminari on line sulla cura del Creato In programma anche seminari on-line (webiners) ai quali interverranno personalità di fama internazionale, tra i quali mons. Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e l’economista e saggista statunitense Jeffrey Sachs direttore dell'Earth Institute alla Columbia University. Numerose le adesioni nelle Filippine Numerose già le adesioni all’iniziativa nelle Filippine, dove i gruppi ambientalisti cattolici sono da tempo molto attivi, a conferma del forte interesse della Chiesa locale per questo tema. Tra gli eventi salienti promossi dalla sezione filippina del Gccm un Simposio sulla “Laudato sì” presso l’Università San Tommaso, il 18 giugno, in cui si parlerà anche degli ultimi sviluppi dopo la Cop21 e delle esperienze concrete realizzate nelle comunità locali per proteggere l’ambiente.

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C’ è un clima che vuole cambiare le "categorie dell’umano", maturato nel benessere materiale, osserva il cardinale, un "clima aggressivo nei confronti di chi la pensa diversamente". Ma a preoccupare il presidente dei vescovi italiani c'è anche una "decomposizione culturale accecante" di cui finora si è stati complici: “Emerge un inquietante, assoluto vuoto interiore, una disperata noia di vivere che esige un insaziabile bisogno di sensazioni forti, per cui la tortura e il delitto sono pensati, voluti e vissuti per se stessi. Come società siamo talmente accecati di fronte ai segni della decomposizione culturale da continuare a mettere energie, tempo, risorse in tutt’altro? Siamo preoccupati che non si sia aperto un serio, corale dibattito pubblico; che si continui a mostrare colpevole superficialità o vile rassegnazione di fronte alla cultura dello 'sballo' con droghe, alcool, azzardo, fino al disprezzo totale della vita propria e altrui”. L’appello è alla società perché si interroghi su valori, idee e regole che trasmette ai giovani. Ma l’appello è anche all’Europa: c’è una indifferenza crescente nell’opinione pubblica che "grida vendetta al cospetto di Dio", rileva il porporato, sia davanti al “brutale accanimento contro la fede cristiana”, vedi gli ultimi fatti dello Yemen, sia al “cataclisma umanitario delle migrazioni”: “Dall’inizio del 2015, sono morte 4.200 persone, di cui 330 bambini solo nel Mar Egeo! Che

E’ l’ora di una grande responsabilità: la politica si impegni giorno e notte per misure concrete a favore della famiglia e dell’occupazione. Sono questi i veri passi con cui presentarsi all’Europa a testa alta! E’ il forte appello lanciato dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, in apertura del Consiglio permanente, lunedì 14 aprile a Genova. Nella sua ampia prolusione, l’attualità nazionale con la nuova condanna alla maternità surrogata e la preoccupazione per una società che ignora la decomposizione culturale in corso. Duro anche il richiamo all’Europa, poco lungimirante in merito al “cataclisma umanitario delle migrazioni” e indifferente alle persecuzioni anticristiane. Non indeboliamo la famiglia con "omologazioni infondate trattando allo stesso modo realtà diverse". Non creiamo di fatto "situazioni paramatrimoniali". La famiglia è un tesoro, è capitale d’impresa, è perno sociale. Il cardinale Bagnasco richiama la politica italiana a favorirla e a contrastare l’avanzata della "deriva individualista, radicale e liberista": “Mentre riaffermiamo con tantissima gente che avere dei figli è un desiderio bello e legittimo, così è diritto dei bambini non diventare oggetto di diritto per nessuno, poiché non sono cose da produrre. Tanto più che certi cosiddetti diritti risultano essere solo per i ricchi alle spalle dei più poveri, specialmente delle donne e dei loro corpi”.

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famiglia oggi

Bagnasco: La Famiglia è indebolita da omologazioni infondate


spettacolo dà di sé l’Europa? Dobbiamo confrontarla con i volti sfatti e terrorizzati dei bambini e dei vecchi, di questa gente che si sottopone a indicibili fatiche, stenti, pericoli, disposti a sparire fino a perdere la vita. E che spesso non vuole o non può più tornare indietro. Può l’Europa, culla di civiltà e diritti, erigere muri e scavare fossati? La vigilanza intelligente è doverosa - e le nostre Forze dell’Ordine ne hanno dato prova anche in questi giorni - la strategia di integrazione non è facile, ma la Casa europea e le stesse Nazioni Unite stanno affrontando tale cataclisma umanitario con lungimiranza ed efficacia?”. Come impegno della Chiesa italiana il cardinale Bagnasco ribadisce invece la volontà di costruire

ponti attraverso il dialogo, dare voce al popolo, sostegno morale alla società, di lottare contro la pedofilia

e restare vicina ai sacerdoti, ai tanti che, tranne qualche “ombra dolorosa che getta discredito”.

No all’indifferenza per i bambini scomparsi Otto milioni l'anno Appello del Papa per non dimenticare i minori sottratti all’affetto dei propri cari. La voce di Francesco si è levata oggi al termine dell’udienza generale di mercoledì 25 maggio, giornata internazionale dei bambini scomparsi, indetta dal 1983 in ricordo del piccolo Ethan Patz, 6 anni, rapito a New York il 25 maggio del 1979. “È un dovere di tutti proteggere i bambini, soprattutto quelli esposti ad elevato rischio di sfruttamento, tratta e condotte devianti.” Quindi, il richiamo del Papa alla responsabilità degli adulti: “Auspico che le autorità civili e religiose possano scuotere e sensibilizzare le coscienze, per evitare l’indifferenza di fronte al disagio di bambini soli, sfruttati e allontanati dalle loro famiglie e dal loro contesto sociale, bambini che non possono crescere serenamente e guardare con speranza al futuro”. Poi, l’invito alla preghiera perché “ciascuno di essi sia restituito all’affetto dei propri cari”. Una calamità, in gran parte ignorata dai media e dalle istituzioni, quella che inghiotte ogni anno nel mondo almeno 8 milioni di minori, vale a dire 22 mila al giorno. Per contrastare il fenomeno esiste una Rete globale che fa capo al Centro internazionale per i bambini scomparsi e sfruttati ( ICmec ), con sede ad Alexandra in Virginia, impegnato a promuovere iniziative nei Paesi che non ritengono una priorità ricercare i minori spariti nel nulla, né realizzano politiche di prevenzione. L’indifferenza verso la sorte di queste giovani vite o l’incapacità di proteggerle non riguarda solo i Paesi più poveri, se in Europa spariscono 270 mila bambini e ragazzi l’anno, uno ogni due minuti. In Italia che pure ha attivato strutture pubbliche e private dedicate - sono oltre 18 mila i minori mai rintracciati dal 1974 a oggi, in massima parte - quasi 16 mila e 500 - stranieri e circa 1.800 italiani. I flussi migratori di giovanissimi non accompagnati, in fuga da guerre e povertà estrema, ha aggravato il quadro generale rendendo i piccoli profughi facile preda di organizzazioni criminali, che li vendono sul mercato della prostituzione, dello spaccio di droga o anche del lavoro a bassissimo prezzo, come capitato a migliaia di bambini siriani riparati in Turchia. In Europa - secondo l’Europol - si è persa la traccia di 10 mila bambini emigrati da soli.

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Collegialità e Popolo di Dio Questo assunto ha come conseguenza la considerazione della relazione che ciascun vescovo intrattiene con la propria Chiesa e simultaneamente con la Chiesa universale, un processo, che vede protagonisti il Vescovo di Roma e l’episcopato, ma anche i fedeli, in cui il raduno assembleare è la fase culminante. Nella vita della Chiesa, la stabile consultazione del Popolo di Dio, il suo maggior coinvolgimento e ascolto, danno particolare significato all’espressione di San Cipriano secondo la quale “il vescovo si trova nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo”. Si è riflettuto anche sulla sinodalità della Chiesa particolare, partendo dalle parrocchie, che rappresentano la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra; sulla sinodalità delle cosiddette istanze ecclesiali intermedie, tra le quali le Conferenze episcopali; sulla sinodalità degli organismi centrali della Chiesa, tra i quali la stessa Curia Romana.

A conclusione del Seminario di studio, dal titolo “A 50 anni dalla Apostolica Sollicitudo. Il Sinodo dei Vescovi al servizio di una Chiesa Sinodale”, la Segreteria generale dell’organismo dei presuli, che ha promosso l’evento, ha emesso un comunicato sui contenuti affrontati nei lavori dell’assise durata dal 6 al 9 febbraio 2016 e alla quale hanno partecipato numerosi docenti di ecclesiologia e di diritto canonico provenienti da diverse Università e Facoltà ecclesiastiche del mondo. Scopo dell’incontro è stato quello di approfondire il discorso che Papa Francesco ha pronunciato il 17 ottobre 2015, in occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi da parte del Beato Paolo VI. Sinodo e sinodalità Durante i lavori è emersa l’esigenza di inquadrare il Sinodo dei Vescovi nella cornice più ampia di un’ecclesiologia sinodale, in analogia con il mistero di unità della Santissima Trinità. Questa prospettiva porta a concepire l’autorità episcopale "in Synodo" come servizio al Popolo di Dio, di cui si riconosce la dignità sacerdotale fondata sul Battesimo. Quando Papa Francesco parla della sinodalità – si legge nel comunicato – come dimensione costitutiva della Chiesa, invita a concepire i vescovi come coloro che rappresentano singolarmente la propria Chiesa e collegialmente la Chiesa intera.

Papa Francesco e la sinodalità Il comunicato sui lavori del Simposio ricorda infine che il discorso, tenuto dal Papa per il 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi, è uno dei testi teologicamente più impegnativi per la Chiesa, in particolare laddove il Pontefice afferma che “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare: Popolo di Dio, Collegio episcopale, Vescovo di Roma.

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vita della chiesa

50 anni del Sinodo dei Vescovi


statistiche

Aumentano i cattolici soprattutto in Africa e Asia, calo in Europa I cattolici nel mondo sono cresciuti di circa 160 milioni di unità tra il 2005 e il 2014, arrivando a sfiorare il miliardo e 300 milioni. Calano le consacrazioni e i candidati al sacerdozio soprattutto nell’ultimo triennio, con l’Africa che registra una costante crescita di battezzati, al contrario dell’Europa, “fanalino di coda”. Sono i dati dell’ultima edizione dell’Annuario curato dall’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa, pubblicati assieme a quelli dell’Annuario Pontificio 2016. Il "Vecchio Continente" vecchio lo è davvero, frenato da un “netto invecchiamento” e da “bassi tassi di natalità”, in una parola “statico”. È il vocabolario che usano i redattori dell’Annuario statistico per spiegare come il calo demografico dell’Europa abbia dirette conseguenze sulla vita ecclesiale del continente una volta punto di riferimento anche quantitativo. Viceversa, Africa e poi Asia sono il presente e il futuro, grazie a un fermento che non conosce momenti di stanca.

questo segmento “restringendosi” mentre sono cresciuti i decessi. Importante anche il dato da cui si evince, rispetto ai diocesani, il “declino” numerico dei sacerdoti religiosi, specie in America, Europa e Oceania.

Africa, culla di nuovi battezzati I dati elaborati dagli statistici della Chiesa si basano su un arco di tempo di nove anni, dal 2005 al 2014. In questo periodo, i battezzati in Africa sono cresciuti del 40%, ovvero il doppio esatto dell’Asia (20%) e tre volte e mezzo dell’intero continente americano, che ha registrato l’11% di aumento. L’Europa, nonostante ne ospiti quasi il 23% su scala mondiale, ha visto il numero dei cattolici crescere solo del 2%. La metà totale dei cattolici del mondo continua a vivere nelle Americhe, mentre al 2014 la presenza della Chiesa in Asia si aggira attorno all’11% e quella in Oceania al 16%.

Religiose, diaconi permanenti, religiosi non sacerdoti I numeri dicono che le suore professe al 2014 erano 683 mila, i religiosi professi non sacerdoti oltre 54 mila e i diaconi permanenti 44 mila 500. È quest’ultima categoria, afferma l’Annuario, a costituire il “gruppo più forte in evoluzione” nel tempo: dai 33 mila nel 2005 ai 45 mila del 2014. E ancora più singolare è l’indicazione del continente con un notevole tasso di crescita dei diaconi permanenti, ovvero l’Europa, che assieme all’America ne conta il numero globale maggiore. “La vivace dinamica evidenziata da questi operatori – si sottolinea nell’Annuario – non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede.

Vescovi e sacerdoti Dal 2005 al 2014, i vescovi sono cresciuti globalmente dell’8%, arrivando a oltre 5 mila 200 unità. Anche qui, Asia (14,3%) e Africa (12,9%) hanno visto aumentare il numero dei pastori in misura doppia rispetto all’America e tripla rispetto a Europa e Oceania. Per quanto riguarda i sacerdoti – sia i diocesani che i religiosi – se ne contano oggi circa 416 mila. Ma ad analizzarne i trend, bisogna spezzare il periodo di riferimento in due tronconi. Dal 2005 al 2011 la loro crescita è stata progressiva, poi dal 2011 al 2014 l’aumento di fatto è stato “nullo”. Le defezioni, rileva l’Annuario, sono andate in 54

Seminaristi Anche nel caso dei candidati al sacerdozio (diocesani e religiosi), i dati sono lo specchio dei sacerdoti: aumento di consacrazioni fino al 2011 e poi “lenta e continua discesa”. In termini assoluti, i seminaristi maggiori sono oggi 117 mila e la loro diminuzione ha interessato tutti i continenti tranne l’Africa, dove invece sono aumentati del 4%. Interessante leggere il dato della “sostituibilità generazionale”, che rende evidente il dinamismo già accennato. Su 100 sacerdoti, l’Africa e l’Asia con 66 e 54 nuovi candidati mostrano una grande capacità di ricambio, mentre l’Europa registra solo 10 candidati su 100 sacerdoti, l’America 28 e l’Oceania 22.


E RV

IST L’abbraccio A Papa-Grande Imam dei cristiani nel contesto dei conflitti e delle tensioni nel Medio Oriente e della loro protezione: come? La necessità del dialogo e di evitare l’ignoranza.

Tauran: educazione chiave del dialogo Il “comune impegno delle autorità e dei fedeli delle grandi religioni per la pace nel mondo, il rifiuto della violenza e del terrorismo, la situazione dei cristiani nel contesto dei conflitti e delle tensioni nel Medio Oriente e la loro protezione”. Questi alcuni dei temi affrontati nell’udienza di Papa Francesco con lo Sceicco Ahmad Muhammad al-Tayyib, Grande Imam di Al-Azhar, ricevuto in Vaticano lunedì 23 maggio 2016. . Lo Sceicco al-Tayyib, accompagnato dalla propria delegazione, è stato accolto e introdotto al Pontefice dal presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il card. Jean-Louis Tauran, e dal segretario dello stesso dicastero, mons. Miguel Ángel Ayuso Guixot. Nel colloquio di circa 30 minuti, definito da una nota della Sala Stampa vaticana come “molto cordiale”, i due interlocutori hanno rilevato “il grande significato di questo nuovo incontro nel quadro del dialogo fra la Chiesa cattolica e l’Islam”. Il Pontefice ha donato al Grande Imam il medaglione dell’ulivo della pace e una copia della Lettera Enciclica “Laudato si’”. Dopo l’udienza con il Santo Padre, lo sceicco al-Tayyib si è intrattenuto con il card. Tauran, assieme alle delegazioni. Giada Aquilino ha intervistato il porporato al termine dell’incontro: Si è svolto in un clima di grande amicizia. Non si è parlato del passato, ma del presente e del futuro. C’è un vivo desiderio, da parte dei nostri partner, di riprendere il dialogo. E se “risusciterà” la Commissione del 1998, penso che ci sarà un’intensificazione dei contatti. Quindi è stato un bel traguardo, in un clima di grande amicizia. Devo dire che personalmente non mi aspettavo tanto.

Al-Azhar, al Cairo, è l’ateneo che forma il più alto numero di imam sunniti, si parla di migliaia all’anno: quale messaggio trasmette, secondo il mondo cristiano? La necessità di unire la buona volontà di tutti i credenti, in modo tale che non ci sia più una società dove la violenza penetra in tutti i settori della vita, ma che tutti siano consapevoli che non possiamo essere felici gli uni senza gli altri e mai gli uni contro gli altri. In questi anni si corre il rischio di un deterioramento dei rapporti interreligiosi a causa delle brutalità commesse dal sedicente Stato Islamico e dell’estremismo islamico? La prima cosa alla quale dobbiamo porre rimedio è l’ignoranza; perché molti cristiani temono i musulmani, ma non li hanno mai incontrati e mai hanno aperto il Corano. E la stessa cosa per quanto riguarda la parte musulmana, che non hai mai preso abbastanza consapevolezza del contenuto del Vangelo. Questa situazione così contrastata è anche un appello ai credenti ad essere sempre più coerenti con la propria religione. Cosa è cambiato tra le due religioni rispetto agli ultimi anni? Il terrorismo ha indebolito molto i nostri sforzi: questo non si può negare. Però c’è anche la consapevolezza dell’importanza della cultura e dell’educazione: forse questa è la chiave per il futuro.

Si è parlato del comune impegno delle autorità e dei fedeli delle grandi religioni per la pace nel mondo, del rifiuto della violenza e del terrorismo … Certo, delle cose che abbiamo in comune. Siamo stati consapevoli che il nostro incontro sia un messaggio per i musulmani e i cristiani e specialmente quelli del Medio Oriente.

Nei colloqui si è parlato di Ratisbona? No, assolutamente. Non si è parlato del passato. Questa è la volontà comune: ripartire e cominciare un nuovo capitolo. Quale cammino c’è davanti? La possibilità di far rivivere la Commissione del 1998, in modo da approdare sempre ad un canale

Si è parlato, a tal proposito, anche della situazione

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dialogo interreligioso

INT


aperto, dove far convergere informazioni, iniziative, ecc. Quindi una cosa molto concreta. La sua speranza? Che la buona volontà e il buon senso prevalgano sulla brutalità e il terrore.

Il commento dei teologi Sull’importanza dell’incontro tra Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, nel quadro del dialogo fra la Chiesa cattolica e l’Islam, Fabio Colagrande ha intervistato la teologa islamica iraniana, Shahrzad Houshmand, docente di Studi islamici presso la Pontificia Università Gregoriana e di Lingua e letteratura persiana all’Università La Sapienza di Roma, e don Andrea Pacini, docente di Teologia delle religioni presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e consultore della Commissione per i Rapporti religiosi con i musulmani, presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso: Voglio ritornare a un altro Francesco: San Francesco d’Assisi che, in un momento difficile della storia, si recò in Egitto per avere dei colloqui con grandi mistici. Vedo un momento storico anche in quest’altro incontro tra il Francesco del nostro tempo e un imam che rappresenta una figura molto importante per quasi un miliardo di musulmani nel mondo, il quale ha accettato l’accoglienza, la misericordia e un invito paterno di una figura religiosa, autentica, come Papa Francesco. È venuto a Roma per parlare della pace, per costruire e per aiutare gli stessi musulmani a rivedere, a riformulare e a scartare ciò che non appar-

tiene alla cultura pacifica del Corano, a un Dio che viene nominato all’inizio di ogni suo capitolo: “Nel nome di Dio pienezza di amore e misericordia”. Allora, è un momento di grande speranza per milioni di musulmani e anche per i cristiani che soffrono in quelle terre. Vorrei comunque specificare che coloro che soffrono oggi più di tutti sono veramente i musulmani, sia in Africa sia Medio Oriente. Speriamo che questo incontro fraterno porti frutto ai cuori assetati di pace. Don Andrea Pacini, il suo commento sull’importanza di questo incontro … È senz’altro un incontro molto significativo. Al-Tayyib – in quanto massimo responsabile di un’istituzione non solo religiosa ma anche culturale, universitaria – potrà veramente giocare un ruolo fondamentale per reimpostare il dialogo tra Islam e cultura, tra i tanti islam esistenti all’interno della grande fede islamica, cioè tante correnti che spesso non hanno potuto vivere anche nell’epoca più recente un dialogo fecondo tra loro. Dal momento che un’istituzione culturale come Al-Azhar ha anche la possibilità di influenzare positivamente tutta una serie di articolazioni di insegnamento, non solo universitario ma anche superiore, questo può voler dire davvero riuscire a incidere, affinché una rinnovata interpretazione dell’islam con la modernità – aperta al dialogo con le altre fedi – possa non rimanere solo appannaggio di pochi centri specialistici ma, davvero, diventare materia di insegnamento e di processi educativi all’interno del mondo musulmano e non solo.

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Sguardi sul mondo EU 201 6 R OP L’Europa A di Papa Francesco Nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, venerdì, 6 maggio 2016, è stato conferito a Papa Francesco il Premio Carlo Magno alla presenza della più alte autorità del Parlamento dell’Unione Europea che hanno rivolto al Papa parole di ringraziamento per la sua azione in favore del vecchio continente. Papa Francesco ha risposto con un discorso proiettato sul futuro dell’Europa legando il presente con il passato e con le radici comuni dei popoli europei.

V

i porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringra- nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra senzio per la vostra presenza. Sono grato in par- tire meno proprie le mura della casa comune, talvolta ticolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architetLinden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald tato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auche la rassegnazione e la stanchezza spicare insieme uno slancio nuovo e non appartengono all’anima delcoraggioso per questo amato HA DETTO l’Europa e che anche «le difContinente. “Con la mente e con il cuore, con speranza ficoltà possono diventare La creatività, l’ingegno, la e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, promotrici potenti di capacità di rialzarsi e di sogno un nuovo umanesimo europeo, ‘un costante unità»[2]. uscire dai propri limiti apcammino di umanizzazione’, cui servono ‘memoria, Nel Parlamento europeo partengono all’anima coraggio, sana e umana utopia’”. mi sono permesso di pardell’Europa. Nel secolo Papa Francesco lare di Europa nonna. Dicevo scorso, essa ha testimoniato Conferimento Premio Carlo Magno 6 maggio 2016 agli Eurodeputati che da diverse all’umanità che un nuovo inizio parti cresceva l’impressione generale era possibile: dopo anni di tragici scondi un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti tale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estin- sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel duta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dogettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un minare spazi più che generare processi di inclusione e edificio costruito da Stati che non si sono uniti per im- trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” inposizione, ma per la libera scelta del bene comune, ri- vece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo namismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi edificare la sua casa. Questa «famiglia di popoli»[1], lodevolmente diventata attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti 58


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sguardi sul mondo

A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni. Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»[3]. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quellasolidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»[4]. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi

storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223). Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli? Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).


Martin Schulz Presidente del Parlamento europeo Il premio Carlo Magno è un premio dei cittadini istituito dagli abitanti di Aquisgrana, città che si trova nella regione dove sono nato, al confine tra la Germania, i Paesi Bassi e il Belgio. In quell’epoca il nostro continente, devastato e segnato dalla guerra, era ridotto a un cumulo di macerie. Eppure, i cittadini di Aquisgrana hanno deciso di istituire il premio Carlo Magno per promuovere il processo di unificazione pacifica dell’Europa. Il fatto che oggi Jean-Claude Juncker, Donald Tusk ed io – Presidenti delle tre istituzioni dell’Unione e vincitori del premio Carlo Magno – siamo qui riuniti per renderle omaggio dimostra quanto forte sia il nostro sentimento di vicinanza allo spirito dei cittadini di Aquisgrana. L’ Europa sta attraversando un periodo travagliato e si trova ad

affrontare quella che potrebbe essere una prova decisiva per la sua unità. Mai come ora l’Europa ha bisogno di cittadini coraggiosi che si adoperino per l’unificazione europea, di persone che scuotano le nostre coscienze e ci ricordino ciò che è veramente importante: la pace, la solidarietà e il rispetto reciproco – la necessità di rafforzare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. È proprio per questo messaggio che oggi Papa Francesco viene insignito del premio Carlo Magno. Voglia gradire, Sua Santità, le mie più sentite congratulazioni. Argentino, figlio di immigrati italiani, dall’atteggiamento umile e caloroso che riesce a conquistare le simpatie di persone di ogni credo e religione, questo è un Papa che guarda all’Europa dall'esterno in maniera ge-

nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»[5]. Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare. Capacità di integrare Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e

nuina. Quando afferma che l’Europa che guarda e difende e tutela l'uomo è un prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità”, Sua Santità ci rinvia ai nostri valori europei e dunque a noi stessi: allo spirito umanistico europeo. In Europa abbiamo fatto nostro l'impegno a favore della dignità umana abbandonando consapevolmente il totalitarismo, che nella prima metà del XX secolo ha portato gli uomini a infliggersi l’un l’altro pene inimmaginabili, a ridurre in cenere le loro case e a smembrare le loro famiglie, a imprigionare, torturare e uccidere altri uomini. È stato da questa pagina così nera della storia dell’uomo che nella seconda metà del XX secolo ha visto la luce, dapprima nell’Europa occidentale, un controprogetto straordinario: la democrazia, lo Stato di diritto, la libertà di opinione e la cooperazione fra popoli oltre le frontiere. L’ integrazione europea si fonda sulla

tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità. Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale. L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale. 60


la caduta della cortina di ferro alcuni vogliono costruire in Europa nuovi muri e recinzioni, mettendo quindi a repentaglio una delle più grandi conquiste europee – la libertà di circolazione. Le persone che fuggono dalla brutalità dello Stato islamico o dalle bombe di Assad non si fermeranno certo di fronte a muri o fili spinati. Chi afferma che gli Stati nazionali riuscirebbero a risolvere meglio da soli il problema nega la realtà. Come se noi europei fossimo in grado di affermarci e di diffondere il nostro straordinario modello di società in un mondo sempre più globalizzato e connesso mentre il nostro continente si scompone in singoli pezzi. Signore e Signori, desidero dirlo chiaramente: l’Europa sta attraversando una crisi di solidarietà e i valori comuni su cui si fonda stanno vacillando. È pertanto giunto il momento di lottare per l’Europa. Tutti gli europei sono chiamati a mobilitarsi a favore dell’Europa.

Papa Francesco ci dà motivo di sperare nella nostra riuscita quando afferma che “le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità”. Durante la sua visita a Lesbo egli ha concesso protezione in Vaticano a tre famiglie siriane, dimostrandoci – soprattutto ai capi di governo che si rifiutano di accogliere profughi musulmani nel loro paese cristiano – cosa sono la solidarietà e l’umanità. E quando vedo le decine di migliaia o forse centinaia di migliaia di volontari che a Lesbo, Lampedusa, Monaco e in altre località offrono cibo e acqua, vestiti e coperte a uomini, donne e bambini che fuggono dalla guerra alla volta dell’Europa in cerca di protezione, non ho motivo di angosciarmi per il futuro dell’Europa. Perché queste persone incarnano i valori europei di giustizia, solidarietà e rispetto della dignità umana e mostrano ai rifugiati e al mondo intero il volto di una Europa umana.

che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.

In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»[6]. Capacità di dialogo Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido;

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consapevolezza che quando in passato ci siamo combattuti ci sono state tragiche conseguenze per tutti, mentre quando siamo rimasti uniti tutti ne hanno tratto beneficio. Tuttavia, oggi rischiamo di dissipare questa eredità, in quanto le forze centrifughe delle crisi tendono a dividerci piuttosto che a unirci più strettamente. Gli egoismi nazionali, la rinazionalizzazione e il particolarismo nazionale si stanno espandendo. Non vi è dubbio che per quanto riguarda la questione dei profughi l'Europa si trovi di fronte a una sfida epocale. Era dalla Seconda guerra mondiale che non vedevamo così tante persone in fuga in tutto il mondo. Eppure i populisti approfittano della situazione fomentando le paure invece di cercare una soluzione. La paura è comprensibile ma, in politica, è cattiva consigliera. Dimenticando completamente la storia, 25 anni dopo


I discorsi dei leader europei Lanciare un segnale a favore dei fondamenti morali e dei valori umani dell’Europa, continente in cui fiducia rispetto e misericordia non devono andare persi. E’ per questo che siamo qui oggi. Così il sindaco di Aquisgrana, Marcel Philipp, aprendo la cerimonia di consegna del Premio Carlo Magno al Papa, il Pontefice della “speranza“ come lo ha salutato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Nelle sue parole, come in quelle dei leader del Parlamento e della Commissione, la consapevolezza della crisi in Europa ma anche la fiducia nella forza collaborativa tenendo presente il richiamo del Papa allo spirito umanistico europeo. La situazione in Europa oggi è particolarmente difficile: preoccupano la spinta di ri-nazionalizzazione, l’erosione del fondamento culturale e morale, la mancanza di solidarietà e la strumentalizzazione delle religioni. Sembra che le conquiste del processo unitario siano difficili da conservare e difendere e si scopre che la globalizzazione ha il volto di migliaia di esseri umani che bussano alle porte dell’Unione. E’ il quadro che emerge a grandi linee dalle parole di tutti i leader europei che di fronte al Papa, si domandano, ce la faremo? Siamo sufficientemente forti, uniti, umani? A cosa guardare? Richiama al principio di umanità e all’attenzione alle persone, il sindaco di Aquisgrana Marcel Philipp, mentre Martin Schulz sottolinea la necessità di rafforzare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide, rifiutando la paura, cattiva consigliera della politica. Il presidente del Parlamento europeo si rivolge al Papa, come fa il leader della Commissione Junker. Francesco, “argentino, figlio di immigrati, dall’atteggiamento umile e caloroso”, dicono, guarda “all’Europa dall’esterno”, in “maniera genuina” e ci dà motivo di sperare quando afferma che “le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità”. Andando a Lesbo ci ha mostrato “cosa sono solidarietà e umanità”, incontrando i giovani di Sarajevo ci ha esortati a ”non chiudere gli occhi alle difficoltà”, nella Laudato si’ ci ha ricordato che il futuro è “impensabile separato dalla cura dell’ambiente e dallo sguardo alle sofferenze degli ultimi” e che la vocazione dell’Europa è “l’opera di pacificazione” perché tutto il ”mondo sia più stabile”. Forti di questi moniti, all’unanimità, i leader ribadiscono il no ai muri e alla chiusure, il sì all’uomo. E’ il momento di lottare per l’Europa, dicono, “uniamo energie cuori e talenti per affrontare le molteplici crisi odierne” e facciamo vivere in Europa lo “spirito dell’amore e della libertà” perché non sia solo un’unione istituzionale. Infine, Juncker ha annunciato la nomina di Jan Figel, ex commissario responsabile per l'Istruzione, la formazione, la cultura e la gioventù, a primo inviato speciale per la promozione della libertà di religione e di credo al di fuori dell'Unione europea. "La libertà di religione e credo - ha affermato Juncker – è un diritto fondamentale alla base della costruzione dell'Unione Europea. Alla luce delle persecuzioni che continuano a colpire le minoranze etniche e religiose, è ancor più importante proteggere e promuovere questo diritto dentro e fuori l'Unione”.

Capacità di generare Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale. In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno. Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro

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una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”[8]» (Enc. Laudato si’, 127). Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».[9]Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente. Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio,

terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori? «La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».[7] Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani. Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione. Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di

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Sogno un nuovo umanesimo europeo Sogno un’Europa madre di nuove vite, che non consideri “delitto” un migrante”, che non scarti poveri, anziani e malati, che non pensi ai suoi cittadini come a numeri ma guardi i loro “volti”. In definitiva, a un’Europa “famiglia di popoli”. Con un discorso ampio e incisivo Papa Francesco è tornato a parlare del Vecchio Continente nel giorno in cui le sue massime autorità sono giunte in Vaticano per conferirgli il “Premio Carlo Magno”, onorificenza assegnata a chi si distingue per impegno in favore della pace e dell’integrazione in Europa. Prima di incontrare i suoi ospiti nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, il Papa ha ricevuto assieme il presidente del Parlamento europeo, Martin Shultz, il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e il presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker. Subito dopo si è intrattenuto anche con la cancelliera tedesca, Angela Merkel.


Leader Ue: incoraggiati nel progetto dell'Europa Dal Papa abbiamo ricevuto un chiaro messaggio a salvaguardare l’integrità europea. Così la cancelliera tedesca, Angela Merkel, al termine dell’udienza privata avuta col Pontefice in occasione della consegna del Premio Carlo Magno. Una cerimonia che ha impressionato i tre leader dell’Ue presenti, che ai giornalisti in conferenza stampa hanno detto di essersi sentiti incoraggiati dal Papa e di voler diffondere in tutte le capitali del Vecchio continente il discorso di Francesco per questa occasione. Venticinque minuti in un clima cordiale, al centro, integrazione e futuro dell'Europa. Questa l’udienza privata del Papa ad Angela Merkel, la quale sottolinea di aver sentito fortemente l’esortazione al mandato di salvaguardare l'integrità europea, che si tratti di moneta o di tutela dei confini esterni, e il dovere umanitario da non dimenticare. Dialogo, integrazione e una sorta di "creatività", i tre pilastri di una società europea dal volto umano, indicati dal Papa, hanno impressionato i presidenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione Ue. Così, dicono ai giornalisti in conferenza stampa, subito dopo la cerimonia. "Mi ha colpito in particolare la preoccupazione del Pontefice per la coesione europea e per la minaccia ad essa più grave, cioè la disoccupazione giovanile", dice Martin Schulz, che ai populisti dell' Ue rimanda la responsabilità di metter in forse il futuro dell’Unione e attribuisce "cinismo" ai governi che rifiutano i profughi scaricando il problema sulla Germania. "Sono proprio loro", dice Schulz, che, "più di tutti, dovrebbero leggere il discorso del Papa". Di tanti "europei a tempo parziale" parla invece Jean Claude Junker, che plaude al migration compact dell’Italia, pur senza entrare nel merito della questione finanziamenti, e sul cambio ai vertici del governo turco, saluta il premier Davutoglu come partner affidabile, ma non semplice, auspicando un futuro di altrettanta costruttiva collaborazione.

sana e umana utopia»[10]. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie. ________________________________________ [1] Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014. [2] Ibid. [3] Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi. [4] Ibid. [5] Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.

[6] Discorso all'Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952. [7] Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015. [8] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666. [9] Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015. [10] Discorso al Consiglio d'Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014. 64


da Roma

GIANFRANCO GRIECO Gli ospiti erano illustri Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker,e Donald Tusk, la frau Merkel, il presidente Renzi nella sala regia del palazzo apostolico. Con loro, erano tanti altri impegnati nel campo della politica e dell’economia. Era il 6 maggio 2016. L’occasione, il conferimento del prestigioso Premio Carlo Magno per l’Europa, di cui Papa Francesco veniva onorato.“Non compiamo un gesto celebrativoavvertiva subito-; ma- aggiungeva- “ cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente”. A Papa Francesco questa <Europa 2016> piace poco. Per questo, nel corso della cerimonia-premio, ci teneva di ridare alcune idee-guida capaci di disegnare un volto nuovo alla famiglia delle nazioni europee. I padri fondatori del progetto europeo – avvertiva ancora- “gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa”. E si chiedeva:” Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?” Citava lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, che raccomandava una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. “La memoria – rimarcava - non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato e ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana». I padri fondatori dell’Europa “seppero

STEPINAC PRIMA E DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE Nei giorni 12-13 luglio si è tenuta in Vaticano la prima riunione della Commissione mista di esperti croati e serbi incaricata di procedere ad una rilettura in comune della vita del Beato Cardinale Alojzije Stepinac prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Tale Commissione è stata creata su iniziativa del Santo Padre, dopo vari incontri e consultazioni tra rappresentanti della Santa Sede, della Chiesa Ortodossa Serba e della Conferenza Episcopale Croata, per rispondere all’esigenza di chiarire alcune questioni della storia. La Commissione è incaricata di svolgere un lavoro scientifico, seguendo la metodologia delle scienze storiche, basata sulla documentazione a disposizione e la sua contestualizzazione. Essa non interferirà sul processo di canonizzazione del Beato Cardinale Alojzije Stepinac, che è di stretta competenza della Santa Sede. Si prevede una serie di incontri che dovrebbero concludersi nell’arco di 12 mesi. La Commissione risulta così composta: Presidenza di “patrocinio” della Santa Sede: Rev.mo P. Bernard Ardura, o. praem., Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Membri della Chiesa Cattolica di Croazia: S. Em. Card. Josip Bozanić, Arcivescovo di Zagabria; S.E. Mons. Ratko Perić, Vescovo di Mostar-Duvno; S.E. Mons. Antun Škorčević, Vescovo di Požega; Dr. Jure Krišto, Istituto Croato per la Storia; Dr. Mario Jareb, Comitato Croato di Scienze Storiche. Membri della Chiesa Ortodossa Serba: S. Em. Amfilohije, Metropolita del Montenegro e del Litorale; S. Em. Porfirije, Metropolita di Zagabria e Lubiana; S.E. Irinej, Vescovo di Novi Sad e di Bačka; S.E. Jovan, Vescovo della Slavonia; S.E. Prof. Darko Tanasković, Ambasciatore, Delegato Permanente della Repubblica di Serbia presso l’UNESCO. La prossima riunione si terrà a Zagabria nei giorni 17-18 ottobre 2016. cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni”.

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sguardi sul mondo

Le tre capacità da promuovere


E citava Robert Schuman, che parlava di solidarietà di fatto e di generosità concreta e in seguito al secondo conflitto mondiale. Citava poi Alcide De Gasperi che si preoccupava del “bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa». Ed ancora, le parole profetiche di Konrad Adenauer : «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io». Guardando come un profeta al futuro, indicava tre vie da percorrere: la via dell’integrazione, quella del dialogo e la capacità di generare. Capacità di integrare – Citava Erich Przywara, Papa Francesco, il quale nella sua magnifica opera L’idea di Europa, “ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli – sottolineava- conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità”. Capacità di dialogo- Raccomandava Papa Francesco:” Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere ‘una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro ’, portando avanti ‘la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni’» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). Capacità di generare – “Il dialogo e tutto ciò che esso comporta – rimarcava- ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal

Dolore e orrore per l’attacco alla Chiesa in Francia Dolore e orrore di Papa Francesco per quanto accaduto il 26 luglio mattina in Francia. Un anziano sacerdote abbé Jacques Hamel di 86 anni e un fedele sono stati sgozzati da due giovani musulmani armati di coltello nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray a Rouen in Normandia. In un telegramma a firma del cardinal segretario di Stato Pietro Parolin, inviato all’arcivescovo Rouen, mons. Dominique Lebrun, il Papa si dice "sconvolto da questo atto di violenza" compiuto nel corso di una Messa, che è "azione liturgica che implora da Dio la sua pace per il mondo", e prega il Signore "di ispirare a tutti pensieri di riconciliazione e fraternità in questa nuova prova". "E’ una nuova notizia terribile, che si aggiunge purtroppo ad una serie di violenze che in questi giorni ci hanno già sconvolto, creando immenso dolore e preoccupazione - ha detto padre Lombardi -. Seguiamo la situazione e attendiamo ulteriori informazioni per comprendere meglio ciò che è avvenuto. Il Papa è informato e partecipa al dolore e all’orrore per questa violenza assurda, con la condanna più radicale di ogni forma di odio e la preghiera per le persone colpite. Siamo particolarmente colpiti perché questa violenza orribile è avvenuta in una chiesa, un luogo sacro in cui si annuncia l’amore di Dio, con la barbara uccisione di un sacerdote e il coinvolgimento dei fedeli. Siamo vicini alla Chiesa in Francia, alla Arcidiocesi di Rouen, alla comunità colpita, al popolo francese". Da parte sua, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha manifestato la sua partecipazione alla “grande prova che la comunità cattolica della Francia vive oggi” ed esprime “la sua comunione spirituale e la sua solidarietà nella speranza”. più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale. In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno”. Questa, è l’Europa che sogna Papa Francesco. Bisogna dargli una mano, per renderla concreta ed operativa. 66


“La riflessione sul processo europeo porta Papa Francesco a lanciare la sfida di aggiornare l’idea di Europa”. E’ uno dei passaggi dell’articolo pubblicato da padre Antonio Spadaro sul numero…. di Civiltà Cattolica. Nell’articolo, dal titolo “Lo sguardo di Magellano”, il direttore della rivista dei gesuiti si sofferma sul sogno europeo di Francesco, alla luce del discorso pronunciato dal Pontefice in occasione della consegna del Premio Carlo Magno. Alessandro Gisotti ha chiesto a padre Spadaro cosa significhi lo “sguardo di Magellano” con cui il Papa latinoamericano guarda all’Europa: Papa Francesco ci ha abituati a guardare al centro dalle periferie. Questo significa che la realtà, il cuore delle cose lo si percepisce realmente se si avverte il battito del sangue proprio nella circolazione periferica. Noi abbiamo visto come Papa Francesco ha iniziato i suoi viaggi europei da Lampedusa, che è stato il primo grande viaggio europeo, più che italiano; e poi, al di là della cronologia, ha proseguito circondando i confini dell’Europa, quindi Lesbo, Istanbul, Sarajevo, poi andrà a Lund … In qualche modo è come se Papa Francesco stesse circumnavigando l’Europa per coglierne il cuore profondo. Papa Francesco è stato, tra l’altro, anche a Tirana, e da qui è rimbalzato a Strasburgo: è molto interessante, questo. Cioè il Papa ha raggiunto il cuore delle istituzioni europee guardando da un Paese che ancora deve entrare nell’Unione Europea e un Paese a maggioranza musulmana. Quindi, “lo sguardo di Magellano” – che è un’espressione proprio di Francesco – è uno sguardo che guarda all’Europa dal punto di vista di un esploratore. C’è un rinnovamento, un aggiornamento dell’idea che l’Europa ha di se stessa, che Francesco sta proponendo? Sì: Papa Francesco ha detto più volte che il tempo è superiore allo spazio. Allora, la sua visione è legata al divenire, al superamento dialettico di muri e ostacoli che avviene nel tempo. Per Papa Francesco, l’Europa non è una cosa, è un processo tuttora in atto all’interno di un mondo molto complesso e fortemente in movimento. Papa Francesco ha notato come i grandi Padri dell’Europa, che ha citato nel suo discorso per il Premio Carlo Magno, hanno articolato un progetto illuminato che è “work in progress”, che si sta compiendo. L’Europa è tentata di voler assicurare e dominare spazi, più che generare processi di inclusione e di trasformazione. Ma in questo modo, considerando se stessa come spazio da proteggere, andrà sempre più trincerandosi; invece deve accettare questo movimento nel tempo, questo processo che rende l’Europa se stessa, quella che è sempre stata, cioè un processo di integrazione di culture, di prospettive, di modi di vita. Nella recente intervista a “La Croix” in cui il Papa ha parlato molto dell’Europa, ha sottolineato che il dovere del cristianesimo per l’Europa, appunto, è il servizio. Come si declina oggi questo richiamo? Il Papa ha parlato delle radici cristiane dell’Europa, ma riconosce queste radici in un gesto: il gesto della lavanda dei piedi. Tutto sommato, qui si coglie il senso profondo del cristianesimo che non è la conquista del potere o mettersi, costituirsi in un partito, perché il momento in cui il cristiano si costruisce come una parte dentro il tutto, si mette in contrasto con altri, quindi individua un nemico. Qui il compito del cristianesimo oggi non è individuare i propri nemici, ma essere di servizio a questa umanità. Il Papa attinge al pensiero di un grande gesuita, filosofo e teologo Przywara, un tedesco di origine polacca – che ha citato esplicitamente sia nel suo discorso per il Premio Carlo Magno, sia nell’intervista a “La Croix”. 67

sguardi sul mondo

Padre Spadaro: l’Europa di Francesco, inclusiva e in movimento


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Barbarie contro Dio e contro l’umanità

Papa Francesco ha espresso profondo dolore per la strage compiuta venerdì 1 luglio a Dacca, capitale del Bangladesh. In un messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, parla di “violenza insensata perpetrata contro vittime innocenti”, un atto di “barbarie” contro Dio e l’umanità. Quindi, affida i morti alla misericordia di Dio e assicura le proprie preghiere alle famiglie delle vittime e ai feriti. L’attacco è stato rivendicato dal sedicente Stato islamico. I morti sono stati 23, 9 dei quali italiani e 7 giapponesi. Tra loro una giovane incinta. 13 gli ostaggi liberati. Le vittime sarebbero state sgozzate: torturati coloro che non sapevano recitare a memoria versetti del Corano, stando al racconto dei superstiti. Il presidente del Consiglio Renzi ha parlato così alla stampa. “L’Italia non arretra davanti alla follia di chi vuole disintegrare la vita quotidiana”, ha detto Renzi citando anche l’attentato in Tunisia e parlando di “stessa scia di sangue”. Queste le sue parole: “Noi abbiamo il dovere di rispondere con ancora più decisione e determinazione in difesa dei nostri valori, di cui siamo orgogliosi e siamo fieri: il valore della libertà, del confronto; i nostri valori sono più forti delle loro fobie”. Per un commento su questo nuovo atto terroristico, Giancarlo La Vella ha intervistato Stefano Silvestri, già presidente dell'Istituto Affari Internazionali: Diciamo che, in questo caso, c’è in più la presa di ostaggi che, in qualche maniera, riporta a situazioni classiche del terrorismo, a cui non eravamo quasi più abituati. Lo Stato islamico sta mettendo in atto azioni del genere, perché sul terreno iracheno e siriano sta invece perdendo posizioni? Sì, anche se certamente l’Is favorisce queste cose, le rivendica, ma io non so se ci sia una direzione centralizzata molto forte. In realtà, è più un invito ad agire per agire ogniqualvolta si può, in maniera tale da mantenere alta la tensione e l’immagine di uno Stato Islamico che non si arrende.

Ma perché la strategia del terrore questa volta ha colpito il Bangladesh? Manuela Campanile lo ha chiesto a padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia Asia News: C’è senz’altro il tentativo da parte del sedicente Stato islamico di aprire nuovi fronti e soprattutto di aumentare la militanza. I Paesi occidentali vanno in Bangladesh e investono, perché c’è una grande manodopera a basso costo; e questa fa gola anche all’Is. Per cui, l’Is va in Bangladesh per trovare nuovi militanti e nuovi fronti di attacco. Quindi non una strategia del terrore fondata sull’emotività, ma una teoria scientifica … Purtroppo, in Bangladesh stanno crescendo da diversi decenni le scuole islamiche di tipo fondamentalista: fino a 75mila. Nella mancanza di una struttura e di una proposta educativa da parte del governo, perché troppo povero, queste scuole islamiche finanziate dai Paesi del Golfo, ed in particolare dall’Arabia Saudita, hanno fatto crescere una generazione che vede l’Islam come in pericolo; gli atei come dei nemici; e le altre religioni come da distruggere. E quindi è un processo che non distrugge ancora il carattere gioviale e amichevole dell’Islam del Bangladesh, però mette dentro alcune linee di tensione che adesso stanno scoppiando. 68


Alle nazioni confinanti La nostra nazione è stata colonizzata dal Giappone e dopo la II Guerra mondiale è stato divisa senza che venisse interrogata la nostra volontà. A causa di questo trattamento abbiamo subito dolori e ferite per decine di anni. Al contrario la Germania, dopo aver perso la guerra, è stata sì divisa come la Corea, però sta festeggiando il 26mo anniversario dell’unificazione nazionale. È chiaro che il problema della Corea non è un problema della nostra razza - osservato i presuli sudcoreani - ma è collegato con le nazioni che la circondano. Speriamo che vogliate riaprire i “Colloqui a sei sul disarmo nucleare”. Ci appelliamo a tutti voi: riconoscete che la pace della Corea contribuirà alla pace nell’Asia del Nord-Est e partecipate in maniera positiva al nostro viaggio verso la pace.

Un appello ai governanti di Seoul e Pyongyang, alle nazioni che confinano con la Corea e al popolo, affinché si torni subito sul sentiero della pace e si dia alla penisola il potere di auto-determinare il proprio futuro. Lo firmano due vescovi cattolici – mons. Lazzaro You Heungsik e mons. Pietro Lee Ki-heon – che guidano le commissioni episcopali per la Giustizia e la pace e per la Riconciliazione del popolo coreano. I due presuli hanno celebrato insieme una Messa sul confine, nella diocesi di Uijeongbu, e hanno poi presentato l’appello. Le ferite di un conflitto che provocano nuove tensioni e problemi sociali Per 60 anni - scrivono i vescovi - abbiamo vissuto un armistizio, che non è la fine della guerra, e portiamo ancora addosso le ferite di questo conflitto nella nostra società. Queste a loro volta provocano nuove tensioni e nuovi problemi sociali. Se dovesse esplodere ancora una volta la guerra in Corea, con le nuove e potentissime armi a disposizione, il Sud e il Nord non potrebbero sopravvivere. Il Papa Pio XII ha detto che la pace non fa perdere nulla mentre la guerra fa perdere tutto. Perciò, affinché la Corea possa trovare la pace, la Chiesa cattolica coreana lancia tre appelli.

Al popolo della Corea e ai cristiani La pace vera è possibile solo attraverso il perdono e la riconciliazione (cfr. S. Giovanni Paolo II, XXXII Giornata Mondiale della Pace). Dobbiamo allontanarci dal pensiero della guerra fredda, che ci porta alla rovina scrivono i vescovi - e aprire un nuovo periodo per le generazioni future. Lasciamo il campo consunto delle ideologie, accettiamo la varietà nell’ordine della fondazione democratica, e troviamo la strada della pace sul sentiero della verità e della giustizia. Gesù ha detto ai suoi apostoli, prima della sofferenza e della morte sulla Croce: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.” (Gv 14,27). La pace che il nostro Signore ci ha promesso non è mai la situazione incerta e costrittiva che viene dalla forza delle armi. La pace che il Signore ci chiede è la pace della tolleranza e della convivenza sulla base della giustizia di Dio e dell’amore di Dio.

Ai governanti di Nord e Sud Fermatevi, per favore! La situazione sembra non avere fine ma cercate, per favore, la via della forza e della sapienza per la pace! La sicurezza nazionale che sottolineate entrambi è la sicurezza dei popoli. Secondo questa interpretazione, dunque, la sicurezza migliore dovrebbe essere la sicurezza per entrambi. Per diventare simboli della pace e non del conflitto, in Corea si dovrebbero svolgere incontri, conversazioni, scambi e collaborazioni tra il Sud e il Nord. Per ottenere queste cose, però - sottolineano i vescovi - si dovrebbero rispettare le dichiarazioni e gli accordi che nonostante le difficoltà i due lati hanno già contratto. Questi vanno mantenuti e poi sviluppati. Si deve ripensare alla chiusura della zona industriale di Kaesong, che è il segno dello scambio, della collaborazione, dell’unificazione e della pace tra il Sud e il Nord. Non dobbiamo dimenticare che l’unificazione della Corea che tutti vogliamo è il frutto che nasce dalla pace.

Il primo dovere è la preghiera Attraverso la preghiera, la Chiesa partecipa all’impegno per la pace. Con la preghiera dobbiamo trovare la volontà di Dio e chiedere l’aiuto del Signore. In un periodo come quello attuale, in cui il Paese ha tante difficoltà, dobbiamo far ripartire il movimento di preghiera che

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sguardi sul mondo

Corea Al confine con il Nord un appello di pace


tante volte ha già salvato la Corea. Gli scambi e le collaborazioni tra il Sud e il Nord sono un “dovere dell’amore” per noi fedeli, che non possiamo rifiutare. Se con la forza delle preghiere - conclude l'appello dei ve-

scovi sudcoreani - anche la misericordia del Signore solidarizziamo insieme e agiamo e anche conseguiamo, potrà realizzare “la tua volontà, come in cielo così in terra.”

India: Chiesa piange mons. D’Souza, primo figlio spirituale di Madre Teresa La Chiesa indiana piange mons. Henry Sebastian D’Souza, arcivescovo emerito che ha guidato Calcutta dal 1986 al 2002 sostenendo da vicino la missione di Madre Teresa. Il presule, 90 anni, è morto il 27 giugno nella Vianney Home della capitale indiana. I suoi funerali riporta l'agenzia AsiaNews - si sono svolti nella chiesa di san Tommaso. In diverse occasioni si era definito “primo figlio spirituale” della fondatrice delle Missionarie della Carità. Ha portato avanti il processo di beatificazione di Madre Teresa Noto per aver “rivoluzionato” lo scenario educativo dell’arcidiocesi, mons. D’Souza è stato sempre un grande sostenitore della futura santa albanese di cui aveva portato avanti il processo di beatificazione. Dopo l’annuncio della canonizzazione, aveva dichiarato ad AsiaNews: “Sono contentissimo che il Santo Padre abbia approvato il secondo miracolo di Madre Teresa. Madre Teresa mi ha sempre detto che lei era la mia mamma e continua questa sua materna prote-

zione per me e per l’umanità intera ancora adesso”. Aveva raccontato la vita ordinaria e l’amore straordinario di Madre Teresa In un altro intervento, sempre su AsiaNews, aveva raccontato da vicino la “vita ordinaria e l’amore straordinario” della Madre, sottolineando gli inizi semplici della missione per “i più poveri fra i poveri” e soprattutto il totale abbandono della religiosa al volere di Dio. Era stato vescovo nella zona teatro di violentissimi pogrom anti-cristiani Il compianto presule, prima di arrivare alla guida di Calcutta, era stato il primo arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar: questa zona è stata teatro di violentissimi pogrom anti-cristiani. Parlando della testimonianza dei fedeli locali, ne aveva lodato il valore: “I nostri cristiani sono morti per la fede, e questo respinge tutte le accuse secondo le quali i convertiti scelgono la Chiesa per motivi economici. La loro forza e il loro zelo, il coraggio per la fede sono una testimonianza ispiratrice che dimostra l’amore per Gesù Cristo”.

Inaugurato santuario dedicato a sant’Antonio di Padova INDIA. Nella diocesi di Pune - Stato del Maharashtra- è stato ha inaugurato il nuovo santuario dedicato a Sant’Antonio di Padova. A presiedere la celebrazione è stato mons. Thomas Dabre, vescovo della diocesi. Ad AsiaNews il presule ha confidato: “Ci siamo cimentati nell’impresa per rispondere alla devozione spontanea dei fedeli cristiani e delle altre confessioni. Partendo dalla cappella esistente, ne abbiamo ampliato la struttura e assegnato lo status di santuario diocesano. Siamo grati a tutti coloro che ci hanno offerto sostegno spirituale e materiale" per questo nuovo santuario che è un "monumento nell’Anno della misericordia”. Struttura in grado di accogliere 200 fedeli La costruzione del luogo di preghiera nasce dalla sollecitazione di mons. Salvatore Pennacchio, nunzio apostolico in India, che nel settembre 2012 pose la prima pietra del santuario. La costruzione ultimata è decorata con vetrate colorate e può accogliere fino a 200 fedeli. Mons. Dabre ha detto ancora: “La devozione a Sant’Antonio evidenzia la presenza e la potenza della forza divina nelle vite degli uomini santi, e sant’Antonio è uno di loro. Così la devozione al Santo è in realtà riconoscere il potere di Dio nel trasformare la vita e aiutare gli esseri umani nei loro bisogni e problemi”. Devozione a sant’Antonio, antidoto al materialismo contemporaneo “Viviamo in un’epoca di materialismo – ha aggiunto il vescovo – ateismo e indifferenza verso Dio e i valori spirituali. Nella nostra epoca di globalizzazione, è in au-

mento l’interesse per il consumismo e l’edonismo”. Per questi motivi, “la devozione a sant’Antonio di Padova è da apprezzare ancora di più perché è contro la cultura dominante, e giunge come correzione delle tendenze materialistiche. Bisogna dare a Dio il primo posto e quello più elevato nella vita umana”. Il nuovo santuario, un segno di misericordia Mons. Dabre metteva in risalto che “la devozione al Santo testimoni anche che la presenza di Dio agisce per il bene e il benessere degli esseri umani, in particolare per i bisognosi e i poveri”. Il santuario è diventato un “segno di misericordia, compassione, carità e amore per i poveri e coloro che soffrono”. L’obiettivo della diocesi, sottolinea ancora il presule, “è da promuovere il santuario come manifestazione della misericordia di Dio. Non ci interessa incentivare solo il culto e i rituali, che non hanno significato se non trasformano le vite delle persone e non comunicano l’esperienza liberatrice della misericordia del Signore”. Simbolo di dialogo interreligioso Il vescovo si augura che il luogo diventi un “potente strumento dell’amore di Dio, soprattutto tra i poveri e i sofferenti”, oltre che strumento di “evangelizzazione, pace e armonia. I fedeli non cristiani vengono qui e si pongono di fronte a Dio insieme ai figli di Dio”. “Questo – conclude mons. Dabre – può aiutare a creare uno spirito di fratellanza, cordialità e gentilezza tra tutti i devoti. Per ora, è già un simbolo di relazione tra le religioni”. 70


“Questo viaggio rappresenta una opportunità storica di impegnarsi con il popolo cubano”. “E’ meraviglioso essere a Cuba”. E’ quanto ha dichiarato il Presidente statunitense Barack Obama, arrivato domenica 20 marzo all’aeroporto dell’Avana, davanti al personale dell’ambasciata americana nella capitale cubana. Obama è stato il primo Capo della Casa Bianca a visitare Cuba dal 1928. L’arrivo all’aeroporto dell’Avana dell’Air Force One con a bordo il Presidente Obama è stata la prima tappa di una storica visita che ha suggellato il disgelo tra Stati Uniti e Cuba, avvenuto anche grazie alla mediazione della Santa Sede. Il Papa, recentemente, si è recato due volte nel Paese caraibico: a settembre in occasione del viaggio apostolico a Cuba e negli Stati Uniti e lo scorso 12 febbraio per lo storico incontro con il Patriarca di Mosca Kirill. La passeggiata nella città vecchia e l’incontro nella cattedrale della capitale cubana con il card. Jaime Lucas Ortega, arcivescovo dell’Avana, hanno scandito il primo giorno del Presidente americano a Cuba. L’arrivo di Obama è stato preceduto dall’arresto di almeno 50 dissidenti al termine di una manifestazione di protesta contro il governo cubano. Oggi è in programma l’incontro con il Presidente cubano Raul Castro. Domani, prima di tornare negli Stati Uniti, il Capo di Stato americano rivolgerà un discorso rivolto ai cubani. Sul senso, il valore e gli effetti della visita del Presidente americano Obama a Cuba, Amedeo Lomonaco

ha intervistato Luis Badilla, direttore del “Sismografo” ed esperto di America Latina: Le letture e le interpretazioni possono essere moltissime e tutte molto rilevanti. Secondo me, quella che in qualche modo riassume il senso profondo è che Obama con la sua vista a L’Avana e con il suo incontro con le autorità, mette fine definitivamente ad un pezzo di Guerra Fredda che era rimasta nell’emisfero americano e che inquinava tutti i rapporti tra gli Stati Uniti e il resto dei Paesi della regione. È finito un pezzo di Guerra Fredda. Sta finendo anche il castrismo? Penso che sia prematuro poterlo dire. Sta finendo nel senso che Fidel Castro – come tutti sappiamo – non è più Presidente; è anziano e malato. Sappiamo anche che Raoul Castro – perché lo ha dichiarato ufficialmente – non si presenterà nuovamente per essere rieletto da parte del Partito comunista. Quindi fra un anno e mezzo anche il Presidente Raoul Castro sarà fuori gioco. A quel punto non si potrà più parlare di castrismo. La cosa interessante sarà vedere che cosa il castrismo è riuscito a lasciare, come eredità, dal punto di vista della nuova classe governante per l’isola. La visita di Obama a Cuba soprattutto in Occidente viene considerata, definita storica. Come viene raccontata questa visita a Cuba? Come la raccontano i media locali? Leggendo la stampa cubana, che come tutti sappiamo è una stampa ufficiale, si ha l’impressione di

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grande rispetto verso l’ospite di grande rilievo politico, anche umano, alla sua presenza, allo stile e alle parole del Presidente prima del suo arrivo e, in queste ore, durante la visita. Quindi viene raccontata in un modo molto aperto e sincero. La stampa riferisce addirittura che oggi all’Avana ci saranno anche manifestazioni contro la visita, organizzate da una parte minoritaria in una zona marginale della città. Però ho l’impressione che a Cuba l’informazione in questa circostanza sia molto aperta, dinamica, libera e completa. Quando si vedranno gli effetti concreti di questa visita, di questo processo di disgelo, ormai avvenuto anche grazie alla mediazione della Santa Sede? Molti effetti già si sono visti a partire dal 17 dicembre 2014, quando Castro e Obama hanno dato l’annuncio di un’apertura di relazioni diplomatiche “normali” ringraziando quello che era stato l’intervento discreto, silenzioso ma molto efficace di Papa Francesco. Da quel giorno sono stati fatti moltissimi progressi da una parte e dall’altra. Ora manca una questione fondamentale: la fine dell’embargo e del blocco economico statunitense a Cuba. Solo questo può dare un’altra successiva e definitiva svolta, perché

sguardi sul mondo

Obama a Cuba e ad Hiroshima

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senza questa deroga sarà difficile che i rapporti possano essere considerati normali. Quando Obama arrivando all’Avana ha detto “questo è il primo passo di un percorso impegnativo che deve offrire altri risultati” si riferiva in modo specifico a questo punto, cioè all’embargo. Tra i primi passi concreti dopo l’arrivo di Obama a Cuba, oltre alla passeggiata nel centro storico dell’Avana c’è anche l’incontro con l’arcivescovo della capitale cubana Ortega. Anche questo è un passo importante … Molto importante! È andato a piedi alla cattedrale dove è stato accolto dal cardinale Ortega con il quale si è intrattenuto in una lunga conversazione. Ha salutato numerosi fedeli che erano sia all’interno sia al-

l’esterno della cattedrale. Questo, secondo me, sottolinea da una parte l’omaggio del Presidente alla Chiesa cubana e in un qualche modo alla Chiesa statunitense che lavorano da molti decenni per questo incontro. E, dall’altra, è un omaggio alla Santa Sede, consapevole, come una volta disse Papa Francesco, che la fine di questo antagonismo fra Cuba e gli Stati Uniti non poteva che portare vantaggi a tutte le nazioni latinoamericane e al rapporto fra Stati Uniti e il resto dei Paesi dell’emisfero americano. Questa visita come cambierà il futuro della Chiesa cubana? Io penso che questa visita per quanto riguarda la Chiesa cattolica, ma anche per Chiese cristiane che sono presenti a Cuba avrà una sua

importanza, ma non immediatamente: non c’è un rapporto immediato, meccanico tra la visita e la vita delle comunità ecclesiali a Cuba, però aiuterà a migliorare notevolmente il clima di libertà, di pluralismo, dei diritti democratici, del rispetto dei diritti umani. Sono tutte preoccupazioni che le Chiese, in particolare quella cattolica, hanno sempre posto tra le priorità nella prospettiva di una normalizzazione dei rapporti e della modernizzazione di Cuba. La Chiesa cattolica è molto impegnata nel sostenere, tutte le volte in cui sia possibile e giusto, la modernizzazione del Paese e le riforme del presidente Raoul Castro. Questa visita è uno slancio per tutto il processo e quindi anche per la vita delle Chiese, in particolare quella cattolica.

Basta armi atomiche! Vicinanza alle vittime e appello alla distruzione delle armi nucleari. Sono questi i passaggi fondamentali toccati da Barack Obama nello storico primo discorso, fatto da un presidente americano a Hiroshima. Obama ha anche incontrato una delegazione di sopravvissuti alla bomba atomica. Obama è arrivato al Peace Memorial Park verso le cinque del pomeriggio ora locale. E' il primo capo della Casa Bianca, in carica, a visitare il luogo dove il 6 agosto del 1945 esplose la bomba atomica. “Anche le fratture più dolorose possono essere ricomposte”, ha detto il presidente americano, che lanciato un nuovo appello per la distruzione di tutti gli armamenti nucleari nel mondo e ricordato le vittime di Hiroshima e Nagasaki, senza però chiedere scusa. Obama, nel chiudere un cerchio sulla questione del disarmo nucleare - dopo il suo primo discorso nel 2009 a Praga che gli valse il Nobel per la pace - ha riconosciuto come questo non basterebbe a garantire la cessazione delle guerre, come del resto, le sole parole non bastano a risarcire il dolore dei parenti delle vittime della bomba atomica. Sulle parole dello storico discorso di Barack Obama il commento di Giuseppe Mammarella, professore emerito della Stanford University in California.

Queste sono un po’ le ultime battute della presidenza Obama. Il presidente si è dedicato in modo particolare alla politica internazionale, soprattutto negli ultimi tempi e in particolare nelle aree più delicate per la politica estera americana: il Giappone e il del Sud Est asiatico. Quindi questo è importante, anche se quelle famose scuse di cui molti hanno parlato in passato non sono state fatte, perché l’opinione pubblica americana non è pronta a questo. Recentemente c’è stato un dibattito negli Stati Uniti – molto contenuto tutto sommato – dove sono state riconfermate, ribadite quelle che sono le ragioni americane riguardo l’uso della bomba atomica. La ragione è stanzialmente quella di avere risparmiato delle vite umane, perché una continuazione della guerra sarebbe costata molto di più in termini di vite umane. Questa visita di Obama si avvicina molto ad una scusa. Ha fatto un discorso molto aperto; ha detto: “Siamo qui per piangere centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini giapponesi”, ha abbracciato un sopravvissuto del bombardamento di Hiroshima e ha deposto una corona di fiori sul Memoriale, specificando “A suo nome”. Inoltre, ha visitato questo famoso centro “shinto”, simbolo della spiritualità giapponese, ma al tempo stesso, è anche uno dei simboli 72


pone agli Stati Uniti e ad una decina di Paesi dell’area. C’è un aspetto politico e militare, perché non ci dimentichiamo che la visita di Obama in Giappone è stata preceduta da una visita nel Vietnam e da un accordo per il riarmo del Paese, nel senso che alcune proibizioni che riguardavano la vendita di armi per il Vietnam sono state sospese. Il trattato prevede anche la creazione di alcune basi americane nel Vietnam. L’Australia si sta riarmando; recentemente ha comprato un certo numero di sottomarini. Il Giappone sta facendo lo stesso. Gli Stati Uniti hanno messo in cantiere nuove portaerei e la Cina sta sviluppando missili anti-portaerei. C’è una situazione di tensione a cui l’America cerca di rispondere con la politica del contenimento, cioè creando intorno alla Cina una serie di alleanze economiche, politiche e militari in modo da mantenere una situazione di equilibrio nella zona ed indurre il colosso asiatico ad una politica meno aggressiva.

Obama oggi chiude il cerchio. Il primo discorso a Praga, nel 2009, per il disarmo nucleare che gli valse il Nobel ed oggi l’appello finale della sua presidenza a Hiroshima. Cosa è cambiato sul fronte del nucleare? I risultati sono tutti da vedere. Quello che sta succedendo, per esempio, in Nord Corea, dove ogni tanto si verifica un’esplosione nucleare, dimostrerebbe che queste richieste di Obama non hanno avuto un grande successo. Anzi, proprio durante questa visita, ha fatto un riferimento a certi Paesi che assumono delle “posizioni da bulli”. Evidentemente, è un riferimento alle politiche nord-coreane e, al tempo stesso, è forse un invito a Pechino a cercare di premere sul suo alleato per evitare certe manifestazioni ed espressioni.

Quale eredità aspetta a chi verrà dopo Obama sul tema degli armamenti nucleari? Questa politica della limitazione degli armamenti nucleari è condivisa da tutti i grandi Paesi, almeno sul piano formale, perché c’è un trattato da rispettare. Anche la prossima presidenza americana sarà legata necessariamente a questa politica. Questo dipende anche dalla volontà del presidente di attuare o di sottolineare certi impegni invece, magari, di attenuarli. Quindi è un grosso punto interrogativo.

L’incontro di oggi rafforza ancora di più i rapporti diplomatici tra Giappone e Stati Uniti. Quale lettura dare, nell’ottica degli equilibri geopolitici in Asia? Direi che questo fa un po’ parte di quella che si può ribattezzare “politica del contenimento” del dinamismo cinese della zona. Tra l’altro, alcuni mesi fa è stato anche preceduto da quel trattato di carattere commerciale – da cui la Cina è stata esclusa – che lega il Giap-

Argentina Allarme per aumento del narcotraffico Una pandemia che attanaglia la società argentina: così l’Università cattolica di Buenos Aires (Uca) definisce il narcotraffico e la tossicodipendenza dilaganti nel Paese. L’Ateneo ha pubblicato, infatti, in questi giorni il secondo “Barometro sul narcotraffico e le dipendenze”, il rapporto periodico realizzato dall’Ateneo insieme all’Osservatorio sul disagio sociale. I dati che emergono sono allarmanti – riferisce l’agenzia Sir - poiché rivelano un aumento esponenziale, anche nell’ultimo anno, della vendita di

droga, soprattutto nei quartieri periferici delle città argentine. Narcotraffico cresciuto del 15% in 4 anni “Si tratta – ha spiegato il rettore dell’Uca, mons. Víctor Manuel Fernández - di un fenomeno che è in cima alle preoccupazioni di Papa Francesco, tanto che anche nel recente viaggio in Messico, svoltosi dal 12 al 18 febbraio, il Pontefice ha usato parole fortissime contro il narcotraffico”. Di qui, il richiamo del presule a “lavorare con qualsiasi go-

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verno” per ridurre questa piaga sociale. Dal suo canto, il ricercatore capo dell’Osservatorio sul disagio sociale, Agustin Salvia, ha spiegato che l’evoluzione dello spaccio di droga in periferia è passata dal 30% delle famiglie nel 2010 al 45% nel 2014. Cresce alcolismo: colpisce 48% della popolazione A pesare sulla diffusione degli stupefacenti sono spesso problemi come la disoccupazione, che toglie speranze di futuro ai giovani, e la mancanza di controllo da parte

sguardi sul mondo

dei nazionalismi giapponesi. Ha cercato di dare una serie di compensazioni, di soddisfazioni al Paese che, invece, si aspettava una scusa per i fatti di Hiroshima e Nagasaki. Sostanzialmente, ha riconfermato quelle che sono le posizioni americane storiche e militari.


delle forze di sicurezza. Per questo, Salvia parla di un vero e proprio “flagello” e ricorda come l’Argentina sia non solo “un Paese di consumo, ma anche di produzione e di transito di stupefacenti”. Ed allarmante è anche la diffusione dell’alcolismo che ormai è arrivato a colpire il 48% della popolazione.

Legame tra dipendenze e vulnerabilità sociale Lo studio presentato dall’Uca è stato realizzato tra il 2010 ed il 2014 su un campione di 5.680 famiglie urbane. Il rapporto è suddiviso in quattro sezioni che affrontano: l'evoluzione dello spaccio di droga nei quartieri periferici urbani; il

rapporto tra la tossicodipendenza grave ed alcuni fattori sociali strutturali; i problemi di salute delle persone affetta da dipendenza ed infine, una nota intitolata "Nessuno nasce tossicodipendente", che presenta il dramma della droga legandolo ai contesti di maggiore vulnerabilità sociale.

AMERICANEWS

Colombia: cessate il fuoco definitivo dopo 52 anni di violenze Il governo della Colombia e i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie, le Farc, hanno annunciato uno storico accordo per un cessate il fuoco definitivo, dopo oltre mezzo secolo di violenze che hanno provocato più di 260mila morti, 45 mila dispersi e circa 7 milioni di profughi. Alla cerimonia di giovedì 23 giugno 2016 all’Avana, dove da tre anni e mezzo si stanno tenendo i negoziati di pace, hanno partecipato il Presidente colombiano Manuel Santos, il comandante del Farc, Timoleon Jimenez, e il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. In questo quadro, l’intesa può essere letta come l’ultimo passo prima di una pace duratura per la Colombia? Risponde Massimo De Leonardis, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, intervistato da Giada Aquilino: Certamente. In una successione di accordi a tappe che sono iniziati negli anni scorsi, questa non è ancora la tappa definitiva, che però dovrebbe arrivare il mese prossimo quando, il 20 luglio, cadrà la festa nazionale della Colombia. Negli ultimi anni, è stato osservato un blocco delle ostilità. Ma quando poi potrebbe di fatto entrare in vigore il cessate il fuoco? Quando ci sarà la definitiva consegna delle armi da parte della guerriglia. C’è tutta una serie di accordi: c’è una amnistia che dovrebbe riguardare grossa parte dei guerriglieri, c’è un piano di riforma agraria, ci sono condizioni per il reinserimento delle forze rivoluzionarie nella vita politica, comprendente anche la nomina di alcuni senatori a vita appartenenti a queste formazioni. Quindi ci sono ancora dei passi da compiere. Sappiamo che la consegna definitiva delle armi e il reinserimento nella vita politica, anche in base a esperienze di altri movimenti terroristici e violenti come quelli irlandesi, costituiscono sempre una fase delicata. Come si è arrivati all’intesa? Lei ha parlato di un percorso a tappe … Questa guerriglia di ispirazione marxista particolarmente sanguinosa dura da 52 anni. Le ultime fasi avevano visto il Presidente Alvaro Uribe, che ha guidato la Colombia dal 2002 al 2010, cercare una soluzione militare alla guerriglia. Sembrava che il Presidente avesse il massiccio appoggio della popolazione in questa linea, perché fu rieletto dopo il primo mandato con il 63% dei suffragi e certamente le Farc subirono grosse scon-

“Sono felice di questa notizia che mi è arrivata ieri (sabato 27 giugno, ndr): più di 50 anni di guerra, di guerriglia, tanto sangue versato … E’ stata una bella notizia e mi auguro che i Paesi che hanno lavorato per fare la pace e che danno la garanzia che questo vada avanti, blindino questo a tal punto che mai si possa tornare, né da dentro né da fuori, a uno stato di guerra. E tanti auguri per la Colombia che adesso fa questo passo”. PAPA FRANCESCO, 28 giugno 2016 fitte, che forse sono state all’origine della loro decisione di accettare il dialogo. La politica del dialogo è stata presa dal successore di Uribe, Manuel Santos, l’attuale Presidente, che peraltro era stato ministro della Difesa di Uribe, ma che iniziò questo processo di pace con un primo accordo firmato a Cuba sotto l’“egida” di Raul Castro. Inizialmente, l’accordo non fu accolto bene dalla popolazione: ci furono molte manifestazioni di piazza contrarie, l’indice di approvazione di Santos crollò al 9%, ma in seguito il processo è continuato fino ad arrivare ad oggi. Negli anni si è parlato di risarcimento alle vittime, ai loro parenti, al reinserimento sociale degli ex bambinisoldato … Che quadro ne esce della Colombia? Comunque di un Paese ferito … Certamente: è stata una guerriglia durata più di mezzo secolo, ci sono stati periodi in cui intere zone del Paese erano di fatto governate dalle Farc e, come sappiamo, i movimenti guerriglieri in genere si alimentano attraverso forme di estorsione di denaro alla popolazione o ricatti. Quindi certamente c’è da completare un lavoro di pacificazione molto serio e il modello evocato è stato quello della riconciliazione in Sudafrica. Papa Francesco ha più volte mostrato la propria volontà di essere vicino ai colombiani, magari anche con una tappa di un viaggio. Quanto la Chiesa cattolica è stata vicina alla popolazione, in questi anni? Come sappiamo, la Chiesa in America Latina ha sempre un ruolo fondamentale, importante. Ha svolto un compito di moderazione e ha sempre cercato di invitare ad agire pienamente nella legalità. 74


AF2016 RI CA

Le Chiese cristiane in Sud Sudan sono “profondamente preoccupate” dalla ripresa delle violenze tra i soldati fedeli al presidente Salva Kiir e le milizie legate al suo vice Riek Machar. In un messaggio diffuso domenica 10 luglio alla radio, a nome a nome di tutti i leader cristiani, il segretario generale del Consiglio delle Chiese (Sscc), padre James Oyet Latansio, richiama “militari e civili ad astenersi da qualsiasi provocazione” e i leader politici “ a fare il possibile per fermare l’escalation”.

una nuova cultura di pace e di riconciliazione: “Non c’è una guerra giusta, è necessario piuttosto un approccio a una pace giusta”. Allo stesso tempo però si denunciano quelli che sono gli ostacoli al dialogo e a una vera ricostruzione: “Dobbiamo sfidare la cultura militarista in Sud Sudan, dove perfino i civili portano armi da guerra. Condanniamo il commercio di armi che alimenta la guerra”.

AFRICANEWS - SUDAFRICA

Vescovo di Johannesburg Disumanità contro immigrati

Il tempo del ricorso alle armi è finito “Non esprimiamo alcun giudizio su come e perché sono avvenuti gli scontri armati e sulle responsabilità, ma rileviamo con preoccupazione che negli ultimi tempi si sono verificati diversi incidenti e che la tensione cresce ”, si legge nel testo che condanna senza distinzione tutte le violenze: “Il tempo del ricorso alle armi è finito ed è giunta l’ora di costruire una nazione pacifica”. I leader cristiani esprimono il loro apprezzamento per l’appello alla calma rivolto in questi giorni dai due ex-rivali Salva Kiir e Riek Machar, ma allo stesso tempo rilevano che, purtroppo, le uccisioni non si sono verificate solo nella capitale, ricordando tra le vittime suor Veronika Theresia Rackova, la missionaria verbita slovacca uccisa lo scorso maggio nella diocesi di Yei da colpi di arma da fuoco sparati da alcuni soldati. Il messaggio conclude assicurando le preghiere delle Chiese per il Paese ed esortando nuovamente alla calma e alla speranza.

“I rifugiati in Sudafrica devono far fronte a ingiustizia e disumanità”: lo ha affermato mons. Joseph Buti Thlagale, arcivescovo di Johannesburg, in Sudafrica, nel suo discorso di apertura alla tavola rotonda organizzata dal Dipartimento per la cura dei migranti e dei rifugiati dell’arcidiocesi e dal Jesuit Refugee Services (Jrs). Nel corso dei lavori, riferisce l’agenzia Fides, le diverse articolazioni della Chiesa sono state invitate ad essere compassionevoli e accoglienti, condividendo le informazioni per migliorare il lavoro caritativo. Politiche migratorie non siano basate solo sui numeri In particolare, il Jrs ha sottolineato che la nuova assicurazione sanitaria nazionale copre tutti i cittadini sudafricani e i rifugiati permanenti, ma solo parzialmente i richiedenti asilo, ai quali vengono garantiti solo i servizi di pronto soccorso. Dal canto loro, i membri dell’istituto scalabriniano per la mobilità umana in Africa hanno sottolineato come le politiche migratorie siano fallite perché basate su “criteri di selezione e di ammissione, che da soli non possono determinare numeri, flussi e modelli di migrazione. È importante capire, invece, perché le persone migrano”.

Un messaggio di speranza dai vescovi per l’anniversario dell’indipendenza E un messaggio di speranza e incoraggiamento è stato lanciato anche dai vescovi del Sud Sudan, alla vigilia della celebrazione del quinto anniversario dell’indipendenza del Paese conquistata il 9 luglio 2011 e dopo la costituzione lo scorso aprile del nuovo Governo di unità nazionale. “Non abbiate paura — sottolineano i presuli — alzatevi sopra le avversità. Siate pronti ad impegnarvi per la pace e per il bene comune”. L’episcopato, inoltre, invita a uscire da una logica di guerra per promuovere

Diritti delle nazioni e diritti umani dei migranti abbiano lo stesso peso I religiosi scalabriniani hanno sottolineato inoltre che ogni politica migratoria dovrebbe contemperare l’interesse nazionale, ovvero il diritto alla sicurezza dei cittadini, con i diritti umani dei migranti, che “idealmente dovrebbero avere lo stesso peso”. I lavori si sono conclusi con l’impegno, da parte dei presenti, di ulteriori collaborazioni nel servizio ai rifugiati e ai migranti.

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sguardi sul mondo

Sud Sudan Appello per la fine dei combattimenti


«Dove è misericordia e discrezione, ivi non è superficialità né durezza» Mons. Felice Accrocca, Arcivescovo di Benevento, è stato consacrato, nella chiesa del Sacro Cuore di Latina, adiacente la curia vescovile, domenica 15 maggio, ore 17, solennità di Pentecoste . Nel corso dei lavori della XL Assemblea dei Ministri Provinciali Francescani in Assisi tenutasi il 23 febbraio scoro il presule ha commentato l’ammonizione XXVII del serafico padre Francesco: “Dove è misericordia e discrezione, ivi non è superficialità né durezza” che offriamo alla lettura dei nostri lettori.

MONS. FELICE ACCROCCA ARCIVESCOVO DI BENEVENTO

In quest’intervento mi propongo di esaminare il tema della misericordia così come emerge dagli scritti di Francesco. Mi concentrerò su tre passi nodali: le ben note affermazioni del Testamento, le altrettanto note considerazioni della Lettera a un ministro, infine alcune espressioni presenti seconda redazione della cosiddetta Lettera a tutti fedeli. Facere misericordiam Poco prima di morire, nel dettare il suo Testamento, Francesco definì momento capitale della propria conversione l’incontro con i lebbrosi e condannò come peccaminosa la sua condotta giovanile: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e feci misericordia con essi. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (Test 1-3: FF 110). Egli giunse così dal peccato alla grazia attraverso un’esperienza di misericordia. Tentai, anni or sono, di comprendere il senso delle parole «quando ero nei peccati», chiedendomi cioè se fosse possibile, e in che modo, precisare la realtà peccaminosa a cui l’Assisiate fece esplicito riferimento, tenuto conto che il dettato del Testamento è estremamente scarno e le due fonti più antiche che narrano con abbondanza di particolari gli anni giovanili di Francesco – la Vita del beato Francesco, scritta da Tommaso da Celano, e la cosiddetta Leggenda dei tre compagni – sembrano contraddirsi in pieno. In realtà, tanto Tommaso quanto l’autore della Leggenda rivelano che da un certo momento in poi, Francesco diminuì – si potrebbe dire – il prezzo, il va-

lore che aveva assegnato a se stesso. Comprese d’essersi eccessivamente valutato, di aver fatto di sé un idolo: ai suoi occhi persero dunque via via di valore tutte quelle cose che – fino a quel momento – aveva amato e per le quali tanto si era dato da fare. Un uomo giovane, poco attento ai veri problemi degli altri, a un certo momento della sua vita conobbe quindi Cristo, il Figlio di Dio, e ciò grazie a un incontro. Nella sua condizione di ricco, tutto centrato su se stesso, gli era troppo amaro vedere i lebbrosi: gli facevano ribrezzo … Fu il Signore a condurlo in mezzo a loro. L’incontro con il dolore umano, con il volto più raccapricciante dell’emarginazione, gli fece scoprire il volto di Cristo; Francesco capì così, pian piano, che quei corpi sfigurati erano il corpo stesso di Cristo. L’inizio della propria conversione si caratterizzò pertanto come un «fare misericordia», come un immergersi nel dolore altrui guardandolo con occhi diversi, non più alteri e pronti al disprezzo; egli divenne dunque capace di scorgere il dolore senza trarne spavento, di farsi vicino a chi soffre e tendergli la mano. E ha ragione Carlo Paolazzi nel rilevare che Francesco «sembra rileggere l’incontro con i lebbrosi attraverso il filtro della parabola del buon Samaritano» (FF, ed. 2011, p. 99, nota 2): il samaritano, infatti, dopo che il sacerdote e il levita erano passati davanti a un uomo malmenato dai briganti, gli si avvicinò e «fece misericordia con lui» (fecit misericordiam in illum, Lc 10,37). Il brano in questione, peraltro, era contenuto nell’evangeliario appartenuto a Francesco, e quindi deve essere stato da lui più volte letto e meditato. La Leggenda dei tre compagni narra che un giorno, mentre cavalcava nei dintorni di Assisi, Francesco incontrò un lebbroso: aveva sempre avuto in orrore quei malati, ma facendo violenza a se stesso, quella volta scese da cavallo, baciò la mano dell’uomo – forse piagata 76


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vava a passare nei pressi dei lebbrosari si girava dall’altra parte turandosi il naso! In verità, anche negli anni della sua spensierata giovinezza era stato mosso a pietà per la sorte di quei poveri disgraziati e aveva elargito loro delle elemosine, ma si era limitato a inviare qualcosa servendosi di altre persone (ivi). Ora, invece, cominciava a portarle di persona e, soprattutto, si recava dai lebbrosi donando loro se stesso per riceverne in cambio una dolcezza mai sperimentata. Da uomo centrato sulla propria esistenza egli divenne così capace di guardare ai problemi degli altri, fino a condividere, anche nelle modalità esteriori, l’esperienza di vita di coloro che, ai suoi occhi, più ripresentavano la viva presenza del Cristo nella storia degli uomini. «Si pensi – scrisse Raoul Manselli – a quella che dovette essere l’umana sofferenza, l’umiliazione senza pari, del figlio del ricco mercante, che accetta di scendere al rango di coloro che erano stati oggetto della sua pietà e della sua misericordia» (1). Da quell’esperienza di misericordia nacque dunque un uomo nuovo, capace di rovesciare ogni suo precedente criterio di valore e di giudizio: l’amaro divenne dolce e ciò che prima era aborrito si trasformò in ragione di vita.

dal morbo – e gli offrì un denaro; di più, ne accettò anche il bacio di pace (3Comp 11: FF 1407). Si trattò, ovviamente, di un momento decisivo: i lebbrosi erano distanti mille miglia dal mondo che fino ad allora Francesco aveva frequentato o sognato. Ma se aveva dovuto farsi forza per scendere da cavallo e baciare quella mano, dovette farsene ancor più per continuare su una simile strada. Da quel momento, infatti – precisa la Leggenda –, cominciò a dimenticare se stesso, fino a giungere, con la grazia di Dio, a vincersi perfettamente: il testo latino (magis ac magis) rende bene l’idea di una pressione ripetutamente esercitata su di sé da quel giovane che si sforzava di sentire come naturali per lui atteggiamenti e azioni che fino a qualche tempo prima riteneva ripugnanti (ivi). Quella prima vittoria lo rafforzò nella sua convinzione e gl’infuse nuovo coraggio. Pochi giorni dopo prese con sé una quantità considerevole di denaro e si recò all’ospizio dei lebbrosi; fece l’elemosina ai malati, baciando la mano a ognuno di essi e ottenendone un dono insperato: «Ciò che prima gli riusciva amaro, vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza» (3Comp 11: FF 1408). Fino a quel momento, in effetti, quando si tro-


Uno sguardo misericordioso La Lettera a un ministro va datata, con buona probabilità, ai mesi che precedettero il Capitolo del 1223, durante il quale il testo della Regola da sottoporre all’approvazione papale venne rivisto dai frati riuniti in assemblea. Una lettera indubbiamente straordinaria che non mancò di attirare l’attenzione di uno studioso del livello di Erich Auerbach, che su di essa scrisse pagine penetranti, giustappondo a questo testo di Francesco una lettera di Bernardo di Chiaravalle (la num. 322).Francesco chiedeva al ministro di «ritenere come una grazia» tutte quelle cose che gli impedivano «di amare il Signore Iddio»; egli doveva inoltre considerare una grazia tutti coloro – «frati o altri» – che gli si opponevano, anche nell’eventualità che lo bastonassero: «E ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali, e non pretendere che siano cristiani migliori» (vv. 2-5: FF 234). Torna, in questa lettera, uno degli ammonimenti presenti nel capitolo XXII della prima Regola; in quel testo si chiedeva infatti ai frati di riflettere attentamente sul fatto che il Signore Gesù chiede (Mt 5,44) di amare anche i nemici e di fare del bene pure alle persone dalle quali si riceve in cambio odio. Tutto l’agire dei frati, la loro disponibilità ad accogliere il dolore, il disprezzo, le ingiurie, la loro prontezza a perdonare le offese ricevute, anzi ad accogliere e benedire coloro che le infliggevano, doveva modellarsi così sull’esempio di Cristo, di cui bisognava seguire le orme (1Pt 2,21). Dunque, una proposta di espropriazione totale, un invito ad accogliere tutto con gratuità, a resistere alla tentazione di voler piegare eventi e persone ai propri disegni e alle proprie attese. Il ministro, ovviamente prostrato dagli scontri con i frati che il suo ruolo di responsabilità non gli risparmiava, con buona probabilità aveva chiesto a Francesco di potersi ritirare in un eremo, adducendo quale ragione il fatto che quei contrasti non lo aiutavano ad amare Dio, anzi gli erano di impedimento. Francesco, invece, gli additò una via diversa: non la separazione dai fratelli, ma un’immersione totale nella fraternità, priva d’ogni difesa e d’ogni attesa nei riguardi degli altri: «E questo – cioè la disponibilità ad accogliere ogni atteggiamento che gli altri manifestassero nei suoi riguardi – sia per te più che il romitorio» (v. 6: FF 235). Alla tentazione della fuga, Francesco rispondeva con un invito alla lotta: una lotta rivolta unicamente contro se stessi, che richiedeva l’abbandono di qualunque strategia – offensiva e difensiva – tesa alla propria salvaguardia. Ma c’era anche qualcosa in più. Francesco, infatti, affondava il bisturi chiedendo al ministro di perdonare sempre, fino al punto che non

vi fosse mai alcun frate che avesse «peccato quanto poteva peccare», il quale, dopo averlo guardato negli occhi, se ne fosse partito da lui senza averne ottenuto – qualora l’avesse richiesto – il «perdono misericordioso»; di più: anche se il frate non avesse chiesto «misericordia», sarebbe stato il ministro a dovergli chiedere se voleva «misericordia». E nel caso in cui il frate avesse in seguito peccato «mille volte» nei riguardi del ministro («davanti ai tuoi occhi»), il ministro avrebbe dovuto continuare ad amarlo più dello stesso Francesco al fine di «attirarlo al Signore»; «e abbi sempre – concludeva – misericordia di tali fratelli». Solo in tal modo il ministro poteva dimostrare di amare davvero il Signore e Francesco medesimo (vv. 7-10). «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», aveva risposto Gesù a Pietro (Mt 18,22). In sintonia con il comandamento evangelico, l’Assisiate chiedeva al ministro di perdonare sinceramente, dal profondo del cuore: il frate peccatore non doveva udire una parola di perdono (con le parole si mente più facilmente), ma leggere negli occhi (che con maggiore difficoltà riescono a mentire) del ministro offeso che ne era stato perdonato. L’unico obiettivo era quello di attirare al Signore il frate peccatore, poiché la salvezza dei fratelli era il bene più prezioso tra tutti. Non era d’altronde scritto nella prima Regola: i frati «mostrino con le opere l’amore che hanno fra di loro» (Rnb XI, 6: FF 37)? Perché Francesco, che poco prima aveva intimato al ministro: «Non volere che siano cristiani migliori», gli addita poi, quale ultimo obiettivo, la salvezza dei fratelli? La contraddizione è solo apparente, poiché egli chiedeva al frate impegnato nel governo di non volere che i fratelli fossero migliori nei suoi riguardi. Gli chiedeva, cioè, di accettarli così com’erano, di accettare con serenità quello che Dio, attraverso di loro, gli avrebbe dato. Ma non per questo il ministro non doveva ardere di zelo per la salvezza dei fratelli, che pure si comportavano con malvagità e, proprio per questo, mettevano a rischio la loro anima. 78


Giudicare con misericordia Il testo preparato da Francesco, com’è noto, non entrò nella Regola bollata. Ma egli non demordeva, cercando di rilanciare idee e prassi che gli stavano a cuore. A tal

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proposito si rivela degno di attenzione un intervento di Filippo Sedda (2), nel quale lo studioso mostra come, nello stendere la Lettera a tutto l’Ordine, l’obiettivo dell’Assisiate fosse quello di trasmettere ai frati le proprie volontà su argomenti che gli erano cari, ma che non avevano trovato posto nella Regola bollata. Egli si propose perciò di recuperare una serie di aspetti che gli stavano a cuore, organizzandoli in una lettera diretta a tutti i suoi frati. Questa intuizione ha tratto nuove conferme da un’analisi che io stesso ho condotto sulla seconda redazione della cosiddetta Lettera ai fedeli (titolo scelto da Kaietan Esser e confermato da Carlo Paolazzi, ma che non è concordemente attestato dalla tradizione manoscritta) (3). La lettera si colloca, con buon margine di sicurezza, nella fase finale della vita dell’Assisiate e fu forse l’ultimo tra i suoi testi epistolari. Si è tanto discusso, soprattutto negli ultimi decenni, sui destinatari di questa lettera, in particolare se sia stata indirizzata ai «fratelli e alle sorelle della penitenza», oppure a «tutti i cristiani». Piuttosto che un progetto di vita per coloro i quali concorreranno a formare l’«Ordine dei Penitenti», io la ritengo un’esortazione rivolta a tutti i cristiani, affinché si sforzino di seguire la Parola del Vangelo. Esemplare, a questo proposito, appare un confronto tra le due redazioni della lettera e il capitolo XXI della Regola non bollata: quest’ultimo conserva uno schema essenziale dei contenuti della primitiva esortazione che tutti i frati potevano rivolgere a ogni genere di persone, la quale consisteva in un invito a lodare e benedire Dio Uno e Trino e a fare penitenza, a perdonare i torti ricevuti e ad astenersi da ogni male, a fare penitenza (a convertirsi) per esser benedetti dal Signore, poiché sarebbero stati maledetti quelli che non avrebbero voluto incamminarsi per un percorso di conversione (FF 55). Le consonanze con i contenuti di entrambe le recensioni della lettera sono notevoli: ora, poiché l’esortazione e lode presente nel capitolo XXI della Regola non bollata poteva essere annunciata «tra ogni categoria di persone», se ne deduce, con buona sicurezza, che anche lo scritto noto come Lettera ai fedeli fosse diretto agli stessi de-

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Concludeva quindi Francesco: «E notifica ai guardiani, quando potrai, che da parte tua sei deciso a fare così» (v. 11: FF 236). Questa indicazione chiarisce in modo irrefutabile che il destinatario della lettera era il ministro di una singola provincia: sembra perciò impossibile – come pure è stato più volte proposto – identificarlo con Elia, a quel tempo vicario di Francesco e al quale Francesco abitualmente assegnava il titolo di ministro generale. Il ministro doveva così impegnarsi pubblicamente ad affrontare questo percorso in salita, mettendosi nelle mani di eventuali detrattori che, in qualsiasi momento, avrebbero potuto rimproverargli la sua non perfetta coerenza al proposito annunciato. Gli era chiesto, in definitiva, un ministero di misericordia, con l’obiettivo di suscitare misericordia. Francesco annunciava infine il suo proposito di riunire in un unico capitolo, in vista della redazione definitiva del testo da presentare all’approvazione della Sede Apostolica, tutti i capitoli della Regola del 1221 che trattavano «dei peccati mortali». Per far ciò invocava «l’aiuto del Signore e il consiglio dei frati»; al contempo, quasi in contraddizione con se stesso, proponeva un testo organico e strutturato nel quale si chiedeva ai frati di nutrire grande misericordia verso il frate peccatore e mantenere segreto il suo peccato. Quest’ultimo sarebbe dovuto ricorrere al proprio guardiano, vale a dire al frate al quale era demandata la responsabilità della comunità di cui faceva parte. Il fratello caduto nel peccato avrebbe dovuto esser poi accompagnato dal proprio custode, ovvero dal responsabile di una delle circoscrizioni territoriali che abbracciavano un certo numero di conventi e nelle quali era divisa ogni provincia (per l’appunto, le custodie). Il custode, a sua volta, avrebbe dovuto occuparsi «misericordiosamente» del frate peccatore, così come avrebbe voluto «si provvedesse a lui medesimo». Ai frati che si erano macchiati di colpe veniali, invece, i confessori non avevano «potere di imporre altra penitenza all’infuori di questa: “Va’ e non voler peccare più!” (Gv 8,11)» (vv. 13-20: FF 237-238). Questa lettera, in definitiva, si presenta come la magna charta di una vita di fraternità e come un canto di misericordia. Francesco insiste sulla misericordia fin quasi a dare l’impressione di voler eccedere. Perché questo? Perché «il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Gc 2,13).


stinatari, non a gruppi o categorie precise. Nella lettera Francesco riprende idee e concetti sulla misericordia già utilizzati in precedenza e che non avevano trovato posto nella Regola bollata. Chiede infatti a coloro «che hanno ricevuto la potestà di giudicare gli altri» di esercitare «il giudizio con misericordia, così come essi stessi vogliono ottenere misericordia dal Signore; infatti il giudizio sarà senza misericordia per coloro che non hanno usato misericordia» (2Lf 28-29: FF 191). Francesco, dunque, aveva ben presente il testo della lettera di san Giacomo che più sopra abbiamo menzionato e che qui cita testualmente. Tuttavia, fin dal testo che aveva predisposto (riferito nella Lettera a un ministro) e che poi non fu accolto dal Capitolo, si chiedeva al custode di provvedere «misericordiosamente» al frate peccatore, così «come vorrebbe si provvedesse a lui medesimo, se si trovasse in un caso simile» (Lmin 17: FF 237). Cose simili ripete poco oltre: «E colui al quale è demandata l’obbedienza – chiede – e che è ritenuto maggiore, sia come il minore e servo degli altri fratelli, e nei confronti di ciascuno dei suoi fratelli usi e abbia quella misericordia che vorrebbe fosse usata verso di lui, qualora si trovasse in un caso simile. E per il peccato del fratello non si adiri contro di lui, ma lo ammonisca e lo conforti con ogni pazienza e umiltà» (2Lf 42-44: FF 197-198). Come si vede, si tratta di riprese testuali, e ciò a conferma della bontà della tesi proposta da Sedda, ciò che peraltro consente di affermare che il tema della misericordia stava particolarmente a cuore a Francesco, al punto da tornarvi più volte con insistenza nei grandi testi scritti nello scorcio finale della propria vita. Per una parola conclusiva Anche i ministri di oggi, come quello a cui Francesco scrisse la ben nota lettera, debbono spesso soffrire a mo-

tivo dei frati e forse pure alcuni frati debbono soffrire a causa loro. La vita fraterna produce molto spesso sofferenze, caratterizzandosi così come maxima poenitentia. Quando si è logorati dalle tensioni quotidiane facilmente si può essere portati ad agire con durezza, anche perché molti frati ci si mettono d’impegno nel far perdere la pazienza. Ritengo però degne di meditazione le parole di san Benedetto, il quale chiede all’abate di farsi amare più che non di farsi temere dai suoi monaci (Regola, cap. 64 ), e di attenta considerazione le parole di Innocenzo III, di cui celebriamo quest’anno gli ottocento anni della morte. Quest’ultimo, scrivendo nel 1209 all’arcivescovo di Narbona e ai suoi suffraganei, sostenne che corregge più facilmente l’affabilità della grazia che non l’asperità della disciplina (4). Il Giubileo della misericordia, voluto da papa Francesco, aiuti ognuno di noi a interiorizzare l’insegnamento del Santo di Assisi. -----------------------(1) R. MANSELLI, San Francesco dal dolore degli uomini al Cristo crocifisso, in ID., Francesco e i suoi compagni (Bibliotheca seraphico-capuccina, 46), Roma 1995, p. 187. (2) F. SEDDA, Sulla datazione e circostanza della Epistola toti Ordini missa di frate Francesco: in margine a due recenti contributi, in Studi Francescani 106 (2009), pp. 5-32. (3) F. ACCROCCA, «Epistola ad fideles II»: nuova proposta di lettura, in Collectanea Franciscana 85 (2015), pp. 5-17. (4) «Vos ergo, fratres, huiusmodi supportetis in spiritu lenitatis, non adiicientes sed allicientes eosdem; quia plerique homines facilius commonitionibus quam comminationibus revocantur, et nonnullos affabilitas gratiae magis corrigit quam asperitas disciplinae» (PL 216, col. 74).

Francesco, maestro di vita spirituale RAFFAELE DI MURO DOCENTE DI SPIRITUALITÀ FRANCESCANA

Francesco si rivela preziosa guida spirituale per i suoi fratelli, per Chiara, per le Damianite e per quanti incontra lungo il cammino. È indicativo il fatto che egli componga una forma di vita e missive per tutte le categorie di credenti, ma anche per coloro che sono chiamati a governare i popoli. Per le persone che appartengono ad ogni stato egli rivolge un messaggio esortativo. Tutto questo indica che il Poverello, dopo aver vissuto un’esperienza forte e si-

gnificativa di conversione, intende suggerire a tutta l’umanità l’importanza e la bellezza di un percorso di santificazione. Egli è maestro e guida di vita spirituale non solo per i frati, ma per quanti incontra e per tutti quelli che hanno la possibilità di parlargli o semplicemente di ammirarlo. Ciò avviene mediante il suo scrivere, il suo parlare e soprattutto con la testimonianza da lui offerta in ogni circostanza. Insegna la via dell’espropriazione per porre al centro del suo vissuto il Signore. Francesco è chiamato dall’Onnipotente ad essere segno del suo amore mise80

ricordioso e guida nella chiamata e nella volontà divine. In questo si manifesta il suo accompagnare spiritualmente i fratelli: è colui che trasmette loro il desiderio di amare e servire Gesù sopra ogni cosa, secondo uno stile povero ed umile. Egli esorta a percorrere la via della penitenza, che consiste nello svuotarsi di ogni mondanità e distrazione per dare spazio solo a Cristo. La dimensione penitenziale rende, infatti, progressivamente liberi di donarsi a Dio in modo sempre più totalizzante. Il Testamento è uno dei testi più indicativi del magistero del


JACQUES DALARUN STUDIOSO DI STORIA FRANCESCANA

“Al venerabile e reverendo padre frate Elia, ministro generale dei frati Minori. La Vita del gloriosissimo padre nostro Francesco che, per ordine del signor papa Gregorio, ma istruito da te, padre, da un certo tempo già ho composto in un’opera più completa, a causa di quelli che le rimproverano, forse a ragione, la moltitudine delle parole, su tuo ordine ora l’ho sintetizzata in un opuscolo più breve e ho procurato di scrivere in un discorso succinto almeno le cose essenziali e alcune cose utili, omettendo le più ( VB 1)”. Una Vita dovuta a Tommaso da Celano e ordinata da Elia era stata finora solo ipotizzata da me nel 2007, sotto il titolo di Leggenda umbra. Il testo che avevo faticosamente ricostituito ricucendo diversi frammenti, soprattutto contenuti in breviari, rappresentava solo il 40% dell’opera oggi tornata a galla. Si capisce ora che quella, ordinata dal ministro generale e non più dal papa, era destinata a un uso interno all’Ordine dei Frati minori, contrariamente alla Vita prima. Dal prologo (VB 1), abbiamo anche capito che la Vita prima era stata oggetto di critiche, assai probabilmente da parte di certi frati, a causa della sua prolissità, ma anche a causa del suo modo di presentare le cose. Continua, infatti, la lettera di dedica:Infatti, benché alcuni vogliano forse che si diPoverello. Egli indica nell’umanità e nella povertà di Cristo i punti di riferimento della vita spirituale, che sono progressivamente assimilati mediante il mistero eucaristico. Non è un caso, che l’Eucaristia sia un tema tanto caro al santo, che volentieri propone come motivo di contemplazione e di carità. Significative sono queste espressioni tratte dalla Regola non bollata: «Perciò, tutti noi frati, custodiamo attentamente noi stessi, perché sotto pretesto di qualche ricompensa o di opera da fare o di un aiuto, non ci avvenga di perdere o di distogliere la nostra mente e il cuore dal Signore. Ma nella santa carità, che è Dio, prego tutti i frati, sia i ministri

cano certe cose diversamente da come son dette, tuttavia in modo più sicuro deve essere seguito in ciò il tuo solo giudizio, a cui il Santo di Dio più che ad altri aprì il suo animo e lui stesso confidò più volentieri ciò che doveva fare (VB 1).

che gli altri, che, allontanato ogni impedimento e messi da parte ogni preoccupazione e ogni affanno, in qualunque modo meglio possono, si impegnino a servire, ad amare, onorare e adorare il Signore Iddio, con cuore mondo e con mente pura, ciò che egli stesso domanda sopra tutte le cose» (FF 60, p.83). Nelle Ammonizioni è possibile trovare una preziosa sintesi del cammino spirituale indicato al servo di Dio dal Poverello. Fondamentale è la pratica delle virtù, la lotta ai vizi ed al peccato, nonché una ricerca della presenza e della volontà di Dio che si ottiene mediante la costante tensione alla contemplazione, cioè a scorgerne la presenza negli eventi

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che caratterizzano il vissuto ordinario dell’uomo. Egli, inoltre, si fa interprete di un atteggiamento di “piccolezza”, vale a dire di disposizione umile del cuore, fondamentale per un progetto di vita improntato alla minorità. Aiuta molto guardare l’esempio del Signore che si è fatto servo, che è passato tra gli uomini “come colui che serve” (Lc 22,27). Egli è l’espressione dell’amore di Dio che si china - povero e umile - sull’umanità sofferente. Questa immagine di Cristo colpisce molto Francesco che, nei suoi scritti, fa continuo riferimento alla kénosi del Signore come paradigma anche per la sua vita spirituale.

francescanesimo

La sorprendente attualità del volto del Poverello di Assisi


Adesso si sa che Tommaso da Celano non stese due Vite di Francesco, ognuna dotata di una raccolta di miracoli, ma tre biografie con tre raccolte. Opera che fu anche una via crucis. Ci si ricorda l’amarezza espressa nelle ultime righe dedicate dall’agiografo al suo eroe alla fine del Tractatus de miraculis: Non possiamo ogni giorno produrre cose nuove, né mutare ciò che è quadrato in rotondo, e neanche applicare alle varietà così molteplici di tanti tempi e tendenze ciò che abbiamo ricevuto come unica verità. Certo non siamo stati spinti a scrivere ciò per vanità, né ci siamo lasciati sommergere dall’istinto della nostra volontà fra tanta diversità di espressioni; ma ci spinsero al lavoro le pressioni e le richieste dei confratelli ed ancora l’autorità dei nostri superiori ci condusse a portarlo a termine (3C 198). Tale amarezza non può provenire dal fatto che Tommaso si sarebbe sentito costretto di stendere miracoli ( l’aveva già fatto due volte prima senza lamentarsi), mentre si percepisce già, nella lettera prologo della Vita brevior, una certa renitenza: “a causa di quelli che le rimproverano, forse a ragione, la moltitudine delle parole …”; “benché alcuni vogliano forse che si dicano certe cose diversamente da come son dette …”. Si intuisce che, sin da questo momento, le critiche contro la Vita prima avevano ferito l’agiografo, mentre l’obbligo di riprendere la penna per dire altrimenti cose che pensava di aver già perfettamente espresse gli pesava. Siccome la Vita brevior fu ordinata come abbreviazione della Vita prima, poiché, in conseguenza, la seconda fa solo la metà della lunghezza della prima, è normale che certi episodi della Vita prima non siano ripresi nel suo riassunto. D’altronde, molte di queste omissioni toccano ad episodi ripetitivi, non particolarmente salienti, o a commenti aggiunti da Tommaso da Celano alla sua Direzione spirituale ed esemplarità vanno di pari passo, come la testimonianza di Francesco dimostra, particolarmente al cospetto di Chiara: «Udendo però il nome già celebre di Francesco che, come uomo nuovo rinnovava con nuove virtù la via della perfezione dimenticata dal mondo, subito desidera ascoltarlo e vederlo, spinta a ciò dallo stesso Padre degli spiriti, del quale ambedue, sebbene in modo diverso, avevano ricevuto le prime ispirazioni » (FF Leggenda di S. Chiara, 5, p. 2397-98) ). La fama del figlio di Pietro di Bernardone va crescendo, Chiara apprende della conversione di Francesco e ne è attratta, al punto che desidera attingere alla

Più significativa mi pare l’omissione della denudazione di Francesco davanti al vescovo di Assisi. La Vita brevior salta direttamente alla conclusione del conflitto tra Francesco e suo padre: “Ormai cessata la persecuzione paterna” (VB 7). L’episodio della denudazione fa tanta impressione, fu tanto ripreso dalle Vite ulteriori che il suo oblio nella Vita brevior non può essere che voluto. L’unica altra fonte che lo dimentichi è precisamente la Legenda ad usum chori, perché dipendente dalla Vita brevior. Non escludo che questo ritornare a galla di bolle di memoria sia spontaneo. Sono sicuro che gli episodi nuovamente registrati sono autentici. Ma – voglia dei soci, dell’agiografo o del ministro generale committente – quasi tutte le novità biografiche fattuali spettano alla povertà: e quello non è fortuito. Il richiamo alla povertà del fondatore come povertà vissuta, materiale, fisica, socialmente collocabile, non simbolica, non meramente spirituale procede ovviamente da una volontà politica, in contraddizione con certi punti, ad esempio, della Quo elongati del 1230. Un ultimo aspetto della novità della Vita brevior proviene non da un apporto d’informazioni nuove, ma da una meditazione intima di Tommaso da Celano. Ho emesso l’ipotesi che tale codice sia il più antico manoscritto di produzione francescana. C’è ancora molto da capire sulla sua fabbrica, la sua fattura, la sua origine, la sua destinazione e il suo utilizzo nella lunga durata. Secondo me, fu prodotto ad Assisi, nel decennio 1230, prima del 1239 comunque, da un frate o un gruppo di frati come libreria portatile destinata ad alimentare la predicazione itinerante di un frate o un gruppo di frati che, con la povertà materiale, la predicazione penitenziale e l’itineranza, cercavano di conservare la forma vitae delle origini francescane.

sua esperienza per la propria edificazione, così da porsi in ascolto dell’Altissimo sotto la sua guida e con i suoi consigli. Nasce così il desiderio di incontrare il santo: è forte la volontà della ragazza di Assisi di seguire quanto Dio le ispira ed è consapevole che la parola e la testimonianza di Francesco possano essere davvero determinanti, viste la forza e la risoluzione che egli ha dimostrato nel suo percorso di ascolto e di Il Poverello si dimostra guida straordinaria nella sequela di Cristo con l’esempio e con la parola, attestandosi come splendido ed illuminato mediatore della volontà divina. I primi frati e Chiara attingono a questa fonte di sapienza e da lui ap82

prendono l’arte di condurre nel compimento del progetto divino i fratelli e le sorelle che incontrano. Senza dubbio, su Francesco, guida spirituale, ci sarebbe ancora molto da scrivere. Il santo si è dimostrato davvero ottimo direttore nella via dello Spirito, consigliando, esortando, orientando quanti - frati in testa - si sono rivolti alla sua profetica mediazione. Ciò anche alla luce dei parametri che magistero e teologia attuali ci forniscono. Questo dato pone Francesco come punto di riferimento ineludibile per tutta la tradizione spirituale serafica che, anche in altri personaggi, ha fatto della «direzione d’anime» un elemento qualificante del loro apostolato.


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Missione francescana Napoli-Manila andata e ritorno

da MANILA

EDOARDO SCOGNAMIGLIO MINISTRO PROVINCIALE OFM CONV. CAMPANIA E BASILICATA

Ho trascorso dei giorni molto belli nelle Filippine. La visita fraterna alla Custodia francescana d’oltreoceano mi ha permesso di riscoprire e di riflettere in modo più profondo sul significato della missione nella vita di francescani. Mentre in Europa – e soprattutto in Italia – facciamo a più riprese, e a ogni livello, esperienze d’invecchiamento, di crisi vocazionale, di perdita d’entusiasmo per annunciare il Vangelo, sempre più chiusi in noi stessi – proiettando attese e speranze, luci e ombre con statistiche, calcoli, programmazioni efficientistiche in cui si lascia pochissimo spazio alla grazia di Dio e all’azione carismatica dello Spirito Santo –, l’annuncio di Cristo e del suo Vangelo nelle comunità cristiane dell’Asia è molto più vivo e, per certi aspetti (vedi ad esempio la presenza di culture e religioni diverse e complesse sullo stesso territorio, come anche l’interscambio tra confessioni cristiane non sempre in armonia tra di loro, la condivisione di progetti carisma-

tici tra cristiani sul medesimo territorio, soprattutto per opere di carità), oserei dire “molto colorato”. I frati della Custodia delle Filippine sono giovani, pieni di entusiasmo, aperti alla missione, disponibili a fondare nuove comunità, a collaborare con la Provincia di Napoli, a portare avanti nuovi progetti pastorali e missionari. In questo momento, ci sono 30 giovani filippini in formazione: 9 chierici (due professi solenni e 7 professi semplici); 15 postulanti; 6 novizi. Tagaytay incontro formativo con i frati I giorni trascorsi a Tagaytay, dove c’è la casa di noviziato e di postulato, mi hanno dato la possibilità di ascoltare singolarmente ogni frate e di condividere alcuni momenti di formazione su due argomenti molto importanti della vita consacrata: Fraternità e impegno missionario alla luce dell’Anno straordinario della misericordia. Quando ci siamo confrontati, con semplicità e auten-

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ticità, sui temi del perdono, della riconciliazione, del considerare il fratello come uno che ci appartiene, sulla misericordia che copre, sulla giustizia che si esprime nel custodire l’altro nel bene, sulla maturità di riconoscere i propri errori e di saper fare il primo passo verso l’altro – imparando a chiedere scusa, a tendere la mano a chi è in difficoltà –, gli stessi fratelli filippini hanno riconosciuto che, su queste dinamiche della vita fraterna, siamo sempre a digiuno e che molto dobbiamo lavorare affinché il dialogo e l’amicizia diventino il nostro stile di vita, il modo concreto di fare fraternità. Hanno chiesto alla Provincia religiosa di Napoli, che ha una sua memoria, una tradizione viva di governo, di missione, di riprogettazione, di formazione, di aiutarli a crescere sul senso della vita fraterna e della stessa comunione. A volte, così centrati su noi stessi, sulle regole da rispettare, sugli orari della vita comune, sulle costituzioni e gli statuti da applicare, corriamo il grande pericolo di cadere nel giuridismo o nel moralismo, due forme di paralisi che bloccano completamente la vita fraterna e lo stesso cri-

francescanesimo

repor


stianesimo, perché ci portano a giudicare gli altri, rendendoci incapaci di compiere gesti di misericordia e di perdono e di provare nuovi slanci per la vita missionaria e la nuova evangelizzazione. Una vera spiritualità di comunione è possibile raggiungerla solo nella misura in cui consideriamo il fratello come uno che ci appartiene, un dono per noi, e siamo disponibili a dargli spazio nella nostra vita di ogni giorno. Multinational Seminario san Massimiliano Per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, ho avuto modo di riflettere nella comunità di Multinational, ove c’è il chiericato, sullo stretto rapporto che esiste tra discepolato e apostolato. È possibile annunciare il Vangelo, ossia essere inviati come apostoli, solamente dopo un’esperienza concreta, anche se povera, di discepolato. Quando siamo troppo impegnati a programmare l’anno pastorale, le attività provinciali, come pure a stilare progetti personali e comunitari, a spendere quasi completamente le nostre energie in nuovi progetti missionari o attività pastorali, dimenticando l’impegno quotidiano per costruire le nostre fraternità attraverso gesti sinceri e generosi di amore, di sacrificio, di donazione, di servizio, di disponibilità verso i confratelli, ci illudiamo di essere apostoli efficientisti o all’avanguardia, dimenticando invece che solo la via del discepolato ci permetterà di testimoniare e di annunciare l’esperienza viva di Gesù Cristo a partire

dalla nostra umile e povera esistenza. Il discepolo è colui che sta dietro a Gesù, che accoglie con semplicità e umiltà il programma di vita del Maestro, portando la sua croce, senza avanzare alcuna pretesa o crocifiggendo il Signore e gli altri con le sue attese, con il suo bisogno di essere riconosciuto o apprezzato dal mondo o addirittura consolato per i suoi sacrifici. Discepolo è chi ha superato il proprio infantilismo spirituale e non si sente vittima per il bene che ha compiuto, per il servizio generoso reso in fraternità, per l’amore donato. Il discepolo non ha rimpianti per quello che ha lasciato e non vive di ricordi, di glorie passate, né si sente un sopravvissuto ai mali del tempo, alla crisi religiosa in atto. Non è discepolo chi “sta a guardare” dalle finestre del convento per vedere come vanno a finire le cose, come si svolgono i fatti della nostra vita, chi giudica l’operato degli altri, chi vive di pettegolezzi, di luoghi comuni, del sentito dire. Non è neppure discepolo chi passa il suo tempo nella pigrizia, privo di zelo per il Vangelo, curando solo il proprio orticello e pretendendo di trovare una comunità perfetta, ove si pretende di essere accolti senza dare il minimo contributo per costruire una fraternità migliore! Il discepolo è colui che ha una relazione vera con Gesù e ne sperimenta ogni giorno la sua presenza e la sua assenza attraverso un forte desiderio di stare con lui, di cercare il suo volto, di “sentire” il suo amore misericordioso e di farlo sperimentare anche ai fratelli che 84

vivono con lui e al prossimo che Dio pone sul proprio cammino … Il discepolo non vive del privilegio della chiamata, ma del dono e dell’offerta di sé per amore di Cristo e dei fratelli … Gesù ci manda ad annunziare al mondo la consolazione, la pace, veri doni messianici. Il motivo di questo annuncio è nel Regno di Dio che avanza, che si rende presente in Cristo stesso. Il discepolo deve essere credibile, quindi semplice, povero, austero, fiducioso, affidato alla forza di Cristo che lo libera da ogni male e non alle sue risorse. Francesco prese sul serio questa pagina del Vangelo e mandò i frati per il mondo a due a due. Sono sempre più convinto che oggi noi abbiamo bisogno del coraggio dei discepoli e di quella libertà del Vangelo che ci permette di abbandonare ogni nostra sicurezza e di partire verso Gerusalemme nel nome del Signore, anzi con il Signore Gesù, accompagnati dalla sua Parola, dal suo Santo Spirito. È compito nostro, di ogni fraternità, rendere presente il Vangelo (Gesù Cristo) in ogni ambiente di vita, in qualsiasi parte del mondo. Il discepolo, però, si distingue per la sua affabilità, per il suo amore, per la sua tenerezza, proprio come san Francesco. Siamo pronti per essere i nuovi missionari del Vangelo? … Sogniamo fraternità di frontiera, aperte, vicino alla gente, nello stile di papa Francesco, dove ciò che conta è l’amore per Gesù e per il prossimo? Fraternità che sanno fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il loro stile di vita, capaci di entrare in comunione con tutti? Mi ha molto colpito il colloquio fraterno avuto con i frati che vivono a Samar. Qui c’è una piccola fraternità che ogni giorno si confronta con la povertà della gente, con la vita semplice dei pescatori e di famiglie cristiane che hanno bisogno di carità,


A Novaliches impegno caritativo e sanitario Sono in cantiere diversi progetti, a Novaliches. L’impegno socio caritativo e sanitario attraverso la piccola clinica, ove sono accolte quotidianamente mamme in difficoltà, ammalati di ogni tipo e bambini bisognosi di prime cure e di sostegno alimentare, come altresì persone affette dalla tubercolosi, si avvale dell’apostolato e del volontariato di frati e laici qualificati che, a tempo pieno, si dedicano agli ultimi. Le spese mediche e sanitarie sono, nelle Filippine, sempre più costose e il volontariato dei medici inizia a scarseggiare, visto che molti professionisti preferiscono lavorare in cliniche private dove ricevono stipendi vantaggiosi. Tuttavia, non mancano bravi medici volontari che prestano il loro tempo per curare i piccoli pazienti e le mamme che ogni giorno vengono a Novaliches. Ringrazio quanti hanno mandato offerte per la clinica di sant’ Antonio in Novaliches e, in particolar modo, i fedeli e la comunità francescana della parrocchia di Maria Santissima del Rosario (Palmi) che, attraverso la mediazione di fra Giorgio Tassone, hanno elargito una congrua somma per le attività mediche della nostra clinica e per la formazione

dei giovani filippini a Tagaytay e al Seminiario san Massimiliano Kolbe in Multinational (Manila). Non meno importante, anzi dire vitale, il contributo missionario della Fondazione “Insieme per” che ha come referente e presidente fra Angelo Palumbo. U n piccolo contributo è venuto anche dai soci del Centro Studi Francescani di Maddaloni che ringrazio vivamente. Attraverso l’impegno dei frati e dei laici che animano la parrocchia di sant’ Agostino, è in atto il progetto alimentare per i bambini disagiati. Ogni giorno, oltre a ricevere i pasti, i bambini poveri sono accolti per la formazione scolastica e alimentare. Vi partecipano anche i genitori, soprattutto le mamme con la preparazione dei cibi, affinché interagiscano come famiglie e non si sentano semplicemente persone assistite bensì protagonisti di un riscatto sociale, culturale, spirituale e, in piccolo, anche economico, ancora in atto. Mensa per i bambini: Parrocchia di sant’ Agostino. I frati della Custodia sentono fortissimo il legame con la nostra Provincia: l’hanno definito un legame misericordioso, ossia viscerale, che non può essere interrotto e che deve continuare affinché si crei futuro per la Custodia e anche per la Provincia

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di Napoli. La presenza dei frati filippini nella nostra Provincia è una risorsa preziosissima che permette di interagire a più livelli: locale, provinciale, missionario (dell’Ordine e della Custodia). Attualmente, come Provincia religiosa di Napoli, abbiamo favorito anche le specializzazioni e gli studi post-baccalaureato di alcuni frati filippini: ciò permetterà di avere in Custodia e a servizio della nostra Provincia frati sempre più qualificati e formati, disposti a condividere progetti missionari e programmi pastorali in Provincia e nell’Ordine … Lasciano ben sperare i giovani del postulato. Sono ragazzi semplici affascinati dal carisma di Francesco, dall’umiltà della vita fraterna e felici per aver scoperto la preghiera, la liturgia e, soprattutto l’Eucaristia, come dialogo di amore con il Signore. Questo aspetto non è da trascurare: i giovani che entrano in convento sentono forte il desiderio di fare l’esperienza di Dio attraverso la preghiera. Qui la vocazione si rivela nell’esperienza stessa della fede attraverso una proposta di vita che passa necessariamente per la linfa vitale della liturgia che è e resta luogo privilegiato e indiscusso di animazione vocazionale e di formazione umana, cristiana e spirituale!

francescanesimo

di sostegno economico, di aiuto spirituale, di solidarietà sociale. Qui ci sono anche presenze musulmane con le quali è possibile entrare in dialogo. I frati girano per le scuole, per i piccoli centri sanitari, accogliendo in convento gente bisognosa di conforto umano e spirituale e di cibo. Qui è ancora in atto la ricostruzione dopo il tifone dello scorso anno. Le famiglie non si sentono abbandonate dal mondo e dalle istituzioni perché sperimentano la presenza dei nostri frati e godono dei benefici della Chiesa locale.


A Pompei la mostra “Per Grazia ricevuta” TOMMASO CAPUTO ARCIVESCOVO PRELATO DI POMPEI E DELEGATO PONTIFICIO PER IL SANTURARIO

Saluto con grande interesse la realizzazione della Mostra ‟PER GRAZIA RICEVUTA – La devozione religiosa a Pompei antica e moderna”, promossa, in occasione del Giubileo Straordinario indetto da Papa Francesco, dalla Soprintendenza Pompei e dal Santuario della Beata Maria Vergine del S. Rosario di Pompei, con l’ organizzazione del Centro Europeo per il Turismo e curata dal professor Francesco Buranelli. Questa iniziativa vuole, tra l’altro, mettere in luce come da sempre sia insito, nel cuore dell’uomo e della donna di ogni tempo, il legame con il soprannaturale e come sia viva e profonda la venerazione religiosa. Ma essa aggiunge anche qualcosa che va oltre il significato più immediato, e che riguarda da vicino la realtà di Pompei, la nascita e lo sviluppo della “città mariana”. Come non pensare, infatti, a tutto il Santuario come a un mirabile “exvoto” per ‘Grazia ricevuta’ da parte di chi – e mi riferisco al Fondatore, il Beato avvocato Bartolo Longo –, dopo aver trovato la fede, ha avvertito come naturale il bisogno di investire questo specialissimo dono nel campo più vasto della promozione umana e della evangelizzazione? Se ogni Santuario rappresenta un monumento vivo alla fede, l’ex voto può essere considerato come un prezioso “mattone di costruzione” reso solido dalla malta della riconoscenza e della devozione, e dal cemento di una carità che si fa amore per il prossimo. La devozione mariana a Pompei si esprime fortemente attraverso la rappresentazione grafico-pittorica della grazia ricevuta da Dio per intercessione della Madre sua. Nei circa 140 anni di storia del

Santuario sono innumerevoli le testimonianze di fede viva e di grande devozione popolare inviate o, più spesso, portate a mano. Il primo miracolo attribuito all’intercessione della Madonna di Pompei, quello alla giovane Clorinda Lucarelli di Napoli, certificato dall’illustre clinico Antonio Cardarelli, risale, infatti, al 13 febbraio 1876. Alcuni esempi di ex voto sono stati scelti per questa Mostra, altri sono esposti nei corridoi del Santuario e rappresentano una minima parte di quelli donati alla Vergine. I più antichi sono tavolette dipinte con l’illustrazione dell’episodio infausto, una descrizione narrativa e la rappresentazione di Maria Santissima che ha esaudito la grazia. In seguito, si sono affermati altri moduli narrativi, con l’uso di ritagli di giornali, capelli recisi, lamine d’argento che riproducono le parti anatomiche malate e poi guarite. Ogni ex voto è una storia personale che si 86


forma di evangelizzazione, che ha bisogno di essere sempre promossa e valorizzata, senza minimizzare la sua importanza [...]. Nei santuari, infatti, la nostra gente vive la sua profonda spiritualità, quella pietà che da secoli ha plasmato la fede con devozioni semplici, ma molto significative» (Papa Francesco, Udienza ai partecipanti al Giubileo degli Operatori dei Santuari, 21 gennaio 2016). Già nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, Papa Francesco aveva affermato che la pietà popolare, è «autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista. Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi» (Eg, 122-123). Nel Documento finale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, detto Documento di Aparecida (29 giugno 2007), essa viene chiamata anche ‟spiritualità popolare” o ‟mistica popolare”, ‟spiritualità incarnata nella cultura dei semplici” (n. 262). La pietà popolare «non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale [...]. Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice» (Eg, 124-126). L’accostamento, poi, alla tradizione religiosa dell’Antica Pompei non deve meravigliare. Lo stesso Bartolo Longo, Fondatore del Santuario, delle Opere di carità e della Città di Pompei, nel dar vita alla rivista ‟Il Rosario e la Nuova Pompei”, nel 1884, la definì periodico di storia, di religione e di archeologia ed in essa dava spazio anche alle scoperte dell’antica città romana che venivano alla luce in quel periodo. Auspico, dunque, che dalla visita a questa Mostra, che si svolge in contemporanea nell’Antiquarium degli Scavi Archeologici e in una sala del Santuario, i turisti ed i pellegrini possano ricevere nuovi impulsi spirituali e culturali e siano sempre più interessati a conoscere nuovi aspetti della nostra e della loro storia. 87

mostra

esalta nell’ambito di una tradizione collettiva e si inserisce nella storia sacra del Santuario. Ancor oggi è una tradizione che continua. Si tratta di un tipo di religiosità che, a torto, molti giudicano minore; rappresenta, invece, una genuina e sincera modalità di rapportarsi con il sacro, con il soprannaturale, che unisce giovani e anziani, delle più varie provenienze e di diverse estrazioni sociali e culturali. Infatti, pur esprimendo, a prima vista, una devozione semplice ed individuale, l’ex voto presuppone una fede profonda che fa uscire da sé per rendere i fratelli e le sorelle partecipi dell’amore ricevuto da Dio e, dunque, in una certa misura, contribuire all’evangelizzazione. La principale differenza tra religione e fede sta proprio nella relazionalità. La religione spinge a rispondere al bisogno di Dio rimanendo nel quadro della propria individualità. Anche se collettiva, viene rinchiusa nel mondo dell’individuo. La fede cristiana, invece, presuppone la rinuncia all’individualità, all’io autosufficiente e la trasformazione della vita in comunione, secondo il modello trinitario che corrisponde alla vita vera. È l’accoglienza della vita nuova, di una nuova esistenza. La religione insegna cosa fare per arrivarci, per conquistarla; fa leva su come realizzare nella vita una dottrina religiosa, un insegnamento; e sui meriti e i benefici che questo comporta. Ma il rapporto con Dio coinvolge tutte le dimensioni umane e, quindi, tutto ciò che l’uomo è. Si tratta di una realtà vitale, relazionale. La vita come comunione, infatti, trasforma radicalmente tutto, anche la percezione del mondo, caduto, redento, trasfigurato. La Chiesa è costituita da persone unite dalla vita che condividono e che ha in Dio la sua origine. La fede è, dunque, per sua natura, comunionale, perché accoglienza di una vita nell'amore. Perché abbraccia tutti quelli che sono in Dio. In questo Anno Santo Straordinario dedicato alla Misericordia trovo sia veramente opportuno dedicare iniziative come queste alla religiosità popolare, definita da Papa Francesco una «una genuina


arte

Luci, volti e colori nella pittura di Paolo d’Alessandro da Salerno

GIANFRANCO GRIECO NOSTRO SERVIZIO PARTICOLARE

Vola nel cielo infinto l’aquila di Paolo D’Alessandro mentre si scontrano l’azzurro del cielo ed i tubi che emanano ombre nere dalla terra. Le due cosiddette civiltà stanno alla base del nostro quotidiano travaglio: la ricerca della bellezza, di un mondo pulito, irreale, per sempre scomparso e la triste realtà che accompagna i nostri giorni inquieti e violenti circondati e schiacciati da un consumismo sfrenato e senza senso che produce solo scorie e detriti tossici che generano morte. La terra dei fuochi al sud come al nord insegna.

vari temi: personaggi, paesaggi, natura, ritratti con quella immacolatezza francescana che porta dentro da sempre anche prima di scegliere la via evangelica e la vita semplice di Francesco d’Assisi.

Padre Paolo D’Alessandro è un artista dai molti talenti. La sua arte, religiosa e profana, spazia al di là dei manierismi di facciata. D’Alessandro è un puro, un semplice che si offre all’arte senza mescolamenti e senza giochi artificiali. Affronta i

Padre D’Alessandro passa dalla semplicità della linea e del tratto alla complessità ingarbugliata della natura, dei fiori, degli alberi. Il semplice per lui diventa complesso e il complesso diventa semplice. Sono storie dell’anima raccontate con 88

semplicità e con intuizione: il volo, la linea cura sono le sue scelte artistiche preferite. Tutto diventa gioco nella spazio infinito del grande universo. I ritratti religiosi: crocifisso, sguardo d’amore, madre, pietà , e profani: grido, la Maddalena, maternità, malinconia, kim, Myriam e maternità, presentano genialità, intuizione, passione di una ricerca che supera i naturali confini del disegno per imprimere nell’anima la linearità di una ricerca artistica che diventa anche surreale come i multipli Mater mundi del 2001, Ma-donna del 2001 e Abbraccio del 1993. Cresce nel tempo e con il tempo la ricerca artistica di Paolo D’Alessandro. La strada da percorrere è ancora tanta, ma la mostra al museo diocesano di Salerno ( 6-15 maggio 2016) e il bel volume Ricerca … edito per l’evento, dimostrano come la sensibilità artistica è un cammino, un andare oltre. Immagini che ritraggono paesaggi di luce e testi che diventano compagni di viaggio fanno di questo libro il traguardo significativo di una vita artistica e religiosa che stupisce.


cinema Nuovo film su San Francesco "L'amico - Francesco d'Assisi e i suoi fratelli" del regista francese Renaud Fely è il titolo di un nuovo film dedicato al cristiano povero di Assisi. Nei panni del Poverello è l'attore italiano Elio Germano, presente al Festival del Cinema Europeo di Lecce per ricevere un premio alla carriera e presentare una retrospettiva a lui dedicata. Trentacinque anni e trentacinque film. Elio Germano si è adattato al mestiere dell'attore con fatica, non perché non gli piaccia farlo - lo fa anzi benissimo, con una serie di titoli impegnativi e grandi successi che gli sono stati attribuiti da critica e pubblico -, ma soltanto perché sopporta a fatica ciò che sta attorno al cinema. Per lui, infatti, girare un film è prima di tutto la possibilità di crescere in termini di umanità e la felicità di condividere con gli altri un'esperienza artistica. E' accaduto per la sua interpretazione, lodatissima, di Giacomo Leopardi nel film di Mario Martone "Il giovane favoloso". Ugualmente, e forse a maggior ragione, tutto questo lo ha provato quando il regista francese Renaud Fely lo ha chiamato per interpretare il ruolo di San Francesco, insieme a Jérémie Renier nei panni di Frate Elia e Alba Rohrwacher in quelli di Santa Chiara. Protagonista questa volta è la primissima comunità francescana, il gruppo di "fratelli" che seguirono Francesco, e la dimensione anche politica che dovettero affrontare: ossia le varie vicissitudini che su loro gravarono, all'alba del XIII secolo. Le riprese sono state fatte dai primi di ottobre alla

fine di novembre dello scorso anno. La produzione cercava ambientazioni soprattutto rurali che avessero conservato lo spirito dell'epoca, come l'Abbazia di Fontfroide, nella regione della Linguadoca-Rossiglione. In Umbria la troupe è stata soltanto per pochi giorni nei dintorni di Gubbio, per girare alcune scene con Santa Chiara. A Elio Germano abbiamo chiesto come si è preparato per l'interpretazione del Poverello di Assisi e che cosa lo ha colpito maggiormente: “Io ovviamente approfitto del mio mestiere per studiare; non sono laureato - ho finito il liceo però ho avuto questa grande ‘chance’. E quindi ho approfittato di questo film francese, in cui mi è stato offerto di interpretare San Francesco, per studiare tutto un mondo, grazie ai tantissimi testi che tra l’altro ho trovato con grande disponibilità: ad Assisi ci sono delle grandissime biblioteche e, se si vuole, si trovano tantissime cose soprattutto sulla vita di San Francesco. È molto interessante leggere le varie versioni della sua vita, anche perché in questo modo si scoprono anche tutte le questioni politiche: la paura della Chiesa di un personaggio come Francesco; e come anche la sua storia sia stata poi cambiata a seconda di quello che faceva comodo che passasse. Però è un percorso molto affascinante sia per l’attualità estrema del pensiero francescano che della politica intorno al pensiero francescano: cioè come la Chiesa ha reagito a tutto questo. Ed è una metafora per leggere tantissime altre cose. 89


musica

Festival francescano con tante novità Torna a Bologna, dal 23 al 25 settembre, il Festival Francescano, che per la sua ottava edizione ha scelto come tema “il perdono”. Parola poco alla moda, tornata alla ribalta grazie alla scelta di Papa Francesco d’indire il Giubileo straordinario della Misericordia, si colloca in un 2016 che è ancor più straordinario per i francescani, poiché ricorrono l’ottavo centenario del Perdono di Assisi e i trent’anni dello Spirito di Assisi. La manifestazione si riempie, già dal tema “Per forza o perdono”, di molteplici significati, attraverso un centinaio di appuntamenti tra spettacoli, workshop e attività per i più piccoli. Michele Ungolo ne ha parlato con il direttore del Festival padre Giordano Ferri:

La formula del Festival rimane invariata, è quella classica. Avremo, quindi, conferenze, spettacoli, mostre, attività didattiche per i bambini e i gazebo dove presentiamo le attività francescane più importanti. La novità di quest’anno, tra le altre, è anche una sezione dedicata appunto ai bambini. Quest’anno il Festival si “sposerà”, per così dire, con la città dello Zecchino d'Oro, evento che da anni l’Antoniano di Bologna organizza a Bologna. In questa ottava edizione del Festival Francescano il tema principale sarà legato al perdono … L’ottava edizione si svolge all’interno, chiaramente, del Giubileo della Misericordia. Questo è stato un primo spunto per scegliere questo tema. Partiremo sicuramente dalla dimensione psicologia: perdonare se stessi; perdonare gli altri: il perdono nelle relazioni, in famiglia, ma anche sul posto di lavoro. Altro filone importante che seguiremo, che cercheremo di capire, è come far conciliare due valori, che sono il “perdono” e la “giustizia”.

Quest’anno ricorrono due eventi importanti, come l’ottavo centenario del Perdono di Assisi e i 30 anni dello Spirito di Assisi … Papa Francesco è andato ad Assisi, alla Porziuncola, anche per ricordare questo centenario. Ricorrono anche 30 anni dello Spirito d’Assisi, l’incontro che Giovanni Paolo II fece ad Assisi con tutti i responsabili di tutte le religioni del mondo. Altro filone importante che svilupperemo sarà appunto un tema di assoluta attualità, che è il dialogo interreligioso. Avremo diverse tavole rotonde, avremo un concerto ecumenico, avremo un momento di preghiera interreligiosa e anche una novità, che è la Biblioteca Vivente e che darà la possibilità di incontrarsi con dei libri veri, in carne ed ossa, quindi la possibilità di superare anche i pregiudizi, di incontrare faccia a faccia persone di altre religioni per parlare appunto con loro, per confrontarsi. Cosa si aspetta da questa edizione? Qualche passo in avanti, soprattutto nella collaborazione tra i francescani; siamo una grande famiglia e quindi il Festival è anche un’occasione per imparare ad unire le forze per l’evangelizzazione. Può essere anche un’occasione per avvicinare i giovani alla Chiesa … Veramente. Abbiamo sposato la formula “festival” perché ci fa tornare in piazza. Francesco non voleva neppure i conventi: lui viveva per strada. Quindi per noi è uno stimolo anche, con una formula nuova, secondo cui può essere il festival culturale a “costringerci” a tornare in strada, a tornare in piazza tra la gente. Grazie a Dio i francescani godono ancora di tanta simpatia, di amore e di affetto tra la gente.


molo: la Via Francigena è aniticiclica, porta le persone a camminare, crea microeconomie turistiche proprio nelle stagioni e nei luoghi più desueti. Tutto questo fa del fatto turistico un’espressione molto più completa e compiuta, dunque economicamente importante.

Valorizzare cammini storici, di fede e di natura. E’ questa la finalità del Festival europeo “Via Francigena Collective Project 2016”, presentato a Roma. Nell’edizione del 2016 sono oltre 700 le iniziative legate al Festival e più di 300 gli enti promotori. Questa sesta edizione si concluderà il 20 novembre 2016, giorno in cui terminerà il Giubileo della Misericordia. Alla rassegna partecipano tra gli altri l’Unione Nazionale delle Pro Loco italiane e l’Opera Romana Pellegrinaggi che promuove il “Cammino della Pace da Betlemme a Gerusalemme”. Il Festival è un occasione per riscoprire attraverso la Via Francigena, la più estesa infrastruttura culturale e relazionale d’Europa, paesaggi di straordinaria bellezza e attrattiva. La Via Francigena è infatti la spina dorsale di un cammino spirituale secolare, ma è anche una delle leve privilegiate di un turismo alternativo. L'antica Via, che nel Medioevo univa Canterbury a Roma, è stata riscoperta dai moderni pellegrini. Negli ultimi anni migliaia di persone hanno cominciato il loro cammino da Canterbury a Roma, alcuni decidendo di proseguire il loro percorso fino a Gerusalemme. In occasione del Giubileo della Misericordia è cresciuto il numero di pellegrini che hanno percorso questo cammino millenario. Il Festival europeo della via Francigena, giunto alla sesta edizione, valorizza dunque questo straordinario patrimonio culturale e di fede attraverso un ricco programma di iniziative. E’ quanto sottolinea, ad Amedeo Lomonaco il direttore artistico del Festival, Sandro Polci: A volte sono piccoli eventi, a volte molto grandi, ma sono tutti legati dagli stessi valori di spiritualità e in molti casi religiosi, di valorizzazione dei territori. Tutto questo fa vedere che ci sono modelli di crescita, di sviluppo e di vita nuovi che possono aver un futuro stabile, ottimistico e positivo per il nostro Paese. Proprio in un momento in cui sembra prevalere il pessimismo, si ritorna alle parole di Papa Francesco, alla qualità dei luoghi nel cui rispetto si trova una regola e una molla per poter fare ancora meglio. Poi, dicia-

I modelli di crescita sono incastonati in questo itinerario di fede e cultura che può essere anche percorso riflettendo sulle parole nell’Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco … È un punto di partenza e un punto di sintesi perché non c’è conflitto tra chi crea buona economia nei luoghi utilizzando le parole della condivisione e cercando di essere anello di una catena e non di mettere il cappello a qualcosa. Ecco perché il Festival gode di più 700 adesioni: ognuno si sente rispettato nella propria capacità di proposta. Ci sono anche molte iniziative; ce ne sono alcune in particolare che vogliamo ricordare … Una giovane coppia che si sposa e che crea visite guidate in un piccolo borgo rurale, fino a itinerari di pellegrinaggio come da Macerata a Loreto con centomila persone che dal tramonto all’alba con le parole del Papa al momento della partenza camminano insieme. C’è poi il numero zero di un’idea alla quale tengo personalmente molto e che l’anno prossimo diventerà europea che quest’anno sperimentiamo con il senese: la Notte Bianca degli ostelli in occasione della chiusura del Giubileo. Durante questa iniziativa, il 20 novembre, tutti potranno essere ospitati gratuitamente prestando una piccola opera. Un segno di misericordia, di ospitalità, di futuro e anche di economia buona. Il governo italiano ha stanziato, nell’ambito del Piano Strategico Turismo e Cultura, un miliardo di euro del Fondo Sviluppo e Coesione 2014 – 2020. Oltre 60 milioni, di cui più di 20 per la Via Francigena, sono destinati alla valorizzazione di cammini religiosi e di tracciati storici.

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itinerari giubilari

Aumentano pellegrini e risorse


«Un uomo come voi» Testi scelti di Paolo VI “Un uomo come voi": così si presentò Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965. E questa espressione è ora il titolo del volume, edito da Marietti, che raccoglie testi di Montini tra il 1914 e il 1978. A curare il volume, il prof. Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano. Nell’intervista di Fausta Speranza, Vian spiega innanzitutto il criterio con cui i testi sono stati scelti: Un criterio molto semplice: tutti i testi usciti sicuramente dalla penna di Montini non sono in alcun modo tagliati, cioè hanno una loro completezza, dalle lettere alle omelie, agli appunti … Ci sono molti testi, soprattutto del Pontificato, sicuramente scritti da Montini e interamente da Montini. Il caso più clamoroso è l’Ecclesiam Suam, l’Enciclica programmatica del ’64, un testo bellissimo che però ho volutamente escluso proprio per non fare una scelta, perché è un testo molto lungo. Nella storia di Papa Paolo VI c’è il Concilio: c’è la ripresa del Concilio nel ’63 e questi anni ci sono presenti. “Mai è stata così pura la Chiesa – scriveva Paolo VI - mai così desiderosa di servire il Signore, mai così disinteressata, mai così staccata dagli interessi temporali”. Che dire? É la grande atmosfera, la grande speranza di quegli anni. È stato un Papa aperto al suo tempo, aperto all’incontro, dando fiducia all’altro.

Il tema centrale del Pontificato di Papa Francesco è la Misericordia. C’è un legame fortissimo con Paolo VI. Ricordiamo quando dice: “Fratelli lontani, perdonateci se non vi abbiamo compreso, se vi abbiamo troppo facilmente respinti, se non ci siamo curati di voi, se non siamo stati bravi maestri di spirito e medici delle anime. Perdonateci” … R. - Questo è il messaggio dell’arcivescovo Montini con il quale nel novembre del ‘57 apre la missione di Milano rivolgendosi ai lontani. Lei ha fatto bene a ricordare questo tema centrale del Pontificato di Bergoglio che però è il tema che apre con Roncalli e chiude con Montini il Concilio. Roncalli apre dicendo: “Oggi la Chiesa preferisce la medicina della misericordia” e Montini chiude dicendo: “L’immagine che riassume il Concilio, il suo incontro con il mondo, è l’immagine del samaritano”, quindi un’immagine di misericordia. Quindi, c’è questa continuità molto grande … Sì, nella differenza fortissima di personalità, di carattere – questo è ovvio - di origine, ma c’è questa forte continuità senza dubbio, anche se – e io questo l’ho scritto nelle brevi pagine introduttive – Montini è un po’ dimenticato: Papa Bergoglio lo sta facendo tornare nel cuore della Chiesa. Paolo VI, pensando anche al Concilio, parlava di una Chiesa che si mette in discussione e che riforma se stessa. Riflette sul rapporto tra 92

dottrina e pratica: “La pratica, consenziente la dottrina – affermava è suscettibile di mille applicazioni contingenti; la dottrina anche per esigenze pratiche deve restare fedele a sé stessa”… Io credo che Papa Montini quando ha deciso di riconvocare il Concilio non ha avuto alcun dubbio, pur cosciente delle difficoltà che il Concilio rappresentava ed avrebbe portato come ogni Concilio nella storia. Io sono convinto che se Montini fosse stato eletto Papa nel ’58 avrebbe scelto un altro modo per rinnovare la Chiesa proprio perché vedeva tutte le complessità del Concilio. Tra l’altro, i Concili più importanti hanno avuto naturalmente, fisiologicamente bisogno di tempo per essere compresi, recepiti dagli ecclesiastici ma anche dai fedeli. Eppure lo ha assunto il Concilio intuito da Roncalli, da Giovanni XXIII, in questo modo straordinario, lo fa proprio, perché si era già schierato con la maggioranza riformista alla fine del ’62, e lo conduce con rispetto ma anche con la piena coscienza del ruolo papale.


libri

«Siamo portatori di un messaggio per tutta l’umanità» GIOVANNI MARIA VIAN DIRETTORE DE L’OSSERVATORE ROMANO

Nel Palazzo di Vetro di New York il papa aveva appena cominciato a parlare. Davanti a lui i rappresentanti di mezzo mondo lo seguivano con curiosità e attenzione mentre in francese leggeva un testo lungo e appassionato. Lo aveva scritto personalmente parola per parola in italiano, e personalmente aveva rivisto la traduzione in quella che era un po’ la sua seconda lingua, come lo era stata per sua madre, morta all’improvviso mentre meditava sulle pagine di Bossuet. Aveva studiato il francese da ragazzo e poi l'aveva perfezionato a Parigi, giovane prete, in un’ estate ormai lontana e, soprattutto, l'aveva sempre praticato. Leggendo con avidità autori sempre amati e usandone spesso la lingua in innumerevoli incontri durante il trentennio trascorso nella Segreteria di Stato vaticana, con responsabilità sempre crescenti, fino ai vertici. «Voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello» disse Montini, che subito dopo alzando per un momento gli occhi dal testo aggiunse: «Oh ! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul pontefice di Roma, voi conoscete la nostra missione; siamo portatori di un messaggio per tutta l’umanità ». Anzi - continuò con una immagine suggestiva - «siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata»; adempiendo «un voto, che noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con noi una lunga storia; noi celebriamo qui l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca di un colloquio con il mondo intero, da quando ci è stato comandato: Andate e portate la buona novella a tutte le genti». Dalla Introduzione: Giovanni Battista Montini. Un uomo come voi. Testi scelti 1914-1978, Marietti 1820, p. 198 ,16,00 euro.

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E V E N T I 2016

Museo diocesano di Salerno 6-15 maggio 2016; Luci, volti e colori nella pittura di Paolo d’Alessandro

La professione dei voti dei novizi. Assisi, Basilica Inferiore. Pellegrinaggio Roma comunità Napoli - Maddaloni

Il Grande Spettacolo dell’Acqua, 3-21 agosto 2016, Lago di San Pietro a Monteverde (Avellino), promosso dalla Fondazione “Insieme per…..”

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7 agosto 2016, Salerno processione di san Gaetano

Ripacandida ( Potenza) Presentazione del volume di Padre Rocco Rizzo: “Il parroco santo di Ripacandida”. Don Gianbattista Rossi. 12 agosto 2016




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