Luce serafica 01 2015 web

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Numero 1/2015 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luceerafica S Rivista francescana fondata a Ravello nel 1925

Papa Francesco Da Manila a Napoli

Per첫 - El Salvador Mare nostrum La nuova La primavera I nuovi martiri Quel cimitero ... Cuba nera

_f 90 anni di vita



Editoriale Gianfranco Grieco

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a 90 anni LUCE SERAFICA porta nelle vostre e nelle nostre case la profezia di frate Francesco d’Assisi: la pace e il bene. Umili e faticosi, gli inizi nel lontano anno di grazia 1925. Povertà di mezzi e di strumenti editoriali, accompagnati, però, dal grande cuore francescano dei pionieri. Da padre Giuseppe Palatucci a tutti gli altri direttori della rivista, sino ad oggi, unico e condiviso è stato il progetto: portare il messaggio sempre verde di san Francesco nei territori del paese Italia ed aprire cammini di speranza in tutti coloro che dal messaggio francescano vengono illuminati ed attratti. Vogliamo ripercorrere questi 90 anni della nostra storia condivisa con un convegno che celebreremo a Ravello, culla della nostra rivista, sabato 27 giugno 2015. Storia civile e religiosa della divina Costiera dal 1925 ad oggi; presenza francescana e santi della nostra terra; presenza culturale, socio-politica ed editoriale; rapporto chiesa-territorio. Questi e altri i capitoli di un cammino faticoso percorso con gioia e con dedizione. Fare un bilancio non vuol dire soltanto guardare al passato, ma, soprattutto, programmare l’avvenire. Il seme piantato 90 anni or sono ha portato i frutti che solo il Signore conosce. Certo, la storia cammina e tante sono state le novità che anche la rivista nel corso di tutti questi anni ha cercato cogliere e di riproporre con una attenta lettura dei segni dei tempi. Ma, una verità, vogliamo con un certo orgoglio,

confermare e riproporre: la fedeltà all’annuncio del Vangelo di Cristo Gesù riproposto dal serafico padre Francesco: annuncio della Parola di Dio e di frate Francesco; testimonianza francescana; itineranza; povertà; storia francescana, cultura francescana e arte francescana; ecumenismo e dialogo interreligioso: questi gli abiti di una proposta francescana divenuta nel tempo sempre più credibile ed efficace.

Ricordiamo sempre l’immagine di san Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione. In realtà, cari fratelli, sul vangelo degli emarginati, si gioca e si scopre e si rivela la nostra credibilità!

PAPA FRANCESCO, Omelia santa messa con i nuovi cardinali, 15 febbraio 2015 Siamo pienamente convinti che sarà sempre più il francescanesimo a rendere credibile il cristianesimo. E, con questa convinzione, procediamo verso i nuovi traguardi avendo presente come frate Francesco “luce del mondo” continua a irradiare lo splendore della sua luce in Italia e nel mondo, come, ogni giorno, predica Papa Francesco.


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EDITORIALE CHIESA NEWS - VIAGGI Ci scrivono... Papa Francesco in Asia Tre parole del viaggio Riconciliazione e comunione Le 15 malattie Il sinodo sulla famiglia La missione dei media TERRA SANTA E OLTRE Il terrorismo in Europa Il francescanesimo oltre i conflitti Oscar Romero e i poveri I martiri del Perù PASTORALE - SPIRITUALITÀ - MISSIONE Le speranze dei consacrati Le attese dei consacrati La testimonianza del Cardinale Angelini SGUARDI SUL MONDO La vecchia Europa: 1915-1919 Auschwitz e Sarajevo Preghiera per la Pace “Mare nostrum” Un nuovo ponte tra Cuba e Usa La “primavera nera” S. Egidio in Africa POLITICA IN ITALIA Roma capitale I mali di Roma Il nuovo presidente Napoli: risorse e conflitti La visita del Papa a Napoli FRANCESCANESIMO - TESTIMONI La minorità Dammi la speranza P. Michele Abete Verso la Pasqua Il battesimo CULTURA - ARTE - MUSICA Giovanni Palatucci Casa dolce casa Arte e sacro Pino Daniele IN LIBRERIA - SPORT La santità raccontata Cristiani e musulmani Supercoppa per il Napoli EVENTI

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CI SCRIVONO ….

La foto dei lettori

Roma, 15 gennaio 2015 Caro Gianfranco, mi è appena giunta Luce che ho sfogliato e che poi leggerò. Congratulazioni vivissime e Buon 2015! È un compendio del mondo ecclesiale, grazie a richiami e a firme che ci aiutano a percepire il battito effettivo della Chiesa di Cristo. L’epilogo è tutto nostro, della nostra provincia religiosa, con l’implicito intento di mostrare come nelle nostre case si viva quanto a livello di Chiesa universale viene richiamato e brevemente descritto, con intermezzi francescani estremamente significativi. Un’impostazione davvero originale. Un confronto che sarebbe bene forse sviluppare, invitando i nostri frati a offrire un resoconto più dettagliato delle attività che pure riescono a organizzare e a realizzare, a volte a fatica, ma sempre con frutto. Sviluppando questa tua impostazione, avremmo da una parte lo specchio della Chiesa nella sua dinamica effettiva, e dall’altra la nostra ‘povera e ricca’ Provincia religiosa, sollecitata a ritrovare in essa motivi di ampliamento, e di fortificazione, dei propri orizzonti di vita comunitaria e pastorale. Disponendo tu dell’indirizzario di tutti noi, alcune settimane prima di licenziare la rivista potresti farci pervenire un tuo pressante invito a inviare in redazione, su tematiche specifiche, qualcosa - un breve resoconto di quanto in cantiere nelle nostre parrocchie, illustrato in modo adeguato - ai fini di questo dialogo tra la Chiesa universale e il nostro modo di viverne i problemi e condividerne le prospettive assieme ai nostri fedeli. Un materiale che nelle tue mani di artista acquisterebbe un peso davvero rilevante. In questo modo, forse, in maniera efficace e concreto, recupereremmo il significato pieno di ‘luce serafica’ che è appunto uno specchiarsi da parte di ognuno di noi, come singolo e come fraternità, nella Chiesa universale. Non è forse questa l’anima ispirativa della spiritualità francescana - “umili e soggetti ai piedi della Santa Chiesa”? È solo un’idea, che potremmo prendere in esame e discutere, ai fini di individuare le modalità più opportune per non perdere di vista il respiro ecumenico della Chiesa come sponda preziosa di confronto, e insieme per non lasciare in ombra l’operosità effettiva della nostra Provincia religiosa. Una tale impostazione non farebbe della nostra Rivista un ‘unicum', da leggere e dar far leggere, e dunque da diffondere nel nostro Sud, non sempre sollecitato a riflettere in maniera adeguata e a progettare?

Gent.mo padre Gianfranco, colgo l’occasione natalizia per porgere gli auguri e ringraziare per il dono del bel libro sul BEATO BONAVENTURA da Potenza. Ogni bene! FRA GIOVANNI VOLTRAN, MINISTRO PROVINCIALE - PADOVA Grazie per il bel libro dedicato al Beato Bonaventura con fraterno affetto e stima FRA MAURO GAMBETTI, CUSTODE DEL S. CONVENTO - ASSISI Grazie per il dono del volume sul nostro B. Bonaventura COMUNITÀ CASA KOLBE - ROMA Grazie infinite per il libri sul Beato Bonaventura da Potenza FRA UBALDO VALERI E COMUNITÀ - ASCOLI PICENO Grazie per i preziosi contributi sul B. Bonaventura da Potenza e auguri di pace e ogni bene FRA VINCENZO BROCANELLI – SEGRETERIA GENERALE – CURIA GENERALIZIA OFM. - ROMA Grate per il libro del Beato Bonaventura. Assicuriamo il nostro ricordo nella preghiera COMUNITÀ EDUCATRICI MISSIONARIE P. KOLBE - MONTEVAGO (AG) Grazie di cuore per il bel volume sul Beato Bonaventura + GIANFRANCO AGOSTINO GARDIN ARCIVESCOVO- VESCOVO DI TREVISO

FRA ORLANDO TODISCO COMITATO DI REDAZIONE Orlando Todisco Edoardo Scognamiglio Iman Sabbah Emanuela Vinai Assunta Cefola Emanuela Bambara Giacomo Auriemma Mohammad Djafarzadeh Boutros Naaman Foto di copertina de L’Osservatore Romano Foto ultima di copertina Giovanni Fortunato

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Hanno collaborato: Gianfranco Grieco, Bernard Cortez, Roselyne Fortin de Ferraudy, Orlando Todisco, Vincenzo Paglia, Roberto Morozzo Della Rocca, Edoardo Scognamiglio, Francesco Dante, Emanuela Vinai, Josè Guillermo Guttiérez,Jean Baptiste Sourou, Riccardo Mensuali, Romano Bartoloni, Andra Gagliarducci, Paolo Viana, Raffaele Di Muro, Giorgio Tufano, Andrea Giucci, Giovanni Preziosi, Mohammad Djafarzadeh, Giorgio Agnisola, Giacomo Auriemma.


Papa Francesco è tornato in Asia: Sri Lanka e Filippine Lanka il desiderio di avere il Papa, è stato motivato dalla canonizzazione di padre Vaz, che ha contributo anche per la pacificazione del Paese. Il Papa, ha dedicato al popolo dello Sri Lanka due giornate piene: il 13 e il 14 gennaio. Tra i momenti più importanti, l’incontro interreligioso a Colombo, in un paese in cui il 70% della popolazione è buddhista, il 12-13% è induista, il 10% islamica e il 7% è cristiana, per lo più cattolica. Quindi, il mercoledì, la Messa di canonizzazione di Giuseppe Vaz, religioso oratoriano vissuto tra il 17.mo e 18.mo secolo, che prestò un’importante opera di evangelizzazione in Sri Lanka, beatificato esattamente vent’anni fa da san Giovanni Paolo II. A seguire, la preghiera mariana al santuario di Nostra Signora del Rosario a Madhu, il più frequentato del Paese, che si trova nel nord, a maggioranza Tamil: “In questa occasione il Papa si è fatto presente per l’altro grande aspetto della situazione dello Sri Lanka di oggi, che è quello della riconciliazione, dopo il periodo lunghissimo e terribile del conflitto interno, prevalentemente tra i cingalesi e i tamil. È stato un periodo di conflitto che è durato una trentina di anni – quindi lunghissimo, sanguinosissimo – ed è terminato intorno al 2009.

da MANILA

BERNARD CORTEZ NOSTRO SERVIZIO

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stato il settimo viaggio apostolico di Papa Francesco, il secondo in Asia dopo quello dell’agosto 2014 nella Repubblica di Corea. Un viaggio durato otto giorni. Prima nello Sri Lanka e poi nelle Filippine dal 12 al 19 gennaio 2015. Un altro esempio dell’attenzione del Pontefice per l’Asia sulle orme dei predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II, che pure visitarono i due Paesi: Papa Montini nel 1970 e Papa Wojtyla nel 1981 nelle Filippine; e nel gennaio 1995 ancora nelle Filippine e in Sri Lanka. È stata forte l’insistenza dei vescovi delle Filippine di avere il Papa, anche come conforto dopo il disastro immenso del tifone di un anno fa, che ha causato dei danni immensi. Ottomila morti; 15 milioni di persone coinvolte dalle distruzioni portate dal tifone, cinquecentomila case distrutte. Uno dei peggiori tifoni della storia, perlomeno a memoria d’uomo. E tutto ciò ha portato naturalmente a chiedere la presenza del Papa come conforto, come compassione per un popolo molto provato. Per lo Sri

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Il 15 gennaio, dopo una visita alla cappella di “Our Lady of Lanka” a Bolawalana, la partenza per le Filippine, che si sono preparati al 500.mo anniversario di evangelizzazione, nel 2021. Venerdì 16 gennaio, tra gli incontri previsti a Manila, quello con le famiglie, realtà centrale nelle Filippine, il più grande Paese asiatico a maggioranza cattolica. L’importanza che la cultura familiare ha nella cultura filippina è fondamentale. Poi, la visita nelle zone colpite dal tifone Haiyan, nominato “Yolanda”. A Tacloban, sabato 17 il Pontefice ha celebrato la santa Messa; a Palo ha pranzato con alcuni superstiti e ha benedetto il “Pope Francis Center” per i poveri, costruito con i contributi di “Cor Unum”. Tra il seguito papale anche il cardinale Robert Sarah, africano, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, che all’epoca del disastro guidava il Pontificio Consiglio “Cor Unum”. Domenica 18 gennaio nella capitale filippina l’incontro con i leader religiosi locali, con i giovani e la santa Messa nel giorno del “Santo Niño”. Lunedì 19, nel pomeriggio, il rientro in Vaticano, dopo aver sorvolato diversi Paesi, tra cui la grande Cina.

San Francesco morì povero ma con il cuore stracolmo “Lasciatevi sorprendere da Dio. E non temete le sorprese! Vi scuotono il terreno sotto i piedi! E rendono tutto insicuro, ma ci spingono ad avanzare nella giusta direzione. Il vero amore fa che vi spendiate nella vita, vi lascia le tasche vuote. San Francesco morì con le mani vuote, con le tasche vuote, ma con un cuore stracolmo. Siamo d’accordo, allora? No giovani ‘museo’, ma uomini saggi. Per essere saggi usate i tre linguaggi: pensare, sentire e agire. Per essere saggi permettete a voi stessi di farvi sorprendere dall’amore di Dio”. Papa Francesco ai giovani di Manila Sabato 17 gennaio 2015


Rispetto, poveri, famiglia Le tre parole del viaggio apa Francesco ha affermato che l’odio e la violenza si possono vincere solo con la forza del bene e con il rispetto per ogni persona. Anche la Chiesa ha imparato nella storia ed è “cresciuta tanto nella coscienza del rispetto” per le altre religioni.

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dere le religioni: “non si può insultare la fede degli altri” considerando le religioni “una sorta di sottocultura”. Anche la libertà di espressione ha un limite. Dunque, il rispetto porta la pace: non l’offesa, ma “il balsamo della solidarietà fraterna”.

RISPETTO E DIALOGO Non bisogna dimenticare la propria identità – ha detto ai leader religiosi nello Sri Lanka – ma “se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo in grado di vedere più chiaramente quanto abbiamo in comune”. Il dialogo è essenziale per “capirci e rispettarci l’un l’altro”. Nello stresso tempo “non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza”: “uccidere in nome di Dio è un’aberrazione” ha detto con forza, e in questi casi occorre denunciare. Ha però ricordato la necessità di non offendere o deri-

GIUSTIZIA E DIGNITÀ PER I POVERI I poveri, l’altra parola del viaggio, sono stati loro il messaggio, ha detto Papa Francesco: i poveri che hanno fede, i poveri sfruttati, i poveri che sono “al centro del Vangelo”. Occorre combattere le cause di una “scandalosa disuguaglianza”. E’ un imperativo morale “assicurare la giustizia sociale” ed è Vangelo “ascoltare la voce dei poveri”. Il Papa ha messo in guardia da una “compassione mondana” che si acquieta la coscienza donando qualche moneta. Bisogna invece vincere la corruzione e l’egoismo e ridare dignità e diritti ai poveri.

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NUOVE COLONIZZAZIONI IDEOLOGICHE CONTRO LA FAMIGLIA

La terza parola è la famiglia. Oggi – ha detto il Papa – famiglia e matrimonio “sono sempre più sotto l’attacco di forze potenti”. “Stiamo attenti – ha sottolineato – alle nuove colonizzazioni ideologiche” che “cercano di distruggere la famiglia”. Ci sono “crescenti tentativi” per “ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la cultura dell’effimero, una mancanza di apertura alla vita”. “Ogni minaccia alla famiglia è una minaccia alla società stessa”. “Il futuro passa attraverso al famiglia – ha esortato con il Papa – Dunque, custodite le vostre famiglie! Proteggete le vostre famiglie!”.

I media srilankesi: “il leader che bacia i piedi”

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ono stati giorni segnati dalla gioia di un popolo che ha invaso le strade per salutare l’uomo venuto da lontano. Una felicità contagiosa, che le persone hanno mostrato fin dai primi momenti del suo arrivo. Le bandiere, i canti, i sorrisi, il trambusto nelle strade hanno dato il tono di quello che è successo qui a Colombo. Il popolo dello Sri Lanka ha fatto in modo che il Papa si sentisse a casa, come un vecchio amico che veniva in visita. Ma in questo abbraccio ideale a Francesco non c’era solo la dimostrazione di affetto di cattolici e altri cristiani, ma anche l’espressione di un popolo intero: buddisti, induisti, musulmani, hanno guardato a questo pellegrino di pace, al “leader che bacia i piedi” - come uno dei giornali locali ha descritto la figura di Francesco – come ad una persona di casa. La sua umiltà ha contagiato la gente, che anche se di religione diversa voleva vedere l’uomo vestito di bianco venuto dalla fine del mondo. Buddisti, musulmani, protestanti, cattolici, tutti sono felici per la visita di Francesco, convinti che il passaggio di Francesco sia una benedizione per un Paese che inizia una nuova fase della sua storia. “È stata la visita di un sant’uomo” - come ha scritto un giornale locale - “che veglia sulla pace e sul mondo”. 10


Riconciliazione e comunione le tappe missionarie

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opo la visita in Corea di qualche mese fa, mi sono recato nuovamente in Asia, continente di ricche tradizioni culturali e spirituali. Il viaggio è stato soprattutto un gioioso incontro con le comunità ecclesiali che, in quei Paesi, danno testimonianza a Cristo: le ho confermate nella fede e nella missionarietà. Conserverò sempre nel cuore il ricordo della festosa accoglienza da parte delle folle – in alcuni casi addirittura oceaniche –, che ha accompagnato i momenti salienti del viaggio. Inoltre ho incoraggiato il dialogo interreligioso al servizio della pace, come pure il cammino di quei popoli verso l’unità e lo sviluppo sociale, specialmente con il protagonismo delle famiglie e dei giovani. La canonizzazione di padre Vaz Il momento culminante del mio soggiorno in Sri Lanka è stata la canonizzazione del grande missionario Giuseppe Vaz. Questo santo sacerdote amministrava i Sacramenti, spesso in segreto, ai fedeli, ma aiutava indistintamente tutti i bisognosi, di ogni religione e condizione sociale. Il suo esempio di santità e amore al prossimo continua a ispirare la Chiesa in Sri Lanka nel suo apostolato di carità e di educazione. Ho indicato san Giuseppe Vaz come modello per tutti i cristiani, chiamati oggi a proporre la verità salvifica del Vangelo in un contesto multireligioso, con rispetto verso gli altri, con perseveranza e con umiltà.

Pace e riconciliazione Le diverse religioni hanno un ruolo significativo da svolgere al riguardo. Il mio incontro con gli esponenti religiosi è stato una conferma dei buoni rapporti che già esistono tra le varie comunità. In tale contesto ho voluto incoraggiare la cooperazione già intrapresa tra i seguaci delle differenti tradizioni religiose, anche al fine di poter risanare col balsamo del perdono quanti ancora sono afflitti dalle sofferenze degli ultimi anni. Il tema della riconciliazione ha caratterizzato anche la mia visita al santuario di Nostra Signora di Madhu, molto venerata dalle popolazioni Tamil e Cingalesi e meta di pellegrinaggio di membri di altre religioni. In quel luogo santo abbiamo chiesto a Maria nostra Madre di ottenere per tutto il popolo srilankese il dono dell’unità e della pace. Quinto centenario dell’arrivo del Vangelo Dallo Sri Lanka sono partito alla volta delle Filippine, dove la Chiesa si prepara a celebrare il quinto centenario dell’arrivo del Vangelo. È il principale Paese cattolico dell’Asia, e il popolo filippino è ben noto per la sua profonda fede, la sua religiosità e il suo entusiasmo, anche nella diaspora. Nel mio incontro con le Autorità nazionali, come pure nei momenti di preghiera e durante l’affollata Messa conclusiva, ho sottolineato la costante fecondità del Vangelo e la sua capacità di ispirare una società degna dell’uomo, in cui c’è posto per la dignità di ciascuno e le aspirazioni del popolo filippino.

Ricostruire l’unità Lo Sri Lanka è un paese di grande bellezza naturale, il cui popolo sta cercando di ricostruire l’unità dopo un lungo e drammatico conflitto civile. Nel mio incontro con le Autorità governative ho sottolineato l’importanza del dialogo, del rispetto per la dignità umana, dello sforzo di coinvolgere tutti per trovare soluzioni adeguate in ordine alla riconciliazione e al bene comune.

La vicinanza ai colpiti dal tifone Yolanda Scopo principale della visita, e motivo per cui ho deciso di andare nelle Filippine - questo è stato il motivo principale -, era poter esprimere la mia vicinanza ai nostri fratelli e sorelle che hanno subito la devastazione del tifone Yolanda. Mi sono recato a Tacloban, nella regione più gravemente colpita, dove ho reso omaggio

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alla fede e alla capacità di ripresa della popolazione locale. A Tacloban, purtroppo, le avverse condizioni climatiche hanno causato un’altra vittima innocente: la giovane volontaria Kristel, travolta e uccisa da una struttura spazzata dal vento. Ho poi ringraziato quanti, da ogni parte del mondo, hanno risposto al loro bisogno con una generosa profusione di aiuti. La potenza dell’amore di Dio, rivelato nel mistero della Croce, è stata resa evidente nello spirito di solidarietà dimostrata dai molteplici atti di carità e di sacrificio che hanno segnato quei giorni bui. Famiglie e giovani Gli incontri con le famiglie e con i giovani, a Manila, sono stati momenti salienti della visita nelle Filippine. Le famiglie sane sono essenziali alla vita della società. Dà consolazione e speranza vedere tante famiglie numerose che accolgono i figli come un vero dono di Dio. Loro sanno che ogni figlio è una benedizione. Ho sentito dire da alcuni che le famiglie con molti figli e la nascita di tanti bambini sono tra le cause della povertà. Mi pare un’opinione semplicistica. Posso dire, possiamo dire tutti, che la causa principale della povertà è un sistema economico che ha tolto la persona dal centro e vi ha posto il dio denaro; un sistema economico che esclude, esclude sempre: esclude i bambini, gli anziani, i giovani, senza lavoro … - e che crea la cultura dello scarto che viviamo. Ci siamo abituati a vedere persone scartate. Questo è il motivo principale della povertà, non le famiglie numerose. Rievocando la figura di san Giuseppe, che ha protetto la vita del "Santo Niño", tanto venerato in quel Paese, ho ricordato che occorre proteggere le famiglie, che affrontano diverse minacce, affinché possano testimoniare la bellezza della famiglia nel progetto di Dio. Occorre anche difendere le famiglie dalle nuove colonizzazioni ideologiche, che attentano alla sua identità e alla sua missione. Ed è stata una gioia per me stare con i giovani delle Filippine, per ascoltare le loro speranze e le loro preoccupazioni. Ho voluto offrire ad essi il mio incoraggiamento per i loro sforzi nel contribuire al rinnovamento della società... La cura dei poveri La cura dei poveri è un elemento essenziale della nostra vita e testimonianza cristiana –

LA LIBERTÀ DEVE ESSERE ACCOMPAGNATA DALLA PRUDENZA

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urante il volo di ritorno dalla Filippine - lunedì 19 gennaio 2015 - la giornalista messicana Valentina Alazraki rivolgeva a Papa Francesco la segunete domanda in merito alla strage di Parigi e alla interpretazione che i media avevano fatto delle sue precedenti parole: Santità, nel viaggio, quando andavamo verso le Filippine, lei ci ha offerto quella immagine e anche quel gesto che nel caso avesse insultato sua mamma si sarebbe meritato un pugno. Questa frase ha creato un pochino di confusione e non è stata capita bene da tutti, nel mondo, perché era come se dicesse che forse giustificava un pochino, davanti a una provocazione, una reazione violenta. Ci potrebbe spiegare un pochino meglio quello che voleva dire?”. Papa Francesco: “In teoria, possiamo dire che una reazione violenta davanti a un’offesa, a una provocazione, in teoria sì, non è una cosa buona, non si deve fare. In teoria, possiamo dire quello che il Vangelo dice, che dobbiamo dare l’altra guancia. In teoria, possiamo dire che noi abbiamo la libertà di esprimere e questa è importante. Nella teoria siamo tutti d’accordo. Ma siamo umani, e c’è la prudenza, che è una virtù della convivenza umana. Io non posso insultare, provocare una persona continuamente, perché rischio di farla arrabbiare, rischio di ricevere una reazione non giusta, non giusta. Ma è umano, questo. Per questo dico che la libertà di espressione deve tenere conto della realtà umana e perciò dico che deve essere prudente. È un modo di dire che deve essere anche educata. Prudente. La prudenza è la virtù umana che regola i nostri rapporti. Io posso andare fino a qui, non posso andare in là, in là … Questo volevo dire: che in teoria siamo tutti d’accordo: c’è libertà di espressione, una reazione violenta non è buona, è cattiva sempre. Tutti d’accordo. Ma nella pratica fermiamoci un po’, perché siamo umani e rischiamo di provocare gli altri e per questo la libertà deve essere accompagnata dalla prudenza. Questo volevo dire”. ho accennato a questo anche nella visita; comporta il rifiuto di ogni forma di corruzione, perché la corruzione ruba ai poveri e richiede una cultura di onestà. Ringrazio il Signore per questa visita pastorale in Sri Lanka e nelle Filippine. Gli chiedo di benedire sempre questi due Paesi e di confermare la fedeltà dei cristiani al messaggio evangelico della nostra redenzione, riconciliazione e comunione con Cristo. Udienza generale, mercoledì 21 gennaio 2015

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Quindici malattie da codice rosso

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a Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione. Eppure essa, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità. E qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, “malattie curiali”. Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il “catalogo” delle malattie – sull’esempio dei Padri del deserto, che facevano questi cataloghi – di cui parliamo oggi.

di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità. 4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo: si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità». 5. La malattia del cattivo coordinamento: quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orche1. La malattia del sentirsi “imstra che produce chiasso, perché HA SCRITTO “Nei tempi recenti nessun papa ha mai parmortale”, “immune” o addiritle sue membra non collaborano tura “indispensabile”: Essa lato come papa Francesco. Ha detto quello e non vivono lo spirito di comuche pensa con parresia, tralasciando linderiva spesso dalla patologia nione e di squadra. Quando il guaggi allusivi e stile diplomatico. Questo del potere, dal “complesso suo discorso echeggia quel che san Bernardo piede dice al braccio: “non ho degli Eletti”, dal narcisismo – monaco però, non papa – osava dire nell’XI bisogno di te”, o la mano alla che guarda appassionatamente secolo al papa e alla sua corte: parole che testa: “comando io”, causando la propria immagine e non pochi altri seppero scrivere o proclamare a così disagio e scandalo. correzione dei vizi ecclesiastici nei momenti vede l’immagine di Dio im6. C’è anche la malattia dell’“alin cui si faceva urgente una riforma della pressa sul volto degli altri, spe- Chiesa in capite et in corpore”. zheimer spirituale”: ossia la dicialmente dei più deboli e ENZO BIANCHI menticanza della propria storia La stampa , 23-12-2014, p. 1-31 di salvezza, della storia persobisognosi. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci nale con il Signore, del «primo peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inu- amore» (Ap 2,4). Si tratta di un declino progressivo tili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo in2. La malattia del “martalismo” (che viene da Marta), tervallo di tempo causa gravi handicap alla persona fadell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immer- cendola diventare incapace di svolgere alcuna attività gono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza migliore”: il sedersi ai piedi di Gesù (cfr Lc 10,38-42). dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coPer questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a “ripo- loro che hanno perso la memoria del loro incontro con sarsi un po’” (cfr Mc 6,31), perché trascurare il neces- il Signore; in coloro che non hanno il senso “deuterosario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo nomico” della vita; in coloro che dipendono completadel riposo, per chi ha portato a termine la propria mis- mente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e sione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente manie; in coloro che costruiscono intorno a sé muri e 3. C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di che hanno scolpito con le loro stesse mani. pietra e la “testa dura” (cfr At 7,51); di coloro che, strada 7. La malattia della rivalità e della vanagloria: quando facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’au- l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorifidacia e si nascondono sotto le carte diventando “mac- cenza diventano l’obiettivo primario della vita. È la machine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3,12). lattia che ci porta ad essere uomini e donne falsi e a Essere cristiano, infatti, significa “avere gli stessi senti- vivere un falso misticismo e un falso “quietismo”. Lo menti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), sentimenti stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cri-

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sto» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,18.19). 8. La malattia della schizofrenia esistenziale: è’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).

9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. È una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere! 10. La malattia di divinizzare i capi. È la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a

I nuovi cardinali per una Chiesa global Più potere all’Asia e alle periferie del modo: Tonga,Vietnam, Etiopia Sabato 14 febbraio Papa Francesco ha tenuto un Concistoro, durante il quale ha nominato 15 nuovi Cardinali, provenienti da 13 nazioni di ogni continente. Domenica 15 febbraio ha presieduto una solenne concelebrazione con i nuovi Cardinali, mentre il 12 e 13 febbraio ha tenuto un Concistoro con tutti i Cardinali per riflettere sugli orientamenti e le proposte per la riforma della Curia Romana. I nuovi Cardinali sono: 1 – Mons. Dominique Mamberti, Arcivescovo titolare di Sagona, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. 2 – Mons. Manuel José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo). 3 – Mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel, C.M., Arcivescovo di Addis Abeba (Etiopia). 4 – Mons. John Atcherley Dew, Arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda). 5 – Mons. Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo (Italia). 6 – Mons. Pierre Nguyên Văn Nhon, Arcivescovo di Hà Nôi (Viêt Nam). 7 – Mons. Alberto Suárez Inda, Arcivescovo di Morelia (Messico). 8 – Mons. Charles Maung Bo, S.D.B., Arcivescovo di Yangon (Myanmar). 9 – Mons. Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, Arcivescovo di Bangkok (Thailandia). 10 – Mons. Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento (Italia). 11 – Mons. Daniel Fernando Sturla Berhouet, S.D.B., Arcivescovo di Montevideo (Uruguay). 12 – Mons. Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid (Spagna). 13 – Mons. José Luis Lacunza Maestrojuán, O.A.R., Vescovo di David (Panamá). 14 – Mons. Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di Santiago de Cabo Verde (Arcipelago di Capo Verde). 15 – Mons. Soane Patita Paini Mafi, Vescovo di Tonga (Isole di Tonga). Inoltre Papa Francesco ha unito ai Membri del Collegio Cardinalizio 5 Arcivescovi e Vescovi Emeriti che – ha spiegato – “si sono distinti per la loro carità pastorale nel servizio alla Santa Sede e alla Chiesa. Essi rappresentano tanti Vescovi che, con la stessa sollecitudine di pastori, hanno dato testimonianza di amore a Cristo e al Popolo di Dio sia nelle Chiese particolari, sia nella Curia Romana, sia nel Servizio Diplomatico della Santa Sede”. Essi sono: 1 – Mons. José de Jesús Pimiento Rodríguez, Arcivescovo emerito di Manizales. 2 – Mons. Luigi De Magistris, Arcivescovo titolare di Nova, Pro-Penitenziere Maggiore emerito. 3 – Mons. Karl-Joseph Rauber, Arcivescovo titolare di Giubalziana, Nunzio Apostolico. 4 – Mons. Luis Héctor Villalba, Arcivescovo emerito di Tucumán. 5 – Mons. Júlio Duarte Langa, Vescovo emerito di Xai-Xai. “Preghiamo per i nuovi Cardinali - ha invitato il Papa durante il dopo Angelus di domenica 4 gennaio 2015-, affinché, rinnovando il loro amore a Cristo, siano testimoni del suo Vangelo nella Città di Roma e nel mondo e con la loro esperienza pastorali mi sostengano più intensamente nel mio servizio apostolico”. 14


accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi, perché “il sudario non ha tasche” e tutti i nostri tesori terreni – anche se sono regali – non potranno mai riempire quel vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. 14. La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il “fuoco amico” dei commilitoni è il pericolo più subdolo. È il male che colpisce dal di dentro e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11,17). 15. E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi: quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. è la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo, perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza! PAPA FRANCESCO alla curia romana 22 dicembre 2015

quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,1625). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità. 11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo. 12. La malattia della faccia funerea, ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. 13. La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore

LA FAMIGLIA PRIMA SCUOLA DI COMUNICAZIONE

rienza di comunicazione” che accomuna tutti. È in famiglia che si impara a parlare, ad usare le parole, ed è in famiglia che si trasmette la preghiera, “dimensione religiosa della comunicazione”. In famiglia, scrive il Papa, si capisce “che cosa è veramente la comunicazione come scoperta e costruzione di prossimità”. È la famiglia, inoltre, che “diventa una scuola di perdono”, perché è laddove volendosi bene che si sperimentano limiti “propri e altrui”. “Non esiste la famiglia perfetta, dice il Papa, ma non bisogna avere paura dell’imperfezione, della fragilità, nemmeno dei conflitti; bisogna imparare ad affrontarli in maniera costruttiva”.

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ella famiglia si insegna e si impara a comunicare: è questo il cuore del messaggio del Papa in occasione della 49.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali dal tema “Comunicare la famiglia: ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore” che si celebrerà il prossimo 17 maggio. È partendo dai due Sinodi sulla famiglia, quello straordinario, nell’ottobre scorso (5-19) , e quello ordinario, il prossimo ottobre (6-25), che Papa Francesco articola il suo messaggio fondato sulla famiglia “primo luogo dove impariamo a comunicare” spiega Francesco, sin dal momento del concepimento “prima ‘scuola’ di comunicazione fatta di ascolto e contatto corporeo”. La famiglia scuola di perdono L’incontro mamma-bambino è “la nostra prima espe-

Le famiglie disabili Anche il perdono “è una dinamica di comunicazione”, attraverso la quale il bambino che impara “ad ascoltare gli altri, a parlare in modo rispettoso, esprimendo il proprio punto di vista senza negare quello

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altrui, sarà nella società un costruttore di dialogo e di riconciliazione”. Francesco richiama l’esperienza delle famiglie con figli disabili, il deficit può indurre a chiudersi, ma con l’amore della famiglia, così come degli amici, può diventare “stimolo ad aprirsi, a condividere, a comunicare in modo inclusivo; e può aiutare la scuola, la parrocchia, le associazioni a diventare più accoglienti verso tutti, a non escludere nessuno”. Educare i figli alla fratellanza Anche in un mondo dove le chiacchiere e le maldicenze inquinano, “la famiglia può essere una scuola di comunicazione come benedizione”. Anche quando possono prevalere odio e violenza, quando “le famiglie sono separate tra loro da muri” anche dettati da pregiudizio e risentimento, è allora che benedire, visitare e accogliere diventano il modo per “testimoniare che il bene è sempre possibile, per educare i figli alla fratellanza”. I media devono sempre rendere possibile l’incontro Francesco si sofferma sui mezzi di comunicazione per eccellenza, i media oggi “ormai irrinunciabili” che possono ostacolare la comunicazione, in famiglia e tra famiglie, se significano “sottrarsi all’ascolto, isolarsi dalla compresenza fisica” ma possono anche favorirla se “aiutano a raccontare e condividere, a restare in contatto con i lontani, a ringraziare e chiedere perdono, a rendere sempre di nuovo possibile l’incontro”. E’ così che si potrà orientare il proprio rapporto con le tecnologie anziché farsi “guidare da esse”. La famiglia non è un terreno per combattere battaglie ideologiche I genitori sono i primi educatori, spiega il Papa, ma vanno affiancati dalla comunità cristiana perché “sappiano insegnare ai figli a vivere nell’ambiente comunicativo secondo i criteri della dignità della persona umana e del bene comune”. Ed ecco che si arriva alle sfide di oggi: “reimparare a raccontare, non semplicemente produrre e consumare informazione”, che spesso semplifica, contrappone le differenze e le visioni diverse, anche schierandosi, “anziché favorire uno sguardo d’insieme”. La famiglia, è la conclusione, “non è un oggetto sul quale si comunicano delle opinioni o un terreno sul quale combattere battaglie ideologiche, ma un ambiente in cui si impara a comunicare nella prossimità e un soggetto che comunica, una comunità comunicante”.

Famiglia: luogo dove imparare a comunicare l’amore ricevuto e donato La famiglia “continua ad essere una grande risorsa, e non solo un problema o un’istituzione in crisi”, aldilà di come tendono a volte a presentarla i media, quasi fosse un modello “astratto da accettare o rifiutare, da difendere o attaccare, invece che una realtà concreta da vivere; o come se fosse un’ideologia di qualcuno contro qualcun altro, invece che il luogo dove tutti impariamo che cosa significa comunicare nell’amore ricevuto e donato”. La famiglia più bella “è quella che sa comunicare, partendo dalla testimonianza, la bellezza e la ricchezza del rapporto tra uomo e donna, e di quello tra genitori e figli”. “Non lottiamo per difendere il passato, è la conclusione, ma anche il richiamo del Papa, ma lavoriamo con pazienza e fiducia, in tutti gli ambienti che quotidianamente abitiamo, per costruire il futuro”.

PAPA FRANCESCO ALLA ROTA ROMANA “VORREI CHE TUTTI I PROCESSI FOSSERO GRATUTI” Papa Francesco ha incontrato il 23 gennaio 2015 i membri del Tribunale della Rota Romana nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il giudice, ha affermato nel ponderare la validità del consenso espresso dagli sposi, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata. Ha quindi sollecitato il Tribunale ad un accresciuto impegno per il bene di tante coppie che si rivolgono alla Chiesa per far luce sulla propria situazione coniugale auspicando sempre più cause del tutto gratuite. Non bisogna, dunque, chiudere la salvezza delle persone dentro le strettoie del giuridicismo ma, evitando sofismi lontani dalla carne viva delle persone in difficoltà, stabilire la verità nel momento consensuale. Infine un dato positivo che il Papa commenta a braccio: un rilevante numero di cause presso la Rota Romana sono di gratuito patrocinio a favore di parti che, per le disagiate condizioni economiche in cui versano, non sono in grado di procurarsi un avvocato. “E questo è un punto che voglio sottolineare: i Sacramenti sono gratuiti. I Sacramenti ci danno la grazia. E un processo matrimoniale tocca il Sacramento del matrimonio. Quanto vorrei che tutti i processi fossero tutti gratuiti!”.

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Il sinodo sulla famiglia Come si è svolto e cosa ha prodotto PAPA FRANCESCO

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desso iniziamo una nuova tappa, un nuovo ciclo, e il tema sarà la famiglia; un tema che si inserisce in questo tempo intermedio tra due Assemblee del Sinodo dedicate a questa realtà così importante. Perciò, prima di entrare nel percorso sui diversi aspetti della vita familiare, oggi desidero ripartire proprio dall’Assemblea sinodale dello scorso mese di ottobre, che aveva questo tema: “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione”. E’ importante ricordare come si è svolta e che cosa ha prodotto, come è andata e che cosa ha prodotto. Durante il Sinodo i media hanno fatto il loro lavoro – c’era molta attesa, molta attenzione – e li ringraziamo perché lo hanno fatto anche con abbondanza. Tante notizie, tante! Questo è stato possibile grazie alla Sala Stampa, che ogni giorno ha fatto un briefing. Ma spesso la visione dei media era un po’ nello stile delle cronache sportive, o politiche: si parlava spesso di due squadre, pro e contro, conservatori e progressisti, eccetera. Oggi vorrei raccontare quello che è stato il Sinodo. Anzitutto io ho chiesto ai Padri sinodali di parlare con franchezza e coraggio e di ascoltare con umiltà, dire con coraggio tutto quello che avevano nel cuore. Nel Sinodo non c’è stata censura previa, ma ognuno poteva - di più doveva - dire quello che aveva nel cuore, quello che pensava sinceramente. “Ma, questo farà discussione”. E’ vero, abbiamo sentito come hanno discusso gli Apostoli. Dice il testo: è uscita una forte discussione. Gli Apostoli si sgridavano fra loro, perché cercavano la volontà di Dio sui pagani, se potevano entrare in Chiesa o no. Era una cosa nuova. Sempre, quando si cerca la vo-

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lontà di Dio, in un’assemblea sinodale, ci sono diversi punti di vista e c’è la discussione e questo non è una cosa brutta! Sempre che si faccia con umiltà e con animo di servizio all’assemblea dei fratelli. Sarebbe stata una cosa cattiva la censura previa. No, no, ognuno doveva dire quello che pensava. Dopo la Relazione iniziale del Card. Erdö, c’è stato un primo momento, fondamentale, nel quale tutti i Padri hanno potuto parlare, e tutti hanno ascoltato. Ed era edificante quell’atteggiamento di ascolto che avevano i Padri. Un momento di grande libertà, in cui ciascuno ha esposto il suo pensiero con parresia e con fiducia. Alla base degli interventi c’era lo “Strumento di lavoro”, frutto della precedente consultazione di tutta la Chiesa. E qui dobbiamo ringraziare la Segreteria del Sinodo per il grande lavoro che ha fatto sia prima che durante l’Assemblea. Davvero sono stati bravissimi. Nessun intervento ha messo in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio, cioè: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e l’apertura alla vita (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 48; Codice di Diritto Canonico, 1055-1056). Questo non è stato toccato. Tutti gli interventi sono stati raccolti e così si è giunti al secondo momento, cioè una bozza che si chiama Relazione dopo la discussione. Anche questa Relazione è stata svolta dal Cardinale Erdö, articolata in tre punti: l’ascolto del contesto e delle sfide della famiglia; lo sguardo fisso su Cristo e il Vangelo della famiglia; il confronto con le prospettive pastorali. Su questa prima proposta di sintesi si è svolta la discussione nei gruppi, che è stato il terzo momento. I gruppi, come sempre, erano divisi per lingue, perché è meglio


così, si comunica meglio: italiano, inglese, spagnolo e francese. Ogni gruppo alla fine del suo lavoro ha presentato una relazione, e tutte le relazioni dei gruppi sono state subito pubblicate. Tutto è stato dato, per la trasparenza perché si sapesse quello che accadeva. A quel punto – è il quarto momento – una commissione ha esaminato tutti i suggerimenti emersi dai gruppi linguistici ed è stata fatta la Relazione finale, che ha mantenuto lo schema precedente – ascolto della realtà, sguardo al Vangelo e impegno pastorale – ma ha cercato di recepire il frutto dalle discussioni nei gruppi. Come sempre, è stato approvato anche un Messaggio finale del Sinodo, più breve e più divulgativo rispetto alla Relazione. Questo è stato lo svolgimento dell’Assemblea sinodale. Alcuni di voi possono chiedermi: “Hanno litigato i Padri?”. Ma, non so se hanno litigato, ma che hanno parlato forte, sì, davvero. E questa è la libertà, è proprio la libertà che c’è nella Chiesa. Tutto è avvenuto “cum Petro et sub Petro”, cioè con la presenza del Papa, che è garanzia per tutti di libertà e di fiducia, e garanzia dell’ortodossia. E alla fine con un mio intervento ho dato una lettura sintetica dell’esperienza sinodale. Dunque, i documenti ufficiali usciti dal Sinodo sono tre: il Messaggio finale, la Relazione finale e il discorso finale del Papa. Non ce ne sono altri. La Relazione finale, che è stata il punto di arrivo di tutta la riflessione delle Diocesi fino a quel momento, ieri è stata pubblicata e viene inviata alle Conferenze Episcopali, che la discuteranno in vista della prossima Assemblea, quella Ordinaria, nell’ottobre 2015. Dico che ieri è stata pubblicata - era già stata pubblicata -, ma ieri è stata pubblicata con le domande rivolte alle Conferenze

HA DETTO

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vanti sempre. È la madre Chiesa che va e cerca i suoi figli per fare giustizia. E bisogna essere anche molto attenti che le procedure non siano entro la cornice degli affari: e non parlo di cose strane. Ci sono stati anche scandali pubblici. Io ho dovuto congedare dal Tribunale una persona, tempo fa, che diceva: “10.000 dollari e ti faccio i due procedimenti, il civile e l’ecclesiastico”. Per favore, questo no! Sempre nel Sinodo alcune proposte hanno parlato di gratuità, si deve vedere… Ma quando sono attaccati l’interesse spirituale all’economico, questo non è di Dio! La madre Chiesa ha tanta generosità per poter fare giustizia gratuitamente, come gratuitamente siamo stati giustificati da Gesù Cristo. Questo punto è importante: staccate, le due cose”. PAPA FRANCESCO SALUTO AI PARTECIPANTI AL CORSO “SUPER RATIO” PROMOSSO DAL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA 5 novembre 2014

Episcopali e così diventa proprio Lineamenta del prossimo Sinodo. Dobbiamo sapere che il Sinodo non è un parlamento, viene il rappresentante di questa Chiesa, di questa Chiesa, di questa Chiesa… No, non è questo. Viene il rappresentante, sì, ma la struttura non è parlamentare, è totalmente diversa. Il Sinodo è uno spazio protetto affinché lo Spirito Santo possa operare; non c’è stato scontro tra fazioni, come in parlamento dove questo è lecito, ma un confronto tra i Vescovi, che è venuto dopo un lungo lavoro di preparazione e che ora proseguirà in un altro lavoro, per il bene delle famiglie, della Chiesa e della società. È un processo, è il normale cammino sinodale. Ora questa Relatio torna nelle Chiese particolari e così continua in esse il lavoro di preghiera, riflessione e discussione fraterna al fine di preparare la prossima Assemblea. Questo è il Sinodo dei Vescovi. Lo affidiamo alla protezione della Vergine nostra Madre. Che Lei ci aiuti a seguire la volontà di Dio prendendo le decisioni pastorali che aiutino di più e meglio la famiglia. Vi chiedo di accompagnare questo percorso sinodale fino al prossimo Sinodo con la preghiera. Che il Signore ci illumini, ci faccia andare verso la maturità di quello che, come Sinodo, dobbiamo dire a tutte le Chiese. E su questo è importante la vostra preghiera. Udienza generale 10 dicembre 2014 18


Papa Francesco

I media cattolici hanno una missione impegnativa

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re pensieri che mi stanno particolarmente a cuore intorno al ruolo del comunicatore. PRIMO. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale: cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell’economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare in faccia, di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici –il tatticismo? – il nostro parlare sarà artefatto, poco comunicativo, insipido, un parlare di laboratorio. E questo non comunica niente. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: risvegliare le parole. Ma, ogni parola ha dentro di sé una scintilla di fuoco, di vita. Risvegliare quella scintilla, perché venga. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. SECONDO. La comunicazione evita sia di “riempire” che di “chiudere”. Si “riempie” quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude” quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco

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riflessiva. Aprire e non chiudere: ecco il secondo compito del comunicatore, che sarà tanto più fecondo quanto più si lascerà condurre dall’azione dello Spirito Santo, il solo capace di costruire unità e armonia. TERZO. Parlare alla persona tutta intera: ecco il terzo compito del comunicatore. Evitando quelli che, come ho già detto, sono i peccati dei mediala disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Questi tre sono i peccati dei media. La disinformazione, in particolare, spinge a dire la metà delle cose, e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di "colpire": l’alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone intere: alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l’immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso. Di questi tre peccati – la disinformazione, la calunnia e la diffamazione –la calunnia, sembra di essere il più insidioso, ma nella comunicazione, il più insidioso è la disinformazione, perché ti porta a sbagliare, all’errore; ti porta a credere soltanto una parte della verità. Risvegliare le parole, aprire e non chiudere, parlare a tutta la persona rende concreta quella cultura dell’incontro, oggi così necessaria in un contesto sempre più plurale. Con gli scontri non andiamo da nessuna parte. Fare una cultura dell’incontro. E questo è un bel lavoro per voi. Ciò richiede di essere disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri. Udienza ai dirigenti, ai dipendenti e agli operatori della Televisione TV2000 15 dicembre 2014


TERRA SANTA E OLTRE

“Fermate il terrorismo, aiutate i profughi”

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ternazionale” perché vengano in aiuto ai rifugiati, aiutando il loro rimpatrio e aiutandoli a costruire le abitazioni. Questo può essere fatto “mettendo fine alla guerra in Siria e in Iraq con mezzi pacifici, mediante negoziati politici e un dialogo serio fra i belligeranti, neutralizzando le organizzazioni terroriste”. Ciò può essere ottenuto se le comunità araba e internazionale “cessano di sostenere [i terroristi] dal punto di vista finanziario e militare, chiudendo le frontiere dove è necessario per impedire la circolazione dei mercenari”. “I disegni politici ed Situazione profughi cristiani Il patriarca Beshara Rai ha detto economici - ha aggiunto - non che l’obbiettivo del raduno era di giustificano tali aggressioni terconoscere più fa vicino la situa- ribili contro l’umanità”. zione dei rifugiati cristiani e quella dei fedeli che hanno de- Risolvere le crisi israelo -palesticiso di rimanere nel loro Paese, nese e arabo-israeliana nonostante la guerra e le diffi- Per i patriarchi e i leader cricoltà. Per essi, ha aggiunto, è ur- stiani, è necessario anche lavogente aiutarli a garantire un rare per risolvere la crisi lavoro, scuole, alloggi perché israelo-palestinese, sulla base "possano restare nei loro rispet- della formula “due popoli, due tivi Paesi e preservare così la loro Stati”, permettendo il ritorno tradizione e missione cristiane". dei rifugiati alle loro case. “È evidente - ha affermato il paComunità araba e internazio- triarca Rai - che i due conflitti nale aiutino i profughi e non fi- israelo palestinese e israelo nanzino i terroristi arabo sono all’origine delle diL’altro obiettivo è un appello sgrazie che noi viviamo oggi in “alle due comunità araba e in- MedioOriente”. n incontro dei patriarchi e dei leader cristiani dell’Oriente si è tenuto recentemente a Bkerke, sede del patriarcato libanese per affrontare la situazione dei cristiani in Medio Oriente e domandare alla comunità araba e internazionale di non appoggiare il terrorismo, aiutando nell’emergenza dei profughi e lavorando per il loro ritorno in patria. Chiesto anche un impegno - riferisce l’agenzia AsiaNews - per trovare una soluzione alla crisi israelo -palestinese.

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I PARTECIPANTI ALL’INCONTRO All’incontro hanno partecipato Youhanna Yazigi, patriarca greco-ortodosso; Mar Aghnatios Afram II, patriarca siro-ortodosso; Gregorio III Laham, patriarca greco-cattolico; Mar Aghnatios Youssef III Younane, patriarca siro-cattolico; Joseph Arnaout, rappresentante del Catholicos armeno di Cilicia, Nercès Bedros IX; Michel Kassargi, vescovo caldeo in Libano; il pastore Sélim Sahyoun, presidente del Consiglio superiore della comunità evangelica in Libano e Siria; il nunzio apostolico Gabriele Caccia; diversi rappresentanti di organismi caritativi cattolici, ortodossi e protestanti. Appello per la liberazione di tutti i rapiti I leader cristiani domandano uno sforzo maggiore dei governi e delle organizzazioni non governative a favore dei rifugiati e chiedono un impegno maggiore per ottenere la liberazione di tutte le persone rapite, o detenute, siano esse civili, militari o personalità religiose. Fra queste vi sono i due vescovi, il greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazigi, e il siriaco ortodosso, Youhanna Ibrahim, nelle mani di gruppi fondamentalisti in Siria da quasi due anni. Pensiero al Libano Un pensiero è stato rivolto alla situazione del Libano, dal maggio scorso senza Presidente e con i gruppi politici cristiani e musulmani che ne boicottano l’elezione.


Papa Francesco sull’attentato di Parigi NO A TANTA CRUDELTÀ NO AL TERRORISMO ISOLATO E DI STATO “

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’attentato di Parigi ci fa pensare a tanta crudeltà, crudeltà umana; a tanto terrorismo, sia al terrorismo isolato, sia al terrorismo di Stato. Ma la crudeltà della quale è capace l’uomo! Preghiamo, in questa Messa, per le vittime di questa crudeltà. Tante! E chiediamo anche per i crudeli, perché il Signore cambi il loro cuore. Santa Marta, messa del Papa, giovedì mattina 8 gennaio 2015. Il giorno prima, Papa Francesco aveva espresso “la più ferma condanna per l’orribile attentato” che ha seminato “la morte, gettando nella costernazione l’intera società francese, turbando profondamente tutte le persone amanti della pace, ben oltre i confini della Francia”. Papa Francesco – riferiva il direttore della Sala Stampa della Santa Sede padre Federico Lombardi –“partecipa nella preghiera alla sofferenza dei feriti e delle famiglie dei defunti ed esorta tutti ad opporsi con ogni mezzo al diffondersi dell’odio e di ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura. Qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile, la vita e la dignità di tutti vanno garantite e tutelate con decisione, ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato”. “Il Papa – proseguiva padre Lombardi - esprime la sua vicinanza, la sua solidarietà spirituale e il suo sostegno per tutti coloro che, secondo le loro diverse responsabilità, continuano ad impegnarsi con costanza per la pace, la giustizia e il diritto, per guarire in profondità le sorgenti e le cause dell’odio, in questo momento doloroso e drammatico, in Francia e in ogni parte del mondo segnata da tensioni e violenze”. Sempre giovedì mattina il Papa riceveva l’arcivescovo di Parigi, cardinale André Vingt-Trois, al quale consegnava un messaggio in cui esprimeva “la sua profonda vicinanza alle persone ferite” e alle famiglie di quanti sono stati colpiti dall’attentato, “chiedendo al Signore di recare loro conforto e consolazione in questa prova”.

HA SCRITTO

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utti dicono: non cederemo, Purtroppo abbiamo già ceduto quando, impauriti che indossando buoni sentimenti ecumenici, lasciammo solo Charlie Hebdo che pubblicava le vignette danesi che satireggiavano sull’Islam. Al settimanale non condividevano quelle vignette e ne detestavano il cattivo gusto. Ma, libertari e anticonformisti, irriverenti e lontanissimi dall’ideologismo militaresco della nostra satira nostrana, le pubblicarono lo stesso. Non ci siamo accorti che, lasciando solo i giornalisti e i vignettisti di Chralie Hebdo, li esponevamo alla vendetta del fanatismo islamista. Non c’eravamo accorti dell’assassinio rituale del regista Theo van Gogh in Olanda. Non c’eravamo accorti che il vignettista Kurt Westergaard era stato costretto a rifugiarsi in una stanza blindata mentre due nergumeni tentavano di trucidarlo a colpi d’ascia. Non c’eravano accorti della persecuzione dell’”infedele” Ayaan Hirsi, in fuga da fondamentalisti che vogliono ammazzarla per farle pagare con la vita la sua ‘apostasia’. Non c’eravamo accorti che non solo Salman Rushidie era costretto a fuggire per sottrarsi a una fatwa planetaria, ma che il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, era stato sgozzato e quello itaniano, Ettore Capriolo, lasciato l una possa di sangue, vivo per miracolo, mentre intellettuali prestigiosi di tutto il mondo accusavano l’autore di Versi satanici (neanche letto ,peraltro) di essersi meritata la condanna a morte per aver offeso Maometto. Ce ne siamo accorti ,ora che con la strage di Charlie Hebdo abbiamo vissuto l’11 settembre dell’Europa”. PIERLUIGI BATTISTA Corriere della Sera, 8 gennaio 2014, p. 1 - 42

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La Francia colpita nel cuore da Parigi

ROSELYNE FORTIN DE FERRAUDY NOSTRA INVIATA SPECIALE

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gennaio 2015: la Francia viene colpita nel cuore. Degli uomini uccidono freddamente dei giornalisti di Charlie Hebdo, gridando Allah Akbar. Questo crimine, è un orrore, infame e mostruoso; è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Francia della libertà, la Francia di una società fragile che soffre per mancanza di punti di riferimento. In questo momento, questo atto criminale colpisce ogni francese e ogni uomo nella sua dignità. I grandi incontri che si sono svolti, subito dopo l’attacco in tutte le città in Francia e all’estero hanno mostrato a che punto tutti i partiti politici e le diverse confessioni religiose si sono mobilitate per esprimere la loro solidarietà e la loro indignazione, come rifiuto per non cedere alla paura che semina un nemico invisibile e difficile da identificare. Di fronte a questa tragica situazione, si pone una domanda: come è possibile che la Francia, il Paese dell’illuminismo, della ragione, della tolleranza e della libertà, abbia potuto fare nascere sul proprio suolo ( gli autori del crimine sono proprio francesi) dei mostri? Quale risposta può dare l’Europa e la Francia a questa inquietante domanda? D’altronde, possiamo chiederci se non sia forse giunto il momento di riflettere seriamente e concretamente sul ruolo e la natura dell’Islam radicale

nel nostro Paese e nel mondo. Vi è urgente bisogno di avere il coraggio, certamente in accordo con i musulmani che vogliono, di trovare le risposte che permettono di vivere insieme. Bisogna che l’Islam accetti a nome della ragione, il fondamento della nostra società e di esporsi e di condannare in maniera chiara e ferma questa cieca violenza. E’ giunto il momento per noi di aprire gli occhi di fronte a queste minacce dell’Islam radicale. Qui, c’è in ballo una sfida lanciata alla nostra società, l’esigenza di rimettersi in discussione, perché la nostra possibilità di sopravvivenza dipenderà da questo. Infine, si pone il problema della libertà d’espressione nella nostra società: se la libertà d’espressione senza frontiera resta un ideale democratico, o fino a che punto può davvero affermarsi, o realizzarsi oggi in una società così fragile come la Francia? Caricature di Maometto, caricature di Cristo, caricature di simboli e figure che dei cittadini di questo Paese considerano come valori più sacri che hanno: non c’è qui un vero affronto alla dignità della persona? Oggi, c’è urgente bisogno che i responsabili degli organi politici, civili e religiosi di fronte alla barbarie di questi atti criminali riflettano seriamente e con coraggio. Sarà la Francia in grado di rispondere a questa sfida diventando una testimonianza credibile per il resto dell’Europa? 22


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janvier 2015, la France est frappée en plein coeur. Des hommes tuent froidement au cri d’Allah Akbar, des journalistes de Charlie Hebdo: ce crime, c’est l’horreur, cet acte odieux, monstrueux, c’est une véritable déclaration de guerre contre la France des libertés, la France d’une société fragilisée et en mal de repères. Dans l’heure, cet acte criminel frappe tout français, tout homme, dans sa dignité d’homme. Les grands rassemblements qui se sont constitués, tout juste après l’attentat dans toutes les villes de France et à l’étranger montrent à quel point tous les partis politiques et les différentes confessions religieuses se sont mobilisés pour exprimer leur solidarité et dire leur indignation, refusant de céder à la peur que sème un ennemi invisible et qui de plus reste difficile à identifier. Face à cette situation dramatique, se pose une première question : comment est-il possible que la France, pays des Lumières, de la raison, de la tolérance, et de la liberté, ait pu donner le jour sur son sol (car il semblerait bien que les auteurs de ce crime soient bel et bien français) à de pareils monstres??. . . Quelle réponse peuvent bien donner L’Europe et la France elle-même à cette grave interrogation? Par ailleurs, n’est-il pas temps de s’interroger sérieusement et activement sur la place et la nature de l’Islam radical dans notre pays et dans le 23

monde. Il y a urgence d’avoir le courage, en accord avec les musulmans qui le veulent, de trouver des réponses qui permettent de vivre ensemble. Il faudra bien aussi que l’Islam accepte au nom de la raison, fondement de notre société de se montrer et de condamner clairement et fermement cette violence aveugle. Il est grand temps pour nous d’ouvrir les yeux face à ces menaces de l’Islam radical. Il y a là un défi lancé à nos sociétés, une exigence à nous remettre en cause. Car de cela dépendra notre chance de survie. Enfin, se pose le problème de la liberté d’expression dans nos sociétés: si la liberté d’expression sans frontières reste un idéal démocratique, jusqu’où peut-elle vraiment s’affirmer, ou se réaliser, dans une société aussi fragilisée en France aujourd’hui? Caricature de Mahomet, caricature du Christ, caricatures de symboles et de figures que des citoyens et des citoyennes de ce pays tiennent pour ce qu’il y a de plus sacré : n’y a-t-il pas là une véritable atteinte à la dignité de la personne? Il est urgent aujourd’hui que les instances politiques, civiles et religieuses face à la barbarie de ces actes criminels s’interrogent courageusement et gravement. La France sera-t-elle en mesure de relever ce défi et de devenir un témoin pour le reste de l’Europe?».


Il francescano oltre la conflittualità omicida di Parigi e della Nigeria

da Roma

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Certo, le grandi manifestazioni dell’11 gennaio a Parigi e in tutta la Francia, confermano il netto rifiuto di ogni violenza. Ma assieme a questa, si tratta forse del rifiuto anche delle religioni, ritenute immediatamente coinvolte, in maniera diretta o indiretta? Anzi, attualmente uno dei rischi peggiori è di far passare, attraverso la difesa della democrazia, l’idea che sia in atto uno scontro di civiltà o una guerra di religione.

Cronaca e reazioni Lo sgomento davanti agli attentati di Parigi e della Nigeria è stato unanime come la denuncia di quelle azioni, in nome della difesa della libera espressione, garanzia della democrazia. Al Qaeda ha generato diversi gruppi, sotto forme diverse, sia l’Aqmi nel Sahara, Aqpa nello Yemen, Boko Haram in Nigeria, o il cosiddetto «Stato islamico» in Siria. Se si volesse cercare ciò che li accomuna, si potrebbe dire che si tratta del rifiuto dell’Occidente, del suo stile di vita, della sua democrazia, del consumismo e delle conseguenti forme di secolarizzazione, cui sono improntate le relazioni sociali. Questa avversione è già diffusa nello Yemen, in Nigeria, in Siria, in Irak. E per quanto concerne l’Occidente questo atteggiamento sta prendendo piede anche da noi, dal momento che circa 3.000 occidentali sono andati in Siria per fare il jihad. I nemici della democrazia sono all’interno della nostra stessa democrazia? Dobbiamo allora trasformare le nostre democrazie in società poliziesche, generalizzando il sospetto, specialmente nei riguardi di tutti gli immigrati e di tutti i musulmani?

Le religioni sotto processo? Pur se fondate queste spiegazioni pare che non rendano conto fino in fondo dei termini dei conflitti iin atto. Certo, è bene «non cedere alla paura, né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza. Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale. Esso è, infatti, una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro» (Benedetto XVI, incontro a Colonia il 20 agosto 2005). E con papa Francesco non possiamo non rilevare che “Il fondamentalismo religioso, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico» (Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2014, 4). In tale contesto, egli auspica la collaborazione fra tutte le religioni, a favore della vita, prima che sia troppo tardi. A questo punto è lecito chiedersi se dobbiamo partire da qui – dalle religioni – o invece occorre spingere il discorso più in profondità, alla ricerca di radici che gli alberi nella tempesta nascondono, ma da cui sono sorretti, nonostante la furia dei venti, e cioè esplorare quel sottosuolo ove questa bufera nasce senza avvedercene. La dimensione religiosa non è forse la veste visibile di sentimenti o di convinzioni che si perdono nella nostra

ORLANDO TODISCO FILOSOFO

li orrendi spettacoli di decapitazione e di lapidazione, offerti dall’ISIS, come di attentati e di esecuzione, a opera anche di bambine – ridotte a bombe esplosive - come di bambini – considerati giudici in erba - ci sollecitano a riflettere intorno alla coniugazione di politica e religione, per non essere passivi spettatori di infamie, non più tollerabili. E allora, prima la cronaca delle emozioni e delle reazioni e poi una riflessione.

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Il sottosuolo ove affondano le radici sia dell’Occidente che dell’Oriente Ora, è forse sufficiente arrestarsi qui e attendere che l’Oriente intraprenda un siffatto cammino illuminista? O, invece, occorre procedere a ‘bonificare’ quella radice che la rete democratica, comunque sviluppata, non scalfisce, limitandosi a valutarne le manifestazioni, sia per condannarle che per esaltarle? E se è vero che la rete democratica disciplina l’operato lasciando inalterata la sorgente, occorre chiedersi se questa non costituisca il sottosuolo sia dell’Occidente che dell’Oriente, con germi di possibile conflittualità, dai toni imprevedibili e modalità incontrollabili. Il sospetto che le cose stiano così non nasce dal fatto che l’Oriente islamico abbia consegnato l’uomo al Corano e l’Occidente l’abbia consegnato alla ragione; né dal fatto che entrambi ricerchino potere e stabilità, l’uno nella religione, l’altro nella ragione – in fondo l’autopotenziamento contro le forze disgregatorie interne e le forze aggressive esterne è il modo con cui da sempre l’umanità ha combattutto l’angoscia dell’imprevedibile. E allora, quale la radice che pare imparenti l’Occidente all’Oriente? E’ l’identificazione in Occidente tra soggetto e ragione, e in Oriente tra soggetto e religione, con una piega chiaramente dominatoria, nel senso che il soggetto si considera padrone o di quanto la ragione suggerisce o di quanto la religione propone. E così, l’identificazione tra soggetto e ragione porta l’Occidente a escludere quanto non rientra entro tale circuito, a partire dal ruolo qualificante della religione; l’identificazione del soggetto con la religione porta

storia, ove il modo d’essere e di pensare attinge alimento e forma? La democrazia come distinzione tra il soggetto e la sua condotta spartiacque tra Occidente e Oriente È pacifica la divaricazione tra l’Occidente e l’Oriente islamico, costituita dalla ‘cultura’, nell’uno programmaticamente promossa, fonte di benessere e di progresso, nell’altro appendice o supplemento del cammino comunitario, ispirato piu alla tradizione che all’innovazione. Infatti, l’Occidente ha dato vita a una convivenza che ha reso impraticabili forme di vita di segno cruento e totalitario, grazie alla rete democratica che è riuscita a creare, mentre l’Oriente, restando sostanzialmente teocratico e non alimentando la coscienza critica del popolo, si è trovato a gestire il solo collante disponibile - la religione - e dunque ad attingere alla fonte rivelata – il Corano - le forme di vita che ha ritenuto di volta in volta più consone. Questa rete democratica, che segna la nota distintiva dell’Occidente rispetto all’Oriente, è di grande rilevanza, dal momento che ha condotto alla netta distinzione tra il soggetto e il suo operato. E’ qui che si innesta il rifiuto della pena di morte e il carattere redentivo della pena, come in campo religioso ‘il perdono’, o l’altissimo precetto cristiano dell’amore dei nemici, di cui pur si condannano pensieri e progetti. Là dove la cultura non si è espansa, questa rete, piuttosto labile e incerta, non è stata discriminante, e il soggetto ha continuato a risolversi nelle sue manifestazioni – decapitazione, lapidazione, legge del taglione.

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l’Oriente a rifiutare ogni atteggiamento di umana autosufficienza, conseguente al primato della ragione. Quale dunque la fonte della conflittualità e soprattutto dell’intransigenza dell’uno nei riguardi dell’altro? E’ l’indole dominatoria sia dell’Occidente che dell’Oriente, che impedisce che l’uno si apra alla verità, l’altro a Dio, entrambi – Occidente e Oriente - giudici inappellabili sia della verità che di Dio. È forse Dio al servizio della religione o la religione al servizio di Dio? Implica ciò il misconoscimento del ruolo valutativo della ragione o la rinuncia alla relazione dialogale con Dio? Certamente no. Il nodo da sciogliere è la direzione del pensare e del progettare. Per quanto concerne la ragione e la verità, occorre chiedersi se sia la verità che va verso la ragione per sorttomettersi ai suoi disegni o sia la ragione che va verso la verità per aprirsi oltre la propria egoità; per quanto concerne la religione, se sia Dio al servizio della religione, maschera dei disegni umani, o invece la religione al servizio di Dio, vortice di luce infinita – ‘siate perfetti come il Padre vostro nei cieli’ (Mt 5,48). L’itineranza francescana oltre l’immanenza egoica dell’Occidente e dell’Oriente La tesi francescana si raccoglie per intero nell’itineranza verso l’alto assieme all’altro nel superamento d’ogni autoreferenzialità (cf. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum). È quanto sottolinea il cristocentrismo, per il quale la storia pregressa dell’umanità è da intendere come il corteo che attende l’avvento del Dio della pace – è l’età della preparazione - e la storia che segue quella

in atto - da vivere come sua epifania – è l’età dell’elevazione. Èquanto ribadisce la coniugazione bonaventuriana di verità scientifico-tecnica, o ‘ratio inferior’, e di verità filosofico-teologica, o ratio superior, intendendo con la prima l’organizzazione della convivenza di carattere orizzontale e con la seconda la spinta verso quella trascendenza che ci immette nella sfera sconfinata del ‘possibile’. È quanto costituisce l’anima ispirativa dell’antropologia scotista secondo cui si viene al mondo per dare, non per prendere, per costruire, non per distruggere, dal momento che ognuno di noi è un dono da parte di chi che poteva non volerci – prima di essere, non essendo, non si ha alcun diritto - sicché la conoscenza può dirsi autentica se matura entro l’ottica della ri-conoscenza e l’operare è coerente all’indole sotterranea dell’essere se è nel fondo un modo di ringraziare per essere al mondo. Siamo forse alla fonte della tristezza del momento – Ciò che ci inquieta mortificandoci non è la constatazione che non si ha ciò cui si ha diritto – o che non si è protetti a sufficienza – ma la consapevolezza che l’organizzazione complessiva della convivenza è animata da una logica ancora e tutta rivendicativa, non dei diiritti della verità, ma dei diritti della ragione, non di Dio, ma dei diritti della religione. Finché non si opera il passaggio da una prospettiva dominatoria a una prospettiva partecipativa o meglio da una prospettiva rivendicativa a una oblativa, secondo cui ognuno è sollecitato ad aprirsi a ciò che è altro da sé e a dare ciò che sa e ciò che può, la conflttualità – altra cosa dalla competizione – continuerà a sostanziarsi di crimini senza precedenti a opera di gente comune (Cf. Arendt, La banalità del male). Il discorso intorno alle religioni è successivo. 26


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ata storica quella del 3 febbraio 2015. Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso dell’udienza il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione a promulgare i decreti riguardanti: - il martirio del Servo di Dio Oscar Arnolfo Romero Galdámez, Arcivescovo di San Salvador; nato il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios (El Salvador) e ucciso, in odio alla Fede, il 24 marzo 1980, a San Salvador (El Salvador); - il martirio dei Servi di Dio Michał Tomaszek ( 23 settembre 1960) e Zbigneew Strzałkowski ( 3 luglio 1958) , sacerdoti polacchi dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, nonché Alessandro Dordi, sacerdote diocesano bergamasco, uccisi, in odio alla Fede, il 9 e il 25 agosto 1991, a Pariacoto e in località Rinconada, nei pressi di Santa (Perú); I tre martiri verranno beatificati il 5 dicembre 2015. Sarà il cardinale Angelo Amato prefetto della congregazione delle cause dei santi a presiedere il solenne rito alla presenza di numerosi pellegrini che verranno dalla Polonia e dall’Italia. - le virtù eroiche del Servo di Dio Giovanni Bacile, Arciprete Decano di Bisacquino; nato a Bisacquino (Italia) il 12 agosto 1880 ed ivi morto il 20 agosto 1941.

Romero e la scelta dei poveri dalla CITTÀ DEL VATICANO

VINCENZO PAGLIA POSTULATORE DELLA CAUSA DI BEATIFICAZIONE

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l clima di persecuzione era palpabile. E così, Romero divenne il difensore dei poveri di fronte ad una repressione crudele. Dopo due anni di servizio pastorale a San Salvador, Romero conta 30 preti perduti, tra uccisi, espulsi o richiamati per sfuggire alla morte. Gli squadroni della morte uccidono decine e decine di catechisti delle comunità di base, e molti fedeli di queste comunità scompaiono. La Chiesa era la principale imputata e quindi quella maggiormente colpita. Romero resistette e accettò di dare la vita per difendere il suo popolo. Ucciso sull’altare durante la S. Messa Fu ucciso sull’altare. In lui si voleva colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II. La sua morte – come mostra chiaramente l’accurato esame documentario – fu causata non da motivi semplicemente politici, ma dall’odio per una fede che impastata della carità che non taceva di fronte alle ingiustizie che implacabilmente e crudelmente si abbattevano sui poveri e sui loro difensori. L’uccisione sull’altare – una morte senza dubbio più in-

certa visto che si doveva sparare da trenta metri rispetto ad una provocata da distanza ravvicinata – aveva una simbolicità che suonava come un terribile avvertimento per chiunque volesse proseguire su quella strada. Lo stesso san Giovanni Paolo II che ben conosceva i due altri santi uccisi sull’altare, san Stanislao di Cracovia e Thomas Becket di Canterbury - lo nota con efficacia: “lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino … È stato assassinato un vescovo della Chiesa di Dio mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucarestia”. E più volte ha ripetuto con vigore: “Romero è nostro, Romero è della Chiesa!”. Romero e la scelta dei poveri Romero da sempre ha amato i poveri. Giovanissimo sacerdote a San Miguel veniva accusato di comunismo perché chiedeva ai ricchi di dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè. Diceva loro che, agendo in quel modo, non solo andavano contro la giustizia, ma erano essi stessi ad aprire le porte al comunismo. Tutti coloro che lo hanno conosciuto ancora semplice sacerdote ricordano la sua commozione e la sua tenerezza verso i poveri che incontrava. Particolare impressione fece il suo 27

martiri del xx secolo

LA NOTIZIA


interessamento per i bambini lustrascarpe di San Miguel che lo portò anche ad organizzare anche una mensa per loro. Notoria poi era la generosità. Un piccolo episodio mostra la sua “esagerazione”, come qualcuno diceva. Una volta ricevette una gallina da mangiare, lungo la strada una donna chiedeva aiuto e lui subito gliela diede, non badando alle rimostranze dell’autista che gli diceva che in episcopio non c’era nulla da mangiare. Certo frequentava anche i ricchi, ma chiedeva loro di aiutare i poveri e la Chiesa, come una via per salvare la loro anima. Romero comprese sempre più chiaramente che per essere il pastore di tutti doveva iniziare dai poveri. Mettere i poveri al centro delle preoccupazioni pastorali della Chiesa e quindi anche di tutti i cristiani, compresi i ricchi, era la via nuova della pastorale. L’amore preferenziale per i poveri non solo non attutiva l’amore di Romero per il suo paese, al contrario lo sosteneva. In tal senso Romero non era un uomo di parte, anche se ad alcuni poteva apparire tale, bensì un pastore che voleva il bene comune di tutti, ma a partire, appunto, dai poveri. Non ha mai cessato di cercare le vie per la pacificazione del paese. Romero, uomo di Dio e della Chiesa Romero era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, di obbedienza e di amore per la gente. Pregava molto: si arrabbiava se nelle prime ore del mattino, mentre pregava, lo interrompevano. Ed era severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni. Ebbe una vita spirituale "lineare", pur con un carattere non facile, rigoroso con se stesso,

intransigente, tormentato. Ma nella preghiera trovava riposo, pace e forza. Quando doveva prendere decisioni complicate, difficili, si ritirava in preghiera. Fu un vescovo fedelissimo al magistero. Nelle sue carte emerge chiara la familiarità con i documenti del Vaticano II, di Medellin, di Puebla, della dottrina sociale della Chiesa e in genere gli altri testi pontifici. Ho potuto fare l’elenco delle opere della sua biblioteca: gran parte è occupata dai testi del Magistero. Nelle carte dell’archivio sono conservati i discorsi che Romero scriveva per due nunzi quando questi dovevano spiegare i testi conciliari. Il cardinale Cassidy racconta che nel 1966 con Romero e qualche altro sacerdote facevano spesso giornate di approfondimento sui testi del Vaticano II. Romero si era costruito uno amplissimo schedario di citazioni (circa 5000 schede) per predicare, tratte soprattutto dal Magistero. Venti giorni prima di morire, il 2 marzo 1980, in una omelia domenicale afferma: “Fratelli, la gloria più grande di un pastore è vivere in comunione con il papa. Per me il segreto della verità e della efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa. E quando vedo nel suo magistero pensieri e gesti simili a quelli di cui ha bisogno la nostra Chiesa, mi riempio di gioia”. Molte volte si dice che Romero era subornato dalla teologia della liberazione. Un giornalista gli chiese: “Lei è d’accordo con la teologia della liberazione?" Romero rispose: "Si certo. Ma ci sono due teologie della liberazione. Una è quella che vede la liberazione solo come liberazione materiale. L’altra è quella di Paolo VI . Io sono con Paolo VI”. 28


Ecco la mia vita per te da Roma

nel silenzio della vita quotidiana, come la dà la madre che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio”. Romero voleva dare un senso alla sua morte secondo la volontà di Dio. Tre settimane prima di morire disse al suo confessore: "Mi costa accettare una morte violenta... devo essere nella disposizione di dare la mia vita per Dio qualunque sia il fine della mia vita. Le circostanze sconosciute si vivranno con la grazia di Dio. Egli ha assistito i martiri e se necessario lo sentirò molto vicino nell’offrirgli l’ultimo respiro. Ma più che il momento di morire vale il dargli tutta la vita e vivere per lui". Pareva pacificato, ed è probabile che interiormente lo fosse. In realtà, Romero era terrorizzato dalla morte che sentiva imminente. Nelle ultime settimane ogni rumore gli dava soprassalto. Un frutto di avocado che cadeva sul tetto della sua modesta dimora lo gettava nel panico. Un qualsiasi rumore notturno lo portava a nascondersi. Confidava che neppure sapeva se lo avrebbe ucciso l’estrema destra o l’estrema sinistra, che lo contestava negli ultimi tempi per la sua contrarietà alla rivoluzione. Fu poi lo squadrone della morte organizzato dall’ex maggiore D’Aubuisson a ucciderlo, ma Romero questo non lo poteva sapere in anticipo. Nelle ultime settimane ebbe continui momenti di abbattimento. Il giorno prima d’essere ucciso predicò ben due ore e pronunciò l’appello famoso ai soldati perché non uccidessero in violazione della legge di Dio: “Un appello speciale agli uomini dell’esercito … Davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio […] In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più impetuosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”. Dopo questa sfida ai comandi militari era apparentemente sereno come avesse assolto il suo dovere, e andò

ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA STORICO DELL’UNIVERSITÀ DI ROMA TRE

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a morte è il momento cruciale dei tre anni di Romero arcivescovo. Fu martirio in odium fidei, esemplificato nell’uccisione all’altare nonché nel far tacere la voce pubblica che autorevolmente chiedeva conversione dal male e rigetto del peccato. Doveva anzitutto dare senso alla morte che gli veniva annunciata ogni giorno attraverso minacce riferitegli da fedeli e amici, lettere piene d’insulti, telefonate minatorie, avvisi persino in televisione, comunicazioni allarmate di autorità civili e religiose, attentati scampati per un soffio. Un primo senso della morte che s’avvicinava stava nella fedeltà al suo mandato apostolico: era un pastore, e il buon pastore non abbandona le sue pecore, tanto più quando sono nel pericolo. Romero non ebbe dubbi: non avrebbe lasciato il Salvador, sarebbe restato al suo posto. Diceva: “Un pastore non se ne va, deve restare sino alla fine con i suoi”. Rifiutò anche un’offerta di ospitalità della Santa Sede. Un secondo senso della sua morte stava nell’offerta della vita. Romero meditava molto sul martirio, a partire da quello dei suoi preti e catechisti già uccisi in gran numero. Aveva predicato ai funerali di un suo prete assassinato: “Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare fisicamente il loro sangue, di essere uccisi per la fede; però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui uno spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore. Noi, sì, siamo disponibili, affinché, quando giunge la nostra ora di render conto, possiamo dire ‘Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data'. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; è dare la vita a poco a poco,

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a mangiare in quella che era la sua famiglia d’adozione, quella dell’amico Barraza, un commerciante. Giocò dapprima con i bambini, ma a tavola apparve smarrito: “Si tolse gli occhiali, cosa che non faceva mai, e rimase in un silenzio che fu per tutti noi molto grave. Lo si vedeva abbattuto e triste. Mangiava la minestra con lentezza e ci guardava attentamente uno per uno. Eugenia, mia moglie, che alla tavola gli sedeva a fianco, restò interdetta per uno sguardo lungo e profondo che le rivolse, come volesse dirle qualcosa. Dai suoi occhi sgorgarono lacrime. Lupita lo rimproverò: ‘ma perché, che motivo c’è di piangere?’. Eravamo tutti perplessi. Improvvisamente si mise a parlare dei suoi migliori amici, sacerdoti e laici. Li nominava uno a uno, mostrando ammirazione per ciascuno di loro e lodandone le virtù che aveva scoperto e i doni che Dio aveva dato loro. Un pranzo come quello, a casa nostra, non c’era mai stato. Fu triste e sconcertante per tutti noi”. Così Romero il giorno prima della morte. Una morte interpretata a lungo con le retoriche parole apparse postume nella penna di un giornalista guatemalteco: “Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno, il mio sangue sia seme di libertà, la mia morte sia per la liberazione del mio popolo”. Queste frasi, ripetute incessantemente in manifesti e comizi, ma non dagli amici intimi dell’arcivescovo ucciso che ne dubitavano, stanno al cuore di un mito ideologico di Romero profeta del popolo e messia a sfondo politico. Tutto lascia credere che siano apocrife, e nella Positio lo si discute a

sufficienza. In realtà, il senso della sua morte, Romero lo affidava ai suoi appunti intimi in questi termini: “Pongo sotto la provvidenza amorosa del Cuore di Gesù tutta la mia vita e accetto con fede in lui la mia morte, per quanto difficile sia. Né voglio darle una intenzione, come lo vorrei, per la pace del mio paese e per la fioritura della nostra Chiesa … perché il Cuore di Cristo saprà darle il fine che vuole. Mi basta per essere felice e fiducioso il sapere con sicurezza che in lui sono la mia vita e la mia morte, che malgrado i miei peccati in lui ho posto la mia fiducia e non rimarrò confuso e altri proseguiranno con maggiore saggezza e santità i lavori della Chiesa e della Patria”. Possiamo considerare queste parole, scritte un mese prima di essere assassinato, come il testamento spirituale di monsignor Romero. Romero non pensava ad una morte eroica che facesse la storia, non voleva sfidare i nemici del popolo a ucciderlo per poi mostrarsi risorto nella rivoluzione, non concepiva il suo martirio in senso ideologico come un simbolo di lotta avvenire. Pensava invece alla sua morte secondo la tradizione della Chiesa, per la quale il martire non è una bandiera contro, non è un atto d’accusa verso il persecutore, ma un testimone della fede. Fede nella grazia divina che, come dice il salmo 62, vale più della vita. Questa è precisamente la grandezza cristiana di Romero: aver anteposto l’adesione alla volontà di Dio alla salvaguardia della propria vita, come Cristo nell’orto degli ulivi.

Perù: Michal e Zbigniew martiri per Cristo Il cordoglio e la preghiera di Giovanni Paolo II

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ono stati barbaramente uccisi mentre stavano parlando ai giovani della comunità i due religiosi francescani conventuali polacchi i padri Michael Tomaszek (23 settembre 1960) e Zbigniew Strzałkowski (3 luglio 1958) che insieme ad altri confratelli operano da alcuni anni a Pariacoto, un territorio del nord - ovest del Perù. Colpiti mortalmente alla testa i due religiosi si sono accasciati in mezzo ai loro giovani rimasti fortunatamente illesi. Subito dopo l’ ordinazione sacerdotale (7 giugno 1986 per il Padre Strzałkowski e 23 maggio 1987 per il Padre Tomaszek) i due religiosi polacchi hanno raggiunto questa zona del Perù, dove operavano in ventidue villaggi. Altri confratelli francescani conventuali lavorano a Lima ed altri ancora, proprio in quel periodo si stavano preparando per aprire nel mese di ottobre, una nuova casa, a Chimbote. Appena appresa la triste notizia Giovanni Paolo II si è raccoglieva in preghiera e subito inviava i seguenti te-

legrammi, a firma del Segretario di Stato Card. Angelo Sodano, rispettivamente al Ministro Generale dell’ Ordine dei Frati Minori Conventuali Padre Lanfranco Serrini e al Vescovo della diocesi di Chimbote Sua Eccellenza Monsignor Luis Armando Bambarên Gastelumendi: Sommo Pontefice profondamente addolorato per la uccisione di due sacerdoti francescani conventuali p. Michal Tomaszek e p. Zbigniew Strza|Lkowsky avvenuta stamane nella zona di Pariacoto in Perù rivolge a Lei e intero Ordine espressione vivo cordoglio pregandola di trasmettere tali suoi sentimenti a familiari delle vittime e confratelli provincia di Cracovia. Sua Santità esorta ad accogliere tanto luttuoso episodio nella luce delle parole di Cristo confidando nella promessa dell’ eterno premio riservato dal Redentore ai suoi testimoni ed Apostoli mentre imparte a quanti piangono fratelli scomparsi confortatrice Benedizione Apostolica. 30


Quel barbaro assalto alla missione dalla Città del Vaticano

GIANFRANCO GRIECO

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ono passati appena 4 giorni dal 50.mo anniversario del martirio di san Massimiliano Kolbe e la sua scuola ha portato frutto. Sento fortissimo il desiderio di condividere con voi la ‘ Croce’ che il Signore ha voluto riservarci in questa festa di san Lorenzo …! ». Inizia così la lettera che il Ministro Generale dell’ Ordine dei Frati Minori Conventuali Padre Lanfranco Serrini ha inviato a tutti i religiosi Francescani Conventuali sparsi nel mondo per renderli partecipi del triste evento che ha colpito la missione peruviana. Venerdì pomeriggio 9 agosto, alle 18.30 ora locale, corrispondente alle ore 5 di Roma - scrive commosso il Padre Serrini - sono stati assassinati a Pariacoto (Perù) due nostri missionari: P. Zbigniew Strza|Lkowski, di anni 33 e P. Michele Tomaszek, di anni 31, entrambi figli della Provincia S. Antonio di Padova e Beato Giacomo da Strepa di Cracovia. «Fino a questo momento - scrive Padre Serrini - è stato possibile ricostruire così il martirio di questi fratelli e del Sindaco del Paese. «I due missionari - continua nel drammatico racconto il Padre Generale - avevano appena terminato la celebrazione della S. Messa e, assieme ad una Suora dell’ Istituto Ancelle del S. Cuore, ad alcuni nostri candidati e altri giovani, si intrattenevano per un incontro. Sopraggiunse un gruppo di guerriglieri di ‘Sendero luminoso’ , che chiesero ai due missionari, uno dopo l’ altro, di uscire dall’ ambiente. Richiesero le chiavi delle auto e poi invitarono i due con il sindaco a salire. Si aggiunge anche la suora che vedendo la situazione confusa - non voleva lasciare i religiosi. Per un certo tratto, poté accompagnarli in

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macchina, ma poi, vedendo le insistenze dei guerriglieri e assecondando l’ invito del P. Zbigniew, scese. Aveva comunque seguito il dialogo che si era svolto nel frattempo. I guerriglieri riprendevano i religiosi per l’ opera della «Caritas» da essi istituita in parrocchia, con pasti e assistenza ai poveri. L’opera non piaceva a chi voleva perpetuare lo scontento fra gli abitanti poverissimi di questa zona delle Ande. «Scesa la suora - continua ancora Padre Serrini - la macchina proseguì per poco verso il paesino di Casma. Passato un piccolo ponte, i guerriglieri provvidero a farlo saltare. Di lì a poco, la suora udì degli spari. Con i giovani, sopraggiunti, passò all’ altra riva del fossato e trovò i tre corpi fuori della macchina, colpiti alla testa e ormai morti. I guerriglieri erano già lontani. «Così, nel sangue, si è chiusa la breve giornata terrena di questi due giovani missionari e del loro occasionale compagno nel martirio. Il terzo missionario, P. Jarek Wysoczanski, di anni 32, provvidenzialmente è ancora per pochi giorni in Polonia per un periodo di riposo». «Pur nel dolore fortissimo - scrive il Padre Generale non è possibile infatti non avvertire il valore di Fede che emana da questo olocausto che il Signore ha richiesto alla nostra Famiglia. Il sangue dei martiri - perché è impossibile non vederli tali - si riversa su una Nazione dilaniata ancora dall’ odio, si riversa su una Missione che amiamo tantissimo perché ricca di elementi caratteristici di una ‘vera’ missione: povertà estrema della gente; apostolato itinerante in 22 villaggi sparsi nelle sconfinate Ande peruviane; i nostri 3 sacerdoti, con le Suore, unica presenza della Chiesa, tutela, incoraggiamento, sostegno per un avvenire migliore; e, ancora, la gioia francescana, semplice e schietta, di questi tre giovani missionari, che avevano riempito di speranza quella buona gente. Pariacoto - centro del martirio dei due giovani francescani conventuali polacchi - è un piccolo centro della


Vittime di chi odia Gesù

eretta, proprio a Pariacoto è del marzo 1990. Nello stesso mese sorgeva una Il martirio dei cristiani non è una cosa del passato, ma tanti di seconda Casa a Lima, anche per loro sono vittime anche oggi “di gente che odia Gesù Cristo”. È la offrire una zona di riposo per i sofferta constatazione di Papa Francesco all’omelia della santa Messa in missionari, ma per pensare Casa Santa Marta - venerdì 6 febbraio- al termine di un’intensa meditazione sulla vita e la morte di Giovanni Battista. La parabola del “Grande Giovanni” alla formazione dei giovani in primo piano e, appena dietro, il dolore acuto per i tanti cristiani ancora oggi candidati. condotti al macello, perché la loro vita annuncia quella di un Dio che altri Aveva anche acquistato un odiano. La “prossimità del Messia” – consapevole di essere “la voce soltanto”, perruolo notevole l’ opera della ché “la Parola era un Altro” – “finisce la sua vita come il Signore, col martirio”. «Caritas» che provvedeva “Quando io leggo questo brano – afferma ancora il Papa – vi confesso mi commuovo” e penso sempre “a due cose”: “Primo, penso ai nostri martiri, ai martiri agli aiuti ai poveri fedeli, con dei nostri giorni, quegli uomini, donne, bambini che sono perseguitati, odiati, un po di mensa, medicine e cacciati via dalle case, torturati, massacrati. E questa non è una cosa del pasaltre povere cose. Questo non sato: oggi succede questo. I nostri martiri, che finiscono la loro vita sotto sembrava molto gradito ai guerril’autorità corrotta di gente che odia Gesù Cristo. Ci farà bene penglieri di «Sendero luminoso», che non sare ai nostri martiri. Oggi pensiamo a quelli di oggi! apprezzano opere di sviluppo... Fedeli PAPA FRANCESCO alla loro origine anarchica e di ideologia maSanta Marta - Omelia, 6 febbraio 2015 oista, essi scorrazzano dalle Ande verso la costa, secondo un progetto ben chiaro di destabilizzazione. Sembrava tuttavia che avessero un certo rispetto verso Diocesi di Chimbote, a 1600 metri di altezza nelle la Chiesa e soprattutto verso i missionari. Ande peruviane. Di là si irradia una fitta rete di evan- Già nell’ aprile 1990 erano giunti nel villaggio sede gelizzazione che tocca oltre venti villaggi sparsi nelle della Missione, dove si trovava un solo religioso. I guerriglieri - informa il Padre Serrini - facevano esplodere Ande a 5000 metri di altezza. Tre religiosi francescani conventuali, i due ora uccisi, dodici ordigni sparando colpi di mitra per circa mezz’ più il Padre Jarek Wysoczanski, di anni 32 (provviden- ora, facendo saltare la centrale telefonica del paese, zialmente in Polonia per un breve periodo di riposo) come anche il posto di polizia e la sede comunale. Grivi sono giunti negli ultimi mesi del 1989. La prima casa davano «Viva la Rivoluzione» e si sono dispersi, pro-

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mettendo di ritornare. Erano un gruppo di 30, ma solo 6 sembravano i capi, gli altri sembravano giovani piuttosto costretti a partecipare. Purtroppo la triste notizia del 9 agosto ripresenta la dura realtà di tanti ambienti missionari e rende sempre attuale il tributo di sangue che si accompagna, nella storia cattolica, al mirabile sforzo dei missionari. La Famiglia francescana conventuale, in questi venti anni, ha avuto quattro missionari uccisi in America Latina: P. Casimiro Chypher, in Honduras; O. Carlos de Murias, in Argentina, ora Padri Zbigniew e Michele in Perù... Quattro religiosi martiri che hanno dato la vita per Cristo, il Vangelo, la Chiesa e l’ ideale francescano. La Conferenza Episcopale del Perù appena appresa la ferale notizia ha diramato un comunicato in cui «ripudia e condanna questo atto sacrilego contro la vita di due dei suoi migliori e giovani figli, perpetrato il 9 scorso, insieme ad un’ autorità locale. «I Padri Miguel Tomaszek e Zbigniew Strzałkowski, due sacerdoti religiosi Francescani Conventuali polacchi, hanno lasciato la loro patria per lavorare nell’ evangelizzazione dei nostri fratelli più umili. «La Chiesa - continuano i Vescovi del Paese - una volta di più impegnata nella costruzione della civiltà dell’ Amore nel nostro popolo, rifiuta energicamente questa

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LA TESTIMONIANZA Un ministro generale dell’Ordine che piange per la morte dei due religiosi francescani conventuali polacchi. Erano circa le 10 del mattino della festa di san Lorenzo martire 1991 quando al telefono sentivo il pianto del padre Lanfranco Serrini che mi informava della tragedia peruviana. Mi chiedeva, tra le lacrime, di avvertire il Santo Padre Giovanni Paolo II e subito telefonavo a mons. Crescenzio Sepe , allora assessore della segreteria di Stato, che avvertiva Giovanni Paolo II. Il papa polacco era ferito nel cuore per la morte di questi suoi connazionali martiri e quando a Cracovia nella basilica di san Francesco incontrava, un anno dopo, i familiari dei due giovani martiri polacchi, stringeva a sé i genitori, i fratelli e le sorelle dei due testimoni che avevano dato la loro vita per i poveri di santo Francesco nella sperduta terra peruviana. Oggi, è il loro martirio ad illuminare il nostro futuro. (G.G.)

ignominia sanguinosa che non apre nessun cammino di salvezza nella situazione critica che affronta il Perù. «Oggi più che mai preghiamo intensamente il Signore affinché possiamo convertirci e riconciliarci gli uni con gli altri in modo che il sangue sparso dai nostri fratelli, unito a quello di Cristo, ci guadagni il Dono di una Vita più degna, umana e fraterna».


anno della vita consacrata

Le speranze della chiesa Le attese di Papa Francesco da ROMA NOSTRO SERVIZIO

Che cosa mi attendo in particolare da questo Anno di grazia della vita consacrata?

“DOVE CI SONO I RELIGIOSI C’E’ GIOIA” 1. Che sia sempre vero quello che ho detto una volta: «Dove ci sono i religiosi c’è gioia». Siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita. Che tra di noi non si vedano volti tristi, persone scontente e insoddisfatte, perché “una sequela triste è una triste sequela”. Anche noi, come tutti gli altri uomini e donne, proviamo difficoltà, notti dello spirito, delusioni, malattie, declino delle forze dovuto alla vecchiaia. Proprio in questo dovremmo trovare la “perfetta letizia”, imparare a riconoscere il volto di Cristo che si è fatto in tutto simile a noi e quindi provare la gioia di saperci simili a Lui che, per amore nostro, non ha ricusato di subire la croce. In una società che ostenta il culto dell’efficienza, del salutismo, del successo e che marginalizza i poveri ed esclude i “perdenti”, possiamo testimoniare, attraverso la nostra vita, la verità delle parole della Scrittura: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Possiamo ben applicare alla vita consacrata quanto ho scritto nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium, citando un’omelia di Benedetto XVI: «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione» (n. 14). Sì, la vita consacrata non cresce se organizziamo delle belle campagne vocazionali, ma se le giovani e i giovani che ci incontrano si sentono attratti da noi, se ci vedono uomini e donne felici! Ugualmente la sua efficacia aposto-

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lica non dipende dall’efficienza e dalla potenza dei suoi mezzi. È la vostra vita che deve parlare, una vita dalla quale traspare la gioia e la bellezza di vivere il Vangelo e di seguire Cristo. Ripeto anche a voi quanto ho detto nella scorsa Veglia di Pentecoste ai Movimenti ecclesiali: «Il valore della Chiesa, fondamentalmente, è vivere il Vangelo e dare testimonianza della nostra fede. La Chiesa è sale della terra, è luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio e lo fa prima di tutto con la sua testimonianza, la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione» (18 maggio 2013).

“SVEGLIATE IL MONDO” 2. Mi attendo che “svegliate il mondo”, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia. Come ho detto ai Superiori Generali «la radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico». È questa la priorità che adesso è richiesta: «essere profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra … Mai un religioso deve rinunciare alla profezia» (29 novembre 2013). Il profeta riceve da Dio la capacità di scrutare la storia nella quale vive e di interpretare gli avvenimenti: è come una sentinella che veglia durante la notte e sa quando arriva l’aurora (cfr Is 21,11-12). Conosce Dio e conosce gli uomini e le donne suoi fratelli e sorelle. È capace di discernimento e anche di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte.


La comunione si esercita innanzitutto all’interno delle rispettive comunità dell’Istituto. Al riguardo vi invito a rileggere i miei frequenti interventi nei quali non mi stanco di ripetere che critiche, pettegolezzi, invidie, gelosie, antagonismi sono atteggiamenti che non hanno diritto di abitare nelle nostre case. Ma, posta questa premessa, il cammino della carità che si apre davanti a noi è pressoché infinito, perché si tratta di perseguire l’accoglienza e l’attenzione reciproche, di praticare la comunione dei beni materiali e spirituali, la correzione fraterna, il rispetto per le persone più deboli … È «la “mistica” di vivere insieme», che fa della nostra vita «un santo pellegrinaggio»[6]. Dobbiamo interrogarci anche sul rapporto tra le persone di culture diverse, considerando che le nostre comunità diventano sempre più internazionali. Come consentire ad ognuno di esprimersi, di essere accolto con i suoi doni specifici, di diventare pienamente corresponsabile? Mi aspetto inoltre che cresca la comunione tra i membri dei diversi Istituti. Non potrebbe essere quest’Anno l’occasione per uscire con maggior coraggio dai confini del proprio Istituto per elaborare insieme, a livello locale e globale, progetti comuni di formazione, di evangelizzazione, di interventi sociali? In questo modo potrà essere offerta più efficacemente una reale testimonianza profetica. La comunione e l’incontro fra differenti carismi e vocazioni è un cammino di speranza. Nessuno costruisce il futuro isolandosi, né solo con le proprie forze, ma riconoscendosi nella verità di una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla ma-

Mi attendo dunque non che teniate vive delle “utopie”, ma che sappiate creare “altri luoghi”, dove si viva la logica evangelica del dono, della fraternità, dell’accoglienza della diversità, dell’amore reciproco. Monasteri, comunità, centri di spiritualità, cittadelle, scuole, ospedali, case-famiglia e tutti quei luoghi che la carità e la creatività carismatica hanno fatto nascere, e che ancora faranno nascere con ulteriore creatività, devono diventare sempre più il lievito per una società ispirata al Vangelo, la “città sul monte” che dice la verità e la potenza delle parole di Gesù. A volte, come accadde a Elia e a Giona, può venire la tentazione di fuggire, di sottrarsi al compito di profeta, perché troppo esigente, perché si è stanchi, delusi dai risultati. Ma il profeta sa di non essere mai solo. Anche a noi, come a Geremia, Dio assicura: «Non aver paura … perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1,8).

“ESPERTI DI COMUNIONE” 3. I religiosi e le religiose, al pari di tutte le altre persone consacrate, sono chiamati ad essere “esperti di comunione”. Mi aspetto pertanto che la “spiritualità della comunione”, indicata da san Giovanni Paolo II, diventi realtà e che voi siate in prima linea nel cogliere «la grande sfida che ci sta davanti» in questo nuovo millennio: «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione»[5]. Sono certo che in questo Anno lavorerete con serietà perché l’ideale di fraternità perseguito dai Fondatori e dalle fondatrici cresca ai più diversi livelli, come a cerchi concentrici.

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lattia dell’autoreferenzialità. Nello stesso tempo la vita consacrata è chiamata a perseguire una sincera sinergia tra tutte le vocazioni nella Chiesa, a partire dai presbiteri e dai laici, così da «far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini»[7].

“ASPETTO GESTI CONCRETI DI VICINANZA AI POVERI” 4. Attendo ancora da voi quello che chiedo a tutti i membri della Chiesa: uscire da sé stessi per andare nelle periferie esistenziali. «Andate in tutto il mondo» fu l’ultima parola che Gesù rivolse ai suoi e che continua a rivolgere oggi a tutti noi (cfr Mc 16,15). C’è un’umanità intera che aspetta: persone che hanno perduto ogni speranza, famiglie in difficoltà, bambini abbandonati, giovani ai quali è precluso ogni futuro, ammalati e vecchi abbandonati, ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore, uomini e donne in cerca del senso della vita, assetati di divino … Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare dalle piccole beghe di casa, non rimanete prigionieri dei vostri problemi. Questi si risolveranno se andrete fuori ad aiutare gli altri a risolvere i loro problemi e ad annunciare la buona novella. Troverete la vita dando la vita, la speranza dando speranza, l’amore amando. Aspetto da voi gesti concreti di accoglienza dei rifugiati, di vicinanza ai poveri, di creatività nella catechesi, nell’annuncio del Vangelo, nell’iniziazione alla vita di preghiera. Di conseguenza auspico lo snellimento delle strutture, il riutilizzo delle grandi case in

favore di opere più rispondenti alle attuali esigenze dell’evangelizzazione e della carità, l’adeguamento delle opere ai nuovi bisogni.

5. Mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano. I monasteri e i gruppi di orientamento contemplativo potrebbero incontrarsi tra di loro, oppure collegarsi nei modi più differenti per scambiarsi le esperienze sulla vita di preghiera, su come crescere nella comunione con tutta la Chiesa, su come sostenere i cristiani perseguitati, su come accogliere e accompagnare quanti sono in ricerca di una vita spirituale più intensa o hanno bisogno di un sostegno morale o materiale. Lo stesso potranno fare gli Istituti caritativi, dediti all’insegnamento, alla promozione della cultura, quelli che si lanciano nell’annuncio del Vangelo o che svolgono particolari ministeri pastorali, gli Istituti secolari nella loro capillare presenza nelle strutture sociali. La fantasia dello Spirito ha generato modi di vita e opere così diversi che non possiamo facilmente catalogarli o inserirli in schemi prefabbricati. Non mi è quindi possibile riferirmi ad ogni singola forma carismatica. Nessuno tuttavia in questo Anno dovrebbe sottrarsi ad una seria verifica sulla sua presenza nella vita della Chiesa e sul suo modo di rispondere alle continue e nuove domande che si levano attorno a noi, al grido dei poveri. Soltanto in questa attenzione ai bisogni del mondo e nella docilità agli impulsi dello Spirito, quest’Anno della Vita Consacrata si trasformerà in un autentico kairòs, un tempo di Dio ricco di grazie e di trasformazione. 29 novembre 2014 36


Celebrazione regionale anno della vita consacrata

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rganizzare una celebrazione regionale dell’Anno della vita consacrata, per riflettere meglio sulle forme di collaborazione, tra i sacerdoti ed i religiosi, nell’apostolato dell’Africa orientale. A proporre questa iniziativa è stata l’Amecea, l’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale che riunisce i vescovi di Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia. In questi giorni, infatti, l’organismo si è riunito a Nairobi, in Kenya, per la prima Assemblea ordinaria del 2015 e durante i lavori si è riflettuto sulla necessità di celebrare ad ampio raggio l’Anno della vita consacrata, indetto da Papa Francesco a 50 anni della promulgazione del decreto conciliare "Perfectae caritatis" sul rinnovamento della vita religiosa. L’iniziativa si concluderà il 2 febbraio 2016.

Momento di grazia per la Chiesa Intanto, le celebrazioni per la vita consacrata sono già iniziate presso l’Università cattolica dell’Africa orientale, con sede a Nairobi. Nei giorni scorsi, la cerimonia inaugurale è stata presieduta da mons. John Oballa Owaa, vescovo di Ngong, il quale ha affermato che lo speciale Anno “è un momento di grazia per tutta la Chiesa, specialmente di coloro che hanno consacrato se stessi a Dio” e “un momento intenso per celebrare, con la Chiesa intera, il dono della vocazione e per ravvivare la missione profetica di ciascuno”.

Promuovere dialogo ecumenico Mons. Oballa ha poi sottolineato che l’Anno della vita consacrata si pone l’obiettivo di promuovere anche il dialogo ecumenico tra le religioni cristiane ed il confronto intergenerazionale fra i religiosi più giovani e quelli più anziani. Infine, il presule ha esortato tutti i cristiani a “onorare e rispettare tutti i membri di ciascuna comunità e congregazione, senza pregiudizi, a prescindere da cultura, genere, razza, etnia”.


Finalità, tempi, domande e attese dei consacrati Riflessioni in margine alla Lettera apostolica A tutti i consacrati

da Napoli

EDUARDO SCOGNAMIGLIO MINISTRO PROVINCIALE OFM CONV.

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i permetto di condividere con voi alcune riflessioni sulla Lettera apostolica di papa Francesco scritta in occasione dell’anno dedicato alla vita consacrata. Ha ancora senso la vita consacrata? Per papa Francesco la risposta è affermativa. A dispetto dei profeti di sventura, che da lungo tempo ne hanno decretato la fine, Bergoglio ha esortato a rivestirsi di Gesù Cristo e a indossare le armi della luce (cf. Rm 13,11-14) – restando svegli e vigilanti –, per continuare e riprendere il cammino con la fiducia nel Signore . I consacrati sono un dono grande del Signore per la Chiesa cattolica. Lo sguardo di papa Francesco è lungimirante – di fede – e più profondo delle tante analisi e statistiche che, da lungo tempo, mettono in crisi il senso stesso della vita consacrata, sia nei più giovani, che non sanno come gestire il carisma, le strutture e le opere loro affidate dalle generazioni precedenti, sia nei più anziani, che si muovono in grande difficoltà quando nelle comunità devono imparare a condividere progetti, vita apostolica, povertà e obbedienza con chi ha dentro di sé grandi aspettative ma ideali ancora troppo acerbi di fraternità. Solamente una lettura profondamente teologica può ridare dignità all’identità e alla missione dei consacrati nella Chiesa cattolica e nel mondo. Una lettura che spesso, gli stessi consacrati, sottovalutano e, in alcuni casi, negano, privilegiando le interpretazioni a carattere sociologico, per le quali ogni sforzo di rinnovamento e di cambiamento appare inutile. Certamente, una riflessione solo speculativa sulla vita consacrata non aiuta a superare il gap nel quale tanti istituti e ordini religiosi sono caduti; perché, tante volte, l’abbandono, il calo delle vocazioni, l’anzianità di molti religiosi, la fatiscenza delle strutture e la loro non facile gestione gettano anche i consacrati più volenterosi e ben intenzionati nello sconforto. Per questo, occorre una lettura anche ecclesiologica e più missionaria e pastorale della vita consacrata. È il caso di porre questa forma di vita in

un orizzonte più complesso e ampio. Infatti, papa Francesco si chiede: «Cosa sarebbe la chiesa senza san Benedetto e san Basilio, senza sant’Agostino e san Bernardo, senza san Francesco e san Domenico, senza sant’Ignazio di Loyola e santa Teresa d’Avila, senza sant’Angela Merici e san Vincenzo de Paoli» . Evidentemente, la vita consacrata ha plasmato – in mille modi – lo stesso cristianesimo, sia in Oriente che in Occidente. Quali obiettivi? «Il primo obiettivo è guardare il passato con gratitudine» . Si tratta di fare memoria grata del dono della chiamata e della ricca storia carismatica di ogni istituto. È necessario ritornare alla fonte, all’esperienza degli inizi. È come se papa Francesco avesse colto un particolare peccato dei consacrati: l’ingratitudine che nasce dall’aver perso il ricordo delle proprie origini e dall’incapacità di leggere criticamente gli sviluppi e i cambiamenti avvenuti all’interno del proprio istituto. È indispensabile raccontare la propria esperienza vocazionale. I consacrati, spesso, sono senza memoria: mettono in rilievo quello che hanno lasciato per amore di Cristo e non raccontano più di quel tesoro prezioso che hanno trovato. Non si può vivere senza l’anàmnesis. Tutta la Scrittura, specialmente il Primo Testamento, è fondato sullo zikkaròn, ossia sul memoriale dell’alleanza. Se Israele dimentica le meraviglie e le opere – i mirabilia Dei – avvenuti lungo il corso della sua esistenza, allora la sua storia sarà solo segnata dall’idolatria e dall’ingratitudine. Per vincere il peccato dell’idolatria è importante celebrare le opere che il signore ha compiuto per la sua gente. Ciò vale anche per il nostro rapporto con Gesù Cristo nelle comunità. La memoria fa celebrare, raccontare, e apre il cuore alla speranza, alla riconoscenza. La memoria fa cantare, lodare, ringraziare, come Maria nel Magnificat. Spesso, siamo degli smemorati, anzi, degli in38


hanno mosse». È un modo anche per prendere coscienza di come è stato vissuto il carisma lungo la storia, quale creatività ha sprigionato, quali difficoltà ha dovuto affrontare e come sono state superate. «Si potranno scoprire incoerenze, frutto delle debolezze umane, a volte forse anche l’oblio di alcuni aspetti essenziali del carisma. Tutto è istruttivo e insieme diventa appello alla conversione. Narrare la propria storia è rendere lode a Dio e ringraziarlo per tutti i suoi doni» . Il secondo obiettivo, per papa Francesco, è quello di confessare con umiltà, e insieme con grande confidenza in Dio Amore (cf. 1Gv 4,8), la propria fragilità e per viverla come esperienza dell’amore misericordioso del Signore; un’occasione per gridare al mondo con forza e per testimoniare con gioia la santità e la vitalità presenti nella gran parte di chi è stato chiamato a seguire Cristo nella vita consacrata. Il terzo obiettivo è di abbracciare il futuro con speranza. Ciò richiede una capacità critica o di discernimento tale da andare oltre le difficoltà che incontra la vita consacrata nelle sue varie forme. Il papa fa riferimento alla diminuzione delle vocazioni e all’invecchiamento, soprattutto nel mondo occidentale, ai problemi economici a seguito della grave crisi finanziaria mondiale, alle sfide dell’internazionalità e della globalizzazione, alle insidie del relativismo, all’emarginazione e all’irrilevanza sociale... Sono incertezze che condividiamo con tanti nostri contemporanei e costituiscono il locus theologicus in cui Dio parla e attua la nostra speranza, frutto della fede nel Signore della storia che continua a ripeterci: «Non aver paura […] perché io sono con te» (Ger 1,8). La speranza di cui parla il papa non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cf. 2Tm 1,12) e, per il quale, «nulla è impossibile» (Lc 1,37). È la speranza che non delude e che permetterà alla vita consacrata di conti-

grati. Non raccontiamo più la nostra vocazione, l’esperienza viva di Gesù Cristo. Nei conventi, nelle comunità, negli istituti, non si parla quasi mai di Gesù Cristo e del legame con lui, bensì dei problemi di gestione delle case o semplicemente delle tensioni vissute in fraternità, impoverendo sia il legame con Cristo che con la stessa comunità e, dunque, pure il nostro impegno apostolico e missionario. Senza la memoria non c’è azione dello Spirito Santo, persona divina che guida alla verità tutta intera e fa ricordare la verità sul Cristo e sulla missione degli apostoli. È indispensabile riconoscere che ogni istituto viene da una ricca storia carismatica e che, alle sue origini, è presente l’azione di Dio che, nel suo Spirito, chiama alcune persone alla sequela ravvicinata di Cristo, come altresì a tradurre il Vangelo in una particolare forma di vita, a leggere con gli occhi della fede i segni dei tempi, a rispondere con creatività alle necessità della Chiesa cattolica. L’esperienza degli inizi, che poi è cresciuta e si è sviluppata, coinvolgendo altri membri in nuovi contesti geografici e culturali, è come il seme che diventa albero espandendo i suoi rami. È necessario, scrive papa Francesco – in questo Anno della vita consacrata –, che ogni famiglia carismatica ricordi i suoi inizi e il suo sviluppo storico, per ringraziare Dio che ha offerto alla Chiesa cattolica così tanti doni che la rendono bella e attrezzata per ogni opera buona. Senza il racconto si muore, perché non si tiene in vita la propria identità e non si può rinsaldare l’unità della famiglia e il senso di appartenenza dei suoi membri. Il racconto libera dal mutismo e dall’isolamento e permette di creare comunione con gli altri nel momento in cui si annuncia la propria esperienza. «Non si tratta di fare dell’archeologia o di coltivare inutili nostalgie, quanto piuttosto di ripercorrere il cammino delle generazioni passate per cogliere in esso la scintilla ispiratrice, le idealità, i progetti, i valori che le

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nuare a scrivere una grande storia nel futuro . È la speranza del Cristo crocifisso e risorto. La speranza, così come la memoria, è sempre legata alla Pasqua, cuore della fede e della vita cristiana. I tempi da vivere Giocando sull’intreccio tra passato, presente e futuro, papa Francesco chiede a tutti i consacrati di vivere «il presente con passione». Perché la grata memoria del passato ci spinge, in ascolto attento di ciò che oggi lo Spirito dice alla chiesa, ad attuare in maniera sempre più profonda gli aspetti costitutivi della nostra vita consacrata» . È chiaro che ogni forma di vita consacrata è nata dalla chiamata dello Spirito a seguire Cristo come viene insegnato dal Vangelo. Se per ogni fondatore la regola in assoluto è stata il Vangelo, ogni altra regola voleva essere soltanto espressione del Vangelo e strumento per viverlo in pienezza. Il loro ideale era Cristo, aderire a lui interamente, fino a poter dire con Paolo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21); i voti avevano senso soltanto per attuare questo loro appassionato amore. Vivere il presente con passione significa diventare “esperti di comunione”. In una società dello scontro, della difficile convivenza tra culture diverse, della sopraffazione sui più deboli, delle disuguaglianze, siamo chiamati a offrire un modello concreto di comunità che, attraverso il riconoscimento della dignità di ogni persona e della condivisione del dono di cui ognuno è portatore, permetta di vivere rapporti fraterni. Ne

siamo capaci? Veramente siamo esperti di comunione, di fraternità e di dialogo? C’è, forse, nell’esperienza di fraternità delle nostre comunità, un vuoto affettivo ancora da colmare e delle carenze antropologiche di cui tenere conto seriamente. Di fatti, papa Francesco, più avanti, nella sua lettera, invita a rileggere i suoi frequenti interventi nei quali non si stanca di ripetere che critiche, pettegolezzi, invidie, gelosie e antagonismi sono atteggiamenti che non hanno diritto di abitare nelle nostre case . Tuttavia, egli sa bene che c’è ancora un lungo cammino da compiere perché si tratta di perseguire l’accoglienza e l’attenzione reciproche, di praticare la comunione dei beni materiali e spirituali, la correzione fraterna, il rispetto per le persone più deboli. È la mistica di vivere insieme”, che fa della nostra vita “un santo pellegrinaggio”. Da qui il bisogno di interrogarsi sul rapporto tra le persone di culture diverse, considerando che le comunità diventano sempre più internazionali. La mistica dell’incontro è la capacità di sentire, di ascolto, delle altre persone. La capacità di cercare insieme la strada, il metodo, lasciandoci illuminare dalla relazione di amore che passa fra le tre divine persone (cf. 1Gv 4,8) quale modello di ogni rapporto interpersonale. La vera esperienza mistica dell’incontro con Dio apre alla comunione con gli altri in fraternità. Le domande che interpellano «Come ci lasciamo interpellare dal Vangelo? Esso è davvero il “vademecum” per la vita di ogni giorno e 40


riceve da Dio la capacità di scrutare la storia nella quale vive e di interpretare gli avvenimenti: è come una sentinella che veglia durante la notte e sa quando arriva l’aurora (cf. Is 21,11-12). Conosce Dio e conosce gli uomini e le donne suoi fratelli e sorelle. È capace di discernimento e anche di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte […]. A volte, come accadde a Elia e a Giona, può venire la tentazione di fuggire, di sottrarsi al compito di profeta, perché troppo esigente, perché si è stanchi, delusi dai risultati. Ma il profeta sa di non essere mai solo. Anche a noi, come a Geremia, Dio assicura: «Non aver paura […] perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1,8). Facciamo nostra l’immagine del profeta che il Vangelo di Giovanni ci consegna nella terza domenica d’Avvento (cf. Gv 1,6-8.19-28). Ognuno di noi è uomo mandato da Dio, come il Battista. Siamo piccoli profeti, ciascuno con il nostro cono d’ombra. Quello che conta è, però, il fatto che siamo in grado di lasciarci irradiare dalla luce, di stivare dentro di noi la luce. Non siamo testimoni dei comandi del Signore o della sua forza o dei suoi castighi, neanche del suo giudizio, bensì della sua luce. Siamo luce di quel Dio liberatore che è venuto in Cristo Gesù a salvare e a sanare, a consolare e a guarire. Giovanni è testimone non tanto della verità, quanto della luce della verità che emana il suo splendore, ossia la bellezza. Il Precursore prepara la strada a uno che è venuto e ha fatto risplendere la vita (cf. 2Tm 1,10). Come il Battista, noi siamo la voce di un Dio appassionato, innamorato dell’uomo. Noi siamo voce abitata da un altro, dall’Altissimo. Solo Dio è la Parola, noi siamo l’eco della Parola. Io sono voce quando sono profeta, quando trasmetto parole lucenti e parlo del sole, del bene, del bello, dell’amore, gridando nel deserto delle nostre comunità e città come Giovanni, o sussurrando al cuore ferito dei nostri fratelli come il profeta Isaia. Svegliare il mondo è possibile se anzitutto ridestiamo noi stessi, se con la preghiera e la fiducia nel Signore sappiamo muovere il bene e diffonderlo nelle comunità. La forza del male è nel nascondimento. La forza del bene è nella luce, nella rivelazione. Il male si diffonde con le chiacchiere, con i cattivi pensieri, con le gelosie, le invidie, la pigrizia. Il bene si muove con lo zelo, con la passione, con la forza di chi è innamorato e attratto dall’amore di Dio. Il Battista sembra dirci che

per le scelte che siamo chiamati ad operare?». Occorre altresì chiedersi se Gesù è davvero il primo e l’unico amore della nostra vita. È solo da questa relazione fontale con il Signore che possiamo imparare ad amare e a raccontare di lui e del suo amore per noi. Seguono altre domande sulla fedeltà alla missione che ci è stata affidata. «I nostri ministeri, le nostre opere, le nostre presenze, rispondono a quanto lo Spirito ha chiesto ai nostri fondatori, sono adeguati a perseguirne le finalità nella società e nella chiesa di oggi? C’è qualcosa che dobbiamo cambiare? Abbiamo la stessa passione per la nostra gente, siamo ad essa vicini fino a condividerne le gioie e i dolori, così da comprendere veramente le necessità e poter offrire il nostro contributo per rispondervi?». Le attese di papa Francesco Per questo anno di grazia dedicato alla vita consacrata, papa Francesco si attende almeno cinque impegni da noi. Il primo è di essere persone felici, contente, realizzate, gioiose, perché «Dove ci sono i religiosi c’è gioia». Siamo chiamati a «sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa cattolica, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita. Che tra di noi non si vedano volti tristi, persone scontente e insoddisfatte, perché “una sequela triste è una triste sequela”». Il senso della gioia cristiana è il Cristo crocifisso e risorto. Egli ci educa al valore autentico della perfetta letizia, sull’esempio di san Francesco, il Poverello. L’attesa della gioia è carico di senso messianico e ha un significato pastorale e missionario importantissimo perché la «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione» . La vita consacrata non cresce se organizziamo delle belle campagne vocazionali, ma se le giovani e i giovani che ci incontrano si sentono attratti da noi, se ci vedono persone felici! È la vostra vita che deve parlare, una vita dalla quale traspare la gioia e la bellezza di vivere il Vangelo e di seguire Cristo . Il secondo impegno è relativo alla profezia: «Mi attendo che “svegliate il mondo”, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia». Il profeta è la coscienza critica d’Israele, il vento nuovo, colui che sa discernere i segni dei tempi e leggere anche le azioni o gli interventi di Dio nella storia. «Il profeta

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il mondo si regge su un principio di lue e non sulla prevalenza del male, che vale molto di più accendere la nostra lampada nella notte che imprecare e denunciare il buio. Per tre volte gli domandano: “Tu chi sei?”. È una domanda decisiva anche per noi. Infatti, non siamo gli uomini prestigiosi e importanti che vorremmo essere, né gli insignificanti che temiamo d’essere. Non siamo ciò che gli altri credono di noi, né santi, né solo peccatori, non siamo i nostri ruoli, non siamo ciò che abbiamo o sappiamo. Noi siamo voce abitata da Dio. Ecco il grande mistero del Natale! Ecco la grande gioia che ci apprestiamo a celebrare. Il papa ci chiede ancora di essere “esperti di comunione”, ossia persone che vivono concretamente la “spiritualità della comunione”, indicata da san Giovanni Paolo II. In quest’ottica, la fraternità è dono e compito, progetto e missione, sfida e sacrificio da compiere. Papa Francesco s’appello a un principio caro alla tradizione spirituale cristiana: il principio veritativo della fede – dell’amore per Dio – è l’amore per il prossimo, per chi vive con noi. L’amore per Dio, la contemplazione delle Scritture e la vera fede aprono a una comunione orizzontale che ci rende estroversi, ossia rivolti verso gli altri e non ripiegati su noi stessi per accogliere le attese dell’umanità. Ci sono, infatti, scrive il papa, «persone che hanno perduto ogni speranza, famiglie in difficoltà, bambini abbandonati, giovani ai quali è precluso ogni futuro, ammalati e vecchi abbandonati, ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore, uomini e donne in cerca del senso della vita, assetati di divino… Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare dalle piccole beghe di casa, non rimanete prigionieri dei vostri problemi. Questi si risolveranno se andrete fuori ad aiutare gli altri a risolvere i loro problemi e ad annunciare la buona novella. Troverete la vita dando la vita, la speranza dando speranza, l’amore amando». Il quarto impegno riguarda la carità: il papa aspetta da noi «gesti concreti di accoglienza dei rifugiati, di vicinanza ai poveri, di creatività nella catechesi, nell’annuncio del Vangelo, nell’iniziazione alla vita di preghiera. Di conseguenza auspico lo snellimento delle strutture, il riutilizzo delle grandi case in favore di opere più rispondenti alle attuali esigenze dell’evangelizzazione e della carità, l’adeguamento delle opere ai nuovi bisogni». Nel quinto impegno il papa chiede che ogni forma di vita consacrata s’interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano. Occorre dare spazio alla fantasia dello Spirito che ha generato modi di vita e

opere diversi per andare verso le periferie esistenziali dell’umanità. Siamo pronti, personalmente e come comunità, a vivere queste sfide e a prendere tali impegni per l’anno della vita consacrata? Siamo in grado di fare memoria del carisma dell’Ordine e altresì del nostro modo d’incarnare il francescanesimo nel Meridione d’Italia? Come viviamo la memoria delle nostre Province? Quali sono i pettegolezzi che dobbiamo mettere da parte? Quali i segni di carità e di impegno sociale da portare avanti? Siamo in grado di prendere parte alle nuove forme di evangelizzazione? In che cosa stiamo dormendo? Sentiamo la passione per il Vangelo? I nostri guardiani sono sentinelle del mattino per le singole fraternità? Non è forse vero che la prima forma di annuncio è da vivere in fraternità? Non è forse altrettanto vero che tante volte siamo dei rassegnati? Chiediamoci anche: siamo persone felici, soddisfatte, che hanno trovato un’armonia interiore e sanno trasmettere gioia e pace al mondo? Luogo di frontiera Luogo di frontiera: così mi piacerebbe definire la vita consacrata. Luogo dell’imprevisto, dell’inedito, dell’originale; fuori dalle consuetudini scontate e rassicuranti; laboratorio attrezzato per la costruzione dell’uomo nuovo, sempre in attesa di futuro; spazio d’inclusione, senza chiusure, senza pregiudizi, ove le diversità sono accolte e riconciliate tra di loro in un’armonia non perfetta ma reale e comunionale. Luogo dove è spezzato il pane della carità per i tanti affamati di Dio. Sono certo che, in occasione dell’Anno dedicato alla Vita consacrata, alla luce delle esortazioni papa Francesco, non mancheranno proposte concrete da parte di tutti gli Ordini religiosi e delle Congregazioni e degli Istituti di Vita consacrata per favorire la crescita di questa profezia nella vita della Chiesa per il bene del mondo. La vita consacrata, nonostante ombre e difficoltà, è un’esperienza intensa di fede e di relazione con il Signore; ed è tutt’altro che disinteresse per la storia e per il destino degli uomini. È servitium Dei et hominis, testimonianza di coerenza e di responsabilità. Ancora oggi, sembra dire papa Francesco nella Lettera a tutti i consacrati, è un prezioso spaccato di vita evangelica, uno spazio di servizio e di profezia, una riserva di coraggio e sapiente follia. La missione dei consacrati è al servizio del bene comune, delle città, delle famiglie: non mera distribuzione del benessere materiale, ma promozione del valore della persona, di ogni uomo e donna. I consacrati aiutano a superare 42


finirai ai pugni, non è un problema: è meglio questo che il terrorismo delle chiacchiere. Oggi la cultura dominante è individualista, centrata sui diritti soggettivi. È una cultura che corrode la società a partire dalla sua cellula primaria che è la famiglia. La vita consacrata può aiutare la chiesa e la società intera dando testimonianza di fraternità, che è possibile vivere insieme come fratelli nella diversità: questo è im portante! Perché nella comunità non ci si sceglie prima, ci si trova con persone diverse per carattere, età, formazione, sensibilità… eppure si cerca di vivere da fratelli. Non sempre si riesce, voi lo sapete bene. Tante volte si sbaglia, perché siamo tutti peccatori, però si riconosce di avere sbagliato, si chiede perdono e si offre il perdono. E questo fa bene alla Chiesa: fa circolare nel corpo della Chiesa la linfa della fraternità. E fa bene anche a tutta la società». 8) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6-1-2001), n. 43. 9) FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 14. 10) Si sa che il tema della gioia accompagna tutto il magistero di papa Francesco che, nell’Angelus del 7-122014, ha così detto: «Oggi c’è bisogno di persone che siano testimoni della misericordia e della tenerezza del Signore, che scuote i rassegnati, rianima gli sfiduciati, accende il fuoco della speranza. Lui accende il fuoco della speranza! Non noi. Tante situazioni richiedono la nostra testimonianza consolatrice. Essere persone gioiose, consolate. Penso a quanti sono oppressi da sofferenze, ingiustizie e soprusi; a quanti sono schiavi del denaro, del potere, del successo, della mondanità. Poveretti! Hanno consolazioni truccate, non la vera consolazione del Signore! Tutti siamo chiamati a consolare i nostri fratelli, testimoniando che solo Dio può eliminare le cause dei drammi esistenziali e spirituali. Lui può farlo! È potente!»

la crisi antropologia in atto, il vuoto di tante esistenze, catturate da una falsa idea di autonomia, rinchiuse nella propria individualità. Il mondo ha bisogno dei consacrati e non solo la Chiesa. I cittadini di tutto il mondo pensano ai consacrati con simpatia e riconoscenza per tutto il bene che da essi hanno ricevuto, per le numerose istituzioni cartitative ed educative di cui è ricca la storia dei religiosi. Ogni comunità ecclesiale li immagina al proprio fianco nel difficile compito di formare le coscienze a una fede vigile e operosa, immersa nella concretezza delle difficili situazioni in cui versano le famiglie. Si tratta di una preziosa risorsa, insostituibile per la nuova evangelizzazione. La vocazione a una vita integrale può essere di grande stimolo per una città e un mondo dove regna spesso il pressapochismo, l’arte di arrangiarsi, la cultura dell’effimero, giocando al ribasso ed elevando la furbizia a regola di vita.

NOTE 1) FRANCESCO, Lettera apostolica A tutti i consacrati in occasione dell’Anno della Vita consacrata (21-112014), n. 12. 2) Ivi III,2 3) Ivi 1. 4) Ivi. 5) Cf. ivi 3. 6) Ivi 2. 7) Nel Discorso del 7-11-2014, tenuto in occasione dell’incontro per l’assemblea nazionale della Cism, papa Francesco ha affermato: «Un segno chiaro che la vita religiosa è chiamata a dare oggi è la vita fraterna. Per favore, che non ci sia fra voi il terrorismo delle chiacchiere! Cacciatelo via! Ci sia fraternità. E se tu hai qualcosa contro il fratello, lo dici in faccia… Alcune volte

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testimoni

Fiorenzo Angelini Il Cardinale dal “cuore di Dio” GIANFRANCO GRIECO

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on troviamo parole per descrivere chi è stato, e cosa ha fatto il cardinale Fiorenzo Angelini nel corso della sua lunga vita. Bisognerebbe creare un nuovo dizionario dalla A alla Z e, in ogni lettera, collocare la sua figura: amabilità, bontà, cuore, dolcezza, fedeltà, gioia ecc …. Ma, al di là del dolore, della tristezza e dello sgomento che ha scosso il cuore di tutti i suoi amici e dei suoi “devoti” e, in particolare, le sue figlie spirituali della congregazione benedettina delle suore riparatrici del santo volto di nostro Signore Gesù Cristo, dobbiamo sforzarci di trovare una frase, una definizione, che riassuma tutta la sua personalità di sacerdote, di vescovo e di cardinale attento nel leggere i “segni dei tempi” e nel dare risposte concrete alle varie sensibilità religiose, culturali, politiche e sociali di quella lunga stagione che ha segnato la vita della Chiesa, della società italiana e del mondo globalizzato: dalla Polonia alla Russia,da Cuba al Messico, dall’Africa all’India. La frase è: “Il cardinale dal cuore di Dio”. Si sforzava, il cardinale Angelini, giorno dopo giorno, a testimoniare con le sue parole e con la sua vita questo “Volto” di padre attento e premuroso; di figlio fedele al testamento lasciatogli dall’Abate fondatore servo di Dio Ildebrando Gregori e di uomo spirituale che, soprattutto in questi ultimi anni di vita, badava solo ed esclusivamente all’essenziale: dare onore e gloria a Dio Padre, rendersi sempre

utile alle urgenze della santa Chiesa, e mettersi al servizio dei più bisognosi, come apostolo della “carità silenziosa”. La lunga vita del nostro amato e venerato cardinale viene segnata da tre tappe significative: essere sacerdote e vescovo al servizio della diocesi di Roma; essere fondatore e presidente del pontificio consiglio per gli operatori sanitari e con - fondatore delle suore riparatrici; essere promotore della teologia del Volto dei Volti, dimensione, questa, letta e proposta nella sua angolazione storico-artistica, culturale e spirituale. “Inventore” della pastorale sanitaria ed ancor prima del “laicato cattolico” e della presenza dei medici cattolici negli ospedali e nelle cliniche di Roma e dell’Italia, il cardinale Angelini, ha speso questa prima stagione della sua vita senza mai risparmiarsi. Cultore della teologia della vita, ha percorso i tempi, indicando le scelte etiche da tradurre giorno dopo giorno, in dinamiche di vita, senza compromessi e senza tentennamenti. La vita sempre al primo posto: dal momento del concepimento sino al naturale tramonto; e poi, la cura delle persone ammalate: dai bambini agli anziani. A tutti e a tutto pensava il cardinale Angelini. Per essere fedele a questa “missione” allargava gli spazi dell’amore e della carità da Roma al mondo: presiedete della sua creatura: il pontificio consiglio per la pastorale della salute da lui tenacemente voluto da san Giovanni Paolo II paternamente benedetto. Fondatore dell’Accademia per la Vita; annuali congressi internazionali promossi dall’Istituto Internazionale sul Volto di Cristo sin dal 1997 con la partecipazioni di varie personalità accademiche, scientifiche e nobel per la medicina. Pensava alla grande il cardinale Angelini, e, di conseguenza operava alla grande. Repubblica Democratica del Congo ed India, erano le 44


CHI ERA

I

l cardinale Fiorenzo Angelini era nato a Roma, il 1º agosto 1916 ed è morto sempre a Roma il 22 novembre 2014. Pio XII il 27 giugno 1956 lo nominava vescovo titolare di Messene. La consacrazione aveva luogo il successivo 29 luglio nella chiesa di Sant’Ignazio in Roma, per l’imposizione delle mani del cardinale Giuseppe Pizzardo, vescovo di Albano, segretario della Congregazione per la dottrina della fede, assistito da Luigi Traglia, arcivescovo titolare di Cesarea di Palestina, vice gerente del vicariato di Roma, e dal domenicano Mario Ismaele Castellano, vescovo di Volterra, assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica Italiana. Nel 1959, a seguito alla morte del consulente ecclesiastico nazionale Pelloux, diventa assistente ecclesiastico dell’Associazione medici cattolici italiani (AMCI). Partecipa a tutte le sessioni del Concilio ecumenico Vaticano II. Dal gennaio 1977 al febbraio 1985 è vescovo ausiliare di Roma quale delegato per l’assistenza religiosa negli ospedali e luoghi di cura della capitale. Il 16 febbraio 1985 viene promosso arcivescovo, sempre con il titolo di Messene, e nominato dapprima pro-presidente, quindi presidente del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari (ovvero ministro della Sanità della Santa Sede) dal 16 febbraio 1985 al 31 dicembre 1996. Nel 1987 era vicino al morente Renato Guttuso, suo amico personale. Papa Giovanni Paolo II lo elevava alla dignità cardinalizia nel concistoro del 28 giugno 1991 assegnandogli la nuova diaconia di Santo Spirito in Sassia. Partecipa alla speciale assemblea del Sinodo dei vescovi europei dal 28 novembre al 14 dicembre 1991 in Vaticano e poi a quello per i vescovi africani dal 2 al 29 ottobre 1994. Inviato pontificio all’apertura delle celebrazioni per il V centenario della nascita di San Giovanni di Dio l’8 marzo del 1995 a Montemoro-Nuovo, Portogallo, veniva inviato come rappresentante del Papa anche alla IV giornata mondiale del malato presso il santuario di Guadalupe in Messico l’11 febbraio 1996. Per 19 anni è stato l’apostolo del Volto dei Volti promuovendo congressi e incontri a livello internazionale sino a quello svoltosi nel mese di settembre 2014. Dopo aver rinunciato agli incarichi per raggiunti limiti di età, prendeva parte alla V giornata mondiale del malato a Fatima l’11 febbraio 1997 ed alla VII giornata mondiale del malato ad Harissa in Libano l’11 febbraio 1999. Optando per l’ordine dei cardinali presbiteri, la sua diaconia viene elevata pro illa vice a titolo presbiterale il 26 febbraio 2002. Si addormentava nel Signore il 22 novembre 2014 all’età di 98 anni, dopo una breve malattia. Le esequie si tenevano il 24 novembre alle ore 15 all’altare della Cattedra della basilica di san Pietro La liturgia esequiale veniva celebrata dal cardinale Angelo Sodano del Collegio cardinalizio. Al termine della celebrazione Papa presiedeva il rito dell’ultima commendatio e della valedictio alla salma. Riposa in pace a Bassano Romano nella chiesa madre del complesso delle suore benedettine riparatrici del santo volto di nostro Signore Gesù Cristo, religiose da lui amate e predilette per tutta la vita.

dicata alla contemplazione del Volto dei Volti. Pubblicazione della rivista (due numero l’anno); congresso internazionale con l’edizione dei poderosi volumi arricchiti da una immagini iconografiche di alto livello artistico; presentazione del volume nella prestigiosa sede de La Civiltà Cattolica, prima di Natale. E poi, sempre come uomo di frontiera, guidato da quell’ottimismo cristiano innato che ha accompagnato i suoi interminabili giorni. Resta il cardinale Angelini il “cardinale magnifico” che ha amato la Chiesa, i Papi, le sue suore, il suo laicato, i suoi medici, i suoi amici vicini e lontani giunti in gran numero per dirgli “arrivederci” in cielo.

“urgenze” della sua vita ormai matura. Sino ad alcuni anni or sono, anche dopo i 90 anni, prendeva l’aereo per andare di persona e toccare con mano i traguardi raggiunti. Era un “missionario” il cardinale Angelini. Portava a compimento un progetto e subito ne iniziava un altro. E così, sino alla fine dei suoi giorni di luce. Quando lo invitavo sommessamente a fare un bilancio della sua vita “miracolosa”, non faceva altro che ringraziare il buon Dio che era stato buono e generoso con lui, sempre. E, con cuore umiliato, confessava di non meritare quanto ha avuto dalla divina Provvidenza. Dopo questa seconda stagione, si apriva la terza, tutta de-

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E uro Dossier 2015 pa/ 2 Sguardi sul mondo 1915-1919 Il conflitto nel cuore del vecchio continente Interventismo e neutralismo in Italia PAPA FRANCESCO A SARAIEVO

da ROMA

FRANCESCO DANTE STORICO, UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA

“Desidero annunciare che sabato 6 giugno, a Dio piacendo, mi recherò a Sarajevo, capitale della Bosnia ed Erzegovina. Vi chiedo fin d’ora di pregare affinché la mia visita a quelle care popolazioni sia di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti fermenti di bene e contribuisca al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia” DOPO ANGELUS 1 febbraio 2015

L

a maggior parte degli Italiani per non entrare in guerra a fianco degli Austriaci che occupavano ancora i territori di Trento e Trieste. Predominante era in Italia il partito dei neutralisti, ma la minoranza interventista era comunque dell’avviso di cambiare alleanza e di schierarsi contro l’Austria. I cattolici e buona parte dei socialisti erano contro la guerra. I socialisti sostenevano che la guerra era un affare tra capitalisti che lottavano per il predominio imperialista dell’Europa, mentre i proletari di tutto il mondo dovevano sentirsi fratelli. Giolitti, che poco tempo prima aveva lasciato la presidenza del consiglio, si era impegnato per mantenere la neutralità italiana. Con la mente ormai rivolta alla guerra Egli era sicuro che gran parte del territorio italiano ancora occupato dall’Austria ("parecchio", come lui stesso affermò) poteva essere ottenuto mediante trattative diplomatiche e non aveva visto male, come si è visto nell’offerta austriaca, sdegnosamente rifiutata da un’Italia con la mente ormai rivolta alla guerra. Le forze interne ed esterne che spingevano l’Italia verso la guerra erano molto forti. La grande industria vedeva nella guerra un’occasione unica e grandiosa di espansione economica grazie alle forniture per l’esercito. I maggiori quotidiani italiani cavalcavano le tesi dei nazionalisti e attaccavano in maniera violenta i neutralisti fino a definire traditore Giolitti. Molte manifestazioni di piazza si svolgevano a favore della guerra e molti interventisti tra cui Gabriele D’Annunzio vi pronunciavano infuocati discorsi patriottici. Anche dall’estero le spinte non

mancavano: l’Italia importava il 90% del suo carbone dall’Inghilterra e dipendeva da Inghilterra e Francia anche per altre importanti materie prime: questo era un formidabile strumento di pressione nelle mani dell’Intesa. Nel mese di aprile 1915 il governo italiano firmò a Londra un patto segreto nel quale l’Italia s’impegnava ad entrare in guerra con Francia e Inghilterra. I giornali sottovalutavano i costi e le conseguenze della guerra. Il re era decisamente favorevole alla guerra. Il Parlamento, ancora contrario, fu praticamente obbligato ad approvare il patto di Londra. Il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa. Ma, invece di guerra lampo, fu guerra lunga che ben presto si sarebbe mutata in guerra di posizione. Guerra totale, perché unificò più generazioni: a Caporetto, nel 1917 vennero chiamati a combattere i ragazzini del ’99, giovani diciottenni. E guerra totale per le armi: di tutti i tipi fino all’uso indiscriminato dei gas. Guerra totale perché non c’era scampo: alle prime linee a cui si somministrava abbondante grappa non si dava altra possibilità che procedere in avanti. Chi si girava indietro veniva colpito dal “fuoco amico”. Nel conflitto nato nel cuore dell’Europa vennero coin48


volte anche le potenze extra-europee, come il Giappone e gli Stati Uniti. Inoltre la Prima Guerra Mondiale fu caratterizzata dall’utilizzo da parte di tutte le nazioni di uno spiegamento di forze senza precedenti e dall’utilizzo di nuove armi: gli aerei, inventati pochi decenni prima, i carri armati e i sottomarini. Fu introdotto anche l’utilizzo delle più devastanti armi chimiche e dei gas. Ma il motivo principale che differenziò la Prima Guerra Mondiale da tutti gli altri conflitti antecedenti furono gli effetti: si trattò di una guerra “totale”, che coinvolse tutta la compagine degli Stati belligeranti: non solo a livello bellico, ma anche economico, amministrativo e politico. Notevole, inoltre, l’utilizzo di mirate campagne propagandistiche. Le cause Le cause del conflitto sono da ricercarsi, da una parte, nella crisi dei rapporti internazionali europei, dall’altra, nella rapida e significativa ascesa della Germania a potenza navale, con conseguenti ripercussioni sul mondo coloniale. Inoltre, nei movimenti nazionalisti e irredentisti, specie nelle seguenti zone strategiche dell’Europa: Balcani, Alsazia, Lorena, Trentino e Trieste. Ma, come si è visto, la Prima Guerra Mondiale ha radici nella corsa alle materie prime, prima fra tutte l’acciaio, per cui già a metà dell’Ottocento si poteva prefigurare una guerra. Il sistema delle alleanze fu presto stabilito. Da una parte si schierarono l’Austria e la Germania, dall’altra l’Inghilterra, la Francia e la Russia, mobilitate in difesa della Serbia. Il grande sogno della Germania La Germania invase quindi la Francia, passando attraverso il Belgio e violandone così la neutralità, cosa che suscitò molto scalpore soprattutto in Inghilterra, che

APPELLO DI PAPA FRANCESCO

La preghiera è la nostra protesta davanti a Dio in tempo di guerra

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ncora una volta il mio pensiero va all’amato popolo ucraino. Purtroppo la situazione sta peggiorando e si aggrava la contrapposizione tra le parti. Preghiamo anzitutto per le vittime, tra cui moltissimi civili, e per le loro famiglie, e chiediamo al Signore che cessi al più presto questa orribile violenza fratricida. Rinnovo l’accorato appello affinché si faccia ogni sforzo – anche a livello internazionale – per la ripresa del dialogo, unica via possibile per riportare la pace e la concordia in quella martoriata terra. Fratelli e sorelle, quando io sento le parole “vittoria” o “sconfitta” sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è “pace”. Questa è l’unica parola giusta. Io penso a voi, fratelli e sorelle ucraini… Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo! State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo. E preghiamo tutti, perché la preghiera è la nostra protesta davanti a Dio in tempo di guerra. UDIENZA GENERALE 4 febbraio 2015 per questo motivo scese in campo al fianco delle truppe francesi. L’intenzione tedesca era di portare avanti una “guerra di movimento”, rapida e veloce, ma il tentativo fallì: il conflitto si rivelò lungo ed estenuante, in quel che fu definita una “Guerra di Trincea”. Dopo l’avanzata tedesca in Francia ed il blocco continentale operato dalla flotta inglese, nel 1915 anche l’Italia entrò in guerra. In quel periodo l’opinione pubblica era divisa i due fazioni, da una parte c’erano i “neutralisti”, dall’altra gli “interventisti”.


La Germania sognava la formazione di un grande stato formato da tutte le nazioni di lingua tedesca. L’impero Russo, a sua volta, ambiva a riunire sotto di sé tutti i popoli di lingua slava, quindi scese in campo in aiuto della Serbia ordinando la mobilitazione del proprio esercito. Appena l’Austria dichiarò guerra alla Serbia fu messo in moto l’automatismo delle alleanze e delle mobilitazioni: in pochi giorni ebbero luogo le dichiarazioni di guerra. A fianco di Germania e Austria si schierarono Turchia

e Bulgaria, il Giappone e la Romania si schierarono a fianco della Triplice Intesa. Socialisti e cattolici si schierarono decisamente per la pace, ma non furono presi in considerazione. Non fu presa in considerazione neanche la durissima condanna pronunciata dal papa Benedetto XV, che considerò la guerra come il risultato dell’egoismo, del materialismo e della mancanza di grandi valori morali e spirituali, “guerra inutile strage” affermò il papa. Soltanto l’Italia di Giolitti mantenne la calma: la Triplice Alleanza era un patto difensivo, e sic-

IL NUNZIO MONS. PEZZUTO

Una periferia, questa, che quali altre caratteristiche ha? È chiaro. Ci sono, per esempio, le vittime della guerra: non dobbiamo dimenticare che la guerra è terminata meno di 20 anni fa. Quindi ci sono vittime a tutti i livelli: a livello fisico, a livello psichico, a livello anche di povertà… La visita si inserisce nello stile di Papa Francesco, che va incontro alle necessità.

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rande attenzione da parte della popolazione locale e della stampa all’annuncio della visita del Papa a Sarajevo il prossimo 6 giugno. Nella capitale della Bosnia ed Erzegovina si è tenuta la conferenza stampa da parte dell’arcivescovo di Sarajevo, il card. Vinko Puljić, e del nunzio apostolico nel Paese mons. Luigi Pezzuto. "La scelta di Sarajevo - ha detto mons. Pezzuto - conferma la sensibilità di Papa Francesco per i poveri, una sensibilità originaria di un Pontefice venuto dall’America Latina". Certamente (l’annuncio della visita) è stato accolto molto bene. Già abbiamo avuto delle reazioni … Siccome questa visita si attendeva già da tempo, siamo sicuri che farà molto bene e non solo ai cattolici. E lei sa che Sarajevo è un po’ un crocevia non solo culturale, ma anche sul piano religioso: differenti confessioni cristiane, differenti religioni. Il massimo leader musulmano locale mi diceva: “Dica al Papa che venga: farà il bene di tutti gli abitanti della Bosnia ed Erzegovina, anche se la visita praticamente sarà solo a Sarajevo per ragioni di tempo. A tutti i livelli, questa visita, è molto attesa. Posso dirlo già fin d’ora. Lei ricordava l’aspetto di Sarajevo come crocevia di culture e religioni: dunque la visita ha un particolare significato in questo momento storico … Lo ha detto anche il Papa: è importante per la pace. Il processo di pace – è chiaro, come in ogni Paese - è in atto, ma non è mai completo. E poi c’è anche la questione del dialogo religioso, interreligioso e poi il dialogo ecumenico. Quindi è chiaro che questo viaggio a Sarajevo ha un significato molto, molto elevato: direi altissimo. Il Papa, ancora una volta, dimostra la sua attenzione e il suo desiderio di incontrare la Chiesa e le Chiese di tutto il mondo … Certo! Direi proprio di sì. E l’attenzione del Papa è – come lui dice sempre – alle periferie.

Il Papa ha chiesto preghiere. Quale il suo auspicio per questa visita? L’auspicio è quello stesso che ha espresso il Papa: dobbiamo pregare molto, affinché veramente la visita porti tanti frutti sia per la Chiesa locale, la Chiesa cattolica, ma anche a livello di tutte le fasce di questa società quindi a livello culturale, a livello religioso - in modo che veramente si possa andare verso un clima, una situazione di pace e di convivenza. E’ già cominciato questo processo, però deve maturare e deve essere portato a compimento.

SARAJEVO, QUANTO WOJTYLA ANDÒ NELLA GERUSALEMME DELL’EST

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’annuncio della visita di Papa Francesco in giugno a Sarajevo ha riportato alla memoria la lunga attesa cui la guerra nell’ex Jugoslavia costrinse Giovanni Paolo II, desideroso di recarsi nella capitale bosniaca fin dal ’94, ma impossibilitato a visitarla fino al 1997. Le feritoie dei 200 bunker da cui si affacciano i pezzi artiglieria che si preparano a sventrarla non si distinguono da basso, dalla città. Le colline, da basso, hanno solo i colori della primavera anche se nascondono la morte. È il 5 aprile 1992 e Sarajevo sta per essere inghiottita da un incubo. Da settimane, i boschi che fanno da corona alla capitale della Bosnia ed Erzegovina sono i muti testimoni di un accerchiamento implacabile. Pezzi di artiglieria, carri armati, al comando del gene50


come Austria e Germania non erano state aggredite, ma avevano dichiarato guerra per prime, l’Italia sostenne di non avere alcun obbligo di schierarsi al loro fianco. Ma il 26 aprile del 1915, il governo italiano si alleò segretamente con la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia), stipulando il Patto di Londra. Attraverso tale accordo, l’Italia si impegnava nella guerra contro l’Austria ed, in caso di vittoria, avrebbe dovuto ottenere le terre irredente di Trentino, l’Alto Adige, Trieste, Istria e della la città di Valona, in Albania.

Sul fronte italo-austriaco, il conflitto si presentò subito estremamente lento, combattuto nelle trincee scavate nelle montagne del Friuli da soldati reclutati tra le fasce più povere della popolazione all’inseguimento di quel folle mito della conquista della vetta. Nel 1917, si ribaltò la situazione, con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti a fianco della Triplice Intesa ed il ritiro della Russia, impegnata entro i propri confini con la Rivoluzione. La guerra di trincea rendeva determinanti fronti lunghi migliaia di chilometri che occupavano milioni

rale serbo Ratko Mladic: tutti con le canne puntate verso il basso, pronti a falciare uomini, donne, vecchi e bambini – formiche visti dall’alto – che da quel giorno impareranno a correre e ad avere paura.

tua volontà. Tu non ami la violenza e l’odio. Tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano tra loro fratelli e Ti riconoscano come loro Padre”. “Basta con la barbarie!” Non lo lasciano andare e allora l’anziano Papa slavo innalza la più dolente preghiera del “Padre Nostro” mai colta e registrata pubblicamente dalle labbra di un Successore di Pietro. Prima di partire per Zagabria, l’8 settembre, a Castel Gandolfo, celebra una Messa e l’omelia che pronuncia è la stessa scritta per la sua visita negata alla città-martire. Per lunghi minuti, i confini del Palazzo apostolico sfumano e in quel cortile entrano in sottofondo le urla, le raffiche, il fumo di Sarajevo: “Occorre porre fine ad una simile barbarie! Basta con la guerra! Basta con la furia distruttiva! Non è più possibile tollerare una situazione che produce solo frutti di morte: uccisioni, città distrutte, economie dissestate, ospedali sprovvisti di farmaci, malati ed anziani abbandonati, famiglie in lacrime e dilaniate. Bisogna giungere al più presto ad una pace giusta. La pace è possibile, se viene riconosciuta la priorità dei valori morali sulle pretese della razza o della forza”.

La mattanza di Sarajevo All’inizio di maggio – bloccate le vie d’accesso, tagliati i rifornimenti di cibo, di medicine, di corrente elettrica – la mattanza comincia. Stragi quotidiane, meticolose, anche 300 persone al giorno, centrate nei mercati, nei campi da calcio, nelle strade dove donne che scappano con la spesa vengono abbattute dal tiro dei cecchini. Questa è Sarajevo in quei giorni, che diventeranno mesi, che diventeranno anni. Quattro anni di sangue, il più lungo assedio della storia, 12 mila morti, altri 50 mila feriti e storpiati per sempre. “Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare: ‘Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!’. Padre nostro! Padre degli uomini: Padre dei popoli. Padre di tutti i popoli che abitano nel mondo. Padre dei popoli d’Europa. Dei popoli dei Balcani...”. La Sarajevo sfiorata Mentre il mondo s’indigna senza muovere un dito, c’è un solo leader, uno solo, che chiede di entrare nell’inferno da dove tutti cercano di scappare. Giovanni Paolo II vuole andare a Sarajevo, la “Gerusalemme dell’Est”. Vuole salirne il calvario e stare, lui Papa slavo, con gli slavi – serbi croati e musulmani – che si stanno massacrando. Arriva quasi a sentire il rombo dei cannoni visitando Zagabria, capitale della Croazia, il 10 e 11 settembre del ’94. Ma Sarajevo, no. Neanche uno snervante lavoro diplomatico riesce a fermare per un giorno la guerra davanti al Papa che vorrebbe venire a parlare di pace. “‘Sia fatta la tua volontà …’ Si compia nel mondo, e particolarmente in questa travagliata terra dei Balcani, la

Il perdono, unica forza di pace Tre anni dopo, il 12 e 13 aprile ’97 il viaggio impossibile si compie. Giovanni Paolo II entra a Sarajevo e tempesta di messaggi di pace e inviti al dialogo – 7 discorsi in 24 ore – la città tempestata dai mortai. Parla sotto la neve, libera tre colombe e al loro volo bianco affida un altro dei suoi celebri “Mai più!”: “Mai più la guerra, mai più l’odio e l’intolleranza! Questo ci insegna il secolo, questo il millennio che stanno ormai per concludersi. E’ con questo messaggio che mi accingo ad iniziare la mia Visita pastorale. Alla logica disumana della violenza è necessario sostituire la logica costruttiva della pace. L’istinto della vendetta deve cedere il passo alla forza liberatrice del perdono”.

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bloccavano i porti tedeschi per impedire i rifornimenti. Una sola battaglia navale fu combattuta nel 1916 tra la flotta inglese e quella tedesca. Gli Inglesi persero 3 corazzate e 3 incrociatori, i tedeschi persero 2 corazzate e 4 incrociatori. Alla fine della battaglia la flotta tedesca rientrò nei porti di partenza. Entrambi i contendenti si dichiararono vincitori, ma il controllo dei mari continuò a rimanere nelle mani degli Inglesi. I tedeschi furono pesantemente danneggiati dal blocco navale inglese. Dopo la battaglia dello Jutland i tedeschi combatterono la guerra sui mari solo con i sottomarini e con le navi corsare. Vittime di questi sottomarini furono le

di combattenti. Tutti gli stati belligeranti furono costretti ad adottare l’arruolamento obbligatorio. Milioni di donne furono impiegate nelle fabbriche addette alla produzione di materiale militare. Le due grandi e sanguinosissime battaglie combattute in Francia intorno alla fortezza di Verdun e sulla Somme non servirono a far avanzare di un metro le linee dei contendenti. Avviene l’esordio, ancora non decisivo per gli esiti della guerra, di nuove armi: gli aerei, i carri armati, i gas e i lanciafiamme. Gli aerei inizialmente combattevano tra loro e mitragliavano le trincee dall’alto, rarissimamente bombardarono le città. Gli inglesi, con la loro lotta,

AUSCHWITZ GRIDA IL DOLORE DEL MONDO

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uschwitz grida il dolore di una sofferenza immane e invoca un futuro di rispetto, di pace e di incontro tra popoli”. Così il Papa in un tweet dal suo account @Pontifex parlava della Giornata della Memoria delle vittime della Shoah ( 27 gennaio). La ricorrenza, adottata nel 2005 dalle Nazioni Unite, coincideva con il 70.mo dall’abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche. Alle commemorazioni in Polonia, sul luogo in cui sorgeva il più grande campo di concentramento nazista, prendono parte questo pomeriggio 38 delegazioni da tutto il mondo. Una giornata per ricordare la Shoah, dalle leggi razziali alla persecuzione, dalla deportazione allo sterminio di circa 12 milioni di persone nei lager, 6 milioni dei quali ebrei, ma anche dissidenti politici, disabili, sinti e rom, omosessuali, testimoni di Geova. 1,5 milioni i bambini. Una giornata per ricordare anche coloro che a rischio della propria esistenza protessero i perseguitati. Nel campo di concentramento di Auschwitz, costruito dai nazisti per realizzare la “soluzione finale” contro gli ebrei in Europa, vennero eliminate oltre un milione di persone.

Auschwitz non risulta che siano arrivati. Ma io me li ricordo. Me li ricordo lì, sulla rampa dell’arrivo, l’abbraccio di mamma, le parole di papà … ricordo tutto! Sono tornato solo, di otto persone …”. A Birkenau, a soli 13 anni, Sami Modiano, ebreo di Rodi, perse tutti gli affetti. Oggi, spende ogni energia nel raccontare l’orrore subito perché non si ripeta più: “Poi, ad un certo momento, quando stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione, e morivano fulminati … Ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta”. Varie le manifestazioni organizzate in tutto il mondo. Nel suo messaggio, il segretario Onu, Ban Ki-moon, metteva in guardia da nuove forme di antisemitismo e di intolleranza e chiedeva di intensificare ogni sforzo contro una minaccia ancora viva.

TESTIMONIANZE Piero Terracina: fu deportato lì con tutta la famiglia, composta da 8 persone. Fu l’unico a tornare in Italia e il negazionismo è oggi per lui un insulto insopportabile: “Come si può negare? Quando io dico: siamo partiti in otto della mia famiglia e quando sono ritornato mi sono ritrovato solo, ma dove sono finiti gli altri? Quando io parlo della deportazione del 16 ottobre 1943 da Roma – quando furono deportati 1.023 innocenti, compreso un bambino ancora senza nome, e sono tornati in 16! – che cosa possono dire? Che sono scomparsi? Certo, ad

LILIANA SEGRE : “Fino a quando la mia stella brillerà?” Per Liliana Segre, deportata a 13 anni ad AuschwitzBirkenau, la Giornata della Memoria è un’occasione per riaprire l’armadio della vergogna che qualcuno ancora vorrebbe chiudere: i suoi ricordi sono raccolti nel libro edito da Piemme “Fino a quando la mia stella brillerà”. Ero una bambina molto serena, molto amata, anche viziata, coccolata, in una famiglia che era tutta proiettata

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profughi tornato a casa orrendamente mutilati. Carro Armato MKI Inglese. Mancavano i contadini nei campi e gli operai nelle fabbriche, le donne, i vecchi e i bambini dovevano occuparsi di tutto. Non c’era una famiglia che non lamentasse qualche vittima della guerra. Mancavano quasi del tutto lo zucchero, il burro, la carne. Il pane, la pasta, la verdura vennero razionati. Al malcontento dei familiari dei soldati si univa il morale bassissimo di questi ultimi che trascorrevano il tempo nell’attesa di sanguinosi assalti di cui non si scorgeva lo scopo visto che non ottenevano alcun risultato. Numerosi furono gli episodi di diserzione, di automutilazione

navi di rifornimenti provenienti dagli USA e destinati all’Inghilterra. Questo sarà uno dei motivi che alla lunga provocherà l’intervento diretto degli Stati Uniti nella guerra. Nel 1917 l’orrendo macello era ormai sotto gli occhi di tutti e non si vedevano sbocchi. Niente poteva giustificare tante stragi e sofferenze. Benedetto XV e gli appelli per la pace Il Papa Benedetto XV continuava a lanciare appelli per la pace e per far finire la guerra, definita vergogna dell’Umanità. La popolazione europea era stanca per la fame e le sofferenze, inoltre aveva visto le migliaia di

verso di me, e da quel momento ho conosciuto un mondo diverso, indifferente a quello che succedeva a un piccolo gruppo di cittadini italiani di religione ebraica, che sono stati per lo più ignorati dai vicini di casa. Tanto che dopo la guerra, quando io ho ritrovato delle compagne di scuola, che non si erano neanche accorte della mia assenza, mi hanno chiesto: “Ma tu dov’eri finita?” Io avrei dovuto rispondere “ad Auschwitz”, ma allora non avevo ancora la forza per farlo. Nel treno che la portava ad Auschwitz, con suo padre e con tante altre persone, a un certo punto dice: “Mi resi conto di essere diventata adulta”… Fu questo un viaggio verso ignota destinazione di persone normali, che salivano come persone e scendevano come scendono gli animali che vanno al macello da quei vagoni: c’era tutto un percorso, che non era solo di chilometri attraverso la Foresta Nera o altri luoghi a noi sconosciuti. Era un percorso interiore: di affetti, di amore, di ultime parole, di ultimi sguardi di gente che poi all’arrivo è morta. Perché in quel momento lei si è sentita adulta? Beh, ero sempre stata la bambina di mio papà, ma ormai ero io che proteggevo lui nella sua disperazione, perché è molto più facile sopportare una cosa simile da figli che da genitori. Quando io sono diventata mamma e poi nonna ho capito fino in fondo la disperazione che doveva avere avuto il mio papà. E io in quel momento ero contenta di fargli sentire tutto il mio amore. Lei racconta che nei giorni trascorsi ad Auschwitz si affidò all’istinto di sopravvivenza e riuscì con la mente a fuggire da ciò che viveva … Con il mio papà ero abituata a guardare il cielo. Mi aveva portato anche al Planetario. Era un mondo affascinante quello delle stelle e quindi io avevo cercato di guardare il cielo anche ad Auschwitz e avevo fatto un

gioco infantile con me stessa: identificarmi in una stellina. Non bastavano, però, questi piccoli giochi per sopravvivere, bisognava farcela giorno dopo giorno … Lei racconta il grande rimorso che ha avuto nei confronti di una ragazza morta ad Auschwitz, Janine … Lavoravo alla macchina con questa ragazza francese da tempo e quindi si era creata fra noi una vicinanza, che non era poco nel campo di concentramento. Ma io non accettavo più distacchi, non potevo più sopportare di attaccarmi a qualcuno e poi vedermelo strappare. Mi ero fatta, quindi, una corazza. Così quando, dopo una selezione da cui ero appena passata viva, sentii che fermavano Janine, perché la macchina le aveva trinciato due falangi di due dita – fu orribile e lo racconto sempre ogni volta che parlo ai ragazzi – non ho avuto la forza di voltarmi, di guardarla e di dirle una parola buona, di chiamarla per nome. Ho fatto un passo avanti, mi sono rivestita, anche se sapevo che andava al gas. Non me lo sono mai perdonato. Ormai da 25 anni ha deciso di raccontare questa pagina oscura della sua vita. Sente che la gente vuole sapere? Nelle scuole sicuramente sì. I ragazzi danno una risposta molto interessante, fanno un’infinità di domande. In altri casi, fuori dell’ambito scolastico, io parlo pochissimo di questo argomento. Soprattutto tra i miei coetanei, ormai tutti vecchi, c’è sempre o un po’ di morbosità o di grande ignoranza o volontà di chiudere quell’armadio della vergogna, una vergogna anche italiana. Chi vorrebbe che leggesse questo libro “Fino a quando la mia stella brillerà”? Mah, io sono una nonna e le nonne hanno sempre raccontato le storie, che una volta erano fiabe cattive, ma finte. Invece io ho scritto una storia vera, dedicata ai miei nipoti ideali e come tale spero che la leggano.

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e di ammutinamento, molti giovani richiamati si HA DETTO rendevano colpevoli di renitenza alla leva. Nume“ Il 6 agosto 1945, l’umanità assisteva ad una delle più tremende catastrofi della propria storia. rosi furono i processi e le fucilazioni di militari. Per la prima volta, in un modo nuovo e senza preIn Russia, il 1917 è data storica: nacque l’Unione cedenti, il mondo sperimentava fino a che punto poSovietica sulle ceneri dello zarismo, Nicola II abteva giungere il potere distruttivo dell’uomo. Dalle dicò e venne trucidato con tutta la sua famiglia. ceneri di quell’immane tragedia che è stata la seconda L’esercito stanco e sfiduciato si sfaldava, i soldati guerra mondiale è sorta tra le Nazioni una volontà nuova di dialogo e di incontro che ha dato vita all’Organizzazione a milioni tornavano a casa. Il partito bolscevico di delle Nazioni Unite, di cui quest’anno celebreremo il 70° Lenin prendeva il potere e Lenin firmava l’armianniversario. Nella visita compiuta al Palazzo di Vetro cinstizio di Brest-Litovsk (dicembre 1917) e poi il quant’anni fa, il mio Beato Predecessore, Papa Paolo VI, ritrattato di pace con la Germania. La Russia usciva cordava che «il sangue di milioni di uomini e innumerevoli così dal conflitto perdendo Polonia, Estonia, Lete inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve tonia, Lituania, Finlandia. Il ritiro della Russia cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, sembrava aver dato un duro colpo alle speranze di non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti vittoria del fronte anglo-francese-italiano. Germania dei Popoli e dell’intera umanità» (Paolo VI, Die Austria riversarono contro il fronte francese e quello scorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965)”. italiano le truppe rese libere dal disimpegno della RusPAPA FRANCESCO AL CORPO DILPOMATICO ACCREDITATO sia. A questo punto avviene l’ingresso decisivo nel conPRESSO LA SANTA SEDE flitto degli Stati Uniti d’America. Gli Americani erano 12 GENNAIO 2015 rimasti molto colpiti dagli affondamenti delle navi civili operate dai tedeschi e in particolare dall’affondamento del transatlantico Lusitania che aveva provocato la morte di 124 cittadini americani. Nel mese di aprile del 1917 il governo USA dichiarò guerra alla Germania: La ritirata che si trasforma in disfatta questo comportò l’arrivo in Europa non solo di truppe L’esercito italiano era logorato dopo 12 inutili asfresche, ma di viveri, materiali, prestiti. salti sul fiume Isonzo. Il comando Austriaco scaglia contro gli Italiani le truppe che tornavano dal fronte orientale. L’attacco sfondò lo schieramento Relazioni diplomatiche italiano a Caporetto tra il 24 e il 30 ottobre 1917. con la Santa Sede Tutto il fronte italiano dovette ritirarsi per evitare ono 180 gli Stati che attualmente intrattenche parte delle truppe rimanessero accerchiate o gono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Ad essi vanno aggiunti l’Unione Europea e il Soisolate. Tale ritirata, non essendo stata programvrano Militare Ordine di Malta e una Missione a mata, si trasformò in una disfatta. Furono perse incarattere speciale, quella dello Stato di Palestina. tere divisioni e una quantità ingente di materiali. Le Cancellerie di Ambasciata con sede a Roma, inMigliaia furono i profughi civili costretti ad abbancluse quelle dell’Unione Europea e del Sovrano Midonare le loro case. Per fortuna, quando utto semlitare Ordine di Malta, sono 83. Hanno sede a Roma anche la Missione dello Stato di Palestina e gli Uffici brava perduto, il paese seppe reagire con fermezza. della Lega degli Stati Arabi, dell’Organizzazione InIl generale Armando Diaz sostituì il generale Caternazionale per le Migrazioni e dell’Alto Commisdorna, a Roma fu costituito un governo di solidasariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. rietà nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Nel corso del 2014 si sono firmati tre Accordi: Orlando. L’intero parlamento appoggiò questo go- il 13 gennaio, l’Accordo-quadro tra la Santa Sede e la Repubblica del Camerun sullo statuto verno, l’esercito fu riorganizzato rapidamente, giuridico della Chiesa cattolica; l’avanzata austriaca fu bloccata sul Piave, sull’alti- il 27 gennaio, il Terzo Protocollo Addizionale piano Asiago e sul Monte Grappa. Ormai per l’Audell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di stria e la Germania non c’erano più speranze. Malta sul riconoscimento degli effetti civili ai L’offensiva austriaca divenne sempre più pressante, matrimoni canonici e alle decisioni delle Autorità e dei tribunali ecclesiastici circa gli stessi finché l’esercito italiano subì la sconfitta di Capomatrimoni, del 3 febbraio 1993; retto, il 24 ottobre del 1917, con gravi ripercussioni - il 27 giugno, l’Accordo tra la Santa Sede e la anche sulla vita economica e sociale del Paese. EbRepubblica di Serbia sulla collaborazione nelbero infatti inizio una serie di scioperi e di manifel’insegnamento superiore. stazioni, tali da costringere il governo a fare grandi

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GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 2015 I molteplici volti della schiavitù ieri e oggi in da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce. Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità, è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile. Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore. Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro … Sì, penso al “lavoro schiavo”. Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori, ed alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso. Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale. Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi. PAPA FRANCESCO 8 DICEMBRE 2014

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promesse ai soldati, al fine di risollevarne il morale, evitando defezioni ed ammutinamenti. Sul fronte italo-austriaco, l’esercito italiano, guidato dal un nuovo generale, Armando Diaz, riuscì a conquistare Trento e Trieste, stipulando un armistizio con l’Austria e giungendo finalmente alla pace. La Conferenza di Pace di Parigi penalizzò duramente i paesi perdenti, in particolar modo la Germania, facendo prevalere gli interessi delle due potenze europee vincitrici: Francia ed Inghilterra. All’Italia furono concessi i territori di Trentino, Alto Adige, Trieste ed Istria.

Dallo smembramento dell’impero austro-ungarico nacquero quindi nuove realtà territoriali e politiche: l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. Rimase però sospesa la questione della città di Fiume, poiché non ne venne prevista l’annessione all’Italia. Fu così che, nel settembre del 1919, un gruppo di volontari guidato dal poeta Gabriele D’Annunzio, prese possesso della città, instaurandovi un governo definito “Reggenza del Carnaro”. In seguito, la città di Fiume venne liberata con il trattato di Rapallo, stipulato tra Italia e Jugoslavia. 2. continua

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“Mare nostrum” un cimitero in fondo al mare

LA STRAGE ANNUNCIATA Nel Mar Mediterraneo riesplode il conflitto nascosto dell’Europa contro i migranti. Dopo la tragedia di Lampedusa, Bruxelles aveva giurato: “ Mai più!”: invece assiste impotente a una nuova strage di disperati : 330 le vittime. Al posto dell’accoglienza, i nuovi muri dell’Unione Europea, Frontex e l’inutile missione Triton, che non serve a nulla. Nel canale di Sicilia oltre al gommone con 105 persone a bordo soccorso dalla guardia costiera sono naufragati altri tre. “Basta contare i morti- ha detto con dolore il neo cardinale Francesco Montentenegro-. L’ Italia non può fare tutto da sola, ma la legge Bossi-Fini va cambiata subito”. LAMPEDUSA, 11 febbraio 2015 da Roma

EMANUELA VINAI GIORNALISTA DI SCIENZA & VITA

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’è un cimitero in fondo al mare. Non vi sono lapidi, marmi o crisantemi, ma lo adornano gorgonie, posidonie e coralli. Non si sente lo scalpiccio di passi veloci nella ghiaia, né il chiacchiericcio sommesso di visitatori frettolosi, ma nella quiete del blu profondo nuotano lenti e silenziosi pesci e polpi. Sul fondo del Mediterraneo giacciono migliaia di vite umane affondate insieme alla speranza, mentre cercavano di raggiungere se non la terra promessa, almeno un approdo sicuro. Solo a Settembre, nel giro di tre drammatici giorni, per mille salvati si sono contati quasi altrettanti dispersi, un bilancio in tragico disavanzo, fatto di morti affogati di cui spesso non si saprà nulla, senza identità e senza storia. Scomparsi senza nome, senza una tomba su cui piangerli, come i soldati di due guerre mondiali che dormono nei campi di grano e papaveri.

Oggi non c’è chi canta i migranti che riposano sul fondo del mare, vittime di una guerra non combattuta, fuggiti dai conflitti e dalla carestia per soccombere per mano dei mercanti di uomini. Il 3 ottobre del 2013 al largo di Lampedusa è affondata un’imbarcazione proveniente dalla Libia: 366 morti, 20 dispersi, 155 superstiti. Un anno dopo, le immagini girate dal fotoreporter Francesco Zizola, ci restituiscono la straziante e muta testimonianza di ciò che è accaduto, di quel che rimane, con la nave adagiata a 50 metri di profondità sul fondale sabbioso, giocattolo abbandonato spezzato da un gigante fanciullo. Il relitto giace sul fondo, piccolo Titanic senza la prima e la seconda classe, senza le sale da ballo e le porcellane, senza il salone delle feste e l’orchestra. Piuttosto traghetto di Caronte, la si immagina stipata di uomini, donne e bambini impauriti, affamati, disperati. Di loro restano pochi resti, dispersi. Nell’azzurro uniforme una ripresa inquadra un incongruo luccichio rosso: un tenda damascata appesa a un oblò, che resiste e ondeggia 56


APPELLO DI PAPA FRANCESCO “Seguo con preoccupazione le notizie giunte da lampedusa, dove si contano altri morti tra gli immigrati a causa del freddo lungo la traversata del mediterraneo. desidero assicurare la mia preghiera per le vittime e incoraggiare nuovamente alla solidarietà, affinché a nessuno manchi il necessario soccorso”. Udienza generale 11 febbraio 2015

con la marea non col vento. Nel silenzio si sente solo il respiro regolare e profondo del sub, si intuisce il rumore delle bolle che salgono verso la luce, si immagina il fremito veloce delle pinne dei pesci che passano e corrono via. Il peschereccio è inclinato di lato, le reti ad ancorarlo sul fondo, ricoperto di alghe e incrostazioni di molluschi che vi hanno trovato e fatto casa. Inesorabile e indifferente, la natura ha preso il sopravvento e ha reso il relitto parte del paesaggio, come se nulla fosse accaduto. Come da noi in superficie. Le incrostazioni del quotidiano e l’avanzare di altre emergenze hanno steso la patina del dimenticato su quanto accaduto. In fondo, si dice, gli sbarchi continuano, chissà quanti affondano e non lo sappiamo, e poi sono già tanti qui che non sappiamo più cosa farcene. Che importa di chi è morto? Non lo conoscevamo. “Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro” – ha detto papa Francesco proprio a Lampedusa – “La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”. L’indifferenza è un killer silenzioso, che cresce nella mancanza di empatia e sfocia nell’individualismo egoista, consumando la coscienza di ciascuno. L’antidoto risiede anche nella capacità di sen-

tirsi parte della stessa umanità, che si costruisce con gesti concreti di aiuto, ma prende l’avvio dal riconoscersi fratelli, anche nel dolore. Ogni anno, il 2 novembre, ogni famiglia ricorda i ‘suoi’ morti e li onora con una invocazione intima, profonda. Un rito di amore per non dimenticare chi non c’è più ma non cessa di essere presente. E allora, proviamo ad ‘adottare’ un defunto ignoto: un pensiero, una preghiera. Come il piatto in più che su tante tavole si mette per l’angelo, per l’ospite inatteso, perché anche nel cimitero più silenzioso c’è sempre una campana che rintocca.

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: Essa suona per te. (John Donne) 57


5 a 1 20 eric Il nuovo ponte m A fra Cuba e Usa da Città del Messico

JOSÉ GUILLERMO GUTIÉRREZ FERNÀNDEZ ESPERTO DI SOCIOLOGIA RELIGIOSA

HA DETTO Al momento di lasciare Cuba, decine di migliaia di cubani sono venute a salutarmi lungo la strada, nonostante la forte pioggia. Nella cerimonia di congedo ho ricordato che nell’ora presente le diverse componenti della società cubana sono chiamate ad uno sforzo di sincera collaborazione e di dialogo paziente per il bene della patria. In questa prospettiva, la mia presenza nell’Isola, come testimone di Gesù Cristo, ha voluto essere un incoraggiamento ad aprire le porte del cuore a Lui, che è fonte di speranza e di forza per far crescere il bene. Per questo ho salutato i cubani esortandoli a ravvivare la fede dei loro padri ed edificare un avvenire sempre migliore. Benedetto XVI Udienza generale, mercoledì 4 aprile 2012

zione cubana del blocco economico imposto dagli Stati Uniti, e continuò operando per la difesa dei diritti umani nell’Isola, attivando un dialogo con il governo mediante i Nunzi apostolici che si sono susseguiti negli anni e i contatti con gli episcopati, specie quelli americani e messicani. Hanno contribuito a questo felice risultato le visite dei due Papi, San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che hanno avviato un’ apertura sempre più grande nei riguardi del governo cubano. Negli ultimi diciotto messi la Santa Sede ha favorito un intenso dialogo, che non è stato vano, fra le due nazioni, proprio in Vaticano. La sensibilità del Papa del Continente Americano con la sua grande capacità di comunicazione con il popolo e il decisivo intervento del Segretario di Stato, cardinale Parolin, ha prodotto i risultati desiderati. Un ruolo importante ha giocato l’atteggiamento della Chiesa Cattolica presente in Cuba che non si è fermata in lamentele sterili, ma che ha continuato il suo lavoro pastorale nel campo della liturgia, della formazione e dell’attenzione ai poveri, malgrado la povertà dei mezzi a disposizione e con l’aiuto generoso delle Chiese sorelle in Europa e nello stesso continente americano. Importante anche il ruolo del Canada, che con il Messico, è stato uno dei pochi paesi del emisfero americano che non ha mai interrotto i rapporti diplomatici con il regime cubano dopo la rivoluzione del 1959. La sfiducia manifestata recentemente da Fidel Castro, leader storico della rivoluzione cubana, nei confronti degli Stati Uniti si veda sconfessata dalla veloce ed equa normalizzazione dei rapporti tra le due nazioni a tutti i livelli. C’è augurarsi che continui anche l’apertura di spazi alla Chiesa perché possa offrire il suo originale contributo alla società cubana.

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n mezzo a tante notizie di guerra e di violenza, abbiamo accolto con gioia una notizia di pace. Era il 17 dicembre 2014. Dopo 59 anni di scontri e di tensioni fra gli Stati Uniti e Cuba, i loro capi di Stato Barack Obama e Raúl Castro, annunciavano l’avvio per la riapertura delle relazioni diplomatiche. L’annuncio è stato seguito immediatamente del rilascio di alcuni prigionieri come gesto di buona volontà. Alan Gross è tornato libero in America, mentre tre agenti cubani in carcere negli Stati Uniti sono tornati liberi a Cuba. Ora si susseguono le trattative tra i due Stati a livello commerciale e finanziari. Una prima delegazione americana si è recata nell’Isola a metà gennaio 2015. Nell’annuncio, i due governanti riconoscevano il ruolo fondamentale di Papa Francesco, che non a caso viene chiamato Pontefice (Pontifex). E in questa occasione ha costruito un ponte di oltre 200 km che separano Cuba da Miami. La Santa Sede ha mostrato così l’efficacia della sua scelta di non interrompere mai i rapporti con l’Isola malgrado le pesanti restrizioni alla libertà della Chiesa dopo la vincita della rivoluzione nel 1959. Infatti la Santa Sede sempre denunciò l’ingiustizia sulla popola58


Il presidente Fidel Castro saluta il seguito papale durante la visita al palazzo presidenziale di La Habana (21-26 gennaio 1998)

Il cardinale di Cuba a Roma

LA STORIA È PIENA DI SORPRESE

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l cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, arcivescovo di san Cristobal de la Habana a Cuba ha presieduto nella basilica di san Giovanni in Laterano lunedì 9 febbraio 2015, la solenne liturgia eucaristica in occasione del 47° anniversario della Comunità di Sant’Egidio. “Il dialogo Usa –Cuba porterà frutti copiosi in tutti i sensi- ha detto il cardinale primate- precursore con Giovanni Paolo II dell’apertura del mondo verso Cuba e di Cuba al mondo. La buona notizia preparata e condivisa da tutti i vescovi del Paese aprirà una nuova stagione non solo dal punto di vista economico ma anche spirituale. Abbiamo bisogno di solidarietà e di comunione sia all’interno che all’estero. E chiediamo la vostra preghiera e la vostra condivisione. San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno aperto e confermato la strada da percorrere ora insieme. Il Signore accompagni e benedica i nostri passi di pace Permettetemi, in questo giorno di ringraziare il Signore per quanto è avvenuto recentemente a Cuba. Come sapete, dal mese di dicembre, per la straordinaria iniziativa di papa Francesco, è avvenuto il miracolo di un disgelo, la fine di un tempo che sembrava non finire più. Il muro di diffidenza che divideva gli Stati Uniti e Cuba, sembrava incrollabile. La storia pareva ferma. Nulla però è impossibile a Dio, se non ci si rassegna. Lungo gli anni non abbiamo perso la speranza. La storia è piena di sorprese. Lo dico anche per consolarci, quando siamo presi dal pessimismo. E ancora oggi il mondo vive vere crisi internazionali. Possa il segnale di disgelo a Cuba contagiare il mondo interno, perché si affermi il dialogo laddove ci si combatte. Preghiamo oggi anche per i paesi che soffrono la guerra, dall’Ucraina alla Siria e l’Iraq. La pazienza nel tessere il dialogo e la perseveranza nella preghiera hanno portato il frutto benedetto di un nuovo tempo per Cuba e gli Stati Uniti: un tempo di incontro e dialogo. Il dialogo è portatore di bene per tutti. Il mio cuore è pieno di grande speranza per il futuro del popolo cubano e sono lieto di condividere questa gioia con voi questa sera. Grazie a voi per la vostra preghiera, il vostro affetto e il vostro lavoro per Cuba e a Cuba”.

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5 1 20 rica La “primavera nera” f A è già cominciata da Cotonou

JEAN-BAPTISTE SOUROU GIORNALISTA

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’Africa ha terminato l’anno 2014 con uno di quegli eventi che segnano, ogni tanto, e spesso al momento opportuno, la sua storia dimostrando la determinazione delle popolazioni a far prevalere il loro anelito alla democrazia, la pace e lo sviluppo. Gli Africani con credono nella fatalità! Mi riferisco agli eventi della fine del mese di ottobre 2014 in Burkina Faso, paese dell’Africa occidentale, dove il presidente Blaise Compaoré in carica dal 1987, in seguito ad un cruento golpe, ha voluto contro la volontà di tutte le componenti della popolazione, modificare la costituzione per offrirsi un altro mandato. Mentre i deputati, nella maggioranza del suo partito, stavano per iniziare la seduta che gli avrebbe assicurato di prolungarsi al potere, ecco dei giovani irrompere nell’aula parlamentare, mettendo a sangue e ferro l’edifi-

cio. Ne seguiva un fuggi fuggi generale. Blaise Compaoré pensava di farcela con l’aiuto delle sue guardie speciali, ben pagate e pronte a tutto, ma questa volta, il popolo ha avuto la meglio. Compaoré ha dovuto arrendersi non senza resistenza. È riuscito a scampare vivo dalla furia di un popolo estenuato, solo grazie all’intervento discreto della Francia che, di nascosto, lo ha portato in salvo, prima nella vicina Costa d’Avorio, poi ora in Marocco. In tre giorni, 29, 30 e 31 ottobre 2014, il popolo del Burkina Faso ha cambiato il corso della storia; una storia segnata da soprusi, assassini di giornalisti, uomini di cultura, mal governo e soprattutto una sete insaziabile di potere. È quello che chiamo “primavera nera” in paragone alle primavere arabe. Questa primavera nera, segnerà, a mio avviso, la storia di altri paesi africani nel corso di quest’anno 2015. Perché purtroppo, dopo il salto democratico voluto e pagato a caro prezzo dalle popolazioni negli anni 90, molti capi di Stato, sembrano ora fare finta dell’anelito delle popolazioni per ritornare ai mandati presidenziali a vita


alla viglia delle elezioni presidenziali del 2016. La corte costituzionale ha fatto capire da poco al presidente che ogni tentativo in quel senso è puramente anticostituzionale. La Nigeria dovrà anche essa trovare delle soluzioni per fare fronte alle innumerevoli atrocità commesse dal gruppo fondamentalista di stampo islamico, Boko Haram nel nord del paese e ai confini del Camerun. Non si ha notizie certe sulla sorte delle 219 ragazze liceali rapite dalla setta dall’Aprile dell’anno scorso, nonostante la mobilitazione internazionale e lo sdegno che ciò ha suscitato ovunque. Anzi, Boko Haram continua a colpire le popolazioni inerme, usando ragazzine appena undicenni per compiere attentati kamikaze contro chiese e in luoghi affollati e seminando terrore tra le popolazioni come nel caso a Baga, all’inizio dell’anno. Le popolazioni africane dovranno fare forza sulla loro volontà di indirizzare il corso della storia a loro favore. Il continente non è vittima di fatalità e non è maledetto come certuni pensano, l’Africa, le sue popolazioni hanno sempre avuto un anelito alla pace, la democrazia e lo sviluppo. Ciò che manca, e manca davvero, è una classe dirigente capace di accompagnare quei desideri senza cercare a tutti i costi il proprio torna conto, e una comunità internazionale che non cerca solamente l’Africa per le tante risorse che possiede.

del dopo indipendenze. Le popolazioni dicono però, chiaramente che indietro non si torna. Il 2015 sarà sicuramente segnato da questi confronti tra partigiani dei capi al potere e il resto delle popolazioni in vista di elezioni che si terranno durante l’anno corrente oppure nel 2016. In Togo, dove le elezioni presidenziali sono previste per l’anno in corso, l’opposizione richiede che ci sia chiaramente un limite di due mandati presidenziali di 5 anni. Il presidente Faure Gnassingbé è al potere dal 2005, dopo la morte del padre che ha guidato il paese come sua proprietà per ben 38 anni, ma le opposizioni vogliono che se ne vada. La situazione è molto complessa. Anche nella Repubblica democratica del Congo e nel vicino Congo, le popolazioni temono un cambio di costituzione e sono già sul piede di guerra. Il presidente Thomas Boni Yayi del Benin sta tentando a fatica di convincere l’opinione pubblica interna che il suo progetto di modificare la costituzione non riguarda il limite del mandato presidenziale (2 di 5 anni) e il limite di età che è di 71 anni, ma bensì alcune norme per adattare la legge fondamentale del paese ai cambiamenti socioculturali e economici in corso e per esigenze internazionali. La popolazione non si fida e vuole che, se non si può proprio fare a meno di quegli aggiornamenti, non sia però, l’attuale presidente a farli, comunque non

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La prima parrocchia africana e la Comunità di Sant’Egidio da Blanture (Malaui)

RICCARDO MENSUALI NOSTRO SERVIZIO

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’arcivescovo di Blantyre, Mons. Thomas Msusa, è il primo vescovo africano ad ospitare in Diocesi sacerdoti della Fraternità Sacerdotale Missionaria di Sant’Egidio, ramo clericale della Comunità di Sant’Egidio. Il 21 Dicembre 2014 don Ernest Kafunsa, coadiuvato dal diacono Frank Gumbwa, è divenuto parroco della Parrocchia di San Vincenzo de’ Paoli nel quartiere di Mpemba a Blantyre, la città più popolosa del piccolo paese africano. Si tratta di una parrocchia di recente fondazione, essendo stata eretta nel 2012, dopo aver operato come importante outstation della Parrocchia di San Luigi di Monfort. La Diocesi ha ricevuto un finanziamento per la Chiesa e per la parziale costruzione della casa canonica, che è rimasta incompleta. Mancano, tuttavia, essenziali strutture per la realizzazione delle attività pastorali. È situata a 14 chilometri dal centro, in una zona povera che costituisce l’estrema periferia sud della città. É composta di nove outstations, piccole e umili cappelle che i sacerdoti raggiungono a turno la Domenica per la celebrazione dell’Eucarestia. Le strade per raggiungere le più lontane outstations, che distano tra i 5 e i 10 chilometri dalla Chiesa di San Vincenzo, sono alquanto impervie e scomode. Il cam-

mino si può fare con vetture 4x4 o con una motocicletta, sempre che la pioggia non abbia reso inagibile il tragitto. Nel territorio parrocchiale sono presenti due scuole. La scuola primaria ospita circa 1500 bambini e la scuola secondaria ospita circa 400 adolescenti. Purtroppo quest’ultima propone un livello di educazione abbastanza basso e inadeguato: si tratta di una scuola statale ed è il governo a gestirla. La posizione fortemente periferica che rende Mpemba simile ad un villaggio rurale, costringe il Ministero per l’educazione alla scelta di insegnanti con scarsa preparazione dato che lo stipendio e le abitazione fornite al corpo insegnanti rimangono di basso livello. La parrocchia vorrebbe innalzare il livello educativo. L’Istituto potrebbe diventare una cogestione tra Diocesi e Governo. Con la costruzione di una biblioteca, di laboratori, una sala computer e altre strutture sarebbe possibile innalzare il livello della formazione e attrarre così anche alcune famiglie del centro città ad iscrivere i propri figli in una scuola efficiente e rinnovata. San Vincenzo de’ Paoli è una parrocchia nuova che manca tutt’oggi di alcune strutture fondamentali. La Chiesa non possiede una vera e propria sagrestia né un ufficio parrocchiale. La vecchia cappella che, sino al 2012, ha costituito l’antica outstation per le celebrazioni, pur essendo ridotta quasi ad un rudere, è ancora l’unica struttura adibita a salone parrocchiale per incontri e conferenze. Il catechismo si svolge sotto 62


gli alberi. Ci sono venti catechisti per una media annuale di 200 bambini al corso di prima comunione e 80 adolescenti che si preparano alla cresima. Darebbe di estrema utilità la costruzione di un oratorio per le centinaia di ragazzi che ogni settimana si affacciano in parrocchia, provenienti a piedi dalla campagna circostante. In parrocchia sono presenti un mulino e un pozzo. Il mulino è utilizzato dalla popolazione circostante per la produzione di farina di mais, dato che la maggior parte delle famiglie utilizza come pasto principale la polenta di farina di accompagnata da verdure o carne di pollo. Il mulino costituisce, insieme alle offerte dei fedeli, l’unica entrata per le spese parrocchiali, circa 120 euro al mese.

Nigeria/2 Emergenza alimentare per oltre 10 milioni di bambini

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ono quasi undici milioni i bambini con meno di cinque anni che soffrono di disturbi della crescita causati da un’alimentazione insufficiente. Secondo quanto riporta l’agenzia Misna i dati sono stati diffusi dalla Nutrition Society of Nigeria, un’organizzazione non governativa radicata sul territorio del Paese più popoloso dell’Africa. Un’emergenza tra le più gravi nel mondo inferiore solo per intensità a quella in corso in India. Secondo quanto ha sottolineato in una conferenza stampa il presidente della Nutrition Society of Nigeria circa 10 milioni e 900.000 bambini con meno di cinque anni soffrono di disturbi della crescita a causa della malnutrizione, un problema che ne compromette lo sviluppo fisico e cognitivo. Secondo gli esperti dell’organizzazione, in Nigeria un bambino su tre muore a causa di un’alimentazione insufficiente. Il presidente dell’Organizzazione umanitaria nigeriana d’altra parte, ha sottolineato che il problema è allo stesso tempo umanitario ed economico. Infatti la malnutrizione minaccia di ridurre del 20% il reddito pro capite e determina una contrazione del Prodotto interno lordo di almeno il 3%”. La Nigeria ha una popolazione di 160 milioni di abitanti. Dopo il Sudafrica, è la prima potenza economica dell’area sub-sahariana.

Nigeria/1 I vescovi: coesione sociale a rischio per la violenza e le minacce alla famiglia

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n appello a tutti i cittadini e leader nigeriani a rinnovarsi perché il Paese possa godere la pace, l’armonia e la convivenza pacifica tra le persone, quali che siano le loro differenze. A rivolgerlo sono stati i vescovi della Provincia ecclesiastica dell’Ibadan in un comunicato diffuso nei giorni scorsi al termine della loro seconda riunione annuale a Oyun. Dopo avere espresso i loro auguri ai credenti musulmani per la fine del Ramadan, i presuli si rivolgono in particolare ai leader politici del Paese per esortarli alla “moderazione e ad avviare un nuovo corso libero dal rancore e dalla violenza”, anche in vista delle prossime elezioni politiche. La nota esprime apprezzamento per gli sforzi compiuti dalle autorità per proteggere i civili dalle violenze dei gruppi armati, come i Boko Aram, ma anche preoccupazione per l’“inutile bagno di sangue” che si sta consumando in alcune parti del Paese e per le minacce alla cultura della vita. A questo proposito, i presuli ribadiscono le critiche della Conferenza episcopale alla recente interruzione della moratoria sulle condanne a morte che era in vigore in Nigeria dal 2006. Altro tema affrontato dalla riunione è stato il traffico dei minori vittime della tratta umana, della prostituzione e di altri abusi. I vescovi dell’Ibadan chiedono che per questi crimini si introducano leggi che contengano pene aggravanti, perché, affermano, “i nigeriani dovrebbero sforzarsi di proteggere la dignità e i diritti dei bambini, come prevede la Costituzione e i trattati internazionali sottoscritti dallo Stato nigeriano”. Un altro motivo di preoccupazione è la controversia in corso in Nigeria sul matrimonio dei minori e su quello omosessuale. A questo proposito i vescovi rivolgono un “appello a tutti i nigeriani a proteggere i valori tradizionali del matrimonio e della famiglia per promuovere una società coesa”. Tra i temi principali della sessione vi è stato quello della nuova evangelizzazione. La nota rileva con soddisfazione che l’Anno della Fede ha dato nuova “energia e zelo” missionario al laicato in Nigeria, come testimonia tra l’altro, “il gran numero di persone si sono avvicinate spiritualmente a Dio, attraverso i Sacramenti, l’apostolato biblico e le attività del Rinnovamento Carismatico, della Legione di Maria e delle organizzazioni caritative”.

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ITALIA- ROMA CAPUT MUNDI

I panni sporchi della capitale da Roma

ROMANO BARTOLONI GIORNALISTA

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a mafia capitale. La cupola mafiosa sotto il cupolone. E come contorno la cinica arroganza, l’inefficienza e il lassismo (l’epidemia dei vigili urbani a Capodanno) di quadri della pubblica amministrazione. Se la magistratura ha colpito davvero nel segno con gli arresti, le denunce e le rivelazioni della fine del 2014, se si è risolta a lavare in piazza i panni sporchi di Roma senza guardare in faccia nessuno, allora vuol dire che la malavita organizzata è riuscita, chissà da quanto tempo, a mettere sotto scacco la capitale e a imbrigliare il sistema dei poteri e i rami più alti della burocrazia in una rete di corruzione e di malaffare. Lo scandalo venuto alla luce svela collusioni e perversi intrecci e connubi tra criminalità organizzata, interessi economici e branche della classe politica all’ombra del Campidoglio. Legami così diretti e stretti non hanno scheletri negli armadi della città. Al confronto appare all’acqua di rose la famosa inchiesta dello “Espresso”, giusto di 60 anni fa, all’insegna del sensazionale slogan che fece il giro del mondo “Capitale corrotta, Nazione infetta”, e che, peraltro, fece flop nel tentativo di fare di ogni erba un fascio (il vile attacco al Presidente Leone). Mai era accaduto che le infiltrazioni malavitose si insinuassero fin dentro

il Palazzo, nemmeno ai tempi di Tangentopoli. Sarebbe troppo facile e troppo comodo dare addosso alla capitale con le tinte leghiste di “Roma ladrona”. Roma è lo specchio deformato e deformante dei malesseri del Paese scosso da una serie di sconvolgenti vicende giudiziarie, dall’Expò di Milano al Moise di Venezia. Ma come si è potuto scendere così in basso nei livelli di disonestà di protagonisti pubblici e nelle ruberie a man bassa di denaro pubblico? A parere di addetti ai lavori, il problema sta nel manico delle mutazioni genetiche dell’amministrazione pubblica e dei suoi dintorni. Poteri e sottopoteri periferici, caste gerarchiche e burocratiche di seconda e di terza fila sono proliferate in forme esponenziali, fertilizzando il terreno per le incursioni disoneste. Carlo Cottarelli, commissario dimissionario della spending review per le resistenze incontrate, ha documentato l’allegra finanza delle ben 8.000 società partecipate, delle quali oltre 5 mila nelle mani degli enti locali. Tutte assieme hanno dilapidato ben 3 miliardi in tre anni. La proposta di Cottarelli di ridurle a mille è finita dritta dritta nei cassetti. Orecchie di mercante persino nei confronti delle reiterate denunce della Corte dei Conti. Il Campidoglio ha fatto da battistrada fin dal 1993 64


HA SCRITTO “Più di 200.000 persone a Roma non hanno mezzi per nutrirsi in modo adeguato. Questa la cifra diffusa nei giorni scorsi dalle Acli. Fonte specifica: Sant’ Egidio. Tanto per farsi una idea, la dimensione degli affamati capitolini è paragonabile ad una città di media grandezza, come ad esempio Padova. Chi sono questi vicini, spesso insospettabili, con il buco nello stomaco? Sbaglierebbe chi pensasse soltanto ai barboni, ai vagabondi, ai senza fissa dimora. Basta farsi un giro nelle mense parrocchiali che, quasi in ogni quartiere, distribuiscono gratuitamente generi di prima necessità, per verificarlo”. ERALDO AFFINATI Corriere della Sera - Roma 7 febbraio 2015, p.1

alla polverizzazione dei propri compiti extra moenia, cavalcando la grande occasione offerta ai Comuni con la legge sull’elezione diretta del Sindaco, e sulla maggiore autonomia finanziaria delle amministrazioni periferiche. 22 anni fa, le municipalizzate romane erano quattro: Atac, Stefer (trasporti regionali), Acea (acqua e luce) e Centrale del Latte. Da allora il federalismo e il decentramento all’italiana ha prodotto i carrozzoni delle società partecipate che sono servite a riciclare i ferri vecchi della politica, a spendere e spandere i quattrini dei romani, a rigonfiare le file della burocrazia, a complicare la vita dei cittadini, e a incoraggiare le mediazioni furbe e interessate. I costi di una interminabile catena di assunzioni (i dipendente sono quasi 40mila) le spesa facile e capricciosa hanno unto dal bancomat del bilancio capitolino che adesso rischia la bancarotta. Un buco annuale di 1 miliardo e mezzo di euro nelle case capitoline che ha contribuito fortemente a disastrare la situazione finanziaria municipale che è passata sotto il controllo di ispettori ministeriali della finanza pubblica. Come rivela il portale del Campidoglio, “Roma capitale (così è stata declassata la città eterna e universale ndr) partecipa direttamente o indirettamente ad una pluralità di società ed altri organismi

che costituiscono il cosiddetto Gruppo Roma capitale”. Così continua la voce ufficiale “Tali strutture operano prevalentemente nei comparti dei servizi pubblici locali in materia di risorse idriche ed energetiche, di igiene urbana e gestione del ciclo dei rifiuti, di mobilità e trasporti” e inoltre “nei settori dell’ingegneria e dello sviluppo territoriale, della strumentazione e gestione delle infrastrutture, dei tributi locali, della cultura, dell’assistenza socio-sanitaria e dei servizi assicurativi”. Nell’elenco del portale capitolino, figurano ben 26 società partecipate. Però, nel portafoglio dell’azionista comunale si raggruppa una galassia di controllate, spa, in house, multiutility, consorzi ecc. (sarebbero 140 secondo Sergio Rizzo del Corriere della Sera) con buona pace del libero mercato e con le quali i cittadini debbono fare i conti per le loro attività. E’ passato alla storia della cultura popolare il celebre motto coniato dal primo Sindaco laico di Roma Ernesto Nathan (1907/1913) “non c’è trippa per gatti” con il quale risanò le finanze capitoline all’insegna di risparmiare finanche nelle frattaglie da dare ai gatti utilizzati dal Comune nelle caccia ai topi. Riuscirà l’attuale Sindaco Marino, erettosi a salvatore della Patria, ad emulare l’illustre predecessore e a rilanciare il famoso motto? 65


Città Santa e meritrice

Papa Francesco visita a Roma il campo profughi di Pietralata (Domenica 8 febbraio 2015)

da Roma

rebbe in luce un vero e proprio sistema di stampo mafioso politico imprenditoriale, che avrebbe fatto del GIORNALISTA, INVIATO KORAZYM.ORG traffico di stupefacenti la base dell’accumulo di capitale. I condizionali sono d’obbligo, l’inchiesta deve mali di Roma”. Si chiamava così il convegno ancora terminare, e c’è la determinazione del giudice del 1974, che avrebbe cambiato per sempre la Pignatone ad andare avanti. percezione della Chiesa sulla città che la acco- Resta la domanda di fondo: come si può sgominare glieva. Caritas, associazioni, parrocchie, intellettuali una criminalità che è diventata sistema? Perché quecattolici. Era il periodo in cui il sociologo Ferrarotti sta criminalità crea anche i nuovi poveri, le periferie spiegava che Roma da capitale era diventata una pe- che tanto sono care a Papa Francesco fatte di persone riferia. Era il periodo in cui le periferie erano piene messe ai margini, sacche di rabbia sociale che non di immigrati del Sud, che vivevano nelle baracche. possono essere banalmente arginati? Era il periodo in cui la mortalità infantile, a Roma, si Così, Roma si rivela nelle sue eterne contraddizioni. contava nel 26 per mille. E la Chiesa? Poteva dire Città Santa e città dove la Chiesa ha la sua sede. Luogo di grandi appelli morali, e di un rinnovato richiamo qualcosa la Chiesa alla società di oggi? Se lo chiedeva il Cardinal Poletti, che aveva promosso etico. Ma allo stesso tempo città della criminalità, delquel convegno. Da allora, ogni anno si celebra un l’esclusione sociale e del sistema mafioso assurto a siconvegno diocesano, per discutere di pastorale, ma stema politico. È la contraddizione di ogni centro di anche di attività. Le parrocchie come in una rete, con potere. il Vicariato di Roma e la Caritas a guidare quel net- Ma è una contraddizione che forse si può sanare. work. Impegno pastorale e impegno sociale uniti in- Come il convegno sui “Mali di Roma”, poco più di 40 anni fa, ha creato una nuova consapevolezza, così sieme. Quanto mai necessario, in una Roma che nello scorso oggi parrocchie, Caritas, istituzioni ecclesiastiche dicembre è stata di nuovo scossa dagli scandali. L’in- possono contribuire a creare un nuovo tessuto mochiesta su ‘Mafia Capitale’, portata avanti con piglio rale, più che sociale. Forse così si supererà l’eterna deciso del procuratore Giuseppe Pignatone, mette- contraddizione della Roma santa e meretrice. ANDREA GAGLIARDUCCI

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Sergio Mattarella Presidente della Repubblica LA NOTIZIA PAPA FRANCESCO A NAPOLITANO SERVIZIO GENEROSO ED ESAMPLARE FEDELTÀ INSTANCABILE AL BENE COMUNE AZIONE ILLUMINATA E SAGGIA

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iorgio Napolitano, partenopeo doc, per 8 anni, otto mesi e quattro giorni il capo della Stato italiano: Primo mandato 2006-20013 secondo mandato 2013 - 14 gennaio 2015. È stato l’undicesimo Presidente della Repubblica Italiana. Dal 1948 ad oggi così si sono succeduti i predecessori: De Nicola, Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro e Ciampi. Appreso del congedo dell’Onorevole Giorgio Napolitano dalle funzioni di Presidente della Repubblica Italiana, Papa Francesco, dallo Sri Lanka dove si trovava per il suo viaggio apostolico, ha fatto pervenire – mercoledì 14 gennaio 2015 al Presidente il seguente messaggio telegrafico:

“APPRESO DEL SUO CONGEDO DALLE FUNZIONI DI CAPO DELLO STATO, MENTRE STO COMPIENDO IL VIAGGIO APOSTOLICO IN SRI LANKA E FILIPPINE, LE SONO SPIRITUALMENTE VICINO E DESIDERO ESPRIMERLE SENTIMENTI DI SINCERA STIMA E DI VIVO APPREZZAMENTO PER IL SUO GENEROSO ED ESEMPLARE SERVIZIO ALLA NAZIONE ITALIANA, SVOLTO CON AUTOREVOLEZZA, FEDELTÀ E INSTANCABILE DEDIZIONE AL BENE COMUNE. LA SUA AZIONE ILLUMINATA E SAGGIA HA CONTRIBUITO A RAFFORZARE NELLA POPOLAZIONE GLI IDEALI DI SOLIDARIETÀ, DI UNITÀ E DI CONCORDIA, SPECIALMENTE NEL CONTESTO EUROPEO E NAZIONALE SEGNATO DA NON POCHE DIFFICOLTÀ. INVOCO SU DI LEI, SULLA SUA CONSORTE E SULLE PERSONE CARE L’ASSISTENZA DIVINA, ASSICURANDO UN COSTANTE RICORDO NELLA PREGHIERA”. FRANCESCO

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ergio Mattarella è il 12.mo presidente della Repubblica italiana. Al quarto scrutinio, il nuovo capo dello Stato ha superato in modo molto ampio il quorum dei 505 voti dei grandi elettori necessario per salire al Colle: 665 infatti i consensi ricevuti. Nella sua prima dichiarazione, il neo presidente afferma: “Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. È sufficiente questo”. Il giuramento martedi mattina 3 febbraio ore 10.00. Un esponente del cattolicesimo impegnato in politica, un esempio di rigore sale al Colle. Dunque Sergio Mattarella succede a Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Un applauso quasi liberatorio arriva da buona parte dell’aula di Montecitorio dove sono riuniti i grandi elettori. Impassibili Lega e Movimento Cinque Stelle. Renzi ha subito twittato: “Buon lavoro presidente Mattarella, w l’Italia”. In favore dell’esponente siciliano, si sono espressi Area Popolare (ovvero Ncd e Udc), Scelta Civica e Sel, che però ha confermato di rimanere all’opposizione. E visto l’ampio consenso sul nome di Mattarella, è molto probabile che non pochi voti siano arrivati anche da Forza Italia.


Promotore di unità testimone di serenità

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Però il canone fondamentale di una legge che vada dal bipolarismo al bipartitismo è questo. E non credo che Mattarella lo fermi, lo ostacoli. Lui conosce bene le dinamiche: il “Mattarellum” lo ha fatto lui, salvando una quota dei partiti attraverso il proporzionale, ma concentrando la maggior parte della legge sui collegi uninominali.

olti messaggi al neo-presidente Mattarella sono arrivati anche da associazioni cattoliche. Per un commento sulla sua figura Alessandro Guarasci ha sentito il presidente dell’Istituto Sturzo Nicola Antonetti: È un figlio di una cultura democratica, di democrazia politica a tutto tondo, dal tema sociale al tema delle istituzioni. E ovviamente non solo per i cattolici, ma per il Paese, per l’intera Repubblica. E mi sembra un po’ ozioso questo affannarsi nel dire “un uomo della Prima Repubblica, che chiude la Seconda Repubblica”: sono un po’ artifici giornalistici.

Ma possiamo dire che ci sarà un serrato confronto tra il presidente Mattarella e Renzi, anche su un tema fondamentale come la legge elettorale? Mattarella è stato un teorico, sì, della collaborazione da parte del presidente della Repubblica con il governo e con il parlamento, ma anche il teorico della non prevaricazione sul parlamento. Probabilmente con un governo che, bene o male, ha una sua forza autonoma i poteri del presidente della Repubblica, in qualche modo, si ritraggono.

Qualcuno dice che questa, tutto sommato, è una nuova vittoria di Renzi. Lei è d’accordo? Renzi, adesso, a prima vista, ha fatto un’operazione politica magistrale: il fatto di aver desacralizzato quello che i giornalisti sacralizzano come il “patto del Nazareno”. E questa scelta di Mattarella era, secondo me, la scelta contro la quale era molto difficile opporsi. Mi sembra che Forza Italia stia franando su questa scelta antimattarelliana fatta ieri. In mattinata si diceva: probabilmente adesso Renzi dovrà pagare ad una finestra interna per una revisione della legge elettorale…

Luca Collodi ha sentito il rettore della Lumsa Francesco Bonini: È una scelta positiva, è una scelta serena, è una scelta seria. Credo che tra le persone di età – per68


HANNO SCRITTO

ché il presidente della Repubblica non può che essere una persona di età – e le persone di esperienza – perché il presidente della Repubblica deve avere una esperienza istituzionale – Sergio Mattarella sia certamente una scelta di altissimo profilo. Nonostante sia stata complessa, questa scelta, alla fine, però, è una scelta che vede un po’ tutti consapevoli e vede un po’ tutti partecipi.

“Tentare un bilancio del decennio presidenziale significa guardare al percorso di uno statista, alla storia del Paese e al ruolo della presidenza della Repubblica. E qualsiasi bilancio della presidenza Napolitano deve muovere dal riconoscimento della sua grande statura, del suo eccezionale itinerario politico, che he ha fatto quasi un gigante in un’era dominata da nani politici”. MARCO OLIVETTI Avvenire, 15 gennaio 2015, p.1

Sergio Mattarella faceva parte di una delle tante correnti della Democrazia Cristiana, la corrente morotea, che era nota per unire la tensione morale alla ricerca di concretezza nella proposta sociale e culturale. Forse Mattarella ancora oggi raccoglie questo patrimonio e lo trasporta in questo terzo millennio … Io credo che questa scelta, anche tra vent’anni, sarà in certo qual modo emblematica di un ponte. Mattarella è noto ormai soprattutto per il cosiddetto “Mattarellum”, cioè la legge elettorale che si è incaricato di scrivere a conclusione della Prima Repubblica, ed è il primo presidente – probabilmente – di una nuova fase, che peraltro è tutta da inventare, ancora incertissima. E quindi, sicuramente porterà in questa nuova fase e in questo ruolo così importante che, con grande suffragio, gli è stato attribuito, porterà appunto i valori, ma anche lo stile, un certo stile, appunto quello stile moroteo che non è fatto di fanfare, di bande, di lustrini; non è fatto di immagini ma è fatto di sostanza ed è fatto di lavoro. In realtà, la gente e le persone, gli elettori, i cittadini italiani, dal presidente della Repubblica si aspettano che faccia molto bene il suo lavoro ma anche che risponda alle istanze della gente; e le istanze della gente, oggi, sono quelle di moralità, concretezza di risultati e di una politica che, appunto, lavori per il bene della gente e non semplicemente per auto-perpetuarsi.

“Otto anni, otto mesi e quattro giorni. Missione conclusa. Giorgio Napolitano torna a casa. Il rituale del congedo è un copione rigido e formale che il Presidente ha immaginato in questi giorni. Il momento è adesso. Sono le 10 e 30 del mattino di mercoledì 14 gennaio 2015, le tre lettere di dimissioni ancora in bianco sul suo tavolo. Attorno a lui ci sono i collaboratori più trestti e il figlio Giulio, come sempre. “Dove devo firmare? Bisogna che lo faccia bene …”, mormora. Sorrisi. Il presidente firma”. CONCITA DE GREGORIO la Repubblica, 15 gennaio 2015, p.1

al bene comune. Abbiamo una strana coppia ai vertici della nostra Repubblica: una figura, appunto, come Sergio Mattarella, come il grande pubblico sta cominciando a conoscerla e tutti noi la conoscevamo per questo suo rigore anche nell’aspetto, nel tratto, e invece poi un presidente del Consiglio esuberante. Credo che l’uno e l’altro saranno chiamati nei prossimi mesi a prendere delle decisioni importanti, proprio per cercare di risolvere i tanti problemi che sono nell’agenda dell’Italia e dell’Europa. Questo ci dice che Mattarella non sarà un presidente-notaio … Assolutamente no! È anche vero, però, che Giorgio Napolitano ha lasciato sottolineando che una figura del presidente della Repubblica come lui è stato per molti aspetti costretto ad interpretare, cioè un presidente della Repubblica molto interventista, molto presente, è un dato eccezionale. E quindi, il nuovo settennato incomincerà proprio riprendendo la grande tradizione dei presidenti della Repubblica che non sono notai, ma che sono in qualche modo registi e garanti dell’assetto istituzionale.

Il neo-presidente della Repubblica italiana, Mattarella, potrà dare al Paese quell’unità e quella serenità che anche la Chiesa auspica? È il quarto “fucino” presidente della Repubblica, cioè c’è anche una storia personale di impegno cattolico, da cattolico. Credo che l’impegno dei cattolici nella vita pubblica, nelle istituzioni, non possa che essere proprio quello di dare corpo, di dare concretezza nella produzione legislativa e negli atti istituzionali, proprio a questa tensione 69


LA LETTERA Dopo la morte del presidente emerito della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro, scrivevo al presidente Napolitano una lettera in cui gli ricordavo l’incontro di Giovanni Paolo II ad Assisi al quale insieme con il presidente partecipava anche Napolitano che era allora presidente della Camera. Dopo la colazione con Giovanni Paolo II mi permisi di chiedere al presidente Scalfaro perché aveva portato con sé anche il presidente della camera e del senato che Giovanni Paolo II ringraziava in pubblico anche al termine dell’agape francescana. La riposta di Scalfaro fu:”Volevo presentare di persona al Papa l’onorevole Napolitano, perché è una persona straordinaria e se un domani sarà eletto presidente della Repubblica italiana sarà un ottimo presidente. Alla mia lettera il presidente Napolitano fece così rispondere dal segretario generale del Quirinale Donato Marra:

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napoli e le altre storie

Qui tu vedi lo Stato? da Napolii

PAOLO VIANA INVIATO DI AVVENIRE

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ttraversiamo Piazza Garibaldi. Non un luogo, tanti. Davanti alla Stazione centrale passano ogni giorno duecentomila persone che ridisegnano continuamente la piazza, come farebbe la risacca. Se Charles Dickens tornasse oggi, diretto verso porta Capuana, non si stupirebbe di nulla: chi lavora, chi emigra, chi va al Vomero e chi a Forcella, chi telefona, chi vende e chi ruba, chi bestemmia, chi segue una ragazza e chi mangia una sfogliatella, chi muore e chi lo portano via e morirà da un’altra parte … Non ritrovo il funerale con il palanchino ricoperto di cremisi e oro delle Pictures of Italy, ma “i lazzaroni in abiti di stracci che dormono sdraiati nei vani delle porte”, benché oggi abbiano la pelle scura, sono ancora lì. Naturalmente, non mancano all’appello neppure i disoccupati organizzati. Gert Hage e la città di Pulcinella “Qui tu vedi lo Stato? No, non lo vedi!”: Gert Hage vive qui da otto mesi eppure non si capacita. Sta scrivendo un libro sulla città di Pulcinella. Ci siamo conosciuti sul Caserta - Napoli perché eravamo gli unici con la pelle bianca, soldati fantasma di un’Europa che non resiste più. Lui è persino più spaesato di me. Viene dal Nord, ovvio che non capisca. Parla la lingua delle grandi socialdemocrazie europee, del Welfare State che ti prende nella culla e ti accompagna alla tomba, che ti

garantisce un sussidio di disoccupazione da 900 euro (inizi a capire perché i migranti non si fermino in Italia) che “se cadi, c’è lo Stato a tirarti su”. Napule è altra musica. E’ la megalopoli, quattro milioni di anime; Città del Messico e New Dehli in scala minore. L’unica città italiana ad aver conservato una plebe urbana che è anche un soggetto politico, dal quale non puoi prescindere se vuoi governare sotto il Vesuvio. Esplorare la speranza di questa città rende necessario calarsi nella Napoli sotterranea. Non quella scavata nel tufo dai greci, che tornò buona per superare ‘a nuttata del ’45. Neanche le nuove catacombe sociali, che Gert conosce talmente bene da aver capito proprio lì quale sia il problema di Napoli e del Paese: “A Scampia ho incontrato varie piccoli gruppi anti-camorristi – mi dice - ma invece di collaborare si mettono uno contro l’altro”. La Napoli che non si vede ma s’intravede è quella della solidarietà, del rattoppo sociale. L’olandese viaggiante mi accompagna a casa sua, che si trova di fronte al palazzo in cui Goethe conobbe Filangieri. “Vedi, Napoli sembra non essere mai cambiata e invece se Goethe guardasse fuori dalla finestra di via Atri 23 oggi, vedrebbe ancora la stessa piazza ma la vedrebbe piena di graffiti - un ritratto di Maradona, un autobus blu con la scritta "Chi Milita Merita", un enorme “Mastiffs”… - e magari incontrerebbe il napoletano più famoso nel mondo, che è Gennaro Di Tommaso, il capo degli ultras…”. È andata decisamente male, pensi, al papà del giovane Werther: poteva conoscere Genny ‘a carogna e gli è capitato Filangeri, il giurista dei Borbone.

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A Spaccanapoli con Gabriella Butera INFLAZIONE A Spaccanapoli incontriamo Gabriella Butera. Uno A Napoli prezzi in aumento, a febbraio, degli angeli che leniscono le sofferenze di questa dello 0,3%. Si inverte quindi la tendenza alla decittà, dove i senza dimora sono tremila e i posti flazione, che nel mese di gennaio aveva fatto seletto quattrocento. Racconta di una metropoli gnare un decremento dello 0,5%. Il tasso tendenziale annuo di inflazione, secondo i dati Istat resi noti oggi dal in cui il bisogno sta cambiando colore, perComune, si attesta allo zero. A incidere maggiormente sul paché “fino a qualche anno fa aiutavamo i miniere di febbraio, l’aumento in un mese del 3 per cento nel granti, ma adesso troviamo per strada settore bevande alcoliche e tabacchi. intere famiglie”. Con Pasquale, suo marito, e alcuni amici ha fondato La Città della Gioia Onlus. L’hanno aperta grazie ai soldi raccolti dagli amici in occasione del loro 25° di matrimonio. Credono nella sobrietà come stile di vita, parlano di Giustizia e Pace e di sostenibilità. Ma non si limitano a parlarne. Lavorano per il riscatto culturale della “plebe” urbana, traduce Gert; in realtà si chiama opzione preferenziale per i poveri, che in questa città sono un autentico esercito: ventimila persone assistite, settemila minori, 34mila famiglie “censite” sotto la soglia dell’estrema povertà. E poi, novemila operatori, 150 associazioni e cooperative sociali, un’ottantina di strutture schierate su un fronte mettere a sistema un intervento sociale – è la sua opiapparentemente infinito. nione - perché il napoletano è al tempo stesso solidale Gabriella ha iniziato il suo volontariato organizzando e individualista, per ragioni che sfuggono. Far collaboil doposcuola per i bambini di strada. rare realtà sociali diverse è uno sforzo titanico”. Città “Quindi, abbiamo attivato un servizio sanitario per i della Gioia rappresenta un mix di francescanesimo – senza tetto e borse di studio per i ragazzi che vivono nel senso del magistero di papa Francesco – e umanein questi vicoli o nelle periferie” mi racconta e si capi- simo laico. Non è cattolica ma nasce dal discernimento sce subito che il volontariato non s’improvvisa e non è ignaziano … Radici gesuite: siamo a due passi dal Gesù una scelta di comodo. “In questa città non riesci mai a Nuovo e Gabriella mi presenta Antonio Salvio, presi-

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dente nazionale delle Comunità di vita cristiana (le vecchie Congregazioni mariane) e della Lega Missionaria Studenti. Anche la Cvx del Gesù Nuovo contribuisce a ridisegnare il volto umano di questa città, con le sue battaglie per la legalità e l’assistenza ai senza fissa dimora nel cuore della città antica. Napoletano verace anche lui, mi dà la cifra di quest’impegno: “La formazione spirituale alla sequela Christi non è mai teorica e il nostro apostolato non è proselitismo ma stile di vita”. Funziona con i giovani, “che condannano i genitori per l’incoerenza tra ciò che abbiamo professato e come abbiamo vissuto”. Funziona di meno quando si tratta di declinare il magistero petrino nella res publica: “Francesco esorta ad aprire i conventi ai poveri, sarebbe un gran bel segnale ecclesiale, ma ci sono anche tante strutture pubbliche disabitate, come l’Albergo dei Poveri, che è del Comune e per il quale padre Zanotelli aveva formulato una proposta concreta …”. La speranza di Napoli si ricostruisce a partire dalla presenza concreta dello Stato: un’altra battaglia delle Cvx è quella della sanità: “in genere i policlinici hanno il pronto soccorso, non a Napoli – commenta infatti Antonio Salvio -. Se ti prende un infarto devi attraversare il centro storico e raggiungere il vecchio Pellegrini. E sperare che non ci sia traffico”. Tornando verso piazza Garibaldi Torno verso piazza Garibaldi ripensando a quelle 50 barelle del Cardarelli che dovrebbero supplire alle carenze del Policlinico. Speriamo che i cardiopatici ne siano al corrente. Gert mi spiazza: “in nessun’altra città mi sono sentito così benvoluto come a Napoli. La gente è aperta e ospitale. In nessun altro luogo del mondo è così piacevole passeggiare. E’ un vero mistero questo contrasto tra la rappresentazione negativa che della

città fanno i media e i suoi stessi abitanti e la vivacità della strada, una vivacità spesso gioiosa, fatta di gente disponibile e cordiale”. Una chiave del mistero l’ha trovata da uomo del Nord. “Napoli è una città che si regge in equilibrio sulla crisi perenne, sulla miseria, sull’insicurezza. Ciò la rende apparentemente vivace, la fa resistere meglio di Milano alla recessione, ma è una città che vive di incertezza, che non deriva solo dalla presenza del Vesuvio, dal rischio dei terremoti, ma entra nella vita di tutti i giorni. Noi, in nord Europa, cresciamo in un ambiente tranquillo e stabile, dall’asilo alla pensione. Sai che ci sono i soldi, che troverai un’occupazione, che presto avrai la possibilità di farti una casa. E se anche le cose andassero male - perché non finisci la scuola, oppure sei malato o tossicodipendente - c’è sempre lo Stato che pensa a te. Questa certezza dà libertà di scelta. Lo Stato è il pilastro su cui si basa la vita di un nordeuropeo. A Napoli, lo stato non si vede eppure la città non cade in pezzi, perché è sostenuta da tanti piccoli pilastri - la famiglia, il quartiere, un po’ di industria, un po’ di turismo, e poi la camorra che offre alle persone mezzi di sussistenza, l’economia dei vicoli, legale e illegale – contrafforti sufficienti a non fare esplodere la città. Questa incertezza è associata tuttavia con l’individualismo e la sfiducia verso lo Stato ma anche verso se stessi. E la base dell’economia è proprio la fiducia”. E mentre lui parla mi accorgo che siamo arrivati tardi in stazione. La biglietteria è deserta. Anzi, sbarrata. “Se deve fare il biglietto aspetti fuori, stiamo finendo di pulire i pavimenti” mi intima Geraldina S. formosa ed impettita, orgogliosa della sua divisa Trenitalia. Mi metto in coda, con un lieve senso d’incertezza, di trovarmi nella stessa città dove in motorino si va solo in tre e i rifiuti marciscono per strada. “Non capirete mai Napoli” (Malaparte). 74


Papa Francesco a Pompei e a Napoli Speranza in un futuro migliore

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APOLI - Ritorna in Campania Papa Francesco, dopo le due visite a Caserta. Prima a Pompei e poi a Napoli. Prima la preghiera alla Vergine del Rosario e poi il grande abbraccio con la folla partenopea che lo attende come aveva promesso proprio a Caserta: “Grazie! Grazie tante! E per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie anche al Cardinale arcivescovo di Napoli. Ho sentito che forse i napoletani sono un po’ gelosi di questa mia visita, ma voglio assicurare ai napoletani che sicuramente quest’anno andrò da loro”. Era il 26 luglio 2014, memoria liturgica di san’Anna. Sono passati solo otto mesi e Papa Francesco è fedele alla promessa. Sabato 21 marzo Papa Francesco farà una breve tappa a Pompei. Nel dare l’annuncio l’arcivescovo prelato mons. Tommaso Caputo ha condiviso così la gioia di tutti i devoti di Maria. “Sono molteplici i motivi per i quali la presenza di Papa Francesco a Pompei rappresenta un evento di straordinario rilievo ecclesiale. La filiale e tenera devozione mariana che il Papa continua a manifestare è anche alla radice del forte impegno della Chiesa di Pompei verso gli ultimi e i più bisognosi, impegno che ha dato vita all’assistenza stessa della città mariana. Più che mai oggi, le motivazioni di carità, legate intimamente alle esigenze di giustizia e di rispetto della dignità di ogni persona, non sono venute meno. Oltre all’esultanza per la sua venuta- continua l’arcivescovo prelato - attendiamo che Papa Francesco – ci indiche la strada da percorrere per essere ancora più vicini e più solidali con la nostra gente”. Papa Francesco è il

terzo pontefice a recarsi in pellegrinaggio a Pompei, “cuore mariano della Campania”, visitato per ben due volte da san Giovanni Paolo II (1979 e 2003) ed una da Papa Benedetto (2008). Nove, invece saranno le tappe della giornata a Napoli: Scampia, incontro con la città a piazza del Plebiscito; celebrazione della santa Messa; visita alla casa circondariale “Giuseppe Salvia” a Poggioreale e pranzo con una rappresentanza di detenuti; sosta in arcivescovado; visita in duomo alla cappella del Tesoro e incontro con il clero e i religiosi; basilica del Gesù nuovo per un gesto di tenerezza verso gli ammalati; Lungomare Caracciolo per la festa con i giovani. Partenza alle ore 18.15 dalla stazione marittima. Periferie, detenuti, ammalati, giovani, sacerdoti, religiosi, religiose e laici: nelle dieci ore di visita pastorale a Napoli Papa Francesco incontra non solo i più deboli, ma anche quanti operano nei diversi luoghi della città. “Speranza per Napoli – ha auspicato il cardinale arcivescovo della città partenopea Crescenzio Sepe – vuol dire essenzialmente il lavoro e gesti concreti. Occorre dare un segnale a quanti vivono rassegnati e bloccati nella speranza di un futuro diverso. La provvidenza e le parola del Papa faranno il resto”.

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francescanesimo

La minorità da Roma

RAFFAELE DI MURO DOCENTE DI SPIRITUALITÀ FRANCESCANA

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ell’anno della vita consacrata la riscoperta della minorità francescana potrebbe rappresentare un elemento di confronto e di crescita per i consacrati. Essa ha una matrice evangelica. Infatti nel Vangelo di Matteo leggiamo: «Se non convertirete e diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4). Il piccolo è colui che è simile al bambino che non possiede e non ha la possibilità di alcun controllo su cose o situazioni; chi sa farsi piccolo nell’umiltà, donando al Signore la propria vita, dedicandosi all’annuncio del Vangelo; colui che accoglie incondizionatamente la voce di Dio (come fa un bimbo con i genitori) e gli altri (in genere i bambini sono volentieri aperti al prossimo). Alla base dell’atteggiamento di “piccolezza”, vi è la disposizione umile del cuore che è fondamentale per un progetto di vita improntato alla minorità. Aiuta molto guardare l’esempio del Signore che si è fatto servo, che è passato tra gli uomini «come colui che serve» (Lc 22,27). Egli è l’espressione dell’amore di Dio che si china - povero e umile – sull’umanità sofferente. Questa immagine di Cristo colpisce molto Francesco che, nei suoi scritti, fa continuo riferimento alla kenosi del Signore come paradigma anche per la sua vita spirituale. È proprio l’umiltà e la “piccolezza interiore” a formare anche la fraternità, perché tutti i fratelli si riconoscono piccoli davanti a Dio coinvolti nel medesimo progetto di vita interiore ed apostolica. Nella Regola non bollata (VI, 3), Francesco si esprime così: «tutti siano chiamati semplicemente frati minori e l’uno lavi i piedi all’altro». Il frate minore è, dunque, il servo di Dio che lava i piedi al fratello ed al prossimo in generale, il servo del Signore e dell’umanità. Egli si distingue per il non sapere. Francesco nella Regola non bollata allerta i fratelli a non fare della predicazione un motivo di dominio o di brama di potere. Chi predica è anche colto e, pertanto, deve fare ben attenzione a non ergersi a posizioni superbe e cariche di or-

goglio. Infatti, «Tutti i frati, in qualunque luogo si trovino per servire presso gli altri o per lavorare, non facciano né gli amministratori né i cancellieri, né presiedano nelle case di coloro a cui prestano servizio, né accettino alcun ufficio che generi scandalo o che porti danno alla loro anima, ma siano minori e sottomessi a tutti coloro che sono in quella stessa casa» (Regola non bollata 7). Del resto nell’Ammonizione settima (n. 3), lo stesso Francesco così si esprime: «Sono uccisi dalla lettera quei religiosi che non vogliono seguire lo spirito della divina scrittura, ma desiderano sapere solo le parole e spiegarle agli altri». Essere piccoli, vuol dire non avere. Si tratta di non avere denaro, fondi e disponibilità di cose materiali che 76


bloccherebbero il processo di penitenza e di crescita in un’ottica evangelica. Infatti, «E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere» (Testamento 19). Il minore è colui che povero internamente, mediante l’umiltà del cuore, ed esternamente, attraverso il distacco dai beni di questo mondo. Essere minori vuol dire non potere. Si tratta di non godere di posizioni di privilegio tra i frati o nell’ambiente sociale in cui si vive e si opera. Infatti, «tutti i frati non abbiano in questo alcun potere o dominio» (Regola non bollata V, 12). Il lavoro per Francesco non è un ostacolo alla vita spirituale perché esso non è motivo di arricchimento e di dominio, bensì è necessario perché non sia «estinto lo spirito di orazione e devozione» (Regola bollata V, 3). Esso è funzionale alla preghiera, ha una dimensione propedeutica rispetto alla vita mistica. Il frate minore è colui che serve Dio ed i fratelli senza nulla pretendere, in spirito di umiltà e semplicità. L’apostolato non è un modo per esaltarsi ma di esprimere la propria vocazione secondo uno stile improntato al servizio. Infatti, Francesco così si esprime: «Per cui scongiuro, nella carità che è Dio, che tutti i miei frati predicatori […] cerchino di umiliarsi in tutte le cose, di non gloriarsi né godere tra sé, né esaltarsi dentro di sé delle buone pa-

role e delle opere, anzi di nessun bene che Dio dice o fa o opera talora in loro o per mezzo di loro» (Regola non bollata XVII, 5-7). Si tratta del saper perdere tutto per il Regno, di saper perdere le certezza di questo mondo per guadagnare tutto. È un morire a sé stessi per giungere alla vera sapienza spirituale, di un consegnarsi totale e generoso a Dio, secondo uno stile di donazione completa, come lo stesso Francesco ha modo di sottolineare: «O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili, per la nostra salvezza in poca apparenza di pane. Guardate, frati, l’umiltà di Dio e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi perché egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi tenete per voi; affinchè vi accolga Colui che a voi si dà tutto» (Lettera a tutto l’Ordine 35-37). La Madonna è modello di povertà ed umiltà secondo Francesco. Ella, ben associata alla kenosi del Signore, si è dimostrata povera ed umile in percorso di sequela che è stato foriero di gloria e benedizione per lei e per tutta l’umanità (cf. Regola non bollata IX, 5-7). Vi è un percorso di povertà che parte dal nostro mondo interiore e si trasferisce al nostro atteggiamento esteriore. Si tratta di guardare a Cristo, contemplare la sua povertà e, ammirando Francesco, farla “rivivere” nel nostro vissuto.


“Damme speranza certa” Corso annuale di formazione per assitenti Ofs e Gifra da Assisi

GIORGIO TUFANO ASSISTENTE NAZIONALE OFS

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l corso nazionale di formazione per Assistenti OFS e GiFra, che si svolge annualmente ad Assisi a fine gennaio, dopo l’approfondimento della fede e della carità, negli ultimi due anni, con il tema della speranza ha completato, dal 26 al 29 gennaio scorso, il triplice argomento tratto dalla Preghiera davanti al Crocifisso: «Alto e glorioso Dio, ... damme fede dritta, speranza certa, carità perfetta». La richiesta delle tre virtù teologali richiama la prima lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (1,3), lodati per «l’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza nel Signore Gesù Cristo». La formula può essere giunta al giovane Francesco tramite la predicazione medievale, che riprendeva le tre virtù teologali, con gli stessi aggettivi, da un breve Trattato di S. Ambrogio su Fil 4,4-6: «Il Signore è sempre vicino a quelli che lo invocano nella fede retta, nella speranza ferma, nella carità perfetta». Assistente e assistenza: ponte di speranza Nella sua relazione, fra Gianfranco Grieco ci ha presentato le icone concrete di Cristo, «nostra speranza»: Assisi, san Francesco, Papa Francesco. Tenebre e luce nella preghiera di Francesco davanti al Crocifisso di san Damiano richiamano il profeta Isaia (9,1-12): «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce». E la luce nasce a Betlemme, è raccolta dalle mani materne di Maria e dall’affetto di Giuseppe, dalla prontezza dei pastori, e, nel 1206, da Francesco d’Assisi con l’invito a restaurare la Chiesa, il bacio al lebbroso, la spoliazione davanti al Vescovo. Maria, Giuseppe e i pastori si fanno carico della speranza di tutto il popolo. Ma, notava Papa Benedetto, «nella Chiesa del tempo ultimo s’imporrà il modo di vivere di san Francesco che, in qualità di simplex e di idiota, sapeva di Dio più cose di tutti i dotti del suo tempo, perché egli lo amava di più». Oggi viene chiesto a noi di farci carico della speranza promessa: a Dio nulla è impossibile. Anna Pia Viola, francescana secolare, ci ha spiegato la sua esperienza personale e i possibili percorsi per la crescita comune: non si nasce Assistente spirituale, ma lo si

diventa. Fra Tommaso da Celano annotava: «È da ammirare la fecondità della donna sterile. Sterile davvero, perché non miete, non ammassa nei granai, non porta una bisaccia ricolma. Tuttavia, contro ogni speranza, questo santo credette nella speranza che sarebbe diventato erede del mondo» (FF 823). Nell’ascolto e risposta della Chiesa alle sorti di dolore e di speranza dell’umanità siamo interpellati tutti per dare il nostro contributo «in comunione vitale reciproca». «Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia speranza» Con la citazione del salmo 61 fra Donato Sardella ha introdotto la Tavola Rotonda con la presenza di fra Sabino Iannuzzi (COMPI), fra Alessio Maglione (COMPITOR), fra Gianfranco Palmisani (CIMPCAPP). Il contributo dell’intera Famiglia francescana alla nuova evangelizzazione nella speranza affidabile ha ispirato il confronto fraterno. Seguendo la traccia offerta dagli organizzatori, nel loro intervento i Relatori sono invitati a rispondere alle seguenti domande: Evangelizzazione. Quale incisività alla «nuova evangelizzazione» offre la «speranza affidabile» che ispira la Famiglia francescana? I laici – OFS e GiFra – possono aiutare il 1° Ordine a trovare forme di collaborazione e di comunione per l’impegno di evangelizzazione? È possibile promuovere un impegno comune tra 1° Ordine/TOR, OFS e GiFra, coinvolgendo le varie Conferenze? Quali iniziative si possono organizzare e svolgere insieme? Qualità dell’assistenza spirituale. Quale può essere la collaborazione e/o comunione tra le Conferenze nei confronti dell’assistenza spirituale all’OFS e alla GiFra? Quali sono le cause della fatica a collaborare maggiormente? Vi sembra sufficiente inserire nella formazione iniziale dei Frati la conoscenza della realtà OFS – GiFra secondo le linee suggerite dalla Conferenza Generale degli Assistenti e adattate dalla CASIT? I gruppi di condivisione, il fraterno intervento di Remo Di Pinto, presidente nazionale OFS, e di Lucia Zicaro, presidente nazionale GiFra, hanno completato il 16° Corso di formazione per Assistenti OFS e GiFra, a cui hanno partecipato circa 120 confratelli. Non poteva mancare la foto di gruppo dopo la concelebrazione presieduta da Mons. José Rodríguez Carballo presso la Porziuncola. 78


A Sant’Anastasia e a Barra il 28 e il 29 novembre 2014 è stato ricordato padre Michele Abete a 50 anni dalla morte (28 settembre 1964). Hanno parlato di questo religioso esemplare che irradiato le sue virtù francescane nelle comunità della Campania e del Lazio, i padri Edoardo Scognamiglio, ministro

provinciale, Raffaele Di Muro, Gianfranco Grieco e il professor Luigi de Simone. Tanti i fedeli di Santa Anastasia e di Barra che hanno partecipato ai due eventi che hanno fatto memoria di una presenza significativa che ha cambiato il volto cristiano e francescano delle nostra terra vesuviana. ranno, e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi. Questo manifesto delle beatitudini ha guidato i passi frettolosi- fino a quanto ha potuto- di padre Michele. Noi, oggi, lo ritroviamo in queste nove beatitudini. Sono il racconto dei misteri della sua vita: gaudiosi, dolorosi, gloriosi; misteri di luce pasquale! Povertà, dolore e pianto, mitezza, fame e sete della giustizia, misericordia, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato per la giustizia, insultato. E lui testimoniava con la sua vita queste beatitudini e rispondeva agli insulti e alle persecuzioni mostrando il suo volto riconciliato e pacificato. Aveva sempre qualcosa da dare padre Michele, partendo dal suo guardo carico di tenerezza spirituale e di amore soprannaturale.

GIANFRANCO GRIECO

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er noi morire significa chiudere gli occhi alla luce di questo mondo che ha le sue consolazioni, ma è anche pieno di croci ed aprirli alla luce del paradiso dove non c’è che gioia e pace … Continuiamo a farci coraggio ed a guardare in alto. Ecco che gli occhi dei nostri cari defunti pieni di gioia e di sorriso guardano ai nostri occhi pieni di pianto … I nostri cari morti sono sempre con noi, a confortarci, ad incoraggiarci, e a ripeterci che è bello il vivere anche con sacrificio, quando si è sicuri che il Signore tutto vede e tutto conta per darci una gioia ed una consolazione eterna” (Da una lettera dell’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli del 17 aprile 1937). Queste parole di Papa Giovanni XXIII, uomo di Chiesa, nunzio apostolico in Francia, patriarca di Venezia e poi, papa e santo (canonizzato con Giovanni Paolo II 27 aprile 2014) morto nel 1963, un anno prima di padre Michele Abete (1879 - 1964), ci dicono che tutti i santi si somigliano, perché hanno posto al centro della loro vita il Vangelo delle beatitudini. I santi li abbiamo conosciuti. Hanno camminato con noi ed accanto a noi. Sono stati i nostri maestri, le nostre guide spirituali.

Le tappe più significative Padre Michele, con la sua vita ha testimoniato la sua appartenenza a Cristo povero, umile, obbediente casto; la sua passione per la Chiesa madre, dando vita insieme con madre Claudia Russo all’Istituto Povere Figlie della Visitazione, che erano sin dal 1915 “giovani terziarie”; il suo amore all’Ordine serafico (25 febbraio 1906): ordinazione ad Amalfi e celebrazione della prima santa messa a Ravello presso la tomba del Beato Bonaventura, il 27 febbraio; e poi, nel segno dell’obbedienza, in tutti i conventi della provincia: Ravello, Montella, Barra, Napoli San Lorenzo, Santa Anastasia, Roma - La Vigna, Zagarolo, Barra, Portici, Napoli – Vomero, a Sant’Anastasia , dove, verso la fine del 1949, la comunità conventuale lo incaricava a guidare i lavori della ricostruenda chiesa di Sant’Antonio; il suo francescano servizio al popolo santo di Dio. Se la città di Barra può considerarsi per Padre Michele, la città dall’anima, della preghiera, dell’ascolto e della “dolce amicizia” (cfr Salmo 54), Sant’Anastasia è l’officina, il cantiere della sua attività frenetica ed instancabile. Moriva all’età di 85 anni padre Michele Abete a Villa Spinelli,a Barra, che lo aveva visto giovane ed attivo sacerdote, alle ore 2 del 28 settembre 1964. La salma veniva portata a Sant’Anastasia e dopo i solenni funerali nella chiesa di sant’Antonio, veniva inumata nel locale cimitero nella cappella della famiglia Merone, nel riquadro sinistro del cimitero inferiore. La sua tomba diven-

Dal Vangelo secondo Matteo Per dare un clima spirituale a questo nostro incontro, riascoltiamo il Vangelo delle beatitudini secondo Matteo (5, 3-12): Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguite-

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SPECIALE P. MICHELE ABETE

Uomo delle beatitudini


SPECIALE P. MICHELE ABETE

tava luogo di pellegrinaggi: i suoi confratelli, le sue suore, i suoi devoti, i suoi fedeli, raggiungevano questa meta del cuore per sostare in preghiera e per chiedere grazie e speranza. Il 16 aprile 1988 – 23 anni dopo la morte - la traslazione delle spoglie mortali nella sua chiesa di sant’Antonio sotto l’altare dei santi Ludovico ed Elisabetta, patroni dell’ordine francescano secolare. Aveva circa 20 anni il giovane, quando il 21 novembre 1889, dopo ave abbandonato lo studio delle belle arti di Napoli, chiedeva di entrare nella famiglia francescana conventuale. Veniva accolto come studente di ginnasio a Sant’Anastasia dal Ministro provinciale Francesco Saverio D’Ambrosio. Anno di inizio del noviziato 21 novembre 1900 che concluderà il 16 gennaio 1902. Suo maestro e formatore era padre Domenico Tavani, commissario generale della ricostruenda provincia di Napoli, che sarà ministro generale dell’0rdine serafico (19191924; 1930.-1936). Questi era stati i suoi maestri formatori. Era un modello di novizio e, successivamente, di chierico professo, frate Michele. In un foglio dell’archivio conventuale di Santa Anastasia, un suo immediato e diretto superiore scriveva di lui:”Fu veramente esemplare, di una pietà delicata e fervida, di una semplicità e schiettezza native, espresse in modi diversi e vivaci e affabili”. Questo era il giovane chierico fra Michele Abete. Così resterà padre Michele per tutta la sua vita. Padre Michele avvertita in profondità il senso di “appartenenza” verso le quattro direzioni: Cristo, la Chiesa, l’Ordine, il popolo santo di Dio. Non lui si era impossessato di Cristo, della Chiesa, dell’Ordine serafico e del popolo santo di Dio, ma erano Cristo Gesù, la Chiesa, l’Ordine, la comunità ecclesiale e civile che si impossessavano di lui. Padre Michele Abete, religioso esemplare, testimone, santo che ha segnato anche gli anni della nostra giovinezza serafica (1960-1963). Era la stagione del Concilio. Iniziava la stagione della primavera della Chiesa.

Gli ultimi quattro anni di vita Partiamo dalla fine, dagli ultimi quattro anni di vita (1963-1964) perché è questa la stagione ultima della sua francescana esistenza. Stagione che diventa testimonianza. La comunità francescana di santa Anastasia viveva in quegli anni un periodo che aveva tutto il sapore della primavera nascente. Comunità di frati perfetta più a livello numerico che di stile di vita: Abete, Santoro, Mazzotta, Manelli, Ciappetta, Maglione, Todisco, ecc … ; nuova costruzione per accogliere i chierici di liceo e di teologia (oltre una trentina). Vita comune dalla mattina alla sera che si concludeva con la benedizione del rettore padre Tommaso che oltre a fare un breve bilancio della giornata, ci dava anche gli avvisi e gli impegni per il giorno successivo. Lo stile di vita che conducevano i padri della comunità era diversificato. Ogni frate presentava la sua personalità, ma noi, giovani chierici, toccavamo con mano la loro testimonianza di vita: osservanti e fedeli alcuni; meno osservanti e fedeli altri; testimoni credibili alcuni, meno credibili altri. Padre Michele apparteneva a quella schiera di religiosi tutto di un pezzo. Era serio padre Michele, aveva cioè una spina dorsale; incuteva timore; era scherzoso ; era umile, era paziente, era docile. In una parola era pane e cioccolata; ma anche deciso, forte, coraggioso, profetico. Era, in una pa-

rola, un maestro di anime. Si toccava con mano la sua paternità, oserei dire la sua maternità, soprattutto quando già infermo, confessava nella sua stanza francescana: la prima a sinistra nel corridoio del convento. Era, in una parola, una bella persona. Aveva il suo fascino, la sua forza attrattiva. Ti conquistava, padre Michele; ti trasformava, ti trasportava. Questa personalità esteriore altro non era che il frutto di tutte le sue profonde convinzioni interiori. Dalla sua autobiografia (8 fogli per 27-22); dal suo testamento spirituale, riproposto ora nel retro della immaginetta - ricordo; dai testi scritti su di lui: Ciappetta, Di Monda, Bove e dagli interventi dei testimoni alla tavola rotonda del 15 aprile 1988 del vescovo Costantini, di Casaburo, Manelli, Cristina Merone, suor Luisa Panico, il prof. Aldo Luise, Tufano, tutti testimoniavano questa verità di base: Padre Michele era un sacerdote religioso francescano conventuale tutto d’un pezzo. Come il biografo Giuseppe Ruggilo scriveva nel 1754 sul Beato Bonaventura da Potenza, 21 anni prima della sua beatificazione avvenuta il 26 novembre 1775 :”Era stato fatto a bella posta da Dio”, così possiamo dire di padre Michele. L’ambiente anastasiano di fine ottocento e di inizio novecento; i parenti, l’educazione religiosa iniziale, l’uomo, il frate, il sacerdote, il fondatore: tutto era proteso nel dimostrare questa sua personalità lineare, robusta, rocciosa, contemplativa, mistica cristologica e mariana. Basta rileggere il testo impresso sulla immaginetta ricordo del suo 50 anniversario di messa – 25 febbraio 1956 - per cogliere tutta la sublimità della sua anima: “Magnificat anima mea Dominum! – si poteva leggere - . Vergine Immacolata la tua bellezza sovrumana ha estasiato il P. Michele e ne ha mantenuto puro il sacerdozio. La tua azione materna è stata per lui fonte inesausta di apostolato fecondissimo ammantato di silenzio, del tuo silenzio. La tua sensibile benevolenza ce lo conservi per molti anni ancora, perché altre sofferenze siano lenite, maggior gloria sia data al tuo Figlio Gesù” (ivi, p. 79-80). Questo è il vero ritratto di padre Michele.

Povero come san Francesco Ma padre Michele era soprattutto un religioso povero. Scriveva nel suo testamento spirituale:”Sono nato povero, povero di tutto, e di mio non ho nessun centesimo; sono spogliato (usa il verbo del giovane Francesco che si spoglia sulla piazza di Assisi davanti a suo padre Pietro di Bernardone e davanti al suo vescovo Giudo) di tutto , e ciò che ci possa essere nella stanza tutto è del convento”. Cristo povero era il modello di vita di padre Michele. La povertà di Gesù porta alla povertà del suo Natale. Cantava e saltellava come un giulare di Dio nel corridoio del convento di sant’Anastasia, perché aveva tanta gioia natalizia nel cuore e voleva esternare questo suo sentimento anche danzando insieme con gli angeli. Del suo amore verso Madonna povertà parlano tuttora alcuni episodi legati agli occhiali, all’orologio, alla barba, al breviario, alle “cartuscelle”. Mai aveva posseduto un paio di occhiali, sempre usati quelli lasciati o abbandonati dagli altri sia religiosi che laici; l’orologio datogli dal padre quando veniva ordinato sacerdote (di questo orologio parlava anche nel testamento e scriveva: ” se i superiori credono di darlo a qualche mio parente non trovo difficoltà”) 80


Santanastasia, Convento S. Antonio

Come Cristo sulla Croce

andavano a Massercola in provincia di Caserta, per visitare le loro figlie spirituali. All’improvviso Madre Claudia aveva un malore , ma padre Michele insisteva per proseguire il viaggio. Il giorno successivo -11 marzo- a mezzogiorno- era l’ora dell’Angelus - Madre Claudia moriva in automobile mentre insieme con il fratello autista stavano rientrando in casa madre a Barra. Padre Michele, per il dolore e per il fiume di lacrime che versava, veniva allontanato dalla stanza. Solo cinque mesi e 18 giorni dopo, padre Michele raggiungeva la sua “sorella” e “madre” Claudia in cielo. Solo Dio è a conoscenza di questa mistica unione. Lui li ha accompagnati per tutta la vita ed ha aperto loro le porte del Regno.

Aveva celebrato da poco i suoi 50 anni di sacerdozio (25 febbraio 1956) quando il suo corpo manifestava i primi sintomi di una situazione complessa. Prima le chiazze rosse sulla mano destra (anni ’49-50). Era il morbo di Kaposi che si manifestava poi sulla gamba destra, con chiazze diffuse ovunque; inoltre i bubboni nella parte inferiore della tibia. Convento di Santa Anastasia , ospedali e cliniche e casa delle suore di Barra : un via vai senza fine. In questi anni di croce seguiva anche il pellegrinaggio a Lourdes . Poi, amputazione della gamba sinistra e dopo quattro mesi la ferita era completamente cicatrizzata. Nel febbraio 1962 nuovo taglio chirurgico al moncone. Ma, il male non si fermava. Dalle gambe agli occhi. Veniva ricoverato nella clinico oculistica “Primavera”, vicino a Capodimonte, ove gli veniva esportato un occhio, per evitare la decomposizione di entrambi. Tra Santa Anastasia e Villa Spinelli a Barra continuava la sua via crucis sino alla fine. Otto anni di vero calvario, non ai piedi della croce, ma in croce! Questa sua via crucis veniva accompagnata dalla quotidiana offerta del suo sacrificio questa era anche la messa di ogni giorno. Compostezza, silenzio, raccoglimento, fare la volontà di Dio, confessare i giovani e i religiosi della comunità, dare speranza agli altri: questo era il suo insegnamento e il suo messaggio. Dall’alto della croce vedeva il mondo con altri occhi, vedeva la sua vita e quella degli altri sotto altra luce. Guai se siamo uomini e donne senza croce. Dobbiamo in verità preoccuparci seriamente, quando la croce non ci dà nessun segnale!

Cosa resta oggi di padre Michele Ricordare oggi padre Michele Abete era un dovere. Ricordare i santi che hanno segnato anche il nostro cammino è un bisogno dell’anima. Padre Michele ha ricevuto e ha trasmesso. Come lui, anche noi abbiamo ricevuto da lui e dobbiamo trasmettere quanto lui ci ha lasciato. La quadruplice dimensione: amore a Cristo, alla Chiesa, all’Ordine serafico, alle anime. In questa direzione si è dato, o meglio si è donato, senza ritorno. Ha guardato sempre in avanti padre Michele, alla bellezza di raggiungere il traguardo, di arrivare alla meta. Padre Miche ci insegna il senso di appartenenza: spiritualità cristologica e francescana, spiritualità mariana e kolbiana; fedeltà alla Regola, obbedienza ai superiori (64 anni di docile obbedienza anche nei momenti bui che non mancavano nella sua vita!); ministro della riconciliazione; cuore aperto a tutti. Aveva due parole padre Michele che ripeteva spesso nei suoi discorsi e che ritornano nella memoria del nostro cuore anche ora: “Ecco, vedete …!”. Anche oggi, ora, ci ripete questo suo ritornello: “Ecco, vedete”, per ricordare a tutti noi la portata della nostra vocazione e della nostra missione e per dirci che Dio è amore, è grazia, è misericordia, è perdono, è tenerezza, è condivisione, è comunione. “Gli animi ancora si specchiamo tra la nostalgia e la speranza rimane loro estrema testimonianza di virtù. L’indomita pazienza dei suoi ultimi anni divenuti un rogo di dolore e di amore”. Queste alcune delle frasi della immaginetta- ricordo che i confratelli di Sant’Anastasia, imprimevano non sulla carta, ma nel cuore di tutti noi, nel trigesimo della morte. Aver ricordato padre Michele ci ha fatto bene, perché tutti noi gli abbiamo voluto bene. Noi gli abbiamo reso così onore e gloria. Come il serafico padre Francesco lui ha fatto la sua parte. A noi, sul suo esempio, il compito di fare la nostra!

Padre, maestro e guida L’anno 1964 univa nella morte madre Claudia Russo (era l ’11 marzo) e padre Michele Abete (28 settembre). Che coincidenza felice. Quasi insieme, dalla terra al cielo. Andava prima lei a preparare un posto a padre Michele. Le loro vite insieme per 50 anni circa, dal 1915. Nel dolore e nella gioia. Aveva 22 anni la giovane bella Claudia, quando incontrava padre Michele che di anni ne aveva 31. Vicini e lontani li univa il loro ideale di vita, la loro appartenenza a Cristo, alla Chiesa, a Francesco , ai poveri, agli ultimi, alle donne anziane ed abbandonate. Madre Claudia, già sofferente sin dal 1915 (“grave forma di deperimento” prima, e poi, nel 1918 il vaiolo) non aveva mai avuto una salute di ferro. Nata il 18 novembre 1889, dieci anni dopo padre Michele che era nato il 26 giugno 1879, quando sorella morte bussava alla sua porta all’età di 75 anni, aveva padre Michele accanto. Era il 10 marzo quando insieme con padre Michele, ammalato,

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era l’unico orologio della sua vita, e quando si spezzava la corda non lo faceva più riparare. “Un francescano di oltre 70 anni non può spendere denaro per farsi riparare un orologio – diceva -. Ed aggiungeva: Per quanti anni potrei ancora usarlo? La barba, solo acqua e sapone, mai creme profumate; e il vetro della finestra come specchio; il breviario, sempre lo stesso, quello stampato prima della riforma di Pio X, mai un breviario nuovo; e le “cartuscelle” soldi di carta lercia, spiegazzate che metteva in un bacile a rammollo nell’acqua e poi le stendeva su una tavoletta per farle asciugare e poi usarle per il convento, per la chiesa, per le suore, per i poveri.


In cammino verso la Pasqua da NAPOLI

EDOARDO SCOGNAMIGLIO TEOLOGO

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l nostro itinerario quaresimale si è aperto con l’invito del profeta Gioele a ritornare al Signore con tutto il cuore. La conversione, in senso biblico, non si riduce a uno sforzo morale, bensì a cambiare completamente il modo di essere e di agire e di vivere ogni cosa alla presenza del Signore. È una questione di cuore, ossia non di affetti e di sentimenti semplicemente, ma di conoscenza. Il cuore è, nella tradizione biblica, la sede della conoscenza e della volontà: tornare al Signore vuol dire fare un’esperienza concreta e genuina di lui, del suo amore misericordioso. Nella prima domenica di Quaresima ci siamo confrontati con le tentazioni di Gesù nel deserto. Il Vangelo di Marco è asciutto, essenziale. Un particolare conta: Gesù è guidato dallo Spirito. In seguito alle prove, Gesù annuncia il Regno di Dio, buona novella per tutti gli uomini e le donne del nostro tempo. La seconda domenica di Quaresima ci ha consegnato una pagina bellissima: la trasfigurazione o metamorfosi di Gesù che, per la tradizione, è avvenuta sul monte o collina del Tabor. Protagonista è stata la voce del Padre che ha rotto ogni silenzio e ci ha comandato di ascoltare il Figlio amato, il Diletto. La tentazione di restare in quel clima di pace e di armonia è forte in tutti noi. Il Padre, invece, ci chiede di scendere in mezzo al mondo, di stare tra le sofferenze delle persone e annunciare loro la novità di Cristo che è morto e risorto per noi. La terza domenica di Quaresima ci consegna una pagine difficile del Vangelo di Giovanni: Gesù non tollera quanto sta intorno al tempio e che sa di non adorazione, ma di commercio, di venialità, di esteriorismo che soffoca la dedizione del cuore. Il suo gesto prefigura la dissoluzione del tempio di pietre e l’edificazione di un altro tempio, quello del culto in spirito e verità. È la vita nuova di noi battezzati nello Spirito che, pieni della luce del Signore risorto, camminiamo verso la nostra risurrezione, ricentrando tutto della nostra esistenza nella pasqua del Signore. Nella quarta domenica di Quaresima, Gesù ci parla del serpente innalzato nel deserto da Mosè. È un gesto non privo di mistero che si illumina quando se ne coglie l’in-

tenzione profetica. Era l’immagine del Figlio dell’uomo innalzato sul legno della croce, del Figlio che Dio ha consegnato in sacrificio all’umanità perché fosse guarita da un morso più velenoso e letale, quello del peccato. Tuttavia, per essere guariti occorre essere credenti: la fede è una comunione reale con Gesù Cristo in croce. La relazione con la croce non è lasciata alla libertà dell’uomo: essa è rigorosamente necessaria. Nel nostro cammino verso la Pasqua dobbiamo mettere in cantiere le esperienze di sofferenza, di umiliazione, di prova che Dio permette affinché purificati nel corpo e nello spirito arriviamo liberi al giorno della nostra risurrezione. La quinta domenica di Quaresima ci parla della glorifica82


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come effetto di abbattere il principe di questo mondo. Allora egli sarà il punto di attrazione e di convergenza di tutti gli uomini e le donne di questo mondo. La domenica delle Palme ci introduce nella passione di Gesù: è l’ingresso a Gerusalemme del Messia, del servo del Signore. La risurrezione avverrà solo dopo il venerdì santo e il silenzio della sepoltura del sabato. La Pasqua è vicina. Tuttavia, il Risorto, con la sua luce, infinita e divina, splendida e benedicente, porterà per sempre con sé le piaghe e le sofferenze sue e del mondo. La notte di Pasqua segna il passaggio dalla morte alla vita, dagli inferi alla Gerusalemme celeste: Cristo è il fuoco che brucia il peccato. Cristo è quella stella del mattino che non conosce tramonto. Cristo risorge dai morti e prepara la nostra risurrezione. Il tempo di Pasqua diventa un magnifico itinerario di crescita nella vita dello Spirito e nella nostra esistenza battesimale. La Pasqua è immersione nella morte di Cristo e nella sua risurrezione. Perciò è pure passaggio a vita nuova, lontani dal peccato, dalle seduzioni del maligno. La Pasqua è, però, il segno del dominio di Dio sul mondo e sul peccato. Il Signore non ha rispettato la volontà di morte dell’uomo e per questo ha risuscitato il suo unico Figlio. La Pasqua è lo strapotere del Padre sul mondo: Dio non ha abbandonato suo Figlio, anzi, lo ha riscattato dal potere delle tenebre. Noi, se vogliamo risorgere ed essere veramente felici, dobbiamo metterci sotto questo potere che è l’Amore, il Dono, lo Spirito in noi. Il sentimento dominante che traspare dai racconti evangelici della Risurrezione è la gioia piena di stupore, ma uno stupore grande! La gioia che viene da dentro! E nella Liturgia noi riviviamo lo stato d’animo dei discepoli per la notizia che le donne avevano portato: Gesù è risorto! Noi lo abbiamo visto! Facciamo nostre le parole di papa Francesco: «Lasciamo che questa esperienza, impressa nel Vangelo, si imprima anche nei nostri cuori e traspaia nella nostra vita. Lasciamo che lo stupore gioioso della Domenica di Pasqua si irradi nei pensieri, negli sguardi, negli atteggiamenti, nei gesti e nelle parole… Magari fossimo così luminosi! Ma questo non è un maquillage! Viene da dentro, da un cuore immerso nella fonte di questa gioia, come quello di Maria Maddalena, che pianse per la perdita del suo Signore e non credeva ai suoi occhi vedendolo risorto. Chi fa questa esperienza diventa testimone della Risurrezione, perché in un certo senso è risorto lui stesso, è risorta lei stessa. Allora è capace di portare un “raggio” della luce del Risorto nelle diverse situazioni: in quelle felici, rendendole più belle e preservandole dall’egoismo; in quelle dolorose, portando serenità e speranza». lleluia. Alleluia. Buon cammino verso la nostra risurrezione.

isorgere con Gesù, luce del mondo

zione di Gesù che, nel Vangelo di Giovanni, coincide con la sua morte di croce. Il Cristo che dona la vita è colui che ci seduce con l’amore che perdona e si effonde sino al dono di sé, della vita che muore. D’altronde, senza questa morte del Figlio non ci sarà per l’umanità alcuna redenzione. Chi desidera incontrare Gesù resta scandalizzato: egli si mostra nello stato di passione e non di gloria terrena, rilevando il suo stato debole, quello più affascinante e seducente: l’agape come dono di sé. Chi è Gesù? È uno che sta per perdere la vita e che non ci attira a sé con effetti speciali o proposte seducenti, ma con l’amore che diventa servizio, passione, dono. Gesù è in attesa dell’ora della sua glorificazione, e l’innalzamento della croce avrà

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Compie i 90 anni LS 19 UâÉÇ vÉÅÑÄxtÇÇÉ4

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Ravello, presso la biblioteca di san Francesco del convento “che guarda il mare” (la foto che pubblichiamo risale proprio a quegli anni) sabato 27 giugno è in programma una Giornata di studio che vuole ripercorrere questa lunga stagione di vita socio-politica, ecclesiale- francescana, culturale- editoriale e il contributo che la rivista francescana del Mezzogiorno d’Italia ha saputo interpretrare ed incidere sulla vita ecclesiale e civile del Paese.

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cultura religiosa

Scegliere il battesimo ANDREA GIUCCI ESPERTO DI CATECHESI

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uando nasce un bambino i doni, giustamente, abbondano. La stanza della neo mamma subito si riempie di fiori e l’angolo o l’armadio del neonato è immerso da pacchi e pacchetti, vestitini, giochini, pupazzetti e quant’altro può significare la gioia per la nascita di una nuova vita. A ben pensare, questi regali arrivano secondi rispetto al dono della vita che i due genitori fanno al proprio bambino e ai moli altri ad esso connesso. Al proprio figlio che nasce due genitori consegnano infatti un mondo e un futuro da vivere, un affetto che lo circonda e lo sostiene, una casa che lo accoglie. Ogni nascita è accompagnata, tranne casi eccezionali e fortunatamente assai rari, da una sostanziale iniezione di fiducia: mettendo al mondo un figlio, suo padre e sua madre gli annunciano che questo mondo, pur con tutti i problemi che lo segnano, merita di essere vissuto. Il bambino dal primo giorno della sua esistenza percepisce questo sguardo positivo sulla realtà, certo non con parole e riflessioni, bensì sperimentando il calore degli abbracci, il cibo che non viene meno, la cura amorevole di uomini e donne che gli vogliono bene e di cui impara, giorno dopo giorno, a fidarsi. Anche i genitori e tutti i familiari non sempre sono pienamente consci di questo grande messaggio di speranza e fiducia che trasmettono al nuovo nato: tutto avviene quasi naturalmente e spesso dentro una fretta e una preoccupazione carica di affetto che, improvvisamente, occupa la vita intera di genitori, soprattutto le notti felicemente e stancamente insonni. C’è di più. Accanto all’apertura fiduciosa al mondo, i genitori e l’intera famiglia offrono ai nuovi nati un manuale, una bussola con cui orientarsi e abitare umanamente il mondo: una cultura, delle domande, un linguaggio con cui esprimerle, delle tradizioni, una storia, anche una fede religiosa che anima le loro vite. È questo il desiderio che spesso abita il cuore dei genitori quando chiedono il battesimo per il loro figlio: “vogliamo che anche tu possa vivere la tua vita in compagnia del Signore, sotto la sua protezione, sulla

strada che lui ha indicato”. Fino a pochi anni fa, la scelta del battesimo era scontata, addirittura da realizzare nel giorno stesso della nascita, magari addirittura in ospedale. In alcuni casi l’urgenza era provocata da qualche aspetto vagamente magico o dettato dalla paura che un bambino, morto improvvisamente senza battesimo, non sarebbe andato in paradiso ma in quella cosa strana che si chiamava limbo. In realtà, già da diversi anni la chiesa ha riconosciuto ufficialmente che questa dottrina rispecchiava una visione troppo restrittiva della salvezza per i bambini non battezzati e l’ha abbandonata. Non è però questo cambiamento che ha fatto saltare la normalità del battesimo di un bambino. In grandi città come Milano, ad esempio, si calcola che quasi un bambino su tre non viene battezzato, ma anche in altri contesti questa scelta non è più automatica: i genitori sembrano perplessi, si interrogano se è giusto compiere questo gesto o se non è meglio lasciare scegliere ai figli quando diventeranno grandi. Altre volte il battesimo si celebra, ma più che per una fede religiosa, lo si sceglie per convenzione sociale o per fare contenti i nonni che ci tengono particolarmente fino, in qualche caso, a minacciare qualche piccola ritorsione. In realtà le domande e i dubbi sulla scelta di battezzare un figlio possono essere occasione di crescita importante e non vanno mai evitate o liquidate troppo velocemente. È una grazia che due genitori si interroghino su cosa vogliono consegnare e regalare a loro figlio, ed è grazia ancor più grande che, ragionando sul battesimo del bambino, di fatto si interroghino sul posto della fede nella loro vita personale e di coppia, magari riscoprendone l’urgenza anzitutto per loro. Il motivo più vero per cui qualche genitore sceglie di non battezzare il figlio è, in realtà, proprio il fatto che la fede non è più per lui esperienza essenziale e portante della vita: un genitore infatti non rinuncia mai a comunicare al proprio figlio le cose che ritiene veramente importanti della sua vita. 86


Settant’anni fa 10 febbraio 1945 Giovanni Palatucci moriva a Dachau da Roma

GIOVANNI PREZIOSI STORICO

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l 10 febbraio di settant’anni fa, dopo essere stato arrestato dalla Gestapo nel suo appartamento, nel campo di concentramento di Dachau moriva l’ex questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci, nipote esemplare di Mons. Giuseppe Palatucci, Vescovo di Campagna e dei fratelli religiosi francescani conventuali Antonio e Alfonso, Palatucci, rispettivamente ministri provinciali della provincia di Napoli OFMConv.. Giovanni si sarebbe potuto salvare se solo avesse ceduto alle forti pressioni esercitate nei suoi confronti da alcuni amici, ma non lo fece perché, come scriveva egli stesso ai genitori l’8 ottobre 1941, aveva ancora la «possibilità di fare un po’ di bene». In quel momento, evidentemente, rappresentava l’unica ancora di salvezza per tanti perseguitati. Tra coloro che beneficiarono del suo aiuto, la famiglia di Clotilde (detta Lilly) Sachs de Grič, sorella di un suo caro amico, l’avvocato Niels Sachs de Grič, persona molto nota nella città quarnerina, nonché legale della curia fiumana e, fin dal 1921, anche consulente della Segreteria di Stato. La sorella Lilly, vedova di Milan Kremsir, a quel tempo, viveva a Fiume in via XXX ottobre 17, con i suoi due figli Boris, procuratore legale a Sušak, e Xenia che aveva sposato Alexander Salomon Lipschütz, rampollo di una famiglia ebrea di origini polacche e amministratore delegato dell’azienda paterna dedita all’esportazione di legnami. I due avevano un bimbo, Igor, nato il 15 agosto 1938. Come risulta dai documenti rinvenuti nell’archivio di Stato di Fiume, Lilly Sachs de Grič - Kremsir, in più di una circostanza — come ad esempio il 29 giugno 1942 e il 5 luglio 1943 — si era rivolta a Palatucci. Gli chiedeva dei lasciapassare che consentissero a lei e al figlio Boris di accompagnare il nipotino Igor presso la clinica del professor Delić a Padova, per essere sottoposto a una visita pediatrica, e poi, eventualmente, a Montecchio Maggiore (paesino in provincia di Vicenza). Qui

infatti, dopo essere stati sfollati da Fiume a Pazzon, frazione di Caprino Veronese, avevano trovato rifugio, sotto mentite spoglie, nell’abitazione di Giuseppe Priante il fratello e la sorella del genero, Jankiel e Carol Lipschütz. «Mia madre — dichiara la figlia, Rosana Rosatti — mi raccontava che quando il fratello Jankiel era in prigione a Fiume, proprio grazie all’intercessione di Palatucci, usufruiva di alcune facilitazioni, ma non solo. Un giorno, appena venne a sapere che la Gestapo era sulle loro tracce, chiamò mia madre e le fece capire chiaramente quali erano i piani dei nazisti: se volevano salvarsi, avevano pochissimo tempo per fare i bagagli e lasciare Fiume seguendo le sue indicazioni». Qualcosa del genere accadde anche ai componenti della famiglia Kremsir tant’è che, mentre si accingevano a partire per l’Inghilterra, a un tratto si verificò qualcosa d’imprevisto che li costrinse a cambiare i loro piani. Bisognava trovare al più presto un nascondiglio sicuro ed è qui che entrò in gioco il giovane funzionario della questura di Fiume, il quale subito contattò, nel più stretto riserbo, il colonnello Luzzi originario di Torino. Questi gli consigliò di trasferire la famiglia Kremsir a Cavaglià, nel Biellese, presso l’abitazione di

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storia

Tra i perseguitati che aspettavano di varcare il confine


una sua cognata, Rosetta Visconti. Il viaggio presentava notevoli rischi: Palatucci decise di affidare il delicato incarico ad Americo Cucciniello, suo braccio destro. Difatti in quel periodo spesso accompagnava le famiglie di ebrei in pericolo di essere internate dai tedeschi nei lager verso l’interno dell’Italia, presso monasteri, istituti ecclesiali, altre persone amiche private. «In particolare — come racconterà egli stesso diversi anni dopo — ricordo un episodio: la famiglia ebrea Sachs, composta dalla signora Lilly, da un fratello Boris e da un bambino, Igor, che fu da me accompagnato su esplicito ordine del dottor Palatucci, a Cavaglià per rimanere nascosti presso una famiglia di amici». Qui i Kremsir vissero per ben due anni nel più stretto riserbo, tant’è che — come conferma Carla Forzani, a quel tempo giovane domestica della famiglia Visconti — in paese nessuno sapeva di loro, eccetto lei e il parroco, don Amilcare Garbaccio. «Ricordo — dichiara Carla Forzani — che in quel periodo i tedeschi sono venuti per lo meno tre volte a ispezionare la casa dove, tra l’altro, erano rifugiati anche un colonnello e un altro militare fuggiti da Fiume con le loro mogli. Battevano forte sulle pareti e sul pavimento per sentire se c’erano dei vuoti. Appena ci accorgevamo che stavano per arrivare, avvertivamo i rifugiati cosicché, in un batter d’occhio, s’infilavano in uno sgabuzzino e correvano a nascondersi sotto il tetto, dove restavano sdraiati finché il pericolo non fosse scampato. La signora Lilly, invece, rimaneva in fondo alla camera in una stanzetta e si metteva lì a stirare facendo finta di niente». Appena terminarono le ostilità i Kremsir, dopo un breve soggiorno a Roma, raggiunsero a Londra Xenia che, insieme al marito, era ormai riuscita a ottenere la naturalizzazione inglese rinunciando anche al cognome originario per assumere quello di Lester. Che l’attività di Palatucci in quel periodo fosse molto intensa lo testimonia anche Americo Cucciniello quando afferma che, prima dell’armistizio, per facilitare i contatti e per presentare persone, veniva in ufficio il rabbino Deutsch, che faceva da intermediario per

ebrei giunti dalla Germania e da tutto l’Est europeo, per i quali «si aveva particolare attenzione nel favorire il lasciapassare verso la libertà o verso i Paesi liberi». Tutto ciò trova puntuale conferma anche dal racconto di Franco Avallone, figlio della Guardia Scelta di P.S. Raffaele Avallone, stretto collaboratore di Palatucci, il quale riferisce un interessante episodio con protagonisti il giovane funzionario dell’ufficio stranieri della questura di Fiume, la madre Anna Casaburi e l’allora rabbino di Sušak, nonché referente locale della Delasem, Otto Deutsch, che a quel tempo si prendeva cura dei profughi ebrei provenienti dalla Croazia in seguito all’emanazione delle leggi antisemite a opera del poglavnik ustaša Ante Pavelić. «Ricordo — dichiara Avallone — che mio padre spesso usciva con Palatucci per organizzare il salvataggio di molte persone, per la maggior parte ebree, cercando di trovare una sistemazione per poi smistarle in altre città d’Italia, dove poteva contare su riferimenti sicuri. In seguito anche mia madre fu coinvolta nel salvare numerosi ebrei. Infatti, secondo la versione ufficiale, spesso si recava a Sušak per acquistare delle primizie agricole provenienti dalle campagne circostanti, ma in effetti lo scopo principale era quello di conoscere quanti ebrei aspettavano di varcare i confini con l’Italia. Nella zona di Sušak operava il rabbino Deutsch che era un punto di riferimento importante per gli ebrei dei Paesi dell’Europa orientale. Il commissario Palatucci aveva creato con lui, attraverso una rete di amici comuni, una strada per salvare tanti ebrei dai campi di sterminio». Per questo, il 21 giugno 1941 aveva fatto rilasciare dalla questura di Fiume alla moglie del suo collaboratore una tessera di frontiera per il confine jugoslavo. Tali particolari rispecchiano fedelmente ciò che scrisse in una lettera inviata il 29 giugno 1945 alla prefettura di Firenze il figlio del rabbino di Fiume, Bernardo Aronne Wachsberger. Questi, dopo essere stato fermato dalla questura di Roma nel settembre 1940, a causa della carta d’identità scaduta (che non aveva rinnovato di proposito per non essere scoperto e internato come i suoi familiari), quando quest’ultima richiese informazioni sul suo conto alla questura di Fiume, «ebbe la somma fortuna che il funzionario di quella questura (la quale persona, di animo squisitamente elevato, risulta ora insignito di molte benemerenze dalla comunità israelitica di Roma e dall’ufficio della Delasem per aver salvato molte persone dal campo di c.) appena ebbe in mano l’incartamento trovò il modo di salvarlo mandandolo, prima a Viterbo poi a Firenze come internato libero». 88


da Roma

MOHAMMAD DJAFARZADEH ARCHITETTO

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a quando l’uomo primitivo per la prima volta trasforma una grotta in un luogo per sfuggire dalle intemperie e protetto dai pericoli per la sua vita, da allora è nato il concetto della casa. Sono passati magliai di anni da quel giorno ma il problema di un tetto sulla propria testa è ancora irrisolto. Viviamo in cinque continenti dove innumerevoli aspetti della natura in ogni uno di loro ha determinato tecniche e soluzioni diversi nel costruire la casa. Queste tecniche, da adobe o mattoni cotti al sole utilizzate nei territori aridi, alle strutture in legno e in pietra, in ferro e in cemento armato o palafitte, progredite poi nei secoli, tutti in un modo all’altra tentarono di migliorare il benessere dell’uomo, ma nessuno di loro ha risolto Il problema casa. Dalle singole abitazioni siamo passati ai palazzi di più piani che contengono numerosi appartamenti; poi, centri residenziali, città satellite, grattaceli e infinite tipologie urbanistiche. M. dopo tutto questo, sono ancora milioni e milioni di persone senza casa. Spesso ci chiediamo come mai, malgrado, una incessante costruzione di case non si arriva ad una soluzione definitiva della casa. Dalla formazione delle prime comunità agricole in diverse parte del mondo due aspetti fondamentali hanno caratterizzato il potere economico e quello politico, si tratta dell’acqua e della terra. Il feudalesimo era basato in varie parte del mondo a secondo dell’abbondanza dell’acqua e della scarsità della terra e viceversa. Infatti

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era il feudo che costruiva le case per i suoi sudditi, poi, all’inizio dell’era industriale fu il padrone della fabbrica che costruiva gli alloggi per suoi operai. Questo impegno da parte del feudo e dell’industriale, di fatto, tendeva da un lato alla comodità dei loro dipendenti e dall’altro per farli stare vicino al luogo di lavoro. Ma, in seguito allo sviluppo industriale e l’aumento degli operai anche questa prassi è terminata. Infatti, per diversi anni questo compito è passato allo Stato che iniziava a costruire le case cosiddette popolari: in Italia prima Gescal poi Iacip costruivano dei ghetti nelle periferie delle città grandi, dando inizio a un nuovo disaggio chiamato il pendolarismo. Sono oramai una decina di anni che lo Stato ha messo fine anche a questa attività abbandonando il ceto maggioritario della popolazione nelle mani di speculatori e costruttori senza scrupolo che hanno provocato un mercato immobiliare impazzito e prezzi inavvicinabili perfino per ceto medio. Da tempo siamo testimoni di una crescita a dismisura delle città con delle periferie prive di servizi e di infrastrutture con milioni di persone che ogni giorno devono raggiungere il loro posto di lavoro con automobile, autobus, treni e metropolitane, con una costo a capogiro per la comunità e un risultato catastrofico dal punto di vista ambientale. Cosi “casa dolce casa” tartassata dalle tasse e le spese di mantenimento si è trasformata in un inferno. Non so quando e chi prenderà in mano questo primaria esigenza dell’uomo, tenendo presente che un corretto sviluppo urbano, la creazione delle infrastrutture e i servizi per i cittadini, oltre tutto, è anche un manforte alla soluzione del male più drammatico dei nostri tempi “la disoccupazione” e quindi “la disperazione” che offende la dignità dell’uomo.

architettura

Casa dolce casa


Arte

Venanzio Manciocchi e l’avvertimento del sacro

da Napoli

GIORGIO AGNISOLA SCRITTORE E CRITICO D’ARTE

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a pittura di Venanzio Manciocchi è sopra tutto spirituale e sensitiva. L’artista recupera nel vedere una dimensione del sentire profondamente connessa con un percepire interno, riflesso in una condizione d’anima. Nasce di qui il suo impegno nel sacro. Egli non elabora forme simboliche tradizionali o narrative, ma punta ad una primigenia percezione dell’oltre. E’ come se Manciocchi avesse progressivamente affinato lo sguardo fino a cogliere nella materia quei passaggi che legano direttamente il visibile all’invisibile. In questa chiave gli stessi riferimenti al credo cristiano, ai crocifissi soprattutto, emergono come dal profondo di una dimensione intuitiva, sono improvvise apparizioni. La cifra stilistica del suo registro può dirsi informale, con una forte evidenza materica, ma all’origine della sua pittura c’è un bisogno rivelativo, una necessità di ricomporre una dimensione dell’immaginario in una precisa e meditata visione. Così il Cristo è segno di luce che squarcia le tenebre, corona che gronda sangue, sciabola di materia splendente che trafora lo spazio, colore che profuma di infinito. A ben guardare non c’è inseparabile distanza tra i paesaggi naturalistici dell’artista, quelli della sua terra pontina, e le immagini religiose. Nel paesaggio di Manciocchi c’è tutto: il dolore della ferita al ventre della terra come la musica del mistero che trama ombre e luci e si fa attesa, speranza di un oltre immanente e indicibile. Tutto sembra comporsi sulla tavola dell’anima. Con devozione. E tutto sembra ricondursi nel suo lavoro ad un principio di bellezza sognata e intravista. Che s’impasta di materia, quella visionaria dell’artista credente che guarda con fede ai confini della vita. 90


NAPULE E’.. NAPULE E’ MILLE CULURE NAPULE E’ MILLE PARURE NAPULE E’ A VOCE D’’E’ CRIATURE CHE SAGLIE CHIANO CHIANO

Il malore nella casa in Maremma, il viaggio dispettao verso roma: il cuore di Pino Daniele, 59 anni, una delle voci più amate di Napoli e d’Italia, ha ceduto domenica sera 4 gennaio 2015 . Solenni esequie al san-

tuario mariano del divino amore e in piazza del Plebiscito a Napoli. Poi l’omaggio al Castel dell’Ovo. Meta di pellegrinaggio i luoghi del “mascalzone latino”, Ciao Pino, orgoglio e voce di Napoli nel mondo.

LACRIME E TESTIMONIANZA “NON CI LASCEREMO MAI!” PASQUALE SQUITIERI - REGISTA Non meritavo questo da te, Pino. Per anni, da quello del tuo esordio (“ ‘na tazzulella ‘e cafè”) mi hai sempre informato della tua vita, dei tuoi successi, delle tue vittorie conquistate in tutto il mondo, attraverso le tue canzoni. La tua voce non ha simili e i messaggi che inviavi, mi inorgoglivano per la forza e la fragilità della nostra grande cultura che spandevi in tutte le capitali del pianeta. Alle ingiurie di storici e denigratori, tu opponevi il fascino, l’emozione della nostra Napoli, che “santificavi” con “Napul’è”… Come tanti, ti amo e non meritavo che il tuo ultimo messaggio fosse così doloroso. Un messaggio che ti allontana da me, per sempre. Non mi resta che raccogliere gli altri e riascoltarli, nei giorni della tua assenza. Solo così non ci lasceremo mai.

Un artista unico, un leader incontrastato, un genio che ha saputo fondere la grande tradizione della canzone napoletana con le sue passioni, ovvero blues, jazz, soul e funky. Un punto di riferimento per tutti, come testimonia Paola, grandissima fan dell’artista napoletano: “Il vuoto che lascia la scomparsa di Pino è lo stesso di Eduardo De Filippo, di Totò, di Troisi. Lui ha incantato e fatto sognare intere generazioni, raccontando con semplicità e con un velo di malinconia la vita. La sua voce era inconfondibile, la sua chitarra ineguagliabile. Le sue canzoni resteranno per sempre nei nostri cuori, perché Pino era ‘tutta n’ata storia’...Grazie, Pino”. Paola e Giacomo

IL CINEMA DI ROSI E IL RACCONTO DEL MEZZOGIORNO È morto a Roma sabato 9 gennaio il regista napoletano Francesco Rosi, autore di capolavori come Salvatore Giuliano (1962); La mani sulla città (1963) ; Uomini contro (1970); Il Caso Mattei (1962); La tregua (1997). Ambientato a Napoli nell’anno 1963, il film “Le mani sulla città” è una spietata denuncia della corruzione e della speculazione edilizia dell’Italia e di Napoli in particolare. Questa la didascalia del film: “I personaggi e i fatti narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Purtroppo, dopo, 50 anni e passa, il discorso graffiante di Rosi è ancora attuale.

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musica

Pino Daniele “Tutta n’ata storia...”


In li

bre

La santità raccontata

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CARD. JOSÉ SARAIVA MARTINS, LA SANTITÀ NASCONO PER NON MORIRE, LIBRERIA EDITRICE VATICANA 2014, P. 654, 22 EURO È POSSIBILE.

RAFFAELE DI MURO CONSULTORE DELLA CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI

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l cardinale José Saraiva Martins ha pubblicato un interessante volume di ben 654 pagine dal titolo “La santità è possibile. Nascono per non morire”. L’edizione è stata curata dalla prestigiosa Libreria Editrice Vaticana. Siamo certi di essere al cospetto di un’opera poderosa sotto il profilo della sua caratura teologica perché è frutto di anni di esperienza e di lavoro a stretto contatto con la santità da parte dello stesso autore, per oltre dieci anni prefetto della congregazione della cause dei santi. Nell’introduzione del libro, il cardinale parla della santità proposta dalla Chiesa in questi termini: «Quanto più si fanno scure le nubi della congiuntura economica, conseguenza di una crisi ancor più profonda e antropologica, tanto più abbiamo bisogno di rinnovare il balsamo della speranza e della fiducia. La Chiesa lo ha sempre rilan-

ciato questo balsamo e continua a farlo, nella convinzione che la possibilità di vederci felici - beati - poggia essenzialmente sulla fiducia in Lui. […] Le biografie dei santi presentano uomini e donne che si sono destreggiati tra difficoltà insormontabili, uscendone però sempre a testa alta, soprattutto per avere confidato nella Divina Provvidenza» (Introduzione). Tra le righe di questo libro emerge il cuore del Cardinale. Egli ha svolto con passione e determinazione il mandato di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e “sente” le figure delle quali si è occupato come “sue”. Quando si incontra Sua Eminenza e a lui si ricorda il suo passato al lavoro con le cause di beatificazione e canonizzazione, egli precisa subito il numero di santi che il Santo Padre ha proclamato durante il suo servizio in Dicastero.

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da Napoli

GIACOMO AURIEMMA GIORNALISTA SPORTIVO

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o scorso 2 febbraio, precisamente alle ore 23, si è conclusa una delle sessioni di calciomercato più brutte di sempre. Nel grigiore generale di prestiti e parametri zero, di svendite e clamorosi ritorni, la nostra serie A ha dato l’addio all’ennesima stella: Cuadrado. L’esterno della Fiorentina si è trasferito al Chelsea per 33 milioni di euro, mica bruscolini. Una deriva inarrestabile, una vera e propria fuga di talenti, che affonda le sue radici nella crisi economica del sistema italiano. Perché all’estero ci sono società in

CRISTIANO RONALDO E IL PALLONE D’ORO 2014

NAPOLI LA SECONDA SUPERCOPPA Il Napoli si regala dopo 24 anni la seconda Supercoppa italiana. Nella cornice dell’ Al Sadd Stadium di Doha, gli azzurri superano la Juventus ai calci di rigore al termine di una gara spettacolare e ricca di emozioni. Protagonisti assoluti della sfida Higuain e Rafael: l’attaccante argentino ha messo a segno una splendida doppietta, mentre il portiere brasiliano ha ipnotizzato Chiellini e Padoin dagli 11 metri. La Juve torna a casa tra mille recriminazioni, ha giocato complessivamente meglio nell’arco dei 120' e comandato le operazioni, ma alla fine ha vinto la squadra che ci ha creduto di più. Complimenti al Napoli.

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È il più forte di tutti, per il secondo anno consecutivo. Cristiano Ronaldo si aggiudica il Pallone d’Oro 2014, precedendo Lionel Messi (Barcellona) e Manuel Neuer (Bayern Monaco). L’asso portoghese del Real Madrid è stato incoronato a Zurigo per la terza volta in carriera, ma non intende assolutamente fermarsi qui: “Spero di eguagliare Messi, magari già nel prossimo anno”. Sarà ancora una volta lui il più forte di tutti?

sport

Ma, il finale sembra già scritto

grado di pagare il doppio, se non il triplo degli ingaggi, mentre in Italia le risorse a disposizione sono quelle che sono e si bada solo a raddrizzare i bilanci. Come da copione, sono sbarcati in serie A tantissimi giocatori stranieri, tra vecchie glorie e perfetti sconosciuti. Perché le nostre società credono poco nei vivai e nel settore giovanile e preferiscono puntare su calciatori di cui si ignora addirittura la provenienza. Ma c’è bisogno di un cambio di regole e di mentalità perché numericamente gli stranieri hanno avuto il sopravvento sui nostri e quindi anche la Nazionale ne risente in negativo. Occorre unione reciproca. La stessa che ha permesso alla Juventus di laurearsi campione d’inverno, per il quarto anno di fila. La Roma arranca sempre di più, ma il giovane Verde di Pianura entrato a Cagliari inizia a fare subito i miracoli. Milan e Inter sono ormai le lontane parenti delle grandi squadre apprezzate fino a qualche stagione fa, mentre il Napoli è in netta ascesa. Siamo appena al giro di boa e mancano ancora altre domeniche per raggiungere il traguardo. Ma,il finale sembra già scritto...


E V E N T I 2015

Caserta incontro ecumenico in cattedrale. 22 gennaio 2015

Promessa dell'eccomi, Maddaloni, 1 marzo 2015

Melfi, anniversario ordinazione sacerdotale di fra Raffaele Ricciardi, 29 dicembre 2014

Animazione di piazza a Napoli con i giovani chierici del Seraphicum 19 febbraio 2015

Week-end vocazionale con i giovani a Benevento, 22 febbraio 2015

Incontro di formazione a Nocera Inferiore (Sa), 5 febbraio 2015 Celebrazione per i 20 anni della presenza dei frati a Salerno, 26 febbraio 2015

Incontro dei guardiani del Sud ad Amantea, 13 gennaio 2015

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Processione mariana nel chiostro di Benevento, 11 febbraio 2015


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