Aprire gli occhi di fronte alla verita

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Numero 2/2012 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica Aprire gli occhi di fronte alla verità

L’Italia La crisi della Grecia e il rapporto Istat

I dieci punti del dialogo

L’arte e la via Il senso della nuova della bellezza evangelizzazione



Editoriale

Sommario 2/2012 4 5 6 8 9 10 12 14 20 22 23 24 28 32 33 35 37 40 41 42 44 45 46

Editoriale di Edoardo Scognamiglio Finestra sul mondo di Giuseppina Costantino Il Punto di Filippo Suppa Politica-Economia di Vienna Iezzi Psicologia di Caterina Crispo Costume-Società di Carmine Vitale Dialogo di Pietro Manna Voci di Chiesa La Redazione Speciale arte e teologia La Redazione Liturgia di Annunziata Spinazzola Orizzonte Giovani di Luca Baselice L’intervista di Giambattista Buonamano Omelia di Giuseppe Falanga Credere Oggi di Pietro De Lucia Spiritualità di Clara Fusciello Asterischi francescani di Orlando Todisco Pastorale di Antonio Vetrano Approfondimenti di Edoardo Scognamiglio Arte di Paolo D’Alessandro Un po’ di storia di Agnello Stoia Eventi La Redazione Sport La Redazione Cinema di Giuseppina Costantino In book La Redazione

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Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana. Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006. Anno VII – n. 2/2012 Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro – e-mail: pdart@libero.it

Abbonamento annuale 20 euro CCP: 11298809, intestato a E. Scognamiglio, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli Clausola: abbonamento Luce Serafica 3

Aprire gli occhi di fronte alla verità e guardare fuori di sè

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sistono ancora i mercati? Ci sono ancora vere e proprie contrattazioni che permettono di spostare ricchezza a vantaggio dei più capaci e lungimiranti? I mercati sono ridotti ad algoritmi di computer iper-performativi che spostano virtualmente iperboliche quantità di danaro nel tempo di un nano secondo e realizzano, magari, minuscoli guadagni ripetuti all’ennesima potenza in ossequio alla logica del profitto senza limiti e scrupoli di sorta. I politici di tutti i Paesi del Pianeta, inclusi quelli sedicenti democratici, celebrano la loro impotenza facendo finta di essere seri e preoccupati: in realtà, rappresentano – come dei semi guitti – l’impotenza della politica e la crepuscolare agonia dell’ideale democratico. La crisi economica mondiale è il risultato di precise azioni umane e continua a flagellare la vita delle persone più indifese. Ci sono dei responsabili precisi. Nell’ordine: i centri dei poteri bancari e finanziari, i cosiddetti mercati e i politici che, invece di essere al servizio dei cittadini, servono interessi privati dei potentati economici con leggi varate a misura dei loro desiderata. Le conseguenze colpiscono i ceti deboli di tutti i Paesi e si accaniscono contro gli anelli più fragili della catena come la Grecia. Fra tutti i politici dell’Occidente, i nostri, nella stragrande maggioranza, brillano per il guiness della mediocrità ma, soprattutto, per la totale assenza di senso della vergogna. La gravissima crisi, in Italia, si accoppia negativamente con la paurosa corruzione, con la paralisi della giustizia, con lo strapotere della malavita. Le ultime elezioni segnalano la la crisi endemica dei partiti, la fuga dell’elettorato con il contestuale trionfo della politica senza i “politici”. Ma nessuno dei politici mostra di volersi ritirare e in televisione continuano a pontificare come se niente fosse. Senza vergogna. Per uscire dalla crisi non c’è che una sola via: aprire gli occhi di fronte alla verità, uscire dall’ipertrofia del soggetto. Bisogna guardare fuori di sè alla verità delle cose e misurarsi con la realtà dell’altro, sia prossimo e immediato, che trascendente e sovrano. P. Edoardo Scognamiglio Ofm Conv.


FINESTRA SUL MONDO di Giuseppina Costantino

Il terremoto in Emilia Romagna Aiutiamo gli sfollati con la nostra solidarietà

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salito a circa 7000 il numero degli sfollati nei Comuni colpiti dal sisma. Lo comunica l’Agenzia regionale di protezione civile. A fronte delle nuove richieste di assistenza avanzate dai cittadini, è stato necessario ricorrere a 4 nuovi moduli da 250 posti ciascuno, forniti dalle Regioni Piemonte, Valle D’Aosta, Liguria e dall’associazione nazionale di Volontariato delle Misericordie. A oggi, dunque, i numeri dell’accoglienza nei Comuni colpiti dal sisma sono i seguenti: 12 campi di accoglienza, 46 strutture di accoglienza al coperto (palestre, strutture comunali ecc.), 14 alberghi. I volontari della protezione vivile impegnati nell’attività di assistenza sono circa 1200, di cui 700 provenienti dall’Emilia-Romagna e 500 da altre Regioni. L’Agenzia regionale di protezione civile sta pianificando le turnazioni per garantire la prosecuzione delle attività di assistenza nei prossimi giorni. Prosegue, intanto, l’attività delle squadre dei Vigili del Fuoco (3000 sopralluoghi e verifiche effettuate sugli edifici) e del Nucleo di Valutazione (cioè le squadre di tecnici della Protezione civile, del Servizio geologico regionale, dei Servizi tecnici di bacini, integrati da geometri e ingegneri volontari di protezione civile) che hanno effettuato un migliaio di accertamenti di agibilità. L’Agenzia regionale di protezione Civile sta definendo un

piano per le opere provvisionali su strutture e infrastrutture pubbliche e private (si tratta di interventi da realizzare in tempi rapidi per garantire la pubblica incolumità e il rapido svolgimento delle operazioni di soccorso), in stretto raccordo con il Dipartimento nazionale di Protezione Civile, i Vigili del Fuoco, i Sindaci, i Centri coordinamento soccorsi, i Centri unificati provinciali di protezione civile. La Regione Emilia-Romagna sul proprio sito web ha reso note le modalità attraverso le quali cittadini ed enti potranno versare contributi in denaro a favore delle popolazioni dell’Emilia colpite dal terremoto. Si possono usare, a scelta, i seguenti canali: – bonifico bancario alla Unicredit Banca Spa Agenzia Bologna Indipendenza – Bologna, IBAN coordinate bancarie internazionali: IT – 42 – I – 02008 – 02450 – 000003010203; – versamento diretto presso tutte le Agenzie Unicredit Banca Spa sul conto di Tesoreria 1 abbinato al codice filiale 3182. – versamento sul c/c postale n. 367409 intestato a: Regione Emilia-Romagna – Presidente della Giunta Regionale – Viale Aldo Moro, 52 – 40127 Bologna. Il versamento dovrà essere accompagnato dalla causale: Contributo per il terremoto 2012 in Emilia-Romagna.

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IL PUNTO di Filippo Suppa

QUALE FUTURO PER LA GRECIA? L’IMPORTANTE È RESTARE IN EUROPA

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ogliamo che la Grecia resti nell’Europa, rispettando gli impegni presi». È il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, al termine del vertice Ue di Bruxelles, a riassumere le intenzioni dell’Europa. «Consideriamo la crescita prioritaria, fermo restando l’impegno sulla disciplina di bilancio». Dal Consiglio europeo, ha poi aggiunto il presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso, è stato mandato un messaggio «molto chiaro: staremo al fianco della Grecia come lei starà al rispetto dei suoi impegni». Nella nota sulla Grecia diffusa al termine del summit si sottolinea che l’Eurozona ha dimostrato una «notevole solidarietà» nei confronti di Atene sborsando dal 2010 a oggi, insieme al Fmi, fondi per circa 150 miliardi di euro. Ed è pronta ad assicurare che i fondi strutturali e gli altri strumenti siano mobilitati per riportare la Grecia sulla strada della crescita e della creazione di posti di lavoro. Andare avanti realizzando «vitali riforme», sostenendo gli investimenti privati e rinforzando le istituzioni è la «migliore garanzia» per un «futuro prospero» della Grecia nella zona euro. «Ci aspettiamo – conclude la dichiarazione – che dopo le elezioni il nuovo governo greco faccia questa scelta». La crisi economica della Grecia è parte della crisi del debito sovrano europeo. A partire dalla fine del 2009, i timori di una crisi del debito sovrano sviluppati tra gli investitori sulla capacità della Grecia nel rispettare gli obblighi di debito, a causa della forte crescita del debito pubblico. Questo portò a una crisi di fiducia, indicata da un allargamento

dello spread di rendimento delle obbligazioni e il costo di un’assicurazione contro i rischi su credit default swap rispetto agli altri paesi della zona euro, soprattutto la Germania. Il declassamento del debito pubblico greco a junk bond nell’aprile 2010 ha creato allarme nei mercati finanziari. Il 2 maggio 2010 i paesi dell’Eurozona e il Fondo Monetario Internazionale hanno approvato un prestito di salvataggio per la Grecia da 110 miliardi di euro, subordinato alla realizzazione di severe misure di austerità. Nell’ottobre 2011, i leader dell’Eurozona hanno deciso di offrire un secondo prestito di salvataggio da 130 miliardi di euro per la Grecia, condizionato non solo dall'attuazione di un altro duro pacchetto di austerità ma anche dalla decisione di tutti i creditori privati per una ristrutturazione del debito greco, riducendo il peso del debito previsto da un 198% del PIL nel 2012 a solo 120,5% del PIL entro il 2020. La seconda operazione di salvataggio è stata ratificata da tutte le parti nel febbraio 2012, e venne attivato il mese successivo, quando è stata soddisfatta l’ultima condizione del piano di ristrutturazione del debito di tutti i titoli di stato greci. Il piano di salvataggio più recente è impostato per coprire tutte le esigenze finanziarie greche nei prossimi tre anni (2012-2014). Se la Grecia riuscirà a soddisfare tutti gli obiettivi economici delineati nel piano di salvataggio, un ritorno pieno all’uso di capitali privati per la copertura di fabbisogni finanziari futuri sarà possibile nuovamente nel 2015.

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POLITICA-ECONOMIA di Vienna Iezzi

Italia: la crisi economica accresce le disuguaglianze sociali Ecco i dati del Rapporto annuale dell’Istat 2012

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’Italia è sempre più vecchia e povera. È un Paese in cui le disuguaglianze sociali ed economiche crescono e giovani e donne sono molto penalizzati. Questo – in sintesi – ci dice il Rapporto annuale dell’Istat 2012 (relativo al 2011). 1. Demografia Sono 59 milioni 464mila i residenti in Italia al 9 ottobre 2011, 2 milioni 687mila in più rispetto al censimento del 1991. Numeri che valgono il quarto posto nell’Unione europea per dimensione demografica dopo Germania (quasi 82 milioni), Francia (65 milioni) e Regno Unito (più di 62 milioni). L’aumento demografico é dovuto quasi interamente agli stranieri residenti, che oggi sono 3 milioni 770mila. Il dato non positivo, però, è che considerando il tasso di crescita naturale, l’Italia mostra una situazione simile a quella della Germania, con un saldo negativo tra decessi e nascite, in particolare al Nord e al Centro. Solo al Sud e nelle Isole il saldo è ancora positivo, ma è comunque in forte contrazione. L’aumento della sopravvivenza

e la bassa fecondità rendono l’Italia uno dei Paesi più vecchi, con 144 persone di 65 anni e oltre ogni 100 con meno di 15, proporzione che era di 97 a 100 nel 1992. In Europa solo la Germania registra un valore più alto. 2. Gli stranieri Gli stranieri sono 3 milioni 770mila, pari al 6,3% dei residenti, percentuale non molto distante da quella di alcuni grandi Paesi di più consolidata tradizione immigratoria. Il 50% degli stranieri proviene da cinque paesi: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Aumenta l’integrazione: quasi la metà dei cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti ha un permesso a tempo indeterminato. I matrimoni con almeno uno sposo non italiano sono più di 25mila nel 2010 (l’11,5% di tutte le celebrazioni), più che raddoppiati dal 1992. Parallelamente le acquisizioni di cittadinanza per naturalizzazione e matrimonio (circa 40mila nel 2010) sono decuplicate rispetto al 1992. I nati in Italia da almeno un genitore straniero sfiorano i 105mila nel 2010, quasi un quinto 6

del totale delle nascite, dieci volte di più rispetto al 1992. 3. I giovani Poco incoraggiante la situazione dei giovani, senza lavoro e costretti a rimanere in famiglia anche fino a 34 anni, perché economicamente non indipendenti. Il 2011 è stato anche l’anno nero della disoccupazione giovanile, che ha raggiunto il 20,2%, ma con fortissime differenze tra Nord, Centro e Sud. Sempre nel 2011, i 1529enni che non studiano e non lavorano sono 2,1 milioni, e il 31,9% di questi vive nelle Regioni meridionali (un valore quasi doppio di quello delle Regioni del Centro-Nord), con punte massime in Sicilia (35,7%) e in Campania (35,2%). 4. Le donne Le donne sono ancora svantaggiate in tutto rispetto agli uomini, nel lavoro e in famiglia. Il rapporto Istat dice che solo in una coppia su venti il lavoro familiare e il contributo ai redditi sono equamente distribuiti. In una coppia su tre la donna non lavora e si occupa


da sola della famiglia, spesso senza avere accesso al conto corrente e senza pesare nelle decisioni importanti. In una coppia su quattro, inoltre, la donna guadagna meno del partner, ma lavora molto di più per la famiglia. Sconfortante il confronto con i Paesi del Nord Europa.

diminuita dello 0,9%, portandosi all’8,8%, il valore più basso dal 1990. Questo perché negli ultimi due decenni la spesa per i consumi è cresciuta molto più del reddito disponibile. Solo dal 2008 questo è aumentato del 2,1% in valori correnti, contro un potere d’acquisto diminuito di circa il 5 per cento.

5. Nuove famiglie I matrimoni sono in continua diminuzione: poco più di 217mila nel 2010, mentre nel 1992 erano 100mila in più. Il rito civile è scelto ormai da quasi il 50% delle coppie che decidono di sposarsi. In compenso aumentano le nuove forme familiari: single non vedovi, monogenitori non vedovi, libere unioni e famiglie ricostituite coniugate. Sono oltre sette milioni di famiglie (il 20% del 2010-2011), circa il doppio rispetto al 1993-1994, per un totale di 11 milioni e 807mila individui. Le libere unioni sono quadruplicate in meno di vent’anni, nel 2010-2011 sono 972mila. Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili, in tutto 578mila, hanno fatto registrare gli incrementi più sostenuti: 8,6 volte in più di quelle del 1993-94.

7. L’economia Il rapporto Istat dice che l’economia italiana è “in brusca frenata”. Il Belpaese è in recessione e ormai il fanalino di coda in Europa, con una crescita del Pil 2011 di solo lo 0,4% (1,5% quest’anno), che non ci consente di recuperare il livello precedente alla crisi del 2008-2009. Il peso dell’economia sommersa sul Pil, sebbene sia in calo grazie alla normativa sul lavoro e alla regolarizzazione degli stranieri, resta comunque sopra i 250 miliardi di euro.

6. Povertà e disuguaglianze Il Sud del Paese è ancora molto più povero del Nord. Nel Mezzogiorno le famiglie indigenti sono 23 su 100, mentre nel Nord sono solo 4,9 (dati 2010). Ciò significa che il 67% delle famiglie e il 68,2% delle persone povere risiedono nelle Regioni meridionali. Nel 2011, inoltre, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è

8. Il lavoro Il tasso di disoccupazione raggiungerà il 9,5% nel 2012 e il 9,6% nel 2013. Il peso degli occupati atipici (dipendenti a tempo determinato, collaboratori o prestatori d’opera occasionale) sul totale degli occupati è in progressivo aumento e soprattutto tra i giovani: ha iniziato con un lavoro atipico, infatti, il 44,6% dei nati dagli anni ‘80 in poi. A dieci anni dal primo lavoro atipico, inoltre, quasi un terzo degli occupati è ancora precario e uno su dieci è senza lavoro. Il passaggio a lavori standard è più facile per gli appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro

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atipico, dopo dieci anni nel 29,7% dei casi è ancora precario e nell’11,6% ha perso il lavoro. 9. La criminalità La lotta alla criminalità sembra essere l’unico ambito in cui la situazione del Paese è migliorata rispetto al passato. Negli ultimi venti anni, infatti, sono diminuiti omicidi (dal 2,6 allo 0,9 per 100mila abitanti), scippi (dal 100,2 per 100mila abitanti a 23,5) e furti in abitazione (da 341,2 a 279,7), mentre le truffe sono più che raddoppiate, passando da 62 reati per 100mila abitanti del 1992 a 159 del 2010. Fra le nuove forme di truffa spiccano la clonazione di carte di credito e bancomat, le truffe telefoniche e il phishing. 10. I rifiuti In Italia si producono 533 kg di rifiuti urbani pro capite all’anno, 23 in più rispetto alla media Ue. Valori superiori alla media nazionale si registrano nelle regioni del Centro (circa 600 kg pro capite), mentre nel Mezzogiorno la quantità è più contenuta (485 kg pro capite). La raccolta differenziata copre in media circa un terzo dei rifiuti urbani. Nel 2010 il servizio è presente in tutti i Capoluoghi, con percentuali di raccolta superiori al 40% al Nord, del 28% al Centro, del 21,3 al Sud e del 15% nelle Isole. Tuttavia, i Comuni che hanno ottenuto miglioramenti più consistenti sono quasi tutti nel Mezzogiorno. Lazio e Campania, comunque, sono le Regioni in cui vivono più cittadini che lamentano il problema della sporcizia nelle strade.


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Il dialogo medico-paziente Umanizzare il dolore e donare speranza

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i umanizzazione, di approccio globale, olistico, di rapporti profondi tra medico – soprattutto se oncologo – e paziente (specialmente se anziano) si sente parlare sempre più spesso. Eppure, stando a diversi studi usciti nelle ultime settimane, la strada da percorrere per giungere a una medicina che sappia farsi carico davvero della persona malata è ancora molto lunga, e non priva di difficoltà. Uno degli aspetti sui quali è più importante agire è l’educazione dell’oncologo all’empatia con il proprio malato: un sentimento presente quasi sempre, ma solo di rado manifestato in modo tale da diventare una risorsa e non una fonte di potenziale burn out. L’ha dimostrato Kathryn Pollak, oncologa della Duke University di Durham, in North Carolina, in uno studio appena pubblicato sul “Journal of Clinical Oncology”, registrando e in seguito analizzando i dialoghi tra 51 oncologi e 270 pazienti dell’età media di 60 anni. La Pollak ha registrato più di 400 videocassette di persone che avevano una malattia in stadio avanzato, e che nella stragrande maggioranza dei casi (oltre il 90 per cento) conoscevano il proprio oncologo già da diversi mesi; quindi, ha raccolto i commenti degli specialisti, due terzi dei quali hanno dichiarato di essere preoccupati soprattutto degli aspetti clinici, confidando al tempo stesso nella propria capacità di entrare in relazione con il malato per quanto riguarda quelli più emozionali, e non pensando di avere particolari difficoltà di ascolto. Ciononostante, in più di tre quarti delle 300 “occasioni empatiche”, cioè nei momenti in cui i malati esprimevano un disagio, una paura,

uno stato depressivo, i medici hanno più o meno bruscamente posto fine alla conversazione, offrendo generiche rassicurazioni per lo più sui dettagli medici. Le situazioni nelle quali gli oncologi sono riusciti ad andare a fondo del disagio, continuando a parlarne, stimolando il malato a esprimere tutto ciò che provava, sono state meno di una su quattro e si sono verificate soprattutto quando il medico era piuttosto giovane e quando aveva dichiarato di porre al centro della terapia anche questi aspetti. Secondo la Pollack, i medici devono essere educati a riconoscere e a rispondere in maniera adeguata ai bisogni psicoaffettivi dei malati; tutti si preoccupano dello stato emotivo del malato, ma pochi sanno come reagire e come comunicare. Per fortuna questo si può imparare, e l’esperienza degli ultimi anni mostra che laddove vi è una didattica specifica i risultati si vedono. Ora, lo studio è entrato in una fase di follow up nella quale agli oncologi è stato dato un CD rom tratto da alcuni corsi affinché imparino a interagire in modo più efficace: si vedrà se, nel tempo, la situazione migliorerà. Del resto, anche la National Breast Cancer Organization statunitense, al recente congresso di San Antonio dedicato al tumore mammario, ha sottolineato la necessità di una formazione specifica per i medici, presentando alcuni dati che descrivono una realtà fatta spesso di incomunicabilità e di scarsa atten8

zione agli aspetti psicosociali della malattia. Quasi 400 donne con un tumore in fase avanzata sono state sottoposte a un questionario; le risposte hanno delineato nei dettagli i bisogni e le paure più diffuse. Infatti, il 94 per cento ha affermato di aver dovuto fare i conti con la fatigue, circa tre quarti (73 per cento) con la depressione, il 67 per cento con disturbi delle funzioni cognitive (il cosiddetto chemo-brain) e più della metà (51 per cento) con disfunzioni sessuali. Per quanto riguarda i timori, in cima alla classifica per un terzo delle intervistate c’erano gli effetti collaterali dei trattamenti, per un altro terzo la paura che essi non fossero efficaci, e per il restante terzo una generica paura dell’ignoto. La fatigue si è rivelata essere l’effetto indesiderato più invalidante per il 30 per cento delle malate, il dolore per il 21 per cento e la perdita di capelli per il 14 per cento. Quanto alle terapie, una donna su cinque si è dichiarata insoddisfatta delle cure ricevute, ben il 73 per cento non era mai stata invitata a parteciare a una sperimentazione clinica e il 36 per cento non riteneva di avere a disposizione opzioni terapeutiche diverse da quelle prospettate dal medico, che nel 41 per cento dei casi sono state dichiarate poco chiare per quanto riguarda finalità e aspettative. Il dialogo medico-paziente è alla base di quel percorso di conoscenza e consapevolezza che porta al ritrovamento dell’equilibrio utile al percorso di guarigione.


CS O

TUME OCIETÀ

di Carmine Vitale

I sapori dell’islam

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a cucina araba ha tre anime che la compongono: ci sono i Paesi del Maghreb, quelli del Medio Oriente e l’Egitto (che può essere considerato il ponte tra le altre due cucine). È ovvio che tra queste realtà culinarie molti sono i tratti in comune, ma molte le differenze, dovute a una serie di fattori storici, economici e culturali. A partire almeno dall’VIII secolo e poi per tutto il Medioevo, il mondo musulmano è stato caratterizzato da una grande mobilità, che ha favorito la diffusione dei suoi costumi, anche alimentari, in tutte le regioni con cui ebbe dei contatti. Nel contempo, gli arabi assorbirono dalle altre culture costumi diversi, l’importante è che essi rispettassero il concetto di halal e di haram, ossia di lecito e di proibito. Due erano i divieti fondamentali: il consumo di carne di maiale (più in generale la carne non macellata secondo le regole rituali) e di bevande alcoliche. Questi veti a ben guardare avevano tutte ragioni igieniche. La cucina era, infatti, per gli arabi strettamente connessa alla salute. Non a caso vi sono numerosi trattati di medicina che dedicano ampio spazio all’alimentazione, dettando regole ancora attuali, come il rispetto della stagionalità. L’alimento principe era rappresentato dalla carne, sopratutto quella di agnello o di montone, raramente di bovino. Gli animali dovevano essere macellati unicamente per sgozzamento ed essere sani e non destinati al lavoro o alla riproduzione. Tutto questo avveniva sotto la sorveglianza di un ispettore, il muthasib, che vigilava sul rispetto delle norme igieniche e sulle frodi alimentari. Diffuso era anche il consumo di cereali, in modo particolare grano e orzo, e importanza fondamentale aveva il pane, che ogni famiglia preparava per il proprio fabbisogno. Erano conosciuti anche il bulgur (grano spezzato) e il couscous, che era una versione meno raffinata di quella attuale. Le popolazioni che vivevano lungo le coste facevano anche grande consumo di pesce. Ma molto apprezzato era anche il pesce d’acqua dolce, anche se ritenuto meno pregiato. Si faceva, inoltre, ampio uso di verdure, legumi (sopratutto lenticchie) e frutta, sia fresca che secca.

Largamente impiegate nella cucina araba erano le spezie che, dato il loro elevato costo, erano appannaggio dei ricchi. Ai meno abbienti erano riservati l’aglio, la menta e l’aneto, diffusamente usati per insaporire diverse vivande. I prodotti caseari, molto apprezzati soprattutto dalle popolazioni nomadi, dedite all’allevamento, furono durante il Medioevo sempre meno utilizzati, anche se il latticello ed il formaggio bianco erano ingredienti usati in parecchi piatti. Si condiva in genere con olio di oliva o di sesamo, ma per cuocere era spesso impiegato il grasso estratto dalla coda del montone. Largamente consumati erano i dolci, tutti a base di miele e frutta secca. I canoni alimentari della cucina islamica moderna non sono molto differenti da quelli in uso nel Medioevo. Inoltre, è doveroso sottolineare che, con l’avvento dell’islam, gli europei, pur continuando a consumare cibi introdotti dagli arabi, come gli agrumi, il riso e i carciofi, cercarono di discostarsi dalle abitudini alimentari di questi ultimi, per sottolineare la loro diversità dai mori, non riuscendo tuttavia ad arginare gli apporti della cucina araba, che tutt’oggi sopravvivono nella nostra. Tra i piatti simbolo di questa contaminazione c’è il couscous, chiamato anche kuskus, seksu, kesksu, cuscus o cuscussu. Il termine, derivante dalla radice kaskasa, che significa “pestare”, indica una preparazione a base di semola cotta al vapore, condita con uno stufato molto speziato a base di carne, pesce e/o verdure. Piatto di antiche origini, molto diffuso nei Paesi arabi del Nord Africa, che tradizionalmente era servito la notte di lunedì e venerdì, come vuole la Sunna. Ben conosciuto in epoca medievale in Occidente, il couscous fu il cibo che permise la sopravvivenza dei prigionieri europei che ebbero la sventura di cadere nelle mani dei corsari arabi. Pilastri della cucina araba sono poi il tè e il caffè, due bevande di cui si diffuse il consumo in Occidente solo nel XVII secolo, mentre in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa erano da secoli popolarissime. In realtà il tè arriva in questi Paesi con le carovane dei mercanti arabi, che arrivavano fino in Cina con i loro commerci.

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DIALOGO di Pietro Manna

Il dialogo è nel Dna di ogni cristiano… Dieci punti da non dimenticare

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o scorso 14 maggio, in occasione della presentazione dei due saggi di p. Edoardo Scognamiglio sul Dialogo, si è svolta una bella giornata di studio tra cristiani e musulmani alla Pontificia Facoltà Teologica di Napoli, sez. S. Tommaso d’Aquino. Nel suo prezioso intervento, il cardinale Crescenzio Sepe, commentando i due testi di p. Edoardo, ha offerto delle suggestioni molto forti circa la natura e i contenuti del dialogo non solo a livello ecumenico e interreligioso, bensì a ogni livello. Ne riportiamo alcuni stralci. Un cristiano non può non dialogare; e, ancor di più, coloro che si professano discepoli di Gesù Cristo hanno inscritto nel proprio Dna la propensione al confronto e all’incontro fraterno con l’altro, chiunque esso sia. D’altronde, il dialogo appartiene anche a un’esigenza del nostro tempo: perché i mondi e i villaggi globali sono sempre più vicini e, dunque, vivendo gli uni accanto agli altri, non possiamo non confrontarci e migliorare la comunicazione interpersonale, come pure quella ecclesiale e sociale. Tuttavia, la tesi principale della ricerca dell’inquieto teologo francescano si basa su un altro presupposto: “La Chiesa è per sua natura dialogica”. Ho letto con interesse la prima parte del secondo volume che è dedicata al Vaticano II e alla sua ricezione nell’oggi della nostra Chiesa. È proprio vero: se la Chiesa viene dall’alto, cioè dal cuore della Trinità, allora è per sua natura aperta al dialogo con il mondo e gli uomini e le donne

di ogni razza, nazionalità, cultura e fede! Mi permetto di offrire questa mia riflessione sul dialogo che raccolgo in dieci brevi punti. 1. Anzitutto, il dialogo è lo spazio della missione. È stato soprattutto Giovanni Paolo II a farci comprendere che il dialogo interreligioso non sostituisce la missione della Chiesa che è quella di annunciare Cristo a tutte le genti. Attraverso il dialogo ecumenico e interreligioso si può creare una sorta di terreno fertile per riscoprire il Vangelo come buona novella per tutti gli uomini e le donne del nostro tempo. D’altronde, anche noi a Napoli, città multietnica e multireligiosa per eccellenza, abbiamo celebrato il Giubileo della Diocesi con uno spirito ecumenico e interreligioso. Dialogare significa sempre annunciare Gesù Cristo come unico salvatore del mondo! 2. Dobbiamo molto al Concilio ecumenico Vaticano II se i temi dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso oggi hanno ricevuto una propria dignità e considerazione. In questo senso, il Concilio Vaticano II è ancora davanti a noi e noi stentiamo a metterlo in pratica o a stargli dietro. Questo significa che la sua ricezione è ancora in atto. Se penso a Paolo VI e all’enciclica Ecclesiam suam e all’espressione sua più famosa sulla Chiesa – “la Chiesa si fa colloquio, dialogo” – mi commuovo e ne colgo dei frutti profondissimi già nel dialogo con i fratelli ortodossi e i protestanti. Considerando poi l’analisi del 10

professore Scognamiglio sulla genesi e lo sviluppo del decreto conciliare Nostra aetate, comprendo ancora di più che il dialogo è una grande profezia nella Chiesa che ci ha superati e che ci sta ancora davanti. 3. Certamente, il tema proprio del dialogo interreligioso è stato affrontato dal professore Scognamiglio in modo francescano, secondo l’affermato “spirito di Assisi” che è oramai patrimonio di tutta l’umanità. Il disegno di Dio, infatti, è quello di creare in mezzo agli uomini una fraternità universale, perché egli è Padre di tutti e noi siamo tutti suoi figli. 4. I dialogo deve rafforzare la conoscenza della nostra fede, in modo particolare del ruolo unico ed esclusivo di Gesù Cristo, figlio del Padre e salvatore degli uomini che, con un termine abbastanza complesso, il professore Scognamiglio definisce “simbolo differenziato del Padre”, in quanto Cristo è l’unico a rivelarci il volto del Dio nascosto, il volto del Padre! In questa prospettiva, il nostro Dio si è fatto uomo e ha preso la nostra carne. Questo è lo scandalo del cristianesimo! Non possiamo rinunciare a questo paradosso. 5. Guardando più da vicino il contributo di Giovanni Paolo II sul dialogo interreligioso, con il quale mi sono trovato per lungo tempo a collaborare in ambito missionario e culturale, comprendiamo anche che la forza del dialogo è l’amore provocato negli uomini e nelle donne di buona volontà dallo Spirito Santo. Fece scal-


pore l’affermazione di Giovanni Paolo II a Manila, in occasione dell’incontro mondiale della gioventù, quando disse pubblicamente che lì dove c’è una qualsiasi persona che prega c’è in azione lo Spirito Santo. Le vie del Signore sono veramente infinite e misteriose. 6. È bene anche precisare che, attraverso la pratica del dialogo tra fedi, noi aderiamo a un grande principio che è verità di fede: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi”. Ma qual è il ruolo della Chiesa in questo dialogo? Sicuramente, testimoniare al mondo che è possibile incontrare Dio nel quotidiano e sperimentarlo come Padre buono e misericordioso. 7. Il dialogo ha la forza di umanizzare il mondo e di tirare fuori le energie positive che si nascondono nel cuore di ogni credente. In tal senso, dal dialogo tra le religioni può nascere un

grande contributo per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. 8. È proprio vero: sono i volti a incontrarsi e non semplicemente delle dottrine. Quando cristiani, musulmani, ebrei e popoli di altre fedi hanno fatto la guerra e hanno aderito alla violenza, era perché il Vangelo e le Scritture Sacre in genere furono manipolate. Oltre al dialogo tra esperti, quello di natura accademica, nelle nostre Chiese e comunità dobbiamo curare molto il dialogo interpersonale. 9. Nell’era della comunicazione digitale, è proprio vero che a volte noi non sappiamo dialogare. Ciò è ben messo in evidenza, come critica, nel primo volume del professore Scognamiglio: ci sono barriere e rumori che disturbano la nostra comunicazione. Se il dialogo si basa sulla verità e sulla sincerità degli interlocutori, allora dobbiamo potenziare i nostri mezzi

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di comunicazione e curare bene sia il contenuto della comunicazione sia il linguaggio e gli strumenti del dialogo. Spesso, i pregiudizi sull’altro, sulle altre esperienze di vita e di fede, impediscono di aprirci e di vedere il bene – o anche i semi di verità – che ci sono nell’altro. La comunicazione, non lo dobbiamo dimenticare, è sempre un evento interpersonale che crea comunione. 10. In ultimo, ma non meno importante, la domanda sulla finalità del dialogo. Perché dialogare? Solamente perché è nel nostro Dna di battezzati? O forse perché l’impone la società globalizzata? No! Il dialogo non è solo necessario: non è un peso che ci è imposto. È una grande risorsa che ci permette di sperimentare le diversità degli altri come un bene prezioso per noi stessi, per la nostra cattolicità. Chi dialoga si apre all’altro e fa sempre un’esperienza divina.


VOCI

CHIESA La redazione

DI

Chiamati a far risplendere la Parola di verità

L

a celebrazione della Giornata missionaria mondiale si carica quest’anno di un significato tutto particolare. La ricorrenza del 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, l’apertura dell’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sul tema della nuova evangelizzazione concorrono a riaffermare la volontà della Chiesa di impegnarsi con maggiore coraggio e ardore nella missio ad gentes perché il Vangelo giunga fino agli estremi confini della terra. 1. Annunciare Cristo Nel suo Messaggio, papa Benedetto ha messo in evidenza la priorità dell’evangelizzare. «Il mandato di predicare il Vangelo non si esaurisce perciò, per un Pastore, nell’attenzione verso la porzione del Popolo di Dio affidata alle

sue cure pastorali, né nell’invio di qualche sacerdote, laico o laica fidei donum. Esso deve coinvolgere tutta l’attività della Chiesa particolare, tutti i suoi settori, in breve, tutto il suo essere e il suo operare. Il Concilio Vaticano II lo ha indicato con chiarezza e il Magistero successivo l’ha ribadito con forza. Ciò richiede di adeguare costantemente stili di vita, piani pastorali e organizzazione diocesana a questa dimensione fondamentale dell’essere Chiesa, specialmente nel nostro mondo in continuo cambiamento… Noi Pastori, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli in Cristo, dobbiamo metterci sulle orme dell’apostolo Paolo, il quale, “prigioniero di Cristo per i pagani” (Ef 3,1), ha lavorato, sofferto e lottato per far giungere il Vangelo in mezzo ai pagani (cfr Col 1,24-29),

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senza risparmiare energie, tempo e mezzi per far conoscere il Messaggio di Cristo». 2. Guardando ai popoli «Anche oggi la missione ad gentes deve essere il costante orizzonte e il paradigma di ogni attività ecclesiale, perché l’identità stessa della Chiesa è costituita dalla fede nel Mistero di Dio, che si è rivelato in Cristo per portarci la salvezza, e dalla missione di testimoniarlo e annunciarlo al mondo, fino al suo ritorno. Come san Paolo, dobbiamo essere attenti verso i lontani, quelli che non conoscono ancora Cristo e non hanno sperimentato la paternità di Dio, nella consapevolezza che la cooperazione missionaria si deve allargare oggi a forme nuove includendo non solo l’aiuto economico, ma anche la partecipazione diretta all’evangelizzazione».


Il messaggio di Benedetto XVI per la prossima Giornata missionaria mondiale

3. Fede e annuncio «L’ansia di annunciare Cristo ci spinge anche a leggere la storia per scorgervi i problemi, le aspirazioni e le speranze dell’umanità, che Cristo deve sanare, purificare e riempire della sua presenza. Il suo messaggio, infatti, è sempre attuale, si cala nel cuore stesso della storia ed è capace di dare risposta alle inquietudini più profonde di ogni uomo. Per questo la Chiesa, in tutte le sue componenti, deve essere consapevole che gli orizzonti immensi della missione ecclesiale, la complessità della situazione presente chiedono oggi modalità rinnovate per poter comunicare efficacemente la Parola di Dio… Uno degli ostacoli allo slancio dell’evangelizzazione, infatti, è la crisi di fede, non solo del mondo occidentale, ma di gran parte dell’umanità, che pure ha fame e sete di Dio e deve essere invitata e condotta al pane di vita e all’acqua viva, come la Samaritana che si reca al pozzo di Giacobbe e dialoga con Cristo».

4. L’annuncio si fa carità «“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, diceva l’apostolo Paolo (1Cor 9,16). Questa parola risuona con forza per ogni cristiano e per ogni comunità cristiana in tutti i Continenti. Anche per le Chiese nei territori di missione, Chiese per lo più giovani, spesso di recente fondazione, la missionarietà è diventata una dimensione connaturale, anche se esse stesse hanno ancora bisogno di missionari. Tanti sacerdoti, religiosi e religiose, da ogni parte del mondo, numerosi laici e addirittura intere famiglie lasciano i propri Paesi, le proprie comunità locali e si recano presso altre Chiese per testimoniare e annunciare il nome di Cristo, nel quale l’umanità trova la salvezza. Si tratta di un’espressione di profonda comunione, condivisione e carità tra le Chiese, perché ogni uomo possa ascoltare o riascoltare l’annuncio che risana e accostarsi ai Sacramenti, fonte della vera vita. Insieme a questo alto segno della fede che si trasforma in carità, ricordo e ringrazio le Pontificie

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Opere Missionarie, strumento per la cooperazione alla missione universale della Chiesa nel mondo. Attraverso la loro azione l’annuncio del Vangelo si fa anche intervento in aiuto del prossimo, giustizia verso i più poveri, possibilità di istruzione nei più sperduti villaggi, assistenza medica in luoghi remoti, emancipazione dalla miseria, riabilitazione di chi è emarginato, sostegno allo sviluppo dei popoli, superamento delle divisioni etniche, rispetto per la vita in ogni sua fase. Cari fratelli e sorelle, invoco sull’opera di evangelizzazione ad gentes, e in particolare sui suoi operai, l’effusione dello Spirito Santo, perché la Grazia di Dio la faccia camminare più decisamente nella storia del mondo. Con il beato John Henry Newman vorrei pregare: “Accompagna, o Signore, i tuoi missionari nelle terre da evangelizzare, metti le parole giuste sulle loro labbra, rendi fruttuosa la loro fatica”. La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Stella dell’evangelizzazione, accompagni tutti i missionari del Vangelo».


Speciale arte e teologia Speciale ar L’Arte e la via della Bellezza: il percorso della luce

U

na felice tradizione cri- contro di te tutta la terra» (Bonastiana antica – particolar- ventura da Bagnoregio, Itinerarium mente cara all’Oriente e mentis in Deum I,15). ripresa nel Medio Evo da san Bonaventura da Bagnoregio – vedrà nel Il significato della luce Cristo Verbo incarnato e abbre- La nostra conoscenza sensibile avviato l’opera magna e perfetta viene, per circa il 70%, attraverso uscita dalla mano del Creatore e gli occhi: la luce rientra in questo Artefice di ogni cosa. Gesù Cristo, tipo di approccio alla realtà fisica e il Logos eterno, è l’arte divina in- sensoriale e, rinvia, ovviamente, a carnata, l’opera d’arte più bella che una percezione più profonda della il Padre poteva compiere: nessuna realtà, che ben si addice al tema creatura è uscita dalle mani del della Rivelazione e dell’arte. In tal Creatore senza avere come modello senso, la luce colora, riscalda, è e strumento il Verbo eterno. L’In- simbolo della vita e del divenire di visibile si è fatto visibile affinché Dio nella forma della comunione. l’umanità scoprisse il Padre e ritor- La luce è il simbolo stesso dell’esinasse a quel mondo divino oscurato stenza. In Adamo, la luce riflette la dal peccato che acceca il cuore e gli sostanza di Dio e il significato del occhi dei credenti e di tutta l’uma- suo esistere nel mondo. L’uomo, in nità. Il Padre non ha previsto una tal senso, non è solamente pelle, seconda incarnazione perché ossa e tendini: in lui s’incontrano il l’opera d’arte del Verbo è perfetta: cielo e la terra, ed egli come una Cristo è il perfetto comunicatore menorah, il candelabro a sette del Padre e dello Spirito Santo, di braccia che brillava nel tempio di tutta la Trinità! In tale prospettiva, Gerusalemme. ne risulta che la luce di Dio è più Il percorso di luce ci permette di afinteriore a noi della luce razionale. fermare chiaramente che non L’uomo, attraverso la rivelazione, siamo sospesi nel nulla: la vita, la deve arrivare a vedere Dio in tutte vicenda personale e collettiva, la sile cose e sopra tutte le cose. Il lenziosa armonia dei cieli, non sono mondo, nel quale l’Eterno si mani- efflorescenze dell’assurdo, interrufesta, canta già la sua bellezza e la zioni del nulla, che da esso escono sua magnificenza, e tanto più è e in esso ritornano, ma frammenti chiamato a fare Adamo, volto di in cui si offre il Tutto di un amore Luce, immagine del Dio invisibile. antico, la bellezza di un disegno A tal proposito, il dottore serafico d’amore, la generosità di un dono scrive: «Apri, dunque, i tuoi occhi, eterno e sempre nuovo. Proprio tendi le orecchie dello spirito, scio- così, il mistero supera ogni nostro gli le tue labbra e offri [eccita] il tentativo di afferrarlo: esso non è tuo cuore, affinché tu veda in tutte facile preda, oggetto del calcolo o le creature il tuo Dio, lo ascolti, lo del desiderio, ma grembo e custolodi, lo ami e lo adori, lo canti, lo dia, trama di un più grande diseonori perché non si rivolga forse gno, dimora dell’Eterno, patria di 14

Dio. Si comprende, allora, come la grande legge della conoscenza umana non possa essere l’orgoglioso cogito, ergo sum, ma sia il molto più umile e vero cogitor,


rte e teologia Speciale arte e teologi sempre e per sempre. Si comprende, allora, come sia vero che «non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai» (P. Evdokimov). L’arte come splendore della verità In questa prospettiva, l’arte non è altro che «il porsi in opera della verità» (M. Heidegger), e la verità presente nell’opera si dà a conoscere nella tensione dialettica tra illuminazione (la luce) e il nascondimento. In base all’esperienza estetica così come ce la presenta Heidegger, l’opera d’arte è un evento mediante il quale si manifesta e s’instaura la verità che chiede di essere accolta più che compresa. Dunque, un’opera d’arte è capace di svelare una prossimità radicale che supera il nostro stesso modo di pensare e di interpretare i fatti. Se è vero che dopo Kant l’arte risulta sempre più emarginata dalla ragione e separata dalla verità, allora il contributo proprio della rivelazione cristiana alla coscienza estetica è il recupero della dimensione simbolica della verità e dello stesso genio poetico che non si esaurisce nella capacità di apparire o di imitare la realtà, bensì nel produrre in noi un nuovo evento. Già Gadamer sosteneva che l’arte è la reminiscenza dell’essere, cioè «mímesis in quanto è sempre anámnesis». L’arte non si risolve in un fatto puramente culturale né si riduce a una pura manifestazione dello spirito, ma rientra nell’evento in base al quale si determina originariamente il senso dell’essere. Questo significa che l’esperienza estetica non può essere separata dal mondo reale, come di fatti avviene in ambito scientifico, tecnologico ed economico e socio-politico. Il percorso artistico permette di recuperare la dimensione simbolica della nostra esistenza, cioè come essere in una relazione fondativa e originale che ci precede e ci accompagna nel cammino storico. L’arte è lo splendore della Verità. Agli inizi del cristianesimo L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e, al tempo stesso, ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte d’ispirazione cristiana cominciò, così, in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un “codice simbolico”, attraverso cui riconoscersi e

ergo sum: è perché sono pensato da Altri, che io esisto; è perché Altri mi ama, che io sono uscito dal nulla; è perché questo amore è eterno, che il mio, il nostro destino, non è il nulla, ma la vita che vince la morte. Amor, ergo sum: sono, perché un Altro mi ama, da

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identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. I simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica furono il pesce, i pani, il pastore: evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova. Con l’editto di Costantino, ai cristiani fu concesso di esprimersi in piena libertà. Così, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo erano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. È sufficiente ricordare l’antica Basilica di S. Pietro e quella di S. Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino. O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano. Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi s’appellarono per dirimere la controversia fu il

mistero dell’incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta. In Oriente continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il Medioevo Se guardiamo all’architettura dell’Alto Medioevo, ci accorgiamo che la fisionomia dell’urbe è caratterizzata dalla cattedrale gotica come centro preminente di tutto che richiama l’uomo al di dentro e in alto. Alla luce della cattedrale, l’esistenza povera e piena di preoccupazioni per l’uomo s’illumina; e, con le sue colonne e le sue torri che tendono all’alto, la cattedrale trascina l’uomo verso la vita definitiva. La luce indica anche un percorso di trascendenza e di salita verso l’alto, affinché ci sia comunione con l’Uno e il Tutto, l’Assoluto. Le irruzioni che prorompono dalle sorgenti della filosofia e delle scienze antiche, l’impetuosità dei giovani popoli dopo la caduta dell’impero romano, la nascita di ordini mendicanti accanto alla forma

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classica dell’ordine benedettino, e soprattutto la ricca articolazione della vita ecclesiale e sociale, lo sviluppo delle arti e delle scienze: tutta questa inaspettata evoluzione delle possibilità umane non si degrada in un caos, perché rimane – almeno fondamentalmente, anche se soltanto lontanamente ad essa corrisponde la prassi – il Centro che ha il suo simbolo architettonico nella cattedrale gotica. La Luce – simbolo della sovrastante grandezza del Dio trascendente – non schiaccia le possibilità umane, anzi, al contrario, sprigiona il pensiero, l’opera d’arte, e gioia e dolore del cuore, come raramente in altre epoche e in altri spazi culturali.


Quanto in alto la luce divina solleva l’uomo e quanto vuole farlo entrare nel suo proprio mistero, lo si vede soprattutto nella cattedrale gotica con la posizione centrale di Maria, nel portale principale e nei quadri degli altari. L’età moderna Il tempo moderno, diversamente, riscopre soprattutto l’azione illuminativa del pensiero umano, delle energie spirituali del soggetto, e, quindi, per forza di cose, non costruisce più cattedrali, non ne è più capace, perché questa epoca pensa diversamente. Le sue cattedrali sono le fabbriche, nelle quali è evidente il trionfo della tecnica. Già

nelle lussuose costruzioni del Rinascimento e del Barocco, l’uomo mette sempre più al centro se stesso. Si punta, allora, sulla “luce interiore”: è stata questa l’esperienza dei mistici e della devotio moderna. L’uomo moderno sperimenta con sempre maggiore coscienza le sue possibilità, come pure la potenza della sua stessa libertà. Dove la ragione trionfa, si alza il sole dell’avvenire. In tal senso, si può dire che la modernità corrisponde al tempo dell’emancipazione e al tempo della luce. Questa emancipazione – del singolo come della società – dalla natura e dai suoi apporti, dalle Chiese e dai loro ordinamenti etico-religiosi, l’eman-

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cipazione della filosofia e delle scienze dalla teologia, degli Stati nazionali dall’Impero, dei cittadini dall’autorità dell’aristocrazia, tutto questo non era all’inizio una protesta contro Dio, la Chiesa e il cristianesimo, piuttosto è accaduto indipendentemente da essi. Affrontare scientificamente e tecnicamente il mondo e l’uomo, sperimentarlo “come se Dio non esistesse” – questo motto di Ugo Grotius all’inizio del tempo moderno è stato soltanto un indirizzo metodico –, non voleva essere una dichiarazione di lotta antireligiosa. Questo movimento di opposizione alla Luce si è rivolto direttamente contro Dio, la Chiesa e la religione


soltanto con la rivoluzione francese, la filosofia nichilista di Nietzsche e con l’ateismo di Marx. Nonostante tutto il progresso tecnico e umano del tempo moderno – si pensi soltanto allo sviluppo della medicina e alla proclamazione dei diritti umani –, non si può negare il regresso: per la prima volta nella storia dell’umanità è stata pronunciata ad alta voce e con efficacia la negazione di Dio, e questo proprio in uno spazio culturale che prima era cristiano. La ragione ha vinto e la fine risale all’inizio. Il nostro tempo Guardare alla luce che promana da Cristo vuol dire, oggi, a poca distanza dal “Secolo breve” – il più violento della storia – e nella piena crisi economica e finanziaria del-

l’Occidente emancipato, trarre speranza e vita nuova dalle stesse energie della storia che ancora oggi operano in mezzo a noi per volontà di Dio e che potrebbero affermarsi ancora di più se fossero di nuovo o per la prima volta scoperte. Si tratta di liberare energie umano-divine che sono ancora inutilizzate e di recuperare la dimensione simbolica della nostra esistenza. È quanto la luce, che viene da ogni vera esperienza religiosa, permette di operare nelle nostre comunità e città. L’uomo ha bisogno sempre più di comunione e di creare nuove relazioni, perché è costitutivamente un essere simbolico. La concezione esclusivamente tecnica dell’uomo e del mondo non è più in grado di fare fronte a quelle domande che tutti quanti ci portiamo dentro: 18

“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Perché ci troviamo qui? Qual è il senso della vita?”. Il revival religioso nella postmodernità, pur con tutte le sue ambiguità di significato, di contenuto e di prassi, è sintomo evidente di quella cifra della Trascendenza – il divino che è in noi o Assoluto – che ci portiamo dentro da sempre e che mai potremo soffocare. Oggi si parla dell’uomo religioso inteso come essere simbolico, capace cioè di intessere legami e di costruire attorno a relazioni autentiche il senso della propria vita. L’homo religiosus et symbolicus crede sempre che esista una realtà assoluta, il sacro appunto, che trascende il mondo in cui viviamo ma che vi si manifesta e, in questo modo, lo santifica e lo rende reale.


La via pulchritudinis Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà. Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, innanzi alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore da cui potrà scaturire quell’entusiasmo che spinge l’uomo a superarsi e a cercare il senso della vita in un mistero più grande che lo

sorpassa e lo precede. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che «la bellezza salverà il mondo» (F. Dostoevskij, L’idiota, III/5, Milano 1998, 645). La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo, la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio, la bellezza ultima. Che cos’è la bellezza? Non è bello ciò che piace. La bellezza non si esprime nell’armonia delle parti, nella perfezione delle forme. È bello ciò che riconcilia, ciò che ci dona pace. In tal senso, la bellezza che salva il mondo è il Cristo crocifisso e risorto che ha vinto la morte e più non muore. Guardando al mondo dell’arte, comprendiamo che la bellezza è l’evento di una donazione, in cui il Tutto infinitamente al di là di ogni nostra cattura viene a farsi presente in un frammento: nella finitezza di una forma l’Infinito si affaccia; nella fragilità di un evento l’Eterno viene a narrarsi nel tempo. Il Tutto si offre nel frammento! Questo è bellezza, perché «l’esperienza estetica è data dall’unità della massima concretezza della forma singola con la massima universalità del suo significato» (H.U. Von Balthasar, Gloria. I. La percezione della forma, Milano 1975, 217). Attraverso il frammento in cui si offre, il bello costituisce una via privilegiata di accesso al significato ultimo dell’esistenza umana, una finestra sulla profondità del vero, che illumina e salva. La bellezza apre all’intelligenza del

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simbolo (da “syn-bállein”), eccedenza di senso nella pur permanente continuità del significato, tale da tener insieme i distanti senza confonderli. Un pensiero senza ombre o rimanenze non è più ricco di un pensiero simbolico: l’ideale non assorbe il reale, deve anzi riconoscerne l’eccedenza; il concetto è chiamato a trascendersi verso spazi più vasti. Conquistati dalla bellezza Nella lettera dedicata agli artisti, il beato Giovanni Paolo II, rivolto a quanti con appassionata dedizione cercano nuove epifanie della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica, afferma chiaramente che la chiesa ha bisogno dell’arte «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti Personne mieux que vous [4-4-1999], n. 12). Essa, infatti, deve «rendere percepibile» e «affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio». La chiesa deve «trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile», e si riconosce all’arte la capacità di «cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero». Chi è l’artista se non una persona conquistata dalla bellezza e dal fascino dell’eterno? Egli è un geniale costruttore di bellezza in cui sente l’eco di quel pathos con cui Dio creò il mondo e tutte le creature della terra. Gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, trasmettono l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarli.


LITURGIA di Annunziata Spinazzola

I simboli nella liturgia

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utta la vita dell’uomo è piena di simboli fin dall’inizio della storia: saluto o minaccia, gioia o noia sono accompagnati da segni espressivi; disegni rupestri, pietre che segnalano le sepolture, danze per la festa..., sono altrettanti modi di esprimersi simbolicamente. Ma un capitolo particolarmente importante è formato dai segni e simboli relativi alla sfera religiosa: fiumi, monti o luoghi sacri, templi, sculture delle divinità, cerimonie rituali, sono altrettanti modi per entrare in contatto con il mistero della vita e dell’universo. Ben si spiega l’universalità del culto al sole: dà calore, indica la vittoria sulla notte, il risveglio della vita... Ma i segni e i simboli sono anche ricerca ed espressione di qualcosa di più profondo e trascendente, cioè dello spirituale, del magico, del divino… Nella liturgia i simboli hanno un ruolo molto evidente. Si tratta di celebrare il mistero, in modo che il credente sia immerso in esso e, sentendosi commosso fin nell’intimo, esprima il suo entusiasmo, il suo riempirsi di Dio, con tutta la sua persona e con i fratelli e sorelle. Per questo è importante scoprire il valore e il significato dei simboli liturgici. L’acqua L’acqua è fonte di vita, sazia la sete, fa rinverdire ciò che è arido, pulisce e purifica, ma può anche far affogare e distruggere. Il suo simbolismo religioso risulta evidente: è fonte di vita; la Genesi ci dice che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn 1,2). L’acqua iniziò la creazione e la vita divenne feconda. Cristo le attribuirà un

simbolismo di vita più piena: «Rinascere alla vita di Dio nell’acqua e nello Spirito» (Gv 3,5). L’acqua è anche elemento che sazia la sete e fa rinverdire ciò che è arido: la Scrittura presenta l’acqua come segno messianico: «Il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua» (Is 35,7), e come simbolo di una sete più profonda: «L’anima mia ha sete di Dio» (Sal 62,2). Nell’incontro con la samaritana, Gesù parla della sua «acqua di vita eterna» (Gv 4). L’acqua è anche segno di lavacro e di purificazione: «Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato» (Sal 50,1s.). Ricordiamo anche le «abluzioni» rituali degli ebrei. Riguardo all’acqua come distruzione che sommerge citiamo il diluvio e il passaggio del Mar Rosso: la cattiveria e la schiavitù vengono sepolte, ma il popolo ebreo passa alla salvezza e alla libertà. L’acqua del battesimo: in essa si ritrovano tutti i significati dell’acqua; nascere alla vita di Dio, saziarsi alla fonte di acqua viva, purificazione e morte del peccato, rinascere a una nuova creatura, passaggio alla vita risuscitata di Gesù Cristo. Aspergere con acqua benedetta le persone, i luoghi e gli oggetti ha il significato di ricordare il battesimo e il nostro impegno di viere da cristiani. Lo stesso significato ha l’acqua benedetta con cui facciamo il segno della croce. Anche quando aspergiamo il corpo di un cristiano defunto, affermiamo che, in forza del battesimo ricevuto, la sua morte è passaggio alla vita con Cristo. Luce, fuoco e incenso La luce brilla, illumina, risplende; è la vittoria sull’oscurità, sul pericolo, sul niente; è simbolo della vita che nasce 20

(«dare alla luce»), della verità che risplende, dell’amore che arde. In senso religioso, la luce simboleggia Dio; quando egli appare «si fa luce» (Gn 1,3). «Egli è la luce vera» (Gv 1,9). Cristo è «la luce del mondo» (Gv 8,12). La liturgia utilizza moltissimo la luce come simbolo di Cristo risorto, vincitore delle tenebre del peccato e della morte: La prima parte della veglia pasquale con la luce del fuoco nuovo, l’ingresso con il cero che viene acclamato, cantato, incensato e venerato, è la celebrazione simbolica più preziosa. Il cero pasquale nel battesimo e nei funerali indica l’inizio della vita con Cristo e la sua continuazione nella vita risuscitata. Le candele, in segno di venerazione e celebrazione gioiosa, esprimono la luce di Cristo e della fede. Il fuoco è calore di vita e fiamma viva, è focolare che riscalda e incendio che brucia. La Bibbia lo presenta come: presenza rilevante di Dio (il roveto ardente); elemento purificatore (la consumazione dei sacrifici); punizione del male (fuoco dell’inferno). La liturgia simboleggia con il fuoco la ri-


nascita della vita nuova in Cristo che risorge (veglia pasquale) e la presenza vivente del Signore (cero, candele...). Il fuoco è il simbolo dello Spirito Santo (lingue di fuoco a Pentecoste), Spirito che è luce, calore, coraggio, entusiasmo, forza... L’incenso è formato da resine profumate bruciate sul fuoco. Il fumo odoroso che si sprigiona è simbolo della preghiera che sale verso Dio. È offerta e riconoscimento di dignità sacra. Per questo vengono incensati la croce, l’altare, i doni, il sacerdote e i fedeli... e il defunto, che torna a Dio. Il pane e il vino Il pane e il vino sono cibo e bevanda, alimenti per vivere; sono i frutti della terra e del lavoro dell’uomo; sono anche rispettivamente simbolo dell’alimento primordiale e della gioia di vivere, oltre che segno di amicizia fra quelli che si siedono a mensa per condividerli. Il significato biblico è chiaro: «con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gn 3,19); fino al banchetto del regno dei cieli, passando per il banchetto di cibi squisiti e vini generosi con cui si annunciano i tempi messia-

nici, la Bibbia ci guida attraverso il segno del pane a quello del cibo superiore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4), e attraverso il segno del vino a quello della prospera fe¬licità e dell’amicizia, ma anche del sacrificio e del sangue. Gesù riprende questo simbolismo e lo porta a pienezza. Si siede alla mensa dell’amico Lazzaro, però mangia anche con i peccatori come Zaccheo. Insegna a chiedere «il pane di ogni giorno» e moltiplica il pane per la folla che lo seguiva. Condivide la sua amicizia nel banchetto di nozze di Cana e regala a quegli sposi il vino buono in abbondanza. Passa poi a fare del banchetto un simbolo preferito del suo regno in diverse parabole e un segno inequivocabile per potervi entrare: «Venite, benedetti del Padre mio... perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35). «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35); «La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,54-58). Il compimento di questo annuncio è l’eucaristia.

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L’olio L’olio, oltre che condimento, è unguento curativo, massaggio fortificante e anche cosmetico. Nella Bibbia ha svolto un ruolo importante nella consacrazione di re, sacerdoti e profeti, che venivano unti con l’olio rituale. Cristo è «l’Unto», come significa letteralmente il termine «Cristo». Egli è il sacerdote, il profeta e il re per antonomasia. La liturgia usa il simbolismo dell’unzione con olio profumato (l’olio e il crisma) consacrati dal vescovo durante la messa del crisma nella mattina del giovedì santo. Viene unto con «l’olio dei catecumeni» colui che sta per essere battezzato, per significare la forza che deve avere nelle prove della vita cristiana. L’unzione con l’olio degli infermi dona la forza dello Spirito Santo per accettare la malattia e associarla al mistero redentore della passione di Cristo. Con il crisma si unge il cristiano appena battezzato, il cresimato e colui che riceve l’ordine, per significare la consacrazione speciale a Dio, con Cristo e attraverso lo Spirito.


ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

Gioventù francescana, entusiasmiamoci! L’estate è oramai alle porte!

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con grande gioia ed entusiasmo che si sente nell’aria un profumo d’estate. Dopo l’indimenticabile esordio dell’anno scorso ad Assisi, vivremo dal 25 al 29 Luglio, con tutti gli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 16, una fantastica esperienza, che porterà ciascuno di loro ad essere protagonisti , nella riscoperta della loro vocazione, ripercorrendo i luoghi che rendono così bella l’esperienza spirituale di Francesco d’Assisi. Il Gifra-evento Adolescenti che si terrà quest’anno lo vivremo nella Valle Reatina a Cantalice, un piccolo paesino in provincia di Rieti. Il tema che ci accompagnerà durante quest’esperienza sarà: “Diamoci del Tu”, il percorso di crescita umana, cristiana e francescana dei nostri adolescenti in un cammino umano fondato sull’importanza della relazione con l’altro. È sarà proprio la riscoperta della “relazione con l’altro” a segnare il viaggio che percorreremo in quattro tappe: La foresta del Cantico delle Creature, Poggio Bustone, Greccio e Fonte Colombo. L’eremo di Greccio rappresenta il bisogno di incontrare Gesù e l’altro. Fonte Colombo, è il luogo dove san France-

sco fu operato agli occhi con un ferro rovente, ma è il luogo anche dove scrisse la regola, e noi per approcciarci agli altri abbiamo bisogno di una metodologia di regole per rispettare gli altri. A Poggio Bustone, Francesco inizia la sua missione di pace. Qui affideremo al Signore della misericordia i nostri limiti e i nostri difetti per poterci relazionare bene con i nostri fratelli, così come ha fatto Francesco, che qui ha chiesto perdono al Signore dei suoi peccati commessi in gioventù, ed è stato esaudito nella sua preghiera, perché un angelo mandato da Dio lo rassicurò di questo. La Foresta è uno dei luoghi in cui si pensa che Francesco abbia scritto il Cantico delle Creature, ed è segno dell’armonia tra Dio e l’uomo. Il rapporto con il Creato testimonia il cammino di ritrovo di questa armonia perduta. Tutto è ormai pronto per vivere questa grande avventura sullo stile della GMG, un grande incontro, una grande festa che ci faccia riscoprire la gioia di essere francescani. Ma l’estate non finisce qui! Infatti, per gli adolescenti e i giovani della Gioventù francescana (età compresa dai 17 ai 24 anni e dai 24 ai 30 anni), l’esperienza del Gifra evento che vivranno, li porterà in Sardegna dal 8 al 12 agosto. Buona estate a tutti!

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L’INTERVISTA di Giambattista Buonamano

Sui passi di Mosè, nella terra dell’Alleanza

Intervista a mons. Pietro Farina, pellegrino a Gerusalemme

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al 25 aprile al 2 maggio scorso si è svolto il pellegrinaggio in Terra Santa proposto dall’Opera Napoletana Pellegrinaggi. Vi ha preso parte anche il Vescovo di Caserta, mons. Pietro Farina, insieme a un nutrito gruppo di fedeli e di amici. Abbiamo chiesto al nostro presule di raccontarci le sue impressioni, tenendo conto che in pochi giorni è passato per i luoghi più importanti della storia della salvezza: Nazareth, Gerusalemme, Monte Nebo, il fiume Giordano, fino a raggiungere i luoghi misteriosi della città di Petra, in Giordania, dove gli uomini e le donne di ogni tempo, costruendo cimiteri e templi, furono sempre alla ricerca del senso della vita e dell’Assoluto. Mons. Pietro Farina, con quale spirito ha intrapreso questo viaggio in Terra Santa? ertamente con uno spirito di fede. Si è trattato, infatti, di un pellegrinaggio, cioè di un cammino spirituale che mette in moto completamente noi stessi, in special modo la fede. Quando è data la grazia di visitare i luoghi in cui si è realizzata la storia della salvezza, avviene dentro di noi un cambiamento, oserei dire una conversione speciale: perché si rivedono i fatti della propria vita, la stessa missione ecclesiale, come pure l’impegno pastorale e le relazioni interpersonali con uno sguardo diverso, con un’ottica più evangelica. Quando siamo in viaggio – in ogni senso, anche quello fisico – s’intrecciano nuove relazioni e si fanno esperienze di fraternità e di comunità molto

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forti. Il viaggio è sempre illuminante: ci fa prendere le distanze da noi stessi e ci apre al confronto con gli altri e, soprattutto, all’ascolto del Signore che parla. Qual è stata la prima tappa di questo pellegrinaggio? i siamo fermati anzitutto a Nazareth, il luogo dell’annunciazione. È sconvolgente rileggere nell’oggi della propria storia il prodigio dell’incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, nello stesso villaggio dove duemila anni fa la Vergine Maria pronunciò un meraviglioso sì. Se è vero, infatti, che l’incarnazione è per sempre, come anche il sì della Madre di Dio, allora anche il nostro sì è per sempre. La fedeltà di Maria deve diventare anche la nostra. La fedeltà del Figlio di Dio che si fa uomo mette in crisi ogni nostro tentennamento nella fede e nella vita apostolica. Per superare la crisi di fede del nostro tempo è necessario ritornare almeno spiritualmente a Nazareth per attingere dalla Vergine e dalla pietà di Giuseppe la grazia necessaria per rinnovare il proprio sì nella Chiesa. Penso alle famiglie in difficoltà, alle coppie che vivono momenti di crisi: occorre imparare a vivere anche queste prove alla presenza del Signore e illuminati dalla Parola di Dio, proprio come ha fatto la famiglia di Nazareth. È stato molto bello, poi, ritrovare in questo luogo – come anche a Betlemme e al Santo Sepolcro – credenti di altre religioni, soprattutto musulmani, che visitavano i luoghi della fede cristiana, invocando Maria come compagna di viaggia, modello di fede. continua a pagina 47

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OMELIA di Giuseppe Falanga

Gli apostoli amici di Cristo La solennità dei santi Pietro e Paolo «

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on più servi ma amici»: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: «Conosco i miei e i miei conoscono me» (cf. Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cf. Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo

del tutto personale. Ed io, conosco lui? L’amicizia che egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei santi, nelle persone che si avvicinano a me e che egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi

piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cf. Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!


Portare molto frutto La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino – costituiti perché andiate – di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: «Andate e insegnate a tutti i popoli» (cf. Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo. Abbiamo bisogno dell’amore di Cristo Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in

modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta. L’amore per Dio e per il prossimo Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria

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e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: «Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli»; una parola che a noi deve essere intimamente presente ogni giorno.


La lotta tra due amori La solennità della Beata Vergine Maria Assunta in Cielo

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ella sua grande opera La Città di Dio, sant’Agostino dice una volta che tutta la storia umana, la storia del mondo, è una lotta tra due amori: l’amore di Dio fino alla perdita di se stesso, fino al dono di se stesso, e l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, fino all’odio degli altri. Questa stessa interpretazione della storia come lotta tra due amori, tra l’amore e l’egoismo, appare anche nella lettura tratta dall’Apocalisse. Qui, questi due amori appaiono in due grandi figure. Innanzitutto vi è il dragone rosso fortissimo, con una manifestazione impressionante ed inquietante del potere senza grazia, senza amore, dell’egoismo assoluto, del terrore, della violenza. Il potere del male Nel momento in cui san Giovanni scrisse l’Apocalisse, per lui questo dragone era realizzato nel potere degli imperatori romani anticristiani, da Nerone fino a Domiziano. Questo potere appariva illimitato; il potere militare, politico, propagandistico dell’impero romano era tale che davanti ad esso la fede, la Chiesa appariva come una donna inerme, senza possibilità di sopravvivere, tanto meno di vincere. Chi poteva opporsi a questo potere onnipresente, che sembrava in grado di fare tutto? E tuttavia, sappiamo che alla fine ha vinto la donna inerme, ha vinto non l’egoismo, non l’odio; ha vinto l’amore di Dio e l’impero romano si è aperto alla fede cristiana. Le parole della Sacra Scrittura trascendono sempre il momento storico. E così, questo dragone indica non soltanto il potere anticristiano dei persecutori della Chiesa di quel tempo, ma le dittature materialistiche anticristiane di tutti i periodi. Vediamo di nuovo realizzato questo potere, questa forza del dragone rosso nelle grandi dittature del secolo scorso: la dittatura del nazismo e la dittatura di Stalin avevano tutto il potere, penetravano ogni angolo, l’ultimo angolo. Appariva impossibile che, a lunga scadenza, la fede potesse sopravvivere davanti a questo dragone così forte, che voleva divorare il Dio fattosi bambino e la donna, la Chiesa. Ma in realtà, anche in questo caso alla fine, l’amore fu più forte dell’odio. Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi, diversi. Esiste nella forma delle ideologie materialiste che ci dicono: è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è cosa di un tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza mediatica, propagandistica. Sembra impossibile oggi ancora pensare a un Dio che ha creato l’uomo e che si è fatto bambino e che sarebbe il vero dominatore del mondo. 26


La donna vestita di sole Anche adesso questo dragone appare invincibile, ma anche adesso resta vero che Dio è più forte del dragone, che l’amore vince e non l’egoismo. Avendo considerato così le diverse configurazioni storiche del dragone, vediamo ora l’altra immagine: la donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi, circondata da dodici stelle. Anche quest’immagine è multidimensionale. Un primo significato senza dubbio è che è la Madonna, Maria vestita di sole, cioè di Dio, totalmente; Maria che vive in Dio, totalmente, circondata e penetrata dalla luce di Dio. Circondata dalle dodici stelle, cioè dalle dodici tribù d’Israele, da tutto il Popolo di Dio, da tutta la comunione dei santi, e ai piedi la luna, immagine della morte e della mortalità. Maria ha lasciato dietro di sé la morte; è totalmente vestita di vita, è assunta con corpo e anima nella gloria di Dio e così, posta nella gloria, avendo superato la morte, ci dice: Coraggio, alla fine vince l’amore! La mia vita era dire: Sono la serva di Dio, la mia vita era dono di me, per Dio e per il prossimo. E questa vita di servizio arriva ora nella vera vita. Abbiate fiducia, abbiate il coraggio di vivere così anche voi, contro tutte le minacce del dragone. Questo è il primo significato della donna che Maria è arrivata ad essere. La “donna vestita di sole” è il grande segno della vittoria dell’amore, della vittoria del bene, della vittoria di Dio. Grande segno di consolazione. Ma poi questa donna che soffre, che deve fuggire, che partorisce con un grido di dolore, è anche la Chiesa, la Chiesa pellegrina di tutti i tempi. In tutte le generazioni di nuovo essa deve partorire Cristo, portarlo al mondo con grande dolore in questo modo sofferto. In tutti i tempi perseguitata, vive quasi nel deserto perseguitata dal dragone. Ma in tutti i tempi la Chiesa, il Popolo di Dio vive anche della luce di Dio e viene nutrito – come dice il Vangelo – di Dio, nutrito in se stesso col pane della Santa Eucaristia. E così in tutta la tribolazione, in tutte le diverse situazioni della Chiesa nel corso dei tempi, nelle diverse parti del mondo, soffrendo vince. Ed è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo. Una vittoria certa Vediamo certamente che anche oggi il dragone vuol divorare il Dio fattosi bambino. Non temete per questo Dio apparentemente debole. La lotta è già cosa superata. Anche oggi questo Dio debole è forte: è la vera forza. E così la festa dell’Assunta è l’invito ad avere fiducia in Dio ed è anche invito ad imitare Maria in ciò che Ella stessa ha detto: Sono la serva del Signore, mi metto a disposizione del Signore. Questa è la lezione: andare sulla sua strada; dare la nostra vita e non prendere la vita. E proprio così siamo sul cammino dell’amore che è un perdersi, ma un perdersi che in realtà è l’unico cammino per trovarsi veramente, per trovare la vera vita. Guardiamo Maria, l’Assunta. Lasciamoci incoraggiare alla fede e alla festa della gioia: Dio vince. La fede apparentemente debole è la vera forza del mondo. L’amore è più forte dell’odio. E diciamo con Elisabetta: Benedetta sei tu fra tutte le donne. Ti preghiamo con tutta la Chiesa: Santa Maria prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

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CREDERE OGGI di Pietro De Lucia

Un grido che nacque nel cuore La testimonianza di Giovanni Paolo II contro la “civiltà della morte”

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a Valle dei Templi di Agrigento si gremì di persone che accorsero per partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia presieduta da Giovanni Paolo II. Prima dei riti di conclusione, mentre il papa prese la parola per pronunciare la benedizione e il saluto finale, proseguendo a braccio, come spesso faceva, si rivolse ai siciliani e li invitò a rifiutare quella che definì la “civiltà della morte”. Il papa polacco, poi, parlò direttamente ai mafiosi, colpevolizzandoli per le sofferenze subite dagli stessi siciliani e li accusò di non aver rispettato la parola di Dio. Questo gigante della storia, un vero profeta nella Chiesa cattolica, così concluse il suo discorso: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Era il 9 maggio del 1993. Quelle sue parole fecero immediatamente il giro del mondo e sono tuttora ricordate come l’anatema pronunciato da Giovanni Paolo II contro la mafia. Il papa e la Sicilia Quello del 1993 fu il terzo di cinque viaggi apostolici che il Giovanni Paolo II compì in Sicilia durante il suo pontificato. Fu già sull’isola nel 1988 e poi ancora nel 1991. Vi tornò nel 1994 e, per l’ultima volta nel 1995. In questa occasione, a Palermo ripeté – cosa inusuale – lo stesso discorso di Agrigento dimostrando quanto reputò importante che quelle parole fossero ascoltate di nuovo. Erano gli anni bui della lotta dello Stato a quello che si definì l’antistato. La Sicilia pagò, in quegli anni, un alto prezzo in vite

umane cercando di opporsi a un’azione della mafia violentissima che non risparmiò nessuno. Giovanni Paolo II intervenne, parlò ai siciliani, scagliò il suo anatema perché si sentì vicino al dolore di quel popolo. Il papa non poté tacere di fronte alle sofferenze imposte da alcuni uomini ad altri uomini, di fronte alla violazione del diritto alla vita, di fronte alla privazione della libertà e del diritto alla felicità. Giovanni Paolo II, l’uomo che conobbe direttamente le sofferenze causate dal nazismo e poi dal comunismo e che svolse un ruolo attivo nella caduta dei regimi sovietici – da lui identificati con il male –, non poté non intervenire contro la mafia, anch’essa portatrice di una “civiltà di morte”. Quel discorso rinfrancò i siciliani e tutti gli italiani – credenti e non – che dalle parole del papa polacco trassero nuovo coraggio per resistere al male e rinunciare a ogni forma di violenza e denunciare le azioni dei mafiosi e dei camorristi e terroristi in genere. La gente in pericolo di vita, oppressa dalle forme più disparate di violenza e di soprusi, si sente meno sola e veramente confortata da parole tanto forti perché sincere, spontanee, urgenti, non solo di un papa, ma di ogni altro cittadino e profeta che tiene a cuore la sorte della propria nazione. Chi, come il santo padre, è capace di gridare contro il male, diviene un grande profeta e sostenitore del bene ed è capace di donare forza a coraggio a chi subisce la violenza degli altri, dei mafiosi e dei camorristi in modo particolare. In altra occasione, sul podio della Fiera, a Palermo, sovrastato dall’immagine del Cristo Pantocrator, Giovanni Paolo II commentò così quel 28

momento: «Un grido mi nacque dal cuore». Il 9 maggio 1993 il mondo intero capì che quelle parole appena pronunciate entrarono già nella storia: quel discorso ebbe tutta la rilevanza della netta presa di posizione della Chiesa cattolica nei confronti della mafia. Tuttavia, la forza di quel discorso stava anche nella capacità di Giovanni Paolo II di fare proprie le sofferenze dell’umanità, di prendere su di sé il dolore di ogni singolo individuo. Non c’è dubbio sul fatto che proprio per questa ragione Giovanni Paolo II fu molto amato da tante persone che in lui intravidero innanzitutto una figura paterna sempre vicina a ogni persona perseguitata ed emarginata, tanto più se soprafatta dalla violenza e dalla morte infame. La vita è un diritto divino Giovanni Paolo II, con vivida umanità inumidì l’indice tra le labbra per sfogliare le pagine del suo discorso, e ricordando le parole pronunciate nella valle dei templi, affermò: «Non posso ripetere quel che ho già detto ad Agrigento... Ma non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita». Era il 23 novembre del 1995, quinta e ultima visita del papa in Sicilia, in occasione del convegno delle Chiese d’Italia. Era difficile che un Pontefice si ripetesse, che riprendesse un brano intero di un discorso precedente. Karol Wojtyla spesso infranse il cerimoniale, spazzando via usi e costumi della tradizione. Già il primo anatema, d’altronde, fu un guizzo, un’illuminazione improvvisa, all’ombra della Valle dei Templi. In quel momento alla Fiera, il papa ripensò alla celebrazione di un anno e mezzo prima, ad Agrigento (9 maggio 1993), con il


vento che gli scompigliava i capelli bianchi e il Tempio della Concordia alle spalle. Ripensò all’anatema contro i mafiosi, al suo dirompente invito alla conversione. E lo ripeté, parola per parola, con la mente rivolta a quella che era stata invece la risposta della mafia: a luglio le bombe di Roma, che danneggiarono le chiese di S. Giovanni in Laterano e di S. Giorgio al Velabro, a settembre l’omicidio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita... Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!». Giovanni Paolo II ripeté le parole a Palermo, la terra amata da don Puglisi, un anno e mezzo dopo. No alla rassegnazione Scavando nei testi dei discorsi pronunciati da Wojtyla durante le cinque

visite nell’Isola, si ricostruisce una fitta trama di riflessioni, tutte ispirate dal tentativo di scuotere i siciliani, soprattutto i giovani, dai «mali atavici dell’apatia e del fatalismo». E di spronarli verso una nuova cultura imprenditoriale, abbandonando la tentazione di aspettare tutto dallo Stato. In questa ottica, Giovanni Paolo II non si limitò alla denuncia contro la mafia, ma spinse la Chiesa verso una nuova evangelizzazione, consapevole che la criminalità organizzata non verrà mai sconfitta se non prevarrà «una cultura della vita». Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita di Giovanni Paolo II in Sicilia (nel lontano 20-21 novembre del 1982) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla – salito al soglio di Pietro da più di quattro anni – non pronunciò la parola “mafia”. Così, andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era ca-

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duto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelia di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano, però, le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara – disse il papa a Palermo il 21 novembre – che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana... Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero, sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato a una operosità che non conosca stanchezze». Il rischio della fede Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Giovanni Paolo II affermò che, per sanare la dilagante mentalità mafiosa, «è necessario rian-


nunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza… La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola». Fu la volta del viaggio del 1993, che oltre ad Agrigento, toccò Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”). Il papa pronunciò quindici discorsi in tutto. Di straordinaria forza e intensità. Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia». Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre 1994) a Catania e a Siracusa. La prima sferzata fu per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri...). «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione – disse il papa a Siracusa – e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le

forze disponibili del clero». I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano. Il papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo». Nei suoi discorsi nell’Isola, Giovanni Paolo II inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione». Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro un’inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità. La forza della gente del Sud Una così acuta analisi dei mali non solo della Sicilia o del Sud, si chiuse 30

nel 1995, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza: «Spetta alle genti del Sud – concluse il papa a Palermo, alla Fiera, sotto lo sguardo del Pantocrator – essere le protagoniste del proprio riscatto... E le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata». Partendo dal sacrificio di don Puglisi, dopo la rivolta della società civile, Giovanni Paolo II indicò così la strada del riscatto anche


alla comunità ecclesiale. Attraverso un linguaggio nuovo e proprio dei cristiani – il linguaggio evangelico della profezia e della conversione – superò di slancio l’antico dibattito sui compiti e le competenze della Chiesa in terra di mafia. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società italiana. La cultura meridionale è bisognosa di radicali interventi purificatori e risanatori. Per questo, la comunità eccle-

siale non può limitarsi a sterili denunce, magari prendendo in prestito slogan e atteggiamenti della società civile, ma deve continuamente confrontarsi con l’obiettivo della “inculturazione della fede”: “Parlare di evangelizzazione come inculturazione porta ad esplicitare l’esigenza di un confronto della prassi pastorale con la cultura diffusa. Le Chiese del Sud, di fronte ai processi di secolarizzazione e di decristianizzazione della mentalità collettiva, hanno il compito di informare la mentalità collettiva a

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modi di pensare e di agire in consonanza con il messaggio cristiano. Il fine è quello di determinare un ambiente in cui la testimonianza cristiana non solo risulta possibile, ma riesce anche a incidere nella linea di una umanizzazione dei rapporti sociali. Dandosi questo compito, inevitabilmente le Chiese del Sud incrociano il tema della mafia, della camorra e della ndrangheta e, insieme alla mafia, alla camorra e alla ndrangheta, incrociano anche la via del martirio.


SPIRITUALITÀ di Clara Fusciello

Lo specchio della mia vita «

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gli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio […] e in esso scruta continuamente il tuo volto» (4LAg 14: FF 2902): così Chiara scrive in una lettera indirizzata alla principessa Agnese di Praga. Figlia del re di Boemia, Agnese aveva rinunciato alle nozze con l’imperatore Federico II per dedicare la vita completamente a Dio, fondando per questo un monastero di clarisse. Forse aveva sentito parlare di Chiara e dell’esperienza di S. Damiano dai frati, che già nel 1230 erano arrivati nel suo paese. Sappiamo di certo che tra le due donne nacque un rapporto di amicizia spirituale, testimoniato da quattro lettere, forse le sole superstiti di un epistolario più intenso. L’ultima, da cui è tratto il nostro brano, è scritta da Chiara sul finire della vita, quando lo sguardo si volge indietro e si valutano le cose davvero importanti, quelle da raccomandare, quelle che reggono una vita. Chiara esorta l’amica Agnese ad aderire strettamente a Gesù e lo fa usando delle immagini. Una di queste è lo specchio, un oggetto tipicamente femminile! Ma di cosa sta parlando precisamente Chiara? Si tratta, infatti, di uno specchio particolare, perché continua: «In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità, come potrai contemplare per grazia di Dio, su tutto lo specchio». E ancora: «Guarda con attenzione – dico – il principio di questo specchio, la povertà di colui che è posto in una mangiatoia e avvolto in pannicelli. O mirabile umiltà, o povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è reclinato in una mangiatoia. Nel mezzo dello specchio, poi, considera l’umiltà santa, la beata povertà, le fatiche e le pene senza numero che egli sostenne per la redenzione del genere umano. Alla fine dello specchio contempla l’ineffabile carità per la quale volle patire sull’albero della croce e su di esso morire della morte più infamante». Il lettore attento riconosce facilmente la vicenda evangelica di Gesù: la nascita, la predicazione pubblica, la passione. Questo specchio, dunque, altro non è se non il Vangelo e, potremmo dire, tutta la Scrittura, perché tutta si riferisce a Cristo (cf. Gv 5,39). L’immagine dello specchio per intendere la Scrittura era utilizzata spesso dai Padri della Chiesa, e forse Chiara l’aveva ascoltata nelle letture della liturgia. Gregorio Magno scriveva: «La Scrittura è come uno specchio messo da-

vanti agli occhi della nostra mente, perché in essa vediamo il nostro aspetto interiore» (Moralia, II,1). E Basilio: «Apprendi la Scrittura. Che essa diventi lo specchio del tuo volto». Sappiamo che gli specchi dell’antichità erano di lamina e quindi non riflettevano l’immagine in modo così nitido come i nostri. La Scrittura, infatti, richiede il nostro coinvolgimento affettivo e intellettivo; ha bisogno di essere scrutata, meditata; ha bisogno di frequentazione assidua, di tempo donato, ma solo essa racchiude la verità dell’uomo, la mia verità. La Scrittura ci svela la nostra propria identità e ci aiuta ogni giorno a leggere il libro della nostra esperienza. Anche noi, dunque, seguiamo l’invito di Chiara, guardando ogni giorno la nostra esistenza alla luce del Vangelo e mettendo in pratica quanto ascoltiamo, perché «se uno ascolta soltanto somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era» (Gc 1,23-24). Chiara aveva imparato la lezione da Francesco, che non fu mai un ascoltatore sordo della Parola, ma sempre la “fece” e facendola la comprese ancora di più e in essa trovò il senso e la gioia della vita… quella che tutti ci ha contagiati! 32


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Pregare pensando: la via del Vangelo

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’evangelico “convertitetivi” (meta-noeite: Mc 1,15) sollecita il cambiamento del modo di pensare (noein o Nous) e, nel contesto marciano, del modo di interpretare la legge o Torah, non di carattere formalistico, ma di partecipazione alla vita del prossimo, nella comunione con Dio. Da qui l’importanza di intendersi sul pensare francescano (Nous), chiedendosi se non debba esser questo l’originale modo di pregare. Non pare fuori luogo ricordare che san Francesco non condivise la regola monastica, perché piegava la vita alla liturgia; né però accettò la forma vitae della Chiesa romana, perché faceva del sacerdozio l’ufficium o l’opus ex se operatum, indipendente dalla vita dei ministri. Francesco scelse la via evangelica, la vita di Colui che, in comunione con il Padre, aveva attraversato le

strade per far nascere un nuovo modo di pensare. Gesù Cristo e san Francesco non sono ricordati per specifiche forme comunitarie di preghiera, ma per questo inedito approccio alla vita. I grandi francescani hanno teorizzato questo spirito e hanno concluso che il reale è qualcosa di “divino” non perché razionale, ma perché “voluto” (valde bonum) e cioè, espressione massima (valde) nel tempo della bontà divina (bonun). Ora, lo stile francescano non è de-creante, ma ri-creante, e cioè si impegna a liberare questa “energia-agente” dall’opacità in cui resta se letta in un’ottica razionalistica. Si noti, en passant, che è tale ottica – ben diversa dalla lettura volontaristica francescana – alla radice del discorso più consueto sulla preghiera, centrata sulla volontà, rimasta scoperta, e dunque da pie-

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gare ai disegni divini. Si noti ancora che è da riportare a questa diversa prospettiva la ragione per cui san Tommaso ritiene che la povertà sia un mezzo di santificazione, mentre il francescano la ritiene un “modo d’essere”. Il francescano non “possiede” alcunché, ma, attraverso lo svuotamento del sé (Admonitio 14), fruisce d’ogni cosa entro la logica dell’affratellamento cosmico. È il linguaggio propriamente francescano – non è il linguaggio dei testi sacri, dove le creature non umane non sono mai designate con i termini di fratello e sorella. Il “pensare francescano” si muove a questo livello – è il suo tratto specifico – con l’alto obiettivo di insegnare a pregare “vivendo” e a vivere pregando, cioè interpretando in maniera adeguata ciò che si è chiamato a fare, perché non ci sia contrasto tra il pensare e l’operare. Si è all’origina-


ria apertura a Dio o al Nous come riflessione orante. Francesco era preghiera vivente: d’oratio factus erat. In questo contesto pare opportuno distinguere il momento comunitario dal momento personale della preghiera, costituito, questo secondo, dal pensare o dall’educare a cogliere il fondo autentico dell’essere, quale traccia luminosa di preghiera. Il momento comunitario deve essere funzionale a tale modo personale, che fa tutt’uno con il modo di pensare, di cui il modo di operare conserva la luce e il calore. Ogni francescano dovrebbe far proprio tale discorso, in linea con l’indole della sua Comunità, e proporlo nelle sedi opportune, con finalità propriamente pastorali, dal momento che il nostro compito è di insegnare al popolo a pregare “vivendo”, e cioè pensare e operare in modo francescano. Da qui la centralità della “catechesi francescana”, attraverso la galleria dei personaggi francescani e attraverso quelle prospettive dottrinali, che sono orizzonti di vita francescana. A tale scopo occorre recuperare il senso dello studio delle “cose francescane” –

non del semplice aggiornamento – o almeno risvegliare il bisogno della lettura pertinente. E come raggiungere tale obiettivo se lasciamo cadere questa premessa, apparentemente paradossole – il pensare francescano come ringraziare (conoscenza come ri-conoscenza), anima del Cantico delle creature – “perla” del francescanesimo? È, questa, una delle vie da percorrere perché venga scalfita l’indifferenza per la “ricerca” della prospettiva francescana, dotando la propria bibliotechina parrocchiale di testi appropriati; e, soprattutto, perché si indebolisca ogni carattere formalistico della preghiera comunitaria, attraverso espressioni di vita vissuta, con formule e pratiche personalizzate. Ciò che dovrebbe brillare in cima all’orizzonte dell’impegno pastorale è l’affermazione di uno stile di vita grato per ciò che si è – il pensare – inevitabile premessa dello stile oblativo di ciò che si ha – l’operare. È la riscoperta della radice dell’essere la via francescana per impedire la radicalizzazione della secolarizzazione.

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La preghiera come luogo di speranza

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esù ci ha insegnato che la preghiera non può essere un alibi, una fuga dalle responsabilità. È un atto di speranza. È credere all’impossibile possibilità di Dio, è consegnarsi fiduciosamente nelle mani del Padre, sempre! Di fatti, Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Si prega non per pretendere che Dio faccia al nostro posto quello che dobbiamo fare noi. Non si può pregare per la conversione dei fratelli senza assumere l’iniziativa della testimonianza e dell’annuncio; non si può pregare perché cessino le sofferenze, senza fare dei gesti che leniscano qualche sofferenza; non si può pregare perché finisca lo sfruttamento dei forti sui deboli, senza compiere atti di giustizia; non si può pregare perché sia risolto il problema della fame nel mondo, senza impegnarsi nella condivisione. Il Vangelo non dice: “Chi ha due mantelli preghi per chi non ne ha”. Bensì afferma: “Ne dia uno a chi non ne ha”. Pregare è anche condividere il dolore dell’altro, di chi è solo, abbandonato, reietto dagli uomini, dalla società, senza amore, consegnato alla violenza, ai soprusi, al giudizio, all’isolamento, emarginato. Così, la preghiera diventa amore e ci inserisce nella vita di Dio che è Amore.


PASTORALE di Antonio Vetrano

La notte è una bugia, il sole c’è anche la sera!

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o, non siamo migliori dei non credenti. Ma almeno speriamo di essere non peggiori! Intendo dire: abbiamo anche noi “le nostre pecche”, qualche “angolo oscuro della coscienza”, qualche “debolezza inconfessabile”… Ma c’è chi sta cento volte peggio di noi, guardiamoci intorno! Gente “senza morale” e “senza Dio”, che commette ogni nefandezza! Come il pubblicano là in fondo… Confucio dice che “mettere in mostra i difetti degli altri per coprire i propri, equivale a lavarsi col fango”! Che dura, questa parabola, Signore! Eppure abbiamo appena scoperto nella Pasqua la bellezza della tua presenza. Anzi, della tua “assenza”! È risorto! La notizia ha attraversato i secoli, ed è arrivata fino a noi, oggi. Milioni di uomini e donne hanno scoperto la semplice verità. È inutile cercare il crocifisso… Non è qui. È risorto. Non rianimato. Non vivo nella nostra memoria. Gesù di Nazareth è risorto da morte e vive in eterno. La sua tomba, preziosamente conservata a Gerusalemme, richiama centinaia di migliaia di persone – ogni anno, uomini e donne che, o più o meno consapevolmente, affrontano

un viaggio, nel passato, pericoloso e lunghissimo – per vedere una tomba vuota! Vuota! Ma, certo, la cosa ci può lasciare indifferenti, o pieni di dubbi... Tempi fragili! Siamo consapevoli che la fede nel risorto richiede un salto di qualità: altro è credere che un buon uomo, un profeta di nome Gesù, ci ha parlato di Dio in modo innovativo; altro è professarlo risorto e presente, crederlo manifestazione stessa del Signore! Di fronte a quella pietra fredda del sepolcro… pietra che non è stata capace di trasmettere il suo freddo al corpo freddo di Gesù… Eppure siamo tutti contenti (e rimpinzati!), di avere messo te nella nostra vita… e facciamo ancora fatica, tanta fatica, a passare dalla croce (dura 3 giorni!) alla risurrezione (che è per l’eternità!)... Ed ecco, ci chiedi di abbandonare l’orgoglio spirituale! La ragione è semplice, per rimanere nella parabola del pubblicano e del fariseo: tu solo leggi i cuori e non giudichi secondo le apparenze. Il pubblicano è peccatore. E lo sa. Non si giustifica, non promette conversione, né auspica cambiamenti. È consapevole della sua immensa fragilità, non pretende, non presume,

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non accampa diritti. Cerca solo perdono. Siamo chiamati a credere senza vedere. Siamo beati, se crediamo senza vedere. Ma non come dei creduloni ingenui, e storditi. La fede è proprio la fiducia in qualcosa che non vediamo, ma che sperimentiamo credibile. Il problema, semmai, è chi ce ne parla. Sapere se costui merita, o meno, fiducia. Gesù risorto appare agli apostoli. E dona loro la pace, lo Spirito e il perdono dei peccati. Solo attraverso lo Spirito possiamo sperimentare la pace del cuore, di chi si sa riconciliato, e diventa dispensatore di perdono. Incontrare Gesù risorto è un evento dell’anima. Che parte dalla curiosità, si nutre d’intelligenza e approda alla fede. La curiosità inizia nell’incontro con persone (purtroppo sempre troppo poche!) che vivono nella pace del cuore, riconciliati dapprima con se stessi e poi con gli altri, e scoprire così che sono discepoli del risorto. Anche noi, come loro, possiamo inseguire Gesù, salvo poi scoprire di cercare colui che ci cerca. Che cosa è essenziale nei discepoli? Amare. Che sia questo il problema? Che sia proprio l’assenza di cristiani pacifi-


cati, perdonati e colmi d’amore a far nascere tanti dubbi? La prima comunità in Gerusalemme attira ammirazione e curiosità: in un mondo di squali, i cristiani si vogliono bene; in un mondo in cui regna l’inganno e la bramosia del denaro, i discepoli si aiutano nei bisogni concreti; in un mondo di pavidi, gli apostoli professano con forza la loro verità. Certo, gli esegeti ci dicono che quella di Luca è più una catechesi che una descrizione, ma tanto basta per capire che, forse, i nostri percorsi devono cambiare. Senza deprimerci! Anzi! Proprio perché facciamo fatica a vedere, nel nostro quotidiano, comunità di persone che non giudicano ma che accolgono; che non vivono come gli altri – usandosi, cioè, per avere dei benefici –; che proclamano Cristo con convinzione e passione... i dubbi crescono. E le nostre comunità vacillano. Che fare? In cammino! Il rischio è di fare ciò che fanno in molti: andarsene, rassegnarsi, spegnersi. Sono quelli che confondono il punto di partenza con quello di arrivo. O sono pigri. Oppure scrivere mille altri vangeli (quelli a modo mio!), mille altre storie (credo in Dio, ma non nella Chiesa!), mille altre meraviglie (stai ancora a sentire i preti? Dio è dentro di te, comportati come ritieni giusto…). O come suggerisce Giovanni, scrivi il vangelo della tua vita. Oppure fare come Tommaso che, pur deluso, non se ne va. Ma resta e aspetta (e fa bene ad aspettare, perché il Signore torna!). Beati noi che crediamo senza avere visto. Beati noi che non ce ne andiamo, che non ci sentiamo migliori, che soffriamo per la Chiesa che amiamo. Beati noi che vogliamo cambiare le cose che non funzionano a partire da noi stessi. Quando capiremo che il Signore ci chiede solo l’autenticità? Che ci sono situazioni in cui oggettivamente non si riesce a cambiare? Il fariseo esce dal tempio senza avere incontrato Dio. Non c’è posto per Dio. Il suo cuore è colmo di se stesso. Il pubblicano, invece, esce fuori con una presenza che – speriamo! – lo aiuterà a scegliere la luce. Come Tommaso, vedremo i segni del risorto anche nelle piaghe.

La luce della Pasqua

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Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi. Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione. Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.

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APPROFONDIMENTI di Edoardo Scognamiglio

Il senso della nuova evangelizzazione Lasciamoci guardare dalla Verità

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’istituzione del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (28 giugno 2010) e la prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, chiamata a riflettere nell’ottobre 2012 su Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana, dicono quanto sia rilevante questo tema per Benedetto XVI. È stato lui stesso a renderne ragione nel discorso alla prima Assemblea Plenaria del nuovo Consiglio il 30 maggio 2011, con parole tanto più incisive in quanto radicate nella sua storia personale di studioso e di pastore: «Quando lo scorso 28 giugno, ai Primi Vespri della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo annunciai di voler istituire un Dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione, davo uno sbocco operativo alla riflessione che avevo condotto da lungo tempo sulla necessità di offrire una risposta particolare al momento di crisi della vita cristiana, che si sta verificando in tanti Paesi, soprattutto di antica tradizione cristiana». Il papa mostra come all’origine della riflessione

sull’urgenza di una nuova evangelizzazione sia la constatazione di una diffusa situazione di crisi, percepibile soprattutto nei Paesi di antica cristianità. In che consiste questa crisi? Quali ne sono le cause? Rispondere a queste domande è punto di partenza necessario per proporre un efficace progetto per la nuova evangelizzazione. A partire dalla crisi di fede Nel “Motu proprio” Ubicumque et semper del 21 Settembre 2010, con il quale viene istituito il nuovo Pontificio Consiglio, lo stesso Benedetto XVI descrive così la crisi di cui parliamo: «Uno dei tratti singolari del nostro tempo è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della

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scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo. E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cf. 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento a una legge morale naturale». La crisi, nell’analisi del papa teologo, ha dunque radici lontane: sul piano culturale si potrebbe indivi-


duarne l’origine in quel processo di autonomia del mondano, che ha inizio col “secolo dei Lumi” e si sviluppa nelle varie forme e stagioni dell’ideologia moderna del “regnum hominis” quale regola assoluta dell’agire. L’esigenza morale diviene sempre più una legislazione autonoma dell’uomo, mentre il richiamo del sentimento a Dio svanisce progressivamente e il bene, staccato dalla sua radice metafisica, perde la sua forza vincolante. Di qui la profonda crisi della coscienza morale del nostro tempo. Si comprende allora come dietro l’idea di autonomia ci sia una pretesa che non solo vuole fondare l’uomo in se stesso, ma attacca Dio. Ciò che essa afferma è che l’uomo, nel suo carattere etico, sia assoluto. Ma tale egli non è. Se ciò nonostante l’uomo mantiene la pretesa, ne deriva una solitudine interiore, là dove sensatamente si do-

vrebbe trovare una comunione, e appunto perciò uno sforzo eccessivo e spasmodico, che necessariamente nello sviluppo storico deve rovesciarsi nello scetticismo e nel nichilismo o nell’abbandono di sé in balia della violenza. Superare l’etica della solitudine È un’etica della solitudine quella che la pretesa assoluta della ragione moderna finisce con il produrre: l’altro diventa uno “straniero morale”; il Trascendente è negato; l’io è solo. L’uomo moderno ha perduto il punto di riferimento esistenziale; non è più in relazione con il Dio sovrano che è al di sopra del mondo. Il mondo ricade su se medesimo e aspira a essere l’Universo. Ora l’uomo non può tuttavia eliminare il dato di fatto su cui si fonda il suo essere, ossia il rapporto personale con Dio. Dell’uomo lasciato in balia 38

di se stesso la volontà di potenza della ragione ideologica ha facile gioco: dove è persa la relazione con il Trascendente è aperta la strada a ogni possibile manipolazione dell’uomo sull’uomo. Alla base della crisi della modernità – esplosa in piena evidenza nella parabola tragica dell’ideologia in tutte le sue espressioni, di destra come di sinistra – sta la perdita del senso della verità su Dio e sull’uomo davanti a lui e conseguentemente l’oblio del valore infinito della persona e della sua libertà: «Una verità, vale a dire una validità assoluta della conoscenza che si attui in maniera giusta; un’esigenza morale, vale a dire un incondizionato legame della libertà: questi due valori, su cui si fonda semplicemente l’esistenza umana, non possono essere fondati se si parte dalla tesi dell’autonomia.


Come uscire dalla crisi? Per uscire dalla crisi non c’è che una sola via, coincidente con quella più volte proposta da Benedetto XVI: aprire gli occhi di fronte alla verità, uscire nell’ipertrofia del soggetto. Bisogna guardare fuori di sé alla verità delle cose e misurarsi con la realtà dell’altro, sia prossimo e immediato, che trascendente e sovrano. Occorre riscoprire il primato del logos sull’ethos, dove con logos s’intende l’ultimo fondamento della realtà, che non richiede né fondazione, né riconoscimento per essere vero. Papa Benedetto testimonia di continuo la fiducia nella forza unificante e liberante del logos, precisamente perché ne coglie le conseguenze decisive per il mondo uscito dalla crisi della modernità, alla ricerca di orizzonti affidabili in questa inquieta post-modernità. Se per l’ideologia moderna Dio risultava “mortuus, inutilis, otiosus” davanti alle pretese assolute dell’autonomia dell’uomo, uno sguardo alla realtà privo di pregiudizi ne mostra invece il valore fondante per ancorare la vita e la storia a una autentica riserva di senso. Se le volgarizzazioni del positivismo scientifico e le realizzazioni storiche dei modelli ideologici davano per scontata la morte di Dio, e questa pretesa si affaccia nelle recenti proposte divulgative di un certo ateismo postulatorio (cf. Richard Dawkins, Christopher Hitchens, Michel Onfray, Piergiorgio Odifreddi), il ritorno alla realtà risveglia il bisogno urgente dell’incontro liberante col Dio vivo. Ci si rende conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose (Ubicumque et semper).

In che senso “nuova evangelizzazione”? Di fronte al mutato contesto culturale dell’Occidente e all’impatto che tutto questo ha sulla vita degli uomini, nasce la domanda su come si possa annunciare oggi credibilmente la buona novella di Gesù. Afferma Benedetto XVI nel discorso del 30 maggio 2011: «Il termine ‘nuova evangelizzazione’ richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana. Il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione, vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore». Ciò che cambia, insomma, non è il Vangelo, ma il destinatario cui va annunciato: occorre aprirsi alle nuove sfide, apprendere nuovi linguaggi, tentare nuove forme di approccio. La nuova evangelizzazione dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale. Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità, è importante far comprendere che l’essere cristiano non è una specie di abito da vestire in privato o in particolari occasioni, ma è qualcosa di vivo e totalizzante, capace di assumere tutto ciò che di buono vi è nella modernità.

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Alla radice di questa novità di linguaggi e di approcci sta sempre però la novità dell’incontro con il Cristo vissuto da chi crede. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. In questo senso, l’aggettivo “nuova” posto innanzi al termine “evangelizzazione” va ben compreso: non si tratta di una semplice novità cronologica, quasi che quanto fatto finora è stato sbagliato o parziale, e ora inizi l’anno zero della proclamazione del Vangelo al mondo. Una simile lettura sarebbe fuorviante: dal passato ci vengono straordinari esempi di rinnovato slancio evangelizzatore in epoche di grande creatività pastorale e missionaria. Si pensi, per fare solo un esempio, all’opera delle missioni nell’età moderna, che ha conquistato al Vangelo interi popoli e diversissime culture. Ciò che deve essere nuovo nello sforzo dell’evangelizzazione oggi richiesto si pone piuttosto sul piano qualitativo: per ricorrere alla terminologia del greco neotestamentario, in gioco è la novità del “kainós”, non quella del “neós”, la novità qualitativa ed escatologica, non quella meramente cronologica di ciò che accade adesso e prima non era accaduto. Non a caso Gesù chiama “kainé” il suo comandamento nuovo: «entolé kainé» (1Gv 2,7s), per indicare che solo gli uomini nuovi, resi tali dal Figlio, possono vivere la novità dell’amore da Lui richiesto e darne testimonianza credibile. In questa luce, l’evangelizzazione sarà “nuova” se nascerà da un impegno di profondo rinnovamento e riforma di tutta la chiesa e di ciascuno dei protagonisti che la vivranno.


ARTE di Paolo D’Alessandro

La pace paradisiaca

U

na tradizione antichissima replica di Nocera, di noha consacrato alla Vergine tevole interesse artiMaria il periodo centrale stico, è una delle tante della primavera per riplasmare con la che si conoscono, vi è, insua esemplarità di vita i nostri com- fatti, anche una a Genova, portamenti, modellandoli su Cristo. a Roma e a Gaeta. Questo diMaria ci conduce a Gesù, in quanto mostra il successo di tale icoella è tutta correlata al Figlio suo. E nografia e l’influenza di Raffaello questa relazione è evidente anche da nella cultura artistica locale. Le figure un tondo dipinto a olio, di novanta- della Vergine, di Gesù Bambino e di quattro centimetri di diametro, copia san Giovannino sono inserite in un seicentesca della Madonna D’Alba di luminoso paesaggio rasserenante e Raffaello, conservato nella Pinacoteca formano una composizione di tipo pidel convento di Sant’Antonio in No- ramidale. Si nota l’influenza di Leocera Inferiore (Foto 1). L’originale, di- nardo da Vinci, nella resa sfumata pinto da Raffaello nel 1511 per uno degli incarnati, e di Michelangelo, sconosciuto committente (Foto 2), si nell’esaltazione plastica e sciolta delle trovava fino al 1600 a Nocera nel con- forme. La Vergine indossa una veste vento degli Olivetani fondato nel dal colore geranio e un manto azzurro 1530. Fu portato probabilmente a No- che le copre tutto il corpo. Ha un turcera dal fondatore del convento bante in testa, come le Sibille della Giambattista Castaldo dopo averla ot- Cappella Sistina, e sandali all’antica. tenuta durante il Sacco di Roma del Essa occupa la maggior parte dello 1527, al quale aveva preso parte. La spazio pittorico, è seduta con un arfondazione del convento-santuario dito scorcio anatomico a terra in un era stata dopotutto una sorta di ex prato descritto con le sue erbe e i suoi voto dopo i fatti del’27. fiori, ricchi di significato simbolico, il Nel 1686 l’opera lasciò Nocera, tutto secondo il tipo iconoe passò nelle mani del margrafico della “Machese de Caprio Gasparo donna dell’Umiltà”. de Haro y Guzman, viÈ appoggiata con ceré di Napoli, che la la schiena e il portò in Spagna. Nel braccio sinistro 1793 il dipinto è su un tronco, inmenzionato dal tenta alla lettura Conca (Descrizione del Libro Sacro odeporica...) nelle collesocchiuso nella sua zioni del Duca d’Alba a mano sinistra. Si pun1 Madrid, dal quale prese il tella con la gamba sinistra nome. Nel 1836 fu acquistato dallo in avanti per accogliere alla sua dezar Nicola I di Russia per il Museo stra san Giovannino in ginocchio, vedell’Ermitage a San Pietroburgo. Un stito di peli di cammello. secolo dopo il governo sovietico lo ce- Gesù Bambino raffigurato nudo per dette al collezionista americano An- indicare la sua vera umanità oltre a drew W. Mellon che lo donò alla quella divina, è seduto sulla gamba Galleria Nazionale di Washington. La destra della Vergine e si volge verso 40

2 la croce che san Giovannino stringe tra le mani, per afferrarla con la sua destra. Gli occhi di Maria e di san Giovannino convergono su questa croce, che è il fulcro della composizione. La bella, serena e armoniosa raffigurazione di Raffaello trae ispirazione letteraria non solo dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze ma soprattutto dall’oracolo del profeta Isaia che nel capitolo undici, ai versetti uno fino a dieci, descrive i tratti essenziali del futuro Messia che farà regnare la giustizia e la pace in tutto l’universo. La Vergine Maria, sposa di Giuseppe della dinastia di David, si appoggia al tronco, che è quello ormai inaridito della dinastia davidica descritto dal profeta Isaia. Raffigura così la linfa, il grembo dal quale germoglia per opera dello Spirito del Signore il “virgulto” Gesù. Egli si volge per afferrare la croce come un vessillo vittorioso, cioè per accettare pienamente il progetto di salvezza dell’uomo da parte di Dio attraverso la sua passione, morte e resurrezione. Solo così il mondo potrà essere di nuovo quel paradiso terrestre in cui l’uomo era stato posto al momento della creazione. Ed è proprio questo che Raffaello esprime nel suo dipinto: l’armonia, la bellezza, la pace paradisiaca di Dio riacquistata attraverso la Vergine Maria e realizzata da Gesù nello Spirito.


UN PO’ DI STORIA di Agnello Stoia

San Francesco accoglie san Bernardino da Siena

I

l corpo di san Bernardino da Siena ha fatto tappa al nostro Convento di san Francesco a Folloni in Montella (AV) nella Provincia religiosa OFMConv di Napoli. Venuto dall’Aquila per le vie del Sannio e dell’Irpinia per festeggiare il centenario di costituzione della Provincia dei Frati Minori “Santa Maria delle Grazie”, il corpo di san Bernardino da Siena ha fatto tappa al nostro Convento di san Francesco a Folloni in Montella (AV) nella Provincia religiosa OFMConv di Napoli. Ad accoglierlo nel pomeriggio di venerdì 27 aprile scorso alle porte della città una numerosa e devota folla di fedeli con le Confraternite e i parroci che, guidati dal Vescovo Mons. Franco Alfano, hanno condotto la reliquia nella chiesa principale di Montella. A conclusione della celebrazione eucaristica una solenne processione si è snodata lungo il percorso verso il Convento, due km più a valle, sulle sponde del fiume Calore, dove la tradizione lo vuole fondato da san Francesco nel 1221. La sinergia tra i frati e l’Arciconfraternita di san Bernardino, che dai primi fu voluta già nella seconda

San Bernardino da Siena sacerdote

Canonizzato nel 1450, cioè a soli sei anni dalla morte, era nato nel 1380 a Massa Marittima, dalla nobile famiglia senese degli Albizzeschi. Rimasto orfano dei genitori in giovane età fu allevato a Siena da due zie. Frequentò lo Studio senese fino a ventidue anni, quando vestì l’abito francescano. In seno all’ordine divenne uno dei principali propugnatori della riforma dei francescani osservanti. Banditore della devozione al santo nome di Gesù, ne faceva incidere il monogramma «YHS» su tavolette di legno,

metà del 1400, ha consentito per l’occasione che si venerasse l’urna nella chiesa del Convento per tutta la notte e fino alla partenza della stessa nelle prime ore pomeridiane del giorno successivo. L’evento è stato anticipato da una Giornata di Studi “In nomine Jesu. Il programma sociale di san Bernardino da Siena”, dove è intervenuto Franco Cardini con due relazioni. Le più antiche testimonianze del culto al santo senese in Campania sono conservate presso il nostro convento di Folloni, che lo vedono raffigurato a sbalzo su una croce astile argentea (1457) e intagliato in una formella del portale ligneo di accesso all’antica chiesa (XVI sec).

che dava a baciare al pubblico al termine delle prediche. Stenografati con un metodo di sua invenzione da un discepolo, i discorsi in volgare di Bernardino sono giunti fino a noi. Aveva parole durissime per quanti «rinnegano Iddio per un capo d’aglio» e per «le belve dalle zanne lunghe che rodono le ossa del povero». Anche dopo la sua morte, avvenuta alla città dell’Aquila, nel 1444, Bernardino continuò la sua opera di pacificazione. Era infatti giunto morente in questa città e non poté tenervi il corso di prediche che si era prefisso. Persistendo le lotte tra le opposte fazioni, il suo corpo dentro la bara co-

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minciò a versare sangue e il flusso si arrestò soltanto quando i cittadini dell’Aquila si rappacificarono. Patronato: Pubblicitari, Preghiere. Etimologia: Bernardino=ardito come orso, dal tedesco. Martirologio Romano: San Bernardino da Siena, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che per i paesi e le città d’Italia evangelizzò le folle con la parola e con l’esempio e diffuse la devozione al santissimo nome di Gesù, esercitando instancabilmente il ministero della predicazione con grande frutto per le anime fino alla morte avvenuta all’Aquila in Abruzzo.


EVENTI

a del corpo di san

nz Montella, accoglie

Bernardino

Nocera Inferiore, 13 maggio 2012 Convegno di pastorale giovanile

Immagini di san Bernardino

Torre Annunziata, celebrazione delle cresime 27 maggio 2012

San Lorenzo - Napoli, 15 maggio 2012 Incontro del presbiterio con il Card. Sepe

Napoli FacoltĂ teologi 14 mag


Potenza, convegno pastorale 12 maggio 2012

Kolbe e la risurrezione Dipinto di Fra Paolo D’Alessandro

Torre Annunziata, accoglienza della Madonna di Fatima

ica, convegno ecumenico ggio 2012

dei giovani frati Torre del Greco, incontro 12 20 io gg ma 16

Inviate alla nostra redazione via e-mail foto e notizie e saranno pubblicate 43


I giovani della squadra calcio di S. Lorenzo Maggiore: essere tutti un po’ protagonisti

O

ggi vi presentiamo la squadra di calcio di S. Lorenzo Maggiore di Napoli, composta da 40 ragazzi dai 10 ai 14 anni di età, guidati da padre Vincenzo e da padre Carmine unitamente a due volontari laici Pasquale e Salvatore. Ci si incontra tre volte a settimana, durante gli incontri di calcio si gioca ma soprattutto si cerca di trasmettere loro, attraverso le “regole”, un modo corretto per stare insieme. Ogni incontro del sabato è preceduto da un momento di catechesi tenuto dai frati. Ora cercheremo di dare una voce a qualcuno di questi volti; ci troviamo nel chiostro di S. Lorenzo Maggiore con Giuseppe di 14 anni che abita a forcella insieme all’amico Vincenzo di 12 anni; chiediamo loro cosa li ha spinti a frequentare questa attività sportiva, si dimenano e poi raccontano di essere stati invitati da altri ragazzi già iscritti; Nunzio di 12 anni preferisce le regole ferree del mister Pasquale a quelle meno rigide di mister Salvatore che cerca di far giocare tutti. Interessati e incuriositi si avvicinano a noi anche Andrea e Salvatore di 12 anni ai quali va spiegato il motivo di questa breve intervista e avanzano la richiesta di ricevere in regalo una copia scritta della stessa. Trasmettere loro attraverso le regole del calcio la Parola di Dio non è sempre facile, ma siamo certi che con il nostro impegno loro si sentono un po’ protagonisti.

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di Giuseppina Costantino

Cosmopolis di David Cronenberg Film drammatico prodotto tra il Canada e la Francia nel 2012. Dura circa 105 minuti. New York è piombata nel caos, mentre l’epoca del capitalismo si avvicina alla conclusione. Eric Packer, un golden boy dell’alta finanza, entra in una limousine bianca. Mentre una visita del Presidente degli Stati Uniti paralizza Manhattan, Eric Packer ha un’ossessione: farsi tagliare i capelli dal suo barbiere, che si trova dall’altra parte della città. Durante la giornata, scoppia il caos e lui osserva impotente il crollo del suo impero. Inoltre, è sicuro che qualcuno voglia assassinarlo. Quando? Dove? Saranno le 24 ore più importanti della sua vita. Parker è un brillante giovane che controlla gli oscuri meccanismi dell’alta finanza. A David Cronenberg va riconosciuto il merito di non aver mai smesso di sperimentare pur conservando intatte le proprie tematiche di fondo. In quest’occasione si potrebbe dire che la sperimentazione ha inizio dal casting. Scegliere Robert Pattinson come protagonista poteva essere un azzardo privo di ritorni oggettivi. Sia chiaro: a differenza di quanto alcuni scrivono, questo non è l’unico film che ha liberato la star della saga di Twilight dai canini. C’è stato anche (con uscita anteriore nelle sale) l’apprezzabile Bel Ami di Declan Donnellan e Nick Ormerod. Qui, però, il giovane attore idolo delle adolescenti affronta una prova ancor più al limite della precedente e, dal momento, in cui si toglie gli occhiali scuri, riesce a superarla. Cronenberg lavora sul libro di De Lillo rispettandone (forse troppo) la struttura che si basa sui dialoghi ma apportandovi anche significativi cambiamenti. La limousine in cui Parker si rinchiude diventa metafora di un mondo economico impermeabile alla realtà. “Ciò che è attuale è troppo contemporaneo” (come afferma uno dei personaggi) e quindi è meglio prenderne le distanze per poter riprodurre dinamiche di rapporto che prevedono scambi (sessuali e non) che implichino il minimo possibile di sentimento. Molto forte, incredibilmente vicino Questo film drammatico ha un cast d’eccezione per una storia commovente tratta dall’omonimo libro di Jonathan Safran Foer. La regia è di Stephen Daldry. Con Tom Hanks, Sandra Bullock, Thomas Horn, Max von Sydow, Viola Davis. La produzione è degli Usa. Il film dura 129 minuti. È passato del tempo dal “giorno piu brutto”, ma Oskar Schell non si dà pace. Suo padre l’ha lasciato con una missione incompiuta, con molte domande e una sola certezza: non deve smettere di cercare. Quando, nell’armadio del genitore, trova una chiave e un nome, Black, Oskar trova con essa anche la spinta e l’alibi che gli mancavano. Incontrare tutti i 472 Black di New York City per testare le loro serrature diventa, per il bambino, un modo di coltivare il sogno che quella chiave possa schiudergli un ultimo messaggio del padre e una maniera di scappare ancora il più a lungo possibile dall’evidenza. “Cosa ti manca di più di lui?”, chiede Oskar alla madre. “La sua voce”, risponde lei. E anche a lui mancano più che mai le parole del padre, vere e proprie istruzioni per l’uso della vita, e non a caso è a un nome che si aggrappa e sempre non a caso è a un’occasione di dialogo persa per sempre che non si rassegna. E poi c’è l’inquilino, per il quale le parole ad alta voce non si possono più pronunciare, non dopo quello che è accaduto a Dresda, ma al quale la scrittura consente comunque di continuare a vivere. Non è tutta colpa di Stephen Daldry, dunque. Un materiale come quello redatto da Jonathan Safran Foer è fatto di scrittura e per la scrittura e il cinema, per lo meno quello narrativo tradizionale, può aggiungere davvero molto poco. O per lo meno dovrebbe. La sceneggiatura di Eric Roth, pur all’interno di uno sforzo evidente di fedeltà al libro, opera una selezione che fa coincidere l’intero film con il suo giovane protagonista e finisce per confondere la ricchezza e l’originalità del narrato con la performance attoriale, certo eccellente, di Thomas Horn.

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IN BOOK La Redazione A. SFEIR, Breve storia dell’islam a uso di tutti, Collana Hiwâr-Dialogo 8, Messaggero, Padova 2012, pp. 254, euro 20. «Gli strumenti della conoscenza e del sapere basteranno a creare i ponti necessari al dialogo tra le culture? Certuni vorrebbero che ci fosse uno scontro tra civiltà! Tuttavia, a quale civiltà appartengono i francesi nati dall’immigrazione magrebina o africana o di qualunque altra parte del pianeta? I flussi migratori ai quali abbiamo assistito negli ultimi trent’anni mostrano fino a che punto la mobilità umana abbia portato a crogioli incessanti di razze. Nella vecchia Europa o nel Nuovo Mondo, l’immigrazione è diventata una posta in gioco fondamentale della società […]. L’identità del musulmano non lega più le proprie radici alla sola civiltà islamica, indipendentemente dal fatto che questa sia medievale, ottomana o colonizzata, ma via aggiunge anche la scelta di essere francese, europeo o nordamericano. Lo scontro tra le civiltà tanto caro ad alcuni si allontana, ma saremmo folli se ignorassimo lo scontro tra culture; questo avviene già nel paese che accoglie popoli diversi ma anche tra coloro che hanno fatto della loro religione l’unica base identitaria […]. I ponti tra le civiltà sono diventati indispensabili» (pp. 241-242). L’autore di questa breve introduzione all’islam, Antoine Sfeir, è giornalista di fama internazionale e apprezzato docente del Centro Studi e riflessioni sul Vicino-Oriente. Egli è pure direttore di Cahiers de l’Orient. M. GRAMELLINI, Fai bei sogni, Longanesi, Milano 2012, pp. 209, euro 15. Questo romanzo è la storia di un segreto celato in una busta per quarant’anni. La storia di un bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande, la perdita della mamma, e il mostro più insidioso: il timore di vivere. Il saggio è dedicato a quelli che nella vita hanno perso qualcosa. Un amore, un lavoro, un tesoro. E, rifiutandosi di accettare la realtà, finiscono per smarrire se stessi. Come il protagonista di questo romanzo. Uno che cammina sulle punte dei piedi e a testa bassa perché il cielo lo spaventa, e anche la terra. Fai bei sogni è soprattutto un libro sulla verità e sulla paura di conoscere. Immergendosi nella sofferenza e superandola, ci ricorda come sia sempre possibile buttarsi alle spalle la sfiducia per andare al di là dei nostri limiti. L’autore, giornalista de La Stampa, ha raccolto gli slanci e le ferite di una vita priva del suo appiglio più solido. Una lotta incessante contro la solitudine, l’inadeguatezza e il senso di abbandono, raccontata con passione e delicata ironia. Il sofferto traguardo sarà la conquista dell’amore e di un’esistenza piena e autentica, che consentirà finalmente al protagonista di tenere i piedi per terra senza smettere di alzare gli occhi al cielo. I. ABUDELAISH, Non odierò, Piemme, Milano 2011, pp. 261, euro 16. «Poi nel gennaio del 2009, ho perso tre figlie preziose e una nipote quando un carro armato israeliano ha colpito la mia casa a Gaza. Quando sono i tuoi figli a essere diventati un danno collaterale in un conflitto apparentemente senza fine, quando hai visto i loro corpi letteralmente fatti a pezzi e decapitati , le loro vite cancellate, come puoi non odiare? Come puoi evitare la collera? Io ho giurato di non odiare e di evitare la collera a causa della mia salda fede di musulmano. Il Corano mi ha insegnato che dobbiamo sopportare con pazienza le sofferenze e perdonare coloro compiono ingiustizie che sono causa di sofferenza. Questo non significa che non agiamo per correggere quelle ingiustizie […]. Come medico non perdo la speranza finché il paziente è vivo. Ma di fronte al deterioramento della salute devo essere disposto a trovare una nuova cura, ed essere abbastanza creativo per farlo. Tutti noi dobbiamo cercare le cause del nostro fallimento nella ricerca della pace e scoprire come mai non siamo felici, appagati e sicuri. La causa è dentro di noi, non fuori di noi – nei nostri cuori e nelle nostre menti. L’odio è una malattia cronica e dobbiamo guarirne e impegnarci a creare un mondo dove non esistano povertà e sofferenza. Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può salvare da questa afflizione i pochi che sono ricchi» (pp. 249-250; 252). 46


da pagina 23

nell’aldilà. Indirettamente, almeno per noi cristiani, c’è un richiamo alla risurrezione come risposta al problema della morte che resta un passaggio e non la fine di tutto.

Come mai avete scelto di passare per la Giordania, fino a Petra? eh, innanzitutto perché era importante ricondurre il nostro pellegrinaggio al Monte Nebo, ove Mosè vide solo da lontano la Terra Promessa e dove hittiti, amorrei e quanti si dedicarono agli idoli, rinnegando l’alleanza, non entrarono. È molto significativo sia il luogo sia l’evento narrato dalle Scritture. È come se, da una parte, Mosè rappresentasse la condizione esodale del suo popolo: la fede – credere – è un uscire continuamente da se stessi, senza mai sentirsi arrivati o essere certi di niente. In tal senso, il grande profeta Mosè sembra dirci che credere è “cor-dare”, cioè dare il cuore e fidarsi del Signore che ci guida con la sua potente mano e abbandonarsi al suo volere. Viviamo sempre in una costante condizione d’esilio da noi stessi. Anche Gesù si è percepito come un pellegrino e un forestiero in questo mondo. Dall’altra, Mosè sembra quasi che debba portare su di sé le colpe del suo popolo, le infedeltà della sua gente che per ben 40 anni l’aveva seguito nel deserto con mille resistenze, per cui non entrerà nella Terra Promessa. Da qui l’invito continuo che il Signore ci rivolge alla conversione, alla purificazione, alla dociltà, alla responsabilità. Se egli è il Santo, anche noi dobbiamo camminare secondo i suoi comandamenti. È stato poi sconvolgente visitare la città di Petra costruita dai nabatei. Si tratta di città cimiteriale ove il culto dei morti apre nuovi orizzonti sul senso della vita e sulla fede

B

Quale messaggio per i fedeli? lo stesso messaggio che io ho ricevuto a Gerusalemme, al Santo Sepolcro, quando dopo un’estenuante fila sono riuscito ad entrare nel luogo della risurrezione. Il messaggio è Cristo, il risorto dai morti. Egli è vivo. Non dobbiamo cercarlo tra i morti. Deve cambiare il nostro modo d’intendere la relazione con lui, il nostro sentirci Chiesa. A volte non sappiamo riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi perché non lo cerchiamo come il Vivente, bensì come colui che è stato messo a morte. Il segno più eloquente della sua presenza viva è l’Eucaristia che ci rende Chiesa, corpo del Signore risorto. Prima di entrare nel luogo della risurrezione, ho notato che sulla porticina esterna sono raffigurati i dodici apostoli: quasi a dire, a noi oggi, che Pietro, Giacomo, Giovanni, Filippo e gli altri, lo hanno veramente incontrato e hanno annunciato a noi la gioia di questo incontro. Questo significa essere Chiesa! Annunciare assieme il Cristo morto e risorto. Il Risorto si mostra ai suoi e nasce finalmente la Chiesa. Per il prossimo anno della fede intendo proporre a tutti i fedeli della Diocesi di Caserta un cammino di fede che ponga al centro l’evento della Pasqua e la stessa testimonianza dei Dodici. Et resurrexit: è risorto come aveva promesso, portando nel suo corpo – per sempre, come segno dell’amore del Padre per noi – i segni della sua passione.

È

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