Numero 3/2014 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007
Luceerafica S Rivista francescana fondata a Ravello nel 1925
La famiglia al Sinodo
Papa Francesco Patmos Europa 1914 Il Natale da Seoul a Caserta Isola dell’anima la grande guerra di frate Francesco
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l Sinodo l mondo
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Editoriale Gianfranco Grieco
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stato l’anno dei Papi santi del Concilio quello che sta per concludersi. Papa Giovanni, santo, ha aperto l’assise conciliare l’11 ottobre 1962; il beato Papa Paolo VI, lo ha proseguito, con un stile aggiornato, celebrando la seconda, la terza e la quarta sessione e lo ha concluso l’8 dicembre 1965. Papa Giovanni Paolo II, santo, per oltre 27 anni – 1978- 2005, ha cercato di portarlo a compimento, con il suo magistero petrino, i suoi insegnamenti, i suoi viaggi nazionali e internazionali. Tre Papi che hanno segnato la storia della seconda parte del secolo breve e i primi anni del XXI. Rinnovamento, conversione, evangelizzazione, dialogo con il mondo moderno e post-moderno: queste le tappe della lunga e composita stagione post - conciliare che dura da cinquant’anni (19652015). Lungo e faticoso è stato il cammino compiuto. Altro resta ancora da fare. Ma, non v’è dubbio che la Chiesa di Papa Giovanni, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, ha per davvero segnato i sentieri spirituali, culturali e antropologici della storia contemporanea. La Chiesa, guidata dalla forza e dalla presenza dello Spirito, sta sempre alla ricerca di vie nuove e il Sinodo dei Vescovi voluto e celebrato per la prima volta da Papa Paolo nel lontano settembre 1967, interpreta le tematiche più suggestive che incontra nel suo difficile cammino. Con l’assemblea straordinaria che si è celebrata in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014 si è affrontato un tema che brucia: “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Non sono bastate due settimane per cogliere le prio-
rità di un dibattito che sta ancora all’inizio. Oralo ha avvertito Papa Francesco – abbiamo un anno per “discernere”, cioè trovare la strada giusta per dare risposte vere e concrete che non riguardano la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia, ma le risposte pastorali e disciplinari che urgono. Le espressioni usate da Papa Francesco nel concistoro del 20 febbraio , nel discorso rivolto ai padri sinodali sabato 18 sera e nell’omelia di domenica 19 ottobre sono molto chiare ed esplicite. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in avanti; di guarire le ferite; di andare alla ricerca delle pecore smarrite con il dono dell’ascolto, dell’amore, della pietà e della misericordia. Il nostro mondo moderno ha bisogno di riconciliazione e di misericordia partendo dalla famiglia. In famiglia si uccide, ci si odia, si litiga, non ci si perdona. La famiglia si divide e si moltiplica. Dal nucleo familiare alla famiglia umana, alla famiglia dei popoli e delle nazioni il passo è d’obbligo. Bisogna dare risposte nuove alle nuove sfide. Non possiamo rinviarle. Vi sono famiglie che soffrono, che pregano, che piangono ed attendono parole di perdono, di riconciliazione e di speranza. Papa Francesco insegna. Non lasciamolo solo. E , con questo impegno, ci auguriamo buon dopo Sinodo sino a quello dell’ottobre 2015 e Buon Natale! Buon Natale
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EDITORIALE CHIESA NEWS - VIAGGI Ci scrivono... Ancora un anno per camminare insieme Non avere paura delle novità “Un evento straordinario” La Chiesa abbraccia chi è in difficoltà Paolo VI Beato Il viaggio missionario di Papa Francesco Dalla Corea Appello alla pace Il Papa scrive ai cristiani di Gaza I vescovi di Terra Santa TERRA DEL SUD Da Caserta Dal Molise Dalla Calabria Nel Sud sempre meno nascite PASTORALE - SPIRITUALITÀ Famiglia e catechismo Reportage da Patmos SGUARDI SUL MONDO Europa. 1914-2014 America. Il dramma dei bambini migranti FRANCESCANESIMO Il Natale di frate Francesco Celestino V Dalla “Conciliazione” ai “venti di guerra” Lo sguardo francescano Il beato Francesco Zirano SPECIALE BEATO BONAVENTURA Ravello e Potenza sempre insieme Ravello come Gerusalemme I santi tra noi Il Beato tra storia, teologia e spiritualità ARTE - MUSICA - CULTURA - SPORT Dieci sculture di Giovanni Paolo II Una canzone d’amore La Tavola dell’Alleanza La crisi dell’Europa L’arte di convivere Tutto calcio Il poeta Leonardo Sinisgalli Vangelo e comunità IN LIBRERIA Il Papa Gesuita Seminatore di gioia La Quaresima della Chiesa VOLTI DI CASA NOSTRA Con fra Egidio EVENTI
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CI SCRIVONO ….
La foto dei lettori Angri, 30 aprile Ho ricevuto proprio in questi giorni la bellissima rivista Luce serafica, che mi ha inviato e con mia grande sorpresa ho letto articolo su Delfina (che si è emozionata quando l’ha vista!!!). Grazie di cuore! Grazie di tutto!!!. Quando vado a messa ogni giorno ringrazio Dio per questi segni di benevolenza e di affetto. Mi rincuorano tanto. Giovanna Abbagnara
Roma, 13 luglio 2014 Caro Gianfranco, Luce Serafica è un bagno di ‘cattolicità’, a cui inviti noi ‘napoletani’, a volte prigionieri delle nostre ‘bellezze’. Personaggi, eventi, iniziative dei nostri paesi o delle nostre comunità, accostati a eventi e personaggi di altre terre, acquistano un altro ‘sapore’ e una ben diversa ‘profondità’. E’ davvero Luce Serafica quella che ci regali, con abbondanza e con intelligenza. Padre Orlando Todisco
Ravello, 30 giugno Buonasera Padre Gianfranco Oggi quando la postina mi ha consegnato la busta e ho trovato la sua rivista ho gioito, devo dire che non la conoscevo direttamente lo trovata molto interessante. La voglio ringraziare per la sua gentilezza e spero di rivederla presto a Ravello. Colgo l’occasione per inviarle cordiali saluti. Giovanni Fortunato
Città del Vaticano, 10 luglio Carissimo padre Gianfranco, ho ricevuto la rivista Luce Serafica. Davvero molto bella. E grazie davvero per la bella intervista a don Alfred! Buon lavoro, Alessandro Gisotti
COMITATO DI REDAZIONE Orlando Todisco Edoardo Scognamiglio Iman Sabbah Emanuela Vinai Assunta Cefola Emanuela Bambara Giacomo Auriemma Mohammad Djafarzadeh Boutros Naaman Foto di copertina di Simona Corsetti Art Director
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Hanno collaborato: Fra Marco Tasca, Orlando Todisco, Giovanna Abbagnara, Alessandro Gisotti, Giovanni Fortunato, Mons. Vincenzo Paglia, Thomas HongSoon Han, Mons. Giovanni D’Alise, Mons. Salvatore Nunnari, Andrea Giucci, Roselyne Fortin de Ferraudy, Francesco Dante, Paolo Gallarati, Josè Guillermo Guttiérez, Raniero Cantalamessa, Andrea Riccardi, Paolo Fiasconaro, Iman Sabbah, Conchita Sannino, Marcella Campanelli, Jacek Pawel Kusiak, Italo Moscati, Corrado Ruggeri, Assunta Cefola, Mohammad Djafarzadeh, Giacomo Auriemma, Fra Edoardo Scognamiglio, Gianfranco Grieco, Angela Ambrogetti
LA FAMIGLIA AL SINODO
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Ancora un anno per camminare insieme noi la bellezza e la gioia della loro vita matrimoniale. Un cammino dove il più forte si è sentito in dovere di PAPA FRANCESCO aiutare il meno forte, dove il più esperto si è prestato a servire gli altri, anche attraverso i confronti. E poiché otrei dire serenamente che - con uno spirito di essendo un cammino di uomini, con le consolazioni ci collegialità e di sinodalità - abbiamo vissuto sono stati anche altri momenti di desolazione, di tendavvero un’esperienza di “Sinodo”, un percorso sione e di tentazioni, delle quali si potrebbe menziosolidale, un “cammino insieme”. nare qualche possibilità: Ed essendo stato “un cammino” - e come ogni cammino - una: la tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il ci sono stati dei momenti di corsa veloce, quasi a voler voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lavincere il tempo e raggiungere al più presto la mèta; sciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo altri momenti di affaticamento, quasi a voler dire basta; spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che altri momenti di entusiasmo e di ardore. Ci sono stati conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora impamomenti di profonda consolazione ascoltando la testi- rare e raggiungere. Dal tempo di Gesù, è la tentazione monianza dei pastori veri (cf. Gv 10 e Cann. 375, 386, degli zelanti, degli scrupolosi, dei premurosi e dei co387) che portano nel cuore saggiamente le gioie e le la- siddetti - oggi - “tradizionalisti” e anche degli intelletcrime dei loro fedeli. Momenti di consolazione e grazia tualisti. e di conforto ascoltando e testimonianze delle famiglie - La tentazione del buonismo distruttivo, che a nome che hanno partecipato al Sinodo e hanno condiviso con di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza
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prima curarle e medicarle; che tratta i sintomi e non le cause e le radici. È la tentazione dei “buonisti”, dei timorosi e anche dei cosiddetti “progressisti e liberalisti”. - La tentazione di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo, pesante e dolente (cf. Lc 4,1-4) e anche di trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati (cf. Gv 8,7) cioè di trasformarlo in “fardelli insopportabili” (Lc 10, 27). - La tentazione di scendere dalla croce, per accontentare la gente, e non rimanerci, per compiere la volontà del Padre; di piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio. - La tentazione di trascurare il “depositum fidei”, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni o, dall’altra parte, la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano “bizantinismi”, credo, queste cose... Cari fratelli e sorelle, le tentazioni non ci devono né spaventare né sconcertare e nemmeno scoraggiare, perché nessun discepolo è più grande del suo maestro; quindi se Gesù è stato tentato - e addirittura chiamato Beelzebul (cf. Mt 12, 24) - i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento migliore. Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (EE, 6) se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace. Invece ho visto e ho ascoltato - con gioia e riconoscenza - discorsi e interventi pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio e di parresia. E ho sentito che è stato messo davanti ai propri occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e la “suprema lex”, la “salus animarum” (cf. Can. 1752). E questo sempre - lo abbiamo detto qui, in Aula - senza mettere mai in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e la procreatività, ossia l’apertura alla vita (cf. Cann. 1055, 1056 e Gaudium et Spes, 48). E questa è la Chiesa, la vigna del Signore, la Madre fertile e la Maestra premurosa, che non ha paura di rimboccarsi le maniche per versare l’olio e il vino sulle ferite degli uomini (cf. Lc 10, 25-37); che non guarda l’umanità da un castello di vetro per giudicare o classificare le persone. Questa è la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia. Questa è la Chiesa, la vera sposa di
Cristo, che cerca di essere fedele al suo Sposo e alla sua dottrina. È la Chiesa che non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani (cf. Lc 15). La Chiesa che ha le porte spalancate per ricevere i bisognosi, i pentiti e non solo i giusti o coloro che credono di essere perfetti! La Chiesa che non si vergogna del fratello caduto e non fa finta di non vederlo, anzi si sente coinvolta e quasi obbligata a rialzarlo e a incoraggiarlo a riprendere il cammino e lo accompagna verso l’incontro definitivo, con il suo Sposo, nella Gerusalemme Celeste. Questa è la Chiesa, la nostra madre! E quando la Chiesa, nella varietà dei suoi carismi, si esprime in comunione, non può sbagliare: è la bellezza e la forza del sensus fidei, di quel senso soprannaturale della fede, che viene donato dallo Spirito Santo affinché, insieme, possiamo tutti entrare nel cuore del Vangelo e imparare a seguire Gesù nella nostra vita, e questo non deve essere visto come motivo di confusione e di disagio. Tanti commentatori, o gente che parla, hanno immaginato di vedere una Chiesa in litigio dove una parte è contro l’altra, dubitando perfino dello Spirito Santo, il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi Ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri
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munità cristiana, o, come dice il Concilio, “curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati"(Presbyterorum Ordinis, 6) ... è attraverso di noi - continua Papa Benedetto - che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, dice: “Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore” (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cf. S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cf. Id., Lettera 95, 1)» (Benedetto XVI, Udienza Generale, Mercoledì, 26 maggio 2010). Quindi, la Chiesa è di Cristo - è la Sua Sposa - e tutti i vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, hanno il compito e il dovere di custodirla e di servirla, non come padroni ma come servitori. Il Papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore - il “servus servorum Dei"; il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (Can. 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (cf. Cann. 331334). Ora abbiamo ancora un anno per maturare, con vero discernimento spirituale, le idee proposte e trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare; a dare risposte ai tanti scoraggiamenti che circondano e soffocano le famiglie. Un anno per lavorare sulla “Relatio synodi” che è il riassunto fedele e chiaro di tutto quello che è stato detto e discusso in questa aula e nei circoli minori. E viene presentato alle Conferenze episcopali come “Lineamenta”. Il Signore ci accompagni, ci guidi in questo percorso a gloria del Suo nome con l’intercessione della Beata Vergine Maria e di San Giuseppe! E per favore non dimenticate di pregare per me! Aula del Sinodo Sabato, 18 ottobre 2014
infedeli e peccatori. E, come ho osato di dirvi all’inizio, era necessario vivere tutto questo con tranquillità, con pace interiore anche perché il Sinodo si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti. Parliamo un po’ del Papa, adesso, in rapporto con i vescovi... Dunque, il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa; è quello di ricordare ai pastori che il loro primo dovere è nutrire il gregge nutrire il gregge - che il Signore ha loro affidato e di cercare di accogliere - con paternità e misericordia e senza false paure - le pecorelle smarrite. Ho sbagliato, qui. Ho detto accogliere: andare a trovarle.Il suo compito è di ricordare a tutti che l’autorità nella Chiesa è servizio (cf. Mc 9, 33-35) come ha spiegato con chiarezza Papa Benedetto XVI, con parole che cito testualmente: «La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo ... attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro ... partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la co-
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LA FAMIGLIA AL SINODO
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Non avere paura delle novità
esù non ha paura delle novità! Per questo, continuamente ci sorprende, aprendoci e conducendoci a vie impensate. Lui ci rinnova, cioè ci fa “nuovi” continuamente. Un cristiano che vive il Vangelo è “la novità di Dio” nella Chiesa e nel Mondo. E Dio ama tanto questa “novità”! «Dare a Dio quello che è di Dio», significa aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita e cooperare al suo Regno di misericordia, di amore e di pace. Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi: è restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene. È per questo che il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita - con i piedi ben piantati sulla terra - e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide nuove. Lo abbiamo visto in questi giorni durante il Sinodo straordinario dei Vescovi – “Sinodo” significa «camminare insieme». E infatti, pastori e laici di ogni parte del mondo hanno portato qui a Roma la voce delle loro
Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù. È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto la sinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza. Per il dono di questo Sinodo e per lo spirito costruttivo offerto da tutti, con l’Apostolo Paolo: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere» (1Ts 1,2). E lo Spirito Santo che in questi giorni operosi ci ha donato di lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività, accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra, ci prepara al Sinodo Ordinario dei Vescovi del prossimo ottobre 2015. Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato (cfr 1Cor 3,6) PAPA FRANCESCO Domenica, 19 ottobre 2014
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Mons. Vincenzo Paglia: “un evento Straordinario”
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l Sinodo straordinario sulla famiglia si è concluso dopo due intense settimane di lavori. Ora la parola torna alle Chiese locali in attesa della prossima assemblea del 2015. Questo, il commento di mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia: “E’ stata, a mio avviso, una tappa importante, direi molto importante. Si pone, infatti, su quella prospettiva propria del Pontificato di Papa Francesco, che è quella di obbedire al soffio dello Spirito. Il dibattito è stato molto acceso, importante, profondo, libero, e non c’è dubbio che il testo finale approvato prenda per mano tutti noi vescovi, anche con gli equilibri oscillanti dei voti. Certamente, però, è una porta aperta, che indirizza il lavoro di tutte le Chiese locali per cercare di rispondere, da una parte, all’alta vocazione della famiglia e, dall’altra, per aiutare tutte quelle famiglie che hanno bisogno di sostegno, per camminare verso una vita buona, una vita bella, che è appunto quella della famiglia”. Alla domanda:” La Chiesa ha mostrato grande libertà nel dialogo: il Papa l’ha chiamata ‘par-
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resia’... “Sì - è stata la riposta - è stata una libertà a favore del mondo intero, perché quei 191 vescovi che riempivano l’Aula del Sinodo portavano sulle loro spalle, nei loro cuori e nei loro pensieri, le famiglie di tutto il mondo, anche quelle non credenti”. Il Papa, nel suo discorso conclusivo, ha parlato di due tentazioni: la tentazione dei tradizionalisti e la tentazione dei progressisti... Cosa ne pensa il presidente Paglia?: “Sì, in effetti, sono due tentazioni che, in fondo, fanno restare fermi dove si è. Io credo che lo spirito di Papa Francesco spinga ad andare oltre queste categorie troppo umane, perché alla fine appunto sono categorie individualiste o di gruppi particolari. A noi è chiesto di comunicare a tutti il Vangelo della famiglia, il quale è teso a fare dell’intero genere umano una sola famiglia, quella di Dio. Ecco perché c’è bisogno di una profezia in più e non di litigi all’interno dello stesso circolo”. Alla domanda: “Come valuta il lavoro dei mass media? Qualcuno ha voluto tirare la giacchetta del Papa da una parte o dall’altra...” – Ha riposto così:”
Sì, i mass media a volte obbediscono a linee ideologiche, a linee troppo strette - lo Spirito non sopporta camicie di forza come queste. E a volte è accaduto che la stampa abbia preso il braccio, che pure era stato allungato, e lo abbia strattonato, facendo sbilanciare, in qualche modo, anche i testi. Tutto questo non ci scandalizza. Sappiamo che è nella realtà delle cose. Ma quel che conta è non lasciarsi soggiogare dalla stampa”. Anche se qualche osservatore ha notato che, dai vari messaggi che sono giunti dal Sinodo, alcuni fedeli sono rimasti un po’ confusi, mons. Paglia ha così risposto: “Probabilmente, è anche vero. Probabilmente, è anche esagerato. C’è magari chi ha interesse a sollecitare tutto questo. In verità, quando si ha un dibattito, è ovvio che
significa che non tutto è chiaro. Ma la vita della Chiesa, come quella di qualsiasi famiglia, è fatta di chiarimenti, di domande, di dibattiti e non c’è dubbio che ci siano zone d’ombra o zone oscure. Ma, proprio per questo, il Signore ci ha detto che dobbiamo parlare con ‘parresia’, senza ‘sottrarci’. Vorrà dire che sarà importante, per chi magari ha poco compreso, che chi di noi ha partecipato faccia non solo un miglio, ma ne faccia due, per aiutare la comprensione, senza dimenticare che Gesù, come Papa Francesco sottolinea, non ha avuto paura di mangiare con tutti, di accogliere tutti e di indicare a tutti la strada da seguire, se c’era bisogno anche attraverso il cambiamento delle proprie azioni o delle proprie attitudini”.
253 partecipanti Tra loro anche 14 coppie
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ono stati 253 i partecipanti al terzo Sinodo straordinario sulla famiglia, svoltosi in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre. Tra loro, anche 14 coppie di sposi, suddivise tra esperti e uditori. Lo ha reso noto la Segreteria generale del Sinodo, che il 9 settembre ha diffuso l’elenco ufficiale dei partecipanti ai lavori. “Sinodo” vuol dire “camminare insieme”: ecco, allora, che dai cinque continenti la Chiesa universale in cammino verso la sede di Pietro per riflettere su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. 253 i partecipanti al Sinodo, il terzo straordinario nella storia dell’Assemblea, dopo quelli del 1969 e del 1985, dedicati rispettivamente al rapporto tra Conferenze Episcopali e collegialità dei vescovi ed all’applicazione del Concilio Vaticano II. Nello specifico, i Padri Sinodali sono stati 191, tra cui 25 capi dicastero della Curia e 114 presidenti di Conferenze episcopali: 36 dall’Africa, 24 dall’America, 18 dall’Asia (per la Cina, era presente l’arcivescovo di Taipei, mons. Shan-Chuan), 32 dall’Europa, tra cui il cardinale italiano Angelo Bagnasco, e 4 dall’Oceania. 62 gli altri partecipanti, inclusi 8 delegati fraterni: tra loro, anche Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. Dalle Chiese Orientali tredici esponenti, provenienti anche da Paesi in conflitto, come l’Iraq e l’Ucraina, rappresentati dal Patriarca caldeo Louis Sako e dall’arcivescovo maggiore greco -cattolico Shevchuk. Tredici, inoltre, le coppie di coniugi che hanno fatto parte dei 38 uditori, con diritto di parola ma non di voto in Aula; altri due consorti sono rientrati, invece, tra i 16 esperti, ovvero i collaboratori del Segretario speciale. Tra i membri di nomina pontificia, il padre gesuita Antonio Spadaro, direttore della rivista dei padri gesuiti de “La Civiltà Cattolica”.
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I coniugi Frisio: La Chiesa abbraccia chi è in difficoltà
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zione da parte della Chiesa alle situazioni così diverse e così complesse di tante famiglie in difficoltà, una valorizzazione di queste sofferenze e l’offerta di un primo spunto per trarre luce da queste sofferenze. E’ anche questa la circostanza in cui non solo si illumineranno tante situazioni difficili, ma sarà anche tutto il contesto generale della famiglia che acquisterà luce. Infatti, la famiglia praticamente nasce dall’immenso amore che Dio ha avuto per l’umanità e in questo amore di Dio possiamo veramente trovare un nuovo senso che spiega al mondo che oggi ci sfida su tanti fronti, il senso della famiglia.
nterpellare le famiglie con il questionario preparatorio al Sinodo ha coinvolto e fatto emergere le problematiche più sentite. I coniugi Anna e Alberto Friso, consultori del dicastero della Famiglia, hanno commentato così la presentazione ai media, dell’Instrumentum laboris dell’assise sinodale.
La famiglia è diventata ormai il simbolo delle difficoltà e della sofferenza, cioè è il contenitore di quello che società porta. Per cui, sapere che la Chiesa ha questo atteggiamento di accoglienza, di volere essere vicina lì dove c’è bisogno, questo è veramente magnifico. Come avete considerato questa novità, cioè che l’Instrumentum Laboris è stato redatto soprattutto, per la maggior parte proprio sulla base delle risposte pervenute al questionario diffuso nel novembre 2013? Tutto è partito da Papa Francesco che ha detto: “Voglio sapere cosa pensa la gente”, per cui la gente si è sentita interpellata. Io credo che sia il metodo giusto, quello di partire dalla gente, di partire dal dato concreto di come si vive. Ecco che allora, anche le risposte che verranno date, tutte le riflessioni che ne conseguono sono proprio inerenti e coerenti con quello che la gente si aspetta.
Signora Anna, secondo la vostra esperienza ci sono dunque molte situazioni di irregolarità, situazioni difficili, di sofferenza verso cui la Chiesa dovrebbe mostrare una maggiore vicinanza? Le situazioni ci sono e sono sotto gli occhi di tutti, e non solo qui, nel nostro contesto occidentale, ma in giro per il mondo e il nostro osservatorio può testimoniarlo. Intanto, ci è piaciuto sentire parlare di questa sofferenza, che è un valore e se questa sofferenza viene illuminata, se viene capito anche dalla Chiesa che siamo in sofferenza, certamente le famiglie trovano anche una risorsa interiore per trovare pure una strada di riconciliazione. E noi dobbiamo guardare a tutte queste situazioni con questa visione ampia che ci dà Papa Francesco. Ecco che allora si tratta subito di incominciare con l’accoglienza: è semplicemente aiutare a crescere nel credere all’annuncio che Dio ti ama immensamente.
Signor Alberto, un suo parere su questa novità … Anche perché c’è chi dice: ma così si rischia di adeguare la dottrina della Chiesa alla realtà, invece di portare avanti la verità del Vangelo… Direi che c’è stato uno scatto di consapevolezza da parte del popolo cristiano che ha visto anche in questa atten-
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PAOLO VI BEATO DELLA CHIESA CHE HA AMATO
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n questo giorno della beatificazione di Papa Paolo VI mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei Vescovi: «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi ... alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo). Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa! Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante - e talvolta in solitudine - il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore. Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di Incoronazione: Insegnamenti I, (1963), 26), amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam Suam, Prologo). PAPA FRANCESCO PIAZZA SAN PIETRO 19 OTTOBRE 2014 Quindici anni di pontificato (21 giugno 1963 - 6 agosto 1978). Dal mezzogiorno di sole del 21 giugno alla sera domenicale del 6 agosto, solennità della Trasfigurazione del Signore. Dalla terra al cielo. Si chiudeva la vicenda terrena e si apriva il nuovo giorno senza tramonto. E così, Papa Paolo, continuava ad essere presente e vivo in mezzo a noi. A tramandarci le sue parole, i suoi gesti di profeta disarmato, e di papa dalle grandi visioni. 9 viaggi internazionali in 16 Paesi: Terra Santa (4-6 gennaio 1964); India (2-5 dicembre 1964); Onu, New
York (4-5 ottobre 1965); Fátima (13 maggio 1967); Istanbul, Efeso e Smirne (25-26 luglio 1967); Colombia (22-25 agosto 1968; Ginevra (10 giugno 1969); Uganda (31 luglio-2 agosto 1969); Asia Orientale, Oceania e Australia (26 novembre - 4 dicembre 1970). In Italia, viaggi pastorali in 20 città: 1964: Orvieto (11 agosto) e Montecassino (24 ottobre); 1965: Pisa (10 giugno); 1966: Alatri, Fumone, Ferentino, Anagni (1 settembre) e Firenze (24 dicembre); 1968: Taranto (24 dicembre); 1970: Cagliari (24 aprile); 1971: Subiaco (8 settembre); 1972: Udine, Venezia, Aquileia (16 settembre); 1973: Acilia (31 ottobre); 1974: Fossanova, Aquino, Roccasecca (14 settembre); 1976: Bolsena (8 agosto); 1977: Pescara (17 settembre). Inoltre, udienze, incontri e discorsi così distribuiti nel corso dei 15 anni di ministero petrino: 1963: 145 ; 1964: 366; 1965: 376; 1966:342; 1967:304; 1968:351; 1969: 419; 1970: 367; 1971: 318; 1972:371; 1973: 369; 1974: 318; 1975: 379; 1976: 388;1977: 354; 1978:184. Parlano i XVI volumi degli Insegnamenti di Paolo VI dal 1963 al 1978. Parlano le sette encicliche: Ecclesiam Suam (6 agosto 964); Mense Maio (29 aprile 1965); Mysterium Fidei (3 settembre 1965); Christi Matri ( 15 settembre 1966); Populorum Progressio (26 marzo 1967); Sacerdotalis Caelibatus (24 giugno 1967). Humanae Vitae (25 luglio 1968). Parlano anche le dodici Esortazioni Apostoliche, tra le quali: Petrum et Paulum Apostolos (22 febbraio 1967); Signum Magnum (13 maggio 1967); Quinque iam anni (8 dicembre 1970); Evangelica Testificatio (29 giugno 1971); Marialis Cultus (2 febbario 1974); Gaudete in Domino (9 maggio 1975); Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975). E poi, le sedici costituzioni apostoliche; i quarantadue Motu proprio; le ventuno lettere apostoliche. Una vera enciclopedia montiniana che lega cose nuove e cose antiche, traditio e modernità. 14
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Il viaggio missionario di Papa Francesco Memoria, speranza, testimonianza
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o potuto visitare una Chiesa giovane e dinamica, fondata sulla testimonianza dei martiri e animata da spirito missionario, in un Paese dove si incontrano antiche culture asiatiche e la perenne novità del Vangelo: si incontrano entrambe. Desidero nuovamente esprimere la mia gratitudine ai cari fratelli Vescovi della Corea, alla Signora Presidente della Repubblica, alle altre Autorità e a tutti coloro che hanno collaborato per questa mia visita. Il significato di questo viaggio apostolico si può condensare in tre parole: memoria, speranza, testimonianza. La Repubblica di Corea è un Paese che ha avuto un notevole e rapido sviluppo economico. I suoi abitanti sono grandi lavoratori, disciplinati, ordinati e devono mantenere la forza ereditata dai loro antenati. In questa situazione, la Chiesa è custode della memoria e della speranza: è una famiglia spirituale in cui gli adulti trasmettono ai giovani la fiaccola della fede riceaaaaa vuta dagli anziani; la memoria dei testimoni del passato diventa nuova testimonianza nel presente e speranza
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di futuro. In questa prospettiva si possono leggere i due eventi principali di questo viaggio: la beatificazione di 124 Martiri coreani, che si aggiungono a quelli già canonizzati 30 anni fa da san Giovanni Paolo II; e l’incontro con i giovani, in occasione della Sesta Giornata Asiatica della Gioventù. Il giovane è sempre una persona alla ricerca di qualcosa per cui valga la pena vivere, e il Martire dà testimonianza di qualcosa, anzi, di Qualcuno per cui vale la pena dare la vita. Questa realtà è l’Amore di Dio, che ha preso carne in Gesù, il Testimone del Padre. Nei due momenti del viaggio dedicati ai giovani lo Spirito del Signore Risorto ci ha riempito di gioia e di speranza, che i giovani porteranno nei loro diversi Paesi e che faranno tanto bene! La Chiesa in Corea custodisce anche la memoria del ruolo primario che ebbero i laici sia agli albori della fede, sia nell’opera di evangelizzazione. In quella terra, infatti, la comunità cristiana non è stata fondata da missionari, ma da un gruppo di giovani coreani della seconda metà del 1700, i quali furono affascinati da alcuni testi cristiani, li studiarono a fondo e li scelsero come regola di vita. Uno di loro fu inviato a Pechino per ricevere il Battesimo e poi questo laico battezzò a sua volta i compagni. Da quel primo nucleo si sviluppò una grande comunità, che fin dall’inizio e per circa un secolo subì violente persecuzioni, con migliaia di martiri.
Dunque, la Chiesa in Corea è fondata sulla fede, sull’impegno missionario e sul martirio dei fedeli laici. I primi cristiani coreani si proposero come modello la comunità apostolica di Gerusalemme, praticando l’amore fraterno che supera ogni differenza sociale. Perciò ho incoraggiato i cristiani di oggi ad essere generosi nella condivisione con i più poveri e gli esclusi, secondo il Vangelo di Matteo al capitolo 25: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). Cari fratelli, nella storia della fede in Corea si vede come Cristo non annulla le culture, non sopprime il cammino dei popoli che attraverso i secoli e i millenni cercano la verità e praticano l’amore per Dio e il prossimo. Cristo non abolisce ciò che è buono, ma lo porta avanti, lo porta a compimento. Ciò che invece Cristo combatte e sconfigge è il maligno, che semina zizzania tra uomo e uomo, tra popolo e popolo; che genera esclusione a causa dell’idolatria del denaro; che semina il veleno del nulla nei cuori dei giovani. Questo sì, Gesù Cristo lo ha combattuto e lo ha vinto con il suo Sacrificio d’amore. E se rimaniamo in Lui, nel suo amore, anche noi, come i Martiri, possiamo vivere e testimoniare la sua vittoria. Con questa fede abbiamo pregato, e anche ora preghiamo affinché tutti i figli della terra coreana, che patiscono le conseguenze di guerre e divisioni, possano compiere un cam-
mino di fraternità e di riconciliazione. Questo viaggio è stato illuminato dalla festa di Maria Assunta in Cielo. Dall’alto, dove regna con Cristo, la Madre della Chiesa accompagna il cammino del popolo di Dio, sostiene i passi più faticosi, conforta quanti sono nella prova e tiene aperto l’orizzonte della speranza. Per la sua ma-
terna intercessione, il Signore benedica sempre il popolo coreano, gli doni pace e prosperità; e benedica la Chiesa che vive in quella terra, perché sia sempre feconda e piena della gioia del Vangelo. UDIENZA GENERALE 20 AGOSTO 2014
Da Seoul a Roma in dialogo con Papa Francesco
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urante il volo di ritorno Seoul - Roma, Papa Francesco ha incontrato - lunedì 18 agosto 2014 – i giornalisti a bordo dell’aereo ed ha dialogato con loro, inviati dei maggiori quotidiani del mondo. Riportiamo alcune delle domande più significative: luogo alle famiglie delle vittime del disastro del traghetto Sewol e le ha consolate. Ho due domande. Una: che cosa ha provato quando le ha incontrate? Due: non si è preoccupato che il Suo gesto potesse essere frainteso politicamente? Quando ti trovi davanti al dolore umano, devi fare quello che il tuo cuore ti porta a fare. Poi diranno: “Ha fatto questo perché ha questa intenzione politica o
Mi chiamo Sung Jin Park, giornalista della South Korean News Agency Yonhap. Santo Padre, a nome dei giornalisti coreani e del nostro popolo, desidero ringraziarLa per la Sua visita. Lei ha portato la felicità a molta gente, in Corea. E grazie anche per l’incoraggiamento all’unificazione del nostro Paese. Santo Padre, durante la Sua visita in Corea, Lei si è rivolto in primo
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quell’altra…”. Si può dire tutto. Ma quando tu pensi a questi uomini, a queste donne, papà e mamme, che hanno perso i figli, i fratelli e le sorelle, al dolore tanto grande di una catastrofe, non so, il mio cuore… io sono un sacerdote, e sento che devo avvicinarmi! Lo sento così; è prima di tutto questo. Io so che la consolazione che potrebbe dare una parola mia non è un rimedio, non restituisce la vita a quelli che sono morti; ma la vicinanza umana in questi momenti ci dà forza, c’è la solidarietà… Ricordo che come arcivescovo a Buenos Aires ho vissuto due catastrofi di questo tipo: una, l’incendio di una sala da ballo, dove si teneva un concerto di musica pop: sono morte 193 persone! E poi, un’altra volta, una catastrofe con i treni, credo che sono deceduti in 120. E io, in quei momenti, ho sentito lo stesso: di avvicinarmi. Il dolore umano è forte, e se noi in questi momenti tristi ci avviciniamo, ci aiutiamo tanto. E su quella domanda, alla fine, io vorrei aggiungere una cosa. Io ho preso questo. Dopo averlo portato per mezza giornata – l’ho preso per solidarietà con loro –, qualcuno si è avvicinato e mi ha detto: “È meglio toglierlo… Lei dev’essere neutrale…” – “Ma, senti, con
Ha scritto “ Il viaggio apostolico di Papa Francesco in Corea ha confermato una linea precisa che non distingue nettamente l’approccio pastorale da quello diplomatico e politico. La terra di Corea è segnata da una ferita aperta da 66 anni che scorre lungo la frontiera del 38° parallelo. Corea del Nord e Corea del Sud non hanno fatto la pace: è in vigore un semplice armistizio, che teoricamente potrebbe essere infranto in qualunque momento. Vedere il filo spinato che separa il Sud dalla zona cuscinetto comunica visivamente lo spinoso dramma coreano … Papa Francesco da un consiglio e una speranza. Il consiglio è la preghiera. La speranza è la seguente: ‘La Corea è una, è una famiglia: voi parlate la stessa lingua, la lingua di famiglia; voi siete fratelli che parlate la stessa lingua … Pensate ai vostri fratelli del Nord: loro parlano la stessa lingua e, quando in famiglia si parla la stessa lingua.” ANTONIO SPADARO La Civiltà Cattolica, 3941, 6 settembre 2014, p. 411
il dolore umano non si può essere neutrali”. Così ho risposto. E’ quello che io sento. Grazie della tua domanda, grazie. Sono Alan Holdren, lavoro per la Catholic News Agency, ACI Prensa a Lima, in Perù, anche Ewtn. Come Lei sa, le forze militari degli Stati Uniti da poco hanno incominciato a bombardare dei terroristi in Iraq per prevenire un genocidio, per proteggere il futuro delle minoranze – penso anche ai cattolici sotto la Sua guida. Lei approva questo bombardamento americano? Grazie della domanda così chiara. In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere, dire: “È un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?”. Soltanto questo, niente di più. Secondo, le minoranze. Grazie della parola. Perché a me dicono: “I cristiani, poveri cristiani …” Ed è vero, soffrono. I martiri, sì, ci sono tanti martiri. Ma qui ci sono uomini e donne, minoranze religiose, non tutte cristiane, e tutti sono uguali davanti di Dio. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male. Sono Jean-Louis de la Vaissière, di France Presse. Tornando ancora sulla vicenda irachena. Come il Cardinale Filoni, con il Superiore dei Domenicani, Cadoré, Lei, Santità, sarebbe pronto a sostenere un intervento militare sul terreno in Iraq per fermare i jihadisti? E poi avevo un’altra domanda: Lei pensa di potere andare un giorno in Iraq, forse in Kurdistan, per sostenere i
Ha scritto “Che quello di Francesco nella Corea del Sud non fosse un viaggio limitato solo a un Paese lo si era già intuito subito. L’andamento della visita lo ha confermato in pieno. Con le cinque giornate di Seoul e dintorni, il Papa ha rafforzato la fede di un popolo ‘ che ha molto sofferto, senza mai perdere la sua dignità’, ma soprattutto ha spalancato sull’Asia una porta destinata a restare aperta permanentemente” MIMMO MUOLO Avvenire, 20 agosto 2014, p.1
profughi cristiani che La aspettano, e pregare con loro in questa terra dove vivono da duemila anni? Sono stato poco tempo fa con il Presidente del Kurdistan, e lui aveva un pensiero molto chiaro sulla situazione, come trovare soluzioni … Ma era prima di questa aggressione ultima. Alla prima domanda ho risposto: io sono d’accordo sul fatto che, quando c’è un aggressore ingiusto, venga fermato … Sì, io sono disponibile, ma credo che posso dire questo: quando abbiamo sentito con i miei collaboratori di questa situazione delle minoranze religiose, e anche il problema, in quel momento, del Kurdistan che non poteva ricevere tanta gente – è un problema, si capisce, non poteva – ci siamo detti: che cosa si può fare? Abbiamo pensato tante cose. Abbiamo scritto prima di tutto un comunicato che ha fatto padre Lombardi a nome mio. Dopo, questo comunicato è stato inviato a tutte le Nunziature perché fosse comunicato ai governi. Poi, abbiamo scritto una lettera al Segretario Generale delle Nazioni Unite … Tante cose … E alla fine abbiamo deciso di inviare un Inviato Personale, il Cardinale Filoni. E infine abbiamo detto: se fosse necessario, quando torniamo dalla Corea, possiamo andare lì. Era una delle possibilità. Questa è la risposta: sono disponibile. In questo momento non è la cosa migliore da fare, ma sono disposto a questo.
dato al presidente cinese è stato accolto senza commenti negativi. Pensa che questi siano passi in avanti di un dialogo possibile? E avrebbe desiderio di andare in Cina?. Quando stavamo per entrare nello spazio aereo cinese, io ero nel cockpit con i piloti, e uno di loro mi ha fatto vedere lì un registro e ha detto: “Mancano dieci minuti per entrare nello spazio aereo cinese, dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Si chiede sempre, è una cosa normale, ad ogni Paese si chiede”. E ho sentito come chiedevano l’autorizzazione, come si rispondeva … Sono stato testimone di questo. E il pilota ha detto: “Adesso va il telegramma”, ma non so come abbiano fatto. Così … Poi mi sono congedato da loro, sono tornato al mio posto e ho pregato tanto per quel grande e nobile popolo cinese, un popolo saggio … Penso ai grandi saggi cinesi, una storia di scienza, di saggezza … Anche i gesuiti: abbiamo storia lì, con padre Ricci … E tutte queste cose venivano da me. Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro: domani! Eh, sì. Noi rispettiamo il popolo cinese; soltanto, la Chiesa chiede libertà per la sua missione, per il suo lavoro; nessun’altra condizione. Poi, non bisogna dimenticare quel documento fondamentale per il problema cinese che è stata la Lettera inviata ai Cinesi da Papa Benedetto XVI. Quella Lettera oggi è attuale, ha attualità. Rileggerla fa bene. E sempre la Santa Sede è aperta ai contatti: sempre, perché ha una vera stima per il popolo cinese.
Fabio Zavattaro TG1. Santo Padre, è il primo Papa che ha potuto sorvolare la Cina. Il telegramma che ha man-
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Corea: nella terra del “caldo mattino da Seoul
THOMAS HONG-SOON HAN GIÀ AMBASCIATORE DI COREA PRESSO LA SANTA SEDE NOSTRO CORRISPONDENTE
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utti i coreani, sia cattolici che non, hanno accolto Papa Francesco con straordinario entusiasmo. I media hanno dedicato diverse pagine ed editoriali alla visita di Papa Francesco, creando così un immagine molto positiva su di lui e sulla Chiesa cattolica. Sono stati colpiti dal suo stare in mezzo alla gente ed hanno verificato tutto quello che avevano sentito su di lui: è davvero un leader umile che non vuole farsi servire, ma servire, ed è coerente tra le sue parole e le sue azioni, e che vive uno stile di vita così semplice e con passione soprattutto per l’opzione preferenziale per i poveri. In diverse occasioni, infatti, l’hanno visto abbracciare i disabili abbandonati, i malati gravi, e quelle donne anziane, cosidette “donne di conforto”, che erano schiavizzate e sfruttate nelle caserme giapponesi durante la seconda guerra mondiale, come pure i familiari delle vittime del naufragio del traghetto Se Wol che ha causato 294 morti nello scorso aprile. Tutti i coreani si sentono privilegiati per avere avuto in mezzo a loro un grande consolatore, un guaritore, un riconciliatore, un comunicatore come Papa Francesco che offre “la gioia del Vangelo” come bussola da utilizzare nel cammino della loro vita quotidiana. Sono entusiasti a vedere in lui un testimone della speranza con cui potranno riuscire a costruire “una società più giusta, libera e riconciliata,
contribuendo così alla pace e alla difesa dei valori autenticamente umani in questo Paese e nel mondo intero.”(Papa Francesco, Omelia, Santa Messa di Beatificazione, 16 agosto 2014). La beatificazione dei 124 martiri, quei primi cristiani coreani del fine settecento, presieduta da Papa Francesco costituiva il culmine di questa sua visita in Corea. Ha invitato anche tutti i giovani asiatici radunati intorno a lui per la giornata asiatica della gioventù nonché tutti i coreani di buona volontà a seguire questi martiri come eccellente modello degli operatori d’autentica umanizzazione dell’Asia come pure della penisola coreana. Circa un milione di persone compresi i cittadini non cattolici hanno preso parte al rito di beatificazione tenutosi a Kwang Hwa Moon, in pieno centro di Seoul, una città che conta più di 10 milioni di abitanti, dove era situato l’antica corte reale e dove è stato eseguito il loro martirio. I cattolici coreani sono davvero grati al Signore per aver loro inviato un grande missionario come Papa Francesco. Già si parla che con questa visita del Papa pellegrino la Chiesa in Corea ha vinto il “jackpot”. Infatti, tanti cittadini già bussano alla porta della Chiesa per essere battezzati, come pure molti che si sono allontanati tornano tra le braccia della Madre Chiesa. Sono più che mai fieri di esserei cattolici, pronti ad alzarsi per andare a “testimoniare Gesù in questa amata Nazione, in tutta l’Asia e sino ai confini della terra,” scrivendo insieme con Papa Francesco un altro capitolo degli Atti degli Apostoli. 20
Per fare la pace ci vuole coraggio Appello per la pace in Terra Santa INFONDI IN NOI IL CORAGGIO DI COMPIERE GESTI CONCRETI PER COSTRUIRE LA PACE
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ivolgo a tutti voi un accorato appello a continuare a pregare con insistenza per la pace in TerraSanta, alla luce dei tragici eventi degli ultimi giorni. Ho ancora nella memoria il vivo ricordo dell’incontro dell’8 giugno scorso con il Patriarca Bartolomeo, il Presidente Peres e il Presidente Abbas, insieme ai quali abbiamo invocato il dono della pace e ascoltato la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza. Qualcuno potrebbe pensare che tale incontro sia avvenuto invano. Invece no! La preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male né rassegnarci a che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione. Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti. E invito tutti voi ad unirvi nella preghiera. In silenzio, tutti, preghiamo. (Preghiera silenziosa) Ora, Signore, aiutaci Tu! Donaci Tu la pace, insegnaci Tu la pace,
guidaci Tu verso la pace. Apri i nostri occhi e i nostri cuori e donaci il coraggio di dire: “mai più la guerra!”; “con la guerra tutto è distrutto!”. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace... Rendici disponibili ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono. Amen. PAPA FRANCESCO, dopo Angelus di domenica , 13 luglio 2014
Crisi Mediorientale Irakena e Ucraina “Fermatevi per favore…”
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ggi il mio pensiero va a tre aree di crisi: quella mediorientale, quella irakena e quella ucraina. Vi chiedo di continuare a unirvi alla mia preghiera perché il Signore conceda alle popolazioni e alle Autorità di quelle zone la saggezza e la forza necessarie per portare avanti con determinazione il cammino della pace, affrontando ogni diatriba con la tenacia del dialogo e del negoziato e con la forza della riconciliazione. Al centro di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene comune e il rispetto di ogni persona. Ricordiamo che tutto si perde con la guerra e nulla si perde con la pace. Fratelli e sorelle, mai la guerra! Mai la guerra! Penso soprattutto ai bambini, ai quali si toglie la speranza di una vita degna, di un futuro: bambini morti, bambini feriti, bambini mutilati, bambini orfani, bambini che hanno come giocattoli residui bellici, bambini che non sanno sorridere. Fermatevi, per favore! Ve lo chiedo con tutto il cuore. E’ l’ora di fermarsi! Fermatevi, per favore!” Angelus, 27 luglio 2014
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Papa Francesco scrive ai cristiani di Gaza
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l Papa ha inviato un messaggio d’incoraggiamento alla comunità cattolica di Gaza e al suo parroco Jorge Hernandez che, insieme con tutta la popolazione della Striscia, stanno affrontando grandi sofferenze a causa dell’escalation dello scontro militare. Ad informare il Papa circa le difficili condizioni dei cristiani di Gaza è stato padre Mario Cornioli, parroco di Beit Jala, in Cisgiordania. “Sì - rivela - il Santo Padre ha ricevuto le notizie sulla situazione della nostra comunità cristiana e ha voluto esserci vicino, scrivendo due righe di incoraggiamento, soprattutto assicurando la sua preghiera a padre Jorge, che vive a Gaza e che sostiene proprio fisicamente la piccolissima comunità cristiana. Quando padre Jorge ha ricevuto lo scritto del Papa è stato felicissimo, l’ha comunicato subito a tutti i parrocchiani. Ha dato coraggio e forza non solo alla comunità latina, che comprende 160 persone, ma a tutti i cristiani: anche agli ortodossi. Quindi, padre Jorge ha comunicato a tutti che il Papa è vicino con la preghiera, l’affetto e che non si è dimenticato di loro. Questo ha dato speranza e coraggio a tutti i cristiani che hanno gioito profondamente. Sapere che il Papa li ricorda e prega per loro è una grande consolazione in questi momenti angoscianti, perché Gaza è sotto i bombardamenti, tutto trema. Tutta la notte Gaza è stata bombardata: questa mattina ci dicono da Gaza - pare che sia stato usato anche il fosforo bianco… Negli ospedali stanno arrivando tanti feriti, nessuno sa come curarli, non si possono curare… Quindi, la situazione è veramente dram-
matica. Padre Jorge mi ha detto che stanno anche accogliendo nella scuola della parrocchia – nella scuola del Patriarcato – famiglie che stanno sfollando. Chiediamo al mondo che faccia qualcosa per fermare questo massacro. Soprattutto perché crediamo, come il Papa ci aveva detto, che la preghiera sia l’unica strada possibile per trovare la pace: non ce ne sono altre! Quello che mi dispiace, quello che ci fa pensare, anche, è che dopo la visita del Papa, dopo l’incontro di preghiera in Vaticano, poi è successo quello che è successo: questo vuol dire che ci sono alcuni che hanno avuto paura di questa nuova strada. Allora dobbiamo continuare a pregare, tutti insieme, perché il Signore possa sciogliere i cuori induriti di chi pensa di poter comandare sulle vite degli altri”. Alla domanda:”Quali sono le notizie che arrivano dalla Striscia di Gaza? Come reagisce la piccola comunità cristiana?” il sacerdote italiano ha così risposto:” Ho parlato con il padre Jorge, che stava prodigandosi per recuperare acqua e cibo per le famiglie che stanno sfollando e che si stanno accogliendo in parrocchia, nelle scuole del Patriarcato. Padre Jorge ha dovuto aprire le nostre scuole proprio per poter accogliere diverse famiglie, perché i bombardamenti sono sempre più pesanti. Chiediamo davvero a tutti, a chiunque possa fare qualcosa, di fermare questo massacro, perché questo ulteriore spargimento di sangue non servirà a nulla: servirà soltanto a creare ulteriore odio e rabbia. Qui, invece, abbiamo bisogno di pace, di perdono, di riconciliazione ”. 22
Medio Oriente I vescovi di Terra Santa invocano la fine delle violenze “
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a violenza genera violenza”, israeliani e palestinesi devono riconoscersi fratelli, “serve un cambiamento radicale”. Sono alcuni dei concetti contenuti in una dichiarazione della Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, diffusa il 9 luglio Una nota nella quale si interviene sulle vicende drammatiche di questi giorni e di questi mesi. La dichiarazione si apre con le condoglianze degli Ordinari Cattolici di Terra Santa alle famiglie dei tre giovani israeliani e del ragazzo palestinese bruciato vivo. Allo stesso tempo ricordano che, mentre si conoscono i dettagli delle vite di queste ultime vittime, “altri – di gran lunga più numerosi - sono mere statistiche, senza nome e senza volto”. L’auspicio è di mettere fine alle violenze ma non si può nascondere il ricorso costante ad un linguaggio che invoca punizioni collettive e vendetta, impedendo così l’emergere di qualsiasi alternativa. I presuli ricordano che molti politici “versano olio sul fuoco con parole e atti che alimentano il conflitto” senza entrare in un processo di dialogo. Nel documento si mette in luce il linguaggio violento diffuso per le strade di Israele, “alimentato dagli atteggiamenti e le espressioni di una leadership che continua a portare avanti un discorso discriminatorio che promuove diritti esclusivi di un gruppo e l’occupazione con tutte le disastrose conseguenze”. “Si costruiscono gli insediamenti – si legge ancora – le terre sono confiscate, le famiglie separate, i propri cari vengono arrestati e perfino assassinati”. C’è una leadership che crede dunque che l’occupazione possa essere la strada giusta, anche se questo – rimarcano gli Ordinari di Terra Santa - implica l’annullamento dell’aspirazione di un popolo alla libertà e alla dignità. “Sembrano credere che la loro determinazione sia un mettere a tacere l’opposizione e trasformare un errore in un diritto”. Allo stesso tempo anche il linguaggio violento diffuso per le strade della Palestina è “alimentato dagli
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atteggiamenti e da coloro che non nutrono alcuna speranza di arrivare ad una giusta soluzione del conflitto attraverso i negoziati”. “Coloro che cercano di costruire una società totalitaria, monolitica – si legge ancora nella nota - in cui non c’è spazio per alcuna differenza o diversità per ottenere il sostegno popolare, sfruttando questa situazione di disperazione”. “A questi – insistono i presuli diciamo anche noi: la violenza come risposta alla violenza genera solo altra violenza”. Ricordando la preghiera di pace per la Terra Santa di Papa Francesco, lo scorso 8 giugno in Vaticano, nella quale si invocava il coraggio per far ripartire il dialogo, gli Ordinari di Terra Santa affermano che non si può strumentalizzare “il rapimento e l’assassinio a sangue freddo dei tre giovani israeliani e la vendetta brutale nei confronti del giovane palestinese”, “per esigere una punizione collettiva contro il popolo palestinese nel suo complesso e contro il suo legittimo desiderio di essere liberi; è un tragico sfruttamento della tragedia e così si promuove più violenza e odio”.
“Allo stesso tempo – aggiungono – dobbiamo riconoscere che la resistenza all’occupazione non può essere equiparata al terrorismo. E’ un legittimo diritto mentre il terrorismo è una parte del problema. La violenza come risposta alla violenza genera ancora più violenza”. Proprio la situazione a Gaza è la rappresentazione di un ciclo di violenza senza fine, dell’assenza di una visione alternativa per il futuro pertanto rompere questo processo è un dovere di tutti: “oppressori e oppressi, vittime e carnefici”. “Tutti devono riconoscere nell’altro un fratello o una sorella – ricordano - piuttosto che riconoscere un nemico da odiare e da eliminare”. “Serve un cambiamento radicale – insistono gli Ordinari - israeliani e palestinesi insieme hanno bisogno di scrollarsi di dosso gli atteggiamenti negativi di reciproca diffidenza e di odio”. Da qui la necessità di educare le nuove generazioni con uno spirito diverso e di lavorare perché ci siano leader in grado di “operare per la giustizia e la pace, riconoscendo che Dio ha piantato qui tre religioni: Ebraismo, Cristianesimo e Islam, e due popoli: palestinesi e israeliani”. Servono persone in grado di “prendere decisioni difficili”, “pronti a sacrificare la loro carriera politica per il bene e per una pace duratura”. Leader che hanno la vocazione ad essere “operatori di pace”, “persone in cerca di giustizia” e con una visione alternativa alla violenza. In questo percorso, i leader religiosi hanno un compito: “parlare un linguaggio profetico” che vada oltre il ciclo di odio e di violenza; “un linguaggio nel quale si rifiuta di attribuire lo status di nemico a qualsiasi figlio di Dio; è un linguaggio che apre la possibilità di vedere ciascuno come fratello o sorella”. “Un linguaggio responsabile in modo che diventi uno strumento per trasformare il
mondo da un deserto di tenebre e morte in un giardino rigoglioso di vita”. Sul difficile momento che si sta vivendo in Medio Oriente e sul documento della Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, interviene padre David Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica del Patriarcato latino di Gerusalemme: “ Noi viviamo un momento molto drammatico in Terra Santa. È vero che il ciclo di violenza non smette mai e ci sono momenti davvero turbolenti.. Siamo precipitati in una guerra nella quale Hamas risponde e Israele risponde e tutti si sentono vittime di queste situazioni. E’ un linguaggio violento, terribile, e noi nella Commissione di Giustizia e Pace abbiamo pensato insieme di dire “basta”. Il ricorso a questo linguaggio mostra una leadership molto irresponsabile, sono senza responsabilità per quanto riguarda il bene del popolo e il bene dei giovani. Qui sottolineiamo con convinzione il linguaggio del Santo Padre, quando è venuto e ha invitato i presidenti di Israele e Palestina qui in Vaticano, per formulare un altro tipo di linguaggio, perché tutto comincia con le parole. Dio ha creato il mondo con le parole e noi creiamo il nostro mondo con il nostro linguaggio violento. Quindi, è arrivato il tempo - come dice la dichiarazione di trovare altri leader che possano avere una visione profetica di un mondo migliore di quello in cui viviamo adesso”. Bisogna quindi trovare modelli di un linguaggio che non conosce la parola “nemico”. I capi religiosi devono creare questo linguaggio che renda sempre più consapevoli, come ha detto alcune volte il Papa in Terra Santa e con molta forza in Vaticano, che siamo chiamati ad essere fratelli perché siamo tutti figli di Dio. 24
Patriarca Sako: Il genocidio dell’Isis è una minaccia per tutti
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d oltre quattro mesi dall’esodo di centinaia di migliaia di iracheni - compresi 120mila cristiani - cacciati dai jihadisti del sedicente Stato Islamico, è calato un sipario sulla loro sorte, “come se quanto sta succedendo fosse normale”. E’ la nuova drammatica denuncia lanciata dal patriarca di Babilonia dei caldei Raphael Sako in un messaggio diffuso oggi. “Tutti dovrebbero sapere” che il “genocidio” in atto contro “questi cristiani pacifici e leali cittadini” è “una minaccia per tutti”, ammonisce il presule che chiama in causa l’incapacità dello Stato iracheno di imporre la legge e l’ordine di fronte alla crescente insicurezza che “fornisce ai gruppi estremisti un terreno favorevole alla loro diffusione”. “Mentre la gente soffre – denuncia nel messaggio il patriarca - i politici lottano tra loro per conquistare posizioni invece di unirsi per individuare le cause dell’estremismo e trovare una soluzione prima che sia troppo tardi!”. Ma il patriarca Sako si rivolge anche alla comunità cristiana irachena, esortandola a non cercare nell’emigrazione la soluzione, ma ad “affrontare la situazione” per evitare l’estinzione e “continuare ad essere lievito” nella società sconvolta dai conflitti settari. Suggerisce, ad esempio, di creare una squadra per la gestione della crisi, che raccolga dati accurati sul numero e la dislocazione delle famiglie rifugiate, in modo da richiedere al governo il dovuto risarcimento per i danni subiti e la perdita delle proprietà ad opera dei jihadisti. Viene prospettata anche la creazione di un comitato per l’educazione, che censisca le cifre e lo status accademico degli studenti sfollati, per poi chiedere al governo del Kurdistan di ospitarli nelle scuole e nelle università e impedire così che perdano l’anno scolastico. Riguardo al futuro delle aree cadute sotto il controllo del sedicente “Califfato”, il patriarca suggerisce di interpellare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu perché venga creata una forza di peacekeeping in collaborazione con le forze di sicurezza irachene e i Peshmerga curdi che liberi la Piana di Ninive” e consentire ai profughi di ritornare. Inol25
tre, secondo il Capo della Chiesa caldea, occorre “stabilire forze di polizia locale che comprendano rappresentanti delle diverse componenti presenti nella Piana di Ninive, per proteggere i villaggi, come previsto dalla nuova legge” presentata dal governo di Baghdad. Il presule insiste anche sulla necessità di un’azione energica con il mondo musulmano per porre fine ad ogni tentativo di dare una legittimazione religiosa, ai finanziamenti e all’invio di miliziani a sostegno dei jihadisti e così assicurare la piena interazione sociale tra i cristiani e i loro concittadini. Il Patriarca insiste anche sulla necessità di prendere iniziative energiche con il mondo islamico, che mirino a porre fine ad ogni verniciatura di legittimazione religiosa, ai finanziamenti e all’invio di militanti a favore dei gruppi jihadisti. Sul lungo periodo, secondo il patriarca Sako, occorrerà mettere mano anche alla revisione dei programmi scolastici e universitari, per favorire la crescita di una cultura aperta alla diversità, al pluralismo e all’uguaglianza tra i cittadini come antidoto a ogni fanatismo di matrice religiosa.
Westminster: veglia per le minoranze perseguitate in Iraq All’insegna dell’hashtag “Siamo tutti esseri umani”, i leader delle comunità cristiane, musulmane ed ebraiche del Regno Unito hanno partecipato ieri davanti all’Abbazia di Westminster, a Londra, a una Veglia interreligiosa in segno di solidarietà con le minoranze perseguitate in Iraq. L’iniziativa è stata promossa congiuntamente dal Christian Aid, dall’Islamic Relief a dal World Jewish Relief, in collaborazione con la Chiesa d’Inghilterra, il Consiglio musulmano d’Inghilterra e il Movimento per il Giudaismo Riformato. Alla manifestazione erano presenti, tra gli altri, il Primate anglicano Justin Welby, che, nella stessa giornata di ieri, ha ricevuto a Lambeth Palace diversi esponenti delle Chiese cristiane mediorientali con i quali ha pregato per le minoranze perseguitate nella regione. Al termine della preghiera, l’arcivescovo di Canterbury ha invocato un’azione immediata perché gli orrori in Iraq e in Siria non rimangano impuniti. “Assistiamo a un’ideologia religiosa estrema che non conosce limiti nelle persecuzioni contro coloro che hanno culture e religiose diverse”, ha detto. “Chi promuovere questa intolleranza deve essere fermato e i responsabili della violenza devono rispondere dei loro atti”. Il Medio Oriente che è “la culla del cristianesimo”, ha quindi sottolineato il rev. Welby corre oggi il gravissimo “pericolo di perdere una parte insostituibile della sua identità, patrimonio e cultura”. Intervenendo alla Veglia di preghiera interreligiosa, il Primate anglicano ha anche esortato tutte le comunità religiose britanniche “a reagire” alla nuova escalation di aggressioni contro musulmani ed ebrei registrata in questi ultimi mesi nel Paese. “Queste violenze devono finire perché siamo tutti esseri umani”, ha detto. (L.Z.) Berna: appello dei vescovi svizzeri per le minoranze in Iraq e in Siria “Fornire tutto l’aiuto ed il sostegno possibile” alle minoranze cristiane e a tutte le vittime delle violenze perpetrate dalle milizie dello Stato Islamico in Iraq e Siria: a lanciare l’appello è la Conferenza episcopale svizzera (Ces) che dal 1° al 3 settembre si è riunita a Givisiez per la sua 305.ma Assemblea plenaria. Nel documento finale dei lavori, i presuli elvetici definiscono “tragiche” le notizie che arrivano dal Medio Oriente e chiedono a tutti i fedeli
di aiutare le popolazioni minacciate, offrendo ogni tipo di aiuto: una preghiera, una donazione agli organismi caritativi, l’accoglienza di rifugiati, interventi istituzionali concordati con la comunità internazionale. Domenica 7 settembre, i presuli hanno chiesto intenzioni di preghiera affinché “cessino le espulsioni, le torture e gli omicidi e tutti gli uomini possano vivere in libertà e in sicurezza”; prevista anche una celebrazione ecumenica in segno di solidarietà con “le minoranze minacciate e la popolazione sofferente di Siria ed Iraq”. “I vescovi – si legge ancora nel documento finale della Plenaria – sperano che gli avvenimenti del Medio Oriente non portino tensioni tra cristiani e musulmani in Svizzera” ed auspicano che “le comunità musulmane elvetiche condannino le persecuzioni dei cristiani ed altre minoranze religiose”. Gerusalemme: delegazione dei vescovi Usa in Terra Santa Una delegazione di 18 vescovi degli Stati Uniti ha partecipato da 10 al 19 settembre in Terra Santa ad un pellegrinaggio di preghiera per la pace nella regione, organizzato dai Catholic Relief Services, l’organizzazione caritativa della Conferenza episcopale statunitense. A guidarla era mons. Richard E. Pates, vescovo di Des Moines e presidente della Commissione episcopale per la giustizia e la pace internazionale. “Il nostro pellegrinaggio non poteva avvenire in un momento più critico - ha dichiarato il presule, citato dalla rivista dei Gesuiti americani “America”– Il conflitto tra Israele e Hamas, l’ultimo di una serie troppo lunga di violenze, ha seriamente compromesso la speranza di pace in Terra Santa e la preghiera per la pace è quindi più che mai necessaria oggi”. Durante la visita i vescovi americani hanno pregato insieme con i leader religiosi cristiani, musulmani ed ebrei seguendo le orme del pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa lo scorso mese di maggio. 26
Pace e dialogo: Papa Francesco con Peres e Bin Talal dalla CITTÀ DEL VATICANO
ALESSANDRO GISOTTI GIORNALISTA RADIO VATICANA
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l Medio Oriente, la pace e il dialogo interreligioso in primo piano nella giornata di Papa Francesco che, giovedì 4 sttembre, ha incontrato prima Shimon Peres, ex-presidente dello Stato di Israele, e successivamente il principe El Hassan bin Talal del Regno Hashemita di Giordania. Alessandro Gisotti ha chiesto al direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, di soffermarsi sui dati salienti di queste due udienze: Due udienze di carattere privato ma piuttosto significative. La prima è stata quella all’ex presidente di Israele, Shimon Peres. Aveva chiesto un’udienza al Papa per informarlo della sua attività e dei suoi progetti o iniziative per la pace, in questo tempo in cui egli ha lasciato l’attività politica diretta. Si è trattato di un’udienza importante, lunga; il Papa aveva voluto prendere tutto il tempo necessario, data anche la stima grande e l’attenzione che ha per Shimon Peres, da lui definito come “uomo di pace”, “uomo lungimirante e di grandi orizzonti”. Quindi, il Papa ha parlato con Peres, anche se con un interprete, per almeno tre quarti d’ora, e Peres ha potuto presentargli con ampiezza le sue vedute, le sue iniziative per promuovere la pace anche con l’aiuto dei diversi leader religiosi. Il Papa personalmente non ha assunto impegni particolari, per-
sonali. Però, naturalmente, ha manifestato tutta la sua attenzione, il suo rispetto per l’iniziativa dell’ex presidente Peres, ed ha garantito anche l’attenzione dei dicasteri della Curia Romana che sono particolarmente impegnati in questo campo e sono soprattutto – evidentemente – il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e il Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, con i cardinali Tauran e Turkson. L’iniziativa “L’Onu delle religioni”, come è stata definita sinteticamente dai giornalisti: questa era la proposta di cui parlava Shimon Peres? Sì: Peres ha parlato al Papa di questa sua proposta, di questa sua prospettiva di impegno. Il Papa ha anche ribadito – questo me lo ha detto al termine dell’udienza, d’accordo con l’ex presidente Peres – che l’iniziativa della preghiera per la pace, che era avvenuta qui in Vaticano con la partecipazione di Peres e di Abu Mazen, non è affatto da considerare come qualcosa che sia fallita, visti gli eventi che poi sono seguiti, ma come l’apertura di una porta che continua a rimanere aperta, attraverso cui iniziative e valori possono essere incoraggiati a svilupparsi e ad andare avanti. Quindi, non affatto un senso di fallimento di un’iniziativa che è stata presa, ma anzi l’apprezzamento del suo valore di inizio di cammini e di processi. 27
Altrettanto importante è stata l’udienza con il principe hashemita bin Talal… E’ stata un’udienza analoga come tipo di impostazione, perché il principe giordano ha presentato al Papa l’attività della Fondazione, dell’Istituto che egli ha fondato e condotto e che è appunto anch’esso tutto nella direzione del dialogo e dell’impegno interreligioso in favore della pace, nell’attuale contesto della violenza; l’importanza del dialogo fra le religioni per la dignità umana e la pace, l’aiuto ai poveri nel tempo della globalizzazione, l’educazione dei giovani alla fratellanza, l’insistenza sul rispetto della dignità delle persone … E tutto questo, da portare avanti con stretta comunità di intenti da parte delle religioni che riconoscono un loro principio comune nella cosiddetta “regola d’oro”, che noi sappiamo è anche riportata nel Vangelo: “Non fare agli altri ciò che non desideri che sia fatto a te. Fai agli altri ciò che desideri sia fatto a te”. Ecco: questa è una base comune, un denominatore comune su cui anche le grandi religioni si incontrano per promuovere la pace e il bene comune dell’umanità. Anche l’udienza con il principe giordano è stata un’udienza lunga, oltre mezz’ora, che il Papa ha molto apprezzato e a cui ha dato un notevole significato.
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Papa Francesco a aserta
«Abbiate il coraggio di dire no ad ogni forma di corruzione e di illegalità»
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osa fare per possedere il regno di Dio? Su questo punto Gesù è molto esplicito: non basta l’entusiasmo, la gioia della scoperta. Occorre anteporre la perla preziosa del regno ad ogni altro bene terreno; occorre mettere Dio al primo posto nella nostra vita, preferirlo a tutto. Dare il primato a Dio significa avere il coraggio di dire no al male, no alla violenza, no alle sopraffazioni, per vivere una vita di servizio agli altri e in favore della legalità e del bene comune. Quando una persona scopre Dio, il vero tesoro, abbandona uno stile di vita egoistico e cerca di condividere con gli altri la carità che viene da Dio. Chi diventa amico di Dio, ama i fratelli, si impegna a salvaguardare la loro vita e la loro salute anche rispettando l’ambiente e la natura. Io so che voi soffrite per queste cose. Oggi, quando sono arrivato, uno di voi si è avvicinato e mi ha detto: Padre ci dia la speranza. Ma io non posso darvi la speranza, io posso dirvi che dove è Gesù lì è la speranza; dove è Gesù si amano i fratelli, ci si impegna a salvaguardare la loro vita e la loro salute anche rispettando l’ambiente e la natura. Questa è la speranza che non delude mai, quella che dà Gesù! Ciò è particolarmente importante in questa vostra bella terra che richiede di essere tutelata e preservata, richiede di avere il coraggio di dire no ad ogni forma di corruzione e di illegalità – tutti sappiamo il nome di queste forme di corruzione e di illegalità – richiede a tutti di essere servitori della verità e di assumere in ogni situazione lo stile di vita evangelico, che si manifesta nel dono di sé e nell’attenzione al povero e all’escluso. Attendere al povero e all’escluso! La Bibbia è piena di queste esortazioni. Il Signore dice: voi fate questo e quest’altro, a me non importa, a me importa che l’orfano sia curato, che la vedova sia curata, che l’escluso sia accolto, che il creato sia custodito. Questo è il regno di Dio! OMELIA, 26 luglio 2014 28
La testimonianza di Mons D’Alise: Una nuova forza per ripartire
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a lasciato una grandissima gioia nel cuore dei cittadini della città campana e di tutti coloro che affollavano la piazza antistante la Reggia la visita pastorale di Papa Francesco compiuto nel giorno della festa liturgica di sant’Anna. Ecco la testimonianza del vescovo mons. D’Alise: “È stato un incontro particolare, nella peculiarità della visita, perché il Papa ha messo da parte il discorso che ha preparato e ha voluto dialogare con i sacerdoti, senza porre distanze però. Questo ci ha colpito in modo particolare, perché veramente è stato un incontro, più che paterno, fraterno. E la cosa che più ha colpito è soprattutto, che parlando ai sacerdoti, ha chiesto loro di essere persone schiette, di vivere l’unità forte, e tra i sacerdoti e con il vescovo, e, soprattutto, una vicinanza con il popolo, una vicinanza, che passa anche attraverso la pazienza del dialogo”. Dopo l’incontro con i sacerdoti, è seguito il bagno di folla che lo attendeva nel piazzale della Reggia. “Domenica mattina, alle ore 6.00 – continua il presule - ho celebrato la Messa prima della partenza
della processione di Sant’Anna. C’era una piazza, davanti al Santuario, gremita. Io non ho detto una parola, ma appena sono arrivato c’è stato un applauso enorme, un applauso per la gioia di avere incontrato il Papa. Francesco ha toccato sia i punti fondamentali della vita spirituale, che venivano fuori dal Vangelo - le parabole del Regno - e poi ha toccato anche le problematiche importanti, che abbiamo in questo territorio - in modo particolare, il problema della Terra dei Fuochi - senza però assolutizzare tutto. Ha pronu nciato, comunque, parole forti, dicendo che tutti abbiamo la responsabilità di tutelare questo territorio”. Alla domanda se queste parole porteranno dei risultati, mons. D’Alise ha così risposto: “Ha toccato il cuore. Io ho già sentito alcuni che mi hanno telefonato ed altri che sono contenti di questo incontro, perché il Papa ha messo dentro un desiderio nuovo. C’è, infatti, veramente bisogno di organizzare le forze del bene, per opporsi in modo pacifico alle forze del male che sono tante”.
Incontro con il pastore evangelico pentecostale
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a verità non si fa in laboratorio, si fa nella vita, cercando Gesù per trovarlo. Ma il mistero più bello, più grande è che quando noi troviamo Gesù, ci accorgiamo che Lui ci cercava da prima, che Lui ci ha trovato da prima, perché Lui arriva prima di noi! A me, in spagnolo, piace dire che il Signore ci primerea. E’ una parola spagnola: ci precede, e sempre ci aspetta. Lui è prima di noi. E credo che Isaia o Geremia – ho un dubbio – dice che il Signore è come il fiore del mandorlo, che è il primo che fiorisce nella primavera. E il Signore ci aspetta! E’ Geremia? Sì! E’ il primo che fiorisce in primavera, è sempre il primo. Questo incontro è bello. Questo incontro ci riempie di gioia, di entusiasmo. Pensiamo a quell’incontro dei primi discepoli, Andrea e Giovanni. Quando il Battista diceva: “Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo”. E loro seguono Gesù, rimangono con Lui tutto il pomeriggio. Poi, quando escono, quando tornano a casa, dicono: “Abbiamo sentito un rabbino”… No! “Abbiamo trovato il Messia!”. Erano entusiasti. Alcuni ridevano … Pensiamo a quella frase: “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Non credevano. Ma loro avevano incontrato! Quell’incontro che trasforma; da quell’incontro viene tutto. Questo è il cammino della santità cristiana: ogni giorno cercare Gesù per incontrarlo e ogni giorno lascarsi cercare da Gesù e lasciarsi incontrare da Gesù. Noi siamo in questo cammino dell’unità, tra fratelli. Qualcuno sarà stupito: “Ma, il Papa è andato dagli evangelici”. È andato a trovare i fratelli! Sì! Perché – e questo che dirò è verità – sono loro che sono venuti prima a trovare me a Buenos Aires. E qui c’è un testimone: Jorge Himitian può raccontare la storia di quando sono venuti, si sono avvicinati … E così è cominciata questa amicizia, questa vicinanza fra i pastori di Buenos Aires, e oggi qui. Vi ringrazio tanto. Vi chiedo di pregare per me, ne ho bisogno. Discorso di Papa Francesco nella chiesa pentecostale della Riconciliazione, lunedì 18 luglio 2014
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Verso le periferie per andare incontro ai bisogni della gente da Campobasso
ANDREA GAGLIARDUCCI GIORNALISTA, INVIATO KORAZYM.ORG
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stato in carcere, ha pranzato con i poveri, ha parlato nell’università. E ha proposto un patto per il lavoro, ha chiesto che la domenica sia libera da ogni fatica, ha invitato i giovani a guardare in alto, all’amore di Dio. Papa Francesco è rimasto in Molise solo una giornata, il 5 luglio. Abbastanza tempo per andare a vedere da vicino quelle periferie da cui lui dice che “la Chiesa si può osservare meglio”. Sono i viaggi che Papa Francesco ama fare. Per l’estero punta alto, guarda all’Asia, andrà in Corea ad agosto, e poi in Filippine e Sri Lanka, si parla persino di un viaggio in Giappone e si sa che il Papa amerebbe andare in Cina. Ma la spinta missionaria lo porta anche ad andare nelle piccole periferie. Il primo viaggio a Lampedusa, l’8 luglio 2013, racconta proprio questa necessità del Papa di andare là dove sente che ci può essere bisogno. Il recente viaggio a Cassano all’Jonio, per “chiedere scusa”
del prestito che ha richiesto alla diocesi del vescovo Nunzio Galantino, il segnale che il Papa vuole dare l’esempio per primo di un pastore che sente la sofferenza del suo gregge. Il viaggio in Molise, in visita al vescovo Giancarlo Bregantini cui ha chiesto di scrivere le meditazioni della via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo, il segno che ormai questa modalità tutta particolare di viaggiare di Papa Francesco è diventata un po’ una istituzione sotto questo pontificato. Nessun incontro con le autorità politiche, protocollo ridotto al minimo, sicurezza elastica per permettere al Papa di fermarsi dove vuole per salutare chi vuole (e sono soprattutto malati, perché per il Papa i malati sono la sua “porta per il Paradiso”). E la scelta di diocesi nemmeno troppo note, troppo centrali nella vita della Chiesa, a sottolineare che non ci sono posti di serie A e serie B, che un vescovo non ha maggiore o minore importanza (lo ha fatto anche con la scelta dei nuovi cardinali nel Concistoro, privilegiando proprio le periferie). Tutto questo racconta dello stile di Papa Francesco.
PAPA FRANCESCO AI MAFIOSI SCOMUNICATI SE NON SI CONVERTONO
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alla spianata dell’area ex Insud di Sibari Papa Francesco tuonava ancora una volta contro le persone che amano il malaffare e percorrono sentieri di morte. Era sabato 21 giugno. Sembrava la sua voce, il grido di un profeta e tuonava così legando l’adorazione che si deve solo a Dio e non al diavolo, al denaro: “Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza”. E continuava: “La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”. Ritornava sul tema Papa Francesco. Pochi mesi prima, a Roma, nell’incontrare nella chiesa francescana di san Gregorio VII, le vittime della mafia accompagnate dal don Luigi Ciotti fon30
Il quale in Molise si è concentrato sui temi che stanno a cuore a Bregantini. Ha parlato di lavoro, ha chiesto un nuovo patto con la società civile. Ha sottolineato ancora una volta come chi perde il lavoro perde la dignità. È chiesto ai carcerati di non stare fermi, di continuare a muoversi, perché l’acqua che sta ferma marcisce. Poi ha rilanciato ai giovani la sfida della fede. E infine ha aperto il giubileo celestiniano, a 800 anni dalla nascita di Papa Celestino V. Un Papa che aveva a cuore gli op-
pressi, ha detto il Papa, mettendosi in qualche modo sulla sua scia. Prima Lapedusa, poi Cagliari, poi Assisi, lo scorso anno. A Caserta il 19 luglio per la festa di san’Anna; prima a Campobasso, Isernia, Venafro e prima ancora a Cassano all’Jonio. Continua il pellegrino Bergoglio per le strade e per le periferie delle diocesi italiane: le ultime tra le ultime per dare speranza e futuro ai poveri che Matteo chiama Beati!
datore di Libera, tuonava con forza contro questo male che miete vittime, paure, morti. Gli episodi dell’ Expo Milano 2015 e del Mose di Venezia e i pizzini delle tangenti non erano ancora noti, ma nel tunnel della morte, camminano ogni giorno gli interessi personali e di parte . E tutti si proclamano innocenti, puliti, persone per bene. Alla menzogna si aggiunge altra menzogna. Prima san Giovanni Paolo II ad Agrigento, poi Benedetto XVI a Palermo. Continuano gli appelli dei Papi ai mafiosi: cambiate vita. Non si può continuare ad essere sepolcri imbiancati: puliti fuori e sporchi dentro. I Papi chiedono di pentirsi, di percorrere la strada dell’onestà e della sincerità. Cambiamo il volto di questo mondo inquieto e violento con uno stile di vita seguendo il Vangelo di Gesù di Nazareth. Proviamo a cambiar vita e così daremo un volto nuovo al mondo! (G.G.)
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a ‘ndrangheta è “negazione del Vangelo”. Essa è “non solo un’organizzazione criminale che come tante altre vuole realizzare i propri illeciti affari, con mezzi altrettanto illeciti, ma, attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi, è una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea”. Lo hanno scritto i vescovi calabresi che si sono riuniti a Paola per una sessione straordinaria della Conferenza Episcopale Calabra. Durante i lavori il confronto si è sviluppato a partire dalle “forti parole del Papa contro la ‘ndrangheta”, le quali “sono apparse ancora più profetiche in seguito ad alcuni episodi verificatisi in qualche diocesi” e che, “clamorosamente riportati dai mezzi di comunicazione, hanno causato un diffuso generale sgomento”, spiega una nota. Il presidente dei vescovi calabri, mons. Mons. Salvatore Nunnari, ha esortato tutti ad offrire ciascuno la propria riflessione sui problemi legati al fenomeno della mafia in Calabria e sugli atteggiamenti che le comunità ecclesiali devono manifestare di fronte a questa “disonorante piaga della società” che deturpa da fin troppo tempo la vita dei calabresi. Nel sottolineare la necessità di una Nota pastorale su questi temi, dopo le parole pronunciate lo scorso 21 giugno da Papa Francesco a Sibari, i presuli, nel comunicato finale dei lavori ne anticipano le “linee pro-
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gettuali” sottolineando che la Chiesa “tutta”, sin dagli anni Settanta, ha reso “esplicita la condanna delle mafie, accompagnata dall’invito al pentimento ed alla conversione evangelicamente intese”. Molti gli interventi della stessa Conferenza Episcopale Calabra e di numerosi interventi di singoli vescovi. Tuttavia - si legge nella nota - dal momento che “la questione mafiosa ha assunto nuovi riflessi in questi nostri tempi”, i vescovi calabresi sono “convinti dell’urgenza di un intervento ancora più chiaro e deciso: l’orologio della storia segna l’ora in cui – per la Chiesa - non è più solo questione di parlare di Cristo, quanto piuttosto di essere testimoni credibili di Cristo, luogo della sua presenza e della sua parola”. Ciò – sottolineano - dà ancora “più forza” al monito di Papa Francesco: “la mafia non ha nulla di cristiano ed è dunque fuori dal Vangelo, dal cristianesimo, dalla Chiesa”. Nella Nota pastorale che i vescovi calabresi hanno diffuso trovano spazio indicazioni concrete che accompagnano scelte e prassi pastorali. “Sono indispensabili – scrivono - regolamenti più incisivi che prevedano preparazione remota e prossima ai gesti che si compiranno, soprattutto prevedano una formazione cristiana vera e permanente”. Durante i lavori è stata espressa “con ferma chiarezza condanna assoluta della ‘ndrangheta e di ogni altra organizzazione che si opponga ai valori del Vangelo:
rispetto per la vita, la dignità di ogni persona e l’impegno per il perseguimento del bene comune”. Per la Cec l’atteggiamento pastorale che la Chiesa deve conservare e promuovere nei confronti di quanti appartengono a organizzazioni mafiose “va collocato nel quadro di quanto Papa Francesco ha affermato nel corso della visita ai detenuti di Castrovillari”. In quella circostanza, il Papa – ricordano i presuli - ha ribadito che “il carcere (anche quello a cui si devono sottomettere i criminali e gli aderenti a organizzazioni illegali) viene irrogato dalla società allo scopo dell’effettivo reinserimento nella società. Ne consegue che, come per qualsiasi peccatore, nei confronti anche di chi ha subito una condanna definitiva, la Chiesa deve svolgere la sua opera di accompagnamento verso la conversione”. I vescovi hanno poi ribadito che è il pastore “competente territorialmente”, con i suoi Organismi collegiali di partecipazione e corresponsabilità, “l’unico
TRA LE PERIFERIE DELL’ITALIA
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l 21 giugno 2014 Papa Francesco ha compiuto la visita pastorale a Cassano all’Jonio. La diocesi calabra è guidata dal 2012, dal Vescovo Mons. Nunzio Galantino nominato da Papa Francesco martedì 25 marzo 2014, Segretario della conferenza episcopale italiana. Sabato 25 luglio inoltre, Papa Francesco ha visito le diocesi di Campobasso e di Isernia nel Molise. La diocesi di Campobasso - Boiano è guidata dal 2007 dal vescovo Giancarlo Bregantini, religoso stimmatino, autore della Via Crucis presieduta al Coloseo dal Santo Padre Papa Francesco il venerdì santo 18 aprile 2014 . La diocesi di Isernia-Venafro dall’8 maggio 2014 ha il nuovo vescovo nella persona di mons. Camillo Cibotti, già vicario generale dell’arcidiocesi di Chieti–Vasto. Alle visite pastorali compiute da Papa Francesco nel 2013: a Lampedusa (8 agosto 2013), dopo l’ultima tragedia degli immigrati; a Cagliari per pregare davanti alla Vergine di Bonaria (22 settembre 2013) ed Assisi ( 4 ottobre 2013) per onorare il suo Santo si sono aggiunge queste altre tre Chiese del sud Italia. Le periferie del mondo continuano a stare al centro della attenzione e della pastorale di Papa Francesco. I temi preferiti di Papa Francesco: immigrazione, lavoro, povertà A Lampedusa:” Risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta” A Cagliari:” Senza lavoro non c’è dignità, serve solidarietà. La disoccupazione è una tragedia che ha al centro un idolo che si chiama denaro” Ad Assisi: “Il doloro dei bimbi disabili deve essere ascoltato”
HA DETTO “… Si giustificano di non aver ascoltato la chiamata del Signore. Non potevano sentirla: erano tanto, tanto chiusi, lontani dal popolo, e questo è vero. Gesù guarda il popolo e si commuove, perché lo vede come “pecore senza pastori”, così dice il Vangelo. E va dai poveri, va dagli ammalati, va da tutti, dalle vedove, dai lebbrosi a guarirli. E parla loro con una parola tale che provoca ammirazione nel popolo: “Ma questo parla come uno che ha autorità!”, parla diversamente da questa classe dirigente che si era allontanata dal popolo. Ed era soltanto con l’interesse nelle sue cose: nel suo gruppo, nel suo partito, nelle sue lotte interne. E il popolo, là… Avevano abbandonato il gregge. E questa gente era peccatrice? Sì. Sì, tutti siamo peccatori, tutti. Tutti noi che siamo qui siamo peccatori. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. È tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: “È meglio che un uomo muoia per il popolo …”. Papa Francesco ad un folto gruppo di parlamentari italiani, Basilica di san Pietro – Altare della Cattedra - 27 marzo 2014
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idoneo a valutare la realtà dei singoli fatti ed episodi” relativi alle manifestazioni di pietà popolare e si dicono “determinati” a darsi e a seguire “criteri pastorali comuni, a partire dalla convinzione che la tradizione popolare è un tesoro da custodire e valorizzare come una genuina manifestazione di fede. Eventuali incrostazioni e deviazioni, rischierebbero – scrivono - se non rimosse di minarne l’autenticità”. Le diocesi calabresi hanno già discusso nei loro Sinodi, ovvero hanno inserito nei Piani pastorali, gli “opportuni antidoti alle infiltrazioni criminali nelle genuine forme della devozione e pietà popolare. Bisogna continuare ad applicarli con tenacia, fin dal primo momento dell’adesione di fedeli a confraternite e organizzazioni di processioni popolari”. I presuli hanno quindi espresso “solidarietà” alla Chiese ed ai loro pastori chiamati a “rispondere a letture parziali e forvianti”, intensificatesi in occasione degli ultimi eventi che hanno – in questo particolare momento – segnato le Chiese di Oppido Mamertina -Palmi e Mileto-Nicotera –Tropea”. I lavori della Conferenza Episcopale Calabra si sono aperti con l’intervento del presidente, monsignor Salvatore Nunnari che ha espresso, a nome di tutti i Vescovi della Calabria, “il saluto più devoto e fraterno
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al Santo Padre Francesco, sottolineando la comune gratitudine dei Pastori delle Chiese di calabresi per l’indimenticabile Visita nella diocesi di Cassano allo Ionio, e per il forte messaggio che –in quella circostanza- si è levato dal suo cuore sia per sostenere il cammino di conversione e di rinascita dei detenuti, sia per dare speranza ai giovani e a quanti si ritrovano feriti nella loro dignità per la mancanza di lavoro, sia, soprattutto, per esprimere il dolore della Chiesa per quanti –adorando il dio denaro ed esercitando una persistente e diabolica delinquenza– si pongono di fatto, con la loro pubblica e peccaminosa condotta di vita, fuori dalla comunità ecclesiale”. Le parole del pontefice contro la mafia, “sono apparse ancora più profetiche in seguito ad alcuni episodi verificatisi in qualche diocesi –episodi che, clamorosamente riportati dai mezzi di comunicazione, hanno causato un diffuso generale sgomento”. Da qui l’invito di mons. Nunnari ai presuli “ad offrire ciascuno la propria riflessione sui problemi legati al fenomeno della mafia in Calabria e sugli atteggiamenti che le comunità ecclesiali devono manifestare” di fronte a questa “disonorante piaga della società”, che “deturpa da fin troppo tempo la vita dei calabresi”.
Nel Sud sempre meno nascite I giovani emigrano e la popolazione invecchia da ROMA NOSTRO SERVIZIO
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’intreccio perverso tra crisi economica e dinamiche demografiche – scrive anche quest’anno il rapporto Svimez, assume caratteri molto più definiti. Nel decennio 2001-2011 la popolazione è cresciuta di 104 mila unità nel Mezzogiorno (+5,0‰) e di circa 2,3 milioni di unità nel Centro-Nord (+63,9‰) (Tab. 20). Nel decennio, variazioni decisamente negative riguardano la sola popolazione italiana che si riduce di 263 mila unità al Sud, mentre cresce di 6 mila nelle regioni del Centro-Nord. In questo caso, il fattore principale di variazione è rappresentato dalle migrazioni interne che nel Mezzogiorno continuano a determinare un deflusso di popolazione nativa che ha permesso a diverse regioni centro-settentrionali di bilanciare la perdita dovuta alla dinamica naturale e di accrescere il numero di autoctoni residenti. Popolazione residente in Italia. Variazioni intercensuarie (migliaia di unità)
presa delle emigrazioni verso il Centro-Nord ma soprattutto verso l’estero; inoltre per il secondo anno consecutivo il numero dei morti sopravanza quello dei nuovi nati. In Italia si assiste a un calo delle nascite, particolarmente evidente al Sud, e questo fenomeno crea un saldo negativo, tradottosi in una diminuzione della popolazione via, via crescente. Il profondo divario tra le aspettative, soprattutto delle nuove generazioni in termini di realizzazione personale e professionale e le concrete occasioni di impiego qualificato sul territorio ha determinato negli anni Duemila la ripresa dei flussi di emigrazione. (Tab. 21). Tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.559.100 meridionali, a fronte di un rientro di 851 mila persone, con un saldo migratorio netto di 708 mila unità. Di questa perdita di popolazione il 70%, 494 mila unità, ha riguardato la componente giovanile, di cui poco meno del 40% (188 mila) laureati. I flussi migratori calcolati in base ai cambi di residenza nel periodo 2001-2013
Fonte: Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
Quanto alla dinamica naturale della popolazione, il numero dei nati nel Mezzogiorno, così come nell’Italia nel suo complesso, ha toccato nel 2013 il suo minimo storico: 177 mila. Il valore più basso dall’Unità d’Italia. Negli ultimi 50 anni il Sud ha continuato a perdere popolazione anno dopo anno. Diversamente dal Nord, dove, dopo il picco negativo del quinquennio 1985-1989, la popolazione aveva ripreso a crescere, con una tendenza al rallentamento dal 2009 in poi. Andamento delle nascite nel Mezzogiorno e nel
Fonte: Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud, affermatasi a partire dall’inizio del nuovo secolo, poi acuita dalla pesante crisi economica. L’anno scorso, infatti, la popolazione meridionale, non tenendo conto degli aggiustamenti ISTAT conseguenti all’ultimo censimento, si valuta sia calata di circa 20 mila unità. Da ciò emergono con chiarezza due elementi: la ri-
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Centro-Nord dal 1862 al 2013. Al Sud la fecondità femminile è giunta ormai a quota 1,36 figli per donna, ben distante dal livello di sostituzione (che garantisce la stabilità demografica), pari a 2,1 nati per coppia, e anche inferiore a quello del CentroNord (1,46 figli per donna). Rispetto a 15 anni prima l’intensità della fecondità del Mezzogiorno si è mantenuta sostanzialmente stazionaria, mentre forte è stata la crescita nelle regioni centro-settentrionali, favorita anche dai livelli riproduttivi elevati delle donne straniere. Numero medio di figli per donna (TFT)
Da un’area giovane e ricca di menti e di braccia, il Sud si trasforma sempre più in un’area anziana, economicamente sempre più dipendente dal resto del Paese. Tra il 2001 e il 2011 la popolazione meridionale, come ricordato, è cresciuta di appena 104 mila unità, a fronte di oltre 2,3 milioni nel Centro-Nord. Popolazione del Mezzogiorno e del Centro-Nord nel 2012 e nel 2065 (Migliaia di unità, s.d.i.)
Fonte: Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
Fonte: Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
Il risultato di questi comportamenti è stato un evidente crollo della natalità. In particolare il Mezzogiorno si è attestato nel 2013, come ricordato, su 177 mila nascite: un livello così basso non era mai stato toccato dall’Unità d’Italia in poi. Mentre nel Centro-Nord i 338 mila nati sono ancora ben superiori ai 288 mila del 1987, quando si toccò il minimo storico. Uno dei problemi centrali del Mezzogiorno è, quindi, la progressiva rarefazione delle giovani generazioni, con gli ormai già evidenti effetti sull’evoluzione demografica dell’area meridionale.
Se questa tendenza alla perdita di peso demografico non verrà sollecitamente contrastata, il Mezzogiorno è un’area che sarà caratterizzata nei prossimi anni e decenni da uno stravolgimento demografico, un vero e proprio “tsunami” dalle conseguenze imprevedibili. In base alle previsioni ISTAT, infatti, il Sud, alla fine del prossimo cinquantennio, perderà 4,2 milioni di abitanti, oltre un quinto della sua popolazione attuale, rispetto al resto del Paese che ne guadagnerà, invece, 4,6 milioni. La perdita di popolazione interesserà da qui al 2065 tutte le classi di età più giovani del Mezzogiorno, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di rovesciamento rispetto a quella del Centro-Nord. La popolazione del Mezzogiorno si ridurrà complessivamente al 27,3% di quella nazionale, a fronte dell’attuale 34,3%. 36
Principali indicatori demografici dei paesi dell’Unione Europea a 27. Anno 2012
Fonte: Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
Con riferimento al contesto europeo, l’Italia mantiene un peso molto rilevante, grazie al saldo migratorio ancora nettamente positivo. Anche se il dualismo demografico interno al nostro Paese comporta che mentre la struttura dell’area del Centro-Nord sia molto simile a quello dei paesi del Nord Europa, in primo luogo la Germania, il Mezzogiorno abbia, invece, andamenti molto simili a quelli dei paesi del Sud, come Spagna e Grecia, sia come indice di vecchiaia che come rapporto tra popolazione attiva e non più attiva.
Mons. Salvatore Nunnari: La Calabria è il sud del sud
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’immagine che emerge dal Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, presentato il 28 ottobre a Roma, è quella di un Sud a rischio di desertificazione umana e industriale, dove si continua a emigrare e a non fare figli. Nel 2013, il numero dei morti continua a superare quello dei nati. La regione più povera è la Calabria. Questo territorio è “il Sud del Sud”, sottolinea l’arcivescovo di CosenzaBisignano, mons. Salvatore Nunnari: “ Non c’è lavoro, pochi soldi in famiglia. non si pensa ai figli, perché come si mantengono? Questo è preoccupante perché la Calabria, come lei sa, è stata sempre una terra creativa. Dal punto di vista industriale, qui si è sbagliato tutto. La Calabria è terra di turismo, di agricoltura. Si è pensato a portare le industrie. Un fallimento. Ci sono solo solamente cattedrali nel deserto, ma cattedrali ormai solo di ruggine. Siamo già in tempo di crisi. Abbiamo registrato una ripresa nel Dopoguerra, con la Cassa del Mezzogiorno. Purtroppo, siamo abituati all’assistenzialismo, al clientelismo. Da aggiungere anche il male estremo, terribile della mafia, presenza non solo disonorante ma anche destabilizzante: le industrie del Nord, che si erano installate nel nostro territorio, si sono appena affacciate e poi sono scappate. Adesso, bisogna passare alla concretezza dei fatti, non più promesse: la Calabria rischia di restare la terra dei vecchi, degli anziani. Come vescovi, sentiamo pesantemente questa realtà che ci fa ritrovare come la regione più povera: la Calabria è il sud del Sud!”. “Se il Sud fallisce – continua - se non riparte, non credo che riparta anche il resto della nazione: 40 famiglie su 100 si sono impoverite nel 2013. La Caritas è molto impegnata a dare qualche risposta. Ma il problema serio è la povertà estrema”. Alla domanda: “La Calabria è il sud del Sud, la regione più povera d’Italia. Ma la difficile situazione economica in Calabria è il risultato di tante povertà, dovute anche alla presenza opprimente della ‘ndrangheta. Ma in Calabria ci sono anche delle ricchezze …”, il presule ha risposto:”Ricchezze di intelligenza e di cuore. Una volta mandavamo braccia per lavorare, dal Sud, dalla Calabria al Nord e in America. Adesso, stiamo mandando le nostre intelligenze più belle: i giovani emigrano con una laurea, magari un computer e se ne vanno …
Famiglia e catechismo si può fare! Cultura religiosa
ANDREA GIUCCI ESPERTO DI CATECHESI
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utte le volte che si ragiona insieme sul ruolo della famiglia nel cammino di catechesi di iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, emergono facilmente due posizioni: da un lato tutti riconoscono il sacrosanto ruolo primario della famiglia nell’educazione alla fede dei figli, dall’altro però tutti lamentano una sostanziale assenza dei genitori in questo campo. Così mamma e papà sono insieme i più desiderati e temuti, i più cercati e, spesso, i più assenti. Tale situazione provoca un circolo vizioso capace di montare solo nella lamentela se non nel risentimento sterile. Non solo da questa situazione apparentemente bloccata si deve uscire, ma è anche possibile farlo: basta cambiare l’approccio alla questione e non avere pretese irrealistiche. Il primo passo consiste nello smettere di dare per scontata la fede nei genitori, solo per il fatto che continuano, più o meno a seconda delle situazioni, a iscrivere i figli a catechismo e a chiedere per loro i sacramenti. I motivi per cui oggi continuano ad avviarsi cammini di iniziazione alla fede sono alquanto articolati e complessi. Uscire da ciò che è scontato significa porsi la domanda del perché genitori spesso assai lontani dalla chiesa continuano a bussare alla sua porta e sui punti positivi iniziare a costruire. Come? Anzitutto tacendo! Il secondo passo per avviare un positivo cammino con le famiglie è infatti quello di mettersi in ascolto delle loro vite, dei loro desideri, delle loro domande che li hanno condotti a noi, anzitutto del loro nome, perché fino a quando continueremo a chiamarli come il padre di Francesca o la mamma di Matteo dimostreremo un approccio istituzionale e non un interesse vero alla persona. Per ascoltare è necessario accogliere pazientemente, creare un clima cordiale, lasciare tempo alle persone di superare la naturale ritrosia, non giudicare, non supporre, non pretendere. Tutto ciò richiede tempo, molto tempo, che ma-
gari si deve togliere ad attività e a proposte con i bambini, ma questo sarà un investimento assolutamente proficuo. Terzo passaggio fondamentale: dopo aver a lungo ascoltato guai a parlare troppo, magari facendo una predica o - che tristezza! - dando gli avvisi. A persone che si riavvicinano alla chiesa siamo chiamati anzitutto a offrire lo sguardo amoroso di Gesù, l’esperienza misericordiosa e avvolgente dell’amore del Padre, il calore di una fraternità gratuità e appassionata. Le pagine di Papa Francesco nella Evangelii Gaudium sul primo annuncio sono luminose ed esemplari a riguardo! Dal punto di vista pratico è necessario uscire dal cliché della riunione, spesso unico genere letterario utilizzato con i genitori del catechismo; accanto ad alcuni momenti di dialogo vanno in38
vece proposti occasioni di fraternità, un’uscita, un gesto di carità intensa da vivere con tutta la famiglia: nella condivisione fattiva di esperienze si smuovono rigidità e durezze e si avviano cammini sorprendenti. E quando si proporrà una riunione andrà sempre ricordato che gli adulti pretendono di essere trattati da adulti, non da bambini né da scolaretti! Va subito detto che i risultati non saranno né omogenei né facilmente programmabili: si registreranno probabilmente alcune adesioni entusiastiche, non pochi avvicinamenti, diverse ritrosie e anche qualche rifiuto deciso. Questa varietà di risposte produrrà necessariamente cammini progressivamente diversificati, certamente con gli adulti, forse, in qualche caso, anche con i bambini. È però illuso chi pensa, oggi, di poter ancora
pensare a una sostanziale omogeneità delle situazioni, dei cammini e delle scelte. L’intuizione ormai più che decennale della chiesa italiana di cammini progressivamente differenziati chiede ancora di essere abbondantemente digerita. Una cosa è certa: la costruzione di relazioni significative e personali con i genitori prima ancora che con i bambini offrirà nel corso degli anni di cammino una maggior disponibilità al coinvolgimento, a patto di costruire itinerari che vedranno sempre più le famiglie come soggetti e destinatari delle proposte e non solo i bambini. Così alle pretese corrisponderanno proposte coerenti e praticabili e qualche madre e padre scoprirà la bellezza di parlare e di Gesù ai loro figli, fino magari a pregare con loro.
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Reportage
Dall’isola del silenzio accompagnati dalla luce divina da Patmos
candore immacolato delle pareti di calce, restavo in soNOSTRA INVIATA SPECIALE speso di fronte all’azzurro, il blu intenso del mare e del cielo. respiravo il profumo dell’aria imbalsamato d’ini trovavo sull’isola di Patmos” dice san censo. Certamente, ero lontano dalle visioni apocalitGiovanni nell’Apocalisse. Anch’io sono tiche dell’Apostolo in esilio, ma presentivo i miracoli stata sull’isola di Patmos un giorno di della luce invisibile, di questo bagliore che ho intravisto trent’anni fa, quando un amico mi aveva fatto la pro- nello sguardo di una donna, di tanti eremiti che pregaposta di andarci. Non sapevo che avrei rifatto questo vano nel silenzio dell’isola. viaggio ogni estate e che Patmos sarebbe diventato il Patmos, è anche liturgia. Ci siamo trovati una domeluogo di un’esperienza spirituale, un cammino di luce. nica, al monastero della Evangelismos, un convento di E’ chiaro che per quanto mi riguarda non si tratta di monache fondato dall’Egumeno, Amphilochios Makris, visioni, di voci, di estasi, come quelli descritti dall’Apo- allora abate del monastero san Giovanni. Il coro delle calisse, ma ho scoperto un’isola di una bellezza affasci- donne cantavano l’inno dei cherubini, noi contemplanante e segnava per me l’inizio di una lunga avventura vamo mentre ascoltavamo queste melopee secolare, le interiore che sarebbe passata attraverso il lavoro, lo sante icone della vita di Cristo de della vergine Maria. sforzo, la contemplazione, lo sguardo sulle cose. In Queste pareti del santuario, coperte degli affreschi, ci guardano a loro volta in un misterioso scambio e la bellezza della Divina liturgia diventava seducente, meditativa, fino a toccare il cuore. L’otto settembre dello scorso anno, mi sono recato di nuovo a Chora per una passeggiata, passando per le scalinate che portano al monastero san Giovanni e tutto era come trent’anni fa. Sono entrato in una piccola cappella dove l’icona della vergine Theotocos vegliava. ho acceso un cero e ho pregato. Tutto era silenzioso. Fuori, il cielo era blu brillante senza macchia, i galli cantavano, la terra emetteva profumi, da qualche parte si bruciava l’incenso, il mare impassibile lasciava vedere da lontano un fragile velo bianco. Se Patmos, è molto cambiata lungo questi anni, quanto fotografa, stavo guardando ancora quello che a causa di un turismo sempre più invasivo, l’isola conavevo sotto gli occhi passeggiando per le vie di Patmos. serva ancora oggi questa presenza del sacro, quest’invito Così, ho camminato per tanti periodi dell’estate, con il a guardare verso la luce, a mantenere il silenzio per enmio obbiettivo, a fotografare i vicoli di Chora, le stra- trare nel santuario del cuore, seguendo l’esempio di dine della città alta che avvolge la fortezza del grande molti eremiti che hanno scolpito le loro impronte e lamonastero san Giovanni. Fotografavo l’alba e il tra- sciato le loro tracce come un profumo d’incenso che le monto, correvo dietro l’ombra e la luce, interrogavo il donne fanno salire la sera, al tramonto. ROSELYNE FORTIN DE FERRAUDY
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Le foto sono di Roselyne Fortin de Ferraudy
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e me trouvais dans l’île de Patmos» dit St. Jean dans l’Apocalypse. Je me trouvais, un jour moi aussi dans l’île de Patmos, c’était il y a une trentaine d’années, lorsqu’une amie me suggéra d’y partir. J’ignorais alors que je referais ce voyage chaque été et que Patmos deviendrait le lieu d’une expérience spirituelle,d’un chemin de lumière. Il ne s’agissait pas biensûr, en ce qui me concerne, de visions, de voix, d’extases,comme celles que décrit l’Apocalypse mais je découvrais une île dont la beauté me subjuguait et c’était pour moi le commencement d’une longue aventure intérieure qui allait passer par le travail, l’effort, la contemplation, le regard sur les choses: photographe,je regardais encore et encore ce que j’avais sous les yeux, me promenant dans Patmos. J’ai arpenté ainsi des étés durant, munie de mon objectif, les ruelles de Chora, ces ruelles de la ville haute qui enserrent la forteresse du grand monastère Saint-Jean. Je photographiais l’aube et le couchant, je poursuivais l’ombre et la lumière, j’interrogeais la blancheur immaculée des murs de chaux, je restais en suspens devant l’azur, le bleu intense de la mer et du ciel. Je respirais les parfums de l’air embaumé d’encens. J’étais, certes à mille lieues des visions apocalyptiques de l’Apôtre en exil, mais je pressentais les miracles de l’Invisible Lumière, de cette lueur que j’entrevis, un jour dans le regard d’une femme. Elle s’appelait Marika, et vivait dans un hameau du nom de Christos…..Cette lumière enfin des nombreux ermites qui priaient dans le silence de l’île. Patmos, c’étaient aussi les liturgies. Nous nous trouvions, un dimanche, au monastère de l’Evangelismos,un couvent de moniales, fondé par l’higoumène, Amphilochios Makris, alors Abbé du monastère St. Jean. Le choeur des femmes chantaient l’hymne des Chérubins , nous contemplions, tout en écoutant ces mélopées du fond des âges, les Saintes Icônes de la vie du Christ et de la Vierge-Marie. Ces murs du sanctuaire, couverts de fresques, nous regardaient à leur tour dans un mystérieux échange et la beauté de la Divine Liturgie devenait incantatoire, méditative, jusqu’à pénétrer dans le coeur. Le 8 septembre dernier, je me suis à nouveau, promenée dans Chora, j’ai gravi les marches qui me portaient au monastère St. Jean: c’était comme ily a trente ans. Je suis entrée dans une petite chapelle, l’icône de la Vierge- Theotocos veillait. J’ai allumé un cierge, j’ai prié. Tout était silence. Au-dehors, le ciel brillait d’un bleu sans tâche, les coqs lançaient leur chant, la terre exhalait des parfums, quelque part on brûlait de l’encens, la mer impassible laissait voir au loin un frêle voile blanche. Si Patmos, au long de ces années a beaucoup changé, conséquence d’un tourisme, toujours plus envahissant, l’île conserve aujourd’hui encore cette présence du sacré,cette invitation à regarder vers la lumière, à se taire,pour entrer dans le sanctuaire du coeur, à l’exemple des nombreux ermites qui ont gravé leur empreinte et laissé leur trace, comme un parfum d’encens que les femmes font monter, le soir, au crépuscule».
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E uro Dossier 2014 pa/ 1 Sguardi sul mondo 1914-2014
Dalla guerra dei 30 anni del XX secolo alla Chiesa di Papa Francesco da ROMA
FRANCESCO DANTE STORICO, UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA
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erché la storia degli uomini deve essere segnata dalla scansione terribile delle guerre? Non è un modo crudele e scontato di pensare alle vicende dell’uomo? Perché non spendere studi, ricerche, intelligenze per spiegare i numerosi tentativi di evitare le guerre da parte di uomini e donne che di tempo in tempo compresero la follia della guerra? Gli anni che vogliamo raccontare sono segnati da uno spartiacque molto chiaro, il 1989 che, però, marca una grande illusione, quella che, con la fine dell’Unione Sovietica e del sistema ad essa legato, tutto sia divenuto chiaro e gli uomini si trovino a vivere un’alba di un nuovo tempo felice. Così non è e non è stato. Riccardi ha messo in guardia la generazione di fine millennio affermando che non è affatto facile capire il mondo contemporaneo. È complesso, confuso. L’89 è piuttosto l’inizio di un tempo contrassegnato da un nuovo disordine mondiale. La generazione che si avvia all’età della pensione era stata abituata a pensare il mondo secondo le categorie del bene e del male; la guerra fredda metteva timore ma era anche rassicurante, aiutava a definire le coordinate dei rapporti tra gli uomini ed era facile leggere ciò che accadeva secondo una consolidata griglia: il male era ad Est e il bene ad Ovest. La lettura era rovesciata per chi pensava in maniera opposta dal momento che la posizione di ognuno dipendeva dalla opzione compiuta davanti ai due mondi che si contrapponevano. Il mondo sembrava ingessato tra due civiltà e niente sembrava smuoverlo, tanto che fino al novembre del 1989 nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe im-
maginato la fine dell’impero sovietico, soprattutto senza spargimento di sangue, tranne in Romania dove un colpo di stato mise fine al regime comunista: Nicolae Ceauescu e la moglie Elena, dopo un processo sommario vennero giustiziati. Eleggere le guerre a spartiacque della storia mutila la storia, ha scritto Anna Bravo, quasi scusandosi come nello scrivere un manuale di storia si sia trovata a riempire pagine e pagine sulla guerra, e come abbia riservato invece solo poche righe agli sforzi diplomatici per evitarla. Quanti sono a conoscenza dei numerosi sforzi di evitare il conflitto del 1914-1918? E chi è a conoscenza dell’offerta dell’Austria – certo alle strette e pronta a tutto pur di evitare l’apertura di un ennesimo fronte di guerra a Sud – all’Italia il 16 marzo del 1915? L’Austria si impegnava, in cambio della neutralità, nemmeno di un’alleanza militare, a firmare un accordo che conteneva il raggiungimento dei confini a Salorno, e poi: la cessione di tutta la riva occidentale dell’Isonzo (che costerà, poi, all’Italia, più di 500.000 morti, per conquistarla con le armi), la concessione della piena autonomia amministrativa a Trieste; il proprio disinte44
resse per l’Albania; acconsentiva all’occupazione italiana a Valona ed infine si diceva disponibile ad esaminare benevolmente la situazione di Gorizia e di alcune isole della Dalmazia. La volontà italiana di arrivare fino al Brennero provocò il rifiuto austriaco. Ma il nazionalismo italiano aveva ormai ubriacato tanti – tranne i cattolici e i socialisti – che vedevano nella guerra l’occasione per raggiungere grandi e immensi orizzonti. Il conto sarebbe arrivato nel 1918: più di mezzo milione di morti. Tolstoj in Guerra e pace ha disegnato mirabili pagine nel raccontare l’angoscia, il dolore, la sofferenza dei soldati che al tramonto di un “qualunque” giorno di battaglia facevano sentire i propri strazianti lamenti, stesi in campi di battaglia ridotti ad un inferno umano. Terribile, scriveva il grande Tolstoj, ritrovarsi la sera a passare in qualche modo la serata tra una battaglia e l’altra, constatando l’assenza dell’amico perché quel giorno era morto. La guerra è la fine dell’innalzamento dell’uomo, è l’immagine dell’abbassamento dell’uomo che ha utilizzato la propria intelligenza per distruggere, non per costruire. Perché è l’uomo a scendere in battaglia? Tolstoj fa rispondere, sempre in Guerra e Pace, ad una giovane principessa: “È proprio quello che dico io: non capisco perché gli uomini non possono fare a meno
Papa Francesco: riconoscenza a quanti lottarono contro la barbarie nazzista
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el 70.mo del D-Day, Papa Francesco rende omaggio ai soldati che sbarcarono “sulle spiagge della Normandia per lottare contro la barbarie nazista e liberare la Francia occupata”. In un telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin – indirizzato al cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, a mons. Jean Claude Boulanger, vescovo di Bayeux-Lisieux, e a quanti commemorano la ricorrenza – il Papa rammenta anche “i soldati tedeschi trascinati in questo dramma, così come tutte le vittime” della Seconda Guerra Mondiale. È “opportuno”, sottolinea il Pontefice, che “le generazioni presenti esprimano la loro riconoscenza” a tutti coloro che hanno sopportato “sacrifici così pesanti”. E’ attraverso la “trasmissione della memoria e l’educazione”, soggiunge, che è possibile costruire un futuro migliore. Questo 70.mo dello sbarco in Normandia, afferma Francesco, “ci ricorda che l’esclusione di Dio dalla vita delle persone e delle società non può che portare morti e sofferenze”. Le nazioni europee, prosegue il telegramma, “possono trovare nel Vangelo di Cristo, Principe della Pace, la radice della propria storia e la fonte di ispirazione” per instaurare relazioni “sempre più fraterne e solidali”.
17 milioni è la cifra stimata delle vittime della Grande Guerra tra militari (10 milioni) e civili (7 milioni)
della guerra. Com’è che noi donne non ne abbiamo bisogno, non ne proviamo alcun desiderio?”. Idea di nazione, idea d’Europa Quale è l’idea che sottende alla inevitabilità della guerra? Perché essa, ad un certo punto, appare come l’unica via per affrontare le crisi tra le nazioni? Per rispondere a questo quesito è necessario soffermarsi su questo termine – “nazione” - che si è appena utilizzato, perché fu proprio nel corso del XIX secolo che esso prese piede tanto da divenire la molla principale dell’azione di interi popoli. “L’idea di nazione di “Federico Chabod aiuta a comprenderne le sue profonde radici nelle mentalità dei popoli europei nel corso del XIX secolo, ma anche la malattia che colpì quelle generazioni sfortunate di donne ed uomini quando da nazione si approdò a nazionalismo. Fu l’inizio della fine e già negli ultimi anni del XIX secolo si potevano scorgere, senza essere facili e sventurati profeti, le radici di quelle guerre e stermini che avrebbero colpito la culla della civiltà. Chabod aveva troppo innato il senso della storia per rappresentare l’idea di nazione solo come il momento negativo, antitetico dell’idea di Europa: le sue osservazioni più fini e penetranti toccano il punto di equilibrio e di complementarietà fra le due idee – na-
zione ed Europa. Mi colpisce il fatto che Chabod abbia riflettuto su questi temi con altri storici dell’Enciclopedia Italiana, meglio conosciuta come “La Treccani”. Scriveva Chabod che, proprio negli anni Trenta, veniva a maturazione, purtroppo, quel processo nato a metà del XIX secolo, in cui veniva meno l’antica idea di nazione per giungere al nazionalismo. Chabod era convinto che l’idea di nazione, tanto cara ai pensatori del XIX secolo, non dovesse andare mai disgiunta dall’idea e dalla coscienza della comunità europea, anche se non si nascondeva i rischi di quel-l’itinerario. Egli rifiutava però di fare dell’idea di nazione una divinità suprema, che comportasse un misconoscimento di realtà più vaste, quali l’Europa e l’umanità intera. Chabod aveva fatto di queste riflessioni - nel pieno della guerra e nel cupo inverno del 1943 – il centro dei suoi corsi universitari a Milano e successivamente a Roma nel 1946-47. L’idea di nazione è, innanzitutto, per l’uomo moderno, un fatto spirituale; la nazione è anima, spirito e soltanto assai in subordine materia corporea. La storia dello sviluppo dell’idea di nazione dimostra come il carattere legato alle forze naturali abbia determinato tutto l’ulteriore sviluppo del pensiero di quelle generazioni fino a sboccare nel razzismo. L’esaltazione del sangue, del suolo, il richiamo pagano al “dio Po”
Papa Francesco a Redipuglia: La guerra è follia “
L
a cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere … sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto. L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: “A me che importa?”. «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà … ‘A me che importa?’”. Dal sacrario militare di Redipuglia, Papa Francesco sabato 13 settembre, parlava all’Europa, parlava al mondo. A 100 anni dalla grande guerra si era fatto pellegrino della memoria ricordando nella preghiera i 17 milioni di morti : 10 milioni tra i militari e 7 milioni tra i civili. Era realista Papa Francesco quando diceva:” Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto beffardo della guerra: ‘A me che importa?’. Tutte queste persone, che
riposano qui- continuava - avevano i loro progetti, avevano i loro sogni …, ma le loro vite sono state spezzate”. E si chiedeva: “Perché? Perché l’umanità ha detto: A me che importa?”. Anche oggi – continuava- “dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una 46
HA DETTO 25 anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il Muro di Berlino, che per tanto tempo ha tagliato in due la città ed è stato simbolo della divisione ideologica dell’Europa e del mondo intero. La caduta avvenne all’improvviso, ma fu resa possibile dal lungo e faticoso impegno di tante persone che per questo hanno lottato, pregato e sofferto, alcuni fino al sacrificio della vita. Tra questi, un ruolo di protagonista ha avuto il santo Papa Giovanni Paolo II. Preghiamo perché, con l’aiuto del Signore e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, si diffonda sempre più una cultura dell’incontro, capace di far cadere tutti i muri che ancora dividono il mondo, e non accada più che persone innocenti siano perseguitate e perfino uccise a causa del loro credo e della loro religione. Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore. Servono ponti, non muri! PAPA FRANCESCO Dopo Angelus, domenica 9 novembre 2014
terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni …” e diceva con voluta provocazione:” Ad essere onesti, la prima pagina dei giornali dovrebbe avere come titolo: A me che importa? . Caino direbbe: «Sono forse io il custode di mio fratello?”». Traduceva, come è suo stile, il dramma umano, in rinascita interiore, Papa Francesco, quando invitata i presenti a cambiare “questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù nel Vangelo. Abbiamo ascoltato: Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, Lui è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato … Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: ‘A me che importa?’, rimane fuori”. Nei due cimiteri di Redipuglia ci sono tante vittime. Oggi – esortava Papa Francesco - noi le ricordiamo:”
C’è il pianto, c’è il lutto, c’è il dolore. E da qui ricordiamo le vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono tante …”. “ Come è possibile questo?” – si chiedeva ancora- . “E’ possibile – rispondeva- perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. E concludeva con amarezza:” E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: ‘A me che importa?’”. È proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere … “L’ombra di Caino – concludeva - ci ricopre oggi qui, in questo cimitero. Si vede qui. Si vede nella storia che va dal 1914 fino ai nostri giorni. E si vede anche nei nostri giorni”. Per tutti i caduti dell’ “inutile strage”, per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo, Papa Francesco chiedeva il pianto. “Fratelli – concludeva commosso- l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto”. (G.G.)
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(parafrasando Chabod, “questo custode delle virtù ataviche, questa vestale dell’acqua sacra della lealtà e della rettitudine”) hanno trasformato l’idea di nazione in quella di popolo come comunità di sangue. Ma tutto questo non è che la logica conclusione del metodo naturalistico di valutare il carattere delle nazioni: che è, poi, il modo più primitivo e rozzo. Non è disgiunto da tutto questo l’idea della purezza del sangue ben conosciuta e con tristi conseguenze in Spagna. L’idea di nazione si lega ben presto all’idea di libertà: ma anche qui occorre distinguere tra un’idea di libertà come valore da conquistare (gli italiani nel risorgimento) a valore proprio della conservazione e della chiusura di fronte all’altro. Mi spiego. Per gli svizzeri e i tedeschi la libertà è quella antica, avita, tradizionale, retaggio ormai di secoli, che occorre non conquistare ma difendere contro la minaccia dall’esterno. Quindi, difendere la propria libertà: non solo sul terreno propriamente politico, ma anche, e forse più, su quello morale, nei costumi, nelle credenze, nel modo di pensare, nella propria individualità spirituale e morale, insomma in ciò che costituisce propriamente la nazione. In tal modo la libertà diviene la caratteristica essenziale del proprio passato nazionale: essa non è solo un ideale futuro ma è la propria storia stessa. Per gli italiani del secolo XIX è un ideale teorico da far trionfare, mentre per gli svizzeri del Settecento è una prassi da conservare. Ma, se si vuole analizzare bene questi concetti e questi anni, appare molto chiaro che simili appelli ed evocazioni costituiscono un motivo ornamentale, una sovrastruttura: l’ideale di libertà pensato da Mazzini, da Cavour e dai vari Cattaneo non erano puramente e semplicemente l’ideale delle antiche libertà comunali, ma era l’idea di una libertà moderna nata in Inghilterra e diffusasi nel continente europeo attraverso la Rivoluzione francese, fatta propria dai popoli, anche con qualche abbellimento locale. Il Risorgimento insomma ha nella sua radice un’idea e valori universali, non l’incistamento di un popolo dentro una propria tradizione, lingua, costume…. Quali che siano le differenze tra Mazzini e Cattaneo, Mazzini a Cavour c’era in tutti il senso oltre che dell’individualità (la nazione), dell’universalità (l’umanità e più precisamente l’Europa ) in modo che l’espandersi dell’individualità trovava un suo naturale, immediato limite nell’interesse degli altri e in quello generale dell’Europa. Quando questo scrupolo - il rischio di offendere l’interesse generale con il mio particolare – verrà meno, sarà la guerra. La nazione, profondamente connessa alla libertà e all’umanità, nell’ultimo decennio del XIX secolo, divenne
HA DETTO “Prima di invocare su di voi la benedizione del Signore, desidero annunciare che il prossimo 13 settembre intendo recarmi pellegrino al Sacrario militare di Redipuglia, in provincia di Gorizia, per pregare per i caduti di tutte le guerre. L’occasione è il centenario dell’inizio di quella enorme tragedia che è stata la Prima Guerra Mondiale, della quale ho sentito tante storie dolorose dalle labbra di mio nonno, che l’ha fatta sul Piave”. Papa Francesco ai partecipanti all’incontro dell’Arma dei Carabinieri nel bicentenario di fondazione Venerdì, 6 giugno 2014
un simbolo ideologico dal carattere forzatamente etnico. La nazione era ormai slegata da ogni altro sentimento europeo ed umanitario, si tramutò, si trasformò da missione educatrice a missione di predominio e il primato da civile e morale divenne primato delle armi. La corsa agli armamenti Tra il 1870 ed il 1890 le navi da battaglia entrarono in una concitata fase sperimentale, numerose marine sperimentarono diversi arrangiamenti di torrette, dimensioni e numeri, con ogni nuovo progetto che rendeva in gran parte obsoleti i precedenti. Diversamente dagli inglesi, i francesi costruirono spesso un singolo esem-
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LA NOTIZIA/1 Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è recato a Redipuglia per i 100 anni dalla Grande Guerra. “Serve una corretta integrazione e unità europea” - ha detto -. Il presidente ha anche avvertito quelli che hanno rinunciato ad una celebrazione unitaria per troppe interpretazioni, troppi ricordi, troppe cicatrici, troppi rischi “ad evitare” un anacronistico riprodursi di antiche polemiche sulle responsabilità nello scatenarsi di quell’immane, sanguinosissimo conflitto, consigliando piuttosto di considerare se quelle cause non siano riconducibili a un motivo che è ancora, in mutate forme. Davanti a noi: “I nazionalismi e i vecchi e nuovi imperialismi”. Tutto il mondo ha ricordato il conflitto e, per la prima volta anche la Russia ha onorato le sue vittime (circa 3,5 milioni di morti). Francia (un milione 697 mila), Germania e Austria, Gran Bretagna, Canada, America e Oceania, Belgio e Irlanda: un solo concerto di voci per ricordare il passato e programmare il futuro nella giustizia e nella pace. Il “Requiem” globale di Muti. Il “Requiem per le vittime di tutte le guerre” Attorno a Riccardo muti, ai piedi del Sacrario Militare di Redipuglia, si stringono musicisti di molte nazioni, sia giovani sia illustri solisti… Da sempre Muti dirige la messa di Requiem di versi. Ma oggi lo fa in modo diverso dai primi anni: tutto è più interiorizzato, come soffuso o intensamente devoto. Non è tanto l’evento catastrofico della morte, rappresentato da Verdi nel terremoto del Dies irae, che oggi Muti intende sottolineare, quanto l’intensità, lo sgomento, la desolazione che l’uomo, pieno di dubbi e di pietà, avido di speranza e in preda all’incertezza, prova davanti al mistero. PAOLO GALLARATI La Stampa, 7 luglio 2014, p. 5
plare di ogni nuovo progetto. La Marine nationale si guadagnò così il soprannome di “marina di esperimenti". Una serie di navi da battaglia tedesche venne progettata con numerosi piccoli cannoni per respingere navi di dimensioni minori, una inglese venne costruita con un motore a turbina (che sarebbe diventato il sistema di propulsione principale per tutte le navi). Le principali nazioni costruttrici di navi di battaglia di questo periodo furono la Gran Bretagna, la Francia, la Russia e le nuove arrivate Germania, Impero austro-ungarico e Italia la quale con la nave Duilio, la prima moderna corazzata d’altura a torri della storia, ottenne un breve periodo di primato tecnico, mentre la Turchia e la Spagna si dotarono di un piccolo numero di fregate corazzate e di incrociatori, perlopiù di costruzione estera, così come la Svezia, la Norvegia e l’Olanda che acquistarono o costruirono piccole “navi da battaglia costiere” ("Pantserschip” o “Panzerschiffe", a seconda della lingua) del tonnellaggio massimo di 5.000 t. Alcune marine sperimentarono anche navi da battaglia di seconda classe, vascelli più economici di una vera nave da battaglia, ma anche meno potenti; questi non furono comunque particolarmente popolari, specialmente nelle marine di nazioni con ambizioni globali. Gli Stati Uniti sperimentarono quattro di queste navi, tra cui le prime due navi da battaglia americane, la Maine e il Texas.
La prima nave da battaglia somigliante alle navi da battaglia moderne venne costruita in Gran Bretagna intorno al 1870 con la classe Devastation caratterizzata da navi a vapore prive di vele. Comunque fu a partire dal 1880 che il progetto delle navi da battaglia si stabilizzò. Successivamente il dislocamento delle navi da battaglia crebbe rapidamente man mano che vennero aggiunti motori più potenti, corazze più spesse e cannoni di calibro inferiore. Le torrette, la corazzatura ed il motore a vapore vennero migliorati nel corso degli anni e venne introdotto il tubo lanciasiluri. Comunque gli eventi scatenarono una nuova corsa agli armamenti navali nel 1906. Ben pochi però (eccetto che in alcuni ambienti navali francesi) si accorsero che l’evento più straordinario della storia navale del tardo XIX secolo e dell’inizio del XX non era la comparsa di navi da battaglia sempre più avanzate, con cannoni e motori sempre più potenti, ma la rivoluzione concet-
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tuale portata avanti dal siluro (e dalla mina), armi molto LA NOTIZIA/2 economiche e capaci, per la prima volta nella storia della “Guai a chi mette in dubbio l’Eumarineria, di permettere ad una nave molto piccola di ropa. Oggi abbiamo la pace, non diaaffondare una nave molto grossa. I primi siluri erano mola per scontata. La pace non è solo assenza di guerra, ma amicizia e solidatroppo primitivi (e di cortissima gittata) per impensierietà tra popoli” E’ quanto ha detto con rire le corazzate, mentre nel corso degli anni '80-'90 del forza il presidente Napolitano in visita in XIX secolo la minaccia delle torpediniere fu efficaceSlovenia per i 100 anni dalla Grande guerra. mente controbattuta aumentando a dismisura il numero L’Unione europea è, come la pace ‘patrimodei piccoli pezzi d’artiglieria destinati esplicitamente a nio irreversibile’. Guai a mettere in dubbio l’unità e l’integrazione” Il santuario mariano contrastarle prima che potessero lanciare i siluri. di monte Santo in Slovenia e la basilica di Quando però nel 1905 le corazzate furono pronte ad una Aquileia visitati dal presidente continuano vera rivoluzione della loro potenza erano già disponibili ad essere due fari di luce di quella civiltà i mezzi in grado di batterle, mentre i cacciatorpediniere cristiana che l’Europa di ieri e di oggi diventarono non solo delle unità destinate a coprire le conon dovranno mai dimenticare. Così, la storia, diventa maerazzate, ma dei bastimenti pericolosi ed in grado, in determistra di vita. nate condizioni, di affondarle con una salva concentrata di siluri. La Guerra dei Trent’Anni del Novecento: 1914-1945 Un inedito senso del tempo si afferma all’inizio del XX secolo: se l’Ottocento si era soffermato sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, sul racconto realistico dell’esperienza vissuta, nei primi anni del XX secolo si impongono nuovi fatti legati ad una nuova percezione del tempo, del passato come del presente, relativi proprio a quei decenni segnati da innovazioni e scoperte negli ambiti della scienza e della tecnica, elementi che indubbiamente hanno caratterizzato in modo nuovo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Si apriva un terribile trentennio – 1915-1945, la Guerra dei Trent’anni del XX secolo – che ha cambiato la storia e ha segnato i rapporti umani, non solo di quelle generazioni che si sono trovate a vivere e a morire nei due conflitti mondiali: l’idea di progresso con le innumerevoli scoperte che migliorarono indubbiamente la vita di tante
generazioni tra XIX e XX secolo avevano fatto credere all’idea che la storia dell’uomo fosse segnata da un destino ineluttabile che avrebbe dato spazio ad un progresso inarrestabile. Ebbene, proprio le due guerre mondiali, hanno segnato la più crudele e ampia smentita a questa idea delle sorti progressive dell’umanità intera. Per decenni, nella seconda metà del XX secolo, la storiografia è stata quasi ingabbiata da questo schema: la storia dell’uomo è storia dei propri conflitti. Papa Francesco, nella Evangeli Gaudium, si è soffermato sull’idea di tempo e di spazio, riconoscendo una superiorità al tempo con una motivazione che aiuta la nostra riflessione sul terremoto che sconvolse l’Europa e il mondo dal 1914, cent’anni fa: un tempo lungo, perché segna la vita biologica di un uomo, ma anche un tempo molto breve, se lo si osserva dalla finestra della storia dell’umanità. Scrive Papa Francesco che “ il tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore
allo spazio. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività sociopolitica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”. La Prima Guerra Mondiale La Grande Guerra si differenziò nettamente da tutte le altre guerre che la precedettero per molte ragioni: fu la guerra della “prima volta” e della “guerra totale”. Per la prima volta non si tratto di un conflitto locale: fu guerra totale sia riguardo agli uomini che alla terra. Non ci furono solo gli eserciti professionali, di mestiere ma venne coinvolta l’intera società civile. Le città con le loro rovine ne furono testimonianza. Guerra totale perché varcò i confini dell’Europa: venne coinvolto anche il Giappone. La scintilla della guerra scoccò il 28 giugno 1914, a Sarajevo, la capitale bosniaca. In un attentato, di matrice estremistica, persero la vita il granduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e la consorte. L’Austria decise unilateralmente di considerare la Serbia responsabile dell’attentato perché essa dava rifugio agli indipendentisti slavi. Si intendeva dare un buon esempio di severità a tutti i popoli dell’Impero nella volontà di porre fine ai numerosi moti rivoluzionari della penisola balcanica, riducendo praticamente al silenzio la Serbia. I generali Austriaci prevedevano una rapida e semplice campagna militare priva di ostacoli significativi. Guerra inevitabile? Da molti anni gli stati maggiori di Francia e Germania si stavano preparando a una guerra che ritenevano inevitabile. La Francia aveva fortificato il confine con la
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Germania, quest’ultima invece aveva pronti i piani per un attacco fulmineo che portasse le sue truppe a Parigi in poco tempo, così come era successo nel 1870. Appena dichiarata la guerra ed iniziata la mobilitazione, il grosso delle truppe francesi fu ammassato lungo il confine tedesco. La mobilitazione delle forze russe avveniva invece molto lentamente per la scarsezza di mezzi di trasporto e l’insufficienza di strade e ferrovie. Così la Germania pensò di riversare tutte le sue forze contro la Francia, di sconfiggerla rapidamente e poi rivolgersi contro la Russia sul fronte orientale. Per poter effettuare questo piano di guerra lampo la Germania doveva evitare le potenti fortificazioni francesi costruite sul confine: perciò l’esercito tedesco invase il Belgio, che era neutrale, per assalire le truppe francesi alle spalle. I tedeschi, dopo un mese di aspri combattimenti, giunsero a qua-
PER UNA ECONOMIA SEMPRE PIÙ INCLUSIVA
È
tanto importante quello che voi fate: riflettere sulla realtà, ma riflettere senza paura, riflettere con intelligenza. Senza paura e con intelligenza. E questo è un servizio. Uno di voi mi parlava dei tre riduzionismi, ma io parlerò soltanto del primo: il riduzionismo antropologico. Credo che questo momento sia il tempo più forte del riduzionismo antropologico. Succede all’uomo quello che succede al vino quando diventa grappa: passa per un alambicco organizzativo. Non è più vino, è un’altra cosa: più utile forse, più qualificata, ma non è vino! Per l’uomo è lo stesso: l’uomo passa per questo alambicco e finisce - e questo lo dico sul serio! - per perdere l’umanità e diventa uno strumento del sistema, sistema sociale, economico, sistema dove spadroneggiano gli squilibri. Quando l’uomo perde la sua umanità, che cosa ci aspetta? Avviene quello che a me viene di dire in un linguaggio comune: una politica, una sociologia, un atteggiamento “dello scarto”: si scarta quello che non serve, perché l’uomo non è al centro. E quando l’uomo non è al centro, c’è un’altra cosa al centro e l’uomo è al servizio di quest’altra cosa. L’idea è quindi salvare l’uomo, nel senso che torni al centro: al centro della società, al centro dei pensieri, al centro della riflessione. Portare l’uomo, un’altra volta, al centro. E questo è un bel lavoro, e voi lo fate. Vi ringrazio per questo lavoro. Voi studiate, fate riflessioni, fate questi convegni per questo, perché l’uomo non sia scartato. Si scartano i bambini, perché il livello di natalità – almeno qui in Europa – tutti lo conosciamo; si scartano gli anziani, perché non servono. E adesso? Si scarta tutta una generazione di giovani, e questo è gravissimo! Ho visto una cifra: 75 milioni di giovani, sotto i 25 anni, senza lavoro. I giovani “né - né”: né studiano, né lavorano. Non studiano perché non hanno possibilità, non lavorano perché non c’è lavoro. E’ un altro scarto! Quale sarà il prossimo scarto? Fermiamoci in tempo, per favore! Vi ringrazio. Vi ringrazio per l’aiuto che date con il vostro lavoro, con la vostra riflessione per recuperare questa situazione squilibrata e per recuperare l’uomo e riportarlo al centro della riflessione e al centro della vita. E’ il re dell’universo! E questa non è teologia, non è filosofia - è realtà umana.
TRAGICO BILANCIO Caduti italiani: 600.000, caduti francesi: 1.400.000, caduti tedeschi: 1.800.000, caduti austro-ungarici: 1.300.000, russi 1.600.000.Comunque la maggior parte dei caduti sono tra i combattenti: la seconda guerra mondiale sarà invece caratterizzata dall’enorme numero di vittime civili. Inoltre la fine della Grande Guerra lascia irrisolti gravissimi problemi che saranno alla radice della Seconda Guerra Mondiale.
ranta chilometri da Parigi, ma sul fiume Marna furono bloccati e respinti alla fine di una battaglia durissima. La non prevista guerra di posizione fa svanire ben presto l’illusione della guerra lampo. Questo succede perché scavando delle trincee e attendendo l’assalto del nemico il difensore è fortemente avvantaggiato sull’attaccante. Gli assalti, infatti, sono ancora effettuate dal fante armato di fucile che si scaglia contro le mitragliatrici nemiche sistemate sui bordi della trincea o dietro un riparo ben munito. Dopo la battaglia della Marna le truppe tedesche e franco-britanniche si fronteggiarono lungo una linea che andava dalla Manica alla Svizzera. La guerra di movimento si trasformò in guerra di posizione. I soldati furono costretti a vivere dentro trincee lunghe centinaia di chilometri, nella sporcizia e sotto le intemperie, su un fronte praticamente fermo. Si immaginava, infine, questa guerra come le altre precedenti, con vittime, costi e conseguenze gravi, ma in qualche modo limitate e prevedibili: con dei vincitori che avrebbero acquistato nuovi territori e maggiori mercati e degli sconfitti che li avrebbero perduti. 1. Continua
Papa Francesco Ai partecipanti al seminario internazionale promosso da Giustizia e Pace Casina Pio IV in Vaticano, sabato, 12 luglio 2014 52
Il dramma dei bambini migranti
Am eri ca
da Città del Messico
JOSÉ GUILLERMO GUTIÉRREZ FERNÀNDEZ ESPERTO DI SOCIOLOGIA RELIGIOSA
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osaria è magrolina, moretta con i capelli lunghi e dal sorriso facile. Come tanti dei suoi coetanei indossa jeans stretti, scarpe da ginnastica e una maglia sportiva. Lei si trova seduta in una sala di attesa, tra due uomini in giacca e cravatta che chattano con i loro cellulari. In qualsiasi momento sarà chiamata in una delle sale di quel palazzo di bianchi corridoi e mura gelide. A quattordici anni per la prima volta in vita sua, senza un avvocato che la rappresenti, si siederà davanti al giudice. Rosaria e suo fratello minore José sono originari di un paese in El Salvador che si chiama Sensutepeque, e fanno parte di quella statistica che ha suscitato allarme nella società e tra le autorità degli Stati Uniti d’America. Nei primi nove mesi dell’anno “fiscale” 2014, cominciato nell’ottobre 2013, più di 52.000 bimbi minori di 18 anni sono stati detenuti mentre cercavano di passare la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, senza documenti e senza un adulto che li accompagnasse, se mai soltanto qualche trafficante di persone. Nello stesso periodo dell’anno precedente la cifra era di 26.000 detenzioni, il che dimostra che il fenomeno cresce ogni volta di più. Secondo i dati ufficiali il 58% di questi bambini sono scappatii a causa della violenza, della guerra e della povertà. Nel 2013 il 76% erano bambini di oltre quattordici anni; ma,in genere, si tratta di bambini di tutte le età. La maggioranza di essi proviene dall’Honduras, dal Guatemala e dal Salvador. Alcuni cercano di ricongiungersi con uno dei genitori che vive negli Stati Uniti, altri fuggono in cerca di una vita più tranquilla. Diversi giornali hanno riportato le storie strazianti di questi bambini, che si ritrovano ingabbiati, rifiutati da gruppi sociali xenofobi, in una nazione che non ha nessun obbligo di offrire loro sostegno legale. Visto che sono stati sfollati in maniera forzata per qualche tipo di pericolo reale o potenziale, di per sé, secondo gli accordi internazionali, potrebbero avere le caratteristiche per essere riconosciuti come candidati ad un trattamento di asilo politico o ad ottenere un visto umanitario, però essi non hanno un avvocato che segua il caso di ognuno e faccia
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conoscere loro queste possibilità. Di conseguenza la maggioranza sarà riportata nel paese d’origine. In luoghi come il Texas o la California si è venuto a creare un problema critico, e, siccome non si sa quando si fermerà questo flusso migratorio, i leader delle diverse comunità cristiane si sono incontrati nel tentativo di coordinarsi chiedendo alle loro comunità gesti concreti di solidarietà. Così anche tra le autorità civili si è costituito un gruppo di coordinamento di Stati Uniti, Canada, Messico, El Salvador, Guatemala, Nicaragua e Honduras, per affrontare questa emergenza. Le autorità si sono impegnate a controllare (ognuno alle proprie frontiere) il flusso di ragazzi e di bambini che arrivano e viaggiano da soli, così come a promuovere una campagna pubblicitaria per scoraggiare chi sta pensando di partire, facendo conoscere quali sono i pericoli reali a cui andranno incontro. Papa Francesco è molto preoccupato per questo fenomeno e ha detto che bisogna fermare queste migrazioni perché questi bambini non hanno futuro. Parole molto forti che dimostrano quanto sia turbato e angosciato il Papa per il presente e il futuro di questi ragazzi abbandonati.
Mobilità umana e sviluppo Colloquio Messico - Santa Sede da Città del Messico NOSTRO SERVIZIO
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l Cardinale Piero Parolin, Segretario di Stato si è recato a Città del Messico (12-15 luglio 2014 ) per partecipare al Colloquio promosso dal Ministero degli Esteri del Governo del Messico e dalla Pontificia Accademia per le Scienze Sociali. Questo evento, celebrato nella sede del ministero degli Esteri del Messico, è stato il primo di alto livello da quando si sono normalizzati i rapporti diplomatici tra i due Stati con lo scambio di ambasciatori plenipotenziari (nel caso della Santa Sede di un Nunzio apostolico) e la Chiesa cattolica è stata pienamente riconosciuta nel Paese. Nel processo di riconoscimento mons. Parolin, all’epoca consigliere della delegazione apostolica in Messico, interveniva molto attivamente. In questa nuova stagione di rapporti diplomatici, il Cardinale è stato insignito della massima onorificenza che il Governo della Repubblica concede ad un personaggio estero la Medalla del Orden del Aguila Azteca. Il Colloquio è stato una manifestazione della feconda cooperazione che si può stabilire tra la Santa Sede e i diversi Governi in temi urgenti, come quello della mobilità umana. Al Colloquio hanno partecipato anche rappresentanti dei Governi di Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua e Stati Il segretario di Stato Vaticano, Card. Pietro Parolin con il Presidente degli Stati Uniti del Messico, Enrique Pena Nieto
Il segretario di Stato Vaticano, Card. Pietro Parolin con il Ministro degli Esteri del governo del Messico, José Antonio Meade Kuribrena 54
Uniti d’ America. È stato registrato un accordo sulla necessità di sviluppare all’ interno delle nazioni cambiamenti strutturali per risolvere le cause che generano gli esodi massivi. Il Cardinale Parolin e altri rappresentanti della Chiesa (organizzazioni civili comprese) hanno ribadito che per i cattolici è fondamentale assicurare la dignità dei migranti, in modo particolare dei ragazzi e dei bambini non accompagnati, e garantire il rispetto dei loro diritti umani, come il diritto al ricongiungimento familiare.
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Il Natale di frate Francesco dalla Città del Vaticano
PADRE RANIERO CANTALAMESSA PREDICATORE DELLA CASA PONTIFICIA
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onosciamo tutti la storia di Francesco che a Greccio, tre anni prima della morte, da inizio alla tradizione natalizia del presepio; ma è bello rievocarla, per sommi capi, in questa circostanza. Scrive dunque il Celano: “Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco chiamò a sé un uomo di nome Giovanni e gli disse: ‘Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello’. […]. E giunge il giorno della letizia. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”[1]. L’importanza dell’episodio non sta tanto nel fatto in se stesso e neppure nel seguito spettacolare che ha avuto nella tradizione cristiana; sta nella novità che esso rivela a proposito della comprensione che il santo aveva del mistero dell’incarnazione. L’insistenza troppo unilaterale, e a volte addirittura ossessiva, sugli aspetti ontologici dell’incarnazione (natura, persona, unione ipostatica, comunicazione degli idiomi) aveva fatto perdere spesso di vista la vera natura del mistero cristiano, riducendolo a un mistero speculativo, da formulare con categorie sempre più rigorose, ma lontanissime dalla portata della gente Francesco d’Assisi ci aiuta a integrare la visione ontologica dell’incarnazione, con quella più esistenziale e religiosa. Non importa, infatti, solo sapere che Dio si è fatto uomo; importa anche sapere che tipo di uomo si è fatto. È significativo il modo diverso e complementare in cui Giovanni e Paolo descrivono l’evento dell’incarnazione. Per Giovanni, essa consiste nel fatto che il Verbo che era Dio si è fatto carne (cf. Gv 1, 1-14); per Paolo, essa consiste nel fatto che “Cristo, essendo di na-
tura divina, ha assunto la forma di servo e ha umiliato se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 5 ss.). Per Giovanni, il Verbo, essendo Dio, si è fatto uomo; per Paolo “Cristo, da ricco che era, si è fatto povero” (cf. 2Cor 8,9). Francesco d’Assisi si situa nella linea di san Paolo. Più che sulla realtà ontologia dell’umanità di Cristo (nella quale crede fermamente con tutta la Chiesa), egli insiste, fino alla commozione, sull’umiltà e la povertà di essa. Due cose, dicono le fonti, avevano il potere di commuoverlo fino alle lacrime, ogni volta che ne sentiva parlare: “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione”[2]. “Non poteva ripensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno la Vergine poverella. Una volta, mentre era seduto a pranzo, un frate gli ricordò la povertà della beata Vergine e l’indigenza di Cristo suo Figlio. Subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra”[3]. Francesco ha ridato così “carne e sangue” ai misteri del cristianesimo spesso “disincarnati” e ridotti a concetti e sillogismi nelle scuole teologiche e nei libri. Uno studioso tedesco ha visto in Francesco d’Assisi colui che ha creato le condizioni per la nascita dell’arte moderna rinascimentale, in quanto scioglie persone ed eventi sacri dalla rigidità stilizzata del passato e conferisce loro concretezza e vita[4]. Il Natale e i poveri La distinzione tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa, tra la sua dimensione ontologica e quella esistenziale, ci interessa perché getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa. Aiuta a dare un fondamento biblico e teologico alla scelta preferenziale dei poveri, proclamata nel concilio Vaticano II. Se infatti per il fatto dell’incarnazione, il Verbo ha, in certo senso, assunto ogni uomo, come dicevano certi Padri della Chiesa, per il modo in cui essa si è realizzata, egli ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente, al punto da identificarsi con essi. Nel povero non si ha, certo, lo stesso genere di presenza di Cristo che si ha nell’Eucaristia e negli altri sacramenti, ma si tratta di una presenza anch’essa vera, “reale”. Lui ha “istituito” questo segno, come ha istituito 56
l’Eucaristia. Colui che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me”. Questo infatti equivale a dire: “Quella certa persona lacera, bisognosa di un po’ di pane, quell’anziano che moriva intirizzito dal freddo sul marciapiede, ero io!”. “I Padri conciliari -ha scritto Jean Guitton, osservatore laico al Vaticano II, hanno ritrovato il sacramento della povertà, la presenza di Cristo sotto le specie di coloro che soffrono”[5]. Non accoglie pienamente Cristo chi non è disposto ad accogliere il povero con cui egli si è identificato. Chi, al momento della comunione, si accosta pieno di fervore a ricevere Cristo, ma ha il cuore chiuso ai poveri, somiglia, direbbe sant’Agostino, a uno che vede venire da lontano un amico che non vede da anni. Pieno di gioia, gli corre incontro, si alza in punta dei piedi per baciargli la fronte, ma nel fare ciò non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I poveri infatti sono i piedi nudi che Cristo ha ancora posati su questa terra. Il povero è anch’esso un “vicario di Cristo”, uno che tiene le veci di Cristo. Vicario, in senso passivo, non attivo. Non nel senso, cioè, che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che
si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo. È vero, come scrive san Leone Magno, che dopo l’ascensione, “tutto quello che c’era di visibile nel nostro Signore Gesù Cristo è passato nei segni sacramentali della Chiesa”[6], ma è altrettanto vero che, dal punto di vista esistenziale, esso è passato anche nei poveri e in tutti coloro di cui egli ha detto: “L’avete fatto a me”. Traiamo la conseguenza che deriva da tutto ciò sul piano dell’ecclesiologia. Giovanni XXIII, in occasione del Concilio, ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”[7]. Essa riveste un significato che va forse al di là di quello che si intende a prima vista. La Chiesa dei poveri non è costituita solo dai poveri della Chiesa! In un certo senso, tutti i poveri del mondo, siano essi battezzati o meno, le appartengono. La loro povertà e sofferenza è il loro battesimo di sangue. Se i cristiani sono coloro che sono stati “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,3), chi è, di fatto, più battezzato nella morte di Cristo di loro? Come non considerarli, in qualche modo, Chiesa di Cristo, se Cristo stesso li ha dichiarati il suo corpo? Essi sono “cristiani”, non perché si dichiarano appartenenti a Cristo, ma perché Cristo li ha dichiarati appartenenti a sé: “L’avete fatto a me!”. Se c’è un caso in cui la controversa espressione “cristiani anonimi” può avere un’applicazione plausibile, esso è proprio questo dei poveri. La Chiesa di Cristo è dunque immensamente più vasta
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di quello che dicono le statistiche correnti. Non per semplice modo di dire, ma veramente, realmente. Nessuno dei fondatori di religioni si è identificato con i poveri come ha fatto Gesù. Nessuno ha proclamato: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40), dove il “fratello più piccolo” non indica solo il credente in Cristo, ma, come è ammesso da tutti, ogni uomo. Ne deriva che il papa, vicario di Cristo, è davvero il “padre dei poveri”, il pastore di questo immenso gregge, ed è una gioia e uno stimolo per tutto il popolo cristiano vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici e in modo tutto particolare dal pastore che siede oggi sulla cattedra di Pietro. Egli è la
voce più autorevole che si leva in loro difesa. La voce di chi non ha voce. Non si è davvero “dimenticato dei poveri”! Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri. L’effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato nell’edilizia, è che impedisce il passaggio del freddo, del caldo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore. Lo dico a mia stessa confusione e vergogna. La parola: “i poveri!” “gli extracomunitari!” provoca, nei paesi ricchi, quello che provocava nei romani antichi il grido “i barbari!”: lo sconcerto, il panico. Essi si affannavano a costruire muraglie e a inviare eserciti alle frontiere per tenerli a bada, ma la storia dice che è tutto inutile. Noi piangiamo e protestiamo -e giustamente! – per i bambini a cui si impedisce di nascere, ma non do-
vremmo fare altrettanto per i milioni di bambini nati e fatti morire per fame, malattie, bambini costretti a fare la guerra e uccidersi tra loro per interessi a cui non siamo estranei noi dei paesi ricchi? Non sarà perché i primi appartengono al nostro continente e hanno il nostro stesso colore, mentre i secondi appartengono a un altro continente e hanno un diverso colore? Protestiamo – e più che giustamente! – per gli anziani, i malati, i malformati aiutati (a volte spinti) a morire con l’eutanasia; ma non dovremmo fare altrettanto per gli anziani che muoiono assiderati di freddo o abbandonati soli al loro destino? La legge liberista del “vivere e lasciar vivere” non dovrebbe mai trasformarsi nella legge del “vivere e lasciar morire”, come invece sta avvenendo nel mondo intero. Certo, la legge naturale è santa, ma è proprio per avere la forza di applicarla che abbiamo bisogno di ripartire dalla fede in Gesú Cristo. San Paolo ha scritto: “Ciò che era impossibile alla legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio” (Rom 8, 3). I primi cristiani, con i loro costumi, aiutarono lo stato a cambiare le proprie leggi; noi cristiani di oggi non possiamo fare il contrario e pensare che sia lo stato con le sue leggi a dover cambiare i costumi della gente. Amare, soccorrere, evangelizzare i poveri La prima cosa da fare, nei confronti dei poveri, è dunque rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza e l’insensibilità. Dobbiamo, come ci esorta appunto il papa, “accorgerci” dei poveri, lasciarci prendere da una sana inquietudine per la loro presenza in mezzo a noi, spesso a due passi da casa nostra. Quello che dobbiamo fare in concreto per essi, lo si può riassumere in tre parole: amarli, soccorrerli, evangelizzarli. Amare i poveri. L’amore per i poveri è uno dei tratti più comuni della santità cattolica. In san Francesco stesso, l’abbiamo visto nella prima meditazione, l’amore per i poveri, a partire da Cristo povero, viene prima dell’amore della povertà e fu esso che lo portò a sposare la povertà. Per alcuni santi, come san Vincenzo de’ Paoli, Madre Teresa di Calcutta e innumerevoli altri, l’amore per i poveri è stato addirittura la loro via alla santità, il loro carisma. Amare i poveri significa anzi58
tutto rispettarli e riconoscere la loro dignità. In essi, proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni secondarie, brilla di luce più viva la radicale dignità dell’essere umano. In una omelia di Natale tenuta a Milano, il cardinal Montini diceva: “La visione completa della vita umana sotto la luce di Cristo vede in un povero qualche cosa di più di un bisognoso; vi vede un fratello misteriosamente rivestito di una dignità, che obbliga a tributargli riverenza, ad accoglierlo con premura, a compatirlo oltre il merito”[8]. Ma i poveri non meritano soltanto la nostra commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione. Essi sono i veri campioni dell’umanità. Si distribuiscono ogni anno coppe, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare. E magari solo perché sono stati capaci di correre in una frazione di secondo meno degli altri i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli, o di saltare un centimetro più alto degli altri, o di vincere una maratona o una gara di slalom. Eppure se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, sono capaci a volte i poveri, e non una volta, ma per tutta la vita, le prestazioni dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli. Cos’è una maratona in confronto, per esempio, a quello che fa un uomo-risciò di Calcutta, il quale alla fine della vita ha fatto a piedi l’equivalente di diversi giri della terra, nel caldo più snervante, trainando uno o due passeggeri, per strade dissestate, tra buche e pozzanghere, sgusciando tra un auto e l’altra per non farsi travolgere? Francesco d’Assisi ci aiuta a scoprire un motivo ancora più forte per amare i poveri: il fatto che essi non sono semplicemente i nostri “simili” o il nostro “prossimo”: sono nostri fratelli! Fratelli sono coloro che hanno uno stesso padre e gli uomini sono fratelli perché hanno un unico padre nei cieli! Gesú aveva detto: “Uno solo è il vostro Padre celeste e voi siete tutti fratelli” (cf. Mt 23,8-9), ma questa parola era stata intesa finora come rivolta ai soli discepoli. Nella tradizione cristiana, fratello in senso stretto è solo colui che condivide la stessa fede e ha ricevuto lo stesso battesimo. Francesco riprende la parola di Cristo e le da una portata universale che è quella che certamente aveva in mente Gesù. Francesco ha messo davvero “tutto il mondo in stato di fraternità”[9]. Chiama fratelli non solo i suoi frati e i compagni di fede, ma anche i lebbrosi, i briganti, i saraceni, cioè credenti e non credenti, buoni e cattivi, soprattutto i poveri. Novità, questa, assoluta, estende il concetto di fratello e sorella anche alle creature inanimate: il sole, la luna, la terra, l’acqua e perfino la morte. Questa, evidentemente, è poesia, più che teologia. Il
santo sa bene che tra esse e le creature umane, fatte a immagine di Dio, c’è la stessa differenza che tra il figlio di un artista e le opere da lui create. Ma è che il senso di fraternità universale del Poverello non ha confini. Questo della fraternità è il contributo specifico che la fede cristiana può dare per rafforzare nel mondo la pace e la lotta alla povertà, come suggerisce il tema della prossima Giornata mondiale della pace “Fraternità, fondamento e via per la pace”. A pensarci bene, esso è l’unico fondamento vero e non velleitario. Che senso ha infatti parlare di fraternità e di solidarietà umana, se si parte da una certa visione scientifica del mondo che conosce, come uniche forze in azione nel mondo, “il caso e la necessità”? Se si parte, in altre parole, da una visione filosofica come quella di Nietzsche, secondo cui il mondo non è che volontà di potenza e ogni tentativo di opporsi a ciò è solo segno del risentimento dei deboli contro i forti”? Ha ragione chi dice che “se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento”[10]. Manca, in questo caso, una ragione sufficiente per opporsi al liberismo sfrenato e all’”inequità” denunciata con forza dal papa nell’esortazione Evangelii gaudium. Al dovere di amare e rispettare i poveri, segue quello di soccorrerli. Qui ci viene in aiuto san Giacomo. A che serve, egli dice, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro : “Poveretto, come soffri! Vai, riscàldati, sàziati!”, se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi? La compassione, come la fede, senza le opere è morta (cf. Gc 2, 15-17). Gesù nel giudizio non dirà: “Ero nudo e mi avete compatito”; ma “Ero nudo e mi avete vestito”. Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi. Un giorno vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di ribellione e gridò: “O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella creatura innocente?”. Ma una voce interiore gli rispose: “Certo che ho fatto qualche cosa. Ho fatto te!”. E capì immediatamente. Oggi però non basta più la semplice elemosina. Il problema della povertà è divenuto planetario. Quando i Padri della Chiesa parlavano dei poveri pensavano ai poveri della loro città, o al massimo a quelli della città vicina. Non conoscevano quasi altro, se non molto vagamente e, del resto, anche se l’avessero conosciuto, far pervenire gli aiuti sarebbe stato ancora più difficile, in una società come la loro. Oggi sappiamo che questo non basta, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo anche a questo livello individuale.
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L’esempio di tanti uomini e donne del nostro tempo ci mostra che ci sono tante cose che si possono fare per soccorrere, ognuno secondo i propri mezzi e possibilità, i poveri e promuoverne l’elevazione. Parlando del “grido dei poveri”, nella Evangelica testificatio, Paolo VI diceva in particolare a noi religiosi: “Esso induce certuni tra voi a raggiungere i poveri nella loro condizione, a condividere le loro ansie lancinanti. Invita, d’altra parte, non pochi vostri istituti a riconvertire in favore dei poveri certe loro opere”[11]. Eliminare o ridurre l’ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente e più ingente che il millennio da poco conclusosi ha consegnato al nuovo millennio in cui siamo entrati. Speriamo che non sia ancora il problema numero uno che il presente millennio lascia in eredità a quello successivo. Infine, evangelizzare i poveri. Questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha unto per evangelizzare i poveri” (Lc 4, 18) e che indicò come segno della presenza del Regno agli inviati del Battista: “Ai poveri è annunciata la lieta novella” (Mt 11, 15). Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l’enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari. Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che “ventre affamato non ha orecchi”. L’azione sociale deve accompagnare l’evangelizzazione, mai sostituirla. Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola, anzi prima amministrava, a volte per tre giorni di seguito, la Parola poi si preoccupava anche dei pani. Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta o polemica; il vangelo che parla di amore ai poveri, ma non di odio ai ricchi. Gioia nei cieli e gioia sulla terra Terminiamo su un altro tono. Per Francesco d’Assisi, Natale non era solo l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo; era anche la festa che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore, ed era immensa. A Natale egli faceva letteralmente pazzie. “Voleva che in questo giorno i poveri edi mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del
solito. Se potrò parlare all’imperatore – diceva – lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”[12]. Diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio. Durante la funzione natalizia a Greccio, racconta il biografo, quando pronunciava il nome ‘Betlemme’ si riempiva la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesú’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”. C’è un canto natalizio che esprime alla perfezione i sentimenti di San Francesco davanti al presepio e la cosa non stupisce se pensiamo che esso è stato scritto, parole e musica, da un santo come lui, sant’Alfonso Maria de Liguori. Ascoltandolo nel tempo natalizio, lasciamoci commuovere dal suo messaggio semplice ma essenziale: Tu scendi dalle stelle o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo… A te che sei del mondo il Creatore, mancano i panni e il fuoco, o mio Signore. Caro eletto pargoletto, quanta questa povertà più mi innamora, giacché ti fece amor povero ancora. ----------------------------------------------------------NOTE 1] Celano, Vita Prima, 84-86 (FF, 468-470) 2] Ib. 30, (FF 467). 3] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 788). 4] H. Thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst des Renaissance in Italien, Berlin 1885. 5] J. Guitton, cit. da R. Gil, Presencia de los pobres en el concilio, in “Proyección” 48, 1966, p.30. 6] S. Leone Magno, Discorso 2 sull’Ascensione, 2 (PL 54, 398). 7] In AAS 54, 1962, p. 682. 8] Cf. Il Gesú di Paolo VI, a cura di V. Levi, Milano 1985, p. 61. 9] P. Damien Vorreux, Saint François d’Assise, Documents, Parigi 1968, p. 36. [10] V. Mancuso, in La Repubblica, Venerdì 4 Ottobre 2013. [11] Paolo VI, Evangelica testificatio, 18 (Ench. Vatic., 4, p.651). [12] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 787-788).
PAPA FRANCESCO
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’è un’idea forte che mi ha colpito, pensando all’eredità di san Celestino V. Lui, come san Francesco di Assisi, ha avuto un senso fortissimo della misericordia di Dio, e del fatto che la misericordia di Dio rinnova il mondo. Pietro del Morrone, come Francesco d’Assisi, conoscevano bene la società del loro tempo, con le sue grandi povertà. Erano molto vicini alla gente, al popolo. Avevano la stessa compassione di Gesù verso tante persone affaticate e oppresse; ma non si limitavano a dispensare buoni consigli, o pietose consolazioni. Loro per primi hanno fatto una scelta di vita controcorrente, hanno scelto di affidarsi alla Provvidenza del Padre, non solo come ascesi personale, ma come testimonianza profetica di una Paternità e di una fraternità, che sono il messaggio del Vangelo di Gesù Cristo. E sempre mi colpisce che con questa loro compassione forte per la gente, questi santi hanno sentito il bisogno di dare al popolo la cosa più grande, la ricchezza più grande: la misericordia del Padre, il perdono. “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. In queste parole del Padre nostro c’è tutto un progetto di vita, basato sulla misericordia. La misericordia, l’indulgenza, la remissione dei debiti, non è solo qualcosa di devozionale,
Abbazia Santa Maria della Ferrara a Vairano Patenora (Ce) ospita un affresco rarissimo che ritrae l’immagine di Pietro del Morrone, il monaco passato alla storia come il Papa del gran rifiuito Celestino V
Come San Francesco anche Celestino V
di intimo, un palliativo spirituale, una sorta di olio che ci aiuta ad essere più soavi, più buoni, no. E’ la profezia di un mondo nuovo: misericordia è profezia di un mondo nuovo, in cui i beni della terra e del lavoro siano equamente distribuiti e nessuno sia privo del necessario, perché la solidarietà e la condivisione sono la conseguenza concreta della fraternità. Questi due Santi hanno dato l’esempio. Loro sapevano che, come chierici – uno era diacono, l’altro vescovo, vescovo di Roma –, come chierici, tutti e due dovevano dare l’esempio di povertà, di misericordia e di spogliamento totale di sé stessi. Ecco allora il senso di una nuova cittadinanza, che sentiamo fortemente qui, in questa piazza davanti alla Cattedrale, da dove ci parla la memoria di san Pietro del Morrone Celestino V. Ecco il senso attualissimo dell’Anno giubilare, di quest’anno giubilare Celestiniano, che da questo momento dichiaro aperto, e durante il quale sarà spalancata per tutti la porta della divina misericordia. Non è una fuga, non è un’evasione dalla realtà e dai suoi problemi, è la risposta che viene dal Vangelo: l’amore come forza di purificazione delle coscienze, forza di rinnovamento dei rapporti sociali, forza di progettazione per un’economia diversa, che pone al centro la persona, il lavoro, la famiglia, piuttosto che il denaro e il profitto. Visita pastorale Isernia sabato, 5 luglio 2014 61
Dalla “Conciliazione” ai “venti di guerra” Il contesto storico della proclamazione di Francesco d’Assisi patrono d’Italia da Roma
ANDREA RICCARDI STORICO E FONDATORE DELLA COMUNITÀ DI SANT’EGIDIO
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tto secoli fa, Goffredo di Strasburgo, contemporaneo di Francesco, lamentava: “Il gloriosissimo Cristo si piega come una stoffa di cui ci si veste. Egli si presta al capriccio di tutti. Sia alla sincerità sia alla frode. Egli è sempre ciò che si vuole che sia”. E’ in parte vero, perché il lungo viaggio della figura di Gesù nelle culture e anche nelle religioni. Qualcosa di simile, in termini più ristretti, vale per l’“alter Christus” per eccellenza: Francesco d’Assisi. La figura di Francesco si ripropone come una presenza che non può essere evitata sull’orizzonte del mondo contemporaneo e con cui bisogna confrontarsi. Ha scritto Franco Cardini, commemorando il patrono d’Italia e l’Unità della nazione: “va da sé che tra Francesco e quella Italia (quella del Risorgimento) non avrebbe mai potuto instaurarsi alcun rapporto che non fosse conflittuale. Ma Francesco restava una presenza inaggirabile”. Resta una presenza inaggirabile anche per la cultura laica, soprattutto quando viene presentato in modo nuovo, come avvenne con i noti studi di Paul Sabatier, che mostravano un testimone evangelico radicale e contestatario, oltre che un umanista di genio. Si strappava così Francesco al monopolio dell’“immagine irenica e mistica”,
veicolata dalla tradizione francescana. Francesco, nonostante le approssimazioni e forzature di Sabatier, usciva dalla storiografia ecclesiastica, divenendo un personaggio con cui tutti potevano o dovevano fare i conti, come nota André Vauchez. Soprattutto in Italia. Questo avviene in un’Italia che cambia, come nel primo dopoguerra, alla ricerca di un nuovo equilibrio e di nuovi simboli e identità per le masse entrate nel mondo delle passioni politiche attraverso il conflitto. In Francesco trova il riferimento la complessa figura di Edoardo Gemelli (in religione Agostino), capitano medico nella grande guerra che, nel 1918, si ritira tre mesi ad Assisi e si scopre francescano. Francesco, oltre che nella letteratura, trova un luogo che parla di lui, con la ricostruzione ideale e materiale di Assisi, come città santuario, soggetto ineliminabile d’interlocuzione per il francescanesimo. È la vicenda della restauratio urbis del podestà Arnaldo Fortini negli anni Venti, attraverso l’architettura, l’urbanistica, la politica, la letteratura. Attraverso un mix di modernità e neo-medievalizzazione, il podestà connette la città reale alla città ideale, che si proietta nel paese e fuori di esso. Del resto - per usare l’espressione di Bruno Toscano- c’è un processo di francescanizzazione delle cittadine umbro-toscane. Con Fortini avviene la proiezione geniale della città santuario nell’Italia nazionale e provinciale, proprio in un’epoca in cui tanti spazi sacri entrano in crisi o si ri62
ducono al solo perimetro sacro. C’è un rinnovato rapporto non solo con l’Italia unita, ma con le regioni, in assenza di regionalismo politico, rinnovata con il voto annuale del 1939 offerto da una regione (il libro del VII centenario ha una struttura regionale). Il regionalismo francescano esprime la realtà delle province francescane e delle conferenze regionali dei vescovi italiani, volute da Leone XIII. È rilevante in un’Italia in cui il sentire locale è forte. Queste operazioni sono impossibili senza interloquire con la politica o la Chiesa: gli interlocutori di sempre di Fortini sono ecclesiastici: la Santa Sede e il vescovo, e politici: il regime, da Mussolini al fascismo cattolicheggiante, o i Savoia. Assisi si propone non solo come contenitore dei santuari e della tomba, ma come luogo francescano per eccellenza, soggetto - l’ho detto - nell’interlocuzione nazionale e internazionale. Culmine di questo processo di consacrazione urbana e nazionale è la celebrazione del VII centenario della morte di San Francesco nel 1926. Ne ha scritto Francesco Torchiani. Si consacra anche un lessico nazionale comune tra il regime e la Chiesa in questi momenti. Un lessico di questo tipo - non il meno importante - gravita attorno all’idea di Roma. Ne ho scritto molti anni fa, mostrando come sia un terreno di accostamenti e di conflitti, proprio per affermare un primato sulla romanità. Anche Francesco e Assisi sono terreno di accostamenti, ma con una grande differenza dal tema di Roma. Su quest’ultimo, c’è conflitto tra romanità imperiale e cattolica, mentre su Assisi non può esserci conflitto sul primato cristiano nell’eredità francescana. Esso può fondare il carattere cattolico della nazione. Si è giustamente parlato di clima preconcordatario. Il fascismo punta sulle celebrazioni del 1926 per accreditarsi anche a livello internazionale attraverso gli italiani all’estero e la capillare presenza delle famiglie francescane. L’intento di Mussolini è trasformare l’evento in una manifestazione imponente d’italianità fascista. Nel luglio 1925 il consiglio dei ministri, su proposta di Mussolini, dichiara il 4 ottobre 1926, festa nazionale (sono atti di ossequio del regime, graditi dalla Chiesa, come l’abolizione della festa nazionale del 20 settembre). Due testi del duce sono chiari sulla figura del santo, un messaggio agli italiani all’estero nel 1925, e il messaggio per il centenario francescano. Si creano una cultura e un lessico dell’incontro. E’ del resto la linea culturale neoguelfa che aveva proposto figure di santi nazionali. Mussolini scrive: “...l’Italia, con San Francesco, ha dato anche il più santo dei santi al cristianesimo ed all’umanità. Perché, insieme con l’altezza dell’ingegno e del carattere, sono della nostra gente la
semplicità dello spirito, l’ardore di conquiste ideali, e, ove occorra, la virtù della rinunzia e del sacrificio”. Francesco è rappresentato come espressione del genio latino e del carattere nazionale. Il santo giustifica le mire imperiali del regime. Continua infatti Mussolini, echeggiando D’Annunzio: “Il fervore degli apostoli rivive, improvviso e travolgente, nella sua anima di italiano, schiva di riposi e insoddisfatta dei confini della sua terra, troppo brevi alla sua ansia di prodigarsi. La Nave, che porta in oriente il banditore dell’immortale dottrina, accoglie sulla prora infallibile il destino della stirpe, che ritorna sulle strade dei padri.” Il discorso richiama le gesta dei “i seguaci del santo”, che “mossero verso Levante, (e) furono insieme missionari di Cristo e missionari di italianità”, per cui “ovunque oggi, per tutte le terre di ogni continente” vi sia opera francescana “ivi è un’orma della patria nostra”. Il messaggio richiama gli italiani all’estero a vivere l’evento come “celebrazione dell’Italia, donde sorse al mondo una così meravigliosa aurora”. Pochi anni dopo, l’orientalista Louis Massignon, che aveva fatto un’intensa esperienza di memorie francescane in Egitto e scoperto un documento sull’incontro tra il santo e il sultano Malik al Kamil, proponeva una lettura del rapporto tra Francesco, l’Oriente e l’islam in chiave tutt’altro che imperialista, bensì fondata sul dialogo e l’accostamento amicale. In quegli anni il legame tra espansionismo coloniale italiano e francescanesimo è presidiato da un’importante figura dell’Ordine, padre Vittorino Facchinetti, propagandista di temi francescani alla radio e radiopredicatore di successo, amico della famiglia Mussolini e di Cesare Balbo . Facchinetti conclude il suo saggio su Francesco è l’Italia, nel volume per il centenario del 1926, con la richiesta pressante che il santo sia proclamato patrono d’Italia. In Libia, quella che Vittorio Ianari ha chiamato la francescanità, un misto di senso cattolico e italiano, sembra realizzare l’auspicio di Mussolini . La nomina di Facchinetti a vescovo di Tripoli nel 1935 conferma questa posizione. Ma la Libia è forse un’eccezione, anche se bisognerebbe studiare a fondo la fascistizzazione dei francescani italiani. Lorenzo Meccoli scrive nel 1926: “Concetto fondamentale contenuto in quest’epopea [francescana] è la missione spirituale dell’Italia nel mondo. Le navi d’Italia si muovano verso la conquista, come le navi dei crociati portavano il beato Francesco nell’Oriente… operando la conquista morale. Per essa, in maniera duratura e verace, s’ingrandisce la Patria nel mondo”. Anni dopo, quando l’esercito italiano conquistava l’Etiopia, Fortini alla radio incitava i soldati a inol-
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trarsi “per le strade segnate dalle orme sanguinose dei missionari francescani”. Né si deve dimenticare il film fascista del 1939, Abuna Messias, sul cappuccino Gugliemo Massaja, missionario in Etiopia. Veniva facile a Mussolini utilizzare i temi francescani. Infatti da giovane socialista, animato da un viscerale anticlericalismo, guardava però con ammirazione a San Francesco, considerato di volta in volta anticipatore del naturalismo rinascimentale e di una religiosità panica immanente, o rivoluzionario contro il fariseismo ecclesiastico, o spirito eroico, alla stessa stregua di cavalieri e guerrieri. Del resto Francesco d’Assisi è progressivamente accolto nel pantheon fascista: una voce del Dizionario di politica del PNF del 1939-1940 gli è dedicata. Il lessico francescano del fascismo registra gli ondeggiamenti tipici di Mussolini che, talvolta, fanno presagire una cattolicizzazione del regime (scelta che non sarebbe spiaciuta a Fortini o al ministro Pietro Fedele, un attore delle vicende assisiate), mentre altre volte ne affermano l’alterità. Il fatidico centenario della riconciliazione Interlocutore decisivo per la politica “francescana” del fascismo è, come ho detto, il podestà Fortini, che nel 1926 scrive una Nova vita di San Francesco d’Assisi. Il testo rappresenta realmente una Nova visione, tesa a smontare le interpretazioni democratiche e pacifiste della prima esperienza francescana. Sulla sua scia altri intellettuali lavorano per creare un’icona francescana compatibile con il fascismo. Piero Misciattelli, clericofascista, parla di Francesco “santo essenzialmente antidemocratico”, mentre Dario Lischi, porrà l’accento soprattutto sull’obbedienza come valore centrale del francescanesimo: “Nessuno ebbe più forte di lui il sentimento della disciplina verso le superiori gerarchie, né mai pensò che l’autorità dovesse ricercarsi nel popolo, piuttosto che in Dio... Al culto della Povertà, della Castità, egli congiunge quello dell’Obbedienza”. Pietro Misciattelli, aristocratico letterato umbro, insiste: “Non vi è possibilità di comprendere e di onorare il patriarca Francesco, fuori del quadro del cattolicesimo tradizionale, rigidamente ortodosso, senza sfigurarlo” . Francesco diventa espressione della cultura dell’autorità, che il regime coltiva e alla cui luce interpreta anche il cattolicesimo: Mussolini “ripete –annota Ciano- la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo: per questo io sono cattolico e anticristiano” –conclude. Il cattolicesimo, espressione della tradizione europea pagana e romana, dovrebbe smarcarsi dal cristianesimo, tanto condizionato dall’ebraismo. Autorità, tradizione e combattività: per Fortini il messaggio di
Francesco “fu mai dottrina per pusillanimi e per poltroni”, ma eroismo. Misciattelli sosteneva che “si può a tutto rigore concepire San Francesco senza povertà, non si può concepire senza eroismo”. Secondo Salvatore Attal, ebreo, filosofo, cultore del grande pensatore ebraico livornese Benamozegh, fascista sansepolcrista e convertito al cattolicesimo, “la vita del «Poverello» non è una pastorale né un idillio: ma è propriamente un’impresa cavalleresca, un torneo guerresco; più esattamente una crociata... Si smetta dunque, a proposito di San Francesco, di abusare delle parole: mitezza, umiltà, rassegnazione, quiescenza. Di fatto, San Francesco fu un violento e un ribelle”. Francesco diventa l’archetipo dell’italiano: secondo la nota espressione, “il più italiano dei santi, e il più santo degli italiani” (espressione resa popolare da D’Annunzio e da Mussolini, originata da Cantù o Tommaseo). È “genio della stirpe italica”, “Santo nazionale”, che “dell’anima italiana, espresse mirabilmente il più alto splendore: la santità”. Misciattelli scrive: “Santo eminentemente italiano, il Poverello c’invita ad essere italianamente cattolici di fede e di pensiero”. Lo stesso invita i frati a lavorare per “distruggere tutte le cristallizzazioni estetico-moderniste
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eminenti: cavaliere e poeta, apostolo ed artista, soldato e navigatore, Francesco riassume le più alte e le più belle capacità della razza”. Tuttavia, come manifesta in un intervento alla Camera nel 1929, ha una comprensione profonda di Francesco “che abbatte le mura ciclopiche e dal convento, a piedi nudi e a cuore aperto, annuncia l’amore e la pace al Comune...” . Non rinuncia, però, a sottolineare come la differenza tra Valdo e Francesco sia Roma: “L’attrazione di Roma è potente nel suo cuore...” - scrive. Infatti il revival francescano (e qui la grande differenza con Sabatier e Buonaiuti) sta proprio nel fatto che il sentire cattolico-fascista su Francesco, esalta Assisi con Roma. Proprio a Roma, ogni anno, Martire tiene il discorso commemorativo presso il monumento al santo eretto nel 1926 a piazza San Giovanni in Laterano, una delle molte statue realizzate negli anni Venti per questa figura . In quell’anno, Tommaso Gallarati Scotti, giovane amico di Pio XI, compone una biografia del santo di tutt’altro tenore, volendo spiegare la sua capacità attrattiva su gente di fede e cultura diversa: “quest’autentico discepolo italiano di Gesù” fu pervaso “da uno spirito di libertà e di originalità poetica, che egli stesso chiamò ‘follia', e dal desiderio di camminare nel mondo, fuori dalle piccole leggi della moderazione...”. Francesco è più un folle di Cristo che un coerente esempio della cultura della nazione. Anche Luigi Salvatorelli ne ricostruisce la vita nel 1926 con grande attenzione al contesto storico. Ernesto Buonaiuti, invece, concludeva il suo profilo del santo, pubblicato dall’editore ebreo Formiggini nel 1925, notando: “I grandi maestri della fraternità umana vivono immortali proprio in virtù del lento macerante martirio a cui debbono essere sottoposte le loro aspirazioni... per fiorire e fruttificare sul solco arido, ingrato e tardo della vita associata”. Ben altra visione del Francesco italico degli anni Venti. Nel 1926 si celebra ad Assisi, per il 4 ottobre, un rito cattolico-nazionale, che vede officiare il card. Merry del Val, legato pontificio, sensibile al fascismo, grande nemico del modernismo e di ogni pensiero che potesse apparire tale, circondato da onori sovrani da parte dello Stato. Sono iniziati da poco i contatti tra Francesco Pacelli per la Santa Sede e Domenico Barone per Mussolini: in tre anni si arriverà alla Conciliazione. È presente il ministro Fedele, storico medievista, tessitore di accordi culturali tra Chiesa e fascismo all’insegna di Roma. Questi incontra il cardinale (primo incontro ufficiale a questo livello dal 1870). Nel 1926, Vittorio Emanuele III entra per la prima volta dall’Unità nella basilica pontificia di San Francesco. La monarchia, pur riservata nei confronti della Chiesa (si ricordi le per-
formatesi in questi ultimi tempi intorno all’immagine storica del Santo”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Agostino Gemelli, per cui “San Francesco in tutti gli aspetti della sua poliedrica fisionomia rappresenta il popolo italiano; e in ogni momento della vita di lui, il popolo italiano può ritrovare se stesso”. Lorenzo Meccoli colloca l’eroismo italiano di Francesco nel momento storico della patria: “Nel momento in cui la Nazione italiana può dirsi maturata… San Francesco è la prima compiuta espressione del suo genio, che opera con le virtù peculiari della razza. E non perciò è meno universale”. Egilberto Martire è un personaggio rilevante e colto nel tessuto del dialogo cattolico-fascista, in cui -secondo l’acuto profilo di Domenico Sorrentino- la romanità cattolica si sposa al nazionalismo, per approdare al fascismo cattolico. “La Rassegna Romana", la sua rivista ideologica, impatta alla fine criticamente con la politica razzista e così finisce la carriera politica del suo direttore. La sua fine politica rivela come l’obbiettivo di trasformare il fascismo in regime cattolico sia stata un’illusione (non solo di Martire). Nel quadro nazional-cattolico, Francesco è “l’uomo santo che queste virtù e queste speranze sublima nell’eroismo”, ma soprattutto “i caratteri della stirpe… si manifestano in lui
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plessità del re sui Patti del Laterano), gioca la carta di Assisi, facendo della città e della memoria francescana un suo riferimento, come si vede dalla presenza della regina e di principi di Casa Savoia a varie celebrazioni francescane. Francesco è un santo più accessibile di altre austere figure cattoliche. In occasione del centenario del 1926, la propaganda fascista giunge all’estremo, accostando Mussolini al santo di Assisi, allineando la figura del dittatore ai grandi personaggi della storia d’Italia. In questo contesto un posto particolare lo occupa il frate Paolo Ardali, con il volumetto San Francesco e Mussolini. Aveva in precedenza avvicinato Pio XI al dittatore fascista e la politica agraria del regime all’attività benedettina nel Medioevo. Ardali scrive di Mussolini: “La sua vita di grandi rinunce, di sofferenze, di sacrifici, interiori ed esteriori, la volontà superatrice, l’alta visione di un fine superiore da conseguire tenacemente a costo di tutto, anche della vita, l’amore degli umili, l’anima cavalleresca, l’ardore della lotta, l’operosità instancabile, l’attività e virtù trasformatrice e dominatrice del tempo suo, l’armonizzarsi, infine, di tutte le sue qualità in un’intima atmosfera superiore, calma, serena e luminosa, lo accostano più di quanto non si creda al Santo di Assisi... Ho sotto gli occhi una fotografia di Mussolini in tenuta di marcia: il suo volto patito, sofferente, ma sereno, ma forte, mi richiama alla memoria una pittura di Francesco d’Assisi di scuola Senese del secolo XIII: identica vivezza nello sguardo, identica nobiltà di atteggiamenti, manca solo l’aureola”. I papi e il vero Francesco Si tratta di eccessi, ma indubbiamente il nazionalismo rappresenta una realtà pervasiva nel mondo cattolico. Negli anni Venti, Pio XI è attento alla possibilità di concludere la Conciliazione e trasformare il fascismo in regime cattolico. Ma non cede sulla sostanza anche riguardo alla figura di Francesco. Pure a Roma, sull’idea della città e nella realtà urbanistica, cerca un accordo, ma sa che esiste una concreta competizione. Nell’enciclica Rite espiati, nel VII centenario della morte del santo, scrive: “Gli uni si guardino per lo smoderato amore verso la propria nazione, di vantarlo quasi segno e vessillo di quest’acceso amore nazionale, rimpicciolendo il ‘campione cattolico'; gli altri si guardino dal gabellarlo per un precursore e patrono di errori, dal che egli era lontano, quant’altri mai”. Francesco è il santo cattolico della pacificazione e della riforma: non l’eroe nazionalista né quello liberal-protestante . Il papa di Roma considera Francesco una figura che fa da sfondo all’esercizio del suo ministero universale, che
gli entusiasmi italiani possono rimodellare e talvolta sfigurare, ma che rappresenta una parte rilevante e irrinunciabile del patrimonio ideale della Chiesa romana. In questo senso interverranno Pio XII con la proclamazione del patrono d’Italia, Giovanni XXIII con il viaggio ad Assisi e Giovanni Paolo II (che da giovane era stato nella città e aveva letto la biografia di Jörgensen), che fa di Assisi l’altra Roma, il luogo ecumenico e irenico in cui vivere il dialogo e parlare di pace al mondo, seppure nella consapevolezza del ruolo italiano del santo (si reca infatti ad Assisi all’inizio del pontificato). Francesco è una figura inevitabile per gli italiani che considerino il nostro paese. Negli anni Trenta, attira pure l’attenzione di Antonio Gramsci, che nota, nei Quaderni del carcere, come il francescanesimo non divenne tutta la Chiesa come voleva, ma solo un ordine e i terziari espressero una tendenza democratico-popolare (predecessori dell’Azione Cattolica: del resto Benedetto XV aveva proclamato il santo patrono dell’associazione nel 1916). Francesco, di fronte alle masse oppresse, avrebbe rappresentato -secondo il pensatore comunista- la scelta di non lottare, ma di limitarsi alla testimonianza. Esempi e citazioni si potrebbero moltiplicare in proposito. La proclamazione di San Francesco patrono d’Italia insieme a Santa Caterina da Siena il 18 giugno 1939 potrebbe essere interpretata come il punto estremo del processo di nazionalizzazione fascista del santo. In realtà non è così. Il voto del vescovo Nicolini, 66
proposto agli ordinari d’Italia, è del 1937, dopo la guerra d’Etiopia e contiene qualche riferimento al fascismo (ma in una linea piuttosto equilibrata). Viene inviato a Pio XI nel 1938, quando, di fronte alle leggi razziste, il mondo cattolico si va disaffezionando dal regime (che assume sempre più un volto non cattolico). Pio XII proclama Francesco patrono, lui che aveva tentato di evitare lo scoppio del conflitto e dopo il settembre 1939 il suo allargamento. Scrive nel Breve pontificio che i patroni vissero “in tempi straordinariamente difficili", mentre tratteggia la figura del santo come “poverello e umile, vera immagine di Gesù Cristo”. La consacrazione dell’Italia al santo pacificatore rispondeva poneva il paese sotto la sua protezione, come si evince dal discorso del p. Francesco Pellegrino alla Radio Vaticana il 5 ottobre 1939 in occasione della prima festa di San Francesco in veste di patrono del paese, quando la guerra era già scoppiata da un mese: “L’umanità sente oggi un imperioso bisogno di aspirazioni soprannaturali, di parole miti, di gesti fraterni, d’ideali che siano diversi da quelli monchi, illusori, beffardi che vorrebbero imporre un paganesimo redivivo e forse più spietato dell’antico”. Paradossalmente il patrono d’Italia Francesco cominciò a dimettere le immagini che la retorica fascista gli aveva incollato addosso, acquistando una chiara valenza religiosa di pace e concordia tra i popoli. Girolamo Dal Gal, in una biografia del santo pubblicata nel 1940, ricordando la proclamazione di
Francesco a patrono d’Italia, scriveva: “E quei canti erano canti di gioia ed inni trionfali al serafico Poverello di Dio… Ma i canti erano confusi a grida di guerra che venivano sulle ali di venti tempestosi”, e terminava: “Ritorni, ritorni, un’altra volta in mezzo a noi Francesco d’Assisi con la sua letizia, con il suo amore, con la sua pace e con il suo perdono”. Paradossalmente, la proclamazione di San Francesco d’Italia si colloca nella lunga transizione del popolo attraverso la guerra e il disorientamento del conflitto civile, ponendo il santo come uno dei riferimenti di pace di un popolo che vede lo Stato dissolversi e che trova in Pio XII il defensor civitatis. Ma, dopo la guerra, San Francesco continua il viaggio con gli italiani, tra devozione ed eccesso. È il santo patrono del partito degli italiani, la Democrazia Cristiana. Diventa più tardi figura di rilievo del movimento pacifista ed ecologista. E’ una storia in cui non è possibile ora entrare. Ma, ancora recentemente, Beppe Grillo ne ha fatto un riferimento del suo movimento: “Il M5S è nato, per scelta, il giorno di San Francesco, il 4 ottobre del 2009. Era il santo adatto per un MoVimento senza contributi pubblici, senza sedi, senza tesorieri, senza dirigenti”. San Francesco si impolvera della storia italiana e di quella del mondo, che talvolta quasi lo nascondono o stravolgono, come diceva il vecchio Oddone di Strasburgo. Ma, figura libera ed evangelica, risorge sempre con la sua identità e il suo messaggio.
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Lo sguardo francescano da Roma
igura inaugurale, Francesco guarda le cose in modo sorgivo, come se fossero al primo mattino. E’ qui, in questo sguardo, fresco e ammirativo, la ‘letizia del cuore’. Ne I Fioretti (cap. XIII) si legge che “Un giorno Francesco, dopo aver raccolto con frate Masseo l’elemosina, si fermò per mangiare con lui in un luogo dov’era una bella fonte e allato una bella pietra larga. Disposti sulla pietra i pezzi di pane, Francesco disse: ‘Oh frate Masseo, noi non siamo degni di così grande tesoro’. E ripetendo
vono tutte in equivalenti monetari. La potenza del denaro viene crescendo al punto che tutto è destinato a prostrarsi ai suoi piedi. Come tutto è vendibile, tutto è comprabile. Prima che nello sfruttamento dell’altro, l’alienazione è da riporre nello sguardo, non più ammirativo o fruitivo, ma possessivo. Che le cose stiano perdendo il loro significato originario Francesco l’intuisce – ecco la profondità del suo sguardo – e avanza il potente rimedio della ‘letizia’, non legata all’avere o al non avere, ma a un diverso modo di ‘guardare’ le cose, e cioè come beni da fruire, non come merci da scambiare o da consumare. La forza di denuncia della nascente mentalità mercantile da parte del ‘Cantico delle creature’ è davvero grande e conferma la profondità
più volte queste parole, intervenne frate Masseo: Padre, come si può chiamare tesoro dov’è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano? Qui non è tovaglia, né coltello, né taglieri, né scodelle, né casa, né mensa, né fante, né fancella”. Disse Santo Francesco: ‘E questo è quello che io reputo grande tesoro, dove non è cosa veruna apparecchiata da l’industria umna; ma ciò che è è apparecchiato dalla Provvidenza divina, siccome si vede manifestamente nel pane accettato, nella mensa della pietra così bella, e nella fonte così chiara”. La bellezza della pietra e la trasparenza della fonte presuppongono la dismissione dello sguardo mercantile. L’età di Francesco è l’età della prima affermazione della borghesia e del fascino della figura avventurosa del mercante, con l’incombente affermazione delle cose come merce di scambio, e cioè come cose da non considerare come beni in sé e cioè come sono e per ciò che sono, ma in quanto permutabili. È il valore di scambio che comincia a imporsi, a discapito delle cose nella loro concretezza effettiva. Le cose hanno un valore o meglio un prezzo, perché si risol-
dello sguardo di Francesco. “Eravamo idioti e sottomessi a tutti”, ricorda il Poverello d’Assisi nel suo Testamento. Non è la denuncia di una mancanza da colmare. E’ piuttosto l’enunciazione di un programma, da attuare. Francesco intuisce ciò che Bacone, inaugurando l’età moderna, affermerà senza reticenza: “Il sapere è potere”. Il sapere può trasformare quella pietra nella pietra, quell’acqua nell’acqua, invitandoci a trattare tutte le cose allo stesso modo. Perdendo il riferimento immediato e concreto, resta la serialità della cosa, la sua ripetibilità. Si ha l’identificazione della cosa con la sua funzione – non la cosa come questa o quella, ma la prestazione cui la cosa è deputata. Dunque, il sapere è controllo, il controllo è dominio, il dominio è disattenzione per la singolarità della cosa. La logica dell’avere, cui tutto confluisce, prescindendo dai tratti specifici della cosa, appartiene tanto all’economia quanto alla scienza. Le cose sono non quando e in quanto sono, ma quando e in quanto sono mie, in termini di proprietà o di conoscenza. Se non sono mie, le cose neppure sono. Lo sguardo possessivo è decisivo: vede solo le cose
ORLANDO TODISCO FILOSOFO
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Le foto sono di Roselyne Fortin de Ferraudy
che ha o decide di conquistare. Francesco guarda le cose in altro modo, non per possederle, né alla luce della funzione che svolgono, ma per ciò che sono – questa pietra è questa e non un’altra, di cui ammira le fattezze, senza correre alla sua funzione e al suo valore nel senso del mercato. Ciò che si dice delle cose si dica dell’altro. Non inontriamo più uomini, ma rappresentanti di professioni. Per Francesco ogni uomo è un altro da me, non colui che non soddisfa pienamente le mie attese. Non è la funzione o la professione l’identità dell’altro, essendo questa per lo più la maschera – persona in senso latino – che ne copre il volto e ne orienta le espressioni. Tornando a casa, smettiamo per poco la maschera per riprenderla per la recitazione dell’indomani. La funzione ci assorbe al punto da identificarci con il suo orizzonte, trascurando come irrilevanti lo spazio che occupiamo, l’essere che siamo, l’identità che rende irrepetibile non l’io, ma il nostro io. Allo sguardo che si configura a partire dall’approdo – riconoscimento sociale, appartenenza politica – o che valuta l’altro in base alla funzione professionale, Francesco oppone
lo sguardo del mattino, quando non abbiamo ancora indossato la maschera del giorno. L’altro e, prima, le cose, li sorprende al loro sorgere, all’aurora, prima che si metta in atto quella strategia economica o quella logica conoscitiva, con cui imprimiamo sulle cose il sigillo del dominio, sottraendoli all’’aperto’. Quale la forza rivoluzionaria di questo sguardo? Alla scienza, che traduce le cose annullandone nel concetto lo spessore concreto del loro essere effettivo; all’economia che porta a guardare tutto in quanto valore di scambio, Francesco oppone la sapienza, che si afferma in misura che siamo disposti ad ‘assaporare’ le cose nella loro naturalità, fruita e ammirata, non posseduta o dominata. Francesco ridona gli occhi all’amore, facendone la luce dell’intelligenza. La sapienza francescana è, infatti, l’intelligenza dell’amore. Egli può allora iniziare le Lodi delle virtù esclamando: “O regina sapienza, il Signore ti salvi con tua sorella, la pura e santa semplicità” . Lo sguardo dei semplici è la via sapiente, lungo la quale il francescano accede ai segreti delle creature
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Francesco Zirano nuovo beato della Chiesa da Sassari
PAOLO FIASCONARO DIRETTORE DE IL MISSIONARIO FRANCESCANO
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a Provincia religiosa della Sardegna dei Francescani Conventuali e l’Arcidiocesi di Sassari hanno vissuto , domenica 12 ottobre, una storica giornata: la beatificazione del confratello frate minore conventuale Padre Francesco Zirano, ucciso in odium fidei nella città di Algeri il 25 gennaio 1603, all’età di 39 anni. Un evento di grazia e di gratitudine al Signore e a Papa Francesco per questo nuovo beato che risplende nel firmamento dei santi francescani.. Il solenne rito di beatificazione si è svolto a Sassari in Piazza Segni ed è stata presieduta dal card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, con i Vescovi della Sardegna, l’arcivescovo di Algeri, il Ministro Generale OFMConv Marco Tasca, il postulatore generale dell’Ordine Angelo Paleri, 200 sacerdoti concelebranti e 10 mila fedeli provenienti da tutta la Sardegna. “Ho visto la gioia del popolo, dei fedeli – ha detto in un’intervista il card. Amato - per questo figlio e loro fratello che è andato a testimoniare il Vangelo in terra
straniera per liberare gli schiavi e quindi con un vero gesto eroico che nonostante i 4 secoli che sono passati dal martirio, P. Zirano continua ancora oggi a destare meraviglia, entusiasmo e a rafforzare la fede dei fedeli che vedono in questo gesto la massima espansione della carità cristiana”. In una lettera inviata ai frati dell’Ordine, il Ministro Generale Padre Tasca ha scritto: “Il mondo cattolico imparerà presto a conoscere e ad amare Francesco Zirano, frate minore conventuale di Sassari, che all’età di 39 anni ‘lavò le sue vesti nel sangue dell’Agnello’. Si tratta del primo martire sardo dell’epoca moderna in un tempo come il nostro nel quale il martirio torna drammaticamente d’attualità e molti cristiani si trovano
La sua coraggiosa fedelà a Cristo nell’attuale contesto di persecuzioni spietate contro i cristiani
a pagare col massimo dei sacrifici la loro appartenenza al Cristo… Il martirio del nostro confratello incarna la carità al massimo grado e ci parla di un umanesimo nuovo Cari fratelli e sorelle, questa mattina, a Sassari, è stato proproprio come quello testimoniato da San clamato Beato padre Francesco Zirano, dell’Ordine dei Massimiliano Kolbe… Dobbiamo avvertire Frati Minori Conventuali: egli preferì essere ucciso piuttosto una gratitudine profonda verso il dono che rinnegare la fede. Rendiamo grazie a Dio per questo che Dio ha fatto a P. Francesco Zirano: un sacerdote e martire, eroico testimone del Vangelo. La sua dono impegnativo che lo ha reso discepolo coraggiosa fedeltà a Cristo è un atto di grande elodella Croce di Cristo fino in fondo, fino all’effusione del sangue”. quenza, specialmente nell’attuale contesto di spieTre, sono le caratteristiche peculiari di questa tate persecuzioni contro i cristiani. esemplare figura: il frate, il missionario e il martire. DOPO ANGELUS Il frate, figlio di san Francesco,, pieno di amore verso domenica 12 ottobre 2014 i fratelli, spinto dallo zelo apostolico e francescano, si formò alla sequela del Poverello con una disponibilità interiore e fede incrollabile nell’incarnare il carisma francescano “senza se e senza ma”. Il missionario, perché partì alla volta di Algeri per convertire e portare il Vangelo dell’amore in quella terra così difficile e schiava di un islamismo a volte radicale. Il martire, perché con la sua forte fede ha difeso il Cristo fino ad essere scorticato vivo pur di non rinnegare la fede cristiana. Un grande esempio di altruismo, di donazione e di amore per il prossimo, tanto da pagare di persona con quel gesto che ancora oggi dopo 4 secoli interpella la Chiesa e il mondo secolarizzato.
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SPECIALE BEATO BONAVENTURA
Ravello e Potenza sempre insieme Giornata di studio
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a tre giorni di Ravello: 27-28-29 giugno in onore del Beato Bonaventura ha fatto memoria della sua presenza e del suo messaggio evangelico. Prima la Giornata di studio con la presentazione degli Atti dell’incontro degli studiosi italiani ed esteri venuti a Ravello - il 17 dicembre 2011 - per fare memoria del III° centenario della morte (1711-2011) e per rileggerei 60 anni di storia, di teologia e di spiritualità che hanno segnato la vita del Beato (1651- 1711); poi, sabato pomeriggio, la processione con la statua del “Santo della nostra terra” per le strade e per le piazze della ridente cittadina ravellese. Nel 1780, cinque anni dopo la solenne beatificazione, i frati del Convento chiedevano a Papa Pio VI, di trasferire la festa estera nel mese di giungo, perché in ottobre, la pioggia, il freddo, il gelo, il
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Ravello come Gerusalemme. In preghiera per la pace IMAN SABBAH GIORNALISTA INVIATA RAI-NEWS24
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crivere del beato Bonaventura non è molto facile ma pensare a Ravello, alla sua bellezza, come luogo scelto dal beato per trascorrere gli ultimi anni della sua vita facilita il mio compito. Ravello come Gerusalemme, la città santa scelta da Gesù per gli ultimi giorni della sua vita, quelli che hanno segnato la storia del cristianesimo, dalla passione alla resurrezione. Bonaventura come Gesù. Ravello come Gerusalemme, crocevia di tante culture e meta di molti turisti e pellegrini. Purtroppo, però, la Città Santa vive ancora una volta momenti drammatici. Due popoli, quello ebraico e quello arabo, non trovano pace. Una guerra che sembra essere infinita. Gesù predicò a lungo in quelle strade, predicò l’amore, la pace, la semplicità poi si consegnò a Dio. Lo stesso fece il beato Bonaventura. Il processo di rinnovamento e di conversione iniziò nella vita del beato consegnandosi nelle mani di Dio. Quanti di noi oggi, popoli costretti a vivere nella guerra, potremmo essere salvati se i governanti, coloro che hanno in mano il potere di decidere, si consegnino nelle mani di Dio. La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace. Lo ribadisce ormai da giorni Papa Francesco ma nessuno al momento sembra ascoltare. Non solo la Terra Santa piange in questo momento i tanti bambini, le tante donne e tutti gli uomini innocenti morti sotto le bombe. Nel vicino Iraq i cristiani, che sembrano essere dimenticati dal resto del mondo, sono pronti a diventare i nuovi martiri del 21esimo. Nessuno scampo. Gesù’ o la morte. Poi la Libia, le tragedie del mare. Ma a due passi dall’Italia e nel
cuore dell’Europa incombe una nuova guerra tra la Russia e l’Ucraina. Tutti conflitti che ricordano il seicento. Periodo di vita del beato Bonaventura. Un seicento tormentato. Il Portogallo che si sollevò’ contro la Spagna. La guerra anglo- olandese. Poi le rivolte in Russia e ancora l’espansione militare dei turchi. Ma gli abitanti della Costiera sapevano che non erano soli, che a Ravello potevano ricevere conforto, c’era il beato che li aveva attratti con gli innumerevoli prodigi che operava. Dopo la sua morte, 26 ottobre 1711, sapevano che il dono che aveva e la santità che emanava da vivo, erano rimasta li nei veicoli di Ravello, nel convento francescano e nella stanza dove spirò. Ravello che ricorda, in diversi suoi straordinari angoli, il beato, fa si che il dolore, la sofferenza e la rabbia si trasformino in preghiera per la pace . La speranza non deve mai morire. Noi cristiani siamo testimoni di Gesù nella sua terra e abbiamo la missione di continuare a farlo nonostante la paura , perché così come ha fatto Bonaventura anche noi abbiamo scelto di consegnare la nostra vita nelle mani di Dio.
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menta la lampada votiva che arde ogni giorno accanto all’ altare del Beato. Tre eventi, quindi, celebrati da due città Ravello e Potenza, che continuano a guardare al Beato non solo con la nostalgia delle generazioni di ieri, ma anche con la testimonianza della generazione di oggi che, sotto la protezione del Beato, si impegnano ad obbedire a Dio ed a cambiare il volto della società civile e religiosa dalla quale partono le loro radici. G.G.
fango non permettevano ai fedeli e ai devoti del Beato di salire a Ravello per onorare il loro Santo. Si è ripresa questa “tradizione” e il bel tempo non è mancato. Domenica mattina 29, la solenne concelebrazione eucaristia presieduta anch’essa, come la processione di sabato pomeriggio, dal Vescovo di Tursi -Lagonegro Mons. Francesco Nolè, alla quale hanno partecipato i potentini che ogni anno vengono a Ravello per portare l’olio della loro terra che ali-
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I santi tra noi in cammino con i semplici CONCHITA SANNINO GIORNALISTA INVIATA LA REPUBBLICA NAPOLI
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l solo immaginare la vostra presenza e il vostro pensiero in dialogo con l’eredità, la parola e i segni lasciati dal Beato Bonaventura di Potenza in questo pezzo di paradiso che si chiama Ravello, lenisce in me il dolore per il grave lutto, che mi impedisce di partecipare a questo ideale viaggio ... da cui avrei tanto da imparare. Devo dire grazie a padre Gianfranco, collega di lunghissimo corso e pastore della comunicazione, se ho appreso nei dettagli e ho potuto appassionarmi all’esperienza di padre Bonaventura, nome che pure si stagliava come “santino” tra i tanti della nostra terra meridionale, fertile di eroi della fede, di vite esemplari offerte all’incarnazione del Vangelo. Tre importanti testi mi hanno portato per mano alla scoperta più approfondita di questo francescano che - inquilino a cavallo di due secoli come noi - in una provincia devastata da povertà paure e sogni illuministi, e poi nel cuore della costa amalfitana, tra Sei e Settecento, ha legato la sua opera al servizio dei fratelli più deprecati, più invisibili, più sofferenti: i poveri. Ieri la grande e rumorosa moltitudine, oggi silenziosa ed emarginata maggioranza. Non starò a rubare tempo e mestiere a chi sa illustrarvi l’importanza di questi studi meglio di me. Ma mi piace riconoscere che il primo illuminante percorso è quello proposto dalla complessa e affascinante ricostruzione religiosa ma anche politica e sociale di padre Grieco: qui in veste di scrittore e studioso della vita del beato , come autore di “Sopra il cielo di Ravello” e di coautore con Edoardo Scognamiglio, della biografia del beato tra “Storia, teologia, spiritualità”; il terzo é l’altrettanto poderoso racconto della vita del Beato di Giuseppe Maria Rugilo, che offre proprio come un’intatta e irrinunciabile foto d’epoca le relazioni tra un mondo in rapida trasformazione e i voti di povertà e obbedienza che padre Bonaventura sperimentava con il sorriso dell’umiltà. D’altro canto il francescano che già in vita go-
deva di fama di santità, il Bonaventura che si solleva di venti centimetri da terra mentre era in preghiera o in ginocchio, il padre che anche da morto durante il corteo fa cessare la tempesta al passaggio del suo feretro e – come dice padre Grieco - fino all’ultimo seppe “servire ed amare la gente della costiera” al punto da essere depredato dei suoi abiti usati come mezzo di intercessione: cos’altro era, se non un testimone di verità e giustizia? Ecco: da cronista posso solo porre domande che sembrano cadere lontano dai tempi e dai luoghi attraversati dalla fede e dall’esempio di Bonaventura e che invece parlano qui ed ora a donne e uomini assetati di esempi, e di figure capaci di rinunce e coraggio, di parole di denuncia e di azioni di totale carità. I santi esistono, in mezzo a noi? Possono avere dimora nel sistema-prigione costitutito dalle nostre solitudini, seppur immerse nella più avanzata tecnologia? Siamo in grado di conoscere i beati tra i nostri compagni di strada, oltre questo rumore di fondo che ci avvolge e ci confonde, che ci stordisce e ci isola? Forse bisogna fare una premessa: chi oggi, al pari di padre Bonaventura, sceglie di stare nei vicoli geografici o metaforici delle nostre comunità, è uno che si sottrae all’accettazione passiva di comportamenti cristiani solo in superficie , è quindi uno che non tollera le illegalità che non conosce ambiguità, che sa stare dalla parte delle vittime e sa camminare con chi è vittima di ingiustizie, mafie o discriminazioni. E basterebbero quindi due vite, di pastori calati nel loro problematico tessuto sociale e culturale, a dare risposta alla nostra domanda. Penso al nostro don Peppino Diana, figura di sacerdote coraggioso e fuori da ogni rigido schema che non fosse la parola del Vangelo proclamata sui tetti . Penso a don Puglisi, altra voce di una chiesa coraggiosa innalzata a valore di esempio. Il primo nato a Casal di Principe e formatosi a Napoli, il secondo siciliano. Entrambi sacerdoti uccisi dalle mafie. Entrambi martiri di forze oscure di cui non solo l’Italia, ma quest’Europa dall’aria malata e ripiegata su di sé 74
Le loro scelte, proposte nella luce perseveranza e condotte nell’obbedienza alla parola di Cristo, sono quindi una spia luminosa, sono un tracciato lasciato per noi. Se, sulle orme di padre Bonaventura, vogliamo trovare i santi che illuminano il nostro cammino, non dobbiamo che cercare loro: gli ultimi. I perseguitati, i morti innocenti, i vinti dalle mafie e dai razzismi. É in mezzo a loro che si radica l’eroismo inconsapevole della fede. È camminando con loro che possiamo scorgere la strada che porta a Dio.
Il beato tra storia, teologia e spiritualità MARCELLA CAMPANELLI UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
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ro già stata nella biblioteca francescana di Ravello per presentare la ristampa in versione anastatica, a cura di Francesco Capobianco (Arnaldo Forni Editore in Bologna, 2011) della biografia del beato Bonaventura scritta nel 1754 da Giuseppe Maria Rugilo, dal titolo Vita del venerabile padre Bonaventura da Potenza minore conventuale scritta da Fra Giuseppe Maria Rugilo dell’istess’ordine, apparsa a Napoli per i tipi di Giuseppe Raimondi. In quella occasione ebbi modo di argomentare anche in merito al libro di Gianfranco Grieco Sopra il cielo di Ravello- 60 anni con il beato Bonaventura da Potenza (Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2012). Torno, ora, a chiudere idealmente il discordo iniziato in quella occasione, con alcune riflessioni sugli Atti della giornata di studio svoltasi il 17 dicembre 2011 (Gianfranco Grieco- Edoardo Scognamiglio, Il beato Bonaventura da Potenza. Storia teologia spiritualità. Libreria Editrice Vaticana, 2014, pp. 264, 15 euro). La prima impressione che ho avuto dopo aver letto i vari saggi è che, grazie ad essi, la figura del beato appare non solo completamente delineata nelle sue sfaccettature, ma anche l’ambiente in cui egli operò, il convento in cui chiuse la sua esperienza terrena, la stessa costiera, altri illustri testimoni del suo tempo, le biografie e le Riviste francescane sembrano racchiudersi intorno alla sua figura per un ritratto a tutto tondo. Cerchiamo, allora, di accostarci ai vari aspetti cui ho ac-
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cennato. Quale, innanzitutto, il clima sociale, economico, culturale, religioso degli anni in cui visse il Nostro (1651-1711)? Alla metà del Seicento, quando nasce Antonio Carlo Lavanga, il senso di apertura al futuro che aveva caratterizzato il periodo precedente sembra ormai svanito, risucchiato dalla più generale crisi economica e demografica che colpì tutti i paesi europei, e in particolar modo il Mezzogiorno d’Italia. Qui si accentuarono le caratteristiche negative legate al declino delle fortune della Spagna, ma soprattutto alle ragioni di dipendenza e di sottosviluppo, al malessere sociale sviluppatosi soprattutto nelle province dove alla tassazione del governo centrale si univano le vessazioni dei vari feudatari e culminato nei moti del 1647 che percorsero tutto il Regno. Né si devono dimenticare gli effetti devastanti della peste del 1656. Basti pensare che nella sola costiera amalfitana le 20.000 anime presenti a fine Cinquecento, sarebbero scese a poco più di 13.000 nella seconda metà del Seicento. I centri della Costa di Amalfi La storia di molti centri della costiera (Giuseppe Gargano, Società ed economia nella Costa d’Amalfi tra XVII e XVIII secolo, pp. 13-33; Luigi Buonocore, Chiesa e società ravellese ai tempi di Mons. Giuseppe Maria Perrimezzi (1707-1714), pp. 117-137) è segnata, in quel periodo, dal problema della difesa del territorio e dal diffuso fenomeno a cui la storiografia ha dato il nome di “commercializzazione del feudo” realizzato da parte di una nobiltà non sempre in grado di affrontare i grandi mutamenti sociali in atto. Perdite della dema-
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sembra irrimediabilmente impregnata. Invece. Don Diana, don Puglisi hanno scelto dal primo momento, come Bonaventura, da quale parte stare. Se nei palazzi o nei vicoli. Se con le vuote parole alate o con l’esercizio autentico del comandamento di Cristo. Le storie, il coraggio di questi due preti beati, hanno aiutato intere generazioni di cittadini, di italiani adulti, a guardare alla Chiesa come a una palestra di santità e di crescita civile ,come un potente alleato alla possibilità di un progresso autentico delle coscienze.
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nialità, relativa infeudazione, riscatti pagati da parte delle comunità si susseguono nella storia di molti centri, primo fra tutti Amalfi. Qui i Piccolomini, in seguito ad una forte crisi finanziaria, avevano deciso di “commercializzare” il loro feudo, in toto o in parte. I cittadini, i grandi baroni del Regno come il principe di Stigliano e la principessa di Melfi, si erano proposti nell’acquisto. Fu con l’aiuto dei Citarella e dei Muscettola, famiglie della grande borghesia in ascesa, che i Piccolomini riuscirono a mantenere il possesso del loro Stato. Verso la metà del Seicento, Amalfi contava appena 1000 abitanti, continuando la sua inesorabile decadenza iniziata nel 1343, quando il maremoto ne distrusse l’arsenale. Anche Ravello, agli inizi del XVIII secolo, contava poco più di 1.000 anime. Conservava la sua dignità di civitas, titolo che le derivava dall’essere sede episcopale fin dal 1086, dipendente direttamente dalla Santa Sede. Nel 1603 la sede episcopale di Ravello era stata unita da Clemente VIII a quella di Scala ed affidata ad un solo presule il quale da quel momento si ritrovò a governare la diocesi in una duplice veste, vale a dire alle dipendenze della Santa Sede in qualità di vescovo di Ravello, e soggetto al metropolita di Amalfi, in qualità di vescovo di Scala. Insieme all’intera diocesi anche Ravello aveva conosciuto un progressivo processo di ruralizzazione e di pauperizzazione. L’indigenza non aveva risparmiato neppure la mensa vescovile. In questo scenario, nel 1707 viene nominato vescovo di Ravello e Scala fra’ Giuseppe Maria Perrimezzi, appartenente all’ordine dei Minimi di san Francesco di Paola. Tale nomina avviene nel momento in cui all’interno della gerarchia ecclesiastica e del clero secolare è in atto una trasformazione significativa e la classe episcopale appare composta da personaggi di spiccata levatura intellettuale e morale, culturalmente agguerriti, moralmente degni, impegnati a fondo nei compiti pastorali e, soprattutto, coscienti e orgogliosi dell’importanza dell’ufficio rivestito. Il Perrimezzi stesso, predicatore ed erudito, autore di una biografia di Francesco di Paola, fu uno dei protagonisti di tale generazione, prodigandosi a favore della cattedrale, dell’episcopio, dell’archivio e celebrando nel 1709 un sinodo nel corso del quale furono emanate norme atte a disciplinare la vita del clero e dei fedeli. Ma, soprattutto, riuscì ad ottenere la reintegrazione del convento ravellese dei Minori Conventuali che il 19 ottobre 1709 riaprì, in tempo per ospitare gli ultimi anni di vita del beato Bonaventura. Il convento francescano di Ravello Parlare del convento francescano di Ravello, vuol dire
parlare dei Minori Conventuali e, a questo punto, credo sia doveroso spendere qualche parola in merito al ruolo ricoperto nel Seicento dagli Ordini religiosi. Non bisogna dimenticare, infatti, come l’impegno da essi mostrato nel campo della pastorale e della catechesi, la consistenza demografica raggiunta, il ruolo di primo piano ricoperto nel settore dell’economia di molti degli antichi Stati italiani, li abbia posti di diritto nella dialettica relativa ai poteri esistenti nella società di antico regime. Approfondire la conoscenza della vita e della organizzazione degli Ordini sia a livello regionale, ma ancor di più a livello locale, attraverso lo studio dei loro insediamenti, veri e propri punti di riferimento per le comunità che li ospitavano, significa riuscire ad offrire un’ampia prospettiva di vedute per la comprensione della società. Il beato Bonaventura ha soggiornato in molti di quelli del suo Ordine, fino a concludere, come ricordato poc’anzi, la sua esperienza terrena in quello di Ravello. Ed è proprio su questo convento, cui fanno riferimento alcuni saggi, che vorrei soffermarmi. Il convento era stato chiuso un anno dopo la nascita di Antonio Carlo Lavanga, in seguito alla emanazione il 15 ottobre 1652 della bolla Instaurandae regularis disciplinae, da parte di Innocenzo X (molti saggi fanno riferimento alla suddetta bolla, in particolare Salvatore Amato, I Conventuali a Ravello dalla soppressione innocenziana a quella murattiana, pp. 139-160). Si trattava di un provvedimento di chiusura che riguardò tutti i conventi italiani che, sulla base di quanto richiesto nella bolla Inter coetera del 17 dicembre 1649, non erano riusciti a dimostrare di essere in grado di avere rendite tali da sostenere almeno 6 persone, in modo da poter garantire l’osservanza della disciplina regolare. Si trattò di una disposizione di vastissima portata che, almeno nelle intenzioni del pontefice, avrebbe dovuto portare una ventata di rinnovamento nel mondo dei Regolari. In quel periodo, in base alla stima fatta da Emanuele Boaga (La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1971, p.150) il panorama conventuale maschile includeva globalmente 6.238 conventi, per circa 69.000 residenti. A Ravello, oltre il convento francescano era stato chiuso quello agostiniano; a Scala quello dei Domenicani ed un altro degli Agostiniani; ad Amalfi erano andati via i Crociferi, e a Positano i Domenicani. I beni dei conventi soppressi sarebbero stati destinati al fabbisogno dei luoghi pii, primi fra tutti i seminari. Così era accaduto anche per i conventi ravellesi, ma anche il seminario di Scala-Ravello, eretto nel 1659, era destinato a seguire la sorte di tanti altri seminari, aperti e 76
cescana tra seicento e settecento, pp. 53-81; Edoardo Scognamiglio, Il vissuto teologico del Beato Bonaventura da Potenza, pp. 83-98). Per essere ben compreso, esso deve essere necessariamente inserito non solo nel contesto storico sociale qui brevemente delineato della periferia meridionale, della crisi socio-economica del Seicento, ma anche, e soprattutto, nell’ambito della Riforma cattolica post-tridentina. Dal Concilio di Trento in poi Dal Concilio di Trento in poi, molte e molte decine di santi si erano aggiunti al lungo elenco di quanti la Chiesa aveva promosso agli onori dell’altare. Jean Delumeau ha parlato di un vero e proprio “fiume della santità” che percorre l’Italia per “il moltiplicarsi degli eroi cristiani” (Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo. Mursia, Varese, 1976, p. 81). Fra gli altri, ricordiamo il fondatore dei Gesuiti, Ignazio di Loyola, il gesuita missionario Francesco Saverio, la carmelitana Teresa d’Avila, il fondatore dei Teatini Gaetano da Thiene, il fondatore dei Fatebenefratelli, Giovanni di Dio. Essi erano espressione di una nuova sensibilità religiosa e dell’aspirazione di larghi strati di fedeli al ritorno alla semplicità originaria della vita cristiana. Ma erano, al contempo, caratterizzati da quel forte senso di disciplinamento che, dopo Trento, la Chiesa impose alla vita sociale e religiosa e, in modo particolare, alle nuove devozioni, alla verifica della “fama di santità” e alla canonizzazione di nuovi beati, attraverso un controllo che si fece sempre più minuzioso, specialmente dopo le violente critiche portate dai riformatori protestanti. Molte furono le novità introdotte dalla Chiesa tridentina in merito alla santità, a partire dai contenuti per finire alle forme della nozione di santità, ai centri di produzione e di elaborazione della santità stessa. Valori come la repressione delle inclinazioni terrene, la penitenza, l’obbedienza ai superiori, la gioia mistica e il terrore della punizione eterna ne divengono ora gli aspetti caratterizzanti e tutti presenti nel beato Bonaventura. La sua pietà penitenziale aveva avuto certamente modo di confrontarsi e di compenetrarsi nella realtà sociale in cui era stato chiamato ad operare, a Napoli, come in provincia ad Aversa, a Maddaloni, a Nocera, a Ischia, nelle varie località della costiera. La repressione degli appetiti terreni, la macerazione della carne, l’obbedienza alle gerarchie, la rassegnazione a ciò che può accadere, la superiorità delle gioie dello spirito, sono tratti connotativi della sua vita. Ebbene, essi sembrano sublimare tutti i tratti caratterizzanti di una società povera quali la fame, la fatica, la precarietà esi-
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chiusi dopo pochi anni, per mancanza di un sostegno finanziario. Le rendite dei soppressi conventi agostiniano e francescano non erano state sufficienti a mantenerlo attivo. Nel 1709, come detto, il convento aveva riaperto i suoi battenti e, non a caso, i Minori Conventuali avrebbero avuto l’onere di insegnare grammatica e teologia morale. Il primus in reintegrato conventu habitator era stato padre Bonaventura (p.146). Il convento sarebbe stato chiuso definitivamente un secolo dopo, nel 1809 in seguito alle leggi di soppressione dei Napoleonidi, quando quella che il vescovo di Nola, Vincenzo Torrusio, definì “la universale persecuzione contro gli Ordini regolari” portò alla chiusura di circa 1.550 conventi. Era rimasto immune dalla soppressione il convento francescano di Amalfi, vera e propria scuola di ascetica (Felice Autieri, Spiritualità e santità francescana in Costiera tra XVII-XVIII secolo, pp.99- 116) che proprio nel Seicento visse un periodo di grande spiritualità, grazie alla presenza del venerabile Domenico Girardelli, che vi morì nel 1683. Costui fu un modello di fedeltà alla regola e fece della preghiera e della carità apostolica lo stile della sua vita. Nel 1671 era entrato nel convento di Amalfi, Bonaventura da Potenza il quale avrebbe trovato proprio nel Girardelli la guida della sua vita spirituale, muovendosi insieme sulle orme della tradizione penitenziale del monachesimo cenobitico, caratterizzata da una pratica ascetica dura e continua, che di lì a poco avrebbe avuto un altro illustre esponente in s. Gerardo Maiella. Ma torniamo al convento di Ravello. Era stato chiuso, come detto, nel 1809, ma nel 1811 la chiesa veniva riaperta per consentire ai fedeli di recarsi a pregare sul sepolcro di Bonaventura da Potenza, che nel 1775 era stato proclamato beato. Ed eccoci, ora, giunti al filo rosso che percorre tutti i saggi ed è quello della santità, nei suoi aspetti giuridici (Vincenzo Criscuolo, I processi informativi ed apostolici sul Beato Bonaventura da Potenza in Costiera Amalfitana, pp. 183-195; Zdzislaw Jozef Kijas, Dalla beatificazione alla canonizzazione del Beato Bonaventura da Potenza, pp. 197-208), devozionali (Donato Sarno, La devozione al Beato Bonaventura nel Settecento a Maiori ed in Costiera Amalfitana: la portentosa reliquia del suo molare, pp. 161-182), iconografici (Valentina Lotoro, Riconsiderazioni sull’iconografia del Beato Bonaventura da Potenza (1722-2012), pp. 209228), che concorrono a delineare il modello di santità veicolato dal beato (Bernard Ardura, La santità nella Chiesa dalla seconda metà del Seicento e ad inizio Settecento, pp. 35-51; Orlando Todisco, La filosofia fran-
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stenziale, la sofferenza fisica e spirituale. D’altra parte, è noto come l’impegno profuso dalle varie famiglie francescane nell’assistenza spirituale alle popolazioni urbane e rurali, l’impegno nel campo della pastorale e della catechesi, l’accettazione di una dimensione miracolistica fortemente ancorata al vivere quotidiano e l’inclinazione a tradurre in termini sentimentali ed affettivi le relazioni umane e sociali e i rapporti col sacro sono stati gli elementi che hanno dato al francescanesimo una grande capacità di adesione alla realtà meridionale. Padre Bonaventura ne era stato uno dei migliori interpreti. I processi di canonizzazione Specchio fedele della teologia tridentina e dell’apologetica cattolica furono i processi di canonizzazione, ripartiti fra informativi o ordinari, vale a dire quelli celebrati in base all’autorità ordinaria del vescovo locale, e apostolici, cioè quelli celebrati in seguito a precise direttive della Congregazione dei Riti. L’immagine del santo che se ne ricavava era quella di un’evidente excellentia virtutum. Il saggio di Vincenzo Criscuolo ci illumina su alcuni processi riguardanti Bonaventura da Potenza. Nella diocesi di Scala-Ravello si celebrarono 2 processi ordinari e 2 apostolici: il primo dal 6 agosto al 24 ottobre 1727, con la presenza di 10 testi; il secondo dall’11 novembre 1727 al 13 settembre 1728, con 53 testi; il terzo dall’11 novembre 1737 al 20 dicembre 1737, con 11 testi e il quarto dall’8 novembre 1739 al 30 maggio 1740, con 85 testi. In totale furono escussi 159 testimoni, per la maggior parte appartenenti al clero, sia regolare che secolare, ma anche a classi sociali diversamente compattate in ogni realtà locale. Si tratta di quelli che Jean Michel Sallmann nei suoi studi sulla santità meridionale ha definito gli “attori sociali” (Santi barocchi. Modelli di santità, pratiche devozionali e comportamenti religiosi nel regno di Napoli dal 1540 al 1750, Lecce, 1996 (trad. it.)., p.212) le cui deposizioni divengono altrettanti strumenti che contribuiscono a comprendere, allo stesso tempo, non soltanto il particolare modello di santità rappresentato, nel nostro caso, da padre Bonaventura ma quelli che ne erano i maggiori fruitori ed, inevitabilmente, i maggiori promotori e propagatori. In età post-tridentina la fama di santità si manifestava già subito dopo il decesso nel corso di un vero e proprio rituale messo in atto intorno al cadavere. Esposto per più giorni alla venerazione dei fedeli, esso rimaneva “rubicondo, flessibile e senza malo odore” e, segnato, si assisteva alla fuoriuscita di sangue. Nel caso di padre Bonaventura, al momento della morte si era assistito ad
una sudorazione della faccia e del capo (p.146). Fu nel 1740, a trenta anni dal decesso, durante la prima ricognizione dei resti mortali, che si osservò che “tutte l’articolazioni ossee e carnee stavano da vivente ed incorrotte, a riserba di picciole parti” e nelle guance si poteva osservare “il rossore colorito rubicondo” tipico segno, come detto, di santità (p.185). Ma c’è un altro episodio, relativo ad una seconda recognizione, precedente la beatificazione avvenuta il 26 novembre 1775 ad opera di Pio VI, degno di essere ricordato. Con un dispaccio del 13 luglio 1775 indirizzato al vescovo della diocesi di Ravello-Scala, Michele Tafuri, e al governatore, il segretario dell’Ecclesiastico aveva comandato di vigilare sulle operazioni di ricognizione affinché nessun ecclesiastico “prendesse parte alcuna” e perché i laici non attentassero al “sacro deposito”. Si trattava di un chiaro riferimento al cosiddetto accaparramento delle reliquie, una prassi diffusa nei confronti di quanti morivano in fama di santità e che nel passato aveva raggiunto livelli parossistici. Le reliquie oggetto di devozione Le reliquie sono state da sempre oggetto di devozione e di venerazione, ufficialmente riconosciuto dal Concilio di Trento. Esse assursero al ruolo di vere e proprie testimonianze tangibili del potere del santo cui erano appartenute e tanto più, se ad esse venivano riconosciute proprietà taumaturgiche e miracolistiche, come era accaduto ad alcuni denti appartenuti al beato Bonaventura e conservati dal medico Giuseppe Ippolito. Attraverso la loro circolazione, il corpo del santo non era ormai più immoto e immobile, ma usciva tra la gente, visitava i suoi fedeli. Né era difficile imbattersi in quello che Patrick Geary ha definito il fenomeno dei Furta sacra, grazie al quale le reliquie si moltiplicavano, si rubavano, si vendevano. Il corpo del beato Bonaventura, come tutti sapete, riposa a Ravello. Nel passato al sepolcro, spazio sacro caro alla tradizione cristiana, dove trovano espressione la presentia e la potentia del santo, veniva riconosciuta dalla collettività una forte importanza simbolica che travalicava l’ambito prettamente religioso per confluire in quello della costruzione di una coscienza cittadina, insieme alla presenza di famiglie nobili ed illustri, alla fondazione leggendaria ed eroica della città. Ebbene, credo che il “prezioso deposito” di cui si parlava nel 1775, conservato nella chiesa di Ravello mostri a distanza di secoli tutta la sua attualità contribuendo ad arricchire e a caratterizzare la memoria cultuale di Ravello e, perché no?, conferendole anche lustro e prestigio. 78
scultura
Dieci bronzi per onorare Wojtyla santo da Cracovia
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a Via Sancta di Czeslaw Dzwigaj è un’esposizione di sculture all’aperto dedicate al santo Papa polacco Giovanni Paolo II. Il ciclo delle sculture bronzee, riguardano la vita di Karol il Grande, che ha avuto inizio subito dopo la sua morte. L’idea però è nata alcuni decenni prima, già durante la vita del papa polacco. Nella mente e nell’immaginazione dello scultore nasceva una visione realistica delle future opere, che successivamente realizzate, non a caso, hanno preso i nomi latini. Legati alla vita del Pontefice, hanno dato alle opere stesse una maestosità unica, libera dal relativismo, con un linguaggio tradizionale, come un volume scritto dalla vita, pieno di serietà e di verità. Questa galleria dei bronzi, porta questi nomi: Beatificatus, Polonia, Ecclesia, Mundus, Scriptio, Oecumenicus, Credo, Angelus Domini, Totus Tuus, crea diverse tappe della strada percorsa dal santo Giovanni Paolo II, incominciando dalla Cattedra di Wawel, dove nasceva e cresceva la sua vocazione sacerdotale, fino alla basilica di san Pietro in Vaticano. Nel percorso vediamo la sua dedizione alla Madre del Signore che viene rappresentata in una delle sculture come una sagoma della Madonna Nera di Czestochowa, dove l’aureola prende il significato dell’infinito e si apre come una porta , tracciando una strada che conduce alla “Casa del Padre”. Lo scultore doveva scegliere l’idea migliore per trasmettere i suoi sentimenti, optando
tra la ragione e l’intuizione, tra il cielo e la terra. Il maestro Dzwigaj ha portato a compimento diverse opere; dalle medaglie ai monumenti; dalle vetrate artistiche alle stazioni della Via Crucis, presentando i suoi “prodigi” in molte parti del mondo. I suoi lavori si trovano anche nei luoghi dove è vivo il culto mariano: Fatima e Lourdes, e, sulla scia dei pellegrinaggi papali, in Terra Santa e in altri continenti. Nelle numerose opere dell’artista viene rappresentato proprio uno dei più grandi santi della terra polacca e del XX e XXI secolo, per ricordare alle future generazioni ciò che è veramente bello e grande; tutto ciò che deve essere ricordato e imitato; e quanto indica la strada di oggi e quella di domani.
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“Tu verras...”
Una canzone d’amore coniugata al futuro HA DETTO “Quando il cinema si fa canzone, allora la voce di Otda Roma tavia Fusco incanta”. ITALO MOSCATI VINCENZO MOLLICA Attrice e cantante, Ottavia Fusco è CRITICO TEATRALE E CINEMATOGRAFICO protagonista fra le più apprezzate del giornalista TG1 panorama artistico teatrale italiano. È stata diretta ed hanno scritto per lei, registi e autori quali Giorgio Albertazzi, Pasquale Squitieri, na canzone cantata nella notte Nelo Risi, Don Lurio, Lina Wertmuller, Andrea Liberovici, Dacia sotto la minaccia di pioggia di Maraini, Edoardo Sanguineti, per interpretazioni che hanno spaziato continuo scacciata da chi la da personaggi come Tamara De Lempicka, Edda Ciano, Lady Maascoltava e da chi la eseguiva … una can- chbeth, Giuseppina Streppono/Verdi. Insieme con Andrea Liberovici zone d’amore coniugata al futuro … tu ed Edoardo Sanguineti ha fondato la compagnia di teatro musicale “Teatro del Suono” con la quale ha recitato, sempre da protagonista, verras … nei più importanti teatri nazionali ed internazionali. Ottavia Fusco, attrice e cantante, con Ha interpretato un’apprezzatissima Lady Machbeth al Festival di Spol’ausilio della brava pianista e arrangia- leto 1998 (regia e musiche di Andrea Liberovici, adattamento di Edotrice Cinzia Gangarella, nel giardino della ardo Sanguineti, costumi della pluri-premio Oscar Milena Canonero) Filarmonica Romana, ha presentato con ed e’ stata interprete di numerosi recital di canzoni d’autore che l’hanno portata a rappresentare il nostro Paese in tournèe all’ estero. molto garbo e trasporto “Effetto Notte”, La sua capacita’ interpretativa e poliglotta le ha permesso di realizzare ovvero canzoni, canzoni, canzoni scelte progetti musicali e teatrali in Francia (Parigi e Marsiglia) in Turchia in un repertorio vastissimo che lei ha sa- (Instanbul ed Ankara) in ex Iugoslavia (Fiume, Pola e Zagabria) in Argentina, Brasile e Canada. È stata voce recitante soputo legare in poco meno di un’ora, caclista per grandi istituzioni musicali italiane ed ciando con delicati gesti le mosche e straniere (Orchestra Toscanini di Parma, le zanzare della pioggia che si è Orchestra dell’Accademia Santa Cecilia HA DETTO fatta sentire e poi si è fatta da di Roma, Orchestra di Radio Quando Ottavia compare sulla France/Parigi). Fra gli ultimi progetti parte, com’era giusto, come scena ricorda un antico atleta che si musicali e teatrali sono da citare: non poteva non essere prepari a lanciare l’asta. Il gesto si com“Gli Anni Zero” nel quale 16 fra pie e diviene canto. Vola su di noi gentile. Lo spettacolo era le piu’ grandi firme della cultura aprendosi la strada fra ricordi, fantasie, una trama di ricordi e di e dello spettacolo, hanno scritto rimpianti, promesse … Poi, con una versi musicati, tra schermi per lei i testi delle canzoni. Alcuni magia, torna a lei che prepara un nuovo fra questi: Umberto Eco, Magdi e leggii musicali, emozioni gesto. Un nuovo canto”. Cristiano Allam, Vittorio Sgarbi, in punta di piedi per sconfigPASQUALE SQUITIERI Aldo Nove, Nanni Balestrini, AleRegista cinematografico gere la notte che brontolava, jandro Yodorowsky, Federico Moccia, sconfiggerla con la voce di Ottavia, Ennio Cavalli, Edoardo Sanguineti, Andrea leggermente roca, leggermente francese Pinketts. Attualmente, sta lavorando alla realizzazione di un’ inedita opera musicale e teatrale in ocanche quando cantava in inglese o in itacasione del 50° anniversario del volo di Valentina Tereshkova, la liano o in spagnolo (e anche napoletano). prima donna nello spazio. Il giardino si è vuotato, e sono rimaste le La Fusco sarà protagonista assoluta dello spettacolo scritto e diretto note appese agli alberi per attendere da Ruggero Cappuccio, con le musiche originali di Franco Battiato. l’alba … un jour tu verras … verras l’aube Il progetto ha ottenuto il patrocinio e la collaborazione ufficiali dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea). de l’amour …Brava ragazza!”
CHI È
U
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Con la Tavola dell’Alleanza nel cuore di Rebibbia da Roma
CORRADO RUGGERI GIORNALISTA DEL CORRIERE DELLA SERA, SCRITTORE
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a sua ansia di libertà ruota spesso intorno alle prigioni. Che non necessariamente sono luoghi fisici. L’animo inquieto e a volte ribelle di Daniela Papadia sente prepotente il bisogno di sostituire la sofferenza con il bene, portare la fratellanza dove c’è l’odio, la pace al posto della devastazione della guerra. Fu per un caso che lasciata Palermo, dov’era nata, nell’immensità di Roma, dove aveva scelto di vivere, Daniela approdò a via delle Mantellate, accanto al carcere di Regina Coeli. C’era lo studio di Mario Schifano, con cui per tre anni ha lavorato come assistente. E ora è stato il complesso di Rebibbia la culla del suo più ambizioso progetto artistico e sociale: la Tavola dell’Alleanza, un arazzo che profuma di scienza e di comunione, ricamato su un candido lino da sei detenute di diverse nazionalità e utilizzato per apparecchiare un tavolo all’interno del carcere dove hanno mangiato insieme 36 persone. Fra loro, anche il presidente del Senato, Pietro Grasso. In colorati disegni e simboli, su quel tessuto è
stato rappresentato il genoma umano. Per ribadire un concetto che spiega il senso del nostro stare al mondo. <C’è una percentuale dell’uno per mille che rende il genoma diverso tra gli individui: esistono elementi comuni che appartengono all’umanità intera – dice Daniela - Ogni persona è dunque unica, ma allo stesso tempo simile agli altri, e si differenzia per la propria sequenza del DNA che è irripetibile. Il paradosso apparente del linguaggio del genoma è proprio questo, uguaglianza e differenza>. Accurata, puntuale, meticolosa, Daniela ha studiato a lungo prima di portare sul suo terreno artistico le scoperte della scienza. <Mi sono appassionata leggendo il libro di Watson e Berry e ho pensato che mi sarebbe piaciuto divulgare questo messaggio di fratellanza che la natura ha voluto comunicarci. E ho ritenuto che sarebbe stato giusto affidare questo compito alle donne, che nel loro corpo fanno maturare la vita prima di donarla al mondo: mi è sembrato un giusto inizio>. Ora il desiderio è portare quell’arazzo e apparecchiare una tavola in luoghi difficili della terra o in quelli che sono un simbolo. Daniela pensa a Gerusalemme e al confine con Gaza, alla New York delle Nazioni Unite, ma anche
CHI È
Daniela Papadia è nata a Palermo. Attualmente vive e lavora a Roma. Ha esposto le sue opere in Italia, in Svizzera e negli Stati Uniti. I suoi lavori sono stati esposti presso Gallerie quali Sergio Tossi , Firenze, Barbara Davis Gallery, Huston, Ernest Hilger Gallery, Vienna e Parigi, Generous Miracles, New York e presso istituzioni Italiane, Europee ed Americane quali Fondazione Hardhof, Basilea, American Accademy in Rome, Palazzo delle Esposizioni, Roma, Fondazione Marzotta, Milano, Galleria Civica, Instabul, Citizens Columbus Fundation, New York, Museo Pino Pascali, Bari, Fundus Fundation, Kassel , il Museo D’arte Moderna di Palermo e il Museo CAM di Napoli, Tavola dell’Alleanza in Piazza del Campidoglio- Roma ( 9 novembre 2014). AWARDS: 2001– Fulbright Fellowship - American Academy in Rome ; 2002Fundus, Bateaubleu, Kassel Documenta; 2010– Magmart – International Videoart festival, Museo PAN di Napoli e CAM di Casoria.
ai deserti, a San Pietro, a Robben Island dove venne incarcerato Nelson Mandela. Un’impresa che sa di sfida. <Sono abituata – dice – non mi è mai stato regalato niente>. Un talento d’artista sbocciato all’Accademia delle Belle Arti e poi coltivato con determinazione. Nel suo Dna ci sono i segni di una qualità familiare: alcuni artisti, un bisnonno mecenate che <facendo del bene, si fece economicamente piuttosto male>. Daniela non si è mai fermata, fisicamente e intellettualmente, nel cercare la giusta strada per la sua arte. Che non considera mai fine a se stessa, ma alla quale assegna un compito fondamentale: contribuire a rendere migliore questo mondo. <Bisogna cominciare da noi stessi> dice. Nelle sue opere ama ritrarre moltitudini di persone, <ma dobbiamo ricordare – ammonisce – che la folla non è una massa indistinta>. Il primato dell’individuo è il rispetto della persona: senza distinzioni di sesso, religione, colore della pelle. Daniela ha una sua strada per migliorare la nostra civiltà: <Credo nella compassione – afferma –
che vale per tutto e per tutti. Anche per se stessi>. La sostengono una robusta fede, è cristiana ortodossa, una granitica fiducia nell’uomo e un animo generoso. Le qualità artistiche vennero certificate dal genio di Mario Schifano, <Hai talento> le disse, incoraggiandola quando era ancora poco più che ventenne, e ora sono apprezzate da un coro mondiale di riconoscimenti. <La sfida più grande – dice Daniela – comincia adesso, con la Tavola dell’Alleanza>. Ha preparato un affascinante documentario, con la regia di Francesco Miccichè, in cui spiega il progetto e illustra la sua ambizione: <Dio può tutto, ma non costringe gli uomini ad amarlo: forse dovremmo essere noi essere umani a convincerci che l’unica strada possibile è l’amore degli uni verso gli altri>. Questo arazzo nobile e prezioso ha lo scopo di far sedere il mondo intorno alla stessa tavola. <Offrire il cibo è trasmettere il desiderio di vita: c’è troppa morte intorno a noi. Il genoma rappresentato sull’arazzo e la Tavola dell’Alleanza vogliono essere un inno all’umanità, all’unicità di ognuno di noi e alla fratellanza che ci accomuna>. 82
economia
Perché l’Europa non esce dalla crisi? da Milano
ASSUNTA CEFOLA ANALISTA FINANZIARIO
S
e oltreoceano la ripresa economica è ben avviata, l’ Eurozona continua ad arrancare. Le differenze cruciali tra le due aree sono alla base della diversa capacità di ciascuna di uscire dalla recessione: mentre gli Stati Uniti sono un Paese unitario di natura federale, un mercato unico e competitivo per beni, fattori di produzione e attività finanziarie, l’Eurozona è una federazione composita di stati, un’area di scambio con mercati ancora fortemente segmentati, concorrenza imperfetta ed istituzioni non adeguate a far fronte alle attuali difficoltà. Non a caso, la crisi ha frenato il processo di convergenza tra i Paesi Europei, portando alla luce nodi strutturali irrisolti, che hanno aggravato l’impatto recessivo delle politiche di austerità, svelando la fragilità e l’inadeguatezza delle istituzioni Europee e mostrando gli errori del loro disegno complessivo. Anzitutto, è utile commentare l’andamento del reddito medio reale nelle due aree per gli anni recenti: se la flessione del 2007-09 accomuna entrambe le aree, l’impatto sul reddito medio Americano è di ben 2.459$ a prezzi costanti (-6%), mentre nella zona Euro il reddito
medio subisce inizialmente un calo inferiore, pari a circa 1200€ (-4,7%). Già nel 2012 però il reddito medio Statunitense torna ai livelli ante crisi, mentre nell’Eurozona è ancora il 2,5% inferiore a quello del 2007; ciò sembra indicare che, sebbene la crisi colpisca con maggior forza gli Stati Uniti (da cui per altro è partita), le conseguenze recessive si rivelano molto più persistenti in Europa. Allo stesso modo, le differenze fra gli Stati sono decisamente maggiori nell’Eurozona rispetto agli Stati Uniti: tra il 2000 ed il 2012 il reddito per abitante dello Stato Americano più ricco è cinque volte maggiore di quello dello Stato più povero; nello stesso periodo, questo rapporto è di 8,6 a 1 nella zona Euro. È interessante esaminare l’evoluzione di queste differenze nel tempo: fino al 2008 in Europa le differenze tra Stati si sono ridotte, ma tale processo è rallentato con la crisi; in America invece, la crisi ha inizialmente accelerato l’aumento delle diseguaglianze fra gli Stati, ma già dal 2009 questa tendenza si è invertita. Secondo i modelli economici di crescita, i Paesi più poveri dovrebbero crescere più rapidamente di quelli ricchi, perché il capitale, rispetto al lavoro, è relativamente scarso, dunque più produttivo, a parità di tecnologia; ciò incentiva il risparmio e l’investimento. Questo processo di convergenza si è effettiva-
mente verificato in Europa fra il 2000 ed il 2007, come documentato anche dalla riduzione della dispersione tra i redditi pro capite, ma la velocità di questa tendenza si è dimezzata nel periodo più recente. Per capire perché alcuni Paesi abbiano sofferto più di altri, si devono considerare due aspetti: il primo è l’entità degli shock di domanda cui sono stati soggetti, in particolare le conseguenze del mancato accesso al mercato dei capitali (soprattutto per Paesi in cui banche o Stato sono diventati insolventi) e le eventuali ripercussioni delle manovre di aggiustamento di bilancio; il secondo sono le condizioni strutturali di offerta che promuovono/rallentano la crescita della produttività e favoriscono/frenano la flessibilità dei prezzi e dei salari. La caduta della domanda ha effetti tanto più negativi su PIL ed occupazione quanto più rigidi sono i prezzi (le imprese sfruttano il loro potere di mercato, per non ridurli, aggravando il calo dei consumi) ed i salari (i disoccupati non sono riassorbiti dalle imprese ed i salari vengono mantenuti inalterati nonostante la recessione). Se si considera la produttività, i Paesi in cui la redditività è aumentata di meno prima del 2008 sono in media proprio quelli dove il PIL pro capite è diminuito di più (o aumentato di meno) durante la crisi. Guardando al mercato del lavoro, l’effetto della recessione è stato più forte nei Paesi in cui la disoccupazione (dunque la rigidità del mercato del lavoro) era già alta prima della crisi, ovvero in Europa rispetto agli Stati Uniti. La politica fiscale costituisce l’altro elemento che spiega le difficoltà Europee rispetto agli Stati Uniti: in America il bilancio federale si fa carico della stabilizzazione e gli Stati federali non si discostano troppo dal pareggio di bilancio e si danno regole esplicite o implicite per la disciplina del bilancio in maniera autonoma; al contrario in Europa, essendo il bilancio federale praticamente inesistente, non possono che essere gli Stati ad esercitare politiche fiscali di stabilizzazione, oltre al fatto che le istituzioni centrali Europee stabiliscono le regole (patto di stabilità e crescita, fiscal compact) volte ad assicurare la disciplina dei bilanci statali, ma queste vengono sistematicamente violate, specialmente quando la situazione economica si deteriora. L’andamento del rapporto debito/PIL è espressione delle precedenti differenze tra Europa ed America: il
debito federale Americano è cresciuto dal 60,4% fino al 106,5% del PIL tra 2006 e 2010, mentre i debiti degli Stati federali non hanno mai superato il 20%; in Europa il rapporto debito/PIL medio degli Stati (non esiste un debito federale) è cresciuto dal 70% al 90,6%, molto meno che in America, ma al contrario di quanto avvenuto negli USA, la forbice dei debiti Europei è esplosa (nel 2012, se in Estonia è al 10%, in Grecia è del 157%). Non avendo, l’Europa, un bilancio adeguato, non dispone neppure di un efficace sistema di perequazione tra gli Stati. L’Italia, il maggior contribuente netto Europeo rispetto al proprio PIL, versa al bilancio comunitario lo 0,38% annuo; invece l’Ungheria, lo Stato che più beneficia del bilancio Europeo, riceve trasferimenti pari al 4,76% del proprio PIL. In America nel periodo 1990-2009 gli Stati più poveri (West Virginia, Mississippi, New Mexico, Puerto Rico) hanno ricevuto trasferimenti dal 244% al 291% del proprio PIL, mentre gli Stati ricchi (New Jersey, Minnesota, Delaware) in un decennio hanno versato contributi che rappresentano tra il 150% ed il 206% del proprio reddito. La disintegrazione in Europa, oltre a forti rischi per la solvibilità degli Stati e delle banche, porterebbe verosimilmente ad una stagione di svalutazioni competitive e ritorsioni commerciali, annullando in poco tempo i benefici della libera circolazione di beni, persone ed investimenti, proprio i punti di forza dell’economia Americana. Il percorso per mettere la zona Euro al riparo da questo rischio presenta grandi ostacoli di ordine politico, richiede che ciascun Paese riprenda con forza la via delle riforme, elimini le barriere alla concorrenza, le rendite di posizione di imprese, sindacati e banche nazionali, esige che l’Europa inizi a dotarsi gradualmente di un bilancio federale ed infine che da regole centrali inefficaci ed invasive si passi ad una politica basata sulla titolarità nazionale della disciplina di bilancio. 84
architettura
L’arte di convivere con la natura da Roma Architettura
MOHAMMAD DJAFARZADEH ARCHITETTO
L
a chiave di lettura di ogni civiltà va ricercata nell’equilibrio tra l’uomo e la natura. Questo equilibrio si rispecchia anche nella scelta dei materiali da costruzione non inquinanti, nell’armonia tra le tipologie architettoniche e le condizione climatiche, nelle tecniche di costruzione, nel convivere con le avversità dell’ambiente utilizzando le risorse naturali disponibili e valorizzandole senza sconvolgimenti. Dopo anni di distruzione della natura, particolarmente nell’era industriale e la mancanza del rispetto per la continuità della vita e della natura, ora ci siamo resi conto come la nostra vita è sempre più minacciata dal degrado della terra riempita dal cemento e dalle materie radioattive, dall’assenza dell’aria respirabile nelle città grazie all’inacessibilità dei venti causata dall’espansione verticale e orizzontale delle aree urbane soffocate dalla cappa d’inquinamento. La globalizzazione dall’alto, argomento privo di volto umano e indifferente al destino della terra e di essere umani, è centrata soprattutto sull’espansione industriale e la crescita dell’economia a discapito della natura. I gridi d’allarme e le proteste degli ambientalisti sono tuttora considerati degli atteggiamenti intellettuali che, in termini reali, non preoccupano i politici e gli industriali. Ma salvare l’ambiente e utilizzare le risorse e le energie rinnovabili è possibile anche per iniziative individuali. Noi viviamo in un paese che gode in pieno la generosità della natura. Il sole, il vento e le stese pianure sono colmi di energie naturali e gratis che possono sostituire il gas, il petrolio e altre fonti inquinanti. Le coperture dei palazzi e le terrazze condominiali sono dei luoghi ideali per installare i pannelli solari o fotovoltaici. I pannelli solari possono fornire l’acqua calda ai bagni e alle cucine mentre quelli fotovoltaici forniscono l’energia elettrica per elettrodomestici, riscaldamento e illuminazione senza bollette. Gli ex locali per accumulo dell’acqua, spesso inutilizzati, ora possono essere destinati ai accumulatori dell’energia elettrica. Ovviamente ci saranno i costi iniziali per l’acquisto degli
impianti da installare ma il costo rateizzato è inferiore alle bollette di gas di luce e di gasolio per termosifoni. Ogni alloggio potrebbe avere i propri pannelli e in questo modo ogni condomino ha il vantaggio d’essere autonomo e non sottostare alle condizioni delle società fornitori delle energie, inoltre si mette fine alle discussioni nelle assemblee condominiali sul doloroso argomento delle tabelle millesimali e l’spartizione delle spese. Sempre nell’ottica dell’risparmio energetico è possibile diminuire la dispersione del calore del riscaldamento sostituendo le finestre con i vetri termici che durante l’estate agiscono al contrario evitando il passaggio del calore dall’esterno all’interno dell’abitazione. Nel caso di una ristrutturazione della propria casa cercare di evitare il posizionamento dei termosifoni nelle nicchie dei sottofinestre, in quanto minore spessore del muro della nicchia aumenta la dispersione del calore verso esterno. Cercare di inquinare anche all’esterno della propria casa è possibile. Questa battaglia civile, ovviamente, necessita una coscienza collettiva che si forma la coscienza di ogni singola persona. Mentre in occidente siamo ancora alla ricerca delle soluzioni per la realizzazione dell’architettura sostenibile come fosse qualcosa da inventare, esistono delle popolazioni nel mondo che continuano a vivere nelle città storiche costruite con materiali naturali e sani, che utilizzano delle infrastrutture tuttora efficienti, dove camminano con i propri piedi per raggiungere il luogo di lavoro, la scuola e altri servizi rinunciando all’uso frenetico dell’automobile, mantenendo i rapporti sociali e interpersonali che di per se garantiscono anche la sicurezza e la solidarietà, Basta tenere in mente questo: Il settore delle costruzioni nei paesi industrializzati consuma fino al 40% delle energie totalmente richieste ed è generalmente caratterizzato da scarsi livelli di efficienza. Il relativo potenziale di risparmio è dunque enorme e, per di più, può essere effettivamente raggiunto nell’immediato futuro, adottando tecnologie semplici e già disponibili sul mercato, a patto di agire velocemente ed efficacemente”. (Luca Carboni, Bioedilizia, edizione Hoepli).
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sport
Con Te due: da bianconero in azzurro È Antonio Conte il nuovo commissario tecnico della Nazionale italiana. Si chiude così dopo tre scudetti e due Supercoppe italiane la storia d’amore tra la Juventus e l’allenatore pugliese, che ha firmato un contratto biennale da 1,7 milioni di ingaggio base, che saliranno fino a 3,5 grazie all’intervento dello sponsor tecnico dell’Italia, la Puma. Il bianco e il nero appartengono ormai al passato. Conte si veste d’azzurro.
Napoli - Roma Gemellaggio da fare
Nibali vince il Tour L’inno di Mameli sugli Champs Elysees, sedici anni dopo l’ultimo trionfo italiano. Vincenzo Nibali entra nella storia del ciclismo mondiale, aggiudicandosi la 101ª edizione del Tour de France. Il corridore siciliano emula così le gesta dei vari Bottecchia, Bartali, Coppi, Nencini, Gimondi e Pantani. “Un’emozione così forte credo di averla provata poche volte nella vita. È ancora più bello di quanto potessi immaginare, è veramente indescrivibile", sussurra Vincenzo con gli occhi lucidi.
da Napoli SPORT
GIACOMO AURIEMMA GIORNALISTA
A
l San Paolo il Napoli ha battuto la Roma con un secco 2 a 0. Ma il dolore continua. Era mercoledì 25 giugno quando Ciro Esposito moriva al termine di un’agonia durata quasi due mesi. Al dolore per una vicenda così assurda ci accompagnano la tristezza e la rabbia perché la morte del giovane tifoso napoletano rischia di essere dimenticata. Ancora una volta. Noi tutti dobbiamo fare fino in fondo la nostra parte per eliminare ogni forma di violenza dal calcio e tornare alla passione di una volta. Perché il calcio è, prima di tutto, divertimento, gioia. Unione. Perché le partite tra Roma e Napoli degli anni Cinquanta entravano nei film, come supporto di svago ed allegria. Perché negli anni Ottanta romanisti e napoletani erano uniti da un sano gemellaggio e sognavano di contrastare, insieme, l’egemonia di Juventus, Milan e Inter. Perché prima ci si poteva dichiarare tifosi di una delle due squadre, senza rischiare di incorrere in aggressioni fisiche. Oggi no, non è possibile. Il presente è cupo e le curve degli stadi si sono trasformate in teatro di insulti verbali e scontri. Ma c’è qualcuno che ha provato a predicare nel deserto e ad avviare un percorso che portasse al ripudio della violenza e dell’intolleranza. E’ nata così l’idea di lanciare un gruppo su Facebook che unisse tutti quelli che sognano di ripristinare un ideale gemellaggio tra le squadre di Roma e Napoli, due città straordinarie, legate da un rapporto plurisecolare. La speranza di tutti è che il calcio torni ad essere lo spettacolo più bello del mondo e che la violenza ceda il passo a valori più nobili. Perché la morte di Ciro Esposito, così come quella di tanti altri ragazzi, non sia vana.
La grande Germania e il “mediocre” 24 anni dopo la Germania è campione del mondo, ancora una volta contro l’Argentina, come nel mondiale italiano del ’90. Ancora una volta per 1-0, grazie alla rete di Mario Götze nei supplementari. Con questo successo i tedeschi raggiungono a quota quattro titoli l’Italia, che ha salutato il torneo dopo appena tre gare e deluso le aspettative. A deludere è stato soprattutto il ‘mediocre’ Prandelli, reo di non aver saputo gestire il gruppo in un momento così importante. Troppe scelte discutibili, prima, durante e dopo il Mondiale, quando il tecnico di Orzinuovi ha pensato bene di dimettersi e trasferirsi in Turchia. L’Italia fallisce ancora una volta, la Germania no. 86
Un poeta come Sinisgalli
da Matera NOSTRO SERVIZIO
L
eonardo Sinisgalli nasce a Montemurro, “la dolce provincia dell’Agri", come lui stesso l’ha definita, il 9 marzo 1908 da Vito e da Carmela Lacorazza. La sua infanzia indirizzerà lo sviluppo della sua poetica. A Montemurro Leonardo frequenterà la bottega di don Vito Santoro che gli farà da maestro e consiglierà alla madre di fargli continuare gli studi, nonostante la sua aspirazione fosse quella di fare il garzone presso la bottega del fabbro mastro Tittillo. La sua vita è segnata dal periodo romano ( 1918-1923); dal primo perido milanese (1932-1940). Poi la guerra. Segue il secondo periodo milanese ( 1948-1952), il ritorno a Roma ( 1952-1963). E poi, l’ultimo periodo sino al giorno della sua morte: 3 gennaio 1981. Ora vive nel ricordo degli amici e della Fondazione Leonardo Sinisgalli nata l'11 dicembre 2008 (atto costitutivo, Statuto), nell’anno in
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cui ricorreva il centesimo anniversario dalla nascita del poeta lucano, per volontà del comune ‘natale’ di Montemurro, della Provincia di Potenza, della Regione Basilicata e della Fondazione Banco di Napoli. Tale data ha costituito l’atto finale di un percorso cominciato il 31 gennaio del 2006, data del venticinquesimo anniversario dalla morte del poeta, giorno in cui si è sottoscritto il protocollo d’intesa istituzionale. Il 19 febbraio 2012 ha avuto inizio l’attività vera e propria della Fondazione. Da allora sono stati organizzati numerosi eventi con illustri ospiti, provenienti dai più prestigiosi atenei, che hanno reso la Fondazione una delle agenzie culturali più dinamiche e incisive nel panorama culturale della Regione. Il 22 aprile del 2013, sono state ufficialmente consegnate dal sindaco, Mario di Sanzo, le chiavi della struttura alla Fondazione che è diventata quindi ente gestore. Dopo 5 mesi di lavoro per l’allestimento museale, il 20 ottobre 2013 è stata inaugurata la Casa delle Muse, sede operativa della Fondazione, ma soprattutto spazio espositivo dedicato a Leonardo Sinisgalli e alle sue muse La casa delle muse, inaugurata domenica 20 ottobre 2013, rappresenta un importante traguardo per la Fondazione Leonardo Sinisgalli e per il Comune di Montemurro. La struttura di circa 200 metri quadrati, è in Corso L. Sinisgalli, al n. 44, proprio di fronte alla piccola casa dove nacque il poeta il 9 marzo del 1908 (campeggia sulla parete la celebre “Monete rosse"). Si tratta di un palazzetto acquistato e ristrutturato da Vito Sinisgalli, padre di Leonardo, nel 1922 (lo testimonia la data incisa sulla chiave di volta del bel portale in pietra). La casa delle muse non è solo la sede della Fondazione Sinisgalli, ma è anche Centro di documentazione sinisgalliana. In due sale sono conservati i suoi libri, 3.000; i suoi disegni; le sue pubblicità; gli attrezzi del suo lavoro le pubblicazioni editoriali (la Fondazione ha acquistato 70 rari volumi del poeta-ingegnere); le copertine delle Riviste che ha fondato e diretto (Pirelli, Civiltà delle Macchine, La botte e il violino); le sue poesie ed altro ancora. La casa delle muse è anche culla degli artisti cari a Sinisgalli: Gentilini, Cantatore, Turcato, Chersicla, Tamburi ecc. Ma soprattutto è forgia, nel senso sinisgalliano del ter-
Ci davano appuntamento a due passi da piazza di Spagna
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i davamo appuntamento a l’arco studio internazionale d’arte grafica in via Mario de’ Fiori 39/a, nel cuore dI Roma, a due passi da piazza di Spagna. Questa officina di arte e di cultura era diretta dall’infaticabile critico d’arte Giuseppe Appella. Come in una comunità religiosa, si sapeva che ad una certa ora, ci si trovava lì, per celebrare un rito. Si parlava di mostre, di convegni, di nuove pubblicazioni e di altro. Dopo le 20 si chiudevano i battenti e si andava a cena. Tutti insieme. Alla fine, si faceva la somma e ognuno pagava la sua parte. Attorno alla tavola si continuava a parlare, a discutere, a dibattere temi di attualità. Poca politica, molto cultura. Erano di casa Libero de Libero, Consagra, Mario Trufelli, Gino Montensano, Leonardo Sinisgalli, Maccari, Gentilini, Turcato e tanti altri. Gli amici di Roma automaticamente diventavano gli amici di Matera, dove Appella allestiva e continua a trasferire la sua bellezza artistica, tra i sassi. Appella stampava libri e opere originali con firma dell’artista. Acquaforte, xilografie e tante altre novità editoriali. Erano il suo pane quotidiano. “Noi siamo un popolo a sé”- diceva Leonardo Sinisgalli quando parlava della sua lucanità. Lui che aveva girato il mondo era legato alle olive della terra di Basilicata che mangiava con gusto. Li divorava, come caramelle. Era poeta Leonardo Sinisgalli. Era scrittore. Era architetto. Era nato in quella terra di luce e la portava sempre nel cuore. Le edizioni La Cometa pubblicavano i suoi volumi Poesie lucane (pp. 64, 2 illustrazioni), Un poeta come Sinisgalli, Iconografia, biografia e bibliografia con una “Avvertenza al lettore di Sinisgalli” di G. Contini; un testo e sei poesie inedite di L. Sinisgalli; una poesia di R. Carrieri, pp. 192, 72 illustrazioni, e tante altre opere. Conversare con Sinisgalli era davvero un piacere. Era un fiume in piena. Volava alto non solo fisicamente ma soprattutto intellettualmente. L’autoritratto che riportiamo è un dono che abbiamo ricevuto dalla sue mani e il testo della poesia che pubblichiamo ha il merito di essere inedita e di fare essere stata scritta da lui stesso con la sua Olivetti amica. G.G.
MATERA: CITTÀ EUROPEA CAPITALE DELLA CULTURA 2019
mine, laboratorio di iniziative e progetti. In due sale sono infatti presenti due percorsi, proposti da due giovani intellettuali. In una, Raffaele Luongo, geologo e fotografo, reinterpreta la celeberrima poesia “Lucania” di Sinisgalli attraverso il suo sguardo e il suo obiettivo. Nell’altra, Sara Possidente, ricercatrice e filologa, propone una sintesi del suo lavoro su dei manoscritti sinisgalliani custoditi presso la biblioteca nazionale di Potenza. La forgia di Sinisgalli: tra l’incudine dei documenti e martello delle idee, è infatti il titolo del contenitore organizzato in sinergia tra la biblioteca nazionale di Potenza e la Fondazione Sinisgalli e presentato nel capoluogo di Regione dal 10 aprile al 5 maggio 2013. Oltre alle mostre già citate, è possibile ammirare la mostra relativa al materiale ritrovato nella Soffitta della casa: fotografie, documenti, oggetti, libri e riviste dagli anni venti agli anni Quaranta.
Sarà la città di Matera la capitale europea della cultura 2019. Il nome è stato prescelto tra le sei finaliste ( Matera, Ravenna, Cagliari, Lecce,Perugia e Siena) è stato annunciato venerdì 17 ottobre 2014 il ministro Franceschini. Ha vinto la città amata da Adriano Olivetti, Pier Paolo Pasolini e Mel Gibon. Matera è la prima capitale europea della cultura italiana del sud, dopo Firenze (1986) e Genova ( 2004). I Sassi, i film, la sua storia, il cibo. “E’ la rivincita dei luoghi dove Cristo si era fermato” ha scritto il giornalista e saggista lucano Giovanni Russo, nato in terra di Basilicata nel 1925. Amico di Carlo Levi, di Leonardo Sinisgalli, di Rocco Scotellaro, di Mario Trufelli,e di Giuseppe Appella, Russo, all’indomani della scelta di Matera ha scritto: “Se questa città dimenticata da Dio in 50 anni è riuscita ad imporsi per il suo valore di simbolo della cultura, allora potrà farcela anche il nostro Paese”. 88
Vangelo e comunità La gioia di incontrare Gesù “
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bbiamo bisogno di comunicare le esperienze belle del Vangelo che facciamo nelle nostre comunità e di lasciarci contagiare dalla gioia dell’incontro con il Signore Gesù, il Risorto; gioia che proviamo ogni qualvolta siamo in missione e ci dedichiamo alle attività pastorali e alle opere di nuova evangelizzazione. Gesù è stato un uomo veramente felice, una persona storica che ha dedicato tutta la sua esistenza al Regno di Dio e all’ascolto della volontà del Padre, divenendo capace di condividere le povertà e le sofferenze della gente. Egli ha sempre vissuto con la gioia nel cuore, perché sapeva di essere unito al Padre. Senza questa felicità, senza la gioia di servire il Signore, non possiamo annunciare il Vangelo in un mondo che è già cambiato e si è allontanato dai valori della cristianità. Chi è innamorato si racconta, ossia sente il bisogno di condividere con gli altri l’esperienza di amore e la stessa passione che prova per la persona amata. Evangelizzare è raccontare-narrare la propria esperienza di salvezza, l’incontro vivo con Gesù Cristo. È bello avere una storia importante da raccontare: chi si sente amato, chi vive un’esperienza vera di conversione, di incontro con Gesù Cristo, si racconta. L’annuncio del Vangelo, allora, vive di una dimensione simbolica, ossia relazionale: chi incontra Cristo, chi incrocia il suo sguardo, ne resta colpito, cambiato, ammirato, trasformato, e non può non annunciare tale evento… Il simbolo dice relazione, comunione, partecipazione alla vita di Cristo e alla gioia stessa del Vangelo. Vorrei che le nostre comunità diventassero spazi di felicità ove poter raccontare l’esperienza concreta e semplice di Gesù Cristo, senza lasciarsi turbare da problemi strutturali (la fatiscenza dei nostri conventi, i problemi amministrativi e di manutenzione delle Chiese e di gestione delle nostre case) o dalla scarsità numerica dei frati. Quello che noi viviamo ogni giorno, anche se pochi e in difficoltà, lo possiamo comunicare con tutto il cuore, con tutte le nostre forze. Si evangelizza con poco: basta un cuore sereno e felice. Anche Maria, la Madre del Signore – nella sua piccolezza –, si racconta a partire dall’in-
contro con Elisabetta e nello stesso Magnificat… Maria, Madre dell’evangelizzazione, è capace di trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù (cf. PAPA FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium [24-11-2013 ], n. 286). A volte ci lamentiamo perché non abbiamo molti strumenti o risorse economiche per evangelizzare. Il punto di partenza è rappresentato sempre dalla fede e dalle motivazioni interiori. Chi trasfigura la propria vita in Cristo diviene, come Maria, un vero missionario. Al n. 288 di Evangelii gaudium si parla di uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice della Chiesa: tenerezza e affetto (sono una forza rivoluzionaria). In Maria vediamo che l’umiltà e la tenerezza nono sono virtù deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti. Maria è testimone di Dio che rovescia sistemi e valori, situazioni e povertà; sa riconoscere le orme dello Spirito nei grandi avvenimenti; è colei che sa raccontare il Vangelo e che serba-custodisce le cose di Dio nel cuore: è la vera evangelizzatrice, ossia la syn-ballusa (cf. Lc 2,19); colei che si muove – s’incammina – senza fretta o indugio per aiutare gli altri (cf. Lc 1,39). L’annuncio del Signore avviene sempre con delicatezza, nella logica evangelica del “se vuoi”. Abbiamo perso la capacità di raccontare, nelle nostre Chiese e comunità, la gioia dell’incontro con Gesù, il Vivente. Lo Spirito Santo è Memoria, colui che fa ricordare: perdere l’anàmnesis – e cadere nell’amnnesìa – significa smarrire la dimensione del ringraziamento e della lode, ossia la dimensione eucaristica”. Padre Edoardo Scognamiglio Ministro provinciale Lettera ai Frati, Napoli 16 luglio 2014
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Il Papa gesuita che rivela sempre se stesso
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VITTORIO V. ALBERTI, Il Papa gesuita. «Pensiero incompleto», libertà, laicità in papa Francesco, Mondadori Università, Milano 2014, pp. 192, 14 euro.
GIANFRANCO GRIECO GIORNALISTA E SCRITTORE
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ono più di 250 i libri su Papa Francesco, usciti in questo anno e mezzo di pontificato. Presentazioni fedeli ed originali; analisi, interpretazioni, critiche, apologie, illustrazioni si sono susseguite, ora alla ricerca di un profitto editoriale, ora per giustissima esplicazione della complessità, non certo nascosta, di questo papa: un turbinio di titoli, alcuni molto importanti e interessanti (e utili), altri invece molto faticosi da assimilare (se così si può dire!). Con una anticipazione su “L’Osservatore Romano”, abbiamo ora tra le mani il volume molto agile e sciolto scritto da Vittorio V. Alberti, officiale del pontificio consiglio della giustizia e della pace, già docente di filosofia alla Lateranense. Il trentaseienne Vittorio V. Alberti, di formazione ignaziana, tenta in questo studio di “girare” i contenuti di Papa Bergoglio in filosofia. Si tratta di un’impresa non di poco conto che, il testo non affronta in modo accademico, ingessato, ma passando attraverso la solare biografia dell’autore. Per quale ragione? Perché la spiritualità gesuitica è, come si legge, “esistenzialista”, passa cioè dall’esistenza, e con essa fa i conti a fondo, tra luci e ombre (molto in-
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teressante la dichiarazione secondo la quale Caravaggio – peraltro molto amato da Papa Francesco - è il pittore della spiritualità ignaziana). Così, partendo da qui, il libro passa da Socrate a Kant, da Caravaggio al film “Il settimo sigillo” fino ad un interessante accostamento tra Ignazio di Loyola e don Quijote de la Mancha e a un’inedita attualizzazione del San Francesco di Dante, in relazione a Benedetto XVI e Papa Francesco. La proposta filosofica? Superare la distinzione tra credenti e non credenti per passare a quella ( filosofica e martiniana) tra pensanti e non pensanti, per disegnare i tratti di una nuova laicità che superi, inoltre, gli storici steccati della distinzione tra laici e cattolici. Un tema, questo, già trattato dall’autore in un volume del 2012, accademico, intitolato Nuovo Umanesimo, Nuova Laicità. Il papa gesuita quindi, rivela, così, un tratto originale, perché rivolto in particolare a chi è lontanissimo dalla Chiesa, o le è addirittura avverso, e, nello stesso tempo, tende a contestare il rigorismo e il clericalismo che allignano tra noi. Un indizio per tutti: il capitolo intitolato l’anticlericalismo non antiecclesiastico.
Seminatore di gioia ANTONIO CANTISANI ARCIVESCOVO EMERITO DI CATANZARO-SQUILLACI
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uesti “Quaderni” del Vescovo Cozzi vogliono essere un invito fraterno a leggerli, perché basta darci uno sguardo per rimanerne presi e affascinati. Si può tranquillamente affermare che mons. Cozzi è stato davvero un pastore secondo il cuore di Dio e le attese del popolo. Se poi si vuole individuare un principio che dia
VINCENZO COZZI, Nelle tue mani, Quaderni spirituali, a cura di Mons Antonio Cantisani, La rondine, Catnazaro 2014, 15 euro.
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La quaresima della Chiesa
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ANDREA GAGLIARDUCCI E MARCO MANCINI, La quaresima della Chiesa, Tau Editrice 2014, 10 euro
ANGELA AMBROGETTI GIORNALISTA, DIRETTORE KORAZYM.ORG
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quaranta giorni che hanno cambiato il volto della Chiesa raccontati dalla penna di due giovani vaticanisti. “La Quaresima della Chiesa” di Andrea Gagliarducci e Marco Mancini (Tau Editrice, 10 euro) ha il pregio di mettere per la prima volta in una linea temporale continua i fatti di quei quaranta giorni iniziati l’11 febbraio 2013 con la storica rinuncia di Benedetto XVI. Ma va anche oltre il 13 marzo, giorno dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio, primo Papa latinoamericano e primo Papa gesuita della storia. Il libro cerca piuttosto di trovare una chiave di lettura, di comprendere come sarà gestito il pontificato di Papa
unità alla sua profonda vita spirituale e al suo generoso impegno apo¬stolico, esso va trovato nella “carità pastorale”, intesa come imi¬tazione e prolungamento dei sentimenti di cui era ricolmo il cuore di Cristo: “donazione totale di sé alla Chiesa”. È stato più volte ribadito che mons. Cozzi ha dato tutto. E si è dato tutto. Ha vissuto la sua vocazione al ministero ordinato puntando sulla piena identificazione tra sacerdote e ostia. E tutto questo con un solo scopo: perché gli altri — tutti gli altri, uomini e donne dell’intero pianeta — avessero la vita. E l’avessero “in abbon¬danza”. E così possedessero quella vera gioia che Gesù Cristo ci ha meritato col suo mistero pasquale e che nessuno potrà mai strappare dai nostri cuori.
Francesco, in che modo sarà portata avanti la riforma della Curia romana. E soprattutto, ripercorrendo passo dopo passo gli ultimi giorni di pontificato di Benedetto XVI, mette in luce molti dei “discorsi perduti” di Papa Ratzinger. Perché presi dall’emozione di quei quaranta giorni, le parole sono passate in secondo piano, le discussioni come scomparse. Eppure, in quegli ultimi discorsi, fino alla “buonanotte” con cui Benedetto XVI chiudeva il pontificato dalla loggetta del palazzo pontificio di Castel Gandolfo, c’è tutta l’eredità di Benedetto XVI. Sono le sfide che Papa Francesco ha raccolto e sta portando avanti. E si possono comprendere solo ripercorrendo il cammino della “quaresima della Chiesa”.
Parlando di mons. Cozzi, assolutamente non si esagera a in¬sistere sulla gioia. Certo, nei “Quaderni” si parla spesso di croci, di oscurità e di prove, ma in ogni situazione emerge — prepotente! — la gioia. Ed è per questo che, come già si diceva all’inizio, si sente il bisogno di ripetere che mons. Cozzi è stato un “seminatore di gioia”. Come risulta dai “Quaderni”, ce ne ha indicato con la vita anche la sorgente. Basta semplicemente dire: egli ha creduto all’Amore! E lui, questa parola, giustamente, la iniziava con la lettera maiuscola: il Signore infatti ci ama di un amore infinito e personale. Ne segue che, in concreto, il segreto della gioia sta nella fiducia. E in mons. Cozzi la fiducia fu davvero senza misura. Non si poteva perciò trovare per i “Quaderni” un titolo
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più bello e più significativo: Nelle tue mani. Si deve solo aggiun¬gere che gli fu di grande aiuto una sincera devozione alla Ma¬donna, “madre e sorella”. Non ci rimane che render grazie al Signore per le meraviglie che ha operato nel suo servo fedele, e, arricchiti dalla sua forte testimonianza, sentirci più sicuri nel voler percorrere la sua stessa strada. Quand’era in vita, mons. Cozzi fu particolarmente fedele alla “preghiera d’intercessione”. Ora che contempla per sempre il volto del suo Signore, gioiosamente cercato per un’in¬tera vita, la sua intercessione è senz’altro più potente. E noi pos¬siamo contarci: in forza di quella misteriosa e meravigliosa realtà che è la “comunione dei Santi”.
volti di casa nostra
VOLTI DI CASA NOSTRA
CHI È
Fra Egidio Imperato (nome di battesimo Gennaro) nacque a Portici il 2-1-1914. Entrato nella famiglia francescana dei Frati Minori Conventuali della religiosa provincia di Campania- Basilicata ha emesso la prima professione religiosa il 30-5-1935. Professione perpetua: 12-6-1938. Ordinato diacono: 4-7-1976. È morto a Napoli il 6-11-1988 presso il convento dell’Imma¬colata al Vomero da lui fondato.
La notizia La comunità religiosa dei Frati Minori Conventuali dell’Immacolata al Vomero, ha ricordato il trigesimo della morte di fra Egidio, ed ha offerto ai fedeli e ai benefattori, le parole del padre provinciale, Guido Giustiniano ne corso della santa messa esequiale del 7 novembre del 1988.
Con fra Egidio nei cieli del paradiso
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utti piangiamo la tua morte, Egidio carissimo, fratello esemplare e affezionato, testimone di fede e prodigo di carità, con la tua semplicità francescana, con il tuo servizio d’amore, con la tua incrollabile fede, con la tua dolce, tenera, pronta disponibilità verso i poveri e gli indigenti. Ti piangiamo, Egidio, perché ci è impossibile ricordarti senza il tuo gesto affettuoso, la tua sollecitudine e la tua attenzione per tutti quanti noi: per i fedeli della tua chiesa, per quelli che ti hanno incontrato una volta sola e poi ti hanno ricordato e amato, come se ti avessero conosciuto da sempre. La tua partenza ci ha impoveriti; ma la Volontà di Dio è la nostra santificazione. E la tua morte è come un segno della particolare benevolenza che il Signore ha voluto riservare a te, al tuo servizio per gli altri, frate diacono, per amore di Dio e per amore del prossimo. Ti ha voluto il Signore, prima di chiamarti nei cieli, al suo altare. Sentivi già nel palpito stanco del cuore la fatica del vivere, ma la voce, l’invito, erano chiari; e la tua fede, pronta e generosa come sempre, ti ha guidato alla sua mensa: la tua risposta d’amore all’amore del Cristo dell’Altare. E ci sei andato: hai voluto parlargli, affidargli i tuoi ultimi istanti terreni, e per il viaggio nei Cieli il Signore ha voluto farti dono della sua presenza. Tu, con l’Eucarestia nel cuore, ciborio di fede, pronto per il regno dei cieli, con la tua risposta prima della morte, hai fatto assurgere la vita passata ad un unico atto di devozione a Dio. E poi... il tempo di sussurrargli una preghiera e sentirlo vivo nel tuo cuore francescano, e con lui partire nella compagnia dei santi, libero dalle sofferenze e dal peso del corpo, nei cieli di Dio, che è la vita, a celebrare la gloria della tua eucarestia di dia¬cono e della tua consacrazione di frate francescano conventuale.. Il Signore ha voluto ricompensarti così, con il suo mistero di amore presente, e ti ha voluto rendere altare di vita, mentre morivi: per gli altari che tu gli hai costruito, per la chiesa che tu hai innalzato, alla gloria dell’Immacolata,
madre sua e madre nostra. Nella luce di Dio, che conosce i misteri delle cose, la tua morte è stata forse l’ultimo mattone che mancava alla tua chiesa. E il tuo corpo, disteso sulla povertà della terra, nella sagrestia del tuo impegno pastorale, ci sembra l’offerta definitiva di una vita donata alla Chiesa di Dio e all’amore degli altri. Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli: affascinato dall’ideale del poverello d’Assisi, ti offristi al Signore nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali; nell’esercizio della tua vita religiosa, giorno dopo giorno, rendesti povero il tuo cuore da affetti e legami, e l’offristi, libero e pronto, all’accoglienza generosa dei fratelli. Cordiale, affettuoso, sollecito, premuroso sei stato con tutti noi, e hai amato la tua Provincia Religiosa e i conventi in cui l’obbedienza ti pose. Con l’offerta quotidiana del tuo sentimento di servizio, non sei stato mai capace di compiere un gesto che non sia stato, nella tua intenzione, un atto di risposta a Cristo, che ti aveva chiamato: sessant’anni di consacrazione umile e feconda di povertà, di offerta, di servizio, di attaccamento all’Ordine, alla Provincia religiosa. Ti ricordano ancora scavare con le mani nelle macerie di santa Chiara, per rinvenire, nelle pietre fumanti per l’incendio, le suppellettili della chiesa e ti ricordano pieno di zelo per porre al riparo gli oggetti liturgici, con quell’amore che si apriva alla fede, come il cuore prorompe in preghiera commossa di gioia per il bene che Dio permette di compiere. E i confratelli più anziani non hanno dimenticato la tua diligente presenza nella nostra Basilica di San Lorenzo Maggiore. Offristi il tuo servizio, nel disagio di una casa che a quei tempi non aveva nemmeno il letto, e ti accontentavi, per il bene dell’Ordine, di dormire con l’indimenticato fra Andrea sui banchi della sagrestia della chiesa, che arricchisti di oggetti preziosi per il culto divino. E furono quegli anni, anche quelli della tua carità, per alle92
viare il dolore dell’uomo ferito dalla guerra, con quanto la provvidenza ti permetteva di operare e di fare. Consolasti il dolore dell’uomo, alleviasti i bisogni delle famiglie, consigliasti quanti, dubbiosi nello smarrimento del tempo, erano incerti nella fede. Offristi la tua consacrazione religiosa all’impegno quotidiano di costruire alla Madre di Dio una chiesa che fosse stata capace di nutrire la fede in questo angolo del Vomero, con lo zelo e l’attività apostolica dei tuoi confratelli, che dalla chiesetta della Piccola Pompei, pensarono di costruire una nuova casa religiosa. In cammino per Napoli intera, sotto il sole o la pioggia, tu non solo chiedevi, ma aprivi il cuore dei fedeli alla speranza di Dio, alla Parola del Vangelo, per rendere sacro un quartiere con un Altare nuovo, frutto, come il pane, della fatica umana. Offristi al Signore, perché il sogno fosse vero, qualcosa di te. E in quegli anni di progetti, di piani, di attese, in continuo lavoro, incominciò la sofferenza ai tuoi occhi. Non ti lamentasti però: tu vedevi con la tua fede di frate francescano; e bastava toccarti e stringerti la mano per essere da te riconosciuti, col sorriso di un cuore consacrato. E la tua gioia per la consacrazione di questa chiesa, tu, quel giorno, la elevasti a Dio come preghiera di ringraziamento e di riconoscenza. E ti commuovevi per la tenerezza della devozione mariana, quando ci invitavi ad alzare gli occhi e a fissarli in Maria Immacolata, ragione
e significato della tua consacra¬zione e del tuo servizio, centro della vita ecclesiale di questa comunità parrocchiale. Per sentire nel profondo la ragione di fede e di Vangelo del tuo servizio, chiedesti ai superiori di essere ordinato Diacono. Lo facesti per servire nell’amore di Cristo che donavi, per essere forse più legato all’altare che avevi fatto costruire. Fu certamente un dono che il Signore volle dare al tuo animo semplice e mite, un dono alla tua risposta d’amore, alla tua testimonianza francescana, alla tua diligenza liturgica, al tuo impegno con cui curavi i chierichetti nel servizio dell’altare. Ai piedi del Cristo, che ha nutrito ieri il tuo cuore per il viaggio nei cieli, che nutre di eterno la nostra speranza e consola il nostro cuore nel dolore, noi confratelli, i tuoi parenti, i fedeli, deponiamo la nostra fede, certi che il tuo corpo un giorno sarà trasformato nella gloria della Resurrezione. Tu, con la tua dolcezza, dall’alto dei Cieli, impreziosisci, con la benevolenza di Dio, con la materna assistenza di Maria, con la prote¬zione di san Francesco e dei suoi santi, la nostra povertà spirituale e implora per noi, fratelli tuoi, il conforto e la consolazione. La tua memoria, Egidio, è ora un dono di più, che arricchisce la nostra fede, mentre tutti siamo nell’attesa dell’eternità, quando ci ritroveremo insieme nel regno del nostro Dio, nei cieli del Paradiso. Guido Giustiniano
«Facciamo l’elogio degli uomini buoni: il Signore ha profuso in essi la gloria»
che si adoperò per intitolare la piazza antistante all’Immacolata, con una statua della Vergine, collocata su una delle colonne recuperate dalla demolizione della stazione ferroviaria di Napoli. La cura del servizio liturgico fu al centro delle sue attenzioni; con i giovani del quartiere fece nascere il «Collegio liturgico» (già intitolato a fra Egidio nel X anniversario della sua dipartita). Con i ragazzi e i giovani, ormai uomini, anche le rispettive famiglie, collaborando nell’erezione della Chiesa, hanno dato un notevole contributo alla formazione cristiana delle giovani generazioni.
Come suggerisce il libro del Siracide (c. 44), la parrocchia dell’Immacolata al Vomero ha ricordato fra Egidio Imperato a 25 anni dalla sua morte. Una fraterna e affettuosa memoria, desiderata e preparata per tempo, con la raccolta di testimonianze, foto, ricordi vari... Hanno collaborato in tanti per allestire una mostra permanente nella chiesa che fra Egidio riuscì a realizzare con la tipica semplicità francescana. L’idea maturò nel centenario della proclamazione del dogma dell’Immacolata. Insieme con i suoi confratelli della Piccola Pompei, si prodigò per anni all’impegno quotidiano di costruire alla Madre di Dio una chiesa che nutrisse la fede nel cuore del Vomero. Furono anche gli anni della carità e della solidarietà, consolando le sofferenze e il dolore dell’uomo ferito dalla guerra, alleviando i bisogni delle famiglie, confortando e consigliando gli smarriti.
«Un frate francescano nella raccolta di mattoni» Di ogni attività è stata fatta debita memoria nella «Tavola rotonda», animata da diversi testimoni ( padre Leonardo Mollica, guardiano e parroco; padre Oreste Casabuto; Gianni, Patrizia, Eligio, Pasquale; padre Edoardo Scognamiglio, ministro provinciale dei Francescani Conventuali di Napoli), e nella rappresentazione teatrale, «Un frate francescano nella raccolta di mattoni», preparata da Gabriella e Antonino, e interpretata con fervore da un nutrito gruppo di uomini, donne, giovani e ragazzi della parrocchia. La memoria di fra Egidio resta un grande dono che arricchisce la nostra fede, come attesta la lapide già posta all’entrata della chiesa: Questo tempio semplice e pervaso di luce è anche memoria e immagine di fra Egidio Imperato, dei Minori Conventuali, che fervorosamente lo vagheggiò e con impegno instancabile e la collaborazione dei fratelli nella fede eresse in onore della Madre Immacolata. Giorgio Tufano
«Mi divora lo zelo per la tua casa» (Sal 69) In cammino per tutta Napoli, Fra Egidio visse la sua consacrazione religiosa non solo chiedendo i mattoni necessari alla costruzione della nuova Chiesa, ma anche aprendo il cuore dei fedeli alla speranza, alla Parola di Dio e alla Sua misericordia. L’opera iniziò con la cappella nella salita Arenella e proseguì con l’erezione dell’attuale chiesa e relativo convento francescano; non mancarono difficoltà di ogni genere, ma i lavori furono portati a termine con il contributo generoso della popolazione del quartiere,
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Napoli, 5 ottobre 2014 professione solenne di fra Paolo Carola Nocera Inferiore, 27 settembre 2014 25 di professione solenne di fra Cosimo e fra Damiano Antonino
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Assisi, 30 agosto 2014 professione semplice dei novizi
Ravello, 26 ottobre 2014 - Pellegrinaggio Gifra-Ofs di Nocera Inferiore
Benevento, 22 settembre 2014 Rinnovo Consiglio Regionale M.I. Campania
Baia Domizia, 17 novembre 2014 compleanno di fra Vito Freda
Napoli, 19 novembre 2014 Fra Francesco Celestino discute la tesi di dottorato in Sacra Teologia
Napoli, 3 ottobre 2014 - Transito di San Francesco con le clarisse di Arco Mirelli
La Verna, 4 settembre 2014 Giornata di spiritualitĂ con i frati
Baia Domizia, 19 ottobre 2014 60° di sacerdozio di P. Luigi Casillo
Montichio, 29 settembre 2014 Processione di San Michele
Maddaloni, 17 novembre 2014 - Festa dellâ&#x20AC;&#x2122;Ofs
Aversa, 16 novembre 2014 Promessa e accoglienza Gifra