Luce Serafica

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Numero II/2010 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica

un bene fragile e raro

La speranza,


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Editoriale

Sommario 2/2010

Passio Cristi passio hominis

3 Editoriale di Paolo D’Alessandro 4 Finestra sul mondo di Felice Autieri 5 Voci di Chiesa La redazione 6 Famiglia oggi di Gianfranco Grieco 7 Psicologia di Caterina Crispo 8 Orizzonte giovani di Luca Baselice 9 Dialogo di Edoardo Scognamiglio 10 Missioni di Giambattista Buonamano 11 Liturgia di Giuseppe Falanga 12 Dabar di Cyrille Kpalafio 14 Pastorale di Antonio Vetrano 15 Vocazione di Alfredo Avallone 16 Spiritualità di Raffaele di Muro 17 Asterischi francescani di Orlando Todisco 18 Arte di Paolo D’Alessandro 19 Cinema di Giuseppina Costantino 20 Sport La redazione 21 Eventi La redazione 22 In book La redazione 23 Fumetti di Mario Ferrone

Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006 Anno V – n. 2/2010 Abbonamento annuale 20 euro. CCP: 73170060, intestato a Luce Serafica, Piazza Dogana, 13 – 82100 Benevento Direttore Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro E-mail: pdart@libero.it Stampa Laurenziana S.r.l. (Na)

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Dal 10 aprile al 23 maggio, in occasione anche della visita pastorale di papa Benedetto XVI, ci sarà un’esposizione straordinaria nel duomo di Torino della Sindone. Quest’ostensione sacra avviene dopo l’intervento per la conservazione a cui la Sindone è stata sottoposta nel 2002. La Sindone è un lenzuolo di lino tessuto a spina di pesce dalle dimensioni di circa m. 4,41 x 1,13, contenente la doppia immagine accostata per il capo del cadavere di un uomo morto in seguito a una serie di torture culminate con la crocifissione. Secondo la tradizione cristiana, si tratta del lenzuolo citato nei Vangeli che servì per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro. Questa reliquia è, quindi, per i credenti, un grande segno della Passione di Cristo e testimone silenzioso della sua risurrezione. Il motto di questa nuova ostensione della Sindone è «Passio Christi passio hominis», un invito, quindi, a contemplare nell’immagine della Sindone il dolore di ogni uomo, per raccogliere in uno sguardo umano e di fede tutte le indicibili sofferenze dell’umanità. Sofferenze personali e collettive, sofferenze provocate dagli uomini, dalla natura e dai nostri peccati. Passio Christi, passio hominis, sperando che la passio Christi diventi, per tutti noi, anche la nostra passione, come vera ragione di vita. Carissimi lettori, auguro a ciascuno di voi, per la Santa Pasqua, di vivere, conoscere e amare di più Gesù, e che la nuova ostensione della Sindone possa aiutarci a comprendere l’amore di Gesù per i fratelli, i peccatori, gli ultimi, per le persone che soffrono. Penso soprattutto alle vittime della guerra, delle catastrofi naturali, ai morti di Haiti, del Cile, delle Filippine. Il Signore sia, per tutti, segno di speranza! PAOLO D’ALESSANDRO


FINESTRA SUL MONDO di Felice Autieri

La speranza, un bene prezioso e fragile... Il violento sisma che ha devastato sto, perché non riflettiamo su ciò che l’isola di Haiti è balzato nelle crona- è veramente importante nella nostra che dei telegiornali: abbiamo letto a vita? Siamo tutti travolti dallo stress più riprese un numero considerevole degli impegni quotidiani, dalle situadi articoli. Abbiamo partecipato alle zioni familiari più o meno significastorie di speranza di persone estratte tive che ci inchiodano, talvolta, a vive da ciò che restava degli edifici problemi che con il buon senso e con crollati o di chi, ancora intrappolato un pizzico di umiltà potrebbero essotto le macerie, riusciva a inviare sere affrontati e risolti con meno sms, alle altre di chi non ce l’ha fatta. stress e, mi si consenta, più intelliLe violenze non hanno risparmiato le operazioni di soccorso, uno statunitense è morto e altri tre sono rimasti leggermente feriti in circostanze ancora da chiarire; in precedenza si era diffusa la notizia del ferimento di una trentina di americani in un incidente ad Haiti. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha chiesto 1.500 poliziotti e resti della Chiesa del Sacro 2.000 caschi blu in più Haiti, Cuore. A destra: alcune donne sull’isola, i numeri non piangono per la morte dei loro cari. sono ancora stati definiti e dovranno genza. Poi sopragesserlo a livello europeo nei prossimi giunge un evento giorni. A Bruxelles si è parlato di un tragico che ci scuote contingente Ue di 140-150 uomini dal nostro piccolo complessivi, intanto sull’isola è arri- mondo, la comprensivato l’ex presidente Bill Clinton, in- bile paura che ne scaviato speciale dell’Onu. turisce ci consente di Abbiamo ascoltato o letto con atten- affidarci al Signore o, zione l’impegno di volontari, uomini purtroppo, di imprecare contro di lui delle varie forze armate dei diversi che ha permesso questa immane trapaesi che si sono impegnati nelle ope- gedia. Ci creiamo un “dio” pagano a razioni di soccorso. Ci siamo sdegnati nostro uso e consumo, sul quale sfodinanzi alle scene di sciacallaggio di gare le nostre paure, le nostre frustraessere abietti che senza nessuna re- zioni, la nostra incompiutezza di mora rubavano i pochi oggetti perso- uomini. Abbiamo paura di ciò che nali di quegli sventurati che avevano potrebbe sconvolgere le nostre cerperso tutto, casa compresa. tezze, di ciò che mette in discussione Dinanzi a tutto questo mi sono chie- la nostra vita, la nostra routine quo4

tidiana, dove Dio, quello vero, quello dei cristiani, ci parla attraverso le nostre “umane imperfezioni” e quelle degli altri. Può essere il Dio che compie miracoli, ma è soprattutto Dio che ci accompagna, ci sostiene nel nostro percorso umano e spirituale, che sa lavorarci con la pazienza del saggio artista, affinché, potati i rami secchi, possiamo crescere in modo rigoglioso ed essere degni figli di un tanto Padre. Il terremoto di Haiti, forse qualche lutto che potrebbe colpire la nostra famiglia, ci dovrebbe indurre a una pacata e, tuttavia, seria riflessione su ciò che conta veramente nella vita. Totò ci ricorda che la morte è una “livella”, e senza essere macabri, dovremmo ricordare più spesso nella nostra vita a ciò che siamo

e a ciò che facciamo. Dimentichamo che non siamo eterni e che alla fine dei nostri giorni è ciò che abbiamo trasmesso o meglio testimoniato: l’amore. Basterebbe forse questa piccola riflessione per prepararci alla Quaresima e a maturare nel nostro percorso di fede con quella semplicità francescana di chi sa stupirsi con gioia dinanizi al mistero della croce.


VOCI DI CHIESA La redazione

Il Cortile dei pagani e la ricerca di Dio In continuità con La lettera ai cercatori di Dio della Cei, presentata nel numero precedente di Luce Serafica, presentiamo alcune riflessioni di Benedetto XVI proprio sul tema della ricerca di Dio. 1. L’aiuto della Parola e della grazia Nel suo viaggio apostolico in Francia, a Parigi, Benedetto XVI – nel Discorso tenuto il 12-9-2008 –, incontrando il mondo della cultura al Collège Des Bernardins, si soffermò sul monachesimo e sulla tradizione teologica da loro avviata a partire dal principio quaerere Deum. Il “cercare Dio” avviene, anzitutto, mediante l’ascolto della Parola e la sua interpretazione attraverso la comunità dei credenti. In questo cercare, il dono della grazia – lo Spirito Santo – ci precede. Per cui, chi cerca è anzitutto trovato da Dio. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre, dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via, o meglio che, in questa Parola, Dio stesso si faccia incontro agli uomini e, perciò, gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo concreto creando, così, in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. 2. Gesù e il tempio Ultimamente, Benedetto XVI è ritornato a riflettere sul tema della ricerca di Dio, soffermandosi soprattutto su coloro che non credono. Infatti, nel Discorso del 21-12-2009, preparato

per gli auguri natalizi da rivolgere alla Curia romana, Benedetto XVI si è lasciato ispirare dall’episodio in cui Gesù scaccia i venditori dal tempio, riflettendo su quel atrio (cortile) del tempio riservato ai gentili. Il papa afferma: «A Parigi ho parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cf. Is 56,7; Mc 11,17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cf. At 17,23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini

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possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto». 3. Rivedere il nostro modo di fare pastorale Questo pronunciamento di Benedetto XVI, nell’ottica del quaerere Deum, apre nuove prospettive non solo per il dialogo interreligioso e per l’istituzione della cattedra dei non credenti in ogni realtà ecclesiale, in quanto lascia intendere il significato universale della salvezza a partire dall’esperienza di Gesù Cristo, bensì per la valutazione dello stile pastorale e la forma di missione attuati nelle Chiese locali. La pastorale ordinaria delle nostre comunità è ancora incentrata quasi totalmente sull’aspetto celebrativo e sacramentale. La stessa catechesi è preparata essenzialmente per il piccolo gregge, per i pochi praticanti. Le recenti indagini socio-religiose rilevano l’urgenza di un dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto. Per raggiungere il gregge smarrito o i lontani è bene ri-aprire o creare “cortili” intorno al tempio, dove la gente vive, e dove i pastori sono chiamati a testimoniare la loro fede nell’uomo, oltre che in Dio, e praticare la carità accogliente verso i lontani per provocarne un possibile riavvicinamento


FAMIGLIA OGGI di Gianfranco Grieco

La famiglia cristiana soggetto di evangelizzazione Chi si impegna a formare una famiglia cristiana, deve sapere che è chiamato ad essere non solo oggetto di evangelizzazione, ma soggetto di evangelizzazione. La famiglia cristiana ha una vocazione e una missione: La vocazione: inserirsi nel piano creativo di Dio che è Amore – Dio è amore ci ricorda l’apostolo Giovanni nella prima Lettera – per amarsi reciprocamente e dare la vita. Essere come Dio creatore di vita. Tradurre questa voca-

Costruire una famiglia sana Nei progetti di quanti si preparano al matrimonio vi è questo desiderio che si trasforma in proposito: voglio costruire una famiglia sana, seria, robusta, che si basa sui valori, che ha dei chiari obiettivi da raggiungere non solo sul piano economico, ma, soprattutto sul piano etico. La famiglia sana è una risorsa per la società. La famiglia malata è un grande problema per ogni società. Vi fornisco delle cifre, per toccare con mano, dove potremmo andare, se non si è attenti nel costruire la casa-famiglia sana. In Francia, i figli di genitori separati, nella percentuale del 25%, continuano a presentare, anche a distanza di anni, problemi psicologici, di adattamento sociale, di rendimento scolastico e lavorativo; costituiscono il 50 % dei tossicomani e l’ 80% dei ricoverati in psichiatria. Negli Usa, i figli cresciuti senza la presenza paterna costituiscono il 60% dei giovani suicidi, il 60% delle vittime degli abusi sessuali, il 72% degli adolescenti omicidi, l’85% dei giovani in carcere, il 90% dei senza fissa dimora. Sono dati impressionanti che fanno riflettere e richiedono con coraggio una scelta di campo. Se percorri questa strada – quella giusta arrivi al raggiungimento di questo traguardo: costruire una famiglia sana; altrimenti, si corre il rischio di fallire tutto. Oggi la famiglia e la vita attraversano un momento difficile. Non si parla più di «famiglia» ma di «famiglie» con tutti i significati distorti che si percepiscono. Anche la vita viene ferita da più parti: aborto: legge 194, pillola del giorno prima, pillola del giorno dopo, RU486, eutanasia, clinica della «dolce morte», testamento biologico: tutto e solo scienza farmaceutica (le multinazionali!) e niente più etica. Tutto si vuole risolvere in casa: dalla cucina al bagno. La vita è dono di Dio: dal momento del concepimento sino alla morte naturale. Bisogna amare la famiglia e la vita, metterci passione per questi due progetti.

zione in missione significa, per la coppia, trasmettere la stessa vita di Dio – che è la fede in lui - nei figli. A Budapest ho incontrato un famiglia cristiana soggetto di evangelizzazione, che aveva questa fisionomia cristiana. Durante le celebrazione della santa Messa, il papà dentista di fama europea esercitava il suo ministero di diacono permanente; la sua sposa proclamava le letture bibliche ; il piccolo serviva all’altare; le due figlie già grandi raccoglievano durante la messa le offerte per l’altare: questo è un esempio di famiglia cristiana che da oggetto di evangelizzazione diventa soggetto di evangelizzazione. Dietro a questo punto di arrivo vi è tutto un cammino, una proposta educativa, uno sforzo che porta frutto. 6


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

La comunicazione interpersonale (Roth, 1986) L’uomo è un essere logico-dialogico: egli è le sue parole, e il suo coinvolgimento nel mondo avviene mediante il discorso e la parola. 1. Alla ricerca di una definizione La comunicazione è stata definita, in prima istanza, come la trasmissione di un’informazione attraverso un messaggio inviato da un emittente a un ricevente. Schemi recenti si focalizzano non solo sul contenuto del messaggio, ma anche e soprattutto sul contesto comunicativo, sulla capacità di interpretazione dei soggetti coinvolti e sulla qualità del segnale attraverso cui il linguaggio diviene comunicativo. In questa prospettiva, entrambi gli interlocutori sono attivi e il focus si accende sul comune codice della comunicazione. Si riconoscono, infatti, come fattori essenziali della comunicazione: l’emittente, il ricevente, il contenuto dell’informazione o messaggio, l’insieme dei simboli e segni attraverso cui si veicola il messaggio o codice,il contesto,l’effetto, il tempo. Tutte le situazioni impersonali e interpersonali sono comunicative, non si può non comunicare, ogni comportamento umano, come l’attività o l’inattività, le parole o il silenzio, infatti, esprimono un messaggio. Il comportamento non verbale, come la postura o un gesto, il sorriso o un aspetto del volto esprimono sentimenti e sono pienamente in grado di comunicare. La comunicazione può essere fraintesa, disturbata ma non può non esserci. La comunicazione ha, dunque, un aspetto “pragmatico” essenziale,

rappresentato dalle sue ricadute relazionali e comportamentali. Il contenuto della comunicazione ne costituisce il suo aspetto esterno, mentre la dimensione più intima ne definisce l’aspetto di relazione; tale aspetto relazionale viene anche inteso come meta-comunicazione, ossia come strumento che consente agli individui di tessere relazioni e come capacità di avere consapevolezza di sé e degli altri. Una comunicazione “sana” riconosce, in primo luogo, un livello di relazione ade-

guato; se ogni partecipante alla comunicazione è consapevole delle altre parti e pone in atto tentativi di percezione e comprensione che superino l’impenetrabilità dell’altro, il dialogo risulterà efficace ed efficiente. In tale prospettiva, la comunicazione tra le parti sarà nel contempo “simmetrica”, cioè paritaria tra gli interlocutori, e “complementare” cioè di riconoscimenti dei ruoli e di integrazione. 2. Ascoltare l’altro: una questione di formazione Ne deriva che si comunica attraverso e grazie alla capacità dell’individuo di predisporsi all’ascolto, alla recezione, alla comprensione e, dunque,

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alla relazione. Ascoltare l’altro diviene la pietra miliare di ogni forma di dialogo pur se resta una risorsa poco conosciuta e altrettanto scarsamente valorizzata. La formazione si fonda sulla disponibilità all’ascolto, sulla capacità di decentrarsi, di venire incontro e condividere quello che ci viene dall’altro, in modo libero da pregiudizi e da paure. La frustrazione e la paura sono, infatti, sentimenti che molto comunemente sorgono quando ci avviciniamo all’altro e che, tuttavia, non devono essere misconosciuti, negati o rimossi, anzi devono essere accolti e affrontati, perchè possono fungere da guida e da incentivo all’ascolto: il dialogo, fondato sull’ascolto, ci permetterà di percepire l’altro meno estraneo e meno temibile. Parte integrante di tale “formazione all’ascolto” è rivestita dal riconoscimento e dalla gestione del conflitto. Il termine conflitto evoca usualmente scenari negativi, in realtà grazie ad un’adeguata analisi del conflitto e a soluzioni idonee e creative,i conflitti possono risultare molto produttivi. È importante riconoscere alcune dimensioni proprie del conflitto per potersi orientare verso una gestione fruttuosa. La storia del conflitto, ossia come si è generato e da quanto tempo dura: questo può spiegarci perchè ora ci troviamo in questa situazione di difficoltà. Il contesto in cui si sviluppa il conflitto, ossia l’ambiente e le persone coinvolte, dalla disamina di questo aspetto può emergere la natura e la gravità della situazione contingente.


ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

La Gioventù Francescana: «Generoso segno dei tempi» Da pochi mesi, sono entrato in questo meraviglioso e a volte strano meccanismo della gioventù, che coinvolge, edifica e ti fa interrogare. Quale assistente Regionale della Gioventù francescana della Campania – Basilicata, dei frati Minori Conventuali, mi sono sentito accolto e parte integrante di una fraternità universale, che ha come

misterioso d’amore, che il Signore ha su ciascuno di noi. Quando siamo insieme, nasce la gioia della condivisione, della verifica sincera delle propria storia, del cammino personale e comunitario. Il desiderio di essere il lievito nella chiesa, che fermenta tutta la pasta, è la ragione dell’entusiasmo che porta avanti questi giovani. Anche Francesco d’Assisi, umile servo di Dio, sottomesso alla Chiesa, quale madre amorevole che cura e ama tutti i suoi figli, cresceva nella sincera comunione con i suoi frati, e diventava “Nuovo Segno dei tempi” per tanti giovani. Le ostili contese non hanno ragione di esistere in questi giovani, i quali amano e si sacrificano per la fraternità. Tale dono di grazia è, per loro, luogo non solo di condivisione, ma anche di perdono e di riconcilia-

Sopra: Capitolo Naz. GiFra, Assisi 5-7 febbraio 2010; a destra: Assemblea regionale GiFra, Vico Equense (Na) 25-27 settembre 2009; sotto: Assemblea regionale GiFra, Montecalvo Irpino (Av) 14-15 novembre 2009.

centro e obiettivo: “Servire Cristo Signore in fraternità”, testimoniando la gioia di sentirsi parte di un progetto

zione. Per questo, ogni giorno che passa, sento che questi giovani, “la Gifra”, trasmettono, a piene mani, entusiasmo e voglia di vivere a servizio del Vangelo, contagiando i loro coetanei a fare esperienza di Dio. Essi camminano con una marcia in più, sono sensibili alle difficoltà umane, alle povertà materiali e spirituali, alle necessità di un mondo che ha bisogno di testimoni, non di spettatori. È questo il motivo per cui essi sono il “Segno Generoso dei tempi”.

Visita il nostro sito Gi-Fra. Campania - Basilicata

www.gifracampaniabasilicata.org 8


DIALOGO di Edoardo Scognamiglio

Francesco e il Sultano: il dono dell’amicizia In occasione dell’udienza generale di mercoledì 27 gennaio 2010, Benedetto XVI si è soffermato sulla figura e la spiritualità di san Francesco d’Assisi. Benedetto XVI ha presentato il Poverello d’Assisi come un autentico “gigante” della santità, che continua ad affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione. Il papa ha riletto i tratti essenziali della gioventù di Francesco e del suo cammino di conversione, fino all’invito che il Signore gli rivolge per riparare la sua Chiesa. Successivamente, Benedetto XVI ha invitato i fedeli a superare ogni cesura – e pregiudizio storicocritico – tra un possibile Francesco della tradizione, asservito al potere papale, e il Francesco storico collegato solo a Cristo e lontano dall’oscurantismo della Chiesa di quel tempo. 1. Il vero Francesco Esplicitamente, Benedetto XVI ha affermato: «Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni». Il papa, a un certo punto della sua riflessione, ha menzionato l’incontro tra Francesco e il Sultano d’Egitto, confermando – dal punto di vista teologico, anche se implicitamente – quello che oramai è noto come lo “Spirito di Assisi”: «Nel 1219, Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il cri-

stianesimo e l’islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cf. Nostra Aetate, 3)». 2. L’altro come dono Conosciamo lo zelo apostolico e missionario di Francesco, come pure le sue prime esperienze missionarie. Il suo stile missionario e dialogico, inconfondibile e originale, si pone a modello per tutti negli anni caldi delle crociate a motivo del riscatto del santo sepolcro in Oriente, e per respingere l’avanzata dei musulmani in Occidente. Contro la diffusa mentalità tra i cristiani di sterminio e di difesa assoluta nei confronti dei saraceni e dei pagani, Francesco adotta uno stile missionario dialogico, nell’ottica del Vangelo. Egli vede nello straniero un fratello che è dono del Signore, nonché bisognoso di luce per riconoscere il Cristo. L’altro non è un nemico da annientare, né un pericolo da sopprimere, bensì un’opportunità per annunciare il Vangelo e creare spazi di dialogo e di amicizia. L’altro è una risorsa, un bene. Non costituisce un ostacolo alla propria identità. I musulmani, per Francesco, erano

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una risorsa e non un pericolo per la cattolicità. Il Poverello, nel 1219, volle partire per l’Egitto dove era in corso la quinta crociata indetta dal Concilio Lateranense IV (1215). In compagnia di fra Illuminato, secondo le fonti storiche – anche se con notevoli discordanze –, Francesco si recò con zelo e fiducia dal sultano Melekel-Kâmel (1180-1238) e si conquistò la sua amicizia. 3. Un modello per la missione Questo episodio determinò la descrizione di uno stile ben preciso per coloro che liberamente desideravano andare presso i saraceni. Infatti, la modalità della presenza e dell’annuncio evangelico in mezzo ai saraceni poteva avvenire in due modi: essere soggetti a ogni creatura e confessare di essere cristiani; annunciare il Vangelo quando piacerà al Signore, senza imposizioni. È lo stile della mitezza e della testimonianza cristiana che supera, sia dal punto di vista teologico che strettamente pastorale, la sperimentata e inutile violenza delle crociate. Francesco chiede, semplicemente, ai suoi frati, di non vergognarsi del Vangelo e di non turbarsi, né di avere paura per l’incolumità fisica (cf. Regola non bollata XVI,10-19: FF 45). Perché i frati hanno donato se stessi al Signore e abbandonato i loro corpi a Gesù Cristo e per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili.


MISSIONI di Gianbattista Buonamano

Viaggio in Burkina Faso Non è certo cosa semplice descrivere le sensazioni, ciò che si porta negli occhi e nel cuore dopo la breve, 5-12 dicembre 2009, ma intensa visita in Burkina Faso ovvero il “paese degli uomini integri”. Sono stato presso i confratelli missionari di Sabou che operano in quella terra da circa 10 anni. Quando si parla di Africa non è facile esprimere la realtà e anche per chi ascolta è difficile comprendere. Solo quando si vede e si respira la realtà, si capisce qualcosa. Il Burkina, paese dell’Africa occidentale subsahariana, è una delle nazioni più povere del mondo. I burkinabé sono un popolo ospitale e allegro, gente molto dignitosa, in particolare i bambini che ti regalano subito tutto ciò che hanno: un sorriso. Attraverso i loro sorrisi, una luce si accende nei loro occhi, che ti investe e avvolge. Ciò che colpisce e fa riflettere è il contrasto forte, si può toccare con mano, che porta a pensare e fare parallelismi col mondo occidentale… il nostro mondo. Abbiamo tutto e non ci basta. Vogliamo “possedere” case, macchine, cibo, vestiario e anche persone. Ci identifichiamo talmente tanto in quello che abbiamo che non sappiamo più quello che siamo ne ciò che vogliamo. A Sabou, dal punto di vista materiale ed estetico, tutto è miseria, stento, sofferenza… ma la presenza della missione sta donando tanta speranza. Il convento, la parrocchia, l’ospedale S. Massimiliano sono luoghi dove le persone possono trovare soluzioni ai loro problemi. I missionari sono molto disponibili al dialogo per cui facilmente entrano in relazione con

la gente creando un clima di fiducia. Molto significativa e importante è l’opera svolta dal CREN e dal Centro Medico, benedetto e ufficialmente inaugurato l’8 dicembre. Oltre 2000

soffrire e si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere. L’esperienza africana rimarrà impressa nella mia mente per sempre, spero grazie ad essa di migliorare la qualità della mia vita. Non dimenticherò l’Africa anche per la malaria contratta che mi ha fatto sentire molto vicino al popolo africano. Appena tornato in Italia l’attacco di febbre, violento e improvviso. Brividi di

Visita di fra Giambattista Buonamano alla comunità missionaria del Burkina Faso

persone hanno partecipato a tale evento. Al Centro si svolge un lavoro molto impegnativo e, nello stesso tempo, prezioso ed entusiasmante, perché molti bimbi e le loro famiglie ritrovano il sorriso. Sono bimbi che soffrono di malnutrizione grave, spesso ricoverati con le loro mamme. Quotidianamente accorrono al Centro tante persone per le necessità più varie. Il Centro viene gestito con grande impegno, costanza, professionalità e con spirito di accoglienza. Il breve soggiorno in Africa mi ha fatto comprendere che la povertà più grande che c’è al mondo non è la mancanza di cibo ma la mancanza d’amore. C’è la povertà della gente che non è soddisfatta di ciò che ha, non è capace di 10

freddo e poi i 40 gradi. Un bagno di sudore. Senso di spossatezza… al pronto soccorso dell’ospedale Cotugno di Napoli eseguono il test: è malaria, Plasmodium falciparum, causa della forma maligna di malaria. Grazie a Dio ho superato e dopo circa due mesi sono ritornato agli impegni quotidiani. In Africa si muore perché non si raggiunge in tempo un ambulatorio o perché non vi sono farmaci efficaci e i prezzi sono inaccessibili per pazienti poverissimi. Mi rendo conto che l’aiuto che possiamo offrire è solo una goccia nel mare delle necessità ma lo reputo molto importante in quanto dona speranza a chi, per cause storico-politico, è negata proprio la speranza.


LITURGIA di Giuseppe Falanga

«Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12) In preparazione alla Pasqua, proviamo a meditare sulla stupenda pagina del Levitico (26,1-13) che ci presenta il Signore come il Dio dell’Alleanza. La Pasqua è vicina: risorgere con Cristo significa mettere da parte gli idoli e liberarci dal peccato, per vivere secondo lo Spirito. 1. Lectio La pagina del Levitico che abbiamo appena ascoltato si apre con le benedizioni che Dio rivolge al suo popolo. Si sente l’eco del decalogo e, soprattutto, viene ribadito il divieto di adorare le false divinità. Il popolo eletto, che viveva in esilio, a Babilonia, più volte è stato tentato di farsi degli idoli, sostituendo il Dio della vita e dell’Alleanza, Jhwh, con un pezzo di marmo o una statua di argilla. Le benedizioni sono qui proposte in tre momenti: – benedizioni agricole (vv. 4-5); – benedizioni politiche (vv. 6-8); – benedizioni religiose (vv. 9-13) che toccano l’Alleanza, il tempio, la comunione. Di questi versetti così singolari, ci colpisce il riferimento del v. 9: “rendere fecondi”, “moltiplicare”. C’è un chiaro rimando al Libro della Genesi (capitolo primo) e alle promesse dei patriarchi. Bella poi l’immagine di Dio che cammina in mezzo al suo popolo così come avvenne nell’Eden e nel deserto. Dio attraversa la nostra storia. È sempre con noi. È come se Israele si preparasse a vivere un nuovo esodo. Tale cammino di liberazione coincide con la stessa Alleanza ed è puro dono, esclusivamente azione gratuita del Dio della vita che libera i prigionieri.

2. Meditatio Raccogliamo alcune suggestioni che nascono dall’ascolto di queste parole di benedizione. – Dio è colui che provvede alle piogge, alla fecondità della terra, alla buona riuscita dei raccolti. Così come la sua mano agisce a favore dei contadini, dei vendemmiatori. Ciò mi fa pensare al significato attualissimo della provvidenza di Dio nei tempi di crisi, di recessione non solo economica. Dio è veramente con noi. Sento, però, un peso grande, un’angoscia, per i mali che subisce sorella Terra: l’inquinamento, il consumo a oltranza, il disboscamento delle foreste, il prosciugarsi delle acque, lo sciogliersi dei ghiacciai. Tutto ciò non è segno della benedizione divina. Anzi, è prova del peccato che abita nell’uomo. – Dio è colui che stabilisce la pace nel Paese. Non andiamo alla ricerca di un nemico da abbattere. Noi desideriamo la pace tra tutti i popoli. Cristo è, per noi, la pace, la nostra gioia. Questa pace spirituale, però, ha bisogno della giustizia, della pratica continua del bene. Non possiamo, quindi, rispondere al male con il male. Il Bene deve sempre essere l’ultima parola da noi pronunciata. – Dio è l’Emmanuele: abita in mezzo a noi. Cristo è la nostra tenda, il nostro riparo, il nostro Corpo. La Chiesa è il

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segno della nuova alleanza: Sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Ogni cristiano deve maturare questa verità. La fede è un dono che ci riguarda tutti, in modo ecclesiale. Dobbiamo maturare questa consapevolezza di appartenere al corpo della Chiesa. 3. Contemplatio Proviamo a contemplare il “camminare di Dio in mezzo a noi”: dalla sua presenza nell’Eden alla sua azione potente in Egitto, durante la traversata del Mar Rosso; dalla Tenda del deserto al Tempio di Gerusalemme; dal Seno del Padre al grembo della Vergine; dalla grotta di Betlemme al Calvario del Venerdì Santo; dalla Tomba vuota al Cenacolo di Pentecoste; dal Cuore della Chiesa al Cuore di ciascun credente. 4. Oratio O Cristo, segno della nuova Alleanza, Dio con noi, Emmanuele per sempre: tu sei la nostra benedizione, la nostra pace. Donaci ancora la tua parola per fecondare la Terra e i cuori degli uomini. Saziaci con la presenza dello Spirito e stabilisci la pace lì dove sembra perdurare la guerra. Aiutaci a perdonare i nostri nemici, a non ferirli di spada. Spezza il giogo della violenza e dell’oppressione: perché i poveri, gli emarginati, gli ultimi, come anche le nostre famiglie, possano camminare a testa alta, liberi, gioiosi. Amen. Alleluia.


DABAR di Cyrille Kpalafio

L’annuncio della Pasqua: vedere “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’anno posto”. Questo è il primo annuncio che Maria di Màgdala fa a Simon Pietro e l’altro discepolo, un annuncio che provoca, che sa di dolore e disperazione. Ma proviamo a riflettere su questa scena tratta dal cap. 20 del Vangelo secondo Giovanni. Proviamo a fermarci sulla prima scena approfondendo il verbo “vedere” nella teologia giovannea, per notare il vero vedere che porta a credere alla risurrezione (Gv 20, 1-10). 20,1: Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro! Il giorno dopo il sabato è il primo della nuova settimana, quello che noi chiameremmo domenica; è l’inizio, non la fine. Maria di Màgdala, nel Vangelo secondo Giovanni, è nominata poco, è protagonista solo in questo episodio; di lei sappiamo solo che era ai piedi della croce e basta. Non sappiamo chi sia, compare qui e tutta la sua funzione è proprio quella di essere simbolo dell’umanità nuova nell’incontro con il Risorto. Lei si reca al sepolcro e Giovanni non dice il perché, non dice che porta gli oli aromatici, anche perché li aveva già portati Nicodemo e l’unzione era già stata fatta. Si può pensare che si reca al sepolcro per una visita come si fa a un caro amico o parente defunto; essendo ancora fresca la ferita del dolore; andare alla tomba sembra un modo per restare ancora vicino al

morto. «Di buon mattino, quando era ancora buio». Il termine greco (proi) che Giovanni usa per indicare il mattino indica il sorgere del sole, l’inizio dello spuntar del sole; ma, se comincia a spuntare il sole, non è più buio, se è ancora buio non è mattino, è ancora notte. Questa indicazione cronologica che può essere – apparentemente contraddittoria – ha un suo valore simbolico importante. Al mattino presto, Maria di Màgdala va al sepolcro, fuori c’è già un po’ di luce, ma è dentro di lei che è ancora buio. Il buio non è esterno, ma interno. «Vede che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro». Vede. Giovanni adopera il verbo (blépo) che indica la semplice percezione fisica. In italiano, è difficile accorgerci delle differenze dei verbi usati in greco, e qui la nostra traduzione ha sempre utilizzato il verbo “vedere”, ma nell’originale greco l’evangelista adopera tre verbi diversi per dare una gradualità di visioni. “Vedere” è sempre la stessa cosa; si può vedere in un modo o in un altro o in un altro ancora. Maria di Magdala vede semplicemente in modo fisico, percepisce quella realtà e non capisce, non capisce perché c’è ancora buio dentro di lei. V. 2: Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». La semplice percezione fisica la conduce ad una spiegazione del fatto sbagliata. Non si aspetta la risurre12

zione – come non se la aspettano i discepoli – e, di fronte alla scoperta del sepolcro vuoto, rimane sempli-

cemente colpita dal fatto che il corpo non c’è più. L’unica spiegazione che le viene in testa è che qualcuno abbia portato via il corpo di Gesù. Maria di Magdala diventa qui, un modello: è la donna che cerca Gesù e – nell’itinerario che viene raccontato – si riassume una storia personale. Ha visto, non ha capito, ma è convinta di aver capito. Sicuramente è


nella fede il Risorto... mossa da affetto ed è turbata e angosciata proprio a causa di questo affetto; è preoccupata dal fatto che

abbiano portato via “il Signore”. Adopera già un termine solenne che qualifica Gesù con la somiglianza con Dio. L’unica cosa che dichiara di non sapere è il posto dove hanno messo il corpo; questo non lo sa, ma il resto lo sa, eppure non è vero. Quante volte siamo sicuri di sapere, e invece non sappiamo o non abbiamo capito proprio nulla. È andata a dare la notizia di corsa,

ma una notizia sbagliata; ha comunicato quello che aveva dentro, ha comunicato quello che ha pensato lei, ha comunicato proprio se stessa, ma in modo sbagliato. Ha semplicemente provocato gli apostoli, cioè li ha chiamati fuori e i due corrono al sepolcro. V. 3: “Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro”. V.4: «Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro». Il discepolo che Gesù amava si ferma però fuori, aspetta Pietro e lo lascia entrare. Pietro vede con la teoria: (theoréo) è un altro verbo “vedere”, è il vedere dell’intelligenza che non conclude niente, ragionando esclude l’ipotesi della donna, ma non sa che cosa dire. V. 8: «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette». Terzo verbo “vedere”: questa volta (horáo), è il vedere in profondità, farsi un idea, è percepire; è la condizione indispensabile per credere. Guardando con gli occhi del cuore il discepolo che Gesù amava credette…questa è l’unica condizione per poter credere. V. 9: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti». Non lo avevano ancora capito. Giovanni arriva per primo, non semplicemente al sepolcro; arriva per primo a riconoscere la verità della Scrittura e della parola di Gesù e a credere nel Risorto.

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“Vi annunzio un gaudio grande: Alleluia”. 1. Camminiamo verso questa parola passando attraverso la croce sul Golgota. Camminiamo passando attraverso la tomba che è stata chiusa con un pesante masso e sigillata perché nessun uomo osasse violarla e perché in questo luogo rimanesse soltanto la morte e non vi tornasse mai più la vita. Sì. Veniamo, veniamo da tutte le parti per essere battezzati nella morte di Cristo (cf. Rm 6,3). 2. La Chiesa gioisce del nostro battesimo. Essa - sin dai tempi più antichi - altro non trova, che metta maggiormente in evidenza la realtà di questa santa notte, di questa vigilia pasquale, se non, appunto, il Battesimo, che voi riceverete questa notte. Perché null’altro, meglio di questo Sacramento, riflette il “duello” tra la morte e la vita, il passaggio di Cristo, cioè la Pasqua, attraverso la morte verso la risurrezione. E niente avvicina meglio a Cristo, alla sua notte pasquale, alla notte unica, messianica, mediante la quale si è rivelato, in tutta la sua verità, il Figlio della stessa sostanza del Padre, e in tutta la sua potenza, il Redentore, che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Proprio questo sacramento. Proprio il Battesimo che ci immerge nella morte: nella sua morte, perché, sepolti insieme a lui nella morte, possiamo camminare in una vita nuova, così come lui. Così come Cristo, che risuscita dai morti per mezzo della gloria del Padre. 3. Non c’è occhio umano che possa vedere questa gloria. Non ci fu occhio umano quale testimone di quel momento, in cui Cristo vinse la morte accettata sul Golgota per i “peccati nostri e quelli di tutto il mondo”. La gloria di Dio è che l’uomo viva. Ecco, l’uomo vive in Cristo. Ecco il momento in cui si realizza ciò che egli, Cristo, disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11, 25). (Omelia di Giovanni Paolo II)


PASTORALE di Antonio Vetrano

Pasqua: ricomincio da tre... Neonati. Il fatto che siamo tutti stati battezzati da neonati ha un valore enorme e da valorizzare: i nostri genitori hanno voluto donarci tutto il loro cuore e la loro passione per Dio appena nati. Ma l’esperienza fisica sensibile è rimasta sepolta nel passato e, tutto

dei grandi santi: chiedere la fede a Pietro o il buonumore a san Filippo o lo spirito di pace a frate Francesco… Liberi di amare: liberati dal laccio del peccato, delle tenebre, del grande inganno delle origini, salvati da Cristo possiamo, con l’aiuto del suo amore e della sua grazia, imparare ad amare come egli ha fatto. Ma… Ma… Tutta la nostra vita è l’elemosina di un apprezzamento, di un riconoscimento. Anzi, se una persona mi contraddice, mi accusa… reagisco! Ma, in fondo, penso che abbia ragione, e dico: “devi arrenderti all’evidenza, tu non vali”. La reazione spontanea - lontani da Dio – va in due direzioni: di difesa e aggressività, o di eccessiva superficialità. Mi omologo, do il massimo, passo la mia vita a inseguire l’idea di me che gli altri mi restituiscono: Dio, invece, mi dice che io sono amato-bene, dall’inizio, prima di agire: Dio non mi ama perché buono ma amandomi - mi rende buono. Dio si compiace di me perché vede il capolavoro che sono, l’opera d’arte che posso diventare, la dignità di cui egli mi ha rivestito. Allora, ma solo allora, potrò guardare al percorso da fare per diventare “opera d’arte”, alle fatiche che mi frenano, alle fragilità che devo superare. Il cristianesimo è tutto qui, Dio mi ama per ciò che sono, Dio mi svela in profondità ciò che sono: beneamato. È, però, difficile amare “bene”: l’amore è grandioso e ambiguo, può costruire e distruggere. Non si tratta di adorare qualcuno, ma di amarlo “bene”: renderlo autonomo, adulto, vero, consapevole. Così Dio fa con me.

sommato, il fatto di essere battezzati non ci cambia di molto la vita… Siamo diventati figli di Dio, concittadini dei santi, liberi di amare. Figli di Dio: forse umanamente possiamo aspirare a diventare altro, ma più che figli di Dio non potremo mai essere… e lo siamo già! Concittadini dei santi, appartenendo al grande sogno di Dio che è la Chiesa, fatta di poveri peccatori, noi, ma anche di grandi testimoni. Possiamo contare sull’aiuto 14


VOCAZIONE di Alfredo Avallone

Amare è la nostra prima vocazione Quando sentiamo utilizzare il termine “vocazione” abbiamo subito la percezione di avere di fronte una “persona di chiesa”: è ormai evidente che questo termine ha perso la sua forza viva e universale. Perseguitata dalla cultura della “distrazione” ha trovato rifugio negli “uomini di vita interiore”, in quanti cioè non rimuovono le domande fondamentali di senso che insorgono, più o meno chiaramente, nel cuore. “Vocazione”, in realtà, non appare proprio un termine eliminato dal nostro cuore, per quanto con la ragione ci affatichiamo a soffocarla, sempre drammaticamente provocata dal problema dell’esistere e del suo destino. Durante la preghiera per l’Unità dei Cristiani celebrata nell’Oratorio dell’Istituto Serafico d’Assisi, centro di riabilitazione per disabili gravi, sul tema “Testimoniare nella sofferenza”, fui colpito dalla presenza di molti giovani e insieme dalla testimonianza di una volontaria: «Io sono G., sono sposata da 35 anni. Abbiamo due figli ormai grandi. Questo è il 15° anno che frequento l’Istituto Serafico come volontaria. Non amo parlare di quello che faccio perché sovente le parole banalizzano i gesti e i sentimenti. Per avvicinare questi ragazzi è stato sufficiente metterli al

centro del mio agire, fare pulizia di idee preconcette e preconfezionate, fare silenzio dentro me e ac-

cogliere con pazienza e con passione in attesa che l’altro mi dia la chiave per accedere al suo mondo. L’amore, tutto l’amore che Dio ha riversato su ognuno di noi, fa sì che amare sia la nostra prima vocazione, rende possibile che il mio cuore batta all’unisono con l’altro, che il mio passo e il suo abbiano lo stesso ritmo. Entrare qui è stato ingrandirsi dentro, arricchirsi di muovi punti di vista. Ho conosciuto un nuovo modo per

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relazionarmi con la vita. È qui che ho imparato ad amare al di là di quanto avrei potuto sognare». La testimonianza di una volontaria e la ricerca di senso di alcuni giovani, stranamente rimasti fino alla fine della preghiera… Avranno compreso che la risposta alle domande del loro cuore non si trova in ciò che si vive nell’immediato o in ciò che gratifica i bisogni i quali rendono la coscienza sempre più ottusa? Aveva ragione l’Arcivescovo Angelo Comastri a ribadire che “la povertà vocazionale non è un problema che riguarda soltanto noi, non è un problema clericale. E’ un problema che sta prima, perché è in crisi la vocazione alla vita… Senza vocazione non si può vivere. Perché la vita decade, non ha più senso, non ha più valore. Quando si è vuoti di Dio non c’è niente che ti riempie”.

«Abbiamo creduto all’amore di Dio — così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 1).


SPIRITUALITÀ di Raffaele di Muro

Contempliamo la povertà di Cristo con Chiara d’Assisi “Attaccati, vergine poverella, a Cristo povero. Vedi che Egli per te si è fatto oggetto di disprezzo, e segui il suo esempio rendendoti, per amor suo, spregevole in questo mondo. Mira, o nobilissima regina, lo Sposo tuo, il più bello tra i figli degli uomini, divenuto per la tua salvezza il più vile degli uomini, disprezzato,

gnore. In primo luogo, ci chiama a vedere ammirati la kenosis di Gesù nel momento della passione per entravi in profondità. In secondo luogo, ci invita a sperimentare e ad attualizzare nella nostra esistenza le sofferenze del Redentore e, in una terza fase, a ricevere il possesso ed il godimento del Regno dei cieli e l’iscrizione nel Libro della vita. Vivere secondo uno stile sobrio ed essenziale vuol dire incarnare l’umiltà e la carità del Salvatore. Si tratta di seguire il maestro nella sua piena spoliazione e nell’offerta totale di sé per i fratelli poveri. L’Assisiate invita Agnese a compiere questo cammino, seguendo le orme di Gesù, con la certezza di ricevere il premio eterno. Il mistero di kenosis di Cristo inizia con la nudità del presepe e termina con quella della croce, dopo una vicenda terrena caratterizzata pure dall’essere povero. Nel brano appena citato, Agnese (e noi con lei) viene invitata ad abbracciare questa immagine di Gesù, ad ammirarla, fino alla risposta al suo amore umile e crocifisso rappresentata dalla sequela. Vi è una incalzante sequenza di aggettivi e di verbi mediante i quali la Santa spinge la sorella boema a seguire le orme del Signore. Ella ne sottolinea il disprezzo, la flagellazione, le percosse, il dolore e tutto questo invita a guardare, considerare ed imitare come in una progressione di amore. Seguire Gesù vuol dire, malgrado la sua via dolorosa, aprirsi alla realtà gloriosa della risurrezione. L’esser “poveri”, cioè staccati dalle attrattive fatue del mondo, ci consente di rinunciare ai beni della terra, di unirci alla vicenda kenotica del Cristo per godere del suo amore per l’eternità. È una bella indicazione per vivere bene la Pasqua. Eloquenti sono ancora queste parole di Chiara: “Contempla l’ineffabile carità per la quale volle patire sul legno della croce e su di essa morire della morte più infamante” (Dalla quarta Lettera ad Agnese di Praga 23 : Fonti Francescane 2904).

percosso e in tutto il corpo ripetutamente flagellato, e morente perfino tra i più struggenti dolori sulla croce. Medita e contempla e brama d’imitarlo.(…) Perciò possederai per tutta l’eternità e per tutti i secoli la gloria del regno celeste, in luogo degli onori terreni così caduchi; parteciperai dei beni eterni, invece che dei beni perituri, e vivrai per tutti i secoli.” (Dalla seconda Lettera ad Agnese di Praga 18-20, 23 : Fonti Francescane 2879, 2880). Con queste parole la Santa ci invita a compiere un percorso a tre tappe nella sequela della povertà del Si16


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Giovedì Santo, festa dell’amore Eucaristia e vita: la visione di Francesco Il Cristo è risorto, è il Dio della vita. I sepolcri son vuoti. Come a Maria di Magdala, che si aggirava stanca e triste tra i sepolcri, anche a noi, che piangiamo una persona cara, giunge la voce: non è qui. La polvere non è la casa dello spirito. Perché? Il Giovedì Santo svela il segreto. In coena Domini, il Signore – dice l’evangelista – “amò fino alla fine”, senza lasciar fuori alcunché. È facile amare ciò che è amabile, un bambino, un tramonto. Non lo è se ciò che è da amare amabile non è. Ebbene, proprio allora l’amore è puro e luminoso, perché chiamato a dimostrare la forza, di cui è tessuto, rendendo amabile ciò che amabile non è. Dio ci ha amato quando, perché peccatori, amabili non eravamo, rendendoci amabili. Forza e creatività a un tempo, o anche, forza che è creatività. È il Giovedì di Francesco, quando abbracciò i lebbrosi, perché “ciò che era amaro diventasse dolce” (Testamento), e quando, esausto e prossimo alla fine, cantò “sora nostra morte corporale” (Cantico delle creature).

Giovedì Santo è il giorno del sacerdozio e dell’Eucaristia. San Francesco amava la Chiesa, perché casa dei

spazio della fraternità e della fraternità l’anima dell’istituzione. E la famiglia non è istituzione e in-

sacerdoti, con il potere di celebrare l’Eucaristia. Sacerdozio ed Eucaristia, le due stelle del francescano.

sieme nido d’amore, in crisi sia quando è solo l’una, sia quando è solo l’altro? L’amore ha bisogno dell’istituzione per reggere durante la tempesta, e l’istituzione ha bisogno dell’amore perché da reggia del cuore non diventi la prigione dell’anima. È la logica di ciò che è creativo, difficile da intendere, perché allude a ciò che è se stesso in misura e a condizione che sia altro da sé, e dunque è, a un tempo, in sé e fuori di sé. Come la vita, come l’amore.

Giovedì Santo – scrive il modernista Alfred Loisy - Gesù ha annunciato il Regno ed è sorta la Chiesa. Sì, è sorta la Chiesa, ma perché fosse spazio del Regno, con la missione di testimoniare l’amore, diventandone l’altare. San Francesco voleva una fraternità ed ha visto sorgere un’istituzione. Più che ripudiarla, egli ha fatto dell’istituzione lo

«La Chiesa ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore non come un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza. Questa non rimane confinata nel passato, giacché tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi. Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente e «si effettua l’opera della nostra redenzione. Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente. Questa è la fede, di cui le generazioni cristiane hanno vissuto lungo i secoli» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, n. 11).

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ARTE di Paolo D’Alessandro

Un Dio che muore in Croce Soprattutto nel tempo di Quaresima e di Pasqua lo sguardo del cristiano è focalizzato sull’immagine che più rappresenta l’Amore di Dio: il Crocifisso. Esso è il simbolo che presenta la croce, strumento per le esecuzioni capitali del Medio Oriente conosciuta fin dal V secolo a.C., con Gesù Cristo crocifisso. L’immagine di Cristo in croce è entrata tardi nell’iconografia. L’umiliazione della pena riservata a schiavi e criminali comuni, aveva forse indotto i primi cristiani a trascurare tale aspetto della storia. La prima raffigurazione umana del Crocifisso si riscontra su una celebre tavoletta d’avorio dell’inizio IV secolo del British Museum di Londra. Cristo appare vivo, il suo corpo, coperto solo dal perizoma, resta diritto, con gli occhi aperti, in contrasto con la figura di Giuda, impiccato all’albero alla sua destra. Questa immagine vuole risaltare, quindi, la vittoria di Cristo sulla morte. Un’altra raffigurazione del Crocifisso la troviamo su un pannello ligneo del V secolo della porta di Santa Sabina di Roma. Un grande Cristo crocifisso è raffigurato solennemente, con ai lati, per la prima volta rappresentati, i due ladroni crocifissi. Il Cristo dei crocifissi bizantini, invece, appare come il kosmocrator, un Dio trionfatore pur nell’umanità umiliata e dolente: i suoi occhi sono aperti, con lo

sguardo fisso innanzi a sé e il suo corpo resta diritto, vestito da una tunica, il colobium, che cade fino ai piedi. È la più antica iconografia del Christus triumphans (del Cristo trionfante sulla morte), come possiamo ammirare nel Manoscritto miniato di Rabula del 586, conservato alla biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze. Nel 602 il Concilio Trullano ordinò di rappresentare direttamente il Crocifisso, a discapito delle varie croci simboliche finora prodotte (croci a forma di ancora, gemmate, o raffiguranti l’albero della vita). Ma è a partire dal XII secolo che il Crocifisso fu posto sopra la trave che attraversa l’arco trionfale, tra l’altare e l’inizio della navata, oppure appeso sotto l’arco trionfale. Nel XIII secolo il Cristo trionfante (triumphans) diventa il Cristo sofferente (patiens). Erano partiti i bizantini nel secolo precedente con il fondo oro e con quel linearismo espressivo che fa ondeggiare a forma di “esse” il corpo di Cristo, la cui testa ora s’inchina e i cui occhi ora si chiudono nella morte. Nel 1200 questo schema viene ripreso in Occidente con la nuova sensibilità nell’imme18

desimarsi con il Cristo, di compatire con lui. Furono gli ordini mendicanti, soprattutto i francescani, che profondamente segnati dall’esperienza di san Francesco d’Assisi nel contemplare l’umanità di Cristo tanto da riceverne le stimmate, che mutarono radicalmente l’iconografia del Cristo trionfante in una visione sofferente. L’esperienza si trasmette all’arte. Ed ecco che Cimabue parte dallo schema bizantino del Cristo in croce, ma lo carica di ossa, di carne, di luce e di ombre, come possiamo notare nel Crocifisso del 1280 di Santa Croce a Firenze. Le braccia non sono più un’onda lirica, ma diventano tesissime. E in croce c’è un colosso che pesa quanto il mondo. Qui è rappresentato «il» dolore. Qui è Dio a morire. Giotto rende poi umano questo grido, come possiamo meditare nel Crocifisso di Santa Maria Novella a Firenze del 1290 circa. Ora è proprio Gesù a morire in croce. Ma egli è talmente umano da essere divino. Gesù è davvero Dio che muore in Croce. Si passa dall’urlo di Dio in Cimabue al sospiro del Figlio. Il Cristo di Giotto ha proporzioni umane, è verticale senza essere rigido, ha le mani rivolte verso il basso. Da esse cola il sangue che idealmente va a cadere sui fedeli che vi passano sotto. È un sangue che fa piangere veramente, ma il pianto resta dentro e ne senti la dolorante, ma mai disperata, melodia.


CINEMA di Giuseppina Costantino

Avatar tra fantascinza e preistoria USCITA CINEMA: 15/01/2010 REGIA: James Cameron SCENEGGIATURA: James Cameron ATTORI: Sam Worthington, Sigourney Weaver, Giovanni Ribisi, Michelle Rodriguez, Zoe Saldana, Joel David Moore, Laz Alonzo, Wes Studi, Stephen Lang, Peter Mensah, CCH Pounder, Dileep Rao, Matt Gerald, Scott Lawrence, Jacob Tomuri. FOTOGRAFIA: Mauro Fiore MUSICHE: James Horner DISTRIBUZIONE: 20th Century Fox PAESE: USA 2009 GENERE: Azione, Thriller... DURATA: 166 Min Avatar è un film di fantascienza del 2009, scritto, diretto e prodotto da James Cameron e interpretato tra gli altri da Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Giovanni Ribisi e Michelle Rodríguez. È stato distribuito nei cinema di tutto il mondo tra il 16 e il 18 dicembre 2009. L’Italia e la Svizzera italiana, dove è uscito il 15 gennaio 2010, sono gli ultimi Paesi al mondo in cui è stato distribuito. Tale ritardo è dipeso dalla volontà della 20th Century Fox che distribuisce il film, di non mettere la pellicola in concorrenza con i cinepanettoni natalizi di Christian De Sica e Leonardo Pieraccioni, preferendo puntare su Amelia. Il film è stato pubblicato nel tradizionale formato 2D, ma ha visto anche un’ampia diffusione in 3D e in 3D IMAX.

Lo stesso Cameron, che è un forte sostenitore del 3D come futuro del cinema, ha dichiarato che si avrebbe un’esperienza più completa guardando Avatar in tre dimensioni, poiché il film è stato da lui appositamente pensato per essere visto in quel modo. Costato 237 milioni di dollari, Avatar ne ha finora incassati oltre due miliardi, diventando il film che ha incassato

di più nella storia del cinema. Avatar è, inoltre, il primo film a utilizzare il nuovo logo della 20th Century Fox, animato da Blue Sky Studios, creatori de L’era glaciale. Così il regista Cameron ha presentato il suo film: «Avatar è un film fantascientifico molto ambizioso. È una storia futuristica ambientata su un pianeta tra duecento anni. È un’avventura “vecchio stile” nella giungla con un po’ di coscienza

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ambientale. L’aspirazione ovviamente è raccontare una storia sul piano mitologico. Per il film ho dovuto creare un’intera cultura aliena, e un linguaggio». TRAMA DEL FILM Entriamo in questo mondo alieno attraverso gli occhi di Jake Sully, un ex marine costretto a vivere sulla sedia a rotelle. Nonostante il suo corpo martoriato, Jake nel profondo è ancora un combattente. È stato reclutato per viaggiare anni luce sino all’avamposto umano su Pandora, dove alcune società stanno estraendo un raro minerale che è la chiave per risolvere la crisi energetica sulla Terra. Poiché l’atmosfera di Pandora è tossica, è stato creato il Programma Avatar, in cui i piloti umani collegano le loro coscienze ad un avatar, un corpo organico controllato a distanza che può sopravvivere nell’atmosfera letale. Questi avatar sono degli ibridi geneticamente sviluppati dal DNA umano unito al DNA dei nativi di Pandora... i Na’vi. Rinato nel suo corpo di Avatar, Jake può camminare nuovamente. Gli viene affidata la missione di infiltrarsi tra i Na’vi che sono diventati l’ostacolo maggiore per l’estrazione del prezioso minerale. Ma una bellissima donna Na’vi, Neytiri, salva la vita a Jake, e questo cambia tutto.


SPORT La redazione

Le Olimpiadi invernali al servizio dell’unità Lo sport strumento dell’ecumenismo... Grazie al coinvolgimento nelle Olimpiadi invernali, le Chiese di Vancouver (Canada) sono più unite. È la valutazione che una delegazione britannica ha compiuto dell’iniziativa More than Gold, che si ritiene aiuterà le Chiese a dare il massimo ai Giochi Olimpici estivi di Londra 2012. La delegazione del Regno Unito, guidata dal chief executive officer David Wilson, ha verificato che la risposta delle Chiese canadesi ha coinvolto circa 350 Chiese, che hanno collaborato per aiutare atleti, allenatori e visitatori giunti nella zona per l’evento sportivo. Il coinvolgimento della Chiesa ha previsto più di una dozzina di programmi, come fornire cappellani per i villaggi in cui alloggiavano gli atleti. Questo aspetto è stato particolarmente importante dopo la tragica morte dell’atleta georgiano dello slittino Nodar Kumaritashvili, che ha offuscato la gioia per l’apertura dei Giochi. Le Chiese hanno anche fornito a tutti bevande calde nelle principali fermate dei mezzi di trasporto di Vancouver. “Abbiamo visto la storia dispiegarsi mentre centinaia di Chiese si univano come mai prima per accogliere e servire gente di ogni parte del pianeta” – ha detto David Wilson –. “Abbiamo testimoniato come attorno a noi crollassero barriere e fraintendimenti di lunga data”. La delegazione britannica includeva rappresentanti della Chiesa d’Inghilterra, dell’Esercito della Salvezza, della Chiesa cattolica, della Chiesa pentecostale e del Vineyard. “Questa visita”, ha detto un delegato, “ha portato chiarezza a quanti di noi rappresentano la comunità cristiana in Gran Bretagna. Il 2012 ci offre l’opportunità di essere un esempio dei valori olimpici di fiducia, onore, correttezza, rispetto, che sono ovviamente i nostri valori evangelici”. Dave Wells, Sovrintendente Generale delle Assemblee Pentecostali di Dio che ha guidato il team dei cappellani a Vancouver, ha affermato che “la cura pastorale è il filo spesso nascosto che tiene tutto insieme ai Giochi Olimpici”.

“In pochi altri luoghi il risultato di anni di disciplina intensa e concentrata può provocare uno schiacciante senso di perdita o di gioia in base al risultato di un evento come in questo caso. Ciò vale sia per l’atleta che per l’allenatore. Siamo qui per offrire sostegno a quanti richiedono un’assistenza spirituale per portare avanti ogni parte di questo viaggio”. Dopo aver verificato l’esperienza canadese, David Wilson ha affermato che la Gran Bretagna spera che almeno tremila chiese del Regno Unito si mobiliteranno per i Giochi del 2012, un evento che dovrebbe avere dimensioni cinque volte maggiori rispetto a quello di Vancouver. In occasione del Giubileo degli sportivi, nell’omelia del 29 ottobre 2000, Giovanni Paolo II ebbe a dire: «Grande importanza assume oggi la pratica sportiva, perché può favorire l’affermarsi nei giovani di valori importanti quali la lealtà, la perseveranza, l’amicizia, la condivisione, la solidarietà. E proprio per tale motivo, in questi ultimi anni essa è andata sempre più sviluppandosi come uno dei fenomeni tipici della modernità, quasi un “segno dei tempi” capace di interpretare nuove esigenze e nuove attese dell’umanità. Lo sport si è diffuso in ogni angolo del mondo, superando diversità di culture e di nazioni. Per il profilo planetario assunto da questa attività, è grande la responsabilità degli sportivi nel mondo. Essi sono chiamati a fare dello sport un’occasione di incontro e di dialogo, al di là di ogni barriera di lingua, di razza, di cultura. Lo sport può, infatti, recare un valido apporto alla pacifica intesa fra i popoli e contribuire all’affermarsi nel mondo della nuova civiltà dell’amore. Le potenzialità educative e spirituali dello sport devono rendere i credenti e gli uomini di buona volontà uniti e decisi nel contrastare ogni aspetto deviante che vi si potesse insinuare, riconoscendovi un fenomeno contrario allo sviluppo pieno della persona e alla sua gioia di vivere. È necessaria ogni cura per la salvaguardia del corpo umano da ogni attentato alla sua integrità, da ogni sfruttamento, da ogni idolatria». 20


EVENTI La redazione Professione di fede del neo eletto Custode, fra Mariel Santos.

Assisi, ricordo del Capitolo delle Stuoie (15-18 aprile 2009)

Foto dei frati capitolari della Custodia filippina.

Incontro con alunni filippini durante la ricreazione. Assisi, Capitolo delle Stuoie un anno dopo (3 marzo 2010)

Convengno pastorale - Nocera Inferiore (Sa)

Foto di gruppo di alcuni soci e relatori che hanno partecipato al forum Frate focu - Sora acua.

Partecipanti al forum Frate focu - Sora acqua presso il Centro Studi Francescani di Maddaloni (Ce).

XXXIV convegno dei fratelli religiosi, tenutosi in Romania dal 12 al 17 ottobre 2009

I Fratelli religiosi che hanno partecipato al convegtno

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IN BOOK La redazione Rosella Postorino, L’estate che perdemmo Dio, Einaudi 2009, pp. 230. € 18,00. Contenuto L’estate che perdemmo Dio è un grande romanzo di “restituzione”. Un libro che risarcisce, nonostante la drammaticità della storia, l’esilio, i lutti, i silenzi, lo sguardo innocente e a volte smarrito di Caterina, che custodisce l’urlo in dialetto della zia, annuncio di sventura, e diventa osservatrice e narratrice di una vicenda che appassiona dalla prima all’ultima pagina in maniera totalizzante (non riuscivo – e non lo dico per dire, non lo dico come frase fatta – a smettere di leggere quasi si trattasse di letteratura di intrattenimento, e non lo è). Risarcisce il paese questo romanzo. Il sud. Noi. Chi legge. Caterina ha dodici anni, una storia che pesa, delle piccole cose che ama, Caterina ha un Dio a cui rivolgersi, con le preghiere che tutti abbiamo recitato, tutti noi nati nella seconda metà del secolo scorso quando il catechismo aveva certi obblighi e liturgie, Caterina pian piano si distacca da tante cose e anche dal Dio che consente tragedie e dolori inflitti a ripetizione alle persone che ama, un Dio che consente accanimenti, vendette, sparatorie, agguati, dolori, se ne distacca adagio, con garbo, lo sostituisce con le parole: diventano centrali, per lei. Le ascolta, le soppesa, le impara, le colora, le plasma, le rende vive. Pulsano. Le parole di questo romanzo sono tutte necessarie. Non c’è una pagina di troppo. Ve ne accorgerete. Racconta di una famiglia semplice, di case sentite estranee e lontane, racconta di una forma d’esilio dolente e racconta il viaggio in treno del padre della giovane, che dal nord dove sono fuggiti? Scappati? Emigrati? Approdati? ritorna al sud in occasione di un lutto che ha colpito nuovamente la sua famiglia. Lutto atteso, parte della dannazione, ennesimo capitolo di una guerra di cosche. Racconta, Postorino, un viaggio di cui tutti abbiamo udito echi, ma che raramente è stato descritto con tanta meticolosa attenzione.

M. Signore - G. Scarafile (curr.), Libertà: crisi e ripresa della coscienza morale, Collana Fede e Cultura, Messaggero 2009, pp. 221, € 16. Contenuto Il confronto tra gli studiosi sui temi della libertà e della coscienza, pur con tutta l’attenzione verso le impostazioni più estreme, tende a valorizzare quella via di mediazione che sostiene l’eccedenza e sopravvenienza della coscienza/mente, nella multiformità e nella varietà delle sue prestazioni, rispetto alla sfera ristretta dell’organizzazione del cervello. Nella varietà delle proposte emerge una convergenza nel ricorso alla coscienza, che si rinnova ogni qualvolta si è chiamati a dare ragione della prassi umana. Solo l’imputazione di responsabilità è in grado di ripristinare un rapporto costruttivo, e quindi etico, con il mondo e la storia. Il libro è stato preparato in collaborazione con il Servizio nazionale della Cei per il Progetto culturale.

Giovanni Nervo, Formazione politica. Appunti per una formazione sociale e politica, Collana: Per una formazione sociale e politica, Messaggero 2010, pp.152, €10,50 Contenuto Il volume presenta e analizza una serie di temi di grande attualità per la formazione dei giovani che potranno costituire la nuova classe politica: i cristiani e l’impegno politico, il bene comune e la giustificazione della politica, il rapporto fra politica, moralità e legalità, le radici cristiane della politica nella Rerum novarum e nella Centesimus annus. Esamina poi alcuni aspetti più specifici, pur essi di grande attualità: la laicità dello stato, l’etica pubblica, dal servizio del volontariato all’impegno politico, il contributo del terzo settore e una nuova progettualità politica. Destinatari: Per formatori ed educatori. Per tutti. Giovanni Nervo fondatore e per anni Presidente della Caritas italiana, da decenni svolge attività formativa e culturale sulle politiche sociali. 22


FUMETTI di Mario Ferrone

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