PERCHÉ UN ANNO DELLA FEDE? Orientamenti teologici e indicazioni pastorali della lettera apostolica Porta fidei di Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.
«Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, 1 a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» .
L’immediato contesto storico a cui fa riferimento Benedetto XVI nella lettera apostolica Porta fidei, voluta di sua propria iniziativa, e pubblicata in forma di motu proprio, è la crisi di fede vissuta nelle comunità cristiane. La riflessione del papa è una sorta di “confessione pubblica” – un pensare ad alta voce –, quasi una presa di coscienza assieme personale e comunitaria, del grande pericolo che noi credenti stiamo vivendo: dare per scontata la nostra fede e metterne in evidenza solamente quegli aspetti pratici che ci gratificano. Il rischio è grande: «Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cf. Mt 5,13-16)»2. Il papa è altresì consapevole dei cambiamenti culturali oramai in atto che certamente non favoriscono l’annuncio del Vangelo e l’affermazione, in ambito soprattutto sociale, ma anche politico ed economico, dei valori del cristianesimo. Il tessuto sociale, infatti, a livello mondiale, è sempre più frantumato e pluralista, e lascia poco spazio alla pretesa cristiana. La crisi di fede è legata anche a una certa situazione di marginalità nella quale i credenti in Cristo si trovano a vivere nel mondo e in una società sempre più liquida e priva di una verità assoluta. Diviene difficile anche la ricerca del senso della vita da parte di coloro che si professano atei o agnostici. Il tono accorato di certe espressioni di Ratzinger in questa lettera – ove non mancano, accanto a profonde riflessioni spirituali e teologiche sul significato della fede, vere e proprie ricadute esistenziali e suggerimenti pratici per l’agire cristiano nel mondo –, rende il testo godibile dal punto di vista letterario e lascia intravedere una certa nostalgia e preoccupazione del presule tedesco sempre attento, da lunghissimo tempo, ai temi della verità, del relativismo e della testimonianza cristiana nel tempo della post-modernità. Tuttavia, questa volta, la riflessione di Benedetto XVI è strettamente ad intra: è in atto un dialogo nella Chiesa cattolica, tra le sue parti, affinché maturi in noi il fatto che «credere in Gesù Cristo […] è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza» 3 . Dunque, alla domanda: “Perché un anno della fede?”; dobbiamo rispondere, sinceramente, con la presa di coscienza di un dato di fatto: “C’è una crisi di fede che colpisce le comunità cristiane a tutti i livelli”. «Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede […]. La fede […] cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, 4 perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare» . 1
BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Porta fidei (11-10-2011), n. 2. Ivi 3. 3 Ivi. 4 Ivi 7. 2
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1. La “crisi nella fede” Conviene, all’inizio della nostra riflessione, chiarire anche il concetto di “crisi” che, soprattutto ai nostri giorni, suona con timbri di angoscia e di trepidazione perché evoca una contingenza sfavorevole e pericolosa (soprattutto in ambito economico-finanziario e socio-politico), chiama a interventi risanatori tutte le disponibilità possibili nel settore colpito. Krisis, in greco, ha una varietà di significati: è forza distintiva, querela, separazione, scelta-taglio, elezione; indica il giudizio, la contestazione, la contesa, la sentenza, la condanna; è esito, soluzione, riuscita, spiegazione, interpretazione. Il sostantivo deriva dal verbo krino che è altrettanto ricco di significazioni: distinguo, scelgo o preferisco, decido o giudico, interpreto o spiego, stabilisco o risolvo, faccio entrare in fase decisiva, stimo o ipotizzo, valuto. In latino, invece, crisis è circoscritto al concetto di “decisione”. Tuttavia, nella lingua italiana, ci sono delle eccezioni, per cui “crisi” indica anche un cambiamento repentino che è in atto, in meglio o in peggio. “Crisi” è anche sinonimo di turbamento, il momento più acuto di una situazione. «La crisi, secondo queste registrazioni, è il punto decisivo, la soglia determinante, la linea di cambiamento d’una situazione. L’etimologia e l’applicazione scientifica dei concetti riscattano la parola “crisi” dall’impiego tenebroso dal quale è consumata. Ma l’esegesi, anche la più scientifica e illuminante, non risolve la situazione di crisi. Infatti, la crisi è una situazione, un modo di collocarsi in rapporto a una realtà. Crisi è una situazione della persona: non la realtà esteriore, ma la persona si situa o si ritrova situata in rapporto di crisi con essa. La crisi è una condizione umana […]. Come situazione della persona, la crisi è 5 possibile e reale anche a livello dello spirito» .
Alla luce di queste indicazioni, è giusto affermare che si tratta, nel nostro caso, di una crisi della persona nella sua esperienza di fede 6. Con rigore non solo verbale, ma anche concettuale e contenutistico, è preferibile parlare di “crisi nella fede” e non della “crisi di fede”, come anche di “crisi nella chiesa” e non “della chiesa”. Si tratta di rileggere, nel bene e nel male, come risorsa 5
L. DE CANDIDO, Crisi, in S. DE FIORES - T. GOFFI (curr.), Nuovo dizionario di spiritualità, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, 336-354, qui 336-337. 6 La fede esprime nella sua totalità il rapporto tra Dio e l’uomo (singolo e comunità) e si caratterizza soprattutto come atteggiamento di fiducia e di obbedienza verso Dio. La fiducia implica un rapporto unico ed esclusivo con Dio ed è adesione integrale nei confronti del Dio dell’alleanza, quindi un vissuto quotidiano. Sicuramente, la radice ’âman (“essere fermo, solido, sicuro”) è la più importante ed espressiva della fede ed è usata significativamente in tre forme verbali. La forma passiva o riflessiva (nif‘al) significa, nei confronti delle cose, “duraturo”, “stabile”, “fermo”; nel caso di persone, invece, “fidato”, “attendibile” (su chi si mostra stabile si può contare o anche edificare). Con la forma partecipiale presente, dicendo ’âmên (ricorre 30 volte), si ritiene che quanto esce dalla bocca di Dio è sicuro da meritare fiducia, verso da essere creduto e solido da indirizzare bene la vita. “Amen” sancisce, quindi, un impegno solenne, irrevocabile, preciso, rafforzato dalla ripetizione. La forma hif‘il, he’emîn, pur discussa nel suo significato causativo o dichiarativo, connota l’acquisizione di una stabilità da parte del soggetto divenuto stabile in seguito a un atto di fiducia in una persona. Nei confronti dell’uomo prevale l’uso del verbo con la preposizione negativa, poiché non fidarsi è meglio. Ad esempio, Giacobbe non può fidarsi di chi gli dice che suo figlio Giuseppe è ricco e potente in Egitto (cf. Gen 45,26). Geremia è invitato a non fidarsi dei suoi vicini (cf. Ger 12,6). L’uso positivo del verbo è nei confronti di Dio, fino a esprimere una fiducia senza riserve, un’esclusività estensiva e intensiva dell’atteggiamento dell’uomo verso Dio. È Isaia a conferire al verbo he’emîn un valore assoluto: l’unica solidità o sicurezza per l’uomo è affidarsi a Dio (cf. Is 7,9). La fiducia è un elemento essenziale della fede ed è resa in cinque verbi diversi solo per qualche sfumatura. Bâtah (sentirsi sicuro, essere senza preoccupazioni, confidare e affidarsi) connota l’atto con cui si esprime la fiducia (o la non fiducia) e la condizione di tranquillità e serenità in cui la persona viene a trovarsi. Talvolta emerge la dimensione soggettiva, il sentimento del trovarsi al sicuro, altre volte la situazione libera da timore. A differenza di ‘âman, che sottolinea la reciprocità, questo termine riguarda la fiducia della persona che si abbandona. Il termine è usato nei rapporti con Dio verso il quale soltanto si può avere piena fiducia (cf. Sal 27,3). C’è poi il verbo Hâsâh (rifugiarsi, nascondersi) che esprime il bisogno di aiuto, la dipendenza da altri (cf. Sal 36,8). Una serie di verbi, poi, lascia intendere un atteggiamento di speranza e di fiduciosa attesa nell’intervento del Signore. È il caso della radice qâwâh (attendere, sperare, cf. Sal 130,6; Gb 19,10). Jâhal sottolinea la lunghezza e la fatica dell’attesa (cf. 2Re 9,3; Os 6,9); mentre hâkâh indica il desiderio e la costanza fiduciosa nell’attesa (cf. Is 8,17; 30,18; Os 6,9; Sal 33,20). Cf. almeno H. WILDBERGER, ’mn (stabile, sicuro), in E. JENNI - C. WESTERMANN (eds), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Torino 1998, 155-183; H. SCHLIER, µ , in GLNT I,909-916; A. JEPSEN, ’âman, in GLAT I, 637-665.
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opportunità e rischio, la “crisi nella fede” quale realtà che tocca la persona nel suo essere, nella sua identità di credente, nella sua esperienza concreta di Dio e nella sua missione. L’aspetto positivo è questo: la crisi è sempre recuperabile insieme alla persona dal di dentro. È in quest’ottica che Benedetto XVI parla di «crisi di fede che ha toccato molte persone»7. In tal senso, l’anno della fede serve a riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede8. Già, non dobbiamo dimenticarlo: la riflessione sulla “crisi nella fede” serve per dare forza e nuovo entusiasmo all’annuncio del Vangelo, alla buona novella della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Per tale scopo, Benedetto XVI ha voluto celebrare l’anno della fede alla luce di due anniversari e un evento molto importante per la missione e l’identità della Chiesa cattolica: il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II (che coincide con l’inizio dell’anno 9 della fede l’11 ottobre 2012 ); i venti anni della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica (che per papa Benedetto costituisce un vero strumento a sostegno della fede e utile per illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede10); la celebrazione dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, nel mese di ottobre 2012, sul tema de La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana11. La sfida della fede contiene anche quella dell’annuncio e della testimonianza di vita cristiana. È chiaro, allora, che occorre trasformare o rileggere la “crisi nella fede” come evento-luogo d’incontro con Dio e come stimolo per una nuova evangelizzazione. Benedetto XVI tiene a cuore la possibilità di orientare i cristiani nel tempo della crisi e, leggendo, il motu proprio, sembra possibile ricavarne una sorta di decalogo per superare il tempo della crisi. Si fa leva sull’aspetto decisionale della fede: attraversare la porta della fede, che è sempre aperta, è possibile se noi lo vogliamo. È «possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita»12. La profonda crisi di cui parla Benedetto XVI è il contesto in cui sarà celebrato l’anno della fede; lo scopo della celebrazione, invece, è quello di «illustrare a tutti i fedeli 13 la forza e la bellezza della fede» . Ciò significa che è possibile uscire dalla crisi come pure «riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede»14. 1.1. Come superare la crisi? Come gestire, quindi, la nostra “crisi nella fede”? Innanzitutto, è necessario partire da un sano realismo e situare, quindi, la crisi nella sua dimensione verace. Errori di valutazione circa le cause, il contenuto, l’evolversi e gli ausili della crisi sono fuorvianti. Occorre conoscere se stesso e la qualità della crisi e poi accettare entrambe le realtà, non con paura, né con ipocrisia, né con sorpresa o indifferenza, ma con pace e attiva vigilanza (cf. Sir 3,24). Poi, bisogna percepire come immancabile l’esito positivo della crisi (quindi pensare con ottimismo). Perché lo sbocco di una crisi autentica è il trapasso, spesso faticoso e disagevole, in una situazione differente da quella di partenza, che non sarà peggiore ma tendenzialmente migliore: Dio è fedele e non permette che siamo tentati al di sopra delle nostre forze (cf. 1Cor 10,13). In seguito, occorre valutare la crisi nella sua globalità o situazione esistenziale complessiva per avere una visione di rilievo della crisi stessa. Ancora, è bene conoscere il meccanismo della crisi e gli strumenti ausiliari. La crisi, in tal senso, ha 7
Porta fidei 2. «Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza […]. Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno»: (ivi 9). 9 A tal proposito, papa Benedetto s’interroga su “come” rileggere i documenti del Vaticano II oggi attraverso una giusta ermeneutica dei testi. Cf. ivi 5. 10 Cf. ivi 4; 11. 11 Forse è utile rileggere il tema della nuova evangelizzazione come l’annuncio del Vangelo oggi – in ogni contesto – in un mondo che è già cambiato, cioè che pone ai margini la proposta cristiana. 12 Porta fidei 1. 13 Ivi 4. 14 Ivi 7. 8
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anche una dimensione culturale da non sottovalutare, cioè una formazione e una struttura di mentalità. La fede, infatti, scriva papa Benedetto, «si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e teconologiche»15. È importante, poi, l’esemplarità, osservare cioè l’esperienza della crisi altrui. E qui il papa fa riferimento alla testimonianza dei santi e dei martiri, degli apostoli e della Vergine Maria. Inoltre, è fondamentale condividere la propria esperienza di crisi con gli altri: l’isolamento non giova a nulla, anzi, impoverisce. È bene, poi, sentire la crisi come un momento di purificazione e di crescita interiore, cioè di cammino verso la santità (cf. 1Pt 1,15). Gioca un ruolo decisivo la possibilità di trasformare la crisi in luogo di incontro con Dio, quasi come un’esperienza mistica o d’interiorità (cf. Mt 6,6). Non deve, inoltre, mancare la preghiera come dialogo d’amore e di estrema fiducia con Dio. Nel tempo di crisi giova intensificare la preghiera d’intercessione, anche se deve prevalere lo spirito di preghiera (cf. Ef 5,19). In ultimo, ma non meno importante, è la dimensione dell’attesa: si tratta di guardare con speranza ogni attimo della crisi. La speranza purifica l’attesa da infiltrazioni d’impazienza e d’inerzia. Attesa vuol dire accettazione fiduciosa del domani (cf. Gd 21). Attesa vuol dire anche che in Cristo, morto e risorto, «tutto trova compimento»16. 1.2. Due aspetti della crisi In cosa consiste la “crisi nella fede?”. Ci permettiamo di segnalare, alla luce della lettera apostolica Porta fidei, almeno due aspetti o dimensioni di tale crisi. Il primo aspetto o dimensione riguarda la perdita della prospettiva escatologica della nostra identità di battezzati e, quindi, dell’essere chiesa: l’annuncio della passione, morte, risurrezione e manifestazione gloriosa del Signore si è affievolito. È venuta meno la consapevolezza della radicale novità della risurrezione e della vita nello Spirito. Viviamo sempre più in una chiesa che si è addormentata (sleeping Church), assestata nel tempo e che ha messo le sue radici nella storia, nell’oggi. Viviamo la missione come se fosse già compiuta: è venuta meno quella tensione escatologica delle origini che permise ai primi apostoli di portare il Vangelo fuori dalla città di Gerusalemme. La forza dell’annuncio è soprattutto nella tensione escatologica, in quella consapevolezza delle origini cristiane che portava a proclamare, ad alta voce, e con fiducia, Maranathà! Vieni, Signore Gesù! Il processo di secolarizzazione e il disincanto del mondo hanno reso innocuo la forza del kerygma che, nel suo stesso significato primitivo, sta a indicare una reazione, una forte provocazione, che crea delle attese, delle decisioni, delle prese di posizioni, davanti all’annuncio del Vangelo. Il secondo aspetto o dimensione riguarda un certo intimismo che ha preso sempre più piede nelle nostre comunità: la fede è diventata un fatto privato, individuale, personalistico, emotivo, soggettivo, e si limita a un “sentire” più che a un “ascoltare con fiducia”. A tal proposito, Benedetto XVI afferma chiaramente che «il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato […]. La chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede a ogni persona […]. La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. È la chiesa, infatti, il primo soggetto della fede […]. “Io credo” è la fede della chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto nel momento del battesimo. “Noi crediamo” è la fede della chiesa confessata dai 17 vescovi riuniti in concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli» .
1.3. I nuovi scenari della missione Le due dimensioni della crisi nella fede sono legate ai nuovi cambiamenti mondiali o anche agli scenari o sfide per la nuova evangelizzazione. Si possono individuare almeno sei scenari che 15
Ivi 12. Ivi 13. 17 Porta fidei 10. 16
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mettono a dura prova l’annuncio del Vangelo oggi. Primo fra tutti, va indicato lo scenario culturale di sfondo. Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante. Radicata in modo particolare nel mondo occidentale, frutto di episodi e movimenti sociali e di pensiero che ne hanno segnato in profondità la storia e l’identità, la secolarizzazione si presenta oggi nelle nostre culture attraverso l’immagine positiva della liberazione, della possibilità di immaginare la vita del mondo e dell’umanità senza riferimento alla trascendenza. In questi anni non ha più tanto la forma pubblica dei discorsi diretti e forti contro Dio, la religione e il cristianesimo, anche se in qualche caso questi toni anticristiani, antireligiosi e anticlericali si sono fatti udire anche di recente. Essa ha assunto piuttosto un tono dimesso che ha permesso a questa forma culturale di invadere la vita quotidiana delle persone e di sviluppare una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. I tratti di un modo secolarizzato di intendere la vita segnano il comportamento quotidiano di molti cristiani, che si mostrano spesso influenzati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine con i suoi modelli e impulsi contraddittori. La mentalità edonistica e consumistica predominante induce in loro una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che non è facile contrastare. Accanto a questo primo scenario culturale, ne possiamo indicare un secondo, più sociale: il grande fenomeno migratorio che spinge sempre di più le persone a lasciare il loro paese di origine e vivere in contesti urbanizzati, modificando la geografia etnica delle nostre città, delle nostre nazioni e dei nostri continenti. Da esso deriva un incontro e un mescolamento delle culture che le nostre società non conoscevano da secoli. Si stanno producendo forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita. L’esito culturale di questi processi è un clima di estrema fluidità e “liquidità” dentro il quale c’è sempre meno spazio per le grandi tradizioni, comprese quelle religiose, e per il loro compito di strutturare in modo oggettivo il senso della storia e le identità dei soggetti. A questo scenario sociale è legato quel fenomeno che va sotto il termine di globalizzazione, realtà di non facile decifrazione, che richiede ai cristiani un forte lavoro di discernimento. Questo profondo miscuglio delle culture è lo sfondo sul quale opera un terzo scenario che va segnando in modo sempre più determinante la vita delle persone e la coscienza collettiva. Si tratta della sfida dei mezzi di comunicazione sociale, che oggi offrono enormi possibilità e rappresentano una delle grandi sfide per la Chiesa. Non c’è luogo al mondo che oggi non possa essere raggiunto e quindi non essere soggetto all’influsso della cultura mediatica e digitale che si struttura sempre più come il “luogo” della vita pubblica e della esperienza sociale. Il diffondersi di questa cultura porta con sé indubbi benefici: maggiore accesso alle informazioni, maggiore possibilità di conoscenza, di scambio, di forme nuove di solidarietà, di capacità di costruire una cultura sempre più a dimensione mondiale, rendendo i valori e i migliori sviluppi del pensiero e dell’espressione umana patrimonio di tutti. Queste potenzialità non possono però nascondere i rischi che la diffusione eccessiva di una simile cultura sta già generando. Si manifesta una profonda concentrazione egocentrica su di sé e sui soli bisogni individuali. Si afferma un’esaltazione della dimensione emotiva nella strutturazione delle relazioni e dei legami sociali. Si assiste alla perdita di valore oggettivo dell’esperienza della riflessione e del pensiero, ridotta in molti casi a puro luogo di conferma del proprio sentire. Si diffonde una progressiva alienazione della dimensione etica e politica della vita, che riduce l’alterità al ruolo funzionale di specchio e spettatore delle mie azioni. Un quarto scenario che segna con i suoi mutamenti l’azione evangelizzatrice della chiesa è quello economico. La perdurante crisi economica nella quale ci troviamo segnala il problema di utilizzo di forze materiali, che fatica a trovare le regole di un mercato globale capace di tutelare una convivenza più giusta. Un quinto scenario è quello della ricerca scientifica e tecnologica. Viviamo in un’epoca che non si è ancora ripresa dalla meraviglia suscitata dai continui traguardi che la ricerca in questi campi ha saputo superare. Tutti possiamo sperimentare nella vita quotidiana i benefici arrecati da questi 5
progressi. Tutti siamo sempre più dipendenti da questi benefici. La scienza e la tecnologia corrono così il rischio di diventare i nuovi idoli del presente. Un sesto scenario è quello politico. È giunta la fine della divisione del mondo occidentale in due blocchi con la crisi dell’ideologia comunista. Ciò ha favorito la libertà religiosa e la possibilità di riorganizzazione delle Chiese storiche. L’emergere sulla scena mondiale di nuovi attori economici, politici e religiosi, come il mondo islamico, mondo asiatico, ha creato una situazione inedita e totalmente sconosciuta, ricca di potenzialità, ma anche piena di rischi e di nuove tentazioni di dominio e di potere. In questo scenario, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; il miglioramento delle forme di governo mondiale e nazionale; la costruzione di forme possibili di ascolto, convivenza, dialogo e collaborazione tra le diverse culture e religioni; la custodia dei diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto delle minoranze; la promozione dei più deboli; la salvaguardia del creato e l’impegno per il futuro del nostro pianeta, sono tutti temi e settori da illuminare con la luce del Vangelo. Certamente, questa “crisi nella fede” tocca anche i contenuti del nostro credere: la conoscenza dei contenuti della fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto è proposto dalla chiesa. «La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio»18. Da qui il bisogno di approfondire i documenti del Vaticano II e di conoscere bene la dottrina cristiana attraverso lo studio del CCC19. Di fronte a simili cambiamenti è naturale che la prima reazione sia di smarrimento e di paura, confrontati a trasformazioni che interrogano la nostra identità e la fede sin nelle fondamenta. Diventa naturale assumere quell’atteggiamento critico di discernimento attraverso una rilettura del presente a partire dalla speranza che il cristianesimo porta in dono. Imparando di nuovo che cosa è la speranza, possiamo operare nel contesto delle nostre conoscenze ed esperienze, dialogando con gli altri uomini, intuendo cosa possiamo offrire al mondo come dono, cosa è possibile condividere, cosa possiamo assumere per esprimere ancora meglio questa speranza, su quali elementi invece è giusto resistere. I nuovi scenari con cui siamo chiamati a confrontarci chiedono di sviluppare una critica degli stili di vita, delle strutture di pensiero e di valore, dei linguaggi costruiti per comunicare. Essa, al medesimo tempo, dovrà funzionare anche come autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso riscoprendo le proprie radici. Qui trova il suo specifico e la sua forza lo strumento della nuova evangelizzazione: occorre guardare a questi scenari, a questi fenomeni, sapendo superare il livello emotivo del giudizio difensivo e di paura, per cogliere in modo oggettivo i segni del nuovo insieme alle sfide e alle fragilità. 1.4. Che cosa s’intende per nuova evangelizzazione? Forse, prima di continuare nella nostra riflessione, è bene anche chiarire che cosa s’intende per nuova evangelizzazione. Il termine “nuova evangelizzazione” fu introdotto da Giovanni Paolo II nel suo viaggio apostolico in Polonia (2/10-6-1979) e poi approfondito nel suo magistero rivolto soprattutto alle Chiese dell’America Latina. Nuova evangelizzazione è intesa non come nuova missione, bensì nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni. La nuova evangelizzazione non è una reduplicazione della prima, non è una semplice ripetizione, ma è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo. Il continente latino-americano si trovava chiamato in quel periodo a misurarsi con nuove sfide (il diffondersi dell’ideologia comunista, l’apparizione delle sette); la nuova evangelizzazione è l’azione che segue al processo di discernimento con cui la Chiesa in America Latina è chiamata a 18
Ivi. Benedetto XVI afferma che il CCC è utile per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede. Si tratta di un sussidio prezioso e indispensabile: costituisce uno dei frutti più importanti del Vaticano II ed è una norma sicura per l’insegnamento della fede. Il CCC offre una sintesi sistematica e organica dei contenuti fondamentali della fede. Cf. ivi 11. 19
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leggere e valutare la situazione in cui si trova. In questa accezione il termine fu ripreso e rilanciato nel magistero di Giovanni Paolo II rivolto alla chiesa universale. Oggi la chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo. La nuova evangelizzazione è un’azione anzitutto spirituale, la capacità di fare nostri nel presente il coraggio e la forza dei primi cristiani, dei primi missionari. È, quindi, un’azione che chiede anzitutto un processo di discernimento circa lo stato di salute del cristianesimo, la rilevazione dei passi compiuti e delle difficoltà incontrate. In un mondo che con il crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi tra loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell’unica e comune missione di annunciare e di vivere il Vangelo. Nuova evangelizzazione è sinonimo di rilancio spirituale della vita di fede delle Chiese locali, avvio di percorsi di discernimento dei mutamenti che stanno interessando la vita cristiana nei vari contesti culturali e sociali, rilettura della memoria di fede, assunzione di nuove responsabilità e di nuove energie in vista di una proclamazione gioiosa e contagiosa del Vangelo di Gesù Cristo. Nonostante questa diffusione e notorietà, il termine non riesce comunque a farsi accogliere in modo pieno e totale nel dibattito, sia dentro la Chiesa cattolica che dentro la cultura. Nei suoi confronti rimangono alcune riserve come se con questo termine si voglia elaborare un giudizio di sconfessione e una rimozione di alcune pagine del passato recente della vita delle Chiese locali. C’è chi dubita che la “nuova evangelizzazione” copra o nasconda l’intenzione di nuove azioni di proselitismo da parte della Chiesa cattolica, soprattutto nei confronti delle altre confessioni cristiane. Si tende a pensare che con questa definizione si operi un mutamento nell’atteggiamento della chiesa verso chi non crede. La nuova evangelizzazione è, dunque, un’attitudine, uno stile audace. È la capacità, da parte del cristianesimo, di saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni si sono creati dentro la storia degli uomini, per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo. Questi scenari sono stati individuati analiticamente e descritti più volte; si tratta di scenari sociali, culturali, economici, politici, religiosi20.
2. Per un’autentica e rinnovata conversione «L’anno della fede, in questa prospettiva, è un invito a un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cf. At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo a una vita nuova: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una nuova vita” (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova 21 plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione» .
La crisi nella fede tocca il cuore della vita cristiana: l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo e, di conseguenza, la partecipazione alla vita nuova che è iniziata in noi mediante il battesimo. È in pericolo l’identità del cristiano e il contenuto della sua missione: la pasqua di Gesù Cristo, il kerygma delle origini. Dunque, potremmo rispondere alla domanda precedente affermando, come seconda motivazione, che c’è il bisogno di un’autentica e rinnovata conversione al Signore. D’altronde, in questa lettera, il papa intende la fede come «un mettersi in cammino» (cioè un esodo senza ritorno), una sorta di «pellegrinaggio spirituale, interiore», ma anche e soprattutto come «incontro con una Persona che vive nella chiesa» (cioè un avvento senza rimpianto), nonché quale «compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le 20
Cf. XIIIª ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, Lineamenta La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (4-3-2011), nn. 5-6: Il Regno-Documenti 5 (2011) 129-154, qui 134-137. 21 Porta fidei 6.
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meraviglie che Dio compie per noi»22. La fede, dunque, nella percezione di Benedetto XVI, è il fondamento23 – e non un semplice presupposto – del vivere comune ed è «decidere di stare con il Signore per vivere con lui. E questo “stare con lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale 24 di ciò che si crede» .
Dimenticare questo principio di verità ha delle conseguenze terribili per il credente perché può 25 condurre alla perdita della fede e al suo impoverimento . La vita di comunione con il Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo produce una visione completamente nuova della persona e del suo modo di relazionarsi agli altri e di stare nel mondo. È necessario convertirsi a questo nuovo stile di vita, che è l’ethos pasquale, come risposta all’ethos trinitario. La conversione non è un’uscita da sé, bensì l’inveramento del proprio essere “in e con gli altri” alla presenza del Signore morto e risorto, rientrando completamente dentro di sé. La conversione consiste nel lasciarsi guardare negli occhi dalla Verità che illumina e rivela il senso della nostra vita e lo innalza verso quell’orizzonte ultimo – Dio-Trinità – il cui splendore si rivela nella Bellezza26. La crisi di fede è vissuta da persone concrete inserite in contesti culturali complessi, eredi di tradizioni e mentalità che portano a valutare in modo diverso le loro reali potenzialità e la loro relazione con Dio. A tal proposito, Benedetto XVI afferma chiaramente nel motu proprio, che occorre intensificare «la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole e a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità 27 sta vivendo» .
I riflessi soggettivi dell’agire umano corrispondono all’idea che le persone si fanno di sé e di Dio, ma gli effetti globali di esso vanno pensati in base a ciò che Dio rivela di sé e della relazione che instaura con l’umanità. L’essere umano non è la misura della realtà; è questa il fondamento e il contesto del pensare umano soprattutto oggi. L’annunzio del Vangelo e tutta questa complessa realtà si sfidano reciprocamente. Quando questo confronto è perseguito con coraggio, lealtà e sincerità, la verità si chiarisce, le persone sono portate a rivedere le proprie posizioni e matura una più viva coscienza della propria condizione, della miseria che la falsa e delle vie della liberazione. Assecondare questo processo di conversione è responsabilità comune diretta a far sì che i credenti in Cristo riconoscano se stessi in verità, si attribuiscano il negativo che li falsa e consentano a venirne fuori. In tal senso, la “crisi” di fede è un’opportunità, un momento-occasione favorevole, per rendere autentica la nostra esistenza di credenti e rinnovare il nostro “sì” al Signore crocifisso e risorto. Benedetto XVI guarda al dono battesimale della fede non semplicemente come a una realtà statica, bensì come inserimento nella vita nuova che orienta tutta la nostra esistenza verso il bene futuro che è la comunione della vita eterna. Riconoscere una crisi di fede significa interrogarsi sul 22
Cf. ivi 2; 10; 11; 15. La fede, in quanto fondamento-sostanza delle cose che si sperano, è conoscenza autentica di Dio e consistenza dell’essere, cioè è l’altro nome della Verità. A tal proposito, cf. BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Spe salvi (30-112007), n. 7: EV 24,1445. La fede «non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future»: (ivi). Nella Spe salvi, Benedetto XVI ricorda pure che la speranza è l’equivalente della fede. Cf. ivi 2: ivi 1440. 24 Porta fidei 10. 25 Cf. ivi 2. 26 Cf. R. GUARDINI, Etica, Brescia 2001, 467-468; 486; 555; ID., Preghiera e verità. Meditazioni sul Padre nostro [1960], Brescia 2003, 9-11. 27 Porta fidei 8. 23
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significato che Dio e l’uomo hanno l’uno per l’altro, a partire dalla buona novella e dalla concretezza del tempo reale. La crisi è un’opportunità per rinnovare la nostra fiducia in Dio e riscoprire il senso genuino della fede. Jhwh rivela al profeta Geremia: “Io sono con te” (cf. Ger 1,8), cioè “Io sono dalla tua parte, sempre vicino a te, sono presente alla tua vita”. Solamente Dio è colui che ci può rendere stabili. Liberandoci da eccessive e, a volte, inutili e catastrofiche analisi sociologiche ed economiche, occorre ripartire dall’esperienza della fede, dal Vangelo come vissuto o forma di vita che ci rinnova e apre i cuori a una gioia più grande. È stata questa l’esperienza degli apostoli che, dopo aver incontrato il Risorto, l’hanno annunciato con la vita. Nell’identità cristiana vige un principio che ci rende fedeli al Vangelo e che al meglio esprime la natura del cristianesimo: “Siamo nascosti con Cristo in Dio” (cf. Gal 2-3; Col 3,3). Il peccato consiste in una resistenza passiva innanzi alla novità di vita suscitata dal Vangelo di Gesù Cristo e indicata dai segni dei tempi. La conversione non è uno sforzo etico o una questione di buona volontà. Non è una sorta di moralismo: è il ritorno a Dio con tutto il cuore (cf. Gl 2), cioè un cambiamento del modo d’agire e d’essere, di pensare e di conoscere, di costruire relazioni e di fare esperienza di Dio e di comunione. Occorre ritornare ad annunciare il Vangelo di Gesù Cristo senza alcuna pretesa d’essere riconosciuti e ascoltati, e soprattutto dopo che sia avvenuta in noi la riconciliazione con noi stessi, possibilmente con i fratelli e in ultimo con Dio. Nel termine conversione occorre fare entrare tutta la dimensione antropologica e affettiva della nostra esistenza concreta, diversamente resteremo sempre delle persone deluse, frustrate e prive di speranza. Occorre, perciò, dare un nome o anche un volto concreto ai nostri idoli e a quei sentimenti che dentro ci possono lacerare in profondità e ci lasciano senza via d’uscita (invidia, gelosia, egoismo, carrierismo…). Se la fede è una porta sempre aperta che siamo invitati nuovamente ad attraversare, significa che c’è un itinerario spirituale da compiere, un lungo processo di cambiamento e di trasformazione interiore che è necessario portare avanti. A tal proposito, afferma sant’Ambrogio che «la nostra porta è la fede la quale, se è forte, rafforza tutta la casa. È questa la porta per la quale entra Cristo»28. La crisi di fede non è altro che un voler chiudere gli occhi davanti alla Verità: «La realtà è Dio, la verità è il fatto che le cose sono create e la persona è stata chiamata»29. L’affermazione e la rivendicazione che l’uomo sia autonomo in se stesso, di fronte al mondo autonomo in quanto natura, e capace di operare in maniera sovrana, sono oramai dei sogni infranti: «L’uomo non è soggetto autonomo ma esiste per chiamata di Dio […]. Questo può essere visto e questo costituisce 30 il presupposto di quella metanoia dalla quale soltanto può scaturire il rinnovamento» e il superamento della crisi.
3. Immagini e simboli della fede nel motu prorio
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AMBROGIO DI MILANO, Commento sul Salmo 118 12; 13-14: CSEL 62,258-259. Il santo vescovo di Milano, ancora, afferma che nel tempo di crisi e di tentazione, il catecumeno deve volgersi «verso l’Oriente: perché chi rinunzia al diavolo si rivolge verso Cristo, lo guarda dritto in faccia»: (AMBROGIO DI MILANO, Trattato sui misteri 1-7: SCh 25bis, 156-158). L’immagine della fede come porta è presente anche in alcuni scritti di san Bonaventura: «Per mezzo dello Spirito Santo […] ci viene data la fede, e per mezzo della fede Cristo abita nei nostri cuori (cf. Eb 17,3). Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui hanno origine, come da una fonte, la sicurezza e l’intelligenza della verità, contenuta in tutta la Sacra Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrarvisi e conoscerla, se prima non abbia la fede che è lucerna, porta e fondamento di tutta la Sacra Scrittura. La fede, infatti, lungo questo nostro pellegrinaggio, è la base da cui vengono tutte le conoscenze soprannaturali, illumina il cammino per arrivarvi ed è porta per entrarvi»: (BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Breviloquio Prologo, in Opera omnia V, 201-202). 29 GUARDINI, Etica, 1018. 30 Ivi. Per Romano Guardini, credere significa «radicalmente qualcos’altro, è cioè l’entrata nel rapporto io-tu con il Dio che si rivela. È il legarsi della persona che ascolta con la persona che parla. Credere, perciò, è un rapporto di rispetto, di fiducia, di ubbidienza – in una parola: di fedeltà […]. Questa fedeltà però non viene ancora distrutta da un dubbio. Un dubbio non toglie il dovere della fede»: (ivi 1077-1078).
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La prima immagine della fede che ritroviamo nell’incipit del motu proprio Porta fidei è quella della porta. Benedetto XVI afferma che «la porta della fede, che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta. È possibile attraversare quella soglia quando la parola di Dio viene annunciata e il cuore si 31 lascia plasmare dalla grazia che trasforma» .
Il simbolo della porta32 è liberamente ispirato ad At 14,27. Questo testo ci riporta alla fine del primo viaggio missionario di Paolo e considera il ritorno di Paolo ad Antiochia di Siria (cf. At 14,21-28). L’immagine della porta è qui usata dall’agiografo per raccontare ciò che Dio aveva operato con Paolo e Barnaba e che egli aveva aperto ai pagani la porta per venire alla fede. Il v. 27 è il rendiconto fatto dagli apostoli nell’assemblea comunitaria di Antiochia. Dopo l’attraversamento della Pisidia, regione montuosa a nord-ovest della catena del Tauro, nella cui parte settentrionale si trova Antiochia, Paolo e Barnaba ritornano in Panfilia, nel territorio a sud dei monti del Tauro verso il mare, regione nella quale si trova Perge, dove adesso predicano, e quindi ad Attalia, il porto dove a suo tempo erano approdati e dove s’imbarcarono sulla nave che li portò a Seleucia, porto di Antiochia di Siria. Di lì essi furono presi e consegnati per l’opera della grazia di Dio, quella grazia che nei missionari aveva prodotto il compimento di quest’opera (cf. 1Cor 15,10), aveva condotto cioè alla svolta verso i pagani, all’apertura della porta della fede per loro. Luca fa comprendere che nel loro viaggio missionario il vero agente era stato Dio. La relazione degli apostoli, il loro racconto, è al tempo stesso un’interpretazione teologica degli avvenimenti: essi raccontano ciò che Dio aveva operato con loro. Dunque, la porta della fede si riferisce all’ingresso dei pagani nella comunità cristiana delle origini. Il successo missionario tra i pagani aveva dimostrato che Dio stesso aveva aperto ai pagani l’ingresso nel popolo escatologico di Dio. L’immagine della porta aperta da Dio s’incontra anche nella terminologia missionaria paolina (cf. 1Cor 16,9; 2Cor 2,12; Col 4,3), però quale immagine che descrive l’occasione favorevole che si presenta al missionario. Invece, nel v. 27 si è pensato all’accesso al tempio escatologico del popolo di Dio (cf. 1Cor 3,10s.; Ef 2,20s.), alla fede vista come l’essere cristiani (cf. v. 22b) 31
Porta fidei 1. Nella Bibbia, la porta è un simbolo polivalente che, nel Secondo Testamento, assume una forte connotazione cristologica. Infatti, se nell’AT la porta che si apre è simbolo di accoglienza e di salvezza (cf. Gb 31,32), ma pure di protezione (cf. Es 20,10) e di giustizia (cf. Is 28,6) – importante la porta della città vicino alla quale si concentra la vita della città (cf. Gb 29,7; Sal 69,13), nonché luogo dove si fanno manovre politiche (cf. 2Sam 15,1-6) e si esprimono giudizi (cf. Dt 21,19; Am 5,10-15) –, fino a qualificare la potenza della città (cf. Gen 22,17; Dt 28,52-57) come Gerusalemme (cf. Sal 24,7), nel NT Gesù è la porta delle pecore (cf. Gv 10,9), cioè l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. È molto importante il significato escatologico della porta. La città santa, la nuova Gerusalemme (o celeste), ha dodici porte: esse sono sempre aperte e, tuttavia, il male non vi entra più. Sono il simbolo della giustizia e della pace in pienezza, cioè lo scambio perfetto tra Dio e l’umanità (cf. Ap 21,12-27; 22,14-15). La Scrittura fa ancora riferimento alle porte degli inferi, nonché alla porta del cielo (cf. Gen 28,17), alla porta del tempio di Gerusalemme (cf. Sal 100,4). L’invito a squarciare i cieli, quindi ad aprire la porta del cielo, ha un significato messianico (cf. Is 63,19). Gesù utilizza l’immagine della porta stretta per invitare alla conversione (cf. Mt 7,13; Lc 13,24). La porta è ancora simbolo di attesa fiduciosa e vigilante (cf. Mc 13,29) Mt 25,10; Lc 13,25). Gesù ha dato a Pietro le chiavi del Regno (cf. Mt 16,19) e ha potere sulle porte degli inferi (cf. Mt 16,18). Dal punto di vista della storia delle religioni, la porta rappresenta il luogo di passaggio fra due stati o mondi, fra il conosciuto e l’incognito, la luce e le tenebre, la ricchezza e la miseria. La porta si apre su un mistero e ha un valore dinamico, psicologico, poiché non solo indica un passaggio, ma invita a superarlo. È l’invito al viaggio non necessariamente verso un aldilà ma sicuramente a scoprire una realtà spirituale più profonda. La porta è l’apertura che permette di entrare e di uscire, dunque il passaggio possibile – oltre che unico –, da un campo all’altro. La porta assume un significato tutto speciale nell’architettura cristiana: il Cristo glorioso è raffigurato nel timpano dei portali delle cattedrali poiché egli stesso, per mistero della redenzione, è la porta attraverso la quale si accede al regno dei cieli. Cristo è la vera porta (Christus ianua vera) dei pellegrini e dei redenti. Bella e suggestiva l’immagine escatologica del Cristo che è alla porta e chiede di entrare (cf. Ap 3,20) parafrasando il testo di Ct 5,2. Per la tradizione giudaica, si attende a pasqua la liberazione finale e la venuta del messia (cf. il poema delle quattro notti nel Targum dell’Esodo 12,42). Tale attesa era significata dall’apertura delle porte del tempio nel cuore della notte pasquale. Per approfondimenti, cf. B. VALENTIN, Les douzes clefs de la philosophie, Paris 1956, 145-146; M. ELIADE, Le sacré et le profane, Paris 1965 [Il sacro e il profano, a cura di E. Fadini, Torino 2009, 41-43]. Cf. pure Porta, in J. CHEVALIER A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri. II. L-Z, a cura di I. Sordi, Milano 1995, 240-244. 32
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nell’appartenenza a questo popolo. «Se lo stesso Dio ha dischiuso questo accesso (cf. 10,45-47), egli vuole “scegliere tra i pagani un popolo per il suo nome” (15,14). Di conseguenza, non si possono “creare difficoltà ai pagani che sorgeranno tra poco ad Antiochia” (15,19)»33. Il passaggio di questa soglia mette in evidenza anzitutto l’iniziativa gratuita di Dio – perché la fede è dono della grazia del Signore –, poi l’impegno missionario degli apostoli e ancora la libera decisione di chi riceve l’annuncio insieme alla molte tribolazioni che Paolo e Barnaba dovettero subire. Per Luca è un fatto quasi necessario che l’ingresso nel regno di Dio passi per molte tribolazioni (cf. At 14,22): rientra nel progetto del Signore. L’immagine della porta della fede, sempre aperta, si collega a un altro tema molto importante negli Atti degli apostoli: l’attività di Dio, iniziata nel Primo Testamento e manifestatasi in pienezza nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, continua ora nelle comunità cristiane nate dalla fede nel Risorto. L’ingresso nella chiesa segna, per il battezzato, l’inizio della vita nuova. Da qui l’importanza, per noi, durante l’anno della fede, di approfondire il significato del sacramento del battesimo come partecipazione alla pasqua di Gesù Cristo e inserimento nella vita trinitaria. La seconda immagine che papa Benedetto XVI ci consegna della fede è quella del cammino34. La fede è un mettersi in cammino, un vero e proprio pellegrinaggio, sull’esempio di Abramo, di Mosè, dei profeti… In tal senso, la fede è veramente un esodo senza ritorno perché esige un completo uscire da sé per andare verso l’Altro, Dio. Si tratta di un esodo senza pentimento e senza ritorno verso quel Dio ancora straniero che invita, e insieme a un’accettazione di ciò che egli propone, un assenso alle parole della sua verità. Credere non è allora anzitutto accettare qualcosa, bensì accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare noi stessi in un geloso possesso, perché Dio ci abiti, consegnando a lui totalmente la nostra esistenza. È questa l’esperienza di Abramo, nostro padre nella fede; è stata questa l’esperienza di Maria, la Madre del Signore, dei tanti martiri e testimoni della fede del nostro tempo. L’immagine della fede come cammino ci permette di comprendere anche che la fede nasce dall’ascolto della Parola (cf. Rm 10,17) e, quindi, da un profondo dialogo con il Signore. Abramo, padre di tutti i credenti, partì senza sapere dove andava e soggiornò nella terra promessa come in un regione straniera (cf. Eb 11,8s.). In tal senso, la fede è anche un rischio: perché si tratta di dare il cuore e non semplicemente di aderire a delle verità rivelate o a un dottrina. Credere è veramente “cor-dare” secondo una felice traduzione medievale. È credere all’impossibile possibilità di Dio. La fede diviene, in questa prospettiva, incontro con una persona viva e dialogo con Dio35. La fede è l’apertura del grande e intenso dialogo storico tra Dio e l’uomo, la parola rivolta da Dio all’uomo, che lo costituisce come persona capace di rispondere e che attende da lui una risposta. L’immagine della porta ci permette di ritrovare un tratto originario della rivelazione di Jhwh: il 36 suo manifestarsi come guida . Dapprima per degli individui singoli (Abramo, Isacco, Giacobbe) e per i gruppi che si raccolgono intorno ad essi, poi per dei popoli (non in modo esclusivo per Israele, il quale ha unicamente la prerogativa di conoscerne il nome, non quella di essere guidato da lui), poi per la chiesa. Attraversare la soglia della fede significa, quindi, ritornare alle origini della storia della rivelazione biblica. Dio, anzitutto, è colui che tira fuori, che libera. Se il “trarre fuori” appartiene all’essenza di Dio sin dall’inizio, Jhwh fa di Abramo il nomade della fede che diventa costitutiva in quanto costringe al distacco. Infatti, al guidare di Dio deve corrispondere un lasciarsi 33
R. PESCH, Atti degli apostoli, Assisi (Perugia) 1992, 578. Cf. Porta fidei 2. 35 Cf. ivi 11. 36 Scrive in proposito M. BUBER, La fede dei profeti [1964], Genova-Milano 2002, 4-5: «Non si ripeterà mai abbastanza che la fede di Israele può essere compresa nella sua realtà solo se si tiene presente con tutta la concretezza possibile la duplice esperienza di Dio di questo popolo. La prima esperienza, che esso fa come popolo, è quella dei nomadi: il nostro Dio cammina davanti a noi, noi camminiamo dietro di lui, la via è la sua via, e su questa noi dobbiamo seguirlo. È un Dio che trae fuori, che guida, che mostra la via, un Dio il cui passo distingue l’unica via giusta dalle innumerevoli vie sbagliate; e tale egli rimane fin nelle altezze supreme dell’ethos religioso, che nell’area semitico occidentale proprio qui solamente si sono manifestate; ed è per questo che è nettamente superiore a tutti gli dèi tribali che guidavano nei loro viaggi i gruppi nomadi della stessa area. La seconda esperienza, certamente indisgiungibile da questa, è fatta dal popolo nei suoi individui, negli “annunciatori”: all’annunciatore, al nabi’, il suo Dio rivolge la parola, e per mezzo di lui la rivolge al suo popolo. Egli comunica puntualmente attraverso di lui la sua “istruzione” (torah), l’indicazione della sua via, che inoltre ha bisogno di volta in volta di essere interpretata dalla bocca umana». 34
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guidare dell’uomo, al suo amare un affidarsi, all’elezione nell’alleanza un’accettazione dell’alleanza, al conoscere di Jhwh un conoscere d’Israele e, nel nostro caso, della chiesa. Tuttavia, la risposta dell’uomo credente non avviene esclusivamente in un dialogo diretto, ma si realizza attraverso un agire dell’uomo che non ritorna immediatamente su Dio, ma si rivolge al mondo e agli altri uomini. L’immagine della porta fidei ci fa comprendere che il dialogo tra l’uomo e Dio non può avvenire se non attraverso la sequela e, d’altra parte, la sequela ha il suo fondamento nel dialogo. Tale situazione, del resto, ha già la sua origine nell’atto creativo con cui Dio forma l’uomo. Spesso, l’uomo di fede è capace di compiere scelte e azioni che hanno un valore etico e redentivo o che, comunque, il significato assoluto e autentico di tali azioni può emergere solo dalla coscienza del loro fondamento nel dialogo con Dio. È nella relazione personale con l’Assoluto che possiamo imparare ad agire in modo pienamente responsabile verso gli altri. L’esperienza delle fede, dunque, rivela all’uomo la possibilità della sequela e del dialogo. Al Dio veniente nella storia, alla sua Parola fatta carne, che risuona attraverso gli eventi e le parole intimamente connessi della rivelazione, l’uomo si apre nell’obbedienza della fede con la quale egli si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui (cf. DV 5). L’“amen” della fede coinvolge l’uomo nella pienezza della sua libertà e insieme con l’intensità con cui il naufrago si aggrappa allo scoglio nel mare in tempesta37. Proprio perché la fede non è qualcosa di astratto, bensì un’esperienza concreta di Cristo, in porta fidei papa Benedetto pone in rilievo il vissuto di fede di alcuni credenti. Interessante il personaggio di Lidia, forse in assoluto la prima cristiana europea (cf. At 16,14). È una commerciante di porpora, il cui nome indica anche la provenienza: è di Tiatira (cf. Ap 1,11; 2,18.24) in Lidia, una città nota per l’industria della porpora. Apparteneva ai timorati di Dio di Filippi. A questa ascoltatrice di Paolo, il quale conduce la conversazione, Dio aprì il cuore: ella aderì alle parole di Paolo, al suo invito alla conversione a cui fece seguito il battesimo che fu amministrato anche ai membri della casa di Lidia (cf. At 16,33; 18,8; 1Cor 1,16). Quella casa divenne il nucleo della nuova comunità. L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente. Paolo si trovava a Filippi e andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne: solamente un cuore aperto alla grazia può essere toccato dal Signore. L’esempio di Lidia ci fa comprendere che la fede è «decidere di stare con il Signore per vivere con lui»38. Benedetto XVI presenta anche la fede di Maria come sequela, nonché l’esperienza credente degli apostoli, dei primi discepoli e martiri che donarono la loro vita per testimoniare la verità del Vangelo. Ultimo, ma non meno importante, è il riferimento al giovane Timoteo39, discepolo di Paolo, al quale l’apostolo delle genti chiede di cercare la fede (cf. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cf. 2Tm 3,15). In tal senso, questo invito è per tutti noi e ci fa 40 comprendere che la fede è veramente la nostra compagna di vita .
3. Alcune prospettive di cui tener conto Benedetto XVI sembra dirci che l’assenso della fede non riposa nella Parola udita, ma esige di scandagliarla con inestinguibile sete per andare, in essa e per essa, verso le profondità di Dio, dove solo lo Spirito Santo giunge. 37
Cf. le belle meditazioni sulla fede di B. FORTE, La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, 56-70. 38 Porta fidei 10. 39 È interessante, per l’annuncio del Vangelo e la testimonianza di fede oggi, considerare il legame paterno-filiale che si stabilì tra Paolo e Timoteo. La fede passa sempre attraverso il nostro vissuto, soprattutto mediante la dimensione affettiva. A tal proposito, cf. E. SCOGNAMIGLIO, «Annunzia la Parola». Lectio divina sulla seconda lettera a Timoteo, Milano 2008; ID., «Il mistero della pietà». Lectio divina sulla prima lettera a Timoteo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009. 40 Cf. Porta fidei 15.
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«È proprio in questo orizzonte che l’anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la chiesa ha accolto, custodito e offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai padri della chiesa, dai maestri di teologia ai santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella 41 loro vita di fede […]. Il Catechismo […] potrà essere un vero strumento a sostegno della fede» .
In tale prospettiva, la fede si fa ricerca, provocata e nutrita dalla rivelazione che non lascia l’uomo dove lo ha trovato, ma lo seduce e l’attira verso un più vasto orizzonte. L’assenso, dunque, si fa cogitativo, pervaso dall’agitazione del desiderio e della vita sempre in movimento del pensiero: «Credere est cum assensione cogitare»42. Per rendere ragione alla speranza che è in noi – il Cristo crocifisso e risorto –, la conoscenza nella fede esprime il bisogno di raccontare in modo sistematico e organico la luce raggiunta, non per fermare la ricerca, ma per darle un appoggio che le permetta di comunicarsi e di andare oltre. L’atto di fede non può fermarsi al solo kerygma, all’enunciato, ma cerca, come il cuore di un innamorato, il volto di Dio. Se la professione di fede è inizio del Mistero, apertura sull’infinito, il dogma non è lastra tombale, ma pietra miliare. La proposta del Catechismo non è altro che la fede oggettivata nella conoscenza e professata nella parola, la fides quae creditur, che resta sempre nella tensione dell’atto con cui, credendo, l’uomo si abbandona a Dio, di quella fides qua creditur che è la sorgente profonda di ogni pensiero credente, in quanto è il luogo interiore dell’avvento di Dio. Il sapere è un momento costitutivo della fede che è colta nelle sue motivazioni e giustificazioni. Il credente non deve e non può rinunciare alla sua ratio critica, sempre che la fede sia e rimanga un atto veramente umano che s’inquadra nell’intera economia della vita spirituale e morale dell’uomo nel quale matura. La razionalità, in tal senso, non si oppone alla vita della fede, anzi la nutre e la esprime: «Intellige, ut credas». Così, il primato della fede non annulla il pensiero critico, anzi l’esige e lo stimola: «Crede, ut intelligas»43. Se è vero che in questo orizzonte l’anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede – che trovano nel CCC la loro sintesi sistematica e organica 44 –, e che i credenti si fortificano credendo 45 , bisognerà studiare maggiormente i linguaggi della fede e lo stile della nostra comunicazione in quanto credenti. Occorre maturare, nelle nostre comunità, il fatto che la comunicazione del senso della fede è l’autotestimonianza, storicamente responsabile e quindi razionale, della fede stessa concretamente esistente. La comunicazione del senso della fede è espansione del vissuto della fede stessa dentro le maglie del senso che la storia umana tesse incessantemente. L’intelligenza della fede – o anche la conoscenza teologica – non è altro che comunione portata alla parola per essere comunicata e vissuta, pensiero di pace, che nasce dall’esperienza del dono ed è diffusivo della carità. In tal senso, la conoscenza di fede diventa compagnia di vita per tutti i credenti in Cristo ed è al servizio della comunione e della missione nella chiesa in quanto profezia. L’intelligenza della fede serve la comunione sia in quanto elabora un linguaggio che consenta la comunicazione fra le più diverse situazioni storiche della fede, sia in quanto ha una capacità di discernimento umile e coraggioso nell’assumere la complessità del vissuto ecclesiale e mondano e di essere, quindi, coscienza critica per la comunità credente. Ciò significa che la fede come affidamento personale al Signore e la fede che professiamo nel Credo sono inscindibili, si richiamano e si esigono a vicenda. Esiste un 46 profondo legame tra la fede vissuta e i suoi contenuti .
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Ivi 11-12. AGOSTINO D’IPPONA, De praedestinatione sanctorum 2,5: PL 44,963. 43 Cf. AGOSTINO D’IPPONA, In Johannis Evangelium 63,1: PL 35,1805; ID., Sermo 43,7,9: PL 38,258. 44 Cf. Porta fidei 11. 45 Cf. AGOSTINO D’IPPONA, De utilitate credendi 1,2; ID., Confessioni I,1. 46 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota Indicazioni pastorali per l’anno della fede (6-1-2012): Il Regno-Documenti 3 (2012) 69-74. 42
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Confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, fiducia e speranza47, significherà riscoprire il senso della tradizione viva della Chiesa cattolica che è stato raccolto e recepito nella grande profezia del dialogo che è il Vaticano II. A tal proposito, Benedetto XVI mette in guardia da una sua falsa interpretazione (esclusivamente un’ermeneutica della discontinuità) e auspica che sia letto e recepito lasciandosi guidare da una giusta ermeneutica della continuità per favorire il rinnovamento della chiesa48. Il Vaticano II è stato il concilio della chiesa e della storia, nonché una grande profezia del dialogo ad intra e ad extra. Fiumi d’inchiostro sono stati versati per descriverne le fasi della sua recezione e il significato stesso del contenuto e delle condizioni della recezione. Un dato è certo: il Concilio ecumenico Vaticano II è davanti a noi, così come lo sono le sue intuizioni, attese, così come lo è lo stesso spirito del Concilio. Il Vaticano II rappresentò l’impresa di tutta una chiesa volta a comprendere il Vangelo e la tradizione viva della chiesa nel proprio momento storico. È stato un grande atto di tradizione nel quale la chiesa tutta si pose in ascolto della parola viva del Vangelo. Il Vaticano II fu la rappresentazione della chiesa in atto che visse il passaggio da una chiesa europea a una chiesa sempre più mondiale e plurale. Nel Vaticano II, la chiesa tutta ha operato la parádosis allo stesso modo degli apostoli. I padri conciliari, infatti, si misero in ascolto della Tradizione del Vangelo nella sua globalità per una comunicazione adeguata alle esigenze del nostro tempo. Tuttavia, l’aspetto veramente innovativo dell’evento ermeneutico conciliare fu l’attenzione alla storia come luogo nel quale avviene l’interpellazione attuale di Dio. Infine, ma non meno importante, la chiesa fu in actu perché l’evento ermeneutico della Tradizione viva del Vangelo fu un atto liturgico. Il Concilio, oggi, sarà recepito realmente nella misura in cui la chiesa tutta sarà capace di essere conciliare in ogni sua manifestazione. Ciò richiederà un ulteriore cammino di pratica e di corrispondente riflessione ecclesiologica49. A cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II, non si è ancora esaurita la sua linfa. Il Concilio rimane come una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si è appena aperto. A tal proposito, Paolo VI – nel momento in cui i padri stavano per lasciarsi alla fine delle sedute del Concilio, dichiarò: “Il Concilio si conclude; il Concilio incomincia”. Lo stesso Karl Rahner, nel suo primo intervento pubblico dopo il Vaticano II affermò che il Concilio è “ein anfang des anfang”, cioè un “inizio dell’inizio”. Il Vaticano II è stato veramente un potente fermento di novità nella vita della Chiesa cattolica anche se molto rimane ancora da fare per la sua recezione. Tutto questo non avviene senza passi falsi, regressi, esitazioni, impazienze e tensioni. Nel nostro immaginario cattolico, prevale, oramai l’idea di una chiesa che si fa dialogo, che si confronta con il mondo e cerca l’unità tra tutti i credenti in Cristo e desidera realizzare una fraternità universale con il sostegno di tutte le persone che professano un credo religioso. «Se il Vaticano II ha toccato la vita della chiesa tanto profondamente, modellando le mentalità e le spiritualità, ciò significa che la sua recezione è a buon punto e si è estesa all’insieme della vita del popolo cristiano […]. Nel medesimo tempo, però, si deve riconoscere che la recezione del Vaticano II non ha ancora raggiunto il suo compimento e che, sotto certi aspetti, la sua eredità rimane fragile e, in certi casi, minacciata […]. La chiesa vive un parto doloroso che è lungi dall’essere compiuto […]. In tali circostanze e in tale momento particolare della vita della chiesa, appare perciò di capitale importanza tornare al Vaticano II, non per reificarlo o per considerare il suo insegnamento come l’ultima parola della storia, ma per rinnovarsi attingendo ad esso. Integrando la memoria del Vaticano II (insegnamento, esperienza ed evento), la chiesa 50 può avanzare verso il domani» . 47
Cf. Porta fidei 9. Cf. ivi 5. 49 Per maggiori approfondimenti sulla recezione del Vaticano II e la sua ermeneutica, cf. J. O’MALLEY, What Happened at Vatican II, Cambridge 2008 [Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano 2010]; ID. - J.L. HEFT (eds), After Vatican II. Trajectories and Hermeneutics, Grand Rapids 2012; E. SCOGAMIGLIO, Dia-logos. II. Orientamenti. Per una teologia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012, 13-50; G. RUGGIERI, Il Vaticano II come chiesa in atto, in Concilium 48 (3/2012)48-60 [416-428]. Si veda pure A. MELLONI - G. RUGGIERI (curr.), Chi ha paura del Vaticano II?, Roma 2009; G. ALBERIGO, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009, 325-350; CH. THEOBALD, La réception du concile Vatican II. I. Accéder à la source, Paris 2009 [La recezione del Vaticano II. I. Tornare alla sorgente, Bologna 2011]. 50 G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Milano 2007, 316-317; 319. 48
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L’attenzione alla conoscenza del Vaticano II è auspicata dalla Congregazione per la Dottrina della fede che ha pubblicato una Nota con le indicazioni pastorali per la celebrazione dell’anno della fede. Al n. 6 di tali indicazioni è detto esplicitamente che l’anno della fede, per tutti i credenti, offrirà un’occasione propizia per approfondire la conoscenza dei principali documenti del Concilio Vaticano II e lo studio del CCC. Ciò vale in modo speciale per i candidati al sacerdozio, per i novizi degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, nonché per coloro che vivono un 51 tempo di verifica per aggregarsi a un’associazione o a un movimento ecclesiale . È auspicabile, ovviamente, che in tutte le comunità cristiane ci sia un approfondimento dei testi del Vaticano II, soprattutto delle quattro costituzioni: Sacrosanctum concilium, Dei Verbum, Lumen gentium e Gaudium et spes. È da segnalare, tra le tante indicazioni, anche il n. 8 che auspica varie iniziative ecumeniche volte a invocare e favorire il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani. A livello di chiesa universale, le indicazioni pastorali pongono in rilievo, anzitutto, la celebrazione della XIIIª Assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi dedicata a La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana; poi occorre incoraggiare i pellegrinaggi dei fedeli alla sede di Pietro, come pure in Terra Santa, nonché a riscoprire il culto mariano. La Nota, ancora, fa riferimento alla prossima Giornata mondiale della gioventù che si svolgerà a Rio de Janeiro nel luglio del 2013. Si auspicano, poi, simposi, convegni e raduni di ampia portata, anche a livello internazionale, che favoriscano l’incontro con autentiche testimonianze della fede e la conoscenza dei contenuti della dottrina cattolica. Da riscoprire, per i presbiteri soprattutto, il n. 7 della Nota che pone attenzione all’omelia, alla catechesi, ai discorsi e agli altri interventi del papa. A livello di conferenze episcopali si auspica, invece, l’organizzazione di giornate di studio dedicate al tema della fede e della sua trasmissione: sarà utile, per tale scopo, favorire la ripubblicazione del CCC e del suo Compendio. Da segnalare il n. 4 delle indicazioni a livello di conferenze episcopali: i pastori, attingendo ai nuovi linguaggi della comunicazione, si impegneranno per promuovere trasmissioni televisive o radiofoniche, films e pubblicazioni, anche a livello popolare e accessibili a un ampio pubblico, sul tema della fede. Il n. 5 auspica, invece, la conoscenza dei testimoni della fede: santi e beati. Il n. 6, ancora, pone in considerazione il rapporto tra arte e fede: la via della bellezza è riconosciuta come luogo di evangelizzazione e di trasmissione della fede. A livello diocesano, tra le tante iniziative, si auspicano la realizzazione di momenti di catechesi destinate soprattutto ai giovani e a coloro che sono in ricerca del senso della vita, allo scopo di scoprire la bellezza della fede ecclesiale. Il n. 5 prende in considerazione la possibilità di verificare la recezione del Vaticano II e del CCC nella vita e nella missione di ogni singola Chiesa particolare. Il n. 6 prevede che la formazione permanente del clero sia incentrata, in quest’anno della fede, sui documenti del Vaticano II e sul CCC. Il n. 9 pone attenzione al dialogo con i non credenti e con tutti coloro che sono in ricerca del senso della vita, ispirandosi anche ai dialoghi del Cortile dei gentili avviati sotto la guida del Pontificio Consiglio della Cultura52. È chiaro che ogni iniziativa per l’Anno della fede vuole favorire la gioiosa riscoperta e la rinnovata testimonianza della fede. Le indicazioni offerte nella Nota sono l’occasione privilegiata per condividere quello che i credenti hanno di più caro: Gesù Cristo, autore e perfezionatore della fede53 (cf. Eb 12,2). Speriamo che l’Anno della fede non si riduca a un evento puramente celebrativo e che lo studio e la conoscenza del CCC e dei documenti del Vaticano II aiutino a maturare in tutti i battezzati una coscienza sempre più ecclesiale del proprio essere credenti in Cristo. Questa consapevolezza di “essere chiesa” è all’origine di ogni movimento o annuncio missionario. Di fatti, la nuova 51
Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota Indicazioni pastorali per l’anno della fede (6-1-2012): Il Regno-Documenti 3 (2012) 71. 52 Cf. Porta fidei 10. 53 Per una conoscenza biblica del tema della fede, cf. almeno S. PANIMOLLE (dir.), Dizionario di spiritualità biblicopatristica. 21. La fede nella Bibbia, Roma 1998.
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evangelizzazione – cioè il trovare nuovi stili, linguaggi e modalità per annunciare il Vangelo in un mondo che è già cambiato – sarà possibile nella misura in cui noi stessi ci percepiamo come discepoli e apostoli di Gesù Cristo. Senza dimenticare, però, che la fede è dono gratuito che il Padre ci ha consegnato in Cristo suo Figlio per mezzo dello Spirito Santo e interpella sempre la nostra libertà per rinnovare, quotidianamente, quel “sì” che ogni vero discepolo, a partire dalla Vergine Maria, pronuncia per il suo Signore e Maestro. In questa prospettiva, l’Anno della fede diventerà un occasione per riprendere un dialogo più profondo, sincero e coerente con Dio, con i fratelli e anzitutto con noi stessi.
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