ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SCUOLA DI INGEGNERIA E ARCHITETTURA D.A. Dipartimento di Architettura CORSO DI LAUREA MAGISTRALE A CICLO UNICO INGEGNERIA EDILE ARCHITETTURA TESI DI LAUREA in Restauro Architettonico
RACCONTARE L'ARCHEOLOGIA DELL'ANTICA MARRUVIUM Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
RELATORE Prof. Ing. Claudio Galli
CANDIDATO Luigia Cipriani
Anno Accademico [2016/17] Sessione III
“V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: e la parola Forza. Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo. V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva eleganza, una parola che vale a comprendere definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà è la parola Gentilezza. Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, dico io: Abruzzo Forte e Gentile. Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, ho detto e ripeto io: Abruzzo Forte e Gentile.” "Abruzzo forte e gentile", racconto di viaggio, 1882, P. Levi
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia.
Luigia Cipriani
Alla mia famiglia
Indice
ABSTRACT CAPITOLO
CAPITOLO
CAPITOLO
I
p.13
PATRIMONIO, COMUNITA' E SVILUPPO: GLI ECOMUSEI
1.1
La nascita degli ecomusei
p.20
1.2
Le normative delle regioni italiane in materia di ecomusei
p.21
1.3
Le definizioni normative di ecomusei
p.24
1.4
L'Abruzzo e la tutela degli ecomusei
p.26
1.5
La riforma del MIBACT
p.27
1.6
Il "Decreto musei"
p.28
1.7
Proposta per una legge regionale a tutela degli ecomusei
p.29
II
MARSICA TRA STORIA, CULTURA E NATURA
2.1
Breve panoramica sulla Marsica
p.35
2.2
L'origine dei Marsi
p.35
2.3
Le città dei Marsi
p.47
III
L'ITINERARIO DI TORRI E CASTELLI MEDIEVALI
3.1
Il castello Orsini-Colonna di Avezzano
p.53
3.2
Il castello Piccolomini di Celano
p.56
3.3
Il castello Piccolomini di Ortucchio
p.58
3.4
La torre Piccolomini di Pescina
p.61
CAPITOLO
CAPITOLO
CAPITOLO
3.5
La torre Febonio a Trasacco
p.63
3.6
La torre di Aielli
p.64
IV
L'ITINERARIO NATURALISTICO
4.1
Il parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise
p.69
4.2
Il parco regionale Sirente-Velino
p.72
4.3
Flora e fauna nel territorio marsicano
p.72
4.4
Primo riconoscimento UNESCO per l'Abruzzo: le faggete vetuste
p.75
V
L'ITINERARIO ARCHEOLOGICO
5.1
Il sito archeologico di Alba Fucens
p.79
5.2
Il sito archeologico di Lucus Angitiae
p.88
5.3
Il sito archeologico di Marruvium
p.91
VI
L'ANTICA MARRUVIUM
6.1
L'origine della città di Marruvium
p.99
6.2
L'ubicazione di Marruvium
p.99
6.3
Denominazione di Marruvium
p.102
6.4
La Chiesa di S. Sabina
p.106
6.5
L' anfiteatro
p.112
6.6
I Morroni
p.118
CAPITOLO
CAPITOLO
CAPITOLO APPENDICI
RINGRAZIAMENTI
6.7
La strada romana
p.121
6.8
La relazione di F. Lolli su "Gli avanzi di Marruvium"
p.123
VII
LA DOMUS PATRIZIA
7.1
Il ritrovamento della domus
p.131
7.2
La descrizione
p.131
7.3
L'inquadramento storico della domus
p.136
7.4
Lo stato di conservazione dei resti archeologici
p.137
VIII
IL PROGETTO
8.1
Il percorso: rivivere l'antica Marruvium
p.141
8.2
Il restauro della pavimentazione della domus
p.141
8.3
La riqualificazione della piazza
p.142
8.4
La nuova copertura
p.142
8.5
Il polo museale "Marruvium"
p.143
IX
CONCLUSIONI
p.146
Il prosciugamento del lago del Fucino
p.149
Il terremoto del 13 Gennaio 1915
p.150
Bibliografia, sitografia, documentazione archivistica
p.152
Tavole
p.153 p.193
0.Abstract
Carta della Diocesi dei Marsi, Diego de Revillas, 1735
La seguente tesi nasce dalle riflessioni sulle potenzialità storiche, artistiche e culturali della zona della Marsica, sub -regione dell’Abruzzo, che si estende sul territorio dell’Altopiano del Fucino. Area pianeggiante e caratterizzata da un paesaggio naturale, la Piana del Fucino ha assunto una nuova fisionomia con il prosciugamento dell’antico lago, che ne ha totalmente ridisegnato il profilo ambientale. Nel corso degli anni la zona è stata spesso teatro di antiche ed importanti battaglie, soprattutto nel periodo della dominazione romana e in epoca medievale. Ciò ha contribuito enormemente ad arricchire l’ambito territoriale di numerosi esempi architettonici, monumentali ed archeologici. Di qui l’idea di una proposta finalizzata alla valorizzazione del territorio mediante l’istituzione di un Ecomuseo. Esso è da intendersi come sentimento di appartenenza identitaria al territorio, le cui comunità che vi abitano ne riconoscono e valorizzano le risorse storico-culturali, ambientali, le tradizioni, i beni ed il patrimonio locale. La ricerca, infatti, ha rilevato che in Abruzzo non esiste una normativa regionale in materia di Ecomusei, nonostante sul territorio nazionale ne siano già presenti. Lo scopo precipuo di questa valorizzazione, dunque, è quello di proseguire ed implementare l’opera del MIBACT che, mediante il progetto “Fucino 2017, archeologia a km zero”, prevede di organizzare giornate con visite guidate e sessioni in situ per esplorare e far conoscere ai cittadini il patrimonio culturale, archeologico nello specifico, ereditato dal passato. Dopo un’attenta analisi di tutti gli eventi che hanno caratterizzato nel corso dei secoli il territorio, si è pensato di strutturare l’ ecomuseo in diversi nuclei tematici: l’ itinerario naturalistico, l’ itinerario monumentale di castelli e torri medievali e quello architettonico-archeologico. Si sono, dunque, analizzati e descritti i vari percorsi permettendo una visione globale dell’Ecomuseo e della sua strutturazione. All’interno dell’ Ecomuseo del Fucino è stato considerato il caso specifico della valorizzazione del patrimonio archeologico e architettonico della cittadina di S. Benedetto dei Marsi, antica Marruvium, capitale della regione dei Marsi. In età imperiale l’importanza di questa località, punto di incontro ed aggregazione della popolazione romana, è sottolineata da numerosi elementi, alcuni dei quali conservati nel tempo e venuti alla luce durante recenti campagne di scavi. Il progetto di valorizzazione prevede ,infatti, di realizzare un percorso che si articoli lungo il centro cittadino, al fine di unire esempi di rilievo, quali l’antico anfiteatro romano, i resti di una domus patrizia , l’antico portale duecentesco della cattedrale di S. Sabina, unica porzione conservata a seguito del terremoto del 1915, una porzione di strada romana e i Morroni, probabili monumenti funerari romani. Il progetto, avvallato da una ricerca e conoscenza del territorio, prevede nello specifico di operare, all'interno del sopracitato percorso di valorizzazione del sito, la riqualificazione dell'area dell'attuale domus, la quale frammenta il centro cittadino , ricreando così l'antico spazio di connessione urbana del forum romano. Inoltre, è prevista l’aggiunta di un polo museale della storia e dei reperti dell’antica Marruvium, pensato ed organizzato come un percorso didattico accessibile a tutti. Tutto ciò è finalizzato a far conoscere le caratteristiche, i fondamenti storici e culturali del paese, in modo tale da ritrovare l'identità di valori ereditati dal passato e da trasmettere al futuro.
Gli ecomusei come strumento di valorizzazione del territorio « Un qualcosa che rappresenta ciò che un territorio è, e ciò che sono i suoi abitanti, a partire dalla cultura viva delle persone, dal loro ambiente, da ciò che hanno ereditato dal passato, da quello che amano e che desiderano mostrate ai loro ospiti e trasmettere ai loro figli. » Hugues de Varine
1. Patrimonio, comunità e sviluppo: gli Ecomusei 20
Ecomuseo, museo diffuso, museo all’aperto, museo d’identità, sono alcune delle definizioni che si possono associare ad un modello espositivo recente, alternativo alla museografia espositiva tradizionale, e collocabile in gran parte sul territorio, piuttosto che nei luoghi solitamente dedicati alla cultura. I musei contemporanei infatti tendono ad occuparsi sempre più di concetti piuttosto che di oggetti. Per definire in modo efficace cosa sia un ecomuseo si può adottare una definizione individuata nelle tante occasioni di lavoro collettivo svoltosi in Italia, che cita: “Un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio”.1 “Patto”: non norme, che obbligano o proibiscono qualcosa, ma un accordo, non scritto, generalmente condiviso.2 “Comunità”: i soggetti protagonisti non sono solo le istituzioni poiché il loro ruolo propulsivo, importantissimo, deve essere accompagnato da un coinvolgimento più largo dei cittadini. “Prendersi cura”: conservare ma anche saper utilizzare, per l’oggi e per il futuro, il proprio patrimonio culturale in modo da aumentarne il valore anziché consumarlo. “Territorio”: inteso non solo in senso fisico, ma anche come storia della popolazione che ci vive e dei segni materiali e immateriali lasciati da coloro che lo hanno abitato in passato.2 Infatti un ecomuseo agisce nel contesto di una comunità, sulla sua evoluzione, dove non si è solo spettatori ma si interagisce con gli oggetti della vita quotidiana, con le architetture,i paesaggi; fino ad entrare in contatto con testimonianze della tradizione locale.
1.1 La nascita degli ecomusei Il concetto di ecomuseo trae origine da riflessioni nel campo della museologia tradizionale internazionale: il suo più diretto antenato può essere considerato il “museo all’ aperto”.3 Esso è una collezione di elementi dell’ architettura tradizionale, soprattutto rurale, trasferiti all’ interno di un parco e forniti di una minima ambientazione. Il principale ruolo che assume il museo all’ aperto non è solo quello di preservare e conservare costruzioni e mestieri per le generazioni future, ma esso possiede anche un forte ruolo educativo che permette di trasmettere valori, conoscenze e competenze, le quali, possono essere usate per rilanciare lo sviluppo locale. La spinta verso la creazione del primo museo all’aperto giunge nell’Ottocento dalla Svezia dove il filologo Cfr. Maurizio Maggi , Vittorio Faletti, Gli ecomusei. Che cosa sono, cosa possono diventare, Allemandi, 2001, pp. 3-8. 2 Ibidem, pp.10-15. 3 Cfr. Ribaldi Cecilia (a cura di), Il nuovo museo. Origini e percorsi, Milano, Il Saggatore, 2005, pp. 100. 1
Artur Hazelius, grazie ad alcune ricerche in campo linguistico aveva preso conoscenza della scomparsa progressiva di alcune culture contadine, e nella seconda metà del XIX secolo, fondò il Museo Nordico a Stoccolma.4 Quindi si può affermare che il passaggio del museo tradizionale in senso stretto al museo all’aperto avviene proprio nella seconda metà del XIX secolo. Un elemento innovativo che introdusse Artur Hazelius fu quello di inserire nell’ esposizione arredamenti delle stanze di case contadine; successivamente ricreò, sempre all’ interno del Museo Nordico, una capanna di lapponi a grandezza naturale, ricostruita in modo realistico. Un’ intera unità architettonica veniva per la prima volta messa in vetrina all’ interno di un museo. Le esposizioni universali di Vienna, nel 1873, e Parigi, nel 1878, diedero molta importanza a questi nuovi modi di concepire il museo. Mancava però ancora una vera e propria esposizione architettonica complessa inserita in uno spazio aperto, che fu inaugurata solo con il Museo di Skansen nel 1891: questo venne pensato come un villaggio-officina di attività tradizionali, il primo museo all’ aperto animato da guide e manifestazioni folkloristiche.5 I fattori che spinsero principalmente alla riforma del museo tradizionale si possono comprendere inserendo tali processi di cambiamento all’interno di un contesto storico più ampio compreso tra il XVIII e il XIX secolo : il gusto romantico aveva diffuso la moda degli “edifici rustici” nei giardini costruiti attorno ai castelli6; inoltre il XIX secolo coincise con il momento culminante della prima grande rivoluzione industriale, la quale portò sia profonde trasformazioni nella società che l’infrangersi di alcune tradizioni e stili di vita ampiamente consolidati. Altra tappa fondamentale nell’evoluzione storica dell’ecomuseo sono stati gli Heimatsmuseen (musei della piccola patria), nati in Germania alla fine dell’ Ottocento, sviluppati anche negli anni successivi alla Grande Guerra e strumentalizzati durante la dominazione nazista, per esaltare l’ identità locale o nazionale, creando una mediazione fra cultura locale ed orizzonte nazionale. L’ approccio museografico degli Heimatsmeseen era però molto innovativo: si teneva conto del visitatore “educandolo” attraverso un metodo semplice ed accessibile a tutti, facendo così diventare Cfr. Marc Leanen, A new look at open-air museum, monumentum, volume XX, 1982, pp. 125-129. Cfr. Dominique Poulot, Musei e museologia, Milano, Jaka Book, 2008, pp.44. 6 Cfr. Basso Presutti (a cura di), I luoghi del museo. Tipo e forma tra tradizione ed innovazione, Roma, Editori riuniti, 1985 pp.178. 4 5
Patrimonio, comunità e sviluppo: gli ecomusei.
il museo un luogo di comunicazione ed educazione di regime. Il filone culturale di origine più recente risulta essere quello francese ad opera di Georgès Henry Rivière e Hugues de Varine: è la nascita della Nouvelle museologie, fondata ufficialmente a marsiglia nel 1982: un’idea che ben si è fusa con la tradizione di valorizzazione del territorio, l’organizzazione dei servizi e i programmi culturali della nazione francese. I primi progetti culturali ecomuseali, nati una trentina d’anni fa in Francia e diffusi successivamente in molti paesi europei, avevano lo scopo di documentare e valorizzare aspetti del territorio e della popolazione privi di spazio adeguato nella museologia tradizionale.7 La comunità locale, il territorio e la partecipazione si trovano al centro della riflessione dei due studiosi francesi. L’ ecomuseo “[…] è un’ espressione dell’ uomo e della natura. Definisce l’ uomo nel suo ambiente naturale e disegna la natura in tutta la sua wildness, ma anche nel suo adattamento alle società tradizionali ed industriali. […] È un laboratorio che contribuisce allo studio del passato e del presente della popolazione […], un centro di conservazione, una scuola, […] un luogo la cui “diversità è senza limite”[…]: un luogo che “riceve e dà”.8 L’ idea di ecomuseo, come già detto, nasce da Georges Henri Rivière nel 1936, sulla base del modello dei musei scandinavi e dei musei all’aria aperta, ma la realizzazione vera propria dei primi ecomusei risale invece agli anni Cinquanta e Sessanta. Per dare una definizione vera e propria di ecomuseo si può fare riferimento a quella proposta da Hugues De Varine, che analizza le principali differenze fra il museo tradizionale e l’ ecomuseo9:
Quindi secondo questa definizione un museo tradizionale espone, una collezione, un ecomuseo invece esibisce e costruisce il proprio patrimonio; un museo è statico e immobile mentre un Cfr. Gianni Boscolo, in: Piemonte Parchi, numero speciale monografico dedicato agli ecomusei, Regione Piemonte, 2002. 8 Cit. Huges de Varine, The word and beyond, “Museum”, 148, 1985. pp. 182-183. 9 Cit. Ibidem, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, CLUEB, 2005. 7
ecomuseo si inserisce all’interno del territorio; un museo si rivolge ad un pubblico passivo, un ecomuseo ad una popolazione attiva. Quindi individuato il ruolo fondamentale della comunità, le risorse offerte dal patrimonio culturale del luogo diventeranno il materiale dell’ attività ecomuseale. Al patrimonio culturale possono appartenere diversi tipi di beni siano essi mobili o immobili, materiali o immateriali; paesaggi, boschi, cascine, edifici ad uso specialistico, abitazioni ed arredi, ma anche una danza o elementi del folklore, usi o tecnologie agricole e costruttive. Gli ecomusei sono quindi “istituzioni che gestiscono, studiano, esplorano a fini scientifici, educativi e culturali, il patrimonio di una certa comunità comprendente la totalità dell’ ambiente naturale e culturale della comunità stessa”.10
1.2 Le normative delle regioni italiane in materia di ecomusei In Italia le leggi che riguardano direttamente gli ecomusei e la loro valorizzazione non sono ancora presenti in tutte le regioni, anche se molte si stanno attivando negli ultimi anni, e non vi è una normativa di riferimento a livello nazionale ma ogni regione recepisce l’iniziativa ecomuseale secondo la propria sensibilità. La prima regione a dotarsi di una normativa specifica a tutela degli ecomusei è stata la Regione Piemonte con la Legge Regionale n.31 del 14 marzo 1995 e successive integrazioni con legge regionale n. 23 del 17 agosto 1998, seguita, nel 2000, dalla Provincia autonoma di Trento dotatasi della legge provinciale n.13 del 9 novembre 2000. Si passa poi al 2006 con le regioni Sardegna (legge regionale n.14 del 20 settembre 2006) e Friuli Venezia Giulia con la legge regionale n. 10 del 21 giugno 2006. Seguono nel 2007 la Lombardia (legge regionale n.13 del 12 luglio 2007) e l’ Umbria (legge regionale n.34 del 14 dicembre 2007) e nel 2008 il Molise con la legge regionale n.9 del 28 aprile 2008. Più recenti sono le leggi regionali della Toscana (n.21 del 25 febbraio 2010), della Puglia (n.15 del 06 luglio 2011), del Veneto (n.30 del 10 agosto 2012) della Calabria (con legge regionale n. 62 del 04 dicembre 2012 e successive modifiche con legge regionale n. 9 del 21 marzo 2013) , della regione Sicilia (n. 16 del 2 luglio 2014). La più recente a legiferare in materia di ecomusei è stata la regione Lazio nel marzo del 2017 ( n.3 del 22 Marzo 2017). Analizzando in estrema sintesi le varie leggi regionali partendo proprio dalla regione che si fa Cit. Huges De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, CLUEB, 2005.
10
21
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
22
promotrice di questa iniziativa, si evidenzia come lo scopo di suddette leggi sia quello di valorizzare e tutelare maggiormente tutti quegli aspetti che hanno dato origine alle specificità di ogni luogo e alla ua trasformazione, dalla formazione dell’insediamento tradizionale all’evoluzione del paesaggio. La Legge Regionale 31/1995 del Piemonte definisce lo scopo dell’ecomuseo come quello di “ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale, le relazioni fra ambiente naturale ed ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività ed il modo in cui l’ insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’ evoluzione del paesaggio”. Con la legge del Settembre 2006 (L.R 14/2006), la Regione Sardegna, inserisce nel proprio quadro normativo gli ecomusei defindendo, nell’art 11, comma 3, il loro ruolo di “[...] catalizzatori dei processi di valorizzazione condivisa dei territori e dei loro patrimoni e delle reti di relazioni locali, attraverso il coinvolgimento delle comunità, delle istituzioni culturali e scolastiche e delle associazioni del territorio”. Un limite individuabile nella norma può essere quello di prevedere che l’istituzione degli ecomusei debba essere promossa esclusivamente da comuni singoli o associati. Il Friuli Venezia Giulia promulga una legge sull’istituzione degli ecomusei nel 2006; le finalità individuate in tale legge sono quelle di “ promuovere e disciplinare gli Ecomusei sul territorio, allo scopo di recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, le figure e i fatti, la cultura materiale e immateriale, le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato, le tradizioni, le attivita’ e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, nella prospettiva di orientare lo sviluppo futuro del territorio in una logica di sostenibilita’ ambientale, economica e sociale, di responsabilita’ e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati e dell’intera comunita’ locale”. In questa legge si focalizza l’attenzione (art.3) sulla partecipazione diretta della comunità, delle istituzioni locali e scolastiche ai processi di valorizzazione e ricerca e di promozione del patrimonio locale. La Regione Lombardia, promulga la sua legge in materia di ecomusei nel luglio del 2007 (L.R 13/2007). Tale legge sottolinea, nell’articolo 1, l’ importanza dell’ azione partecipativa nella costituzione dell’ ecomuseo stesso prevedento, nell’articolo 4, “il coinvolgimento e la partecipazione
Tesi di Luigia Cipriani
attiva della popolazione, in quanto, l’ecomuseo rappresenta l’espressione della cultura di un territorio ed ha come principale riferimento la comunità locale”. Sempre lo stesso anno anche la Regione Umbria promuove una legge in materia (L.R 34/2007) e per la prima volta ci troviamo davanti ad una nuova definizione di ecomuseo, non più visto come un’istituzione ma, come cita l’articolo 1, comma 2, “Gli ecomusei sono territori connotati da forti peculiarità storico-culturali, paesistiche ed ambientali, finalizzati ad attivare un processo dinamico di conservazione, interpretazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale della società umbra da parte delle comunità locali [...]”. Per la prima volta si considerano gli ecomusei dei territori caratterizzati da peculiarità storiche, paesaggistiche e culturali. Il Molise si accoda a questa scia di leggi che istituiscono gli ecomusei nel 2008 (L.R 11/2008), essa inserisce tra le finalità prime dell’ istituzione ecomuseo il recupero, la testimonianza e la valorizzazione della memoria storica, della cultura materiale e immateriale e la tutela dei mestieri e il restauro di ambienti di vita tradizionale anche mediante il coinvolgimento attivo della comunità. Dal 2010 ad oggi altre cinque regioni hanno legiferato in materia di ecomusei ampliando così l’orizzonte di tali istituzioni. La Toscana, da sempre regione molto attenta alla cultura e alla valorizzazione del suo territorio,con la legge n. 21 del 25 febbraio 2010 (testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituti e attività culturali) riordina, le leggi regionali in materia di musei, biblioteche, archivi, istituzioni culturali, attività teatrali, musicali, di danza, cinematografiche e audiovisive, promozione della cultura musicale e della cultura contemporanea. Inoltre considerata la presenza di complessi beni culturali, materiali e immateriali, con peculiari esigenze di fruizione e di valorizzazione richiede la previsione di un’istituzione museale dedicata, denominata ecomuseo. Nel Titolo II, Capo II, all’articolo 15 la legge individua le funzioni della regione in materia di musei ed ecomusei, e cita “[...] essa al fine di promuovere la conoscenza e la fruizione del patrimonio culturale della Toscana, la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, sostiene, indirizza e coordina l’istituzione e lo sviluppo della rete regionale dei musei e degli ecomusei [...]. All’articolo 19 individua le attività fondamentali degli ecomusei sottolineando l’importanza della “ [...]
Patrimonio, comunità e sviluppo: gli ecomusei.
valorizzazione di ambienti di vita tradizionali anche attraverso la conservazione di edifici secondo i criteri dell’edilizia tradizionale, nonché attraverso il recupero di strumenti, pratiche e saperi tradizionali che testimonino le abitudini di vita e di lavoro delle popolazioni locali, le relazioni con l’ambiente circostante, le tradizioni religiose, culturali [...]; la ricostruzione di ambiti di vita e di lavoro tradizionali che possano produrre beni o servizi correlati all’offerta turistica ed alla valorizzazione delle produzioni locali; la valorizzazione dei patrimoni immateriali quali i saperi, le tecniche, le competenze, le pratiche locali, i dialetti, i canti, le feste e le tradizioni gastronomiche, attraverso attività rivolte alla loro catalogazione e conoscenza ed alla promozione della loro trasmissione. La Puglia si dota nel 2011 di una legge in materia di ecomusei (n.15 del 06 luglio 2011), da notare come in questa legge non vengono definiti gli ecomusei come istituzioni ma vengono definiti “ [...] luoghi attivi di promozione dell’ identità collettiva e del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico nella forma del museo permanente [...] perseguendo le finalità di conservare, ripristinare, restaurare e valorizzare ambienti di vita e di lavoro tradizionali, utili per tramandare le testimonianze della cultura materiale e ricostruire le abitudini di vita e di lavoro delle popolazioni locali, le relazioni con l’ambiente circostante, le tradizioni religiose, culturali e ricreative [...]”. La legge prevede che gli ecomusei siano promossi da associazioni e fondazioni culturali, ambientalistiche e di conservazione del patrimonio storico, senza scopo di lucro. La Regione Veneto con la legge n.30 del 10 agosto 2012 “[...] promuove e disciplina gli ecomusei e la loro istituzione sul proprio territorio allo scopo di ricostruire, testimoniare e valorizzare, con il coinvolgimento attivo degli abitanti, la memoria storica, la vita, i patrimoni materiali e immateriali, le forme con cui sono state usate e rappresentate le risorse ambientali, i paesaggi che ne sono derivati, i saperi e le pratiche delle popolazioni locali e le loro trasformazioni nel tempo.”. Anche in questa legge la regione evidenzia l’importanza del coinvolgimento attivo degli abitanti nell’istituzione degli ecomusei. La Regione Calabria legifera in materia di ecomusei nel 2012 apportando poi successive modifiche
alla legge nell’anno successivo. La Regione istituisce gli ecomusei al fine del recupero e della valorizzazione del territorio e delle tradizioni culturali e storiche (art.1). La regione Sicilia ha legiferato con la legge n.16 del 2 luglio 2014. Nell’ articolo 1 la Regione “riconosce, promuove e disciplina gli ecomusei con lo scopo di recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, le figure, le tradizioni [...] e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, per orientare lo sviluppo futuro in una logica di sostenibilità ambientale, economica e sociale [...]”. Tra le finalità degli ecomusei inidividua quella di “rafforzare il senso di appartenenza e la consapevolezza delle identità locali attraverso il recupero e la riproposizione in chiave dinamico-evolutiva delle radici storiche [...]”. La regione Marche ha recentemente modificato la legge regionale 9 febbraio 2010, n. 4 “Norme in materia di beni e attività culturali” con la legge regionale del 18 marzo 2016, n. 5 in cui si apporta la seguente modifica all'articolo 1: " [...]La lettera f) del comma 1 dell’articolo 2 della legge regionale 9 febbraio 2010, n. 4 (Norme in materia di beni e attività culturali), è sostituita dalla seguente: “f) la promozione degli ecomusei, intesi come ambiti territoriali caratterizzati dalla presenza di beni culturali, ambientali e paesaggistici, nonché elementi identitari della storia, delle tradizioni, del lavoro e delle produzioni locali, oggetto di tutela e valorizzazione con modalità e forme di riconoscimento stabilite dalla Giunta regionale mediante apposito regolamento generale, basato su principi di economicità e semplificazione delle procedure, volto a stabilire le modalità attuative e gestionali connesse all’istituzione, al riconoscimento, al funzionamento e alla diffusione degli ecomusei. L’elaborazione dei regolamenti dei singoli ecomusei avviene con il concorso di tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, previo parere obbligatorio del Consiglio delle autonomie locali e del Consiglio regionale dell’economia e del lavoro;”. La regione che ha legiferato più recentemente in materia di ecomusei è la regione Lazio con la legge n.3 del 22 Marzo 2017 in cui nell'articolo 1 si afferma che "La Regione promuove, riconosce e disciplina gli ecomusei regionali, allo scopo di favorire la cultura della conservazione del paesaggio, testimoniare e valorizzare il patrimonio ambientale e culturale, promuovere la conservazione e la trasmissione della memoria storica, accompagnare le trasformazioni operate dalle generazioni
23
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
24
presenti e future." Attualmente la Regione Abruzzo non ha ancora legiferato in materia di ecomusei seppur sul suo territorio siano già presenti istituti ecomuseali e sia stata redatta una proposta di legge.
1.3 Le definizioni normative di ecomusei Molte regioni italiane si sono dotate di una legge in materia di ecomusei, fornendo ognuna una definizione diversa per tale termine. “La Regione promuove l’ istituzione di Ecomusei sul proprio territorio allo scopo di ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale, le relazioni fra ambiente naturale ed ambiente antropizzato, le tradizioni, le attivita’ ed il modo in cui l’ insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio” Art.1 legge regionale 14 marzo 1995, n. 31: Istituzione di Ecomusei del Piemonte.
Tesi di Luigia Cipriani
scopo che essa si prefigge. “L’ecomuseo è un’ istituzione culturale volta a rappresentare, valorizzare e comunicare al pubblico i caratteri, il paesaggio, la memoria e l’ identità di un territorio e della popolazione che vi è storicamente insediata, anche al fine di orientarne lo sviluppo futuro in una logica disostenibilità, responsabilità e partecipazione dei soggetti pubblici e privati e della comunità locale in senso lato.” Art.1 legge regionale Sardegna 20 settembre 2006, n. 14 Norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura. “L’Ecomuseo e’ una forma museale mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’ identita’ culturale di una comunita’. Consiste in un progetto integrato di tutela e valorizzazione di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo che produce e contiene paesaggi, risorse n aturali e d e lementi p atrimoniali, materiali e immateriali”. Art.1 legge regionale Friuli Venezia Giulia 20 giugno 2006, n.10 Istituzione degli Ecomusei del Friuli Venezia Giulia. “[...] Per ecomuseo si intende un’ istituzione culturale, [...] che assicura, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni culturali, rappresentativi di un ambiente e dei mo di di vita c he lì si sono succeduti e ne accompagnano lo sviluppo”. Art. 1 legge regionale Lombardia 12 luglio 2007, n.13 Riconoscimento degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali ai fini ambientali, paesaggistici, culturali, turistici ed economici.
Fig. 1 - In grigio le regioni dotate di una normativa in materia di ecomusei
La Regione Piemonte pur essendo la prima Regione ad aver legiferato in materia di ecomusei, quasi dieci anni fa, non ha dato una vera e propria definizione definendo tale istituzione attraverso lo
“Gli ecomusei sono territori connotati da forti peculiarità storico-culturali, paesistiche ed ambientali, finalizzati ad attivare un processo dinamico di conservazione, interpretazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale della società umbra da parte delle comunità locali, in funzione di una comprensione del ciclo ecologico, delle specificità biotopiche, geomorfologiche e demoantropologiche e del rapporto uomo-natura, accompagnando le trasformazioni del territorio nel quadro di uno sviluppo
Patrimonio, comunità e sviluppo: gli ecomusei.
economicamente sostenibile e a mbientalmente compatibile”. Art.1, comma 2 legge regionale Umbria 14 dicembre 2007, n.34 Promozione e disciplina degli ecomusei Per la prima volta tra le leggi regionali fin ora promulgate e analizzate viene data una nuova definizione di ecomuseo, esso infatti non è più definito come istituzione ma si considerano gli ecomusei dei territori. “La Regione Molise propone l’ istituzione degli ecomusei sul proprio territorio allo scopo di recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, le figure ed i fatti, la cultura materiale ed immateriale, le relazioni tra ambiente naturale ed ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività ed il modo in cui l’ insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, nella prospettiva di orientare lo sviluppo futuro del territorio in una logica di sostenibilità ambientale, economica e sociale, di responsabilità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati e dell’ intera comunità locale”. Art.1 legge Regionale Molise 28 aprile 2008, n. 11 Istituzione di ecomusei in Molise. Come per la regione Piemenonte anche il Molise non definisce gli ecomusei ma definisce lo scopo della loro istituzione. “[...] è definito ecomuseo l’ istituto culturale, pubblico o privato, senza scopo di lucro che, ai fini dello sviluppo culturale ed educativo locale, assicura, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione e valorizzazione di un insieme di beni culturali, materiali e immateriali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che vi si sono succeduti e ne accompagnano lo sviluppo”. Legge regionale Toscana 25 febbraio 2010, n. 21 Testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituti e attività culturali. “La Regione Puglia [...] riconosce, promuove e disciplina sul proprio territorio gli ecomusei allo scopo
di recuperare, testimoniare, valorizzare e accompagnare nel loro sviluppo la memoria storica, la vita, le figure e i fatti, la cultura materiale, immateriale, le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività e il modo in cui l’ insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, nella prospettiva di orientare lo s viluppo futuro del territorio in una logica di sostenibilità ambientale, economica e sociale, di responsabilità e di partecipazione d ei s oggetti pubblici e privati e dell’ intera comunità locale”. Legge regionale Puglia 6 luglio 2011, n. 15 Istituzione degli ecomusei della Puglia Come per le regioni Piemonte e Molise anche la Puglia non definisce l’ ecomuseo ma definisce lo scopo della sua istituzione. “Gli ecomusei sono sistemi museali connotati dalle identità geografiche presenti nei territori, caratterizzati dalle peculiarità storiche, paesaggistiche e ambientali visibili nei patrimoni di cultura materiale espressi dalle comunità locali, in un processo dinamico volto alla loro conservazione, interpretazione e valorizzazione. Gli ecomusei, favorendo la conoscenza e la consapevolezza dei valori insiti nelle culture locali, nelle specificità biotopiche, geomorfologiche e demoetnoantropologiche, promuovono fertili relazioni tra economia e cultura, in un quadro di svilupppo sostenibile, anche in senso turistico”. Art.1 comma 2, legge regionale Veneto n. 30 del 10 agosto 2012 Istituzione, disciplina e promozione degli ecomusei. “L’ ecomuseo è una forma museale, mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’ identità culturale di una comunità. Esso costituisce un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio e si attua attraverso un progetto condiviso e integrato di tutela, valorizzazione, manutenzione e produzione di cultura di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, materiali e d immateriali, paesistiche e ambiantali”. Art.2, legge regionale Sicilia n. 16 del 2 luglio 2014 Modifiche alla legge regionale 20 aprile 1976, n. 3 La Sicilia è la prima regione che riprende la definizione di ecomuseo data da Maurizio Maggi e condivisa da molti studiosi: patto con il quale una comunità si prende cura di un territorio.
25
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
26
“Per ecomuseo si intende una forma museale territoriale mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’identità culturale di una comunità, attraverso un progetto integrato di tutela e valorizzazione di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, paesistiche ed ambientali”. Art.2, legge regionale Lazio n. 3 del 22 Marzo 2017
1.4 L'Abruzzo e la tutela degli ecomusei L’ Ecomuseo si caratterizza in quanto struttura dinamica e si differenzia dai vecchi musei perché non privilegia collezioni storiche particolari e definite, ma, mette al centro i valori ambientali e culturali del “patrimonio” presente nei territori e nelle comunità locali. Il punto di forza dell’ Ecomuseo è la sua capacità di riconoscere e valorizzare le risorse storico-culturali ed ambientali dei luoghi, le tradizioni ed i saperi antichi, e consente un’attenzione al territorio orientata alla salvaguardia dei beni e alla valorizzazione delle relazioni che li uniscono al patrimonio locale. L’ Ecomuseo, inteso come strumento della “nuova museologia” che mette in relazione natura e cultura attraverso il protagonismo delle comunità locali, ha avuto uno sviluppo significativo in alcune regioni italiane, quali il Piemonte, che, ad oggi, conta sul suo territorio 47 Ecomusei, il più alto numero in Italia, la Lombardia con 33 Ecomusei, la Toscana con 13, l’Emilia Romagna con 10, la Provincia autonoma di Trento con 7, la Puglia con 6, il Veneto, la Valle d’Aosta, l’Umbria e la Sardegna con 5 Ecomusei ciascuno, la Liguria, il Lazio e il Friuli Venezia Giulia con 4 Ecomusei ciascuno, la Calabria, la Sicilia e l' Abruzzo con 3 Ecomusei ciascuno, la Campania con 2 Ecomusei, la Basilicata con 1 solo Ecomuseo. Gli ecomusei presenti in Abruzzo sono tre e sono: -L'ecomuseo d'Abruzzo E´ nato nel 1999 come progetto di promozione turistica su iniziativa della Comunità montana Sirentina, interessa 14 Comuni su una superficie di 42mila ettari con novemila abitanti. L´Ecomuseo d´Abruzzo offre cinque itinerari: due sull´altopiano delle Rocche,
Tesi di Luigia Cipriani
quasi interamente in ambiente boschivo, su deboli dislivelli (100-300 metri) praticabili anche in inverno come piste da fondo; nella valle dell´Aterno un sentiero storico (600 metri di dislivello) che attraversa antichi insediamenti agro-pastorali e un altro (700 metri di dislivello) percorribile con gli sci da fondo; più impegnativo (con 1.200 metri di dislivello) il sentiero che conduce al monte Sirente. Infine, nella valle Subequana - nella parte occidentale del Parco - un facile percorso archeologico che permette di visitare i resti di un antico villaggio italico. Ai massicci imponenti del Sirente si alternano agli altopiani carsici delle Rocche e dei Piani di Pezza, poi gole, dirupi e grotte (di Stiffe), la Valle Subequana e i terreni attraversati dal fiume Aterno, una vasta area nella quale il Medioevo ha lasciato tracce evidenti con castelli, cinte murarie, chiese e conventi. -L'ecomuseo della Riserva naturale di Zompo lo Schioppo Inaugurato nel marzo del 2000, è stato denominato “Ecomuseo della Riserva” in quanto primo tassello realizzato della futura rete ecomuseale. Questo spazio è stato pensato per far convivere nella stessa collocazione un Museo territoriale centrato sugli aspetti naturalistici e storico-antropologici del luogo, un Centro Visita della Riserva Naturale, che possa orientare ed essere di ausilio ai visitatori, e un Laboratorio didattico indirizzato a sensibilizzare il pubblico e i giovani in particolare ad un uso appropriato delle risorse ambientali. -L'ecomuseo del Paleolitico È un museo all’aperto che propone sei capanne ricostruite in pietra a secco, architetture povere tipiche dell’ambiente agro-pastorale abruzzese. Il visitatore è guidato in un percorso didattico e conoscitivo, alla lettura del paesaggio naturale, archeologico e storico derivato da un affascinante e secolare rapporto tra uomo e ambiente. Nelle capanne sono illustrate, mediante pannelli, le tematiche inerenti le testimonianze ed attività dell’uomo primitivo a Valle Giumentina, il contesto archeologico dalla protostoria al medioevo nel territorio di Abbateggio, le funzioni e geometrie delle strutture in pietra a secco, insieme alla dura vita dei pastori transumanti, ed ancora i caratteri della flora e della fauna.
Patrimonio, comunità e sviluppo: gli ecomusei.
1.5 La riforma del MIBACT La riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MIBACT) trae origine, come è noto, dalle politiche di spending review attuate da ultimo con il decreto legge n. 66 del 2014. In base ai tagli operati nel 2012-2013, infatti, ogni Ministero era tenuto a dotarsi di un nuovo regolamento di organizzazione che recepisse le riduzioni di pianta organica. Il MIBACT adempie, finalmente, a tale obbligo e ridisegna se stesso in modo fortemente innovativo, riducendo le figure dirigenziali. L’adeguamento ai numeri della spending review è divenuto perciò l’opportunità per intervenire sull’organizzazione del Ministero e porre rimedio ad alcuni problemi che da decenni segnano l’amministrazione dei beni culturali e del turismo in Italia. Si tratta di disfunzioni e lacune riconosciute ed evidenziate molte volte e da più parti: 1) la assoluta mancanza di integrazione tra i due ambiti di intervento del Ministero, la cultura e il turismo; 2) la eccessiva moltiplicazione delle linee di comando e le numerose duplicazioni tra centro e periferia; 3) il congestionamento dell’amministrazione centrale, ingessata anche dai tagli operati negli ultimi anni; 4) la cronica carenza di autonomia dei musei italiani, che ne limitano grandemente le potenzialità; 5) il ritardo del Ministero nelle politiche di innovazione e di formazione. La riforma è stata costruita innanzitutto per risolvere questi cinque “nodi” e può essere quindi descritta lungo sei linee di azione: 1) una piena integrazione tra cultura e turismo; 2) la semplificazione dell’amministrazione periferica; 3) l’ammodernamento della struttura centrale; 4) la valorizzazione dei musei italiani; 5) la valorizzazione delle arti contemporanee; 6) il rilancio delle politiche di innovazione e di formazione e valorizzazione del personale MIBACT.
La riforma vuole assicurare la piena integrazione tra i due ambiti strategici di intervento del Ministero, cultura e turismo. A tale scopo: 1) le Direzioni regionali, trasformate in uffici di coordinamento amministrativo (Segretariati regionali del MIBACT), sono dotate di specifiche competenze in materia di turismo, rafforzando l’interazione con Regioni ed enti locali, nonché di promozione delle attività culturali; viene così pienamente riconosciuto il ruolo amministrativo di tali uffici, tutti dirigenziali di II fascia, senza però sovrapporsi alle competenze tecnico-scientifiche delle Soprintendenze; 2) le Direzioni generali centrali competenti per i beni culturali sono arricchite di funzioni rilevanti anche per il turismo, come ad esempio la realizzazioni di itinerari e percorsi culturali e paesaggistici di valenza turistica; 3) le competenze della Direzione generale Turismo sono aggiornate per assicurare la massima integrazione tra i due settori. In particolare, la riforma avvia una importante trasformazione proprio con riguardo ai musei. Con il decreto musei, firmato il 23 dicembre 2014, si avvia una riforma che punta a rafforzare le politiche di tutela e di valorizzazione del nostro patrimonio, dando maggiore autonomia ai musei, finora grandemente limitati nelle loro potenzialità. Viene riconosciuto il museo, fino ad oggi semplice ufficio della Soprintendenza, come istituto dotato di autonomia tecnico scientifica che svolge funzioni di tutela e valorizzazione delle raccolte assicurandone e promuovendone la pubblica fruizione. Viene creata una nuova Direzione generale musei, cui affidare il compito di attuare politiche e strategie di fruizione a livello nazionale, favorire la costituzione di poli museali anche con Regioni ed enti locali, svolgere i compiti di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura, dettare le linee guida per le tariffe, gli ingressi e i servizi museali. Nasce così il sistema museale italiano fatto di 20 musei autonomi a cui viene conferita la qualifica di ufficio dirigenziale, riconoscendo così il massimo status amministrativo ai musei di rilevante interesse nazionale, i cui direttori sono stati scelti tramite selezione pubblica tra interni o esterni all’amministrazione, anche stranieri; è stato creato in ogni regione il polo museale regionale, creando una rete di 17 Poli regionali che dovrà favorire il dialogo continuo fra le diverse realtà
27
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
28
museali, pubbliche e private del territorio, per dar vita ad un’offerta integrata al pubblico. Per venti musei, dotati di autonomia speciale, il direttore è stato scelto con una selezione pubblica internazionale, tra persone di comprovata qualificazione professionale nel settore del patrimonio culturale ed elevato nella gestione degli istituti della cultura in Italia o all’estero. A partire dal 1 giugno 2015 i 20 musei hanno dei nuovi direttori. I venti musei sono: 1) Galleria Borghese, Roma; 2) Gallerie degli Uffizi, Firenze; 3) Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; 4) Gallerie dell’Accademia di Venezia; 5) Museo di Capodimonte, Napoli; 6) Pinacoteca di Brera, Milano; 7) Reggia di Caserta; 8) Galleria dell’Accademia di Firenze; 9) Galleria Estense di Modena; 10) Gallerie Nazionali d’arte antica di Roma; 11) Galleria Nazionale delle Marche, Urbino; 12) Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia; 13) Museo Nazionale del Bargello, Firenze; 14) Museo Archeologico Nazionale di Napoli; 15) Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria; 16) Museo Archeologico Nazionale di Taranto; 17) Parco archeologico di Paestum; 18) Palazzo Ducale di Mantova; 19) Palazzo Reale di Genova; 20) Polo Reale di Torino.
1.6 Il "Decreto musei" Il decreto musei rappresenta una grande novità per l’ordinamento italiano: definisce il sistema museale nazionale, la missione dei musei e ne determina le modalità di gestione. Il decreto musei definisce il museo come “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali
Tesi di Luigia Cipriani
e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica.” I musei statali sono dotati di autonomia tecnico-scientifica e svolgono funzioni di tutela e valorizzazione delle raccolte in loro consegna, assicurandone e promuovendone la pubblica fruizione. I musei statali sono dotati di un proprio statuto e di un bilancio e possono sottoscrivere, anche per fini di didattica, convenzioni con enti pubblici e istituti di studio e ricerca. Il servizio pubblico di fruizione, erogato dai musei statali e i relativi standard, sono definiti e resi pubblici attraverso la Carta dei servizi. Per la prima volta tutti i musei avranno uno statuto, un bilancio e chiare forme di gestione. Il sistema museale nazionale è finalizzato alla messa in rete dei musei italiani e all' integrazione dei servizi e delle attività museali. Fanno parte del sistema museale nazionale i musei statali, nonché, tramite apposite convenzioni stipulate con il direttore del Polo museale regionale territorialmente competente, ogni altro museo di appartenenza pubblica o privata, ivi compresi i musei scientifici, i musei universitari e i musei demoetnoantropologici, che siano organizzati in coerenza con le disposizioni del presente capo, con il decreto ministeriale 10 maggio 2001, recante «Atto di indirizzo sui criteri tecnicoscientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei» e con il Codice etico dei musei dell’International Council of Museums (ICOM). Il sistema museale nazionale si articola in sistemi museali regionali e sistemi museali cittadini, la cui costituzione è promossa e realizzata dai direttori dei poli museali regionali. Le modalità di organizzazione e funzionamento del sistema museale nazionale sono stabilite dal Direttore generale Musei, sentito il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”. I musei dotati di autonomia speciale, sono sottoposti alla vigilanza del Mibact tramite la direzione generale musei d’intesa con la direzione generale bilancio. I poli museali regionali assicurano sul territorio l’espletamento del servizio pubblico, di fruizione e di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato o affidati a quest’ultimo in gestione, provvedendo a definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovono l’integrazione dei percorsi culturali
Patrimonio, comunità e sviluppo: gli ecomusei.
di fruizione, nonché dei conseguenti itinerari turistico-culturali. I direttori dei Poli museali regionali elaborano ed approvano, entro 90 giorni dalla nomina, i progetti relativi alle attività e ai servizi di valorizzazione, ivi inclusi i servizi da affidare in concessione, al fine della successiva messa a gara degli stessi. I poli museali individuati sono 17: Polo museale del Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria, Basilicata, Sardegna.
1.7 Proposta per una legge regionale a tutela degli ecomusei Tutto il territorio italiano è quindi caratterizzato dalla presenza di un gran numero di ecomusei e l'Abruzzo ne conta tre. A differenza però di quasi tutte le altre regioni sul cui suolo sono nati e sono attivi gli ecomusei, l'Abruzzo non possiede ancora una normativa regionale che li qualifichi, li specifici e li caratterizzi. Partendo quindi da questo presupposto, la presente tesi è andata a sviluppare una proposta di legge per la tutela degli ecomusei in Abruzzo. Questa idea ben si armonizza con il clima di cambiamento e semplificazione che si sta cercando di ottenere. Si tratta di una proposta che, attraverso la stesura di pochi ma efficaci articoli, vuole essere un’ipotesi snella ed efficace per la definizione e caratterizzazione degli ecomusei, del loro scopo e delle loro caratteristiche generali: quello di raccogliere, conservare ma anche valorizzare l’eredità di una comunità. La proposta di legge comprende in generale cinque articoli che definiscono il concetto e le finalità di ecomuseo e la loro gestione; L’ultimo articolo inoltre, considerando il clima di rinnovamento proposto dalle riforme del MIBACT, che purtroppo non prendono in considerazione gli ecomusei del territorio nazionale ma solamente i musei, propone la possibilità di una collaborazione e convenzione con il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in particolare con il Polo Museale Regionale allo scopo di promuovere, valorizzare e programmare gli eventi in modo da fornire un’offerta quanto più integrata possibile.
Istituzione degli ecomusei in Abruzzo Art.1 Oggetto e finalità La regione di concerto con le comunità locali, le parti sociali e gli enti locali riconosce, promuove e disciplina gli ecomusei, con lo scopo di recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, le figure, le tradizioni, la cultura materiale e immateriale, le relazioni tra ambiente naturale e ambiente antropizzato, le attività di lavoro artigianale e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale. La prospettiva è quella di orientare lo sviluppo futuro del terriotrio in una logica di sostenibilità ambiantale, economica e sociale, di responsabilità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati e dell’intera comunità locale. Art.2 Ecomuseo Ai fini della presente legge è definito ecomuseo l’istituto culturale, pubblibo o privato, senza scopo di lucro mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’identità culturale di una comunità. Esso costituisce un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio e si attua attraverso un progetto condiviso e integrato di tutela, valorizzazione, manutenzione e produzione di cultura di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, materiali e immateriali, paesistiche ed ambiantali. Art.3 Attività degli ecomusei Le attività fondamentali degli ecomusei sono: a) Valorizzazione di ambianti di vita tradizionali di aree prescelte, anche attraverso la conservazione di edifici secondo i criteri dell’edilizia tradizionale, nonchè attraverso il recupero di strumenti, pratiche e saperi tradizionali che testimonino le abitudini di vita e di lavoro delle popolazioni locali, le relazioni con l’ambiente circostante, le tradizioni religiose, culturali, ricreative e alimentari, l’utilizzo delle risorse naturali, delle tecnologie, delle fonti energetiche e delle materie impiegate nelle attività produttive e i prodotti stessi: b) la promozione e il sostegno delle attività di ricerca scientifica e didattico-educative
29
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
30
relative alla storia e alle tradizioni locali; c) la ricostruzione di ambiti di vita e di lavoro tradizionali che possano produrre beni o servizi correlati all’offerta turistica e alla valorizzazione delle produzioni locali; d) la valorizzazione dei patrimoni immateriali quali i saperi, le tecniche, le competenze, le pratiche locali, i dialetti, i canti, le feste e le tradizioni gastronomiche, attraverso attività rivolte alla loro catalogazione e conoscenza ed alla promozione della loro trasmissione. Art.4 Gestione degli ecomusei e riconoscimento 1) Gli ecomusei possono essere promossi e gestiti da : a) enti locali, in forma singola o associata; b) associazioni e fondazioni culturai o ambientaliste, senza scopo di lucro, anche appositamente costituite e che abbiano, comunque, come oggetto statutario le finalità di cui all’art.3; 2) I requisiti per il riconoscimento della qualifica di ecomuseo di rilevanza regionale sono definiti sulla base dei seguenti criteri: a) presenza di uno statuto, o di un regolamento di organizzazione e funzionamento; b) svolgimento di attività educative; c) svolgimento di attività di ricerca correlata alla conservazione e catalogazione del patrimonio; d) rilevazione della quantità e della qualità della fruizione da parte del pubblico, anche tramite un servizio di registrazione; e) omogenità culturale, geografica e paesaggistica del territorio incluso nell’ecomuseo. 3) Il procedimento di riconoscimento si conclude con un decreto dirigenziale di accoglimento ovvero di diniego dell’istanza stessa entro il termine di centoventi giorni dalla data di presentazione dell’istanza. Art.5 Coordinazione di muesi ed ecomusei Collaborazione e convenzione con il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in particolare con il Polo Museale Regionale allo scopo di promuovere, valorizzare e programmare gli eventi in modo da fornire un’offerta quanto più integrata possibile.
Tesi di Luigia Cipriani
32
Marsica tra storia, cultura e natura « Nec sine marsis nec contra marsos triumphari posse » « Non si può vincere nè senza i Marsi nè contro di essi » Appiano di Alessandria, De Bello Civilii, libro I
33
34
2.Marsica tra storia, cultura e natura
Piana del Fucino,Caption by M. Justin Wilkinson, NASA-JSC. - earth observatory of NASA (Astronaut photograph ISS016-E-30337)
2.1 Breve panoramica sulla Marsica
2.2 L’origine dei Marsi
La Marsica è una regione storica dell’Abruzzo montano che comprende trentasette comuni della provincia dell’Aquila per un totale di circa 134 000 abitanti. Il suo centro principale è Avezzano, considerata città-territorio. Posizionata al confine dell’Abruzzo con il Lazio è collocata intorno alla piana del Fucino, tra il parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, la piana di Carsoli e la valle Roveto. Confina a nord con l’aquilano, ad est con la valle Peligna, a sud con la Ciociaria e la catena montuosa degli Ernici, infine ad ovest con le catene montuose dei Càntari, dei Simbruini e con l’alta valle dell’Aniene. La Marsica deriva il suo nome dall’aggettivo Marsicus, relativo ai Marsi, popolo italico di lingua osco-umbra, stanziato nel I millennio a.C. nel territorio circostante il lago Fucino. La Marsica si estende per circa 1.906 km² su una superficie territoriale eterogenea, tra le più complesse d’Italia. Il territorio è suddiviso in cinque macro-settori tra cui la zona della piana del Fucino. Tale territorio, si presenta pianeggiante e comprende i comuni posti intorno alla conca del Fucino tra cui i più popolosi sono Avezzano e Celano. La piana fucense è morfologicamente e geograficamente separata dal bacino del Liri ma ad esso connessa per il tramite delle opere di bonifica idraulica. L’area è contornata dai rilievi montuosi della Vallelonga a sud, dal gruppo Sirente-Velino a nordnord est e dal monte Salviano ad ovest. I gruppi montuosi nord occidentali pongono l’area fucense in collegamento diretto con i piani Palentini. Nell’attuale zona della Marsica, si stanziò nel primo millennio a.C. un popolo italico di lingua osco-umbro denominato appunto Marsi.
I Marsi, antico popolo dell’Italia centrale, erano noti per il loro grande valore e per la conoscenza delle erbe medicinali che abbondavano sulle loro montagne11. La loro città principale era Marruvium. Il loro territorio, segnato da monti e valli, si estendeva sulle contrade dove oggi si incontrano, in un ristretto orizzonte, Tagliacozzo, Celano, Alba, Celano Pescina e gli immediati dintorni del bacino del Fucino. Ma non furono questi i più antichi confini dei Marsi. Essi erano dapprima limitati al solo lato orientale del lago, poichè quello occidentale era occupato dagli Equi, ma quando i Romani nel 302 a.C. annientarono i popoli che l’abitavano fino a far scoparire ogni traccia del loro nome, il territorio marsicano si estese nell’intera regione fino alla Sabina. Secondo la leggenda tramandata da Plinio il vecchio12, i Marsi avrebbero avuto origine da Marso o Marro, figlio di Circe, perciò a questo popolo è riconosciuta una particolare virtù di rimanere immune dai morsi dei serpenti velenosi e di fare miracoli nel campo della medicina con succhi di erbe e arti magiche. Altra versione, più credibile, vuole che i Marsi abbiano preso il nome da un importante divinità, Marte, dio della guerra che, secondo la tradizione, guidava gli emigranti nelle sacre primavere, verso nuovi lidi. Marte infatti, antica divinità, corrispondente al dio greco Ares, fu molto più venerato dagli italici che non Ares tra i Greci. Il suo nome ricorre infatti, nelle forme : Mars, Maors, Mavors, voce osca o pelasgica e poi latina che significa : virile, maschio, robusto. Si vuole che da lui, i Marsi, ereditassero l’amore per la terra, essendo Marte protettrice dei campi; si assunse, di conseguenza, che tale popolo da lui trasse origine per le particolari virtù ereditate. Essi furono chiamati Marrubi o Marruvi13. Anticamente i Marsi appartenevano agli Osci che furono di stirpe sabellica, unitamente ai Sabini, Vestini, Marrucini e Peligni, loro vicini, come descritto da Virgilio. Chiusi da ogni parte dagli aspri giochi dell’Appennino, essi conducevano una vita molto attiva che li rese robusti, temperanti e coraggiosi. L’insicurezza dei luoghi in cui erano costretti a vivere, le guerre che combattevano sulle montagne dove gli ostacoli, le difficoltà e i disagi si presentavano, alimentarono in loro un forte sentimento di patria che li rese valorosi ed invincibili. I Marsi , noti fin dall’antichità come forti guerrieri, godettero sempre di fama di un popolo valoroso e forte. 11 12
Emilio Cerasani, Marruvium e S.Sabina. Memorie storiche di due civiltà, Pratola Peligna, 1986. Plinio il Vecchio, Historia Naturalis, XXXIII, 19.
35
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
36
Tesi di Luigia Cipriani
Spinti dagli Umbri intorno al VI-VII secolo a.C., essi furono costretti ad emigrare dall’Italia centrale fissando la loro dimora nel territorio intorno al lago Fucino e la regione nella quale si stabilirono prese il nome di Marsica. Secondo il Mommsen14 i Marsi ebbero in Marruvio la loro capitale; il nome esatto, come si può riscontrare da due lapidi rinvenute in S. Benedetto dei Marsi e rese note dal Febonio e riportate nel CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum) ai numeri 3667 e 3686, era Marsos Marruvium. Ai Marsi si unirono in seguito alcune popolazioni di stirpe sabellica; grazie a loro i Romani ottennero numerose vittorie tanto da meritare il riconoscimento di Appiano Alessandrino, storico greco che dice “Non vi fu mai trionfo nè contro i Marsi, nè senza i Marsi”. Dei Marsi si formarono delle colonie, una delle quali andò ad abitare ad Anagni, ed un’altra nel nord-est della Germania, al di là del Reno, nel territorio compreso tra il fiume citato, la Lippa e il Rhur.
2.2.1 I Marsi e i rapporti con Roma IV sec. a.C. I Marsi, insieme ai Vestini, ai Marrucini e ai Peligni, presero parte a una confederazione contro cui i Romani entrarono in conflitto durante la Seconda guerra sannitica, nel 325 a.C. Contro l’alleanza italica Roma inviò il console Decimo Giunio Bruto Sceva; secondo Tito Livio si trattò di una mossa audace, poiché fino a quel momento i Vestini e i loro alleati non avevano minacciato direttamente la Repubblica, ma necessaria per prevenire una loro possibile alleanza con i Sanniti. Bruto devastò le campagne degli Italici per costringerli a scendere in battaglia in campo aperto; lo scontro fu sanguinoso e anche l’esercito romano subì gravi perdite, ma i nemici furono costretti ad abbandonare i loro accampamenti e a trincerarsi nelle loro cittadelle. In seguito Livio accenna a un modesto scontro tra le legioni di Quinto Fabio Massimo Rulliano e i Sanniti, cui presero parte anche Marsi e Peligni; si trattò di una scaramuccia, sottolineata dallo storico in quanto prima “defezione” dei Marsi dal campo romano. Dal 325 a.C. in poi ci furono varie ribellioni, alle quali Roma reagì istituendo in territorio marso la colonia latina di Alba Fucens (303 a.C.). 13 14
Dionisio di Al Carnasso, Antichità romane, Libro I, 14. Mommsen Theodor, Le province Romane, Volume I.
Fig. 2 - Pianta di distribuzione dei popoli marsi ed equi citati da Plinio il vecchio ne “ Historia Naturalis”
Nel 304 a.C., dopo la grave disfatta subita dagli Equi per opera dei Romani guidati dai consoli Publio Sempronio Sofo e Publio Sulpicio Saverrione, i Marsi, come i loro vicini Peligni, Marrucini e Frentani, inviarono ambasciatori a Roma per chiedere un’alleanza, che fu loro concessa attraverso un trattato. Non appoggiarono quindi la Lega sannitica, contribuendo in tal modo in maniera decisiva alla vittoria romana. Nel 301 a.C., approfittando di una contemporanea rivolta dell’ Etruria, i Marsi si opposero alla colonia di Carseoli (o Carsioli), appena fondata da quattromila uomini. Per far fronte all’emergenza Roma nominò dittatore Marco Valerio Corvo, che sbaragliò i Marsi in una sola battaglia; li costrinse quindi a trincerarsi nelle loro cittadelle, prima di conquistare in rapida successione Milonia, Plestinia e Fresilia. Stabilì quindi che i Marsi avrebbero dovuto rinunciare a parte del territorio, prima di rinnovare l’alleanza.
Marsica tra storia, cultura e natura.
37
Fig. 3 - Tavola peuntingeriana, pars VI, segmentum VI, Hofbibliothek di Vienna, Austria La tavola è una copia del XII-XIII secolo di un’antica carta romana che mostra le vie militari dell’Impero romano.
II sec. a. C.
II-I sec. a.C.
La romanizzazione dei Marsi fu graduale. Dopo il trattato del 304 a.C., conservarono ampi margini di autonomia interna come popolo alleato e non già sottomesso; la loro politica, tuttavia, non entrò mai in contrasto con quella di Roma, alla quale si accodavano. A differenza di altri popoli osco-umbri, dopo la sottomissione rimasero fedeli a Roma in occasione delle Guerre pirriche. I Marsi combatterono poi al fianco di Roma alla Seconda guerra punica partecipando nel 225 a.C. a un contingente di cavalleria di quattromila armati insieme a Marrucini, Frentani e Vestini 15.
Il rapporto tra i Marsi e i Romani fu instabile, intervallato da momenti di pace e di alleanza, a improvvise ribellioni che costringevano Roma a duri interventi repressivi. La rivolta più grave delle popolazioni fucensi, portò, nel 91 a.C., allo scoppio della Guerra sociale – detta anche Bellum marsicum che coinvolse quasi tutta la penisola e gettò Roma nella guerra civile tra Mario e Silla. La rivolta degli alleati italici fu poi sedata dal console Gaio Mario con la conseguente concessione della cittadinanza romana a tutti i confederati. Agli inizi del I secolo a.C., i Marsi furono quindi i principali ispiratori, con Peligni e Piceni al loro seguito, della vasta coalizione di popoli italici che scatenò la Guerra sociale per ottenere la concessione della cittadinanza romana più volte negata (91-88 a.C.). L’esercito italico, ripartito in due tronconi - uno sabellico guidato dal marso Quinto Poppedio Silone, l’altro sannitico affidato a Gaio Papio Mutilo contava contingenti di numerosi popoli; quello marso era guidato da Tito
Secondo Tito Livio, sempre nel corso della Seconda guerra punica (217 a.C.) il loro territorio e quello dei loro vicini Peligni sarebbe stato devastato dalle truppe di Annibale, in marcia verso sud dopo la vittoria nella battaglia del Lago Trasimeno; tale informazione è tuttavia scorretta, giacché Marsi e Peligni non si trovavano lungo l’itinerario dei Cartaginesi 15
Polibio, Storie, II, 24
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
gens Sergia. A partire da allora la romanizzazione degli Italici si avviò rapidamente a compimento, come attesta la rapida scomparsa delle loro lingue, sostituite dal latino.
38
2.2.2 I Marsi e i Longobardi
Fig. 4 - Agri Descriptio, visibile la porzione occupata dai Marsi nei pressi del “Lacus Fucinus”8
Lafrenio. Nel 90 a.C. Lafrenio fu il primo difensore di Ascoli (città non marsa, a testimonianza del carattere federale della lotta), assediata da Gneo Pompeo Strabone; presto ricevette il soccorso dei Piceni di Gaio Vidacilio e dei Peligni di Publio Vettio Scatone. In seguito i Marsi di Lafrenio assediarono lo stesso Pompeo a Fermo, prima di essere battuti separatamente da Mario. Poppedio, dal canto suo, alla testa di Marsi e Vestini tese un’imboscata vincente nella quale cadde il romano Quinto Servilio Cepione il Giovane (90 a.C.), prima che la generale vittoria di Roma sui socii ribelli culminasse con la presa di Ascoli da parte di Pompeo. Dopo la Guerra sociale la Lex Julia de civitate, che concedeva la cittadinanza romana a tutti gli Italici rimasti fedeli a Roma, fu progressivamente estesa anche ai popoli ribelli, tra i quali i Marsi. I loro territori furono intensamente colonizzati, soprattutto nell’epoca di Silla. Ottenuta la cittadinanza, i popoli sabellici furono incorporati nelle tribù romane: i Marsi, con i Peligni, furono iscritti nella Fig. 4 - Philip Clüver, Piceni et Vestinorum, Pelignorum, Marrucinorum, ac Frentanorum agri descriptio,Italia antiqua, Elsevier, 1624.
I Germani ( un vocabolo che in lingua celtica significa “uomini che innalzano il grido di guerra”) è il nome con il quale i Romani designavano tutte le popolazioni abitanti al di là del Reno. I Germani abitavano nell’Europa centrale: lungo le rive del Reno, dell’Elba, dell’ Oder, del Danubio e della Vistola. A partire dal II secolo dopo Cristo, alcuni popoli germanici (chiamati dai Romani anche barbari) cominciarono a fare irruzione oltre i confini dell’Impero Romano. Alla fine del VI secolo dopo Cristo, quasi tutti i popoli di razza germanica erano venuti a contatto con la civiltà di Roma e questo fatto aveva contribuito a renderli meno incivili. Uno dei pochi popoli germanici che a quell’epoca non avevano conosciuto la civiltà romana e che quindi conservavano ancora intatte le istituzioni sociali della loro stirpe, era quello dei Longobardi. Le origini dei Longobardi sono piuttosto misteriose, ma sembra ormai accertato che la loro prima dimora sia stata la Penisola Scandinava. Dalla Scandinavia essi si trasferirono dapprima lungo il corso inferiore del fiume Elba, finchè nel VI secolo dopo Cristo riuscirono a penetrare nel cuore dell’Europa, e precisamente nella parte occidentale della pianura ungherese. Sembra che anticamente essi si chiamassero Vinili che significa guerrieri e che soltanto quando si sistemarono nell’attuale Germania mutassero il loro nome in quello di Longobardi. Poiché in Scandinavia si chiamavano Longobardiz, guerrieri che attraversano il mare, tutti i soldati di ventura che lasciavano la patria per andare in cerca di miglior fortuna, si crede che i Vinili presero per se tale nome quando abbandonarono per sempre il loro territorio. Altri credono che i Longobardi venissero così chiamati perché portavano lunghe barbe (langbarbe), oppure perché usavano in guerra una lunga lancia la quale in lingua tedesca è detta hallbard. Essi si ritenevano i prediletti dal dio Odino e credevano che i guerrieri morti onorevolmente in battaglia venissero condotti da Odino nel Walhalla (il tempio degli uccisi, una sorta di paradiso) in cui gli eroi avrebbero goduto di una gloria eterna. Poiché erano convinti di essere il popolo
Marsica tra storia, cultura e natura.
più bellicoso dei Germani, i Longobardi si ritenevano prediletti di Odino. Abitavano in capanne di legno, coperte di paglia, dietro le quali vi era un terreno cinto da una siepe o uno steccato. L’ arredamento era costituito da oggetti strettamente necessari: un molino portatile per macinare il grano, pentole di rame o di terra, corna di bue per contenere l’olio o per servire da bicchieri, e pelli su cui dormire. I più prodi guerrieri appendevano teschi dei loro nemici uccisi, alle pareti.
Longobardi nella provincia Valeria nel 571-574 con la definitiva conquista nel 591 ad opera di Agilulfo, Duca di Spoleto. La conquista non fu uniforme e si prolungò per circa 20 anni. Sebbene esistesse un Ducato longobardo a Spoleto, il potere del suo duca non era dei più stabili sul territorio visto l’eccessiva irruenza delle famiglie guerriere longobarde dell’Italia centrale che in autonomia decidevano i territori di conquista ed i loro insediamenti nelle aree conquistate.
Nel 568 dopo Cristo, guidati dal giovane re Alboino, i Longobardi abbandonarono la pianura ungherese e si diressero verso l’Italia: forse 250 000 tra uomini, donne e bambini. La parte della penisola che loro occuparono prese il nome di Longobardia, l’attuale Lombardia. Rozzi, incivili ed avidi soltanto di saccheggi, i Longobardi non furono in grado di apprezzare la civiltà romana e si dimostrarono nemici acerrimi della religione cattolica. Loro primo pensiero fu quello di saccheggiare le chiese, di uccidere i sacerdoti e di radere al suolo le città. Ma alla fine del VI secolo dopo Cristo si verificò un avvenimento di grande importanza che cambiò radicalmente il modo di vivere dei Longobardi. Nel 591 d. C. la cattolica Teodolinda, vedova di Autari re dei Longobardi, divenne moglie del re Agilulfo. Questa regina, con l’aiuto del papa Gregorio Magno, si adoperò per molti anni affichè il suo popolo si convertisse al Cristianesimo.
La prova di quanto fossero pericolosi quei tempi, è certificata dal ritrovamento di materiali di quest’epoca sulle alture una volta occupate dai centri fortificati dei Marsi: ceramica sigillata africana di VI secolo a Milionia a Rivoli di Ortona dei Marsi, sull’altura di S. Vittorino di Celano e di una fibula in bronzo a forma di pavone di VI-VII sul Monte Secine di Aielli. Rinvenimenti che confermarono il ritorno, a scopo difensivo, sulle alture fra il VI e VII da parte degli abitanti dei villaggi sottostanti di Caelum ed Agellum. Prove della distruttiva conquista longobarda sono riscontrabili nei Piani Palentini e nell’area di Vico. Del dramma della primitiva conquista della « Valeria provincia » da parte delle orde longobarde, si ritrova nella descrizione del papa Gregorio Magno che sottolineò l’uccisione per impiccagione di due monaci nella Valeria e la crudele decapitazione di un “venerabile diacono” nella Marsica. Questo giustifica la mancanza, per quel periodo, di vescovi nel territorio della Marsica, probabilmente fuggiti alle prime avvisaglie longobarde, ma soprattutto la presenza di monaci ancora addetti alla conversione dei gruppi pagani (goto-romani) che sopravvivevano nell’interno degli insediamenti rurali appenninici. Dopo l’invasione longobarda non ci sono più notizia delle diocesi menzionate in Abruzzo. Scompaiono anche le diocesi marsicane, ma sopravvissero con il termine civitas (Marruvio, Alba, Antino e Carsoli) di cui solo quella marruvina, resistette con in nome di Civitas Marsicana e si espanse fino a comprendere gran parte della Marsica. Ben diversa fu la sorte del vicino municipium di Marsi Anxa, che essendo sede del santuario pagano più importante della Marsica subì, le distruzioni cristiane nel corso del IV e V secolo. La città-santuario marsa, con il nome di Lucus e la sua chiesa di S. Maria, riapparve alla luce dei documenti storici solo nel corso del X secolo . Agli inizi del VII secolo la Valeria, ormai pienamente longobarda, fu inserita nel Ducato di Spoleto con la nascita nella Marsica di una gastaldia locale retta da un gastaldius Marsorun residente nella Civitas Marsicana (attuale S. Benedetto dei Marsi)
La sua opera fu coronata da un pieno successo. Alla fine del VII secolo tutti i Longobardi erano diventati cristiani. L’inizio del medioevo è indubbiamente segnato per la Marsica dall’arrivo dei
Fig. 5 - Monetazione della confederazione marsa durante la guerra sociale (Víteliú e soldato elmato - 89 a.C.), the William N. Rudman Collection
39
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
40
Fig. 6 - Pianta della Marsica italica VII- V sec. a.C.
Fig. 7 - Pianta della Marsica italico- romana III- I sec. a.C.
Fig. 8 - Pianta della Marsica longobarda VI-VIII sec. d.C.
Fig. 9 - Pianta della Marsica X-XI sec. d.C.
Fig 6,7,8 ,9 - Giuseppe Grossi, Carta archeologica della Marsica, Avezzano, 2011
Marsica tra storia, cultura e natura.
e nella « curte comitale » di Apinianicum di Pescina, posta sotto il monastero benedettino di S. Maria, sede di una primitiva Fara longobarda. Nello stesso secolo, nel 608, un prete nativo dalla Marsica divenne papa col nome di Bonifacio IV: «Bonifatius natione Marsorum de civitate Valeria». Alla metà del secolo i Longobardi si cristianizzano ed iniziano a invadere il territorio di chiese dedicate a S. Angelo, prevalentemente realizzate in grotta, di cui si hanno numerose attestazioni in tutta la Marsica ed un culto ancora visibile nella Grotta di S. Angelo di Balsorano. La conquista longobarda mise fine alle strutture amministrative romane ed anche alle primitive diocesi cristiane insediate negli ambiti municipali. Dei vecchi municipia d’Alba, Anxa, Marrubio ed Antino non rimase traccia alcuna come ben descritto dallo storico longobardo Paolo Diacono, vissuto nel 720799:« La tredicesima regione è la Valeria, …., Le sue città più importanti sono Tivoli, Carsoli, Rieti, Forcona e Amiterno; vi si trova pure il territorio dei Marsi con il Lago Fucino » . Dalle prime notizie dell’area fucense in tarda età longobarda e prima età franca si viene a conoscenza che i fundi e vici documentati in piena età imperiale romana furono riutilizzati dalle ecclesie, celle, casalia, villae e curtes. Nel 761 si ha la prima notizia, in un documento di Farfa, di un gastaldo longobardo dei Marsi. Del lungo periodo di occupazione longobarda, si ha certezza dalla presenza del culto di S. Angelo ad Avezzano ancora nel secolo XIV nella località “FonteMuscino, culto specifico del mondo longobardo cristianizzato che vedeva nell’Angelo sterminatore la figura cultuale dell’Arimanno, il guerriero longobardo. La seconda metà dell’VIII secolo vide la fine del governo longobardo della Marsia: infatti, nel 774 la gastaldia dei Marsi « in finibus Spoletii » fu conquistata da Carlo Magno e nuovamente inserita nell’ormai franco-longobardo Ducato di Spoleto, ma il potere locale continuò ad essere dominato da funzionari longobardi ed ancora, nell’879, dell’importante funzionario longobardo Garibaldo, abitante con la moglie Scamberga nella Civitas Marsicana, costretto in quell’anno a cedere le sue proprietà al celebre monastero di S. Clemente a Casauria, fra cui quelle di Paterno. Grande importanza ebbe la Marsica, nei numerosi conflitti che videro, di volta in volta, lo scontro fra Longobardi e Franchi, fra Normanni e Conti dei Marsi, fra Svevi ed Angioini, . La vicina Valle Roveto assunse un ruolo importante strategicamente, perché a Sora passava il confine, variabile, fra i ducati longobardi di Spoleto e Benevento e la stessa zona era interessata dalle scorrerie dei Saraceni. A tal proposito si possono ricordare gli
importanti avvenimenti bellici del IX e X secolo che interessarono la valle Roveto e, sicuramente, l’area avezzanese con i soliti strascichi di lutto e terrore: il passaggio nei Piani Palentini e Val Roveto dell’esercito imperiale di Ludovico II diretto a Montecassino nel 866 per sventare la minaccia saracena, quando per Sora entrò sui limiti settentrionali del ducato beneventano; nel 880 con il passaggio per la Val Roveto, Piani Palentini ed area avezzanese degli Agareni (Saraceni) provenienti dalle basi sulla foce del Liri-Garigliano, che raggiunsero il Fucino, distrussero il monastero celanese di S. Vittorino in Telle di Celano e depredarono il celebre monastero di S. Maria in Apinianico di Pescina, uccidendo tutti i monaci ed incendiando lo stesso monastero; nel 937 con l’invasione della Marsica da parte di una banda di predoni Ungari che, dopo aver devastato il circondario di Capua, tramite la Val Roveto, raggiunsero il Fucino dove furono sconfitti e messi in fuga, probabilmente vicino Forca Caruso, dalle truppe congiunte dei Marsi e Peligni..
2.2.3 I Marsi nel periodo medievale Alto medioevo Con la caduta del Regno dei Longobardi avvenuta nel 774 ad opera dei Franchi di Carlo Magno che donò la provincia Valeria e tutto il ducato allo Stato Pontificio si instaurò una certa stabilità politico-amministrativa nel territorio grazie ad alcune concessioni e alle donazioni ai conventi e in particolare ai monasteri presenti nel territorio che proseguirono l’opera di cristianizzazione di parte della popolazione locale. L’alto medioevo tuttavia a cominciare dal IX secolo fu segnato dalle invasioni barbariche dei saraceni, dei normanni e degli ungari che toccarono quasi per intero il territorio lungo l’asse dell’antica via Tiburtina Valeria. Vennero così parzialmente abbandonati i poderi situati a valle, in particolare quelli situati sulle rive del lago Fucino, ed edificati i primi incastellamenti con i contadini che minacciati e depredati dagli eserciti stranieri decisero di vivere insieme in centri fortificati posizionati in alture strategiche capaci di svolgere un ruolo di controllo e di difesa del territorio. Nel IX secolo, con ogni probabilità tra l’859 e l’860, venne istituita la contea dei Marsi a capo della quale si troveranno i conti dei Marsi della famiglia Berardi. Nel 926 divenne conte dei Marsi, Berardo detto “Il Francisco” che mantenne autonomo il territorio per oltre due secoli. Nella civitas
41
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
territorio, con la bolla di Papa Stefano IX divenne dal 1057 la chiesa di Santa Sabina in Marruvium, la contemporanea San Benedetto dei Marsi.
42
Tra l’XI e il XII secolo vennero nuovamente abbandonate le pianure ed ampliati i centri fortificati per scopi difensivi in seguito alle invasioni normanne le cui incursioni avvennero attraverso la valle di Comino e l’alta valle del Liri. Con la nascita del Regno di Sicilia il territorio fu diviso in due contee distinte, quella di Albe e quella di Celano con le aree di Carsoli e della valle di Nerfa sotto il controllo di altre nobili famiglie. Da questo momento in poi vennero confermati i confini diocesani grazie alle bolle papali di Pasquale II e Clemente III mentre la valle Roveto da Balsorano a Pescocanale risultò già da tempo inserita nel territorio diocesano di Sora.
Fig. 10 - La distribuzione dei popoli italici
marsicana di Marruvium verrà ristabilita la sede dell’antica diocesi dei Marsi, fino a quel momento vacante a causa delle invasioni sanguinarie che caratterizzarono i decenni precedenti. La chiesa di Santa Sabina fu elevata a cattedrale e divenne sede vescovile nel 1057. Con la bolla palale di Stefano IX datata 9 dicembre dello stesso anno che ne segnò i confini la diocesi marsicana raggiunse la sua definitiva dimensione. L a sede della diocesi, che risultava spesso vacante a causa dei conflitti per il possesso e il controllo del Fig. 10 - La Regina A., Abruzzo e Molise. Guide archeologiche, Laterza editore, Roma-Bari, 1993
L’indipendenza politica-amministrativa della contea dei Marsi terminò nel 1143 allorquando i normanni la assoggettarono. I conti marsicani risultarono ulteriormente indeboliti con la salita al trono di Enrico VI di Svevia, mentre Federico II di Svevia tentò di ripristinare l’emissario romano e i cunicoli di Claudio per bonificare le terre del Fucino. Nella Marsica Francesco d’Assisi diffuse il suo Ordine dei Frati Minori. La sua prima presenza nel territorio risulterebbe nell’inverno tra il 1215 e il 1216, quando soggiornò a San Benedetto dei Marsi insieme con i poveri, nei pressi dell’anfiteatro romano. Un successivo viaggio nella Marsica, a Pescina, Celano e San Benedetto dei Marsi, ci sarebbe stato con ogni probabilità, tra il 1219 ed il 1222. Fu nella seconda metà del Duecento che si diffusero i primi conventi francescani a Celano e Tagliacozzo che si affiancarono agli antichi monasteri benedettini. Nel 1233 incluso tra i ducati di Spoleto e Benevento venne istituito il Giustizierato d’Abruzzo che incluse anche il territorio marsicano. Il 23 agosto del 1268 i piani Palentini furono teatro della battaglia di Tagliacozzo tra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò che segnò la caduta definitiva degli svevi e l’avvento al potere degli angioini che distrussero i centri in cui abitanti parteggiarono per Corradino offrendo supporto logistico ai suoi uomini, il borgo di Albe e
Marsica tra storia, cultura e natura.
l’incastellamento di Pietraquaria sul monte Salviano. Da questo momento si insediarono nel territorio, presso l’abbazia di Santa Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana i monaci cistercensi. Il 5 ottobre del 1273 Carlo I d’Angiò, con il diploma di Alife, suddivise il territorio abruzzese in due unità amministrative: Aprutium ultra flumen Piscariae e Aprutium citra flumen Piscariae, ovvero Abruzzo Ultra a nord a cui la Marsica fece parte ed Abruzzo Citra a sud
Alla fine del medioevo diversi diplomi di re Federico I di Napoli, databili dal 1496 al 1499, determinano la vittoria dei Colonna sugli Orsini. A Fabrizio Colonna vennero concesse le terre delle contee di Albe e Tagliacozzo e delle baronie di Carsoli e della valle Roveto, mentre i territori della contea celanese rimasero sotto il controllo dei Piccolomini fino agli ultimi anni del XVI secolo.
2.2.4 La Marsica nell’età moderna Basso Medievo Il ramo dei Berardi di Celano si estinse nella linea maschile con Nicola nel 1418 e con Jacovella e il figlio Ruggero avuto da Leonello Acclozamora nella seconda metà dello stesso secolo. Governarono, con alterne vicende la contea di Celano, per diversi secoli dal XII alla seconda metà del XV secolo. In questo ampio arco di tempo vennero realizzate numerose opere pubbliche come il potenziamento delle vie delle transumanza lungo i tratturi Celano-Foggia, Pescasseroli-Candela e TagliacozzoCampagna romana e dalla metà del XIV secolo per opera di Ruggero II rinforzate le mura dei centri fortificati di Aielli, Collarmele, Rovere, Santa Jona, Sperone e Trasacco. Con l’esilio da Celano di Ruggero Acclozamora, appena successivo all’ascesa al trono di Ferdinando d’Aragona, la contea venne assegnata nel 1463 da papa Pio II al nipote Antonio Todeschini Piccolomini nell’anno in cui la cittadella venne saccheggiata dagli angioini guidati dal condottiero Jacopo Piccinino impegnato invano a contrastare gli aragonesi. Il XIV secolo segnò l’arrivo nella contea di Albe e ad Avezzano dei primi feudatari romani, gli Orsini. Nel XV secolo le contee marsicane furono teatro delle lotte tra gli Orsini e i Colonna, altra potente famiglia romana. Nella prima metà del 1400 Giovanni Antonio Orsini divenne signore di Avezzano e della contea di Albe e del ducato di Tagliacozzo, controllando così tutte le aree ad occidente della Marsica, mentre Celano e l’area orientale e la baronia della valle Roveto risultarono sotto il controllo dei Piccolomini. Con la conquista di Trasacco ebbero inizio gli scontri tra gli Orsini e i Colonna. Nel 1443, il re di Napoli Alfonso V d’Aragona riconobbe il feudo come proprietà degli Orsini. Dopo decenni di lotte nel 1486 Albe risultò ancora sotto il controllo degli Orsini, mentre i Colonna ripresero i loro possedimenti romani.
Nel 1580, con la bolla pontificia In suprema dignitatis, di Gregorio XIII, la sede vescovile venne spostata a Pescina nella cattedrale di Santa Maria delle Grazie.I Colonna amministrarono la contea albense per circa tre secoli fino all’abolizione dei feudi, mentre Costanza Piccolomini cedette nel 1591 la contea a Camilla Peretti, sorella Sisto V. Ai Peretti seguirono a capo della contea le famiglie Savelli, Cabrera e Sforza-Cesarini. L’ultimo conte celanese fu Francesco Sforza-Bodavilla fino al 1806 anno dell’abolizione del feudalesimo. Nel 1790 Ferdinando I delle Due Sicilie portò avanti invano un nuovo tentativo per ripristinare l’emissario dell’Incile e i cunicoli di Claudio con il fine di prosciugare e bonificare le terre fucensi. Attuata dal Bonaparte una nuova ripartizione del regno di Napoli in province, in distretti e circondari, la Marsica fu suddivisa in modo non rispondente alla sua secolare unità politica ed amministrativa, tanto che a ciò dovrà porre rimedio, cinque anni dopo, il successore Gioacchino Murat. II 4 maggio 1811 venne decretata l’istituzione del distretto di Avezzano, tanto che la cittadina diventò a tutti gli effetti da questo momento in poi il capoluogo della Marsica. Il real Decreto fu firmato a Parigi da Gioacchino Murat: Avezzano venne elevata a sede di sottointendenza, il suo distretto incluse inizialmente 7 circondari, ai quali poco tempo dopo fu aggiunto anche quello di Trasacco. L’economia del territorio fucense si basava sulle attività piscatorie del lago Fucino, mentre nelle aree decentrate dei piani Palentini, della piana del Cavaliere e dell’alta valle del Giovenco faceva riferimento principalmente sulle attività agricole e dell’allevamento di bestiame.
43
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
44
2.2.5 La Marsica nell’ottocento Il 2 agosto 1806 Giuseppe Bonaparte abolisce i feudi, pochi anni dopo, nel 1811, Gioacchino Murat, istituisce il distretto di Avezzano. Precedentemente, l’insorgenza generale negli Abruzzi, scatenata da Fra’ Diavolo, Sciabolone ed Ermenegildo Piccioli, finalizzata a restaurare Ferdinando IV di Borbone, scatenerà in tutta la Marsica rivolte, tumulti e combattimenti veri e propri intorno alle città di Avezzano e Celano. Il tenente francese Enrico Alò, di stanza ad Avezzano, cercherà di contenere la rabbia dei cosiddetti “sanfedisti” fedeli allo spodestato re napoletano e alla Chiesa. Il ricongiungimento delle masse ribelli di Fra’ Diavolo, frate Domizio Jacobucci e Piccioli avverrà a Canistro, in località Casali di Santa Croce, il 25 settembre 1806. Poi, motivi di sussistenza di così numerosa comitiva armata (circa mille uomini), come pure strategie di guerriglia campale, non permisero ai briganti di rimanere uniti, suggerendo ai due importanti “capimassa” di dirigersi ognuno per la propria strada. All’inseguimento dei ribelli si gettò il maggiore Joseph Léopold Sigisbert Hugo, tallonandoli in direzione di Tagliacozzo, Sulmona e Castel di Sangro. Presso la località di La Selva di Miranda, un furioso combattimento mise fuori gioco ben settanta seguaci del capobanda itriano. L’ esecuzione di Fra’ Diavolo, la resa di Sciabolone e l’arresto di Piccioli, mise fine ad un periodo intenso di guerriglia anti-giacobina molto sanguinoso per tutto il territorio marsicano. Con il rientro nel reame di Ferdinando IV (già rinominato Ferdinando I), l’8 dicembre 1816, la Marsica tornerà a far parte del Regno delle Due Sicilie, mantenendo la maggior parte delle nuove leggi promulgate durante il decennio francese. Il programma del governo napoleonico, nonostante la grave crisi della giustizia e dell’ordine pubblico che investì per un decennio tutta la Marsica e l’intero Abruzzo, andò comunque avanti con un nuovo assetto amministrativo civile, finanziario e giudiziario, in un contesto di forti contraddizioni diffuso nel regno di Napoli. Tre disposizioni di Giuseppe Bonaparte ebbero particolare importanza e fondarono il rinnovato Stato: l’eversione della feudalità, la riforma dell’amministrazione provinciale e comunale, l’imposta fondiaria. Nei comuni della Marsica i vecchi “parlamenti” settecenteschi furono sostituiti con il decurionato, una sorta di giunta comunale più moderna, composta da capi famiglia benestanti. Nell’ottobre del 1806, tutte le istituzioni dell’antico
Tesi di Luigia Cipriani
regime, furono completamente abolite e si stabilì che i decurioni sarebbero stati estratti a sorte da liste di contribuenti con una rendita non inferiore a ventiquattro ducati. Tuttavia, sia i “tribunali straordinari” sia le “commissioni militari” non ridussero le scorrerie delle bande ribelli della Marsica, capitanate da Felice Ruggieri, Giuseppe Del Monaco, Pelino Petrella e Giovanni Ventresca. Pochi soldati francesi, affiancati da guardie civiche di ogni paese del comprensorio marsicano tentavano di difendere i villaggi montani, continuamente assaliti dai briganti. L’eccidio di Gioia Vecchio del 10 settembre 1807, caratterizzato dall’uccisione di parecchi proprietari armentari, scatenò una dura repressione messa in atto dal generale comandante la provincia incaricato dell’alta polizia L. Huard. Il 24 settembre dello stesso anno, una commissione militare pronta a giudicare con poteri illimitati i ribelli ancora in circolazione e i loro complici, emise proclami draconiani e taglie sulla testa dei maggiori capibanda. Giustiziato Gioacchino Murat (13 ottobre 1815), subito dopo il congresso di Vienna, che ristabilì i diritti alla corona del Borbone, il 17 giugno 1815 il re Ferdinando IV col nome di Ferdinando I, era già rientrato nel regno di Napoli, preceduto dai proclami in cui annunziava amnistie, garanzie di libertà e la conservazione della proprietà alla borghesia terriera, riconoscendo la validità delle vendite dei beni soppressi alle congregazioni religiose. In questo periodo di Restaurazione, nella Marsica si proclamarono liste di “fuorbando”, amnistie e castighi per i briganti rimasti ancora alla macchia, quando già le prime incursioni del famigerato capobanda laziale Antonio Gasbarrone e le sette carbonare prendevano piede in tutto il territorio. La carboneria fu l’espressione di quella borghesia provinciale emersa come classe dirigente, durante il periodo murattiano, in opposizione alle strutture feudali ed ecclesiastiche, pur conservando una forte sfiducia verso un’amministrazione di tipo francese. L’11 maggio 1820, il sottintendente di Avezzano allarmò i soldati che pattugliavano i territori di Collelongo e San Giovanni Valle Roveto, proprio perché sui passi montani che collegavano le due aree limitrofe, venivano continuamente assaliti mercanti e viaggiatori. Interessati al movimento brigantesco rimanevano anche i territori di Castellafiume, Capistrello, Cappadocia, Morino, Rendinara e Tagliacozzo. I movimenti carbonari saranno più che mai dinamici, fino al 1861 anno dell’Unità d’Italia. In
Marsica tra storia, cultura e natura.
si fucilano i legittimisti!”. Con l’Unità d’Italia venne istituito il circondario di Avezzano composto di 9 mandamenti. In questi territori come in altre province meridionali si sviluppò il fenomeno del brigantaggio postunitario che cesserà soltanto nel corso della terza guerra d’indipendenza italiana e dopo la presa di Roma nel 1870. Otto anni dopo, nel 1878, viene ufficialmente dichiarato prosciugato il lago Fucino. Il banchiere romano, Alessandro Torlonia, dopo aver ripreso ed ampliato il progetto claudiano, prosciugò definitivamente il bacino fucense bonificando l’area, diventando proprietario di gran parte delle terre emerse (16.507 ettari) per 99 anni. Le difficili condizioni lavorative dei braccianti finirono per alimentare in tutto il territorio nuove tensioni sociali.
2.2.6 La Marsica nel novecento
Particolare della battaglia di Tagliacozzo, miniatura medioevale. quell’anno, l’8 dicembre, la cattura in località Casale Mastroddi, alle porte di Sante Marie e la successiva fucilazione a Tagliacozzo del generale catalano José Borjes e dei suoi soldati sconvolse l’Europa. Victor Hugo firmò un atto d’accusa contro il Governo italiano scrivendo: “Solo in Italia
Nel pieno dello sviluppo socio-economico dell’area fucense avvenne il terremoto della Marsica del 1915, uno dei più gravi eventi sismici avvenuti nel territorio italiano. Il sisma del 13 gennaio colpì l’intera area della Marsica, distruggendo paesi e città dell’area fucense e rovetana. Gravi danni si registrarono in tutto il centro Italia. Il sisma causò 30 519 morti (secondo i dati più aggiornati del servizio sismico nazionale), di cui 10 700, più dell’80% dei residenti della città di Avezzano, prossima all’epicentro. La scossa di magnitudo 7.0 (Mw momento sismico) e ancora dell’11º grado della scala Mercalli (MCS) si verificò alle ore 7.52.48 e fu avvertita dalla val Padana alla Basilicata. I giovani marsicani superstiti, già profondamente segnati dal sisma, dovettero partecipare come soldati dell’esercito alla grande guerra. Centinaia di giovani fanti marsicani persero la vita sul fronte, lungo l’Isonzo e sul Carso. In seguito al terremoto la sede provvisoria della diocesi fu stabilita presso il palazzo ducale di Tagliacozzo. Anche nella Marsica il XX secolo si caratterizzò per il fenomeno dell’emigrazione. Nel dicembre del 1907 avvenne il più grave incidente minerario degli Stati Uniti, il disastro di Monongah, che gettò nel lutto le famiglie di numerosi minatori di Civitella Roveto, Civita d’Antino, Canistro e dell’Abruzzo intero, costretti ad emigrare per poter lavorare. All’epoca della tragedia di Monongah la legislazione sulla sicurezza nelle miniere degli Stati Uniti risultava assai carente. Nonostante le polemiche e il clamore, per lungo tempo le condizioni lavorative dei minatori non cambiarono. Nell’agosto del
45
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
46
Disegno della veduta del lago del Fucino, Edward Lear, 1844.
1956 analoga sciagura si verificò a Marcinelle, in Belgio, dove morirono 262 persone. Tra queste 136 vittime furono italiane, molte delle quali abruzzesi della zona di Manoppello ed un marsicano di Ovindoli. Questi avvenimenti rappresentano due tra le più grandi tragedie dell’emigrazione italiana. Il 9 settembre 1922 venne inaugurato a Pescasseroli il parco nazionale d’Abruzzo la cui fondazione venne ufficializzata con il Regio decreto-legge dell’11 gennaio 1923. L’area parco successivamente ampliata venne a denominarsi “Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise” grazie ad una legge del 2001). Nel 1922, l’11 ottobre, venne costituito il primo consorzio forestale italiano, la condotta forestale marsicana con la partecipazione del nuovo ente parco e dei comuni di Bisegna, Gioia dei Marsi, Lecce nei Marsi, Opi, Pescasseroli e Villavallelonga. Il 16 gennaio 1924 con la bolla Quo aptius di papa Pio XI ci fu il definitivo trasferimento ad Avezzano
Disegno di un canale provvisorio per il drenaggio del lago.
della diocesi dei Marsi. Dopo le lotte contadine del secondo dopoguerra, e appena dopo l’eccidio di Celano che fece registrare due morti e diversi feriti tra i braccianti radunati in piazza, giunse l’attesa riforma agraria del 1950 che portò alla formazione, il 28 febbraio 1951, dell’ente della Maremma e del Fucino, con l’espropriazione terriera fatta in anticipo ai danni dei Torlonia. Il Fucino riorganizzato in appezzamenti più grandi fece segnare un boom delle produzioni agricole. Nel 1944, durante la seconda guerra mondiale il territorio subì le violenze nazi-fasciste e i danni dai bombardamenti alleati. Capistrello fu teatro della tragica vicenda dell’eccidio dei “33 martiri” fucilati e trucidati dai tedeschi. Il 26 marzo del 1946 avvenne a Bisegna la strage di Campomizzo: una bomba innescata dai tedeschi in ritirata causò la morte di sette giovani e il ferimento grave di diversi operai impegnati nella ricostruzione del ponte sul fiume Giovenco situato lungo la strada
Marsica tra storia, cultura e natura.
47
La prima pagina del quaotidiano “La stampa”,18 Gennaio 1915.
Il primo ministro Aldo Moro inaugura la stazione Telespazio, 1963
provinciale 17 e fatto crollare dagli alleati. Sulle montane del territorio furono nascosti ed aiutati dai residenti dei borghi migliaia di alleati in fuga dai campi di concentramento abruzzesi. Emblematiche le vicende eroiche dei fratelli Bruno e Mario Durante e di Giuseppe Testa, giovani partigiani catturati a Meta e Morrea, torturati e uccisi dalle SS per non aver rivelato l’ospitalità delle loro genti ai prigionieri evasi dai campi di concentramento, evitando gravi ritorsioni da parte dei tedeschi. I comuni della Marsica decorati al merito civile sono Avezzano, Capistrello, Carsoli e Massa d’Albe. A Trasacco appena dopo la liberazione alcuni cittadini vollero vendicare gli eccidi dei Tre Portoni e di Collelongo giustiziando una giovane ventiduenne colpevole di essersi innamorata di un graduato tedesco e accusata di essere la spia dei nazisti che commisero le stragi. Nel 1947 i responsabili dell’omicidio furono processati e condannati dalla Corte d’Assise dell’Aquila. Dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale il borgo vecchio di Villa San Sebastiano subì la
quasi totale distruzione a causa dell’alluvione del 5 settembre del 1955 che provocò quattro morti e una ventina di feriti. Dal 1963 Telespazio avviò le attività sperimentali nella piana del Fucino a cui seguì l’innalzamento delle prime antenne paraboliche di uno dei principali operatori al mondo nel campo dei servizi satellitari.
2.3 Le città dei Marsi I Marsi che abitavano l’attuale Marsica, avevano ad Oriente il fiume Sangro che li divideva dai Sanniti e dai Peligni, a Settentrione l’Aterno che li separava dai Sabini e dai Vestini, ad Occidente il Turano che li divideva dagli Ernici e dagli Equi, a Mezzogiorno il Liri che li separava dai Volsci. I luoghi principlai della regione erano: 1) Marruvio (San Benedetto dei Marsi), città cospiqua e capitale della “Gens marrubia”, situata nella
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
48
parte orientale del bacino del Fucino; 2) Lucus (Luco dei Marsi), così detto dal vicino bosco di Angizia, a Sud del Fucino, dedicato alla dea di cui la città porta il nome che il paese ancora conserva; 3) Trans Aquas (Trasacco), che co il suo entroterra, conserva ancora molti ricordi dell’antichità, situata tra Luco ed Ortucchio; 4) Archippie (Ortucchio), pure nel Fucino, dalla parte di Mezzogiorno; 5) Cerfennia (Collarmele) Erano inoltre presente diversi oppidum (fortezze) come quelle di Milonia (presso Ortona dei Marsi), Vesuna (Bisegna), Plestinia (Pescasseroli) , (nell’attuale Valle Roveto). In generale queste vedette poste sui monti svettanti tutt’intorno, facevano parte di un sistema difensivo con i sottostanti villaggi, ubicati nei pendii terrazzati o in pianura, in prossimità di diversi oppidum.
Tesi di Luigia Cipriani
50
L’Ecomuseo del Fucino
Analisi, sviluppo e valorizzazione del territorio della Marsica nell’Altopiano del Fucino
Marsica tra storia, cultura e natura
L’ itinerario medioevale
51
52
3.L’itinerario di torri e castelli medioevali
3.1 Il castello Orsini-Colonna di Avezzano Il castello Orsini-Colonna è un castello situato nel comune di Avezzano. Fu voluto nel 1490 da Gentile Virginio Orsini che lo fece edificare attorno ai resti della distrutta torre di Gentile da Palearia, signore di Manoppello. Nel 1902 è stato dichiarato monumento nazionale. Dopo il completamento dei lavori di recupero, attuati negli anni novanta, al piano terra del maniero è stata realizzata una platea per lo svolgimento di convegni e spettacoli, mentre al primo piano è stata insediata la pinacoteca d’arte moderna.
3.1.1 La storia Concepito, come si legge in un’iscrizione posta sul portale ogivale, come fortilizio Ad exitum seditiosis Avejani 16(ovvero come monito da eventuali rivolte della popolazione avezzanese), il maniero venne progettato con ogni probabilità dall’ingegnere militare Francesco di Giorgio Martini, in quegli anni al servizio degli Orsini ed autore documentato dell’intervento al vicino castello a pianta triangolare di Scurcola Marsicana. L’edificio di Avezzano nel 1565 fu in un primo momento ampliato da Marcantonio Colonna e successivamente trasformato in palazzo fortificato dal vincitore della battaglia di Lepanto. I Colonna, dal 1504 in poi, diverranno definitivamente feudatari di quasi tutto il territorio per tre lunghi secoli. Perciò, l’assetto amministrativo della contea dei Marsi, coll’avvento del Borbone, si presenterà diviso in due tronconi: ad Ovest, lo Stato di Tagliacozzo e Albe, che resterà pressoché intatto fino all’abolizione della feudalità; ad Est, la contea di Celano e la baronia di Pescina. Occorre specificare che, tutta la zona sarà teatro di forti tensioni e liti tra baroni e vescovi per questioni di nomina degli ecclesiastici ai benefici e alle cappellanie. Oltretutto, usurpazioni, interessi, privilegi, supremazie e contese di ogni genere, faranno scatenare dure diatribe senza esclusione di colpi tra potenti del luogo, finalizzate quasi sempre a togliere ai comuni gli “iura civitatis”17. Nel 1722 il signore di Avezzano, Don Fabrizio Colonna giunse nel suo palazzo baronale, accompagnato dalla moglie Donna Caterina Salviati. Come da cerimoniale, fu accolto dai vassalli del contado con “iscrizioni poste sopra gli archi eretti nelle vie in onore del principe, le poesie Raffaele Colapietra, Castello Orsini-Colonna, Di Censo editore, Avezzano, 1998 Fulvio D’Amore, La Marsica tra il viceregno e l’avvento dei Borboni (1504-1793). Vita pubblica, conflitti e rivolte, Adelmo Polla editore, Cerchio, 1998, pp. 9-10
Veduta del castello di Ortucchio
latine e greche e gli altri scritti composti in occasione dell’avvenimento”. Gli amministratori di Avezzano, in segno di omaggio, gli donarono regalie di ogni genere e furono ricevuti nel castello dal 17 settembre al 15 ottobre dello stesso anno18. Rimase in mano alla famiglia Colonna fino all’abolizione dei feudi avvenuta nel 1806. In questo periodo risultava molto utilizzato un teatro sotterraneo del castello, con probabile ingresso laterale nel fossato che i signori Colonna, generosi nei secoli con gli avezzanesi, concedevano di buon grado ai cittadini. Il viaggiatore ed artista inglese Edward Lear nel suo diario di viaggio, intitolato Illustrated Excursions in Italy, pubblicato a Londra nel 1846, riportò un disegno del maniero corredando così i testi dell’opera che riportavano i resoconti dei suoi viaggi in Abruzzo affrontati tra il luglio 1843 e l’ottobre 184419. Il maniero passò quindi nel 1806 ai Lante della Rovere che lo conservarono fino al 1905 quando, con atto a rogito del notaio Pietro Vannisanti in Roma, lo acquistò il vicesindaco di Avezzano, Francesco Spina, il quale ne adibì una parte ad albergo ed affittò il lato verso via Fucino alla Regia scuola normale “Matilde di Savoja” ed il resto al tribunale di Avezzano. Spina affittò anche parte del parco rinascimentale denominato al Catasto “Orto di San Francesco” come rimessa per cavalli. Singolare “l’Osteria dentro la Terra” realizzata nel fossato del castello nella metà del cinquecento, perfettamente funzionante nelle foto precedenti il terremoto che colpì Avezzano il 13 gennaio 1915. Francesco Spina iniziò nel 1912 gli interventi di rimozione delle aggiunte colonnesi abbattendo la loggetta di Marcantonio ma per ragioni economiche non andò oltre. Il castello venne distrutto dalla seconda scossa del 13 gennaio 1915, rilevata alle ore 07:52, pochi minuti dopo la prima scossa. La struttura crollò dal primo piano in su e furono quindi perdute le aggiunte cinquecentesche dei Colonna.
3.1.2 Il Castello prima e dopo il sisma del 1915 Ad Avezzano la popolazione residente era di poco oltre le 13.000 unità. Nel primo Novecento la cittadina aveva appena perduto la funzione di borgo fortificato, essendo state abbattute le mura medievale perimetrali. I monumenti principali erano oltre al castello Orsini, la vicina chiesa di San Giovanni Battista e la caserma dei carabinieri. Più lontano, all’interno del nucleo urbano originario, sorgeva la piazza
16
18
17
19
Id., pp. 48 Edward Lear, Escursioni illustrate in Italia, T. Mc Lean, Londra, 1846 (llustrated Excursions in Italy).
53
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
54
Fig.11 - Disegno tratto dagli appunti di viaggio di Edward Lear del castello Orsini-Colonna di Avezzano
municipale con la chiesa di San Bartolomeo. Poco distante erano collocate la villa comunale e il palazzo Torlonia con annesso parco. Il castello si presentava in forme perfettamente conservate, tanto che il sindaco aveva adibito gran parte di esso come albergo per i turisti dell’aristocrazia italiana. Il castello aveva tutte e quattro le torri perimetrali con i tre lati scanditi, e i tetti in merlatura erano adornati da copertura con tegole circolari, simili a quelli di una pagoda. Al centro del corpo v’era la residenza gentilizia dei Colonna con gli affreschi interni del Cinquecento. La facciata infatti mostrava un terzo settore, appunto occupato dalla residenza, che sulla destra, rispetto alla facciata, possedeva una torretta più alta e slanciata delle quattro del perimetro, con bucature ad archi classicheggianti, ed anch’essa con la caratteristica copertura in tegole del tetto “a pagoda”. Con il terremoto del 1915 il castello perse i livelli del tetto di tutte le colonne, ridotte a moncherini; la vicina chiesa di San Giovanni fu sventrata, con la perdita di gran parte della torre campanaria. Anche palazzo Torlonia crollò quasi completamente, Fig. 11 - AA.VV., Atlante dei castelli d’Abruzzo, Carsa Edizioni, Pescara 2002
e la chiesa di San Bartolomeo, non ancora cattedrale, rovinò del tutto. Rimase in piedi solo una parte del primo livello della facciata. La chiesa di San Giovanni furono ricostruiti. Dell’originaria chiesa di San Bartolomeo rimase in piedi solo una colonna del portale, su cui è stata incisa una lapide commemorativa, in ricordo della tragedia del 1915. Quella che dal 1924 divenne cattedrale, la nuova chiesa di San Bartolomeo, nota anche con il nome di Cattedrale dei Marsi, fu ricostruita nel cuore della città, in piazza Risorgimento. Il maniero risultò restaurabile nella fase Orsini fino alla seconda guerra mondiale, e l’amministrazione comunale sembrò muovere alcuni passi in tal senso. Tre bombe alleate, però, cadute durante i bombardamenti protratti per otto mesi sulla città, ne decretarono il passaggio a rudere.
3.1.3 Il restauro Il castello venne restaurato negli anni sessanta in due riprese ad opera dell’ingegnere Loreto
L'itinerario di torri e castelli medievali.
55
Castello Orsini-Colonna in una foto prima del sisma del 1915
Fig. 12 - Rovine del castello dopo il terremoto del 1915.
Orlandi, dirigente del locale Genio Civile. Una campagna di scavi archeologici svolta negli anni settanta hanno portato alla scoperta delle basi delle mura interne e di parte dei locali sotterranei. Divenuto quindi spazio per mostre di pittura ed arena per proiezioni cinematografiche negli anni settanta e ottanta, è stato recuperato nel 1994 su progetto dell’architetto Alessandro Del Bufalo, il quale ha realizzato l’auditorium inserendo una struttura interna autoportante.20
Orsini nella presa del feudo di Avezzano. Il secondo livello è scandito da due ordini di due finestre, con una centrale sopra il portale. Attorno alla facciata vi è il fossato prosciugato che circonda tutto il
3.1.4 Lo stile architettonico La facciata del castello è piana e suddivisa in due livelli da un cornicione marcapiano. Il portale centrale è rettangolare ed è decorato ai lati della porta da due file di piramidi minute, e più all’esterno da due figure in bassorilievo, a grandezza d’uomo, di un cinghiale rampante e di un orso brandente una spada, simboli delle famiglie Orsini e Colonna. Al centro, sopra la porta, in alto vi è lo stemma del casato fondatore. Tra tale stemma e il legno della porta c’è una lapide recante le imprese dei duchi 20
Raffaello Di Domenico, Il castello Orsini Colonna, Amministrazione comunale di Avezzano, 2002.
castello, e il portale è collegato alla terraferma da un ponte levatoio. Sulla sinistra della facciata, fino al punto focale del centro, è possibile ammirare i resti della decorazione in merlature e beccatelli, che poi è andata quasi tutta distrutta con il grande terremoto. Un secondo portale di accesso è posto sul lato destro del castello (rispetto alla facciata) e reca sopra di esso una lapide con scritte le imprese della famiglia Colonna nella conquista di Avezzano. Le quattro torri perimetrali del castello sono conservate in buona parte. Originalmente erano in tre livelli, suddivise da cornici, ma dopo il grande terremoto solo la torre della facciata a sinistra conserva parte della muratura ornativa con beccatelli e merlature. Le torri sono di forma circolare. L’interno è andato quasi completamente distrutto con il grande terremoto. Originalmente aveva un piano superiore, ossia la residenza gentilizia dei Colonna. Parte dell’interno ha ospitato la collezione d’arte moderna e contemporanea della pinacoteca. Sul lato destro del castello, rispetto Fig. 12 - E. Navone & Co, Scribner’s Magazine, p423, VOL 57, 1915.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
56
Il Castello Orsini-Colonna al giorno d’oggi
alla facciata, si può accedere mediante il secondo portale.Intorno al castello Marcantonio Colonna fece realizzare il giardino rinascimentale che occupò buona parte del fossato. Il terremoto della Marsica del 1915 e i bombardamenti della seconda guerra mondiale alterarono gli ambienti che nel corso del XX e XXI secolo sono stati parzialmente recuperati.
3.2 Il castello Piccolomini di Celano Il Castello Piccolomini è sito nel centro storico di Celano e domina la piana del Fucino. Gestito dal MIBACT, fa parte del Polo Museale dell’Abruzzo.
3.2.1 La storia Il sito su cui sorge il castello è da identificare con il luogo, sul colle di san Flaviano, in cui Federico
Tesi di Luigia Cipriani
II di Svevia, in lotta con Tommaso Conte di Celano e Molise, fece costruire delle fortificazioni durante l’assedio del 1223. Tali fortificazioni erano quasi certamente soltanto opere in legno e terra battuta, tuttavia segnarono l’inizio di quello che sarebbe stato una solida fortificazione in posizione dominante sul lago del Fucino nei secoli successivi. La costruzione del castello vero e proprio iniziò nel 1392 su commissione di Pietro Berardi, conte di Celano, ma già in precedenza, negli anni tra il 1356 e il 1380, suo nonno e poi suo padre avevano provveduto a fortificare il Colle di san Flaviano erigendo un sistema di mura con torrette rettangolari “a scudo” e costruendo la torre-mastio sommitale a pianta quadrata. Pietro di Celano, dunque costruì il solo piano primo con le torri quadrangolari agli angoli, fino al marcapiano, integrando la torre-mastio sull’angolo nord-est. Egli, altresì edificò il cortile interno alle mura dotandolo del loggiato con arcature a sesto acuto ancora visibile. Nel 1451, Leonello Acclozamora duca di Bari, una volta divenuto conte di Celano (a seguito delle nozze con Jacovella da Celano), proseguì l’opera del predecessore, sia integrando il recinto esterno con due grandi torrioni angolari semicilindrici sul versante nord-est e un rivelino triangolare con largo torrione angolare cilindrico verso la cittadella, sia erigendo il piano nobile del castello vero e proprio con il cammino di ronda e le quattro torri d’angolo fino all’altezza attuale. Lionello inoltre si occupò di fortificare le mura del recinto aumentandone lo spessore per poter resistere alle micidiali bombarde a polvere da sparo che erano state inventate in quegli anni. Nel 1463 Antonio Todeschini Piccolomini, nipote di papa Pio II, fu investito della Contea di Celano da Ferrante d’Aragona. Egli riprese la costruzione del castello apportando aggiunte e decorazioni architettoniche che trasformarono il maniero in palazzo residenziale fortificato. In particolare, fa completare il secondo piano del loggiato interno dotandolo di arcate a sesto acuto decorate nei capitelli dai simboli araldici della famiglia: la croce e la mezzaluna. Fa inoltre aprire delle finestre architravate in stile rinascimentale così come fa realizzare diverse loggette pensili appoggiate su beccatelli e ancora visibili. Interventi strutturali realizza, invece, sui bastioni del recinto dove fa costruire due torri cilindriche fortemente scarpate che inglobano le vecchie torri a “ferro di cavallo” ed amplia la stessa cinta muraria proprio in prossimità delle torri per aumentare la difesa degli ingressi dotandoli di antiporta. Nel 1591 Camilla Peretti, sorella di papa Sisto V, acquistò la contea dai Piccolomini. Nel 1608
L'itinerario di torri e castelli medievali.
57
Fig. 13 - Condizione dei torrioni d’angolo e del cortile prima dei lavori di restauro
Particolare del loggiato nel cortile interno dopo il sisma del 1915
Fig. 14 - Ricostruzione delle volte a crociera con rete metallica e creta Fig. 13 - https://www.impresacingoli.it/Attivita/Opere-di-consolidamento-e-di-restauro-del-Castello-Piccolomini/25-58-1.html Fig. 14 - Ibidem
Michele Peretti fa aprire sul mastio alcune finestre con architrave semplice. Nel 1647 il castello fu coinvolto nella rivolta di Masaniello occupato dai rivoltosi capitanati dal barone Antonio Quinzi de l’Aquila e sostenendo un lungo assedio ad opera delle truppe reali. Il feudo passò successivamente a Bernardino Savelli, e successivamente a Livia Cesarini che lo trasmise ai duchi Sforza Cesarini e successivamente agli Sforza Cabrera Bodavilla. Sono di questo periodo le tamponature settecentesche create per consolidare il loggiato superiore dopo i terremoti del 1695, 1706 e 1780. Al piano terra alcuni ambienti vengono utilizzati per creare la prigione feudale.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
3.2.3 Lo stile architettonico
58
Veduta panoramica del castello Piccolomini di Celano
Nel 1892 la proprietà è del Marchese Orazio Arezzo da Celano e successivamente della famiglia Dragonetti dell’Aquila. Nello stesso anno l’angolo ovest diventa sede provvisoria del carcere mandamentale, mentre nel 1893 diviene monumento nazionale sottoposto alla tutela delle Belle Arti del nuovo Regno d’Italia.
A seguito del restauro che è stato realizzato ricostruendo fedelmente l’antica struttura, grazie all’abbondante repertorio fotografico, il castello assume l’aspetto della fortezza medievale con funzione difensiva dell’abitato di Celano, come testimonia il rivelino del lato sud-est, che nei secoli successivi è stata modificata a residenza signorile rinascimentale.21 La cinta muraria è interrotta da undici torri a scudo e cinque rotonde. All’interno tramite un ponte levatoio che consente di superare un fossato, si accede al Castello attraverso due ingressi, uno dei quali protetto da una caditoia. L’ edificio centrale ha pianta regolare, rettangolare con quattro torri quadrate agli angoli, con merlatura ghibellina, che proteggono un cortile con pozzo nel mezzo, una volta architravato, per la raccolta delle acque piovane. All’esterno delle quattro torri un giro di ronda anch’esso merlato consentiva alle guardie il controllo di ogni lato delle mura. Tuttavia la esigua sporgenza delle torri dal profilo dell’edificio, che non consente un adeguato tiro di fiancheggiamento, lascia intendere che, con l’Acclozamora, l’antica funzione difensiva della fortezza, si è affievolita rispetto a quella di prestigiosa dimora signorile. Il perimetro del cortile risulta impreziosito da un porticato di carattere tipicamente rinascimentale su due piani, di cui quello inferiore con archi a ogiva sorretto da ampi pilastri colonniformi, e quello superiore con doppio numero di archi a tutto sesto con colonne più piccole . Il portico articolato su tutti e quattro i lati, non ha eguali nella regione e “va considerato tra i primari esempi italiani del genere”.Gli interni si presentano scarni essendo andati perduti con il terremoto i pregevoli affreschi delle volte.
3.2.2 Il castello nel 1915
3.3 Il castello Piccolomini di Ortucchio
Durante il disastroso terremoto del 1915 che si abbatté sulla Marsica, il castello risultò gravemente danneggiato riportando il crollo del loggiato nel cortile, di alcune volte, di tutti i solai, del cammino di ronda e di tutte le loggette. Si formarono altresì gravi lesioni sulle torri angolari, una delle quali, quella di sud-est, crollò dimezzando la sua altezza. Gli interventi di restauro iniziarono solo 25 anni dopo il sisma, nel 1940, a seguito dell’esproprio da parte dello Stato nel 1938, ma furono subito interrotti per cause belliche (Seconda guerra mondiale) e ultimati nel 1960, applicando la nuova normativa antisismica vigente all’epoca.
Il castello Piccolomini si trova ai bordi della piana del Fucino, nel comune di Ortucchio in provincia dell’Aquila.
3.3.1 La storia Il castello Piccolomini inizialmente sorgeva sull’isola di Ortucchio del lago del Fucino. La struttura, infatti, era circondata da un fossato le acque del quale erano collegate con il lago.22 Con il Carlo Perogalli, Castelli d’Abruzzo e del Molise, Gorlich, Milano, 1975 Marialuce Latini, Ortucchio (AQ), La rocca, in Guida ai Castelli d’Abruzzo, Pescara, Carsa Edizioni, 2000, p. 89.
21
22
L'itinerario di torri e castelli medievali.
59
Particolare d’ingresso: il castello d Ortucchio in una foto storica risalente al Gennaio del 1915
Particolare d’ingresso: il castello d Ortucchio è uno dei pochi in Italia dotati di darsena interna.
prosciugamento del lago, questa protezione è venuta meno. Il suo impianto, infatti, sorse sull’unica isola abitata del Fucino, l’isola di Ortucchio, assumendo una caratterizzazione architettonica molto particolare, proprio in relazione alla sua inusuale collocazione. La sua edificazione è comunque da riferirsi al 1488, quando, dopo la distruzione del precedente fortilizio ad opera di Napoleone Orsini, ne divenne proprietario lo stesso Antonio Piccolomini, il quale provvide alla pressoché totale riedificazione del forte. Tale ricostruzione
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
60
Veduta panoramica del castello Piccolomini di Ortucchio dal perimetro di camminamento
conferì alla generale architettura una sostanziale connotazione rinascimentale. La più antica Torre dei Conti Berardi, ancora dominante al centro della rocca, occupò da tempo il sito inequivocabilmente più prezioso per il controllo del grande lago del Fucino, sorgendo su un cospicuo sperone roccioso mai invaso dall’escursione delle acque. Il vecchio dongione, quasi certamente cintato e dotato di un comodo approdo, è legato alla triste vicenda della lunga prigionia della contessa Jacovella Berardi, che vi fu rinchiusa insieme al suo figlio minore, ad opera del figlio maggiore alleatosi con Orsini. Nel 1463 divenne proprietà di Antonio Piccolomini che edificò il castello nella forma oggi visibile, con un’opera grandiosa per l’epoca, scavando nella viva roccia, attorno alle nuove mura un ampio fossato esterno ed all’interno una darsena difesa ed organizzata per il traffico mercantile del naviglio leggero che poteva entrare fin dentro il castello. Il Castello di Ortucchio controllò per diversi secoli l’intera economia del lago e le comunicazioni, preferendosi allora le vie d’acqua per ogni spostamento, a causa della scarsa praticabilità delle zone costiere, paludose, instabili e malsane. Molto interessanti i dettagli degli apparati difensivi e gli espedienti per l’ottimizzazione dei
traffici in assoluta sicurezza. Ancor oggi è visibile oltre il fossato, dirimpetto al torrione di Nord-est, una solida costruzione diroccata, risulta essere una dependance del castello chiamata “la stanga”, ufficio dove venivano pesati e suddivisi, il pescato e gli altri prodotti in arrivo, per essere inviati ai numerosi usufruttuari, così entrava nel Castello, di uso esclusivamente militare, solo ciò che ad esso competeva. È da notare che le bocche da fuoco erano dislocate e puntate anche su tutto il borgo. Il portale d’ingresso, posizionato verso il borgo abitato, presenta un’ iscrizione contenente la data del rifacimento. La pianta del forte è rettangolare con massicci torrioni angolari di forma circolare, dei quali quello posto a nord-ovest conserva solo il basamento. L’intera struttura era poi circondata da un fossato le cui acque erano collegate con quelle del lago, rappresentando quest’ultimo l’unica via d’accesso. Dopo il prosciugamento del lago questa peculiarità è naturalmente venuta meno. Il castello subì notevoli danni a seguito del terremoto del 1915. Negli anni Settanta si è proceduto ad un generale restauro dell’edificio da parte della Soprintendenza delle belle arti.
L'itinerario di torri e castelli medievali.
3.3.2 Lo stile architettonico
61
Il castello ha una pianta rettangolare con torrioni circolari agli angoli delle mura, con quello di nord-ovest del quale rimane solo il basamento.23 La struttura più antica è sicuramente il mastio, risalente al tardo ‘400, e lo si deduce dalla particolarità che esso risulta inglobato nella cortina muraria, anziché essere in linea con la stessa, distinguendosi così dalla classica tipologia delle fortificazioni più tarde; esso presenta una merlatura fortemente aggettante con grandi mensole a triplice curvatura; il portale d’ingresso, posizionato verso il borgo abitato, presenta un’ iscrizione contenente la data del rifacimento. La pianta del forte è rettangolare con massicci torrioni angolari di forma circolare, dei quali quello posto a nord-ovest conserva solo il basamento. 24 L’intera struttura era poi circondata da un fossato le cui acque erano collegate con quelle del lago, rappresentando quest’ultimo l’unica via d’accesso. Dopo il prosciugamento del lago questa peculiarità è naturalmente venuta meno. Il castello di Ortucchio è oggi visitabile.
3.4 La torre Piccolomini a Pescina La torre Piccolomini di Pescina si trova in provincia dell’Aquila, in una posizione dominante sull’altopiano del Fucino. Intorno ad essa si trovano resti di mura ciclopiche formate da massi enormi, messi uno su l’altro, senza malta, ma tenuti fermi con massi più piccoli, posizionati negli interstizi lasciati vuoti dai grandi conci. Ciò è ben visibile soprattutto nella zona orientale della collina.
3.4.1 La storia In mezzo a questa rocca, che attualmente viene chiamata Rocca Vecchia, fu costruito, al tempo dei romani, un castello, distrutto nell’anno 89 a.C. per opera del console romano Silla. Di questo castello ai nostri giorni ne esistono solo alcune tracce. In seguito, prima dell’anno 1000, più in basso, nelle vicinanze delle mura romaniche, iniziò la costruzione del castello della Rocca Vecchia. Ercole Gigli, Ortucchio. Dal lago al Telespazio, Circolo culturale Il Castello Ortucchio, LCL stampe litografiche, Avezzano, 2005. 24 Giuseppe Grossi, Marsica giuda storico-archeologica, Aleph editrice, Luco dei Marsi, 2002. 23
Vista della torre
Esso, anche se fortificato e presidiato, venne distrutto dalle incursioni barbariche, specialmente dei Saraceni. Fu ricostruito, con base pentagonale, sotto l’imperatore Guglielmo II. Durante il periodo della lotta per le investiture, che contrappose il Papato e l’Impero, nell’XI e nel XII secolo, i marsi appoggiarono il papa. Ne seguì un’aspra vendetta da parte dell’imperatore, che fece incendiare molti castelli della zona, e fra questi anche quello di Rocca Vecchia. Federico II, dal 1231 al 1232, fece, con una imposizione mascherata da invito, riparare il castello di Rocca vecchia e costruirne la strada di accesso alla popolazione del luogo. Nel 1315 il castello appartenne ad Ugone del Balzo che, con la cospicua dote della moglie, lo abbellì sfarzosamente. Passò, poi, nel 1417, al conte Nicola da Celano, e, successivamente, nel 1571, ai Piccolomini. Il castello nel XV secolo risultava essere il più fortificato della zona, e molte popolazioni si
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
62
Vista della torre e parte della cinta muraria rimasta
rifugiarono nei suoi pressi, persino nelle numerose grotte scavate nella roccia, le cosiddette “rutt”, che si notano nei pressi della torre. Lungo le sponde del lago Fucino esisteva un sistema di torri di avvistamento e, nella frazione di Venere, sempre del comune di Pescina, è presente una torre che, sin dal XIII secolo, si erge sul piccolo centro abitato. Sulla parte più alta della torre di Rocca Vecchia, vi erano posizionate lastre di vetro di diversi colori che, una volta accesi dei fuochi, davano, dal di dietro, segnali pattuiti a tutte le altre torri per il controllo di tutte le sponde del lago Fucino La fortificazione, rappresentava inoltre uno sbarramento difensivo della valle del fiume Giovenco che alimentava il lago del Fucino, sulla valle che mette in comunicazione la piana con Sulmona.25 Dichiarato monumento nazionale nel 1902, il castello venne gravemente danneggiato dal terremoto della Marsica del 1915.
25
Marialuce Latini, Il castello. In Guida ai Castelli d’Abruzzo, Pescara, Carsa Edizioni, 2000, p. 90.
3.4.2 Lo stile architettonico La torre in pietra ha base pentagonale con un’alta base scarpata. Faceva parte di un sistema difensivo più ampio del quale, però, non rimangono che resti. L’importanza del controllo dell’accesso occidentale al Fucino, per il quale era stata realizzata la torre, è testimoniata dalla presenza nella valle del Giovenco di resti di mura megalitiche. E’ documentato anche un sistema difensivo costituito da cunicoli, intervallati da vasche trabocchetto che servivano a fare annegare i possibili invasori, che conducevano dal castello alle rive del lago.26 Dell’antico castello, distrutto dai catastrofici terremoti che hanno colpito tutta l’area, dei quali il più devastante è stato quello del 1915, oggi rimane solo una torre circondata da un abbozzo di cinta muraria. Questa è di forma quadrata, appoggiata su di una massiccia base pentagonale, determinata da mura a scarpa che aumentano la sua superficie d’appoggio, rendendo più stabile tutta la struttura.
26
Attilio Francesco Santellocco, Marsi. Storia e leggenda, Touta Marsa editore, Luco dei Marsi, 2004.
L'itinerario di torri e castelli medievali.
3.5 La torre Febonio a Trasacco
63
La Torre Febonio di Trasacco si trova in Abruzzo in provincia dell’Aquila. La forma quadrata alla base e circolare alla sommità caratterizza la struttura. La torre domina incontrastata su tutto il paese. Sopravissuta agli eventi bellici e soprattutto al sisma del 1915, la torre presenta una struttura singolare.
3.5.1 La storia Un tempo era posta lungo le sponde del Fucino. Appartenne ai conti Berardi dei Marsi, nel 1187 passò al conte Ruggero d’ Albe. Sembra che sia appartenuta, nel corso del secolo XVI, ai Febonio. La torre Muzio Febonio, alta 27,50 metri, a pianta quadrata, con la parte terminale a forma cilindri ca, è stata innalzata in tre epoche diverse, come chiaramente attestano le tre tecniche differenti di muratura.27 La prima struttura di base, che si erige per circa un terzo dell’intera altezza della torre, ancora oggi chiaramente individuabile ad occhio nudo, con feritoie semplici architravate, dalla tecnica muraria più grossolana, alcuni studiosi la fanno risalire ad epoca romana o comunque sorgente su un nucleo architettonico di quell’epoca, forse il palazzo imperiale che Gaudio fece innalzare per l’imperatrice Messalina, quando venne nella Marsica per tentare l’impresa del prosciugamento del lago. Altri storici, la fanno risalire al primo medioevo. La parte mediana, caratterizzata da una cortina a blocchetti squadrati, dalle aperture bifore, dai merli rettangolari impostati a filo, senza apparato a sporgere, e dalla garitta (forse latrina) a sbalzo sul lato sud, si fa risalire a prima della fine dell’anno Mille. L’ultima parte a forma cilindrica, poggiante su tutta la struttura sottostante a forma di parallelepipedo, con apparato a sporgere dotato di beccatelli a mensoloni ed archetti archiacuti del tipo presenti nelle architetture difensive rinascimentali delle rocche degli Orsini, Colonna e Piccolomini della Marsica, è senz’ altro posteriore al sec. XIV. La sua costruzione, dunque, nonostante il nome che porta, non fu opera dei Febonio. È probabile che il nome derivi dal fatto che la suddetta famiglia l’ha posseduta ed utilizzata a suo comodo quale amministratrice a Trasacco dei beni patrimoniali dei Colonna di Roma, almeno a partire dal sec. XVI. 27
Giuseppe Grossi, Marsica: guida storico-archeologica, Luco dei Marsi, Aleph, 2002.
La Torre Febonio, dopo il recente restauro e consolidamento.
Le notizie storiche certe più antiche sulla torre risalgono al X secolo e sono contenute nella cronaca Farfense e in quella Cassinense,28 quest’ultima redatta dal Cardinale Ostiense, rispettivamente dei secoli X e XII. La cronaca del cardinale Ostiense riporta notizie generiche sulla torre parlando di una invasione subita da Trasacco da parte di orde di barbari, gli Ungari, di passaggio nel centro Italia, nel 937, i quali bruciarono e rasero praticamente al suolo l’intero paese, compreso la Basilica dei Leone Marsicano, Chronica monasterii Casinensis (Die Chronik von Montecassino), Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1980. 28
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
64
Tesi di Luigia Cipriani
Santi Rufino e Cesidio e la torre. La cronaca Farfense riferisce più specificatamente della presenza della torre nella “Villa Transaquas”, dicendo che nell’ anno 970 in detta torre si amministrava la giustizia. A quei tempi, infatti, sulla scia della prassi inaugurata dagli imperatori carolingi, a tenere i processi giudiziari era addirittura l’Imperatore o il Re o il Principe direttamente; e quando costoro erano impediti a presiedervi delegavano altri personaggi della Corte, i quali si recavano nei luoghi di competenza per tenere il “placito” (cosi all’epoca erano detti i processi) e rendere giustizia in nome dei mandanti. Carlo Magno aveva denominato coloro che venivano da lui delegati a rendere giustizia in sua vece “missi dominici”. Ora, sulla base di quanto riportato dalla Cronica Farfense e della certezza storica dei “missi dominici”, è ragionevole dedurre che “via Castel Missino”, la strada in fondo alla quale è ubicata la torre”, derivi proprio dal “missus”, ossia il giudice di giustizia. Da rilevare, inoltre, che la suddetta torre da taluni è denominata anche “Castel Missino”, ed è da ritenere abbia derivato tale nome proprio per la sua antica funzione di sede della corte di giustizia, fungendo allo stesso tempo da fortezza per la custodia dei giudicandi per colpe penali.
3.5.2 Lo stile architettonico La parte sottostante è datata intorno al XII secolo, realizzata in grandi pietre angolari, in forma parallelepipeda con merlatura, mentre la sopraelevazione è a pianta circolare con coronamento a mensole triple, ed è caratteristica del periodo rinascimentale: tale evoluzione tipologica attesta nella zona l’uso di nuovi armamenti da difesa e da attacco. La torre è stata sicuramente utilizzata come punto di osservazione sul lago di Fucino per preve nire e difendersi da eventuali attacchi armati, nonché come faro di riferimento per i pescatori che navigavano di notte sul lago. II terremoto del 13 gennaio del 1915 ha causato il crollo di un’ampia parte della merlatura superiore e l’apertura di varie crepe. Ha subito un primo restauro all’inizio degli anni 70 e l’ultimo è iniziato nel 2003.
3.6 La torre di Aielli L’ abitato di Aielli, sviluppatosi dopo il XIV secolo, sorge a nord della piana del Fucino a quota 1020
La torre Febonio, detta anche “Torre delle stelle”
metri sul livello del mare, in una posizione perfetta per la difesa.
3.6.1 La storia La torre cilindrica, alta circa 10 metri, fu fatta erigere da Ruggero, conte di Celano, nel 1356, come testimonia l’incisione posta sull’architrave di una finestra. L’imponente struttura, posta nel punto più alto del borgo, doveva avere un ruolo strategico dal momento che controllava un’importante via di passaggio tratturale in prossimità dell’antico tracciato della via Valeria.È situata in località Castello, sulla parte più alta del borgo antico di Aielli, lo stesso luogo che ha ospitato almeno fino al 1200 una torre a base quadrata. In quest’area durante l’età del ferro si sviluppò un ocres (in
L'itinerario di torri e castelli medievali.
lingua marsa un centro fortificato), a difesa del sottostante vicus di Agellum. Nel XVI secolo i Piccolomini che dominarono la contea celanese, favorirono opere di miglioramento architettonico della struttura.
3.6.2 Lo stile architettonico La torre, cilindrica all’esterno ed ottagonale all’interno, con un diametro di 9.20 m, si eleva su due livelli al di sopra di un basamento scavato nella roccia viva. Esternamente si presenta molto severa e del tutto priva elementi decorativi come richiesto dalla destinazione militare, con due ingressi posti a sud, uno al piano terra e l’altro rialzato, un tempo accessibile tramite una scala rimovibile. Presenta dunque la caratteristica di non comunicare con la zona superiore attraverso l’interno. Le sale superiori anch’esse a pianta ottagonale presentano i solai in legno, attualmente mancanti, poggianti su riseghe murarie determinate dalla rastremazione dello spessore della canna stessa. lungo i lati di tali ambienti, in origine comunicanti tra di loro internamente attraverso scalette lignee, si aprono finestre con ampio e profondo strombo munito di sedili doppi. L’accesso esterno ai locali superiori avveniva mediante un piccolo ponte levatoio munito di battiponte ancora presente. All’interno la torre colpisce per bellissima volta del vano interrato, a forma di ombrello con otto spicchi, scanditi da costoloni ricadenti su mensoline. La struttura, fortemente lesionata dal terremoto del 1915, è oggi perfettamente ristrutturata. L’altezza dei due piani superiori è diversificata: quello inferiore misura 4,70 metri e quello superiore 2,50 metri. La tecnica costruttiva è piuttosto accurata in ragione dell’uso di bolognini ben squadrati posti a filari sfalsati. Manca la scarpatura basamentale. Significativa è una pietra posta ad architravare una finestrella su cui è lo stemma gentilizio, la data e il nome del conte Rogerio (Ruggero) che ordinò l’opera: IN.AN.B.MCCCLVI.ROGERIUS.FF.HOC.OPVS La torre medievale di Aielli è dal 2002 sede di un osservatorio astronomico con annessi Museo del Cielo e Biblioteca scientifica specializzata. Nel museo è ubicato un Planetarium in grado di proiettare circa 2500 stelle su una cupola di 6 metri di diametro e due postazioni computerizzate
per la visione di animazioni e simulazioni. Inoltre, fanno parte del museo vari globi, una mostra fotografica permanente, orologi solari e strumenti ottici di varia natura. Furono realizzate in particolare la volta a cupola nel piano inferiore e le finestre in stile rinascimentale della parte più alta della struttura, costituita da tre livelli abitativi. Prima del terremoto del 1915 la torre dalla forma circolare era alta circa 24 metri, mentre dopo l’avvenuto restauro presentò un’altezza interna di oltre 18 metri. Il diametro della canna, internamente ottagonale, supera i 9 metri e mezzo ed è cinto alla base da un anello leggermente più ampio. Divenuta sede di un osservatorio astronomico è detta anche “torre delle stelle”
65
L’ itinerario naturalistico
67
68
4.L’itinerario naturalistico
4.1 Il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise Il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise è un parco nazionale compreso per la maggior parte (3/4 circa) in provincia dell’Aquila in Abruzzo e per il rimanente in quella di Frosinone nel Lazio ed in quella di Isernia nel Molise. Fu inaugurato il 9 settembre 1922 a Pescasseroli, attuale sede e direzione centrale del parco, mentre l’ente omonimo era stato già costituito il 25 novembre 1921 con direttorio provvisorio. La sua istituzione è avvenuta ufficialmente con il Regio decreto-legge dell’11 gennaio 1923.
4.1.1 La storia La prima proposta di istituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo fu elaborata nel 1917 dalla Commissione per i Parchi Nazionali della Federazione Pro-Montibus. Fu nel comune di Opi, uno dei più suggestivi del Parco, che il 2 ottobre 1921 la Federazione Pro Montibus et Silvis di Bologna, guidata dall’illustre zoologo professor Alessandro Ghigi e dal botanico professor Romualdo Pirotta, volle istituire la prima area protetta d’Italia affittando dal comune stesso 500 ettari della Costa Camosciara, nucleo iniziale del Parco, situato nell’alta Val Fondillo, divenuta successivamente una delle valli più famose e frequentate. Il 25 novembre 1921 ci fu la cerimonia inaugurale e per acclamazione fu costituito l’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo.E’ proprio in questo impervio territorio, difficilmente accessibile, dell’Alto Sangro che trovarono rifugio l’Orso bruno marsicano, il Camoscio d’Abruzzo, il Lupo appenninico ed altre specie non meno importanti. L’11 settembre del 1922, per iniziativa di un Direttorio Provvisorio presieduto dall’onorevole Erminio Sipari, parlamentare locale e autorevole fondatore del Parco, un’area di 12.000 ettari ricadente nei comuni di Opi, Bisegna, Civitella Alfedena, Gioia de’ Marsi, Lecce dei Marsi, Pescasseroli e Villavallelonga, insieme a una zona marginale di 40.000 ettari di Protezione Esterna, divenne Parco Nazionale alla presenza di tutte le autorità, presso la Fontana di S. Rocco a Pescasseroli, dove resta una lapide corrosa dal tempo a ricordo del famoso evento, con la seguente iscrizione: “Il Parco nazionale d’Abruzzo sorto per la protezione delle silvane bellezze e dei tesori della natura qui inaugurato il IX Sett. MCMXXII”.
Orso marsicano, Pescasseroli, Parco Nazionale d’Abruzzo. Foto di Luciano d’Angelo per il progetto “Discover the other Italy” per la regione Abruzzo, in Mostra fotografica itinerante in Italia e nel mondo, patrocinata EXPO 2015.
Poco più tardi lo Stato italiano, con Decreto Legge dell’11 gennaio 1923, ne riconosceva ufficialmente l’istituzione. Qualche decennio prima, il Re Vittorio Emanuele volle istituire in quest’area una riserva di caccia, per evitare lo sterminio incombente e l’estinzione di importanti ed uniche specie selvatiche.
4.1.2 L’istituzione legislativa e gli aggiornamenti Nel 1923 l’amministrazione del parco è ufficialmente istituita, i confini si estendono anche ad altri comuni che solo in un secondo momento concessero il loro territorio alla protezione dell’ente autonomo costituendo così le vere fondamenta del parco contemporaneo; ricadono nei primi confini parte del territorio di Civitella Alfedena e Villetta Barrea (monte Petroso e Camosciara), Opi (Forca d’Acero, val Fondillo, valle Fredda), Pescasseroli (La Difesa), Bisegna (Terratta), Villavallelonga e Collelongo (prati d’Angro), Lecce nei Marsi e Gioia dei Marsi (Cicerana, passo del Diavolo), Campoli Appennino e Alvito (Capo d’Acqua, val Lattara), Settefrati. nel 1925-1926 avvenne l’espansione dell’area protetta ai monti della Meta tra Alfedena (AQ), Picinisco, San Biagio Saracinisco, Vallerotonda (FR) e parte del territorio di Pizzone e della valle del Sangro (nella contemporanea provincia di Isernia). Nello stesso anno la commissione amministratrice del parco destinò al taglio boschivo una parte della val Fondillo, provvedimento contrastato da Romualdo Pirotta, uno dei fondatori del parco, il quale a seguito di ciò si dimise dal corpo direttivo. Nel 1926 venne istituito il museo e lo zoo del parco a Pescasseroli e vennero realizzati i primi rifugi e la sentieristica. Fra i primi obbiettivi politici del parco si registrò la tendenza a favorire presenze turistiche e soggiorni sportivi in un sistema economico il più possibile compatibile con la tutela dell’ambiente capace di affiancare l’economia montana pastorale. nel 1933 il regime fascista sopprime l’ente di gestione autonomo, probabilmente per i suoi legami con l’associazionismo cattolico (in particolare con il gruppo scout dei giovani esploratori) e per rafforzare la presenza nei parchi italiani della Milizia forestale, che ottenne la gestione anche del parco nazionale del Gran Paradiso e dei nuovi parchi del Circeo e dello Stelvio. Nel 1951 il governo democristiano dell’epoca ricostituì l’ente di gestione autonoma. La nuova direzione recuperò gli obiettivi dell’ente originario, e oltre alle numerose assunzioni di personale di sorveglianza, alla
69
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
70
Evoluzione ed ampliamenti del Parco negli anni. Localizzazione del parco nazionale (arancione) su territorio italiano. (in verde gli altri parchi nazionali).
conservazione della natura; un lungo periodo di commissariamento e di difficili battaglie ambientali terminò nel 1969 quando Franco Tassi venne nominato nuovo direttore dell’ente parco.29 Fig.15 - Proposta della commissione Pro-Montibus del territorio per l’istituzione del Parco nel 1917.
promozione di ricerche scientifiche e all’estensione dei divieti di caccia, favorì la costruzione delle prime infrastrutture per la ricezione del turismo. In particolare alla fine degli anni cinquanta sulla politica edilizia si innescarono aspre critiche in seguito alle speculazioni alberghiere e agli interventi per la realizzazione di piste da sci e impianti di risalita in diversi comuni del parco. L’amministrazione di Francesco Saltarelli, iniziata nel 1952, tentò di opporsi all’ondata di abusivismo edilizio ma venne liquidata; seguirono così gli anni dell’espansione urbanistica di Pescasseroli e dell’aggressione indiscriminata del cemento, secondo un disegno speculativo che voleva la realizzazione di un grande comprensorio turistico-alberghiero da Roccaraso ai comuni della Valle di Comino. Nel 1967 il parco ottenne la prestigiosa certificazione del diploma europeo delle aree protette per la Fig.15 - Archivio storico del Parco PNALM
Nel 1970 venne istituita la “zona di protezione esterna”, che ricalca in buona parte i confini del primo grande parco proposto da Sipari e dalla Pro Montibus et Sylvis. Nel 1976 il terzo grande ampliamento del parco al massiccio del monte Marsicano scongiurò la realizzazione di un grande sistema di piste da sci tra Pescasseroli e Bisegna sul modello della vicina Roccaraso. Sono gli anni del grande successo del parco, il ripensamento dei precedenti disegni di sviluppo si concretizzò nell’accoglienza selettiva del turismo ecologista e ambientalista, in contrasto con gli afflussi di massa. 30 Per la prima volta in Italia fu lanciato quel nuovo modello economico ambientale che trova il suo riferimento nello sviluppo economico di Civitella Alfedena. Il 10 gennaio 1990 con il decreto del presidente della Repubblica Francesco Cossiga i comuni di Pizzone, Castel San Vincenzo, Rocchetta a Volturno, Filignano e Scapoli concedono parte del proprio territorio comunale ai vincoli della
Franco Pedrotti, Alle origini del Parco nazionale d’Abruzzo: le iniziative di Pietro Romualdo Pirotta, Camerino, Università degli Studi di Camerino, 1988. 30 Federico Niccolini, Parco nazionale d’Abruzzo: un modello aziendale e manageriale di parco naturale, Roma, Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo, 1998. 29
L'itinerario naturalistico.
riserva per un totale di 4 000 ha: nasce il «settore Mainarde», con il quarto grande ampliamento. Risale al 1999 l’ultimo grande ampliamento del parco, 4 200 ettari nei comuni di Ortona dei Marsi e Bisegna nella valle del Giovenco.31 Un periodo di incertezza è seguito alla caduta di Tassi, fino alla mozione di sfiducia della Comunità del Parco (organo consultivo istituito il 6 dicembre 1991 con la legge n. 394, titolo II, art. 10verso Fulco Pratesi licenziato nel 2005 dalla carica di presidente dell’ente gestore dal Ministero dell’ambiente. Dal 2002 al 2008 Aldo Di Benedetto, già vicepresidente dell’associazione ambientalista Pro Natura, erede dell’associazione federata Pro Montibus et Sylvisè stato il direttore facente funzioni e dall’8 agosto 2007, data in cui il ministro dell’Ambiente ha firmato il decreto di ricostituzione del consiglio direttivo, Giuseppe Rossi è stato nominato nuovo presidente dell’ente parco, ponendo termine ad un lungo commissariamento. Dal 22 gennaio 2008 al febbraio 2011 il direttore generale dell’ente gestore è stato Vittorio Ducoli, già direttore del parco regionale dell’Adamello , sostituito prima come facente funzioni, poi dall’8 novembre successivo dal pescarese Dario Febbo, già direttore del parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Il 18 marzo 2014 è stato nominato direttore dell’ente parco il dottor Antonio Carrara. Le ultime gestioni appaiono sempre più orientate verso il risanamento finanziario e il recupero del rapporto con le comunità locali e con le istituzioni politiche.32
Attuale area che delimita il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Logo storico ( a sinistra) e logo attuale ( a destra) Fulco Pratesi e Franco Tassi (a cura di), Parco nazionale d’Abruzzo: alla scoperta del parco più antico d’Italia, Pescara, Carsa, 1998. 32 Alberto M. Simonetta, La situazione faunistica in “Piano di riassetto del Parco Nazionale d’Abruzzo”, Roma, Associazione Italia Nostra, 1968. 31
71
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
72
Tesi di Luigia Cipriani
4.2 Il parco regionale Sirente-Velino Il Parco regionale naturale del Sirente-Velino è un’area naturale protetta istituita nel 1989 situata in Abruzzo, in provincia dell’Aquila, la cui sede si trova a Rocca di Mezzo. L’area protetta è stata istituita dalla Regione Abruzzo con la legge regionale n.54 del 13 luglio 1989.33 Due provvedimenti di riperimetrazione dell’area parco sono stati emanati con leggi regionali n. 23 del 2000 e n. 42 del 2011. L’area protetta copre un territorio di 54.361 ettari. Nel 2016 è stata avanzata la proposta di trasformazione dell’area protetta in un parco nazionale. Il nome Velino deriva dall’antico dialetto marsicano: vel sta per distesa d’acqua, di cui si ha una ricca presenza nella zona, anche grazie alle formazioni di derivazione glaciale presenti nella zona. Si estende per una superficie di circa 564 km²comprendendo i territori del massiccio del Monte Velino e del Monte Sirente, riuniti sotto la denominazione comune di catena del Sirente-Velino, e dei territori ad essi limitrofi come l’altopiano delle Rocche, i Piani di Pezza e parte della piana di Campo Felice, collegandosi direttamente a nord-ovest con l’adiacente Riserva regionale Montagne della Duchessa in territorio laziale e comprendendo al suo interno l’omonima Riserva naturale del Monte Velino. I comuni compresi nel parco sono: Acciano, Aielli, Castel di Ieri, Castelvecchio Subequo, Celano, Cerchio, Collarmele, Fagnano Alto, Fontecchio, Gagliano Aterno, Goriano Sicoli, Magliano de’ Marsi, Massa d’Albe, Molina Aterno, Ocre, Ovindoli, Pescina, Rocca di Cambio, Rocca di Mezzo, Secinaro, Tione degli Abruzzi. Le vie d’accesso più comode sono dai comuni di Rocca di Cambio, Celano, Massa d’Albe e Secinaro. Il parco è attraversato dalla Strada statale 696 del Parco Regionale Sirente-Velino. All’interno dell’area protetta sono presenti anche due stazioni sciistiche, quella di Campo Felice e quella di Ovindoli, mete di molti appassionati di sport invernali. Zone di interesse naturalistico e paesaggistico, oltre ai due gruppi montuosi del Velino e del Sirente con le loro cime, sono l’Altopiano delle Rocche e le Gole di Celano. Rientrano nel territorio del parco anche le grotte di Stiffe, presso l’omonima frazione del comune di San Demetrio ne’ Vestini.
4.3 Flora e fauna del territorio marsicano L’area dei parchi si presenta notevolmente diversificata per orografia del territorio e per tipologia Narciso Galiè, Gabriele Vecchioni, Guida itinerante per gli amanti del trekking con documentazione naturalistico e storico - culturale sul Parco Nazionale Regionale Sirente - Velino,Societá Editrice Ricerche,1999.
33
Comuni compresi nel parco regionale Sirente-Velino.
di ambienti presenti che ospitano una ampia varietà di specie vegetali ed animali. L’ampio intervallo altitudinale, le notevoli differenze tra versanti a diversa esposizione, la morfologia segnata da canyon, da altopiani, da valloni, da rupi e ghiaioni determinano una notevole diversità di ambienti caratterizzati da una ampia varietà di formazioni vegetali e di specie faunistiche che rappresentano nel loro insieme uno spaccato della biodiversità dell’ecosistema dell’Appennino centrale. Entro tale varietà di habitat e paesaggi si possono inoltre individuare luoghi selvaggi ed impervi, con ampie foreste e formazioni rupestri ancora oggi popolati da orsi marsicani lupi appenninici ed aquile reali, che si affiancano ad aree dove la storica presenza dell’uomo è testimoniata da antichi insediamenti e da Logo del parco
L'itinerario naturalistico.
centri storici ben conservati. E’ qui accertata la presenza del 46% circa delle specie dei mammiferi della fauna italiana, il 32% degli uccelli nidificanti in Italia, il 17% dei rettili ed il 30% degli anfibi. Nel Parco sono presenti 216 specie di vertebrati delle quali 43 specie comprendono le emergenze faunistiche presenti (specie endemiche, a rischio di estinzione minacciate o prioritarie). Nell’area protetta vivono specie a rischio di estinzione come l’orso marsicano, qui presente con 3-5 esemplari e sulla cui conservazione il Parco è impegnato da circa un decennio grazie alla realizzazione di tre successivi progetti LIFE di cui uno in corso, specie come il lupo appenninico, l’aquila reale, il grifone, splendido avvoltoio reintrodotto dal Corpo Forestale dello Stato, il picchio dorsobianco e l’astore queste ultime specie oggi rare e in via di estinzione legate all’ambiente forestale che qui trovano ampie foreste dove nidificare. Pareti rupestri e falesie offrono habitat idonei alla nidificazione anche per il falco pellegrino, il gufo reale, il gracchio alpino, il rarissimo lanario. Alcune specie meno note ma tuttavia rarissime sono ancora presenti nell’area protetta, come la lepre italica e la Rosalia alpina, un coloratissimo coleottero legato a boschi maturi di faggio. L’area protetta è inoltre risultata dagli studi svolti in ambito nazionale tra le poche aree appenniniche
Foto di un capriolo nel parco
idonee alla reintroduzione del camoscio appenninico. Fra i mammiferi, oltre all’Orso Marsicano ed al lupo appenninico sono presenti: il Gatto Selvatico, la Martora, il Cervo, il Capriolo, l’Istrice, il ghiro. Fra gli uccelli ricordiamo anche: il Martin pescatore, il Gracchio Corallino, lo Sparviero, il Corvo Imperiale, il Picchio muraiolo, il Picchio Verde, il Fringuello alpino, la Coturnice, l’Averla Piccola, la Tottavilla. Fra i rettili sono presenti, oltre alla rarissima Vipera Orsini, il Cervone, la Natrice, il Biacco. Il Parco Sirente Velino costituisce un bell’esempio di biodiversità floristica: 1.570 le specie sino ad oggi censite, raggruppate in 516 geni e 102 famiglie Tra queste sono ben 116 le essenze floristiche censite che costituiscono delle emergenze (endemismi, relitti glaciali, specie a distribuzione disgiunta o frammentaria e specie rare) e comprendenti specie particolarmente rare come, l’Astragalus aquilanus presente unicamente in alcune aree montane abruzzesi e l’Adonis distorta presente unicamente in alcune aree dell’appennino centrale, notevoli sono inoltre le fioriture di orchidee, narcisi, nonché le rare peonie e la viola eugeniae. Tutto questo grazie alla grande varietà di ambienti che caratterizzano il territorio, alla varietà di esposizioni, alla morfologia movimentata del territorio, al forte gradiente altitudinale (dai 400-600 metri lungo la Valle dell’Aterno, alla quota massima di 2.486 metri). Oltre ad una notevole ricchezza floristica anche gli aspetti vegetazionali e fitogeografici confermano la notevole diversità presente che comprende anche alcune cenosi a carattere relittuale (vegetazione palustre a grandi Carici, vegetazione casmofitica, nuclei di Betulla, ecc.) Il patrimonio floristico e vegetazione del Sirente Velino riveste nel complesso particolare interesse per la sua elevata diversità e testimonia la valenza naturalistica del territorio ad elevata naturalità e ben conservato. La vegetazione presente sulle pendici del Sirente è costituita in prevalenza da boschi di Faggio lungo il versante nord che si estendono per circa 12 km da Gagliano Aterno fino all’Anatella nei pressi dell’Altopiano delle Rocche. Altra pianta rara che costituisce un relitto glaciale è la Betulla, pianta nordica per eccellenza, presente sia nel Sirente che nel Velino. Mentre a quote più basse, al di sotto dei 1500 mt si trovano boschi misti di latifoglie con prevalenza di Roverella
73
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
74
Fig. 16 - Due esemplari di camoscio appenninico fotografati all’interno del Parco regionale Sirente Velino.
e carpino nero e presenza di diverse specie di Acero, di Sorbo montano, Cerro, oltre alle varie essenze del sottobosco come rosa selvatica, biancospini, prignoli, ginepri, ecc. Lungo la valle dell’Aterno predomina la vegetazione di sponda con Salici, Pioppi, ed altri. Sulle praterie poste più in alto è presente il Ginepro, la Selseria appenninica, mentre sulle coltri detritiche dei brecciai spicca il bianco Papavero alpino. Sulle praterie di Piano Canale si possono ammirare fioriture di Genziane di specie diverse ed una specie esclusiva del Sirente: il Geum heterocarpum. Ad ogni quota è possibile ammirare una straordinaria varietà di fioriture: il Giglio martagone il Giglio rosso, la Genziana maggiore, il Narciso selvatico, l’Orchidea sambucina gialla e rossa, Orchidea calabrese. Sull’Altopiano delle Rocche bellissimi in primavere i prati fioriti con i Narcisi dei Poeti. Sul Monte Fig. 16 - Foto d’archivio Parco Sirente-Velino.
Velino, ha trovato il suo habitat la Pulsatilla alpina, denominata il “Fiore del Vento”, osservato oltre i 2.000 metri di altezza sui prati a ridosso di ghiaioni e nevai. Abbondanti i frutti di bosco quali fragole, more, lamponi, ribes, uva spina. Da non dimenticare i funghi diffusi in tutto il Parco ed in particolare, per il Sirente va sottolineata la presenza nei querceti termofili del tartufo nero che, in particolare per l’Alta valle dell’Aterno, rappresenta un’importante risorsa economica. Infine, lo zafferano, coltura tipica dell’area di Fagnano e Tione.
L'itinerario naturalistico.
4.4 Primo riconoscimento UNESCO per la regione Abruzzo: le faggete vetuste Le faggete vetuste sono la casa di una straordinaria biodiversità e finalmente anche quelle italiane sono state ufficialmente riconosciute come patrimonio Unesco dell’Umanità. Le foreste di faggi che da centinaia di anni (alcune anche da sei secoli) popolano i nostri boschi, si uniscono ora a quelle di altre zone d’Europa, dopo la decisione presa dall’Unesco a Cracovia.34 E’ un percorso che ha quasi dieci anni: per prime furono le faggete vetuste dei Carpazi, poi quelle di Slovacchia, Germania, Ucraina e adesso, dopo la candidatura di tre anni fa, si aggiungono - per un totale di 63 faggete in 12 Paesi (le foreste di Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Italia, Romania, Slovenia e Spagna che aspettavano di essere riconosciute. Il territorio italiano è quello che, dopo la Romania, presenta un maggior numero di siti dall’ “eccezionale valore universale”. Promosse dall’Unesco sono infatti le faggete cresciute su oltre 2000 ettari nelle zone del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (a Villavallelonga-Valle Cervara, Lecce nei Marsi-Moricento, Pescasseroli-Coppo del Principe e Coppo del Morto, OpiVal Fondillo); quella di Sasso Fratino (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi), della Foresta Umbra (Parco Nazionale del Gargano), di Cozzo Ferriero (Parco Nazionale del Pollino), del Monte Cimino (Soriano nel Cimino) e di Monte Raschio (Parco Naturale Regionale di BraccianoMartignano). “Il riconoscimento Unesco delle faggete rappresenta per l’Italia la prima iscrizione di un patrimonio naturale espressamente per il suo valore ecologico di rilievo globale. Hanno un valore storico e culturale” dicono dal Parco nazionale d’Abruzzo, tra gli enti che facendo sistema e a di candidatura a livello nazionale, con la consulenza scientifica dell’Università della Tuscia con il professore Gianluca Piovesan e Alfredo Di Filippo. In Italia, il processo di adesione è nato dal basso (bottom-up), fortemente voluto dagli enti gestori e dalle comunità locali. Le faggete selezionate per rappresentare stadi unici a scala continentale nei processi ecologici del’habitat faggeta vetuste ricadono in: Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise; Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi; Parco Nazionale del Gargano; Parco Nazionale del Pollino; Comuni di Soriano nel Cimino e Oriolo Romano. Sebbene l’Italia detenga il maggior numero di siti UNESCO, solo 4 di essi hanno ottenuto il 34
http://www.unesco.it/it/News
75
Fig.17 - Arabis alpina (Arabetta alpina)
riconoscimento per gli aspetti naturali (legati all’importanza geologica o all’ eccezionale bellezza naturale). Il riconoscimento UNESCO delle faggete rappresenta per l’Italia la prima iscrizione di un patrimonio naturale espressamente per il suo valore ecologico di rilievo globale. L’importanza per il nostro Paese è altresì accentuata dal fatto che ben 10 delle 63 faggete europee iscritte al Patrimonio dell’Umanità nel sito seriale transnazionale ricadono in Italia. Le faggete vetuste del Parco sono entrate nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata presa a Cracovia il 07 luglio 2017 durante i lavori della 41 sessione della Commissione per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, che ha deciso di estendere il riconoscimento già attribuito alle faggete dei Carpazi a quelle di altri 10 Paesi europei. Diventano così 12 i Paesi Europei con la presenza di siti naturali di faggete vetuste iscritti al Patrimonio mondiale: Italia, Austria, Belgio, Slovenia, Spagna, Albania, Bulgaria, Croazia, Germania, Romania, Slovacchia e Ucraina. All’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sono stati individuati 5 nuclei di faggeta per una superficie complessiva di 937 ettari, afferenti ai demani Civici di Villavallelonga (valle Cervara), Lecce nei Marsi (Moricento), Pescasseroli (Coppo del Principe e Coppo del Morto), Opi (Cacciagrande). Tutti i siti ricadono all’interno di aree individuate come Riserva Integrale nella pianificazione della Legge 394/91 “Legge Quadro sulle Aree Protette” (corrispondenti alla categoria Fig. 17 Foto d’archivio Parco Sirente-Velino.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
76
I dell’Unione internazionale per la conservazione della natura); I cinque nuclei individuati si distinguono per la loro elevata naturalità, caratterizzata da un mosaico di forme strutturali appartenenti a tutte le fasi del ciclo strutturale della faggeta, e per la loro collocazione geografica lungo il crinale principale dell’Appennino. I singoli siti si sviluppano in ambiente montano su calcari del mesozoico (ad eccezione della faggeta di Val Fondillo che poggia su Dolomia risalente al Lias inferiore). Le faggete che hanno ottenuto il riconoscimento ospitano i faggi più antichi dell’emisfero settentrionale (560 anni) e la faggeta della Val Cervara è, attualmente, l’unico esempio conosciuto di foresta primaria in Italia. Caratteristiche rilevanti di queste faggete sono l’elevato valore di necromassa, la struttura disetanea, l’assenza di interventi antropici, un livello complessivo di biodiversità elevato in funzione proprio della loro alta naturalità, la presenza di specie rare e caratterizzanti i siti complessi e di elevata naturalità. Naturalmente queste foreste ospitano anche specie appartenenti alla grande fauna come l’Orso marsicano, il lupo, cervi e caprioli, varie specie di Mustelidi (martora, faina ecc.), il rarissimo gatto selvatico. Il Riconoscimento da parte dell’UNESCO porta a compimento un lungo lavoro, che negli ultimi 3 anni è stato coordinato dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise per tutti gli Enti italiani coinvolti. Il Ministero dell’Ambiente ha preso atto di questa volontà e sostenuto la candidatura nei momenti salienti del percorso. Come si ricorderà, i 10 Paesi europei, coordinati dall’Austria, hanno presentato l’iscrizione nella Tentative List dell’Unesco nel gennaio 2015 e presentato un corposo fascicolo di candidatura nel gennaio 2016, corredato dalle risultanze di anni di studio. L’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale è il riconoscimento di un lungo lavoro di conservazione e di studio che i Parchi italiani fanno, dimostrando che con un lavoro di squadra e di rete si possono raggiungere risultati importanti.
Tesi di Luigia Cipriani
Fig. 18 - Tweet della pagina ufficiale dell UNESCO in cui si annuncia il riconoscimento ufficiale come patrimonio UNESCO delle faggete vetuste.
Fig. 19 - Foto di un faggio all’interno del parco nazionale d’Abruzzo nel comune di Villavallelonga. Fig. 18 - https://twitter.com/UNESCO Fig. 19 - Foto di Bruno d’Amicis, http://www.parcoabruzzo.it/pagina.php?id=506
L’ itinerario archeologico
77
78
5.L’itinerario archeologico
5.1 Il sito archeologico di Alba Fucens Alba Fucens è un sito archeologico italico, monumento nazionale dal 1902, nato come colonia di diritto latino, che occupava una posizione elevata e ben fortificata su 34 ettari (situata a quasi 1.000 m s.l.m.) ai piedi del Monte Velino. Il sito archeologico è compreso nel comune di Massa d’Albe (AQ), presso la frazione di Albe. Il toponimo “Alba”, assai diffuso nel mondo latino, deriva da una comune radice indoeuropea che significa “altura”, ma anche “bianco”. Secondo l’Olstenio il nome deriverebbe “dal campo all’intorno, sparso e pieno di sassi bianchi”,35 e altri studiosi concordarono con tale ipotesi. Sulla base anche delle fonti storiche il nome potrebbe anche derivare da quello di Alba Longa, metropoli latina. Per quanto riguarda l’aggettivo “Fucens”, questo si ricollega al nome del vicino Lago Fucino (in latino Fūcinus), a sua volta associato all’etnico Fūcentes, un appellativo dei Marsi che vivevano sulle sponde orientali del lago. I coloni di Alba Fucens erano detti Albensi, mentre Albani erano quelli della madrepatria, come dichiarano in maniera esplicita le fonti. Nel 2015 l’area archeologica ha fatto registrare oltre 32 000 visitatori.
5.1.1 Il territorio La collina di Alba Fucens è situata sul margine Nord-Occidentale dell’alveo del Fucino, ampio e fertile altopiano nel cuore dell’Abruzzo incassato tra le vette più alte dell’Appennino Centrale (M.Velino m. 2486; Gran Sasso m. 2914 ; Maiella m. 2795). Tale rilievo si innalza molto dolcemente e dai 700 metri dell’altipiano del Fucino raggiunge i 1022 metri nel punto più alto, dove oggi possiamo scorgere le rovine del borgo medievale di Albe e del castello degli Orsini. Oltre a questa sommità la collina ne presenta altre due : a Sud il colle di S. Pietro (m. 1000) e ad Est il Pettorino (m. 995). I tre colli formano una barriera naturale a difesa del pianoro posto nel mezzo, il “Piano di Civita”, una valle larga circa m. 700. L’ orografia e la posizione di Alba la rendono un luogo strategico da un punto di vista militare e di controllo del territorio circostante tanto da favorire la presenza di civiltà umane, che popolarono e che ancora popolano la collina. Questa persistenza di vita , naturalmente, è dovuta anche alla rara bellezza del luogo: dominata a Nord dalla catena montuosa del Velino dalla collina di Alba si possono ammirare i Piani Palentini, il fiume Imele-Salto, l’imbocco della 35
Lucas Holstenius, Annotationes in Italiam antiquam Cluverii, Roma, 1666.
Veduta dell’anfiteatro presso Alba Fucens
Valle Roveto, il passo di Fonte Capo La Maina che conduce nella piana delle Rocche e il passo di Forca Caruso. Se poi con un po’ di fantasia riuscissimo ad immaginare le pendici a Sud bagnate da un lago, qual’ era il Fucino, che rendeva il clima più mite e la collina ricoperta da una ricca flora mediterranea (segnalata nelle fonti antiche ed oggi quasi completamente scomparsa) ci possiamo rendere conto del perché i romani utilizzassero tale zona anche come luogo di villeggiatura. Un altro elemento che rende suggestivo il rilievo albense è dato dalla sua posizione geografica rispetto la penisola italiana. Posta, infatti, a metà strada tra il Tirreno e l’Adriatico, Alba Fucens può essere raggiunta nell’arco di circa un’ora d’automobile da L’Aquila, Pescara, Chieti, Teramo e dalla capitale stessa. Tale posizione la rese in passato un importante nodo di comunicazioni e di traffici , essendo collocata al centro d’intersezioni di importanti assi viari che collegavano l’Abruzzo con il Lazio, il Molise , le Marche e la Campania. La distanza relativamente breve da Roma e dai principali centri urbani della regione fece sì che venisse a godere di evidenti vantaggi sul piano dello sviluppo sociale ed economico. Oggi tutte queste qualità sono state lasciate in eredità alla vicina Avezzano, fiorente cittadina capoluogo virtuale e baricentro economico-amministrativo della Marsica, situato sulle pendici a Sud della collina.Tuttavia Alba Fucens, oggi piacevole e tranquillo paesino, ha conservato la bellezza e l’armonia che si vanno ad aggiungere al fascino del mistero di una zona tutta da scoprire.
5.1.2 La storia di Alba Fucens: il periodo romano Nonostante numerosi storici parlando delle origini di Alba siano discordi circa la sua appartenenza alla popolazione marsa o equa, Livio 36 uno dei più attendibili la colloca in territorio equo. Questo popolo fiero e militarmente prestante aveva probabilmente costruito sulla collina di Alba un oppidum che dominava tutte le vallate circostanti. La sua rilevanza strategica non sfuggì ai romani che, per poter portare avanti la propria espansione nell’ Italia centrale, cercarono in ogni modo di conquistarla. Dopo sanguinose battaglie e l’affermarsi sempre più evidente della potenza romana, gli Equi furono sconfitti e massacrati. Cosi’ attorno al 303 a.c. Alba Fucens, sotto il consolato di Lucio Genucio e Servio Cornelio, fu trasformata in una delle più importanti colonie latine. Il fatto che Alba giocasse un ruolo di primaria importanza nelle strategie militari dell’ Italia centrale è confermato dalla deduzione di 6000 coloni , come attesta tito livio (IX, 43,25) “Soram atque 36
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, X, 1.
79
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
80
Fig. 20 - Mura Poligonie, foto storica di Emidio Agostinoni (1909)
Fig. 21 - Pianta degli ingressi nell’antica Alba Fucens
Albam coloniae deductae. Albam in aequos sex milia colonorum scripta”. La presenza dei coloni e la stima di Roma nei confronti della leale città creerà tra esse un legame fortissimo, che porterà Alba Fucens ad un rapporto di fedeltà assoluta verso Roma. Già, infatti, nei primi anni del III sec. a.c. una spaventosa coalizione (Etruschi, Umbri, Sanniti e Galli) puntava su Roma. Gli Albensi e le popolazioni limitrofe si allearono alla causa romana favorendo così l’arrivo della vittoria di Sentinum (295 a.c.). durante le guerre puniche, Annibale si inoltrò con i suoi eserciti nel cuore dell’ Italia centrale e guidò una marcia verso Roma mentre le armate consolari erano lontane. La Urbe in pericolo non poté fare altro che chiedere aiuto alle colonie vicine. Fu proprio in questo episodio che ancora una volta si manifesta la fedeltà di Alba, che invia 2000 uomini a contrastare l’avanzata di Annibale che si ritira verso sud (211 a.c.). Alla fine della seconda guerra punica Siface re dei Numidi, fu catturato e portato in confino ad Alba (203 a.c.). Stessa sorte toccò a Perseo di Macedonia (168 a.c.) e a Bituito re degli Averni. Questi episodi confermano che la colonia in quel tempo venisse utilizzata come sede di prigionia dei re detronizzati. Nel corso delle guerre sociali Alba rimane ancora fedele a Roma resistendo ai numerosi attacchi dei socii ribelli. Al termine della guerra in applicazione della Lex Julia Municipalis de Civitate danda, la città come il resto d’ Italia ottenne
l’ordinamento municipale e la cittadinanza romana. Negli scontri tra Mario e Silla (88/82 a.c.) Alba si schierò con Mario mentre nella guerra civile tra Pompeo e Cesare (49/45 a.c.) le truppe di Pompeo stanziate nella colonia passarono deliberatamente dalla parte di Cesare. Durante l’eta’ imperiale Alba vive un perido di grande prosperità economica. In quest’epoca vengono riammodernati e abbelliti monumenti pubblici e privati mentre sorgono nuove strutture. Tutto questo benessere era dovuto anche all’incremento economico che aveva apportato la bonifica del lago Fucino. La crisi e la decadenza della colonia iniziano nel III sec. d.c. e si accentuano nel VI sec. in seguito ad alcuni eventi sismici e le frequenti invasioni barbariche che comportarono, l’abbandono progressivo della città. In seguito al fenomeno dell’incastellamento feudale, nel IX sec. troviamo l’abitato concentrato sull’acropoli dove si formerà il villaggio medioevale.
5.1.3 L’area archeologica Nel secondo dopoguerra furono intrapresi per la prima volta scavi sistematici per approfondire
Fig. 21 - F. De Vischer, F. De Ruyt, S. Delaet, J. Mertens, Les fouilles de A. F. de 1951 à 1953, Antichità Classiche, 1954-56, p. 63
L'itinerario archeologico.
le conoscenze storiche e culturali sulla città. Vennero effettuati a partire dal 1949 da un gruppo di lavoro dell’Università di Lovanio guidata da Fernand De Visscher, seguita dal Centro belga di ricerche archeologiche in Italia diretto da Joseph Mertens. Ulteriori ricerche sono state condotte a partire dal 2006 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo. La città, situata fra i 949 e i 990 m s.l.m. è racchiusa entro una cinta muraria lunga circa 2,9 km conservatasi in gran parte fino ai giorni nostri. Le pareti esterne, sono costruite con massi poligonali perfettamente incastonati fra di loro e le superfici sono lisciate. Si segnala la presenza di una sola torre e di due bastioni a protezione di tre delle quattro porte principali. Su uno di tali bastioni sono presenti simboli fallici che dovevano servire ad allontanare le forze malefiche. Sul lato settentrionale era stata approntata, per una lunghezza di circa 140 metri, una triplice linea difensiva eretta in epoche diverse. La più antica fu probabilmente edificata dai primi coloni anche se c’è chi sostiene che potrebbe essere anteriore all’arrivo dei conquistatori romani. La città si iniziò a sviluppare all’interno della cinta muraria nel III secolo a.C. e raggiunse la sua massima espansione in età imperiale. La struttura viaria urbana, ancor oggi chiaramente identificabile, era basata sull’incrocio degli assi stradari principali, tipico di altre città di fondazione latina.
5.1.4 I punti di interesse Nel centro dell’abitato era situato il forum (142 m di lunghezza per 43,50 di larghezza), su cui si affacciavano i più rappresentativi edifici pubblici cittadini: la basilica, dove si trattavano gli affari e si amministrava la giustizia, edificata con ogni probabilità fra la fine del II secolo a.C. e i primi decenni del secolo successivo; il macellum o mercato, della stessa epoca e, contigue ad esso, le terme, costruite in età tardo-repubblicana, ma ampliate in epoca imperiale.37 Queste ultime erano decorate con preziosi mosaici raffiguranti scene e soggetti marini. Ad Alba Fucens era presente anche un anfiteatro, di forma ovale che misura 96 metri per 79, e numerose case appartenenti al patriziato locale, fra cui una villa nota come Domus che, secondo un’ipotesi suggestiva, non corroborata da fonti, dovette essere di proprietà del Prefetto del Pretorio Quinto Nevio Sutorio Macrone, vissuto durante il regno dell’imperatore Tiberio.38 Numerosi erano anche gli edifici religiosi sia nel centro urbano (Tempio di Iside, Sacrario di Ercole, 37 38
Carlo Promis, L’antica città di A. F., Roma 1836 Antonio Gavini, Storia dell’Architettura in Abruzzo, Milano-Roma, s. a., I, pp. 171-176, 368, 372
ecc.) che sulla collina situata all’estremità occidentale dell’abitato. Quest’ultima era occupata da alcuni luoghi di culto, fra cui un tempio dedicato ad Apollo, trasformato in chiesa cristiana e ampiamente ristrutturato in età medievale, noto come la chiesa di San Pietro che contiene antiche colonne ed alcuni mosaici di fine fattura cosmatesca. È l’unica chiesa monastica in Abruzzo in cui la navata centrale è separata da quelle laterali da antiche colonne. Gravemente danneggiata dal terremoto del 1915, è stata oggetto negli anni cinquanta di uno dei migliori restauri mai effettuati precedentemente, attraverso un’anastilosi quasi completa, guidata da Raffaello Delogu. Resti del ponte-sifone in località Arci e dell’acquedotto romano di Alba Fucens, costruito nel I secolo a.C. sono visibili lungo il percorso originario della struttura che collegava la colonia romana con la sorgente di Sant’Eugenia oltre il valico di Fonte Capo la Maina, nei pressi della contemporanea frazione di Santa Jona. Di epoca moderna è invece la collegiata di San Nicola ad Albe, costruita con ogni probabilità utilizzando materiali provenienti dal sito archeologico limitrofo.
5.1.5 Le fasi costruttive della città di Alba Fucens I fase costruttiva La colonia latina fondata nel 303 a.C. si sovrappone al centro fortificato degli Equi. La città viene costruita secondo gli schemi urbanistici romani, centrati su un reticolo stradale regolare di decumani e cardines, con un Foro ed edifici pubblici nel settore centrale (l’unico scavato). Anche gli isolati sono dei rettangoli regolari. Alba viene cinta da poderose mura in opera poligonale, dotate di 4 porte che si aprono in corrispondenza della viabilità principale. Alba si inserisce nel sistema viario romano e diventa un nodo stradale importante. La via Tiburtina Valeria attraversa la città e ne diventa il principale decumano (via del Miliario). Partono da Alba anche la via Quinctia, proveniente da Rieti e la via Poplica Campana proveniente dall’Altopiano delle Rocche, che proseguiva verso Sora attraverso la Valle Roveto.
II fase costruttiva
Un primo riassetto urbanistico avviene in età sillana, forse in occasione del suo nuovo ruolo di municipium. La città viene monumentalizzata secondo gli schemi ellenistici. Le strutture sillane sono costruite in opera incerta, cioè con una cortina realizzata in piccole pietre disposte non a filari.
81
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
III fase costruttiva In età imperiale prosegue la progressiva monumentalizzazione della città,
82
comune a tutti i municipi di età augustea. Una delle inserzioni maggiori riguarda il teatro di età tiberiana, ma anche i restauri apportati successivamente al macellum e alle terme, che vengono ampliati. Quinto Nevio Sutorio Macrone fu nominato nel 31 d.C. da Tiberio come nuovo prefetto del pretorio: con il suo aiuto fece arrestare e giustiziare Seiano. Nel 37 d.C. morì Tiberio. Macrone tuttavia entrò presto in conflitto con il nuovo imperatore, Caligola, che l’anno successivo lo destituì e lo fece accusare. Per evitare la confisca dei beni in seguito alla condanna, Macrone avrebbe scelto di suicidarsi.
IV fase costruttiva Dal III sec. d.C. inizia per Alba Fucens una lenta fase di trasformazione dell’impianto urbano, collegata alle condizioni economiche e ai cambiamenti politici del tardo impero. Gli edifici vengono ristrutturati con l’inserzione di muri riconoscibili per una tessitura disorganica e per l’utilizzo di materiale di riuso. In molti casi avviene un cambiamento di destinazione d’uso degli edifici, ad esempio molte bottege diventano abitazioni o viceversa. Un forte terremoto, avvenuto nel corso del IV secolo, accelera questo processo.
V fase costruttiva
Pianta dell’antica Alba Fucens con i principali punti di interesse
A partire dal VI secolo è visibile la crisi che investe la città e le trasformazioni si fanno più sostanziali. Un forte terremoto provoca pesanti danni alle strutture e numerosi crolli (tempio di Ercole). L’abitato si destruttura. Alcune zone vengono abbandonate. Il piano di frequentazione si alza e su di esso si trovano tracce di strutture in legno. Nei pozzi si buttano macerie o si occultano oggetti d’uso comune (ceramica, suppellettili). Sempre nel VI secolo, un’aula di culto cristiana occupa le strutture del tempio di Apollo: i rilievi scultorei della chiesa documentano ben tre fasi costruttive o di mutamento dell’arredo liturgico della chiesa (VI, IX e XII secolo). Le fonti storiche attestano inoltre l’esistenza del monastero cassinese di S. Angelo dalla seconda metà del IX secolo.
L'itinerario archeologico.
VI fase costruttiva Nel 1066 è testimoniato per la prima volta il castello di Albe. Alla fine del XIII sec. la fortificazione è restaurata con l’aiuto degli uomini del vicino castello di Carce. Dopo circa un secolo, tuttavia, la fortezza viene riedificata, poiché nelle forme attuali il castello è databile al XIV secolo.
Pianta dell’area monumentale di Alba Fucens con evidenziati gli edifici e le strade. K: Portico, L: Basilica ,M: Macellum, N: Terme, O: Taberne, P: Tempietto, Q: Case repubblicane, S: Casa imperiale, T: Tempio di Ercole, U: Piazza del teatro, V: Teatro.
5.1.6 La viabilità di Alba Fucens Tutte le vie principali, secondo il metodo costruttivo romano, si presentano lastricate da basole poligonali e con profilo lievemente convesso per meglio fare defluire le acque piovane verso i lati della strada. Spesso recano ancora le tracce dei carri, che transitavano in epoca romana in città. Inoltre, in mezzo alle strade venivano collocati, ad una quota superiore, tre blocchi dagli angoli arrotondati, posti a poca distanza l’uno dall’altro; ciò permetteva sia di costringere i carri a rallentare la loro andatura, sia di attraversare la strada in rallentare in caso di allagamenti dovuti a piogge torrentizie.
Pietra miliare che caratterizza il tratto di antica viabilità e segnava la distanza di Alba Fucens da Roma
83
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
84
Tesi di Luigia Cipriani
5.1.7 La via del Miliario
5.1.8 La via dei pilastri
Il decumanus maximus è la strada che fiancheggia verso occidente il Foro, la Basilica, il macellum, le terme, per uscire, con una leggera deviazione, direttamente da Porta Sud. Questa strada, larga fra i m ed i m. 4.34, è fiancheggiata da marciapiedi di cm. 30/40 di altezza; l’attuale denominazione di via del Miliario la si deve al rinvenimento del miliario di Magnenzio. Su questa via, come sulla parallela via dei pilastri, si aprivano numerose botteghe.
Parallela al decumanus maximus, posta subito ad ovest del Foro, della Basilica, delle Terme e del cosiddetto Santuario di Ercole, è la via dei Pilastri, largo circa 6 m e fiancheggiato da marciapiedi di circa cm. 30/40 di altezza. Questo asse viario partiva dall’ingresso della grande terrazza nord e scendeva verso sud fiancheggiando l’isolato centrale. È detto così per la presenza di alcuni pilastri in pietra fatti oggetto di anastilosi dopo la scoperta.
La via dei pilastri
Le porzioni di muratura delle antiche botteghe
L'itinerario archeologico.
5.1.9 Le botteghe
5.1.10 La basilica
Numerose si aprivano lungo le strade principali. Costituivano il piano terra delle insulae (piccoli condomini) che erano inserite negli isolati regolari della città. La ripartizione delle botteghe prevedeva che ogni singola unità raggiungesse le dimensioni di m. 5/5.50 di larghezza per una lunghezza di m. 9/12. Una divisione interna prevedeva anche l’esistenza di un retrobottega. In alcune di esse si vedono ancora grossi contenitori di ceramica incassati nel pavimento, da cui si potevano attingere, per mezzo di orci o attingitoi, olio, vino, ecc. Tutta la serie di botteghe era preceduta da soglie in pietra con scanalature per lo scorrimento di pannelli mobili, per la chiusura dei locali. Rinvenuta nel 1951 nello scavo di una delle tabernae di via dei Pilastri, la statua frammentaria di Venere ornava in origine una delle ricche domus della città. Databile tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., la Venere di Alba è una pregevole copia di un originale greco di gusto alessandrino. Rinvenuta nel 1951 nello scavo di una delle tabernae di via dei Pilastri, la statua frammentaria di Venere ornava in origine una delle ricche domus della città. Databile tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., la Venere di Alba è una pregevole copia di un originale greco di gusto alessandrino.
Procedendo verso sud, il cardo maximus fiancheggia la Basilica, il luogo riservato all’amministrazione della giustizia. La pianta è di forma rettangolare, di m 23x35, ed è realizzata in opera incerta con rinforzi angolari in opera quadrata. La costruzione, di epoca post-sillana, prese il posto di più antiche abitazioni private.
La basilica nel tessuto urbano
Calidarium delle terme
Fig. 22 - La statua di Venere
Fig. 22 - Fototeca dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Fondo Lugli.
5.1.11 Il macellum Il più importante mercato al dettaglio sinora individuato ad Alba Fucens è rappresentato dal Macellum; tale edificio, collocato fra la Basilica e le Terme, riuniva botteghe che non solo vendevano carne, ma anche ogni genere di commestibile, compreso il pesce (a Pompei, al di sotto del macellum si sono rinvenute numerose lische di pesce). L’edificio ha conosciuto, nel corso dei secoli, varie fasi di ristrutturazione, alcune anche sostanziali. In una prima fase, ascrivibile agli inizi del I sec. a.C., una stradina secondaria, pavimentata con lastre di pietra calcarea, collegava via del Miliario con via dei Pilastri. Sulla strada si apriva direttamente una piazza delimitata su tre lati da muri in opera incerta con pilastri aggettanti in opera incerta e rinforzi angolari in opera quadrata
85
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
86
5.1.12 Le terme A sud del macellum era il complesso dei bagni pubblici. Il bagno nelle terme pubbliche era una delle pratiche più diffuse nella società romana. Lo schema principale nell’articolazione dei vani era il seguente: la piscina scoperta (natatio); la sala con vasche per il bagno freddo, di solito piccola e alta, (frigidarium); un ambiente più piccolo con bacini per le abluzioni per il bagno tiepido (tepidarium) e di passaggio con il calidarium, la sala più luminosa con vasche per il bagno caldo. L’acqua per i bagni caldi era riscaldata attraverso un sistema di forni a legna e caldaie da cui si dipartivano le tubazioni: dal forno, l’aria calda passava in un cunicolo che la convogliava sotto i pavimenti delle sale da riscaldare sostenuti da pilastrini in mattoni (sospensurae), alti circa 60 cm. Di servizio a questi principali ambienti erano una serie di sale e vani dalle differenti destinazioni: lo spogliatoio con panche di pietra ricavate nel perimetro della stanza (l’apodyterium); un piccolo ambiente molto riscaldato per saune e bagni turchi (laconicum); sale per massaggi e depilazioni, palestre per la ginnastica (sphaeristerium), sale per l’unzione del corpo o per pulirsi dalla polvere delle palestre (destrictoria e unctoria), sale di lettura ed, infine, sale ristoro (popinae). Delle terme di Alba Fucens si riconoscono alcuni ambienti adibiti sicuramente a calidaria. Il primo è collocato fra il Macellum e via dei Pilastri e doveva appartenere al nucleo più antico dell’edificio termale, poiché i pavimenti poggiano su costruzioni più antiche. Fra questo ambiente e la piazza porticata di Ercole è situata una piscina con due scalette per scendere. Altre sale riscaldate sono visibili nel settore che confina con via del Miliario, mentre i bagni pubblici (latrinae) sono collocati nei pressi del santuario di
Iscrizione ritrovata all’ingresso dei bagni attestante il restauro.
Tesi di Luigia Cipriani
Ercole: si tratta di due ambienti, uno per gli uomini e uno per le donne, in cui ancora si conservano le panche ed i sedili in pietra in corrispondenza dei quali è un sistema di condotti e canalette per la raccolta e l’allontanamento delle acque nere. Uno degli accessi alle terme è riconoscibile lungo via del Miliario: l’ingresso è pavimentato con mosaico bianco e un’iscrizione ricorda che i bagni, costruiti probabilmente durante la prima metà del 1 sec. a.C., furono restaurati per volontà di una donna di nome Vibia Galla (Vibia Cai Filia Galla balneum-de suapecunia reficiendum curavit). Per alcuni si tratterebbe di una figlia dell’imperatore Gaio Vibio Treboniano Gallo (251-253 d.C.), che ebbe rapporti con Alba Fucens documentati anche in un’altra iscrizione.
5.1.13 L’anfiteatro Fra gli edifici per lo spettacolo, l’anfiteatro occupa un’area a sud della città Perfettamente inserito nel tessuto urbanistico, il suo orientamento è identico a quello degli assi viari e degli isolati, con una via parallela a via del Miliario, che lo raggiunge da nord. Interamente ricavato nella roccia, raggiunge le seguenti dimensioni: m. 96 di lunghezza e m. 79 di larghezza. L’arena interna misura m. 64x37. Dalle dimensioni si può ipotizzare che poteva contenere un numero di spettatori pari a circa un migliaio. Due gli ingressi che, attraversando le gradinate, permettevano l’accesso all’arena, perfettamente in asse fra loro e coincidenti con l’asse maggiore dell’ellissi. L’arena, al momento dello scavo, era perimetrata da lastre di pietra rettangolari con lati lunghi ad arco di cerchio, collegate fra loro da grappe di ferro inserite negli appositi incavi. Su questo bordo era incassata un balaustra realizzata con grandi lastre monolitiche squadrate e lisciate, alte due metri e leggermente rastremate verso l’alto (spessore alla base cm. 25, spessore alla cresta cm. 25). Al momento della messa in luce dell’anfiteatro, tali baltei conservavano ancora tracce di intonaco rosso pompeiano. Delle gradinate restano solo pochi blocchi lapidei (cm. 68x36 di altezza) poiché il monumento era stato già in antico espoliato per la costruzione di edifici di epoca alto-medievale. La cavea era interrotta ad intervalli regolari da scale che permettevano l’accesso alle gradinate superiori, mentre in numero di quattro sembrano essere stati gli anelli di percorrenza di questo settore aperto al pubblico. Nella parte occidentale della balaustra si apre una serie di ingressi direttamente collegati con un cunicolo sottostante la gradinata ovest, che doveva fungere
L'itinerario archeologico.
da corridoio di servizio per il personale e gli animali utilizzati durante gli spettacoli. Sulla facciata interna ed esterna dell’ingresso settentrionale è stata ricollocata un’iscrizione doppia, che illumina sull’epoca della costruzione e ci fornisce il nome del personaggio che finanziò i lavori di costruzione dell’anfiteatro:
87
Q(intus) NAEVIVS Q(uinti) F(ilius) FAB(ia tribu) SVTORIVS MACRO / PRAEFECTVS VIGILVM PRAEFECTVS PRAETORII / TI(beri) CAESARIS AVGVSTI TESTAMENTO DEDIT Quinto Nevio Sutorio Macrone, figlio di Quinto, della tribù Fabia, prefetto dei vigili, prefetto al pretorio sotto Tiberio Cesare Augusto, lasciò in testamento (il denaro per la costruzione dell’anfirteatro).
Ingresso all’arena
Ricostruzione grafica da rilievo drone. Foto di Antonello di Matteo
Veduta dell’anfiteatro.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
88
5.2 Il sito archeologico di Lucus Angitiae Conosciuto anche con il nome di Angizia, è un sito archeologico che riprende il nome dell’omonima Dea. Riconosciuto come monumento nazionale, il sito è localizzato nei pressi della sponda meridionale della conca del Fucino, vicino all’attuale cittadina di Luco dei Marsi (AQ).
5.2.1 La storia del sito Il nome originario del sito sarebbe legato al termine lux (luce), da cui è derivato lucus, ovvero la radura nel bosco. Il luogo sacro era dedicato alla figura della dea Angizia, venerata dai Marsi che abitavano le sponde del lago Fucino. L’area sacra, risalente al III secolo a.C., è nota anche con il toponimo di Anxa, nome romano derivato dal toponimo in lingua marsa Actia (ovvero Angizia). L’area ha svolto le funzioni di municipio fino all’alto medioevo.39 Secondo la leggenda gli abitanti erano abili preparatori di antidoti contro i veleni di serpenti e conoscitori delle erbe dei monti circostanti, a cominciare da Umbrone, che fu ucciso da Enea nella guerra fra italici e troiani, come è narrato nell’Eneide.
Tesi di Luigia Cipriani
Attestazioni di carattere archeologico hanno permesso di far risalire all’età del bronzo le prime frequentazioni del sito. Fu invece durante l’età del ferro che l’area fortificata si sviluppò su oltre 14 ettari recintati con opere poligonali che presentavano due porte d’accesso all’area. Il centro fortificato del sovrastante monte Penna venne inglobato dalla sottostante città-santuario durante il periodo delle guerre sannitiche attraverso opere murarie che coprirono un’area di circa 30 ettari e che furono dotate di cinque porte. Il sito è caratterizzato dalla presenza del tempio di epoca italica situato in località Il Tesoro e di quello di epoca augustea. Sono visibili il muro di terrazzamento dell’area sacra di Angizia e le tracce dell’ampia recinzione muraria dell’età del ferro, i ruderi delle tre porte di accesso ai templi, le tracce del foro e del quartiere artigiano. La città santuario è sovrastata dall’acropoli di monte Penna. Più vicina al contemporaneo abitato di Luco dei Marsi si trova la chiesa di Santa Maria delle Grazie con l’annesso monastero.40
5.2.2 Gli scavi archeologici Gli scavi archeologici realizzati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo,
Disposizione delle tre strutture: Tempio A, Tempio B e Tempio C
Statue rinvenute nel sito
Cfr. Cesare Letta-Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, pp. 208 ss.
Dépliant emesso dal Comune di Luco dei Marsi in occasione della mostra archeologica maggio-ottobre 2003.
39
40
L'itinerario archeologico.
condotti negli anni 1999, 2003, 2007 e 2011, hanno indagato un’area di 80x25 metri circa, posta all’interno di un circuito murario in opera poligonale. 41 Questo circuito murario cingeva un’ampia superficie di circa trenta ettari, compresa tra la riva del lago e la sommità del Corvo della Penna, nel quale trovavano posto gli edifici pubblici e privati, botteghe e spazi sacri, a definire il municipium di Anxa. All’interno del santuario sono state individuate varie strutture, costruite tra il II sec a.C. E l’inizio del I sec d.C. Il tempio B (metri 19,70 x 10,40) fu realizzato contemporaneamente alla strutturazione urbana; è caratterizzato dalla cella divisa in due con un muro esattamente sull’asse mediano, davanti al quale nel pronao è collocata l’uica colonna che, insieme al prolungamento dei setti murari esterni regge la copertura dell’edificio. Le due celle, con pavimento in cementizio bianco, sono collocate su un alto podio e sono accessibili attraverso il pronao tramite due separate scalinate frontali; l’alzato dei muri è realizzato con laterizi di grandi dimensioni, alcuni dei quali recano incisa la lettera A. L’edificio C, in opera incerta, presenta una cella e due vani laterali aperti, preceduti da un breve portico cui si accede attraverso una scala dal podio del tempio B. La costruzione, realizzata in scapoli di pietra irregolari, presenta caratteristiche architettoniche estremamente semplici. L’ambiente centrale, leggermente più ampio degli altri, è pavimentato in cementizio con inserimento di un motivo a crocette realizzate con tessere di mosaico. Entrambe le
strutture furono distrutte dai movimenti franosi e dal distacco di massi rocciosi che ne provocarono il crollo improvviso e simultaneo intorno alla metà del I sec d.C. ; alcune fornaci si installarono tra le mura e forniscono materiali ed ex-voto per il tempio più recente (A), collocato nel settore settentrionale della terrazza. Il tempio A (m 20,25 x 16,85), costruito tra la fine del I sec a.C. è caratterizzato da un alto podio in opera incerta; lungo la base sono ancora visibili alcune lastre modanate in pietra ammorsate nel nucleo cementizio. Anche in questo caso, come nel tempio B, sono presenti due celle, costruite in opera reticolata e destinate alle divinità qui venerate. L’edificio fu parzialmente incassato nel costone roccioso, appositamente tagliato per offrire una migliore protezione dalla caduta dei massi. Nello spazio che collega i due settori sacri, fu realizzato anche una struttura porticata con una serie di nicchie altrnate di forma rettangolare e semicircolare che foderano il terreno roccioso naturale.
Reperti degli scavi archeologici
Statua della Dea Angitia-Anxa rinvenuta durante la campagna di scavi.
41
Cfr. Cesare Letta- Sandro D’Amato, cit., pp. 208 ss.
5.2.3 I reperti Gli scavi hanno individuato un quartiere artigianale con botteghe e fornaci ed un’area culturale con consistenti stipi votive. Sono stati rinvenuti numerosi ex voto fittili, ceramica a vernice nera e terra sigillata italica, datate tra il III e il I sec. a.C. Non sono state trovate raffigurazioni della dea. Negli ultimi anni sono state rinvenute tre statue femminili di notevole fattura: la prima statua in terracotta rappresenta una donna seduta su un trono, le altre due in marmo raffigurano una donna panneggiata con capo coperto ed una seminuda con panneggio. Nell’ambiente centrale dell’edificio denominate “C” nell’estate del 2003 sono state rinvenute tre statue femminili, di cui due in marmo e una in terracotta. Quest’ultima è seduta su un trono con braccioli terminanti in un fiore, ed è vestita con un chitone altocinto, lungo fino ai piedi e un mantello non completo che scende dalla testa sulla spalla sinistra; la testa, appena recintata e frontale, è ornata da un sottile cercine liscio e presenta una capigliatura ondulata
89
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
90
Porzioni di muratura dell’antico tempio
Ricostruzione digitale del tempio di Angitiae
divisa in due bande, poi raccolte alla base della nuca. Al collo vi è una collana a maglie piana, con tacche oblique e pendenti a goccia. La statua presenta una particolare cura nella resa di alcuni dettagl: le pieghe e la trasparenza delle vesti rendono in maniera armoniosa il movimento della stoffa; la sinuosità del morbido cuscino sul quale siede la dea ne riproduce uno schiacciamento con un effetto di grande suggestione. Il coroplasta che lavorò alla realizzazione della statua, tra la fine del III sec. e la prima metà del II sec rivela un elevato livello e una grande esperienza, che attinge alla tradizione classica e la traduce in forme che rimandano alle statue in terracotta rivenute ad Ariccia. In mancanza di dettagli significativi è possibile ricondurre la divinità rappresentata nell’ambito delle dee matronali, sebbene la denominazione di Agizia, la maga incantatrice dei serpenti sia stata subito associata alla statua in virtù del luogo di ritrovamento e del contesto archeologico.
Attuale struttura a copertura del sito archeologico
L'itinerario archeologico.
5.3 Il sito archeologico di Marruvium San Benedetto dei Marsi, cittadina che svela tra le strade strette dell’abitato moderno, ricostruito dopo il tremendo sisma di Avezzano (L’Aquila) del 1915, i resti di un passato glorioso e ricco di storia: sotto terra è nascosta Marruvium, antica capitale del popolo dei Marsi, assoggettata al dominio romano nel IV secolo a.C. e definitivamente spogliata della sua autorità con la bolla papale di Gregorio XIII del 1580 che le tolse pure la diocesi, trasferendola alla confinante Pescina. Figli di Marte, che possono annoverare anche Marso, figli della maga Circa, tra i padri della “ magica” stirpe infatti, i Marsi consideravano Marruvium il principale dei loro municipi, dal titolo Marsi Marruvium (insieme ad Anxa ed Antinum). L’esatta ubicazione di questa città romana, è risultata essere la stessa del territorio sul quale sorge l’odierno paese di Dan Benedetto dei Marsi. Questa circostanza fa si che l’intero sottosuolo del paese racchiuda un immenso patrimonio archeologico di grande valore storico e artistico.
5.3.1 L’anfiteatro romano Si trova appena fuori il paese in direzione di Pescina, è risalente con ogni probabilità alla fine del I secolo a.C. Conserva la pianta originaria e parte di una curva con alcune arcate. Situato a nord-est, probabilmente “extra muros” (entro per il Lolli), oggi occupa solo uno spazio interno alla pianta urbana di San Benedetto, su un terreno privato appartenente agli eredi del Sig. Salvatore Tarquini, e si trovava al punto più alto della città. Rinvenuto il 21 ottobre 1971, è risalente alla prima età augustea, testimonia ampiamente la grandezza di Marruvium. La pianta ellittica, come la fossa rinvenuta, presenta un asse maggiore di mt. 92 (da nord a sud) e un asse minore di mt. 76 (da est ad ovest) e una profondità varia da mt. 0,90amt. 1,50. I ruderi murari sono interrati, l’unico resto visibile consiste in un muro di cemento siliceo, come quello dei Morroni e delle Mura, e rappresenta un quarto del perimetro ellittico, presso il quale si nota una cella di cui sono rimaste soltanto tre pareti. La tecnica è quella del reticolato. All’estremità dell’asse maggiore una volta a botte a forma a androne presenta una lesione in tutta la lunghezza. I cinque pilastri rinvenuti a
ridosso di questo arco, a una distanza di 4 mt., l’uno dall’altro, sono larghi mt. 0,70 e lunghi mt. 2,50. Secondo alcuni studiosi la posizione ne fa supporre l’appartenenza al porticato esteriore e agli androni di accesso al vomitorio pavimentato con lastre in calcare, dal quale si accedeva mediante scale alle gradinate superiori e all’arena. La presenza di questi pilastri permette una congettura sulle proposizioni dell’antico monumento, che confrontate con quelle dell’Anfiteatro Flavio, o Colosseo, ci lasciano supporre la ragguardevole capienza di circa trenta-trentacinquemila spettatori. Tale capienza può sembrare eccessiva per una città compresa nel giro di tre km, ma non lo è più se si pensa che agli spettacoli tenuti nell’anfiteatro di Marruvium accorrevano, curiosi e numerosi, gli abitanti di tutto il territorio marso e anche i confinanti. La “cavea”, in corrispondenza dell’ingresso, sostenuta da strutture compartimentate a cassone (tipicamente di età giulio-claudia) sfrutta una depressione naturale del terreno. Interventi di restauro sono ascrivibili al Il sec. d.C. Esternamente l’aspetto del monumento si presentava come quello di un edificio ellittico a tre ordini di arcate, con sessanta archi per ogni giro,.
5.3.2 La domus patrizia Nella primavera del 1993 e nell’autunno del 1994, una campagna di scavi condotta dalla Sovraintendenza Archeologica di Chieti, proprio nell’area più centrale del paese, il tratto di Corso Vittorio Veneto, compreso tra Santa Sabina e la vecchia caserma dei Carabinieri, ha portato alla luce una grande domus patrizia (abitazione privata) con bellissimi pavimenti in mosaico. A causa dell’esiguità dei fondi, gli scavi, che hanno interessato un’area di circa 500 mq., si sono dovuti interrompere senza aver neppure completato il ritrovamento dell’intera domus, che probabilmente si estende in misura maggiore della parte venuta alla luce. La domus con orientamento NE/SW presenta strutture in opera incerta. La disposizione degli ambienti risulta quella canonica con “atrium” di tipo tuscanio pavimento con mosaico nero e inserzioni di tessere bianche più grandi a formare un reticolato geometrico; al centro vi è I’ “impluvium” lastricato. Ai lati dell’atrio si aprono due “alae” pavimentate con mosaico bianco con fascia perimetrale nera e tappetino d’accesso con il motivo del meandro continuo. Il sito archeologico, in senso stretto, dell’area della domus ha una larghezza di circa 25 mt. Nella direzione parallela a corso Vittorio Veneto ed una lunghezza
91
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
92
accertata di circa 32 mt., per 18 mt. al di sotto dell’area libera della strada e dei marciapiedi, per il resto, è al di sotto dei fabbricati esistenti ai due lati della strada stessa.
Tesi di Luigia Cipriani
5.3.3 I “Morroni” Simili a costruzioni, ancora oggi, visibili lungo la Via Appia Antica, sono situati tra i quartieri: Ritejje e Pagliarelie, sul ciglio destro della Via Romana, fuori dalla cinta muraria, verso il Fucino. Si presentano come due massicce strutture in opera cementizia con basamento a dado (mt. 7,50 dilato e mt. 4,50 di altezza) e sovrastruttura a cilindro (diametro mt. 7,00 altezza 6,00), con pietre squadrate (il cui lato misura 50 cm. circa) disposte simmetricamente e incastrate nella muratura per tenere il rivestimento. Tradizionalmente identificati come tombe monumentali, in essi l’epigrafia è muta. Per qualcuno essi dovrebbero chiamarsi “Mucroni” ed essere stati eretti in onore del generale marso Mucrone caduto durante la Guerra Sociale. Per altri, invece, si tratterebbe di costruzioni per onorare la memoria dei Marsi caduti in guerra, e sarebbero dedicati precisamente a O. Poppedio Silone e Vezio Scatone, i quali combatterono nella guerra sociale per l’indipendenza Italica. Noi, oggi, possiamo vedere solo lo scheletro in emplecton”, ma i due monumenti erano, originariamente, rivestiti con le pietre di forma quadrata che, nel XVI sec., furono usate per il rivestimento della facciata della Cattedrale di Pescina. Il meglio conservato è quello che si trova nella parte interna, di cui è tuttora perfettamente discernibile la cupola. Recentemente, i Morroni sono stati restaurati e riportati in condizioni di poter, decentemente, testimoniare l’importanza di Marruvium.
5.3.4 La strada romana
Dettaglio interno della domus e particolare del tappetino musivo del tablinium.
Alcuni lavori per la costruzione di un albergo, hanno riportato alla luce resti di monumentali colonne, e di fregi architettonici, che ci fanno individuare, in quella zona, la posizione di un Tempio importante e la relativa collocazione del forum di Marruvium. Ma le notizie restano molto vaghe, perché non si è potuto documentare i resti ritrovati. Restano visibili solo alcuni frammenti di colonne, trasportati però in zone diverse del paese. Anche di fronte al Portico sotterraneo di Piazza Risorgimento è collocato un frammento di colonna decorata. Il portico ha permesso la valorizzazione dell’area archeologica sottostante, permettendo l’accesso ai resti archeologici della strada romana che, proseguendo nei due sensi di marcia, si pensa, portasse proprio al Tempio della
L'itinerario archeologico.
città. All’interno è possibile ripercorrere un tratto di strada sul quale nei secoli si sono succeduti passi di migliaia di uomini vestiti con tuniche e toghe, con i tipici calzari romani, magari corazzati e sicuramente alcuni, vi hanno trainato carri e cavalcato. La strada, infatti, ha un’ampiezza di 3,60 mt. e presenta dei paracarri laterali sui quali è ancora possibile notare i segni, usurati, di fori utilizzati per “attraccare” i cavalli durante eventuali soste. Attualmente la struttura su Piazza Risorgimento per accedere alla strada è stata eliminata e rimane un solo accesso che si apre sul fronte laterale della Chiesa all’interno dello spazio antistante la cappella di recente costruzione.
93
Il caso studio di S. Benedetto dei Marsi
Valorizzazione del patrimonio archeologico e una nuova vita per la Domus patrizia
Veduta dell'anfiteatro romano in S .Benedetto dei Marsi Foto Gianluca Calvarese
96
97
98
6.L’antica Marruvium
6.1 L’origine della città di Marruvium La città di Marruvio, menzionata con l’epiteto splendidissima civitas Marsorum Marruvium 42 esisteva già nel IV sec. a.C. L’ origine di un centro abitato è sempre qualcosa che si perde nella notte dei tempi; sappiamo però dei popoli stanziati ab antiquo sulle rive del lago del Fucino. La città di Marruvio si specchiava nelle onde cristalline del lago da un lato, mentre alle spalle, l’aperta campagna, imponeva importanti opere di fortificazione come alte cinte murarie. Incerte sono le teorie sull’origine del nome: probabile che l’insediamento prendesse nome dal mitico MARRO o dal condottiero MARRONE ivi giunto dalla lontana Asia, che imperò sull’insediamento urbano e sull’intera regione circostante. Il comprensorio, in ogni caso, assunta tale denominazione, la mantenne con tenacità e costanza. Altre circostanze concordano a stabilire le origini remote dei Lidi o Liburni che avrebbero risalito la Penisola, capeggiati da Marte, divenuto loro re al momento di allontanarsi dalle sedi originarie. Dunque, a rigor di termini, l’occupazione del luogo e la scelta del sito per edificarvi la nuova città risalirebbe al Dio della guerra. Oscura rimane la vicenda di Marruvio anteriore al dominio romano, quando il suo territorio venne in parte lottizzato e distribuito ai coloni, in parte riservato ad ager compascuus 43 cioè lasciato indiviso e dedicato al nume indigente, ormai ascritto a divinità locale. Vi è certezza però che l’ “oppidum” vero e proprio, considerato imprendibile, esisteva già nel IV sec. a.C. E’ indicato come tale nella Tabula Peutingeriana o Teodossiana (segmento VI), copia del XII secolo di un’antica carta romana che indicava le vie militari dell’impero romano, con una variante del suo antico nome Marruino, segnato a 13 miglia da Alba Fucens e a 7 da Cerfannia, l’odierna Collarmele. Felice Martelli, illustre storico e topografo dell’antichità dei Sicani (ovvero i Marsicani), afferma come Marruvio era annoverata tra le più note città dell’Esperia, già esistenti all’alba della civiltà e ascritte tra quelle che opposero resistenza allo stanziamento di Enea nel Lazio. La venuta dei profughi troiani incontrò molti ostacoli. Moltissimi sono gli episodi narrati da Virgilio e descritti con cura particolare nella sua Eneide. Durante l’impero romano Marruvio prosperò e divenne, per munificenza dei suoi decurioni e magistrati, splendida e rinomata grazie ai monumenti considerati, al tempo, insigni e sontuosi. Si Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIII, 19. 43 Emilio Cerasani, Marruvium e S. Sabina, memorie storiche di due civiltà, Sulmona, 1985 42
Foto di una scena di vita quotidiana nell’abitato di S. Benedetto dei Marsi, archivio D’Arpizio, Biblioteca comunale, 1911
ricordano, in particolare, un anfiteatro che, secondo gli storici, riusciva a contenere più di 20000 spettatori, un teatro dove si rinvennero ben 12 statue, portate nel sec. XVIII ad ornare la reggia di Caserta ove si trovano tutt’ora; un tempio consacrato a Giove, dominante l’ arx su di un piedistallo d’oltre 1500 mq, ville foranee e monumenti sepolcrali le cui rovine ancora emergono lungo l’antica “Via Romana”. Per qualche tempo, la denominazione usuale fu quella di Valeria, dal nome del console M.Valerio Massimo, per averla distrutta e rasa “ab ibis fundamentis” nel 451 di Roma (302 a.C.). Ricostruita, le venne imposto il titulus del suo ambizioso conquistatore che volle arricchirla di ulteriori privilegi, dotandola anche di un importante presidio. Il nuovo stanziamento non impedì che continuasse a usarsi- come risulta dai documenti- un nome ancipite, scambiando l’uno con l’altro finché il nuovo prevalse.In effetti Valeria estese il proprio nome all’intera regione come è provato dalla carta dell’impero romano stesa nel 454 d.C. ove sono rappresentati i maggiori centri ancora esistenti, malgrado il ripetersi delle scorrerie barbariche. Alcune traduzioni vogliono invece Anastasio, primo biografo di Papa Bonifacio IV a dare il nome di Valeria alla città, per dare importanza al luogo ove ebbe origine il pontefice Marso. Nulla di definitivo emerge dai numerosi dibattiti avutisi sull’argomento, tanto più che è evidente lo scambio tra città di Valeria e provincia omonima, abitata tutta dai Marsi Marruvii.44 Antonio Di Pietro, trattando di Papa Bonifacio IV e dei suoi natali in Marruvio, afferma che il mutamento del nome sarebbe avvenuto in concomitanza della ricostruzione, avvenuta nel 445 di Roma, subito dopo le guerre sannitiche.45 Egli dice testualmente: “Esistevano nella nominata città Valeria, detta contemporaneamente anche Marsia, i monaci cistercensi fino al 1361 o 13667, secondo la mia fondata opinione già esposta nel secondo paragrafo del lavoro”Sui primitivi insediamenti e antichità marsicane”
6.2 L’ubicazione di Marruvium La città di Marruvio corrisponderebbe all’attuale sito di S. Benedetto dei Marsi, sulla riva orientale dell’ex lago Fucino, dove si rinvengono continuamente iscrizioni insieme con numerosi splendenti resti di antichità. La distanza tra Marruvio ed alba concorda infatti con quella citata dall’itinerario Maurizio Febonio, Historia Marsorum, III, 1, p.104, Napoli, 1678. Andrea Di Pietro, Catalogo dei vescovi della diocesi dei Marsi, Avezzano 1872.
44 45
99
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
100
dell’antica tavola Peutingeriana (circa 13 miglia). E’ dunque accertato, tenuto conto anche della distanza riportata sulla tavola che Marruvio era situata nell’odierno luogo nel quale sorge S. Benedetto dei Marsi dove si vedono ancora in parte le rovine entro le sue possenti mura: l’anfiteatro ( diametro maggiore di metri 95 e diamentro minore di metri 75) alcune colonne di fine arte grecache costituivano il grandioso tempio di Giove, simile a quello di Paestum, venuto alla luce in uno scavo del 1974 insieme con l’Horologium e tanti altri reperti di notevole importanza storica e artistica ritrovati, allo scoperto, nella decrescenza delle acque del Fucino nel 1752, come le famose statue di marmo di Claudio e di Agrippina sua moglie, di Livio Druso Claudiano, padre di Livia, moglie di Augusto, di Alfidia madre di Livia, nonché quella di Claudio Nerone padre di Augusto, di Antonia Claudioneronis e altre statue di personaggi dell’epoca che vennero trasferite a partire dal 1805 per ordine di Carlo III di Borbone, sovrano del regno delle II Sicilie nel museo archeologico di Napoli dove tutt’ora si trovano. Sull’ubicazione dell’antica Marruvio, vi furono negli anni tesi discordanti.46 Ci fu chi la pose nella Sabina ove è l’attuale Morro, presso Rieti, chi l ubicò lungo la via Amiternina a 11 miglia da Alba, chi a Morrea ed altri, infine, nei marsi; L’Holstenio, noto geografo, il quale visitò la regione nel 1644,1645 e 1646, ritrovò le vestigia di Carsoli, visitò quelle di Alba, perlustrò i dintorni del Fucino e riconobbe le rovine di Marruvium nel villaggio di S. Benedetto (Vicus S.Benedicti) , dove sono ancora visibili numerose testimonianze tra le quali i “Morroni”, monumenti sepolcrali che ancora contrassegnano il corso dell’antica Via Romana. A. De Nino, sulla base di un rigoroso metodo scientifico, conferma l’esatto sito di Marruvio, studiando le distanze indicate sulla tavola e negli Itinerari. Da questo riscontro si è potuto determinare esattamente l’ubicazione di Marruvium nel sito dove è l’odierno paese di s. benedetto dei Marsi sulla sponda orientale del prosciugato lago del Fucino, a XIII miglia da Alba Fucente, come è amiamente dimostrato dalle numerose iscrizioni epigrafe tra le quali ricordiamo quella che si riferisce a M. Paolino che rivestiva le più alte cariche pubbliche ed amministrative nella splendidissima città di Marruvium, soprannominata Marsi, puntualizzazione che calza a pennello per fugare ogni ombra di dubbio intorno all’identifica
46
Antonio de Nino,Saggio archeologico sull’ubicazione di alcuni oppidi, pagi e vici,Sulmona, 1905.
Tesi di Luigia Cipriani
Fig. 22 - Carta del nord Italia in epoca Augustea. Si nota la regio IV Samnium con la città di Marruvium.Le denominazioni delle regioni augustee erano solo numerali, e solo le fonti accademiche attuali usano attribuire al nome ufficiale romano un aggettivo che ne designa il territorio. Comunemente per la regio IV si usa Samnium, o Sabina et Samnium, molto impropriamente in entrambi i casi perché il Sannio storico sconfinava a sud ben oltre la regio IV, nell’Hirpinia della Regio II ed in parte della Regio I Latium et Campania.63
Fig. 22 - William R. Shepherd, Historical Atlas by William R. Shepherd, Texas University, 1911 edition.
L'antica Marruvium.
101
Fig. 23 - La “Tabula Peutingeriana” è sicuramente il più famoso, ma anche il più importante itinerarium - l’unica carta stradale romana giunta fino a noi. l disegno, molto schematico, mostra il sistema delle principali strade romane dalla Spagna all’India, ricco di scarnite rappresentazioni convenzionali: strade come semplici linee, capitali raffigurate simbolicamente e racchiuse in un cerchio, città riconoscibili da cerchia di mura, stationes o punti intermedi di sosta come piccoli edifici la cui tipologia informa sui servizi offerti al viaggiatore, distanze indicate con unità di misura locali - leghe ispaniche e galliche, stadi greci, parasanghe persiane. Nel segmento VI, in alto a destra, si nota l’antica “Marruino”62
La riproduzione del Segmentum VI
Fig. 23 - Biblioteca Nazionale Austriaca, Österreichische Nationalbibliothek, ÖNB, Austria.
La porzione originale del Segmentum VI
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
6.3 Denominazione di Marruvium
102
6.3.1 La denominazione nell’antichità Secondo Celio Antipatro (De Bello Punico), storico del tempo dei Gracchi, Marruvium era anticamente denominata anche con i nomi di: MARROBBIO MARRUBIO MARRUBIUM, MARRUVIUM, da cui discendono gli abitanti: MARRUBI, MARRUVII, MARRUVIOS MARSILI, e gli aggettivi: MARRUBIA-MARRUVIA (es: “Quin et Marruvia venit de gente sacerdos”, Eneide, libro VII) MARRUVINUS-MARRUVINO MARRUVESI MARSIENSIS MARSICEN (A. Demarsano: “Ecclesia marsicana, seu Marsorum, “Marsicen” Tax cum unitis p. 206, Anno 1593) MARSICUS-MARSUS
5.3.2 La denominazione dall’età cristiana ad oggi
Nelle pagine di questo saggio troviamo tutti gli studi di Antonio de Nino in relazione all’esatta ubicazione di alcune antiche città romane: Sulmo, Corfinium e Marruvium. Da tali studi, il De Nino conferma l’ubicazione dell’antica Marruvium nell’attuale abitato di S. Benedetto dei Marsi
Nel basso Medioevo Marruvium incominciò a chiamarsi con il nome di: 1)MARSIA o MARSI - anno 50 d.C. Marruvium si chiamò Marsi fin dal IX anno dell’Impero di Claudio come sappiamo da Plinio47 talvolta anche VALERIA (quest’ultimo nome venne usato impropriamente in luogo della Via Valeria che attraversava la città). Così continuò a chiamarsi sotto i Longobardi, come riferisce Paolo Diacono nel XX capitolo di “Regionem Marsorum et eorum lacum Fucinus Appellatur”.48 Tale denominazione fu presente anche nel periodo dei Conti Dei Marsi, nell’anno 850 d.C., come 47 48
Plinio il Vecchio,Naturalis Historia,Vol. I, pag 168. Cfr. Fatteschi G. “Memorie istoriche- diplomatiche del Ducato di Spoleto, pag. 207,208.
L'antica Marruvium.
risulta da un placito tenuto da Ildeberto, primo Conte dei Marsi.49 2)MARSI O CIVITAS MARSICANA- anno 970-979 d.C. così risulta pure denominata la città nel placito del 970, tenuto dinanzi l’imperatore Ottone I e a Pandolfo capo di Ferro, alla presenza del vescovo Ulderico di Marsi.50 La cittadina venne nominata come MARSI, nuovamente, come testimoniato da un documento narrante un placito tenuto davanti la chiesa di S. Sabina dal marchese Ugo di Spoleto con l’assistenza di Berardo III, in ordine alla restituzione di molti beni al monastero di Casauria. 3) MARSIA - anno 1300-1650 d.C. Dal catalogo del Di Pietro si evince che in tal maniera era denominata la città. A testimonianza di ciò egli afferma “ La cattedrale col capitolio e con tutti i privilegi, statuti ed altre cose ad esso pertinenti, furono trasferiti da S. Sabina, chiesa della città Marsia, allora distrutta, in questa città di Pescina con Bolla del Pontefice Gregorio XIII, conservata nell’Archivio Capitolare della diocesi dei Marsi. 4) S.BENEDICTI VILLA - anno 1600 d.C. si chiamo il paese risorto nel sito della distrutta città di Marruvio. Tale denominazione è presente nella catalogazione presentata nel XVII secolo dall’abate Francesco Sacco dei centri appartenenti al Regno di Napoli. Stessa nomenclatura si riscontra nella pianta topografica inserita nella Historia Marsorum del Febonio. 5)VICUS S. BENEDICTI - anno 1645 Così si chiamava il paese ridotto ad un povero villaggio con poche famiglie quando l’Holstenio, riconobbe in quel sito l’antica Marruvium, affermando: “Certissimum est civitatem hanc ad orientale latus Fucini lacus fuisse, quo loco nunc est vicus S. Benedicti.” 6)S. BENEDETTO - anno 1789 Con il nome del fondatore dell’Ordine religioso, si chiamò il paese nel 1789 e con lo stesso nome è riportato sulla carta topografica della Diocesi dei Marsi, fatta intagliare da Giò Battista Sintes in Roma, per iniziativa di Diego di Revillas, dedicata a Marsi. Tale denominazione è presente anche in occasione delle visite pastorali fatte dal Vescovo dei Marsi che avevano l’obiettivo di descrivere lo stato di fatto delle chiese e la popolazione delle varie contrade appartenenti alla Diocesi. 7) SAN BENEDETTO IN MARSI O DE’ MARSI - anno 1792 49 50
Ludovisi I, Storia dei contadi di Amiteno e Forcona, p 112, A. Polla editore, Avezzano,2000. Ludovisi I,Ibidem, pag 106.
Così era denominato il paese già dal 1721 come descritto dal vescovo Pietro Antonio Corsignani nell’opera “Reggia Marsicana”, tomo I, cap. XV, pag 657. Nello stesso anno però, il paese era anche chiamato con il nome di “Villa” come è attestato in una relazione del Vescovo Vincenzo Layezza, in ordine alla prima Diocesi Marsicana. 8) SAN BENEDETTO DEI MARSI Così si chiamò il paese in seguito per evitare equivoci e facili disguidi fra gli altri centri abitati che avevano lo stesso nome, nonostante alcuni scrittori insistessero a chiamarlo S. Benedetto, come si rileva da una carta topografica del Fucino della metà del 1800.
Dizionario geografico-istorico- fisico del regno di Historiae Marsorum, libri tres, pubblicata da Napoli redatto dall’abate Francesco Sacco in cui Maurizio Febonio nel quale è presente la pianta compare la dicitura Villa S. Benedicti. topografica con la nomenclatura del tempo.
103
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
104
Tesi di Luigia Cipriani
Carta della Diocesi dei Marsi redatta per De Rivellas in cui si nota il nome S. Benedetto sulle sponde orientali del lago Fucino.
105
Carta della Diocesi dei Marsi pubblicata da Maurizio Febonio nel 1678. Egli individua con il numero 8 nella carta la cittadina di S. Benedetto dei Marsi che a quel tempo era chiamata “Benedetti (S.) Villa”
42
ADM B 6/22
Documenti dell’Archivio Diocesano dei Marsi dove, in occasione delle visite pastorali veniva citata la denominazione “S. Benedetto” 42
Portale della Chiesa di S.Sabina
106
6.4 La chiesa di S. Sabina 6.4.1 Cenni sull'origine della diocesi dei Marsi Dal "Catalogo dei Vescovi della Diocesi dei Marsi" del Di Pietro e da alcune notizie rese da Mons. Paoluzzi Alessandro nella sua "Storia della città di Tagliacozzo", veniamo a conoscenza che S. Marco Galileo si recò nella vicina Atina, per l'evangelizzazione di quei popoli. Qui fu ospitato da un gentiluomo chiamato Poliziano Galileo. E' noto inoltre, dalle medesime fonti, che Pietro aveva istituito ad Atina il 53° vescovado il quale comprendeva anche gran parte della provincia Valeria, ricadente nel circuito di cento miglia dalla Metropoli e perciò dipendente dal Vicariato romano. Con l'elezione alla cattedrale pontificiale di S. Ponziano, i Marsi ebbero la loro Diocesi indipendente da quella di Antino, a capo della quale fu inviato il Vescovo Rufino che scelse la sua sede in Marsi ( S. Benedetto dei Marsi) per cui la chiesa di S. Sabina fu riconosciuta giustamente come " Matrice di tutte le chiese della Marsica" e, ivi, doveva sempre rimanere la sede vescovile. 51
6.4.1 Origine e descrizione della chiesa di S. Sabina Nei primi secoli d.C. i Marsi non poterono avere propri vescovi per via delle persecuzioni che, come è noto, cessarono nel 313 a.C. con l' editto di Milan, con il quale l'imperatore Costantino concesse ai Cristiani di professare liberamente il loro culto. Se si considera che la Marsica era divenuta tra le sedi preferite dai Romani i quali avevano costruito numerose ville, come attestano i ruderi tutt' ora esistenti, gli abitanti erano costretti a seguire il culto imposto dai loro superbi padroni; ne consegue dunque, con buona probabilità, che la diocesi dei Marsi cominciò ad avere i propri legittimi vescovi con Rufino (237 d. C.). Sull'origine della cattedrale di S. Sabina, in S. Benedetto de' Marsi, si hanno poche e frammentarie notizie. Si ritiene che il tempio sia sorto, come privato oratorio, sopra un sepolcro o presso una cripta ove i cristiani segretamente si riunivano per le devozioni e i culti. Solo dopo l'editto di Costantino, essa poté essere edificata, essendo segnalata nei Sinodi Romani degli anni 499, 501 e 502 a cui però non è possibile provare la partecipazione del vescovo dei Marsi ( a causa, probabilmente, delle Cfr. A. Di Pietro, Catalogo dei Vescovi della Diocesi dei Marsi, tipografia marsicana V. Magnini, 1972, Avezzano, pag. 86. 51
continue scorrerie dei barbari). Tuttavia, il primo vescovo storicamente documentato è Quinto, il quale fu presente al Concilio Costantinopolitano II del 533, al seguito di Papa Virgilio.52 Lo splendore di Marruvio tornò in auge dopo la ricostruzione "Ab imis fundamentis" per ordine di Marco Valerio Massimo, dopo che la cittadina era stata rasa al suolo nella Guerra Sannitica. La Cattedrale di S.Sabina- nell'attuale sistemazione- appartiene ai secoli X-XI. Fu abbellita dai conti di Celano e particolarmente da Bernardo. Dalle testimonianze del Febonio " la chiesa era a tre navate sostenute da colonne, con capitelli di marmo; gli altari erano di finissimo marmo, ornati da bassorilievi e pitture in stile greco; conservò pure il matroneo fino ad una certa epoca". Febonio prosegue " L'abside centrale era sostenuta da pilastri di pietra a base quadrangolare coi relativi archi; nel suo complesso semicircolare era formata di pietra levigata anche nell'esterna struttura. Il portale marmoreo di vario colore aveva gli interstizi illustrati verosimilmente con molti animali, arricchito da tre colonne a fusto cilindrico, nei due lati, a guisa di icòna. Gli architravi eran variamente costruiti; in alto eran sstenuti da marmo bianco e nero". La cattedrale venne edificata sulle rovine del Capitolium, presso l'antico tempi di Giove ad onore della martire, come risulta da una bolla di Pasquale II (1099-1118) che recita " Antiqua Cathedralis in ipsa citate Valeria primum constructa fuit sub invocationem Sanctae Sabinae" Marruvio fu ridotta, in seguito, a poche abitazini per le incursioni dei Saraceni e degli Ungari fino alla fine del XII secolo. Presso Marruvio era nato Bonifacio IV che resse la anche la Chiesa locale secondo la regola benedettina, più tardi detta di S. Benedetto "in civitate". Questi ebbe il pontificato tra gli anni 608615 e si adoperò per sollevare le sorti di gente ormai dispersa in ville e casali. Con il tempo la basilica divenne un grande edificio adorno di insigni opere d'arte e fu motivo di ammirazione e lode da parte di molti scrittori. Vi aveva la residenza il vescovo come si evince dalla Bolla di Stefano IX datata 9 Dicembre 1057, diretta a Pandolfo allora vescovo marsicano : " Ecclesiae Sanctae Sabinae Antiqua Civitate Marsorum Episcopalem Sedem largimur" La città acquistò un ruolo importante nel X e XI secolo; divenne infatti residenza definitiva del Vescovo dei Marsi e fu il vero centro di attrazione spirituale di tutte le popolazioni della regione. Con l'andare del tempo la Cattedrale e lo stesso palazzo vescovile, esposti alle invasioni e alle continue inondazioni delle acque del Fucino ingrossate dai torrenti che vi confluivano, deperirono 52
F. Lanzoni, Op. cit., p.232
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
108
a tal punto che fu impossibile per il Vescovo risiedervi per cui il Papa Gregorio XIII (1580) autorizzò il trasferimento della comunità religiosa da S. Sabina nella nuova cattedrale di S. Maria delle Grazie a Pescina, fino a quando non fosse stata ricostruita la città e la sua cattedrale, come si legge nella Bolla del 1 Gennaio 1580 "Donee Civitas et illius Cathedralis restauretur". In conseguenza del trasferimento alla sede di Pescina, la città Marsia e la sua antica cattedrale decaddero sempre più dal loro antico splendore, tanto che ne restarono poche ma memorabili tracce.
6.4.2 La cattedrale nel tempo La cattedrale era situata ai margini nord-est del diruto foro del municipio marso di Marruvium, probabilmente nel luogo di un balneum muliebre.53 Agli inizi del medioevo la cattedrale viene citata fra i campi coltivati e i resti murari, con il vicino palazzo episcopale situato nella località detta "Milvia" posto "infra ipsos uros de ipsa civitate Marsicana".54 La cattedrale, così come la città, visse il suo massimo splendore tra il 1100 e il 1300 dalla presenza e opera riformatrice del Vescovo Berardo. Nel 1922 la cattedrale era stata sottoposta a saccheggio da Tommaso Conte di Molise e Celano durante il conflitto con Federico II di Svevia. Possibile, dati alcuni ritrovamenti composti da monete d'argento di Pavia e sei tarì aurei emessi da zecche del regno di Sicilia un possibile intervento in loco in occasione della "battaglia di Tagliacozzo" dei piani Palentini del 1268. Della sua forma, notevolmente contratta già nel settecento, ci parla il vescovo Federigo di Giacomo, nella sua relazione "ad limina" del 1874: "La chiesa di S. Sabina, ridotta alla quinta parte della sua primitiva grandezza, fu spogliata del campanile e fu privata di tutto il resto, sia per la nuova costruzione della chiesa di S. Berardo, sia per una migliore sistemazione della nuova cattedrale di S. Maria della Grazie. Conserva, tuttavia, ancora qualche traccia del suo originario splendore,come quella che mostra un vestibolo marmoreo e come la facciata anteriore formata da pietre squadrate ; ma, privata quasi di ogni culto per le ingiurie dei tempi e dei barbari, e dilapidata giorno per giorno dalla sacrilega avidità della gente, oggi fa quasi pena" .55 A seguito del terremoto che ha interessato Avezzano e i comuni limitrofi di inzio '900, ad oggi della imponente cattedrale rimane esclusivamente l'esiguo portale,parte centrale del prospetto che solo ha resistito all'ultimo disastro del 13 Gennaio 1915. CIL IX, n. 3677 54 Chron. Mon. Casaur, cc., 186 r. 55 ADM, B/57/197; Melchiorre 1986, p. 141 53
Tesi di Luigia Cipriani
6.4.3 Lo stile architettonico La facciata frontale superstite risale al XIII secolo e risulta più bassa rispetto all'originaria facciata. Il portale in stile romanico-gotico è sormontato da una cornice rettangolare e presenta più giri di arco a tutto sesto. Lateralmente le quattro colonne circolari di marmo sono sormontate da capitelli. Le due colonne più esterne anch'esse sono sormontate da capitelli e poggiano sul dorso di due leoni stilofori. Alcuni documenti risalenti al seicento e al settecento descrivono l'interno della chiesa che si presentava a pianta rettangolare con tre navate formante un rettangolo di metri 20,79x33,638 ( pari a piedi romani 70x114). Cinque erano le campate interne( ognuna di dimensioni circa 26 piedi romani) divise da pilastri di forma quadrata e chiuse da un'abside a semi cerchio.( largo 26 piedi e profondo 16). Il campanile, di dimensioni quadrato si trovava sul lato sinistro. La chiesa presentava anche un elegante porticato esterno. In totale l'ingombro planimetrico, escluso porticato e campanile di cui non conosciamo l'esistenza era di metri 21x39 circa. La grande fioritura artistica del Duecento nella Marsica prolungò la sua vitalità anche nel secolo seguente con opere che si riallacciano a quelle già esistenti ed alle nuove che si riproducono nei centri vicini. Aquila e Sulmona che ebbero una floridezza speciale in questo tempo, insegnarono nella Marsica il nuovo indirizzo che l’arte seguiva per impulso venuto dai grandi centri Italiani. Ma la regione, sprovvista di città popolose, esplicò solo nei piccoli paesi un’architettura chiesastica di riflesso, limitata a pochi esempi con dati più stilistici che cronologici, essendo la maggior parte delle opere sprovviste di documentazione.56 Il portale assume forme grandiose e inusitate finora nella Marsica, ampliando 1o schema decorativo sul tipo lombardo più comune. Le pilastrate prendono una larghezza quasi eguale al vano, che oggi vediamo ristretto da un riempimento di muro traforato da due finestrelle e da una porta di pessimo gusto. Sopra si sviluppano gli archivolti a sesto rotondo in perfetta coincidenza con i piedritti ed una inquadratura rettangolare, che li comprende su tre lati alzandosi alquanto in chiave quasi per bilanciare le forme pesanti della parte basamentale.57 Il vano è compreso da stipiti con mensole e architrave alleggerito da arco di scarico lievemente rincassato, ma di diametro maggiore della larghezza porta. La base attica, massiccia ,sagomata all’uso gotico e la zoccolatura legano gli stipiti alle pilastrate risaltando sotto ogni elemento; invece Giuseppe Grossi, Marsica sacra, LcL industria grafica, Avezzano, 2004. Carlo Ignazio Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, Volume secondo, Libreria editrice Universitaria Avezzano.
56
57
L'antica Marruvium.
le zone dei capitelli lasciano ogni ricorrenza al punto che la cornice dell’abaco coincide con la parte mediana dell‘architrave. Le pilastrate si compongono di due risalte per parte e di colonne accantonate dello stesso diametro di quelle frontali, elementi tutti che hanno corrispondenza e continuazione dintorno alla lunetta. Varia e multiforme la decorazione prende alcuni ornamenti dalla scuola Marsicana fiorita nel secolo precedente, alcuni altri dall’arte Gotica. I leoni messi per fianco a sostenere le colonne frontali, le palmette ad acroterio poste ad ornare la sagoma sporgente che nasce da queste colonne, le foglioline, i fiori. gli animaletti ed altre fantasie disposte a piccoli intervalli sul margine dell’archivolto che corrisponde al vivo della muraglia, sono elementi che derivano direttamente dall’abside di S. Maria in valle Porclaneta e dai portali di Luco, Avezzano e di Paterno. I capitelli a campana svasate con due ordini di foglie, l’abaco risaltante a squadro su ogni sostegno , la sagoma della base attica ed i congedi ovunque ampliamenti studiati, palesano una ispirazione da elementi gotici usati non solo dalla scuola Marsicana, ma da tutte le scuole abruzzesi che studiavano sulle forme francesi .L’ ecclettismo dello sconosciuto artista si esplica oltre che nelle spalle e nell’ archivolto, profondamente scavati a spina di pesce, nella composizione degli ornati messi a decorare gli stipiti; dove da un lato un tralcio a volute d'acanto sorge da nascimento classico per terminare nella testa di un demonio, dall’altro un ramoscello di vite, uscendo dal becco di un uccello, tortuosamente si svolge mescolando grappoli e uccellini alle volute eleganti e leggeri e fino ad un piccolo vaso ove una colomba si disseta. Lo scultore ha la mania del riquadrare e dello scorniciare le decorazioni che circondano il vano e la lunetta. Ogni ornamento egli chiude in una formella contornata da listelli e da sagome sottili. Cosi i due fiori al sommo degli stipiti presso le mensole sostenute da teste femminili, il grifo e la pianta d'iris alle estremità dell'architrave, il grande fregio composto di draghi affrontati e legati per le code che occupa la parte centrale dell’architrave medesimo. Lo stesso principio lo costringe a riporre entro dieci formelle a forma di cuneo i grandi fiori e le rose che decorano maestrevolmente l'arco di scarico della lunetta; bellissimi fiori che, pur ripetendo forme tradizionali dell’Abruzzo, riescono con modellatura spigliata a ben armonizzarsi con le più libere composizioni delle altre parti.
109
Foto della cattedrale di S. Sabina prima del terremoto, Italia artistica, E. Agostinoni, 1909.
Foto della porzione di portale appena dopo il terremoto del 1915.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
110
Dettagli del portale duecentesco
Tesi di Luigia Cipriani
L'antica Marruvium.
111
Ripresa aerea mediante drone dell'anfiteatro romano
112
6.5 L'Anfiteatro 6.5.1 Il ritrovamento e le campagne di scavo Il comune di S. Benedetto dei Marsi ha intrapreso un ambizioso programma di interventi teso al recupero, alla tutela, alla salvaguardia ed alla valorizzazione del patrimonio storico ed archeologico comunale. In stretta collaborazione con la Soprintendenza per i beni Archeologici per l'Abruzzo, negli anni 2001 e 2002 il comune è stato impegnato nell'esecuzione del primo lotto di lavori di scavo, consolidamento, restauro e valorizzazione dell'anfiteatro romano di Marruvium, che ha consentito di riportarne alla luce circa metà della sua struttura antica. La presenza di tale struttura era però già stata riscontrata dalla presenza di una porzione di arco nella parte orientale del paese, immerso tra le sterpaglie di un'ampia porzione di lotto non edificato. Nel 1982 erano state condotte delle ricerca in collaborazione tra Soprintendenza Archeologica dell'Abruzzo e l'Istituto di Topografia antica dell'Università La Sapienza di Roma, sotto la guida della Dott.ssa A. Campanelli e del Prof. P. Sommella. Le indagini hanno posto in evidenza le strutture relative all'ingresso meridionale dell'anfiteatro che erano già state oggetto di uno scavo precedente liberando l'area dai crolli dei muri che avevano ceduto in assenza di puntellamenti. Il programma di scavo ha provveduto ad una serie di interventi finalizzati al lavoro di restauro delle strutture precedentemente scavate. Sono state ripulite le vecchie trincee con piccoli ampliamenti al fine di poter produrre una documentazione grafica completa delle parti già conosciute. Duranti i lavori è stato messo in luce il pavimento del corridoio dell'ingresso S e la soglia di accesso all'arena come pure le scale che conducevano all'ima cavea situate a NW dell'arco. 58 La campagna di scavo del 2001 si è posta innanzitutto di ripristinare la situazione relativa ai lavori del 1982, liberando dalla folta vegetazione e dal terreno di riporto le strutture dell'ingresso meridionale, il muro perimetrale e i setti radiali di sostegno della summa cavea. Il risultato delle ricerche svolte con il Georadar ha consentito di individuare una nuova aea di indagine avviata contestualmente alla pulizia dell'ingresso S, che ha restituito buona parte dei muri dell'ingresso N conservati per lo più ancora in posto. Si è deciso, pertanto, di procedere con le operazioni di scavo nell'area compresa tra i due ingressi in senso antiorario, da S verso N, seguendo le tracce di 58
Cfr. Relazione di fine scavo intervento settembre,a cura di Dott.ssa A. Campanelli, 2001.
sostegno della summa cavea. L'edificio,nonostante le evidenti spoliazioni cui è stato sottoposto si presentava al momento dello scavo ben leggibile e parzialmente sostruito da strutture portanti. Al momento del ritrovamento, gli ingressi principali erano posizionati secondo uno schema speculare che prevedeva un corridoio di accesso all'arena con muri in opera reticolata e due ambiente, voltati e pavimentati con lastree calcaree, adiacenti al corridoio stesso.
6.5.2 Descrizione L'anfiteatro è stato rivenuto all'estremità orientale e quasi nel punto più alto della città, dietro l'antica cinta muraria. Gli storici affermano che aveva l'area di circa 2.000 mq e che riusciva a contenere circa 20.000 spettatori con tre ordini di posti ed un diametro maggiore di 95,00 m e quello minore di 75,00 m. Secondo alcuni calcoli del Cerasani, (Cfr. l'opera "Marruvium e S. Sabina") l'anfiteatro aveva un'arena con il diametro maggiore di 52 m e quello minore di 36 m e quindi lo spazio occupato dal portico esteriore delle fauci e delle gradinate doveva essere di circa 23,00 m; inoltre l'altezza totale dell'edificio doveva collocarsi a circa 25,00 m con tre ordini di arcate. Considerando poi che un'ellisse di tali diametri da luogo ad archi di 4,00 m di ampiezza e con i pilastri di 0,70 m dei quali archi, quattro rispondono all'estremità degli assi e ne sono intersecati nel mezzo, si può immaginare l'aspetto esteriore dell'anfiteatro di Marruvium come quello di un edificio ellittico a tre ordini di arcate, con sessanta archi per ognuno. L'edificio pubblico per gli spettacoli era ubicato nel settore nord- est della città, aveva una forma ovale di m 101x 81 e arena interna di m 61x41; fu impiantato nella prima età augustea su un fossato naturale che delimitava a nord-est l'impianto cittadino e presentava sepolture di età repubblicana sui bordi. Gli ingressi principali sono posti sull'asse maggiore orientato sud-est nord-ovest, ingressi minori erano ubicati sui settori nord-est e sud-ovest: di questi ultimi è stato aperto solo quello sud-ovest. Oltre le numerose sepolture di età medievale rinvenute nell'interno, de scavate sul settore nord-ovest verso il villaggio costiruiscono il terminus post quem per la datazione iniziale dell'edificio per lo spettacolo cittadino. L'anfiteatro marruvino era del tipo a forma piena con cavea, sostenuta da strutture compartimentate a cassone poggiate direttamente sul fondo sabbioso del vecchio fosso. Sul versante nord-est è visibile l'ingresso orientale
113
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
114
in opera reticolata con arcatura delimitata da due lesene laterali; la cavea, ormai completamente scavata, presenta evidenti segni di spoliazioni medievali con area un'area cimiteriale dello stesso periodo. Della pavimentazione del vomitorium in lastre di calcare , sono rimasti nuclei nell'unico accesso portato alla luce. Dalla stessa base si accedeva, tramite scale poste ai lati del corridoio, alle gradinate inferiori, mentre gli ingressi alla media cavea si aprivano lungo il tracciato del muro perimetrale. L'accesso alla summa cavea era invece affidato a scale esterne, come nell'anfiteatro pompeiano. Nel secolo II si procedette al rinforzo del vomitorium, che fu realizzato con l'uso del laterizio e materiale di recupero. Gli scavi attualmente in corso hanno riportato alla luce, oltre agli accessi, sull'arena di due rocchi di colonna (metae) sull'asse maggiore a distanza regolare, a riprova che nell'interno dell'edificio avvenivano anche corse di bighe o cavalli. Sull'accesso cittadino nord-ovest, inoltre, sono stati scavati due carceres, ambientiin cui si trattenevano le belve prima di immetterle nell'arena. Dai ritrovamenti ossei animali si segnala una considerevole presenza di orsi, animali che sappiamo molto utilizzati nei combattimenti fra gladiatori e belve e nelle venationes. I più recenti scavi hanno riportato alla luce alcuni gradini della cavea e le lastre che componevano il muro (balteo) che delimitava l'arena, lastre crollate per effetto "a domino" a causa di un terremoto mentre ben riconoscibili sono le numerosi iscrizioni sui sedili in pietra calcarea che segnavano i primi posti a sedere (loca) dei più importanti personaggi del mondo cittadino marruvino. I primi segni di abbandono dell'anfiteatro e del suo utilizzo come cava di materiali sono avvertibili fra la fine del III e la prima metà del IV secolo d.C. come da ritrovamenti monetali e riutilizzazione di una lastra del balteo per una testa di età tetrarchica. Ma l'avvenimento più traumatico per l'edificio fu, come emerso dagli studi dell'Istituto NAzionale di Geofisica e Vulcanologia, il grave terremoto romani del 508 d.C. le cui tracce ora sono state riscontrate in numerosi siti di scavo della Marsica. Successivamente l'area oltre alla continua spoliazione del materiale lapideo, fu abbondantemente utilizzata come luogo di sepoltura per tutto l'arco dell'alto medioevo come documentato dalle numerose inumazioni cristiane, a fossa semplice per mancanza di corredo ceramico, poste lungo i muri dell'edificio che riutilizzano, a volte, materiali architettonici decorativi dell'anfiteatro. Agli inizi del secolo XIX era ancora visibile un condotto idrico in pietra che si immetteva nell'anfiteatro a SEtentrione in direzione della " fistulam de Civitate Marsicana".Diverse le tombe ritrovate: una, a fossa con delimitazione fittile, orientata sud-est nord-ovest, conteneva una sepoltura maschile
Tesi di Luigia Cipriani
con 14 oggetti di corredo, fra cui vasi e piatti in ceramica e due strigili in ferro inseriti in un grosso anello di bronzo; un'altra, della stessa tipologia di quella precedente, era invece riferibile ad un individuo femminile con corredo composto da 5 oggetti fra cui una lucerna e balsamari piriformi. Le sepolture, databili entro la prima metà del I secolo, a.C. erano collegate probabilmente ad una necropoli posizionata su un asse viario (di cui sono state notate tracce) del vicus che si avviava a diventar municipio marso.
6.5.2 L'Anfiteatro al giorno d'oggi La struttura sorge nella porzione settentrionale dell'abitato di S. Benedetto dei Marsi. Emilio Agostinoni nella sua opera "L'Italia Artistica, Il Fucino" presenta la descrizione dell'Antica Marruvium e dei resti visibili. Egli descrive minuziosamente i vari paesi della Marsica di fine ottocento, subito dopo il prosciugamento del Lago Fucino, delineando nel suo iter di scoperta, anche Marruvium. L'antico anfiteatro era appena accennato all'epoca dell'Agostinoni, poichè egli afferma «...Ancora più dimenticati sono i resti informi dell'anfiteatro...Nell'anfiteatro si scorge il cavo rinterrato soltanto, e qualche avanzo di muro: la forma concava resiste all'opera della zappa e il muro di cinta, in qualche punto, alle radici ostinate dell'olmo...Si vede ancora un arco che scende e si perde, e vicino si scorge una seconda apertura ristretta e più buia ».51 A partire dal 2001 il comune di S. Benedetto dei Marsi, ha commissionato un progetto per lo scavo, il consolidamento, il restauro e la valorizzazione dell'anfiteatro romano che ha permesso di portare alla luce circa la struttura.
Nelle pagine seguenti rilievi della porzione dell'Anfiteatro rinvenuto negli scavi del 2001.
L'antica Marruvium.
115
Foto aerea della campagna di scavi del 1994
Dettagli della porzione muraria dell'Ingresso principale a Nord-Est in opus reticolatum
Foto storiche del 1974 in cui sono visibili porzioni murarie e parte dell'arco dell'ingresso tra le sterpaglie.
I mausolei romani
118
6.6 I Morroni
6.6.2 Descrizione e stato di conservazione
6.6.1 I caratteri generale dei due mausolei
I “Morroni” possono essere descritti come esempi di monumenti funerari a torre, categoria di mausoleo tipico di alcune zone della Sabina Il “Morrone A” , il più piccolo, di dimensioni pari a circa m 6x7x11 si presenta caratterizzato da un precedente restauro, ispirato maggiormente a criteri di corretta tutela delle caratteristiche originarie del monumento Lo stato del “Morrone A” è quello di un manufatto fortemente rimaneggiato, trasformato sia nei caratteri materici per via di una completa cortina di rivestimento a imitazione del nucleo cementizio, sia nella forma per la conformazione a riseghe progressivamente decrescnti verso l’alto.Il pesante intervento di restauro del “Morrone A” lascia intravedere soltanto alcuni dei caratteri originari, modeste parti del nucleo in calcestruzzo e soltanto due diatoni in pietra Il “Morrone B”, di dimensioni maggiori pari a circa m 8x8x11 si presenta fortemente degragato sia nella forma che nei materiali costruttivi a causa della vetustà e dei conseguenti processi di dilavamento e di aggressione da microrganismi con formazione di crosta nera Sono presenti poi una serie di specifiche degradazioni caratterizzate da piccole e grandi cavità di forma irregolare e una diffusa aggressione da vegetazione spontanea.
I “Morroni” sono due grandiosi nuclei in opera cementizia romana riferibili a due mausolei probabilmente databili entro l'ultimo quarto del I secolo a.C.,simili a costruzioni, ancora oggi, visibili lungo la Via Appia Antica, sono situati sul ciglio destro della Via Romana, fuori dalla cinta muraria, verso il Fucino. Si presentano come due massicce strutture in opera cementizia con basamento a dado (mt. 7,50 dilato e mt. 4,50 di altezza) e sovrastruttura a cilindro (diametro mt. 7,00 altezza 6,00), con pietre squadrate (il cui lato misura 50 cm. circa) disposte simmetricamente e incastrate nella muratura per tenere il rivestimento. Tradizionalmente identificati come tombe monumentali, in essi l’epigrafia è muta. Per l’Orlandi essi dovrebbero chiamarsi “Mucroni” ed essere stati eretti in onore del generale marso Mucrone caduto durante la Guerra Sociale. Per altri, invece,come il Colantoni, si tratterebbe di costruzioni per onorare la memoria dei Marsi caduti in guerra, e sarebbero dedicati precisamente a O. Poppedio Silone e Vezio Scatone, i quali combatterono nella guerra sociale per l’indipendenza Italica. Noi, oggi, possiamo vedere solo lo scheletro in emplekton, ma i due monumenti erano, originariamente, rivestiti con le pietre di forma quadrata che, nel XVI sec., furono usate per il rivestimento della facciata della Cattedrale di Pescina. Il meglio conservato è quello che si trova nella parte interna, di cui è tuttora perfettamente discernibile la cupola. Recenti interventi di scavo e restauro, hanno evidenziato meglio le gettate successive del calcestruzzo romano, le fondazioni del rivestimento in grossi blocchi rettangoli di calcare con incavi per ammorsature di quelli superiori e un recinto in opera reticolata che doveva racchiudere i due monumenti.Nell'Ottocento, nel periodo storico di massima escrescenza del lago (1804, 181617), i due monumenti erano erosi per la metà dell'altezza dalle acque fucensi tanto da preoccupare i visitatori dell'epoca per la loro stabilità". Entrambi i monumenti presentano un piccolo vano interno, con ingresso sullo stesso lato, evidentemente su un’antica via che potrebbe essere parte della cella sepolcrale, successivamente adibita a rifugio o magazzino. Essendo il piano originario più basso di circa 1,30/1,50 m questi ambienti, se originai, erano in parte interrati.
A sinistra il "Morrone B" a destra il "Morrone A"
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
120
6.6.3 I riferimenti formali: i monumenti funerari a torre I monumenti funebri a torri sono particolarmente diffusi, sia pur limitati ad alcune zone, nel territorio della Sabina. Tale territorio, amministratvamente parlando, comprende la provincia di Rieti, costituita nel 1926 e in parte quella di Roma, lasciando fuori importanti centri come Iteramna (Terni(, Nursia (Norcia) e Amiternum (San Vittorino) che ricadono in altre giurisdizioni ma erano compresi in antico entro la Sabina Storica. I monumenti funerari a torre sono stati individuati prevalentemente nella Sabina Meridionale, nella facia di territorio compresa tra i Monti Sabini e il Fiume Tevere e in quella a ridosso del tracciato dell’antica Salaria. L’elevato sviluppo in altezza e la particolare configurazione assunta in seguito all’azione disgregatrice operata dagli agenti atmosferici ha valso loro, non di rado, la caratteristica denominazione di Torracci, di “Massicci” o “Colonnette”, con cui sono noti presso la gente del luogo.
Tesi di Luigia Cipriani
I Morroni, Corfinio (AQ) Lungo l’antica Via Valeria (strada consolare romana che collegava Roma con l’Adriatico) sorge la città di Corfinio, assurta a capitale dei confederati nella guerra sociale del I sec. a.C. Di fronte alla basilica sono i “morroni”, ruderi di antichi sepolcri. Le campagne di scavo susseguitesi negli anni hanno riportato alla luce numerosi resti di edifici che costituivano il vecchio impianto urbano, come i cosiddetti Morroni di San Pelino, ovvero i resti in muratura di un mausoleo a pianta circolare di epoca romana, che sorgono lungo la strada che conduce a Raiano. La struttura del nucleo è in conglomerato cementizio, composto da malta pozzolanica e scaglioni di pietra lavica, sprovvisto del suo rivestimento è ancor più soggetto a lesioni e distacchi.
Torraccio, Poggio Maiano (RI) Nel Comune di Poggio Moiano, sulla sinistra del tracciato della Salaria romana in direzione di Rieti si vedono i nuclei in cementizio di tre grandi sepolcri a torre (II secolo d.C.). Questo tipo di sepolcri compare nel Lazio sul finire del I secolo a.C. per affermarsi definitivamente nella prima età imperiale. Il primo dista dalla Grotta dei Massacci circa 99,50 m, si conserva per un'altezza di 14,60 m ed ha un basamento di 7,15 x 7,10 m; il secondo è posto a 14 m dal precedente e si conserva per appena 1 m di altezza. Procedendo lungo il cammino si incontra il terzo torraccio, Conservato parzialmente, è privo del rivestimento esterno.
I morroni di Corfinio
Il monumento funerario sull'Appia Antica
Il torraccio di Poggio Maiano
I morroni di S.Benedetto dei Marsi
Sepolcro, Appia Antica (RM) Il monumento funerario, oggi spoglio dei suoi rivestimenti marmorei, si trova a tra il complesso monumentale di S. Maria Nova e la Villa dei Quintili. Le spoliazioni lo hanno reso caratteristico per l’esiguità della base rispetto all’alzato da renderlo quasi simile ad un grosso fungo di conglomerato cementizio in scaglioni di pietra lavica.Esso si ergeva su un grosso dado di pietra calcarea con lato di ca 15 metri (circa 50 piedi), sormontato da un cono o una piramide rivestita in blocchi di marmo, di cui sono ancora evidenti le tracce. L’attribuzione certa è ancora in fase di studio.
L'antica Marruvium.
6.7 La strada romana 6.7.1 L'assetto viario dell'antica Marruvium L'attuale abitato di S. Benedetto è in gran parte sovrapposto sui resti del municipium marso di Marruvium, sorto ex-novo nel luogo dopo il Bellum Marsicum, ascritto alla tribù Sergia come gli altri tre municipi marsi e, come loro, ebbe il nome etnico di Marsi Marruvium. Recenti scavi curati dalla Soprintendenza Archeologica d'Abruzzo e dall'Istituto di Topografia Antica dell'Università di Roma nella persona del prof. Paolo Sommella, hanno evidenziato le varie fasi dello sviluppo urbano di Marruviurn e confermato la non esistenza, almeno nell'area di S. Benedetto, di un centro marso precedente alla Guerra Sociale (90-88 a.C.) : sul luogo infatti più che un vicus, di cui non rimangono tracce, era presente (già dal IlI secolo a.C.) un santuario dedicato agli Dei Novensidi. L'istituzione del municipio risale ad un periodo posteriore alla Guerra Sociale, certamente precedente al 49 a.C., data la presenza di magistrature quattuorvirali ricordate da due iscrizioni databili, in base ai caratteri epigrafi, alla metà del I secolo a.C. ed alla fine della repubblica romana . Le recenti ricerche, riassunte in una relazione preliminare dal Sommella, hanno documentato "... il raggiunto assetto istituzionale e urbanistico planimetrico funzionale [di Marruvium ] entro il secondo quarto del I secolo a.C. ..." (...) "... una città a tessitura ortogonale in cui verso l'ultimo quarto del I secolo a.C. gli spazi dovevano essere regolamentati e l'attuazione del piano rego1amentare aveva già portato alla costruzione oltre che di opere pubbliche e di monumenti di grossa mole anche di vari tipi abitativi e delle strutture del terziario... " La ricostruzione del tessuto viario antico ha permesso di riconoscere il reticolo urbano formato da isolati rettangoli di 270 x 240 piedi romani (pari a metri 80 x 71 circa), racchiusi da strade che si incrociano ad angolo retto, pavimentati da basoli di calcare come Alba Fucens e gli altri municipia marsi (5). Elemento fondamentale dell'arredo urbano era costituito dall'area forense con il Capitolium dotato di vicino orologio solare i cui resti sono venuti alla luce nel 1974 durante i lavori di ampliamento dell'Albergo Ragno (Via Nuova), erroneamente identificato in passato nel sito della ex cattedrale di S. Sabina.
Comunque il completamento della viabilità forense fu attuato verso la fine del periodo repubblicano romano come attestato da una iscrizione che ricorda due magistrati che curarono, per decreto dei decurioni,la pavimentazione in basoli di calcare di una via posta dietro il Capitolium
6.7.2 Il ritrovamento e l'attuale sistemazione Alcuni lavori per la costruzione di un albergo, hanno riportato alla luce resti di monumentali colonne, e di fregi architettonici, che ci fanno individuare, in quella zona, in pieno centro cittadino, la posizione di un Tempio importante e la relativa collocazione del forum di Marruvium. Ma le notizie restano molto vaghe, perché non si è potuto documentare i resti ritrovati. Restano visibili solo alcuni frammenti di colonne, trasportati però in zone diverse del paese. Anche di fronte al Portico sotterraneo di Piazza Risorgimento è collocato un frammento di colonna decorata. Il portico ha permesso la fruizione dell’area archeologica sottostante, permettendo l’accesso ai resti archeologici della strada romana che, proseguendo nei due sensi di marcia, si pensa, portasse proprio al Tempio della città. All’interno è possibile ripercorrere un tratto di strada sul quale nei secoli si sono succeduti passi di migliaia di uomini vestiti con tuniche e toghe, con i tipici calzari romani, magari corazzati e sicuramente alcuni, vi hanno trainato carri e cavalcato. La strada, infatti, ha un’ampiezza di 3,60 mt. e presenta dei paracarri laterali sui quali è ancora possibile notare i segni, usurati, di fori utilizzati per “attraccare” i cavalli durante eventuali soste. Curioso è notare, proprio all’entrata, la presenza di un attraversamento pedonale ancora perfettamente percorribile, formato da blocchi di pietra calcarea locale (come del resto tutta la strada) squadrati e posizionati ad una distanza tale, tra di loro, da permettervi il transito dei pedoni, ma non infastìdire la percorribilità del tratto da parte dei mezzi di trasporto del periodo. Un ribassamento di forma quadrata fa pensare alla precedente presenza di una epigrafe segnaletica. Nei due tratti di scavi ancora aperti, sempre all’interno del portico, è possibile ammirare la proverbiale fattezza e precisione di un tratto di fogna romana, la cui conduttura ha un’ampiezza di circa 50 cm. Ed è per un buon tratto “percorribile” riportando una altezza varia tra i 150 e i 190 cm. E’ visibile anche un tubo dell’acqua potabile in lega di piombo.
121
L'antica Marruvium.
6.8 La relazione di Francesco Lolli su "Gli avanzi di Marruvio"
123
Sui ritrovamenti circa i resti di Marruvium, abbiamo una dettagliata testimonianza dell'avvocato di Avezzano Francesco Lolli, il quale venne incaricato da parte della Commissione Conservatrice dei Monumenti di Antichità e Belle Arti di Aquila di redigere una relazione circa lo stato attuale degli "avanzi di Marruvio", quale fosse il miglior modo per conservarli ed infine una linea guida per la valorizzazione di tali resti e di ogni altro lacerto dell'antica città distrutta. L'avv. Lolli nella relazione datata 15 Maggio 1891, andò ad esporre la sua esperienza circa la presenza e lo stato delle emergenze archeologiche dell'antica Marruvium. " Giaceva, dunque, Marruvio a circa tre chilometri a S.O. di Pescina, e con un perimetro di poco più che tre km., nella fertile ed amena campagna dell'attuale villaggio di S. Benedetto, del quale solo la parte più vecchia e meno estesa trovasi fabbricata entro l'antica cinta, mentre la parte più nuova, dovuta all'incremento della popolazione per le prosciugate terre fucensi, si sviluppa principalmente al di fuori dei lati nord ed ovest di questa, ed ancora entro la cinta predetta, solo per poche case verso il sud. Gli avanzi dell'antica città sono poveri, poveri perchè scarsi di numero, e perchè di quelli pochi ne è conservata piccola parte e non bene, onde se ne riporta una impressione dolorosa, tanto più che lo squallore presente rispecchia ancora la magnificenza passata, si che non esagerato apparisca l'appellativo di splendidissima prodigato alla città dalle epigrafi antiche e dagli antichi scrittori, per colui il quale anzichè in estensione ed in grandiosità, se la raffiguri splendida per ricchezza ed eleganza di monumenti pubblici e privati, splendida, cioè, per quanto conveniva a città di provincia (sebbene provincia pressochè suburbicana) e più piccola di Pompei. Detti avanzi ora consistono nei resti delle mura: nei morroni, nei resti dell'anfiteatro e del teatro, e nella fabbrica romana su cui a qualche metro di altezza comincia la costruzione medioevale dell'odierna chiesa parrocchiale.
Le mura Una ramificazione della via Valeria, che staccandosi da questa sotto Celano piegava verso il Fucino e conduceva a Marruvio per quindi risalire a Cerfennia, viene nel territorio di S. Benedetto ancor oggi chiamata Via Romana, e con tale nome è ora la principale strada interna del villaggio, e corrisponde
Relazione di Francesco Lolli alla Commissione Conservatrice dei Monumenti e delle antichità dell'Aquila.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
124
alla linea A B della Pianta, riportato alla fine del capitolo, la quale linea era nello stesso tempo quella del limite ordinario delle acque del Fucino nell'epoca moderna. Sul ciglio sinistro di questa strada si ergeva la linea occidentale delle antiche mura di Marruvio e ne resta tuttora qualche avanzo. Il punto A, vertice dell'angolo nord-ovest di esse mura si riscontrerebbe in direzione alquanto obbliqua al nord dell'angolo nord-ovest della casa del fu D. Salvatore Tarquini, ma non se ne vede vestigio alcuno come anche non più si discernono le mura da quel punto in giù, per essersi dove distrutte, e dove incorporate nelle fabbriche dell'attuale villaggio. Egualmente proseguendo per la via romana verso il sud, nessun altro segno delle mura si vede dietro l'abitato, quantunque qua e là si veggano incastrate nei muri moderni pietre romane, le quali, però, sembrano piuttosto trasportate, che facenti parte del rivestimento delle mura antiche. Ma subito dopo l'ultima fabbrica del villaggio, che è la stalla di Vincenzo Raglione, ed a circa nove metri da questa, si incontra un primo avanzo (f) della vetusta muraglia. Essa è in opera cementizia silicica a fortissima malta, tanto che ha acquistato la compattezza e la solidità del macigno, si estende per la lunghezza di circa metri quaranta, si eleva sul piano stradale all'altezza media di circa due metri, parimenti che il terreno cui è addossato,e presenta lo spessore di circa metri due e centimetri cinquanta. Nessun altro tratto delle mura esiste sulla via romana, ma dove questa incontra pressochè perpendicolarmente la via del molino della Civita e precisamente al punto B della pianta, al di fuori della strada del molino, e sul fondo di Liberato di Genova, se ne vede un altro avanzo della natura e della solidità del precedente, lungo circa metri 10, alto da terra circa m. 1,60 e largo circa m. 2,60, ed a partire da questo punto altri tratti delle mura, della medesima costruzione e nello stesso stato che i precedenti si incontrano ad intermittenza per lunghezze diverse a costa della predetta strada del molino della Civita , sul medesimo fondo di Liberato di Genova e sui susseguenti sino al molino sito nel punto segnato in pianta con la lettere n, sempre seguendo con precisione la spezzata. Proseguendo poscia verso l'est in prossimità del molino della Civita, gli avanzi delle mura si internano sotto i coltivati, nascondendo i lati op. qr. rs. st. e la parte I e riescono allo scoperto a circa 28 m. dal punto 1 sotto un fondo del Dr Paolo Freda (t') cui fanno da sostegno lungo la sottoporta via nuova del Camposanto, correndo circa m. 80 fin presso al punto t ove si internavano per riuscire in piccolo tratto lungo il segmento vx'a partire dal quale fino al ritorno al punto A nessun altro tratto ne è più visibile a fior di terra nei segmenti e~ &, d, c,,cl c, e meno un masso che a guisa di macigno ne è rotolato nel fosso quasi rimpetto al punto segnato in pianta col n. 10. Già a non molta
Tesi di Luigia Cipriani
distanza dal punto - B - risalendo la strada del molino della Civita si comincia di fuori della linea delle mura ad osservare il fossato, che ora consiste in un avvallamento di considerevole larghezza, il quale sempre più accentuandosi fino a raggiungere talora in più punti la profondità di oltre 3 metri fa il giro di tutto il resto della cinta seguendo con precisione tutti i lati dei vani angoli di questa, e si arresta presso le fabbriche dell'attuale villaggio. Niun avanzo di un secondo muro ci è stato possibile scoprire lungo tutto il giro della cinta, ma in più punti dei lati sud-est e nord si osserva per lunghi tratti un notevole e rapido rialzo sul terreno adiacente all'interno in modo da formare come un piano fortemente inclinato; e potendo in questo riconoscersi i, più probabilmente il residuo della scarpata, ma anche quello di un terrapieno, sembra potersi ritenere escluso che l'aggere di Marruvio fosse ad unico muro accessibile solo per scale addossate, poco probabile che fosse a doppio muro con frapposto terrapieno, e molto più probabile che fosse ad unico muro con la scarpata addossata all'interno e rivestito di gradini per montarvi in cima, come 1'aggere di Pompei presso la parte Ercolanese. Nel punto segnato in pianta col n. 12 non si riscontra affatto la chiavica di cui si parla nella leggenda. Però invece è l'imbocco della via del Pagliarello, e sembra molto probabilmente il luogo di una delle porte della città. Nè qui, però, nè ai punti 8 e 9 ove sarebbero state le altre porte, nè in verun altro luogo della cinta è visibile alcun avanzo di torri. È singolarmente notevole come nè sulla linea AB nè al di fuori di essa si riscontrino tracce del fossato; e non avendo dall'un canto a dubitare che le mura si che fossero sul ciglio sinistro della via romana, poiché ne fan fede il rudero - f - e quello presso al punto B; e dall'altro, coincidendo in questo tratto la carreggiata della Valeria sulla attuale via romana, come lo dimostrano a sinistra i surricordati avanzi, ed a destra i due morroni del quale le fondamenta ed un grande masso cadutone si veggono sulla stessa linea al di là del punto B ed a concludere che la via Valeria fosse stata costruita sul luogo de l fossato, il quale, naturalmente all'uopo riempito. La costruzione adunque per parte dei romani di questa via militare sul riempito fossato di Marruvio ed a contatto delle sue mura che forse furono anche, di conseguenza, più o meno notevolmente mozzate, e punte spiegarsi con la opinione emessa dal Promis (antichità di Alba Fucens - Roma 1836, pp. 40 e 251) che, cioè, che la Valeria fosse stata proseguita da Alba per Marruvio e Corfinio solo dopo la guerra sociale, opinione che dal fatto sopra notato potrebbe ricevere conferma. Misurata, infine, la linea AB che è di metri 760 ed i diversi segmenti del resto della cinta, si è ottenuto la somma di
L'antica Marruvium.
chilometri 2,900, la quale se non esprime con esattezza la periferia della intera città (giacchè le misure non si sono potute prendere con tutta precisione pel motivo che, specialmente a partire dal molino della Civita, la linea della muraglia è tutt'altro che netta) presenta un errore che non supera i cento metri in meno laonde può affermarsi che il giro delle mura fosse di 3 km. in circa.
Relazione di Francesco Lolli alla Commissione Conservatrice dei Monumenti e delle antichità dell'Aquila.
I Morroni Con questo nome gli abitanti del luogo designano i due mausolei che si ammirano entro l'attuale villaggio, ma fuori l'antica cinta, e sul ciglio destro della via romana, indicati nella pianta sotto il n° II - Ignoro in onore di quali personaggi si elevassero. Di quelli si vede solo l'ossatura, mentre il rivestimento ne è asportato, scomparso, adibitesene le pietre, come si vuole, fin da circa il XVI secolo a ricoprire la facciata della cattedrale di Pescina. Entrambi sono costruiti in opera cementizia silicica a forte malta, la quale con decorso del tempo fece solidissima presa, a diversi spianamenti battuti, di spessezza quasi uguale (circa 50 centimetri) ed in entrambi si osservano in ciascuno simmetricamente disposti, varie morse quadrate di pietra dura, di circa 50 centimetri di lato, incastrate nella muratura per collegare il rivestimento. Il meglio conservato dei detti mausolei è quello indicato in pianta sotto la lettera B. Esso consiste in un dado a base quadrata col lato di m. 7,50 e della altezza di m. 4,50 circa il cui basamento non si vede, nascosto forse dal terreno, e la cui cornice, con severa eleganza, venne omessa. Sul dado si innalza per circa sei metri una rotonda del diametro di circa m. 7, la quale vi insiste su una base di cui si scorge distintamente lo scheletro della modanatura, e finisce in una cupola, tuttora perfettamente discernibile. L'altro (a) che dista dal primo circa quattro metri, ha, come questo, un dado di particolari proporzioni sul quale sorge una piramide a base quadrata col lato di circa 7 metri, alta circa metri sei e la cui forma è tuttora abbastanza chiaramente visibile per la inclinazione delle faccie convergenti alla linea e tevoccinate in punta. Questo monumento ha subito in epoca più recente dei gravissimi guasti: cioè una caverna profonda circa n. 3.50, ed alta circa m. 2,20 è stata scavata sulla faccia occidentale del dado e nella soprapposta faccia della piramide, a circa la metà dell'altezza di questa, è stato strappato uno degli strati della muratura, sicchè quello superiore sporge in fuori, e minaccia di non sostenere il peso degli strati che gli sono soprapposti.
125
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
Tesi di Luigia Cipriani
L'Anfiteatro
126
Relazione di Francesco Lolli alla Commissione Conservatrice dei Monumenti e delle antichità dell'Aquila.
L'anfiteatro si rinviene alla estermità orientale e quasi al punto più alto della città, al di dietro delle mura, nel luogo segnato in pianta col n° I. I due muri di cinta che vi osservò il vescovo Rossi sono affatto scomparsi, non scorgendosene, neanche a fior di terra, traccia veruna. Ora vi si vede una fossa ellittica il cui asse maggiore va dal Nord a Sud e misura tra i due cigli circa n. 92, ed il minore va da est ad ovest per una lunghezza, di m. 76 in circa. Il fondo di questa fossa, molto accidentato, ha una profondità che varia dai m. 0,90 a m. 1,50. Il solo visibile resto in fabbrica dell'edificio trovasi fra le estremità sud dell'asse maggiore, e la estremità ovest dell'asse minore e consiste in un muro cementizio silicico come tutti gli altri finora osservati, di sua natura molto solido, il quale segue più o meno regolarmente il contorno di questo lato della fossa, e si interna più o meno nel terreno circostante, elevandosi fino al ciglione di questo. Presso l'estremità dell'asse minore si nota una cella la cui parete esterna é scomparsa, quella di fronte è lunga m. 180. e delle late rali l'una m. 2 circa e l'altra circa n. 1,50: questi avanzi di pareti sono rivestiti di grossolano reticolato. All'estremità meridionale dell'asse maggiore si eleva dal piano della fossa un arco a volta in forma d'androne, la cui chiave trovasi a livello del terreno esteriormente soprastante; ed ha la corda di m. 3,50 sul piano attuale della fossa e la faccia alta n. 0.90 a partire dallo stesso piano. Una larga lesione attraversa la sommità di detta volta per tutta la sua lunghezza, onde se quella non è ancora caduta, si deve all'equilibrio dell'arco, aiutato forse dalle radici degli olmi che vi sono piantati sopra a poca distanza. A ridosso di questo arco nel terreno soprastante e volgendo verso ovest si veggono a fior di terra cinque pilastri convergenti al centro della ellissi, equidistanti fra loro m. 4, ciascuno largo m. 0,70 e lungo m. 2,50 in circa. La giacitura di tali pilastri, in relazione alla sottostante volta fa' ragionevolmente congetturare che dessi appartennero al porticato esteriore ed agli androni che se ne dipartirono dando ingresso al più basso vomitorio ed all'area, il cui piano trovavasi a livello del terreno esteriore. Sicchè tutto il tratto di fabbrica con la volta precedentemente descritta, sarebbe appartenuto alle costruzioni sotterranee e questa avrebbe forse ricoperto un androne probabilmente di quelli da cui per apposita scaletta si risaliva sopra terra. Ciò che verrebbe raffermato si dalle proporzioni di esso arco che ne eriggono i piedritti almeno di tre metri (pressochè giusta altezza delle costruzioni sotterranee) si dalla presenza della cella summentovata, laonde la fossa che attualmente si vede, sarebbe dovuta alla rovina delle costruzioni suddette, come pur ne darebbero inizio le forti accidentalità del piano della fossa mede sima.
L'antica Marruvium.
La presenza dei suddescritti pilastri permette ancora una congettura sulle proporzioni dell'antico monumento. Infatti, aggiunti circa tre metri -ad ogni estremità degli assi come sopra misurati nello interno della fossa (giacchè non meno di tanto sarebbe la lunghezza degli anziaccennati pilastri, se vi si aggiunge lo spazio per la base della colonna) si avrebbe l'asse maggiore di una lunghezza totale fino all'esterno di m. 98, ed il minore di m. 82, e dando questi diametri una ellissi perfetta, è a ritenere che tale calcolo sia esatto. Ora stabilendo la proporzione fra queste misure e quelle dell'anfiteatro Flavio che ha l'asse maggiore lungo in totale m. 187 ed il minore 155, e nell'arena rispettivamente lunghi m. 85 e 53, e l'altezza totale di m. 49, risulta che gli assi dell'arena nell'anfiteatro di Marruvio sarebbero stati rispettivamente di m. 52 e 36, cioè lo spazio occupato dal portico esteriore dalle fauci e dalle gradazioni doveva essere di circa m. 23, sicchè la faccia del podio avrebbe dovuto trovarsi a circa m. 20 dal ciglio della fossa attuale. E così sempre tenuta presenta la stabilita proporzione col Colosseo, l'altezza totale dell'edificio dovrebbe calcolarsi a circa m. 25, elevazione che permetterebbe tre ordini di arcate, e la capienza ragguagliabile fra i trenta e i trentacinquemila spettatori. La quale ci può sembrare eccessiva per una città compresa nel giro di tre km., non parrà forse più tale se si ripensi che gli spettacoli di questo anfiteatro, probabilmente non frequenti, dovevano accorrere gli abitanti di tutta 1a Marsica ed anche di non poche terre dei popoli finitimi. Considerando, poi, che una ellissi dai diametri di m. 98 ed 82 dà luogo precisamente ad archi di m. 4 di ampiezza e coi pilastri spessi m. 0,70, dei quali archi quattro rispondono alle estremità degli assi e ne sono intersecati giusto nel mezzo, possiamo ricostruirci nella mente l'aspetto esteriore dell'anfiteatro dì Marruvio, come quello di un edifizio ellittico a tre ordini di arcate, con 60 archi per ognuno.
127
Il teatro Le dodici statue, fra cui quelle di Claudio, di Agrippina e di Nerone che, tornate a luce nel 1752, furono mandate ad ornare la Reggia di Caserta, si rinvennero fra gli avanzi del teatro di Marruvio. Il sito che ora la tradizione indìca come que llo ove furono scoperte le statue summenzionate trovasi nello interno dell'attuale abitato, alla contrada detta Largo di Genova dalla casa dei sig.rì di questo cognome. Dinanzi a questa casa, il terreno è notevolmente più alto della sottoposta via Romana, verso la quale per il vicoletto chiamato Forno del Lupo, va, prima con molta rapidità, poscia più lentamente declinando. La predetta casa dei sig.ri Di Genova, dinanzi la quale separatone perpendicolarmente da Relazione di Francesco Lolli alla Commissione Conservatrice dei Monumenti e delle antichità dell'Aquila.
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
128
una strada, si diparte il vicoletto del Forno del Lupo dista dalla via romana poco meno che m. 40. Gli avanzi di antiche costruzioni che si osservano in questo luogo sono i seguenti: Salendo pel menzionato vicoletto a circa 15 metri dalla via Romana, si trova a sinistra la casa di Luigi Tarquini fu Giuseppe dinanzi alla quale si vede un pezzo di muro cementizio silicico lungo circa m. 4, elevato da terra m. 0,40; e proseguendo in su quasi altrettanto, si incontra sulla stessa linea la casa di Alessandro Cataldi che è l'ultima del vicoletto, e che nella facciata che sorge in questo è costruita su un muro antico, il quale all'altezza di circa m. 1,20 dal suolo presenta una notevole superficie tuttora ricoperta di fine reticolato. Sul prolungamento poi verso destra del prospetto di questa casa il quale dà sul largo di Genova, si scorge, poco rilevato da terra un pezzetto di muro anche reticolato, lungo circa mezzo metro che fa angolo retto con la facciata sul vicoletto del Forno del Lupo, ed alla estremità di questo pezzetto di muro si diparte un altro di simile natura e costruzione, in brevissimo tratto (circa mezzo metro) si reinterna nel terreno sotto il vicoletto e sotto le case adiacenti e sovrastanti. Tale muricciuolo sembra accennare ad una linea curva, ma essendo troppo corto ci è stato impossibile accertarsi di questa sua forma e molto più di stabilirne la corda per ritrovare il centro del cerchio al cui arco avesse potuto appartenere. E questo punto dista dalla via Romana per metri 32. Dalla relativa giacitura dei suddescritti avanzi sembra fuor di dubbio che ci troviamo in cospetto di una delle scale per cui si montava nelle cavee, e che di quella l'ultimo dei descritti muricciuoli fosse un gradino, mentre l'altro che con questo fà dente, apparteneva al parapetto di essa scala. Il muro poi che con quest'ultimo fà angolo retto e sul quale è costruito la casa dei Cataldi ci dimostra che 1a sunnominata scala sia quella esterna del primo cuneo di sinistra della prima cavea superiore, mentre il muro stesso dovrebbe rappresentare la parte di fronte alla apertura di quella specie di ala che risulterebbe formata dalla faccia del proscenio, dal muro in discorso e dalla linea comprensiva dei prospetti della scala, della recinzione, e della cavea inferiore.Il muro, poi, che si trova dinanzi la casa di Luigi Tarquini, alquanto in fuori della linea del precedente, avrebbe dovuto appartenere a qualche parte del proscenio. A dare una più precisa idea della casa, abbiamo riprodotta metà della pianta del teatro di Ercolano, segnando in azzurro le linee che noi crederemmo corrispondere a quelle dinanzi esaminate. Considerando poi che la distanza fra il proscenio e la estrema scaletta della prima cavea superiore nel teatro di Ercolano è di 14/70 circa della lunghezza totale dell'edifizio, e che la distanza nel teatro di Marruvio fra i punti corrispondenti sarebbe appunto di 14 metri allo incirca, se
Tesi di Luigia Cipriani
ne potrebbe dedurre che la lunghezza totale di questo avesse dovuto essere di circa m. 70. Con ciò il porticato esteriore avrebbe dovuto trovarsi sul lembo della via romana ed essere eretto sul luogo delle mura, od almeno in tale prossimità a questi, da renderne impossibile la scarpata di terra, la cui base non poteva essere minore di 20 m. circa se l'altezza originaria delle mura avesse dovuto misurare solo fra i 10 e 15 metri sul piano della città. Ma tal cosa sembrerà meno strana se si riflette che dalla pianta Mr Rossi risulta che questo Prelato osservò gli avanzi del Ginnasio in pari prossimità delle mura sulla via Romana. E l'uno e l'altro fatto potrà spiegarsi con ciò, che nella lunga pace portata in questi luoghi dall'impero romano,non ravvisandosi più così necessarie come per lo innanzi le mura di cinta, e preferendosi invece più ampio orizzonte e miglior giunco d'aria, i cittadini di Marruvio avessero affatto demolito gran parte delle loro mura(che per altro, come notammo, fin dall'epoca del prolungamento della Valeria avevano perduto importanza) e quindi rimossane la scarpata, specialmente in questo lato della cinta che prospetta la più vasta e meglio ventilata campagna. Eguale spiegazione danno gli archeologi di simile fenomeno che si riscontra in Pompei, ove le mura che guardano il mare si veggono in gran parte demolite e nel loro luogo costruiti numerosi edifici.
L'area di S. Sabina (Campidoglio) Presso la vecchia cattedrale di S. Sabina ove vuolsi che esistesse il Campidoglio di Marruvio, con un tempio a Giove, la Curia non è visibile reliquia alcuna di costruzione dell'epoca romana. È del pari completamente scomparsi sono gli avanzi del Ginnasio (in pianta n. 5) già osservati da Mr Rossi, e dei quali noi abbiamo potuto soltanto identificare il sito presso la casetta colonica nella vigna di Benedetto Trinchini , a costa della quale casetta passava la via che partendo dalla strada romana lambiva il Ginnasio o pressochè in linea retta menava all'anfiteatro, via che nella pianta fu segnata col n° 7, e della quale le lastre furono scavate ed asportate, a memoria dei giovani padroni della vigna succennata. Vennero benanche completamente distrutti, a quel che ci fu riferito, da 20 0 30 anni in qua gli avanzi del monumento sepolcrale nell'interno delle mura, segnato in pianta col n° 10, e sono attualmente interrati la cloaca, i condotti ed i pozzi di cui ai nn. 14 dà ancora uri filo d'acqua che si vede uscire nell'orto di Davide Ippoliti, come del pari sono al tutto svaniti i ruderi del borgo di cui al n.
L'antica Marruvium.
7. Numerose poi sono le epigrafi (tutte, per altro, edite ed illustrate) che si veggono incastrate nelle case dell'attuale villaggio di S. Benedetto, come frequentemente vi si incontrano adoprati per sedili o per altri umili usi rottami di antichi monumenti, come capitelli spesso elegantissimi, piedistalli, pezzi di colonne, di cornicioni, di fregi e di altre pietre lavorate, ma trattare di queste cose sembra che non rientri nell'ambito dei quesiti a noi proposti. E neppur altro avanzo del1"antica Marruvio oltre i suddescritti si scorge ora sopra terra.
Relazione di Francesco Lolli alla Commissione Conservatrice dei Monumenti e delle antichitĂ dell'Aquila.
129
130
7.La domus patrizia
7.1 Il ritrovamento della domus La città romana si trova, oggi, a non più di 2.50 mt. di profondità rispetto all’attuale piano di sedime del centro abitato. Recentemente, nella primavera del 1993 e nell’autunno del 1994, una campagna di scavi condotta dalla Soprintendenza Archeologica di Chieti, proprio nell’area più centrale del paese, il tratto di Corso Vittorio Veneto, compreso tra Santa Sabina e la vecchia caserma dei Carabinieri, ha portato alla luce una grande domus patrizia (abitazione privata) con bellissimi pavimenti in mosaico. A causa dell’esiguità dei fondi, gli scavi, che hanno interessato un’area di circa 500 mq., si sono dovuti interrompere senza aver neppure completato il ritrovamento dell’intera domus, che probabilmente si estende in misura maggiore della parte venuta alla luce.59
7.2 Descrizione La parte scavata dell'edificio si sviluppa con orientamento nord/est e sud/ovest per una lunghezza minima di 25 metri (dal limite dell’atrium verso le fauces sino al limite del peristilio) per una larghezza accertata di circa 32 metri. La casa si dispone sul fronte strada con il lato più corto; gli ambienti si sviluppano sull’asse centrale atrio-tablino-peristilio, al lato del quale si aprono una serie di stanze variamente decorate con pavimentazione in tassellatum, signino e a tessere appaiate con elementi colorati. Vista la dimensione dell’impianto nel suo complesso e in particolare dell’ atrium (m 13,20 x 8,40) e del tablinium dalla caratteristica forma allungata (m 7,20 x 3,80) , la domus può essere considerata come una casa di grande estensione. L’atrio è del tipo tuscanico ed accoglie al centro l’impluvium (m 3,60 x 4,40) con fondo in lastre in calcare locale; la cornice della vasca è stata asportata in una fase di spoglio degli elementi lapidei generalizzata in tutti gli ambienti sinora scavati. Il pavimenti del grande ambiente di ingresso è un mosaico di tessere nere di mm 9 con inserzioni, ad intervalli regolari di ca. cm 15 di tessere bianche di mm 25, disposte a formare due reticoli sovrapposti di quadrati. Questo tipo di tassellatum, noto fin dall’antichità sillana nell’atrio della villa rustica di Via Nomentana , ha un’ampia diffusione nella seconda metà del I sec a.C. e a Pompei, durante il periodo del Terzo e Quarto stile . Nel nostro esempio è da cogliere il tipo di ordito, Cfr. Roberta Cairoli, Il tesoro del lago:l'archeologia del fucino e la collezione Torlonia. Carsa Edizioni, aprile 2001 59
Particolare di un tassellatu m con motivo della cancellata nel tablinium della domus patrizia
dritto, il doppio reticolato di quadrati disegnato dalle tessere bianche, l’assenza di incorniciatura, che sembra essere elemento decorativo di epoca post-sillana. La soglia di passaggio alle fauces, appena individuata ( cm 75x 55), è sottolineata da un tappetino in mosaico nero con il motivo del cancello bianco. Le dimensioni delle tessere sono di 9 mm di lato; tre filari di tessere bianche a ordito dritto affiancano dalla parte del margine e del campo una fascia di tre file di tessere nere. L’ordito dl campo è rettilineo e il cancellum è disegnato da un primo reticolato di due filari di tessere bianche formanti quadrati di cm 18 di lato e da un secondo, sovrapposto nel senso della diagonale, reso da due file di tessere bianche accostate per angolo a formare quadrati di cm 25 di lato; anche in questo caso un confronto diretto lo offre la villa rustica di Via Nomentana. Sulla destra dell’atrio si apre un corridoio che conduce verso la parte nord della casa. L’ingresso al nuovo ambiente è sottolineato da una soglia di cui è conservato solo un lacerto (cm 18 x 27) che mostra un motivo a losanghe alternate nere e bianche. Una variante del motivo a losanghe è presente nella villa di Albano Laziale ed è databile agli anni intorno al 100 a.C. Il corridoio era separato dal cubiculum da un tramezzo di cui sono riconoscibili le impronte dei paletti di sostegno nel massetto pavimentale. Il corridoio, largo- per un tratto di circa 2 metrim 1,64 , si riduce a m 1,15 nel tratto successivo, che è stato scavato senza trovarne il margine per una lunghezza di m 4,20. Si conserva in tutto l’ambiente un pavimento del tipo a canestro: la balza marginale, di cm 14 sui tre lati e di cm 32 lungo il tramezzo, è costituita da tessere bianche rettangolari piuttosto regolari di circa 2 cm di lunghezza, disposte a coppie alternate nei due sensi. Nel campo l’ordito è costituito dalle stesse tessere rettangolari bianche cui, con una certa regolarità, si accosta una tesserina nera delle medesime dimensioni; tra le tessere sono disposte ad una distanza di circa 10/14 scaglie policrome di forma quadrangolare di argille rosse, nere, ocra e verdi, misuranti cm 3/4,5: un allineamento di scaglie divide il campo dalla balza marginale. Il muro che delimita l’ambiente a sud-est è in opera incerta e conserva lacerti di intonaco bianco dal lato interno; il lato esterno mostra una cortina in opera quasi reticolata, caratteristica visibile in tutte le strutture relative all’atrio. L’ambiente adiacente, forse da interpretare come cubiculum, misura 4,20 x 4 m: la soglia originale, che doveva trovarsi tra due semipilastri, è stata obliterata nel corso di ristrutturazioni successive durante le quali fu ampliato l’accesso dell’ambiente. Si conserva il pavimento dell’intera stanza
131
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
132
costituito da un tassellato (tessere mm 9/11) bianco con cornice nera di sei filari di tessere affiancata su entrambi i lati da tre file di tessere bianche a ordito rettilineo. Il campo è a ordito obliquo piuttosto irregolare e a filari spezzati con tessere più grandi che nel resto della casa (mm 11). La balza marginale che varia di spessore-,da 28 cm sul lato sud-ovest a cm 32 sul lato nord-est, è in tessere allungate bianche di cm 2x1, disposte a canestro. Dal lato opposto all’ingresso vi è una fascia larga circa 1 m con una balza marginale bianca di cm 17 composta da tessere appaiate e campo dello stesso tipo, nel quale sono inserite tessere nere a distanza piuttosto ravvicinata. Il terzo ambiente, identificabile come ala è largo m 3,40 x 3,60 circa; la soglia (m 3,20 x 0,46; tessere 9 mm) , priva di incorniciatura, contiene il motivo decorativo composto di tre filari di tessere nere che si svolge su fondo nero a ordito dritto con l’alternanza di meandri a svastica e a meandri doppi. Non tutta la soglia è visibile poiché in parte obliterata da un muro in opera incerta e frammenti di tegole. Il pavimento dell’ala è in mosaico bianco (tessere 9 mm) incorniciato da una fascia di cinque filari di tessere, limitate da tre filari di tessere bianche sempre a ordito dritto; il campo e la balza marginale (cm 26-27) sono a ordito piuttosto regolare. Questo ambiente fu ampliato in una fase successiva con l’ eliminazione del tramezzo di fondo; la fascia aggiunta (m 4,60 x 3,60) fu pavimentata in cocciopesto. Il rimaneggiamento è evidente nella linea di attacco fra i due tipi di pavimento: il mosaico conserva il nucleo che doveva perfettamente attestarsi al tramezzo di fondo; il cocciopesto sigilla un riempimento poco consistente i pietre, frammenti di laterizi, malta, calce e inclusi di carboni. Anche sul muro di fondo di questo nuovo ambiente si notano momenti di ristrutturazione, nel corso della quale furono messi in opera alloggiamenti rettangolari pertinenti ad una struttura lignea. L’ambiente attiguo(oecus) di forma quadrata ( m 6,50 di lato) è il più grande scavato. Conserva una pavimentazione in battuto bianco con tappeto centrale decorato con fiorellini di cinque tessere nere; spesso al centro dei quadrati sono inserite scaglie di pietra colorata di cm 3-5 di lunghezza su file parallele distanti circa cm 30. Il tappeto è incorniciato da una lunga fila di tessere nere disposte per angolo; la balza marginale in battuto semplice ha una larghezza che varia dai cm 62 ai cm 88, il che evidenzia un non perfetto coordinamento con il muro che perimetra la stanza. Le pareti conservate per un altezza di circa cm 50 sono in opera incerta, ma mostrano risarciture evidenti nei nuclei. Quelli originari sono composti solo di scaglie lapidee e malta , mentre quelli contenenti anche frammenti di tegole risalgono a un secondo momento. E’
Tesi di Luigia Cipriani
sicuramente documentato l’accesso verso il portico, poi richiuso con una tamponatura in opera quasi reticolata che fa da paramento ad un nucleo composto di frammenti di pietre, laterizi e malta. Tutti i diversi momenti strutturali sono intonacati da una serie di pannelli imitanti lastre di marmo di colore e dimensioni diversi. L’accesso verso il tablinum non è documentabile a causa del passaggio di infrastrutture moderne che hanno distrutto questa parte del manufatto antico. Il tablinum è pavimentato con un tassellato ( tessere : mm 9) con balza marginale ad ordito obliquo di cm 18 di larghezza, non omogenea sui quattro lati. Il tappeto centrale è incorniciato da una fascia nera di cm 8 affiancata da tessere bianche a ordito dritto in numero di tre dalla parte del margine e otto dalla parte del campo. Il motivo decorativo del tappeto è il cancello nero di quadrati (cm 14 di lato) reso da due file di tessere affiancate cui si sovrappone il reticolato obliquo di quadrati (cm 22 di lato) disegnati da due file di tessere accostate per angolo. Il motivo del cancello in nero è comune a Pompei in case con pitture el Secondo Stile e a Roma trova confronto nella Casa dei Grifi. Il pavimento, in ottimo stato di conservazione, presenta due tappeti che sottolineano il passaggio verso l’atrio e verso il peristilio. E’ di notevole interesse la rappresentazione che caratterizza la soglia (m 3,42 x 0,92) orientata verso l’atrio. Essa raffigura un edificio ad arcate chiuse da cancelli con griglie alternativamente di quadrati obliqui e di rombi. Sopra il portico corre un fregio con triglifi sul quale si impostano una serie di tetti a spioventi con comignoli. La scena è inquadrata da tre file di tessere bianche. Dalla parte opposta della stanza, verso il giardino, è stato appena individuato un tappeto incorniciato da una fascia nera di undici file di tessere, affiancate da te file di tessere bianche su entrambi i lati. Il motivo decorativo è costituito da un nastro a piccoli quadrati che forma esagoni che includono un altro esagono nero; al centro vi è una stella bianca a sei punte che contiene un altro piccolo esagono nero circondato da un nastro variamente decorato; gli spazi di risulta sono riempiti da figure geometriche. L’esempio più antico del motivo è nella soglia al Vano A della Casa di Livia, databile all’epoca fra Cesare ed Augusto. Più tardi e comuni al terzo stile sono una soglia e il motivo centrale del tablino della Casa VIII 5,16 di Pompei. In forma estesa il motivo è presente nella Villa di S. Marco a Stabia e datato ad età augustea. La copertura dell’ambiente era decorata con affreschi policromi, come dimostrano i crolli degli intonaci pertinenti al soffitto realizzati con l’incannucciata.
La domus romana.
Il portico del peristilio, largo circa m 2,80, conserva nel tratto scavato un pavimento del tipo già descritto nel corridoio sul lato destro dell’atrio, con la variante del bordo di nove tessere nere che riquadra il campo centrale in modo non equidistante dalla strutture murarie. La fascia bianca è a ordito dritto. Dal tablino, attraverso uno stretto passaggio sottolineato da un tappetino di cm 80 x 70 a piccoli quadrati bianchi e neri (cm 10 di lato) attraversati da strisce diagonali bianche sui quadrati neri e nere su quelli bianchi, si passa in un ambiente da interpretare forse come triclinio, della stessa larghezza del tablino e leggermente più corto (m 3,80 x 6,40). L’ambiente è interamente decorato con un motivo a meandro continuo realizzato da nastri neri e da una serie ininterrotta di triangolini bianchi su fasce nere, collocati ciascuno con la punta verso il centro della base del triangolo contiguo. Alle svastiche realizzate da strisce nere continue si alternano i quadrati con il centro realizzato da un gruppo di tessere nere. Il tappeto decorato si estende per tutta la stanza: esso è incorniciato da una fascia nera di sei file di tessere, la balza marginale bianca, più larga sui lati lunghi, è realizzata con ordito obliquo. Nella Villa di Orazio a Licenza il motivo è realizzato con triangoli campiti in nero su fondo bianco. Le strutture murarie verso il tablino e verso l’atrio mostrano la caratteristica cortina double face, in opera incerta verso l’interno degli ambienti e in opera quasi reticolata verso l’atrio. Simmetricamente rispetto all’asse dell’atrio è l’ala sinistra, cui si accede attraverso una soglia a meandro del tutta analoga a quella opposta, ma realizzata al negativo. Poiché in questo caso non c’è stato un rimaneggiamento dell’accesso, possiamo osservare che il bordo termina con due quadrati decorati al centro da motivi geometrici: la clessidra e il triangolo con i lati a scala sormontato da due mezzi triangoli. Il confronto più vicino è la soglia della cd. Sala di Ercole ad Alba Fucens, risalente ad epoca sillana. Un confronto forse di poco più antico è dato dalla soglia della Villa di Albano Laziale, mentre in età sillana risale l’esempio nella casa dei Grifi sul Palatino: il motivo, associato a pitture di Secondo Stile, compare poi in numerose case pompeiane. L’ambiente, su cui incombono le costruzioni moderne, è stato solo in piccola parte scavato; esso presenta una pavimentazione del tutto analoga all’ala destra con tappeto di tessere bianche oblique e fascia perimetrale nera. L’ultimo ambiente da descrivere è quello al centro del lato sinistro dell’atrio, di cui si è potuta vedere una piccolissima porzione caratterizzata da una soglia probabilmente di piccole dimensioni
decorata con un tessellato. Il motivo, realizzato in bianco e nero e incorniciato da una fascia di tre filari di tessere nere, è un quadrato dai lati concavi al cui centro è un cerchio decorato da un cordone prospettico con rosetta centrale a sei petali. Ai quattro lati sono tangenti quattro metà di un motivo a ventaglio. L’ambiente relativo sembra conservare un tappeto esteso a tutta la stanza, decorato con un’alternanza di triangoli bianchi e neri. Lo spoglio degli elementi lapidei ha privato la mazzetta del pilastro, ben visibile nell’ambiente ad esso simmetrico. Il Margine occidentale della casa era occupato da ambienti di servizio e va posto in relazione con la strada su cui si apriva l’ingresso principale della domus. Un pozzo di forma rettangolare, realizzato con pietre di grandi dimensioni su cui si imposta una ripresa in opera incerta, sembra pertinente ad una fase precedente l’impianto della casa. Tra i materiali recuperati dallo svuotamento ancora in corso, un frammento di lastra fittile pertinente ad un doccione con protome di cane. Alcune considerazioni del tutto preliminari, visto che lo scavo è ancora in corso, possono chiarire l’importanza di questo edificio nello studio delle fasi urbane di Marruvium. L’impianto della domus avviene su un precedente edificio coordinato nell’orientamento, realizzato in opra incerta con elementi di calcare locale e nucleo legato da malta di colore giallo scuro, friabile, terrosa e di cattiva qualità, contenente molto ghiaino e scarsa pozzolana. Le fondazioni pressoché inesistenti sono costituite da uno zoccolo di cementizio terra di circa c 10-15, che sigilla un vespaio di schegge lapidee a sacco senza malta. Alcuni di questi lacerti murari sopravvissuti sotto le strutture della domus conservano l’intonaco bianco sul quale si attestano i pavimenti delle fasi successive. L’esistenza di pavimentazioni in fase con queste strutture primitive può essere per il momento documentata con certezza solo nel caso del c.d. oecus. L’abitazione viene strutturata secondo un progetto ben definito, che in parte utilizza le precedenti strutture come appoggio degli alzati successivi. Intorno all’atrio è ben leggibile il fenomeno dell’opera incerta associata all’opera quasi reticolata come paramento di murature in cementizio con malta i qualità migliore rispetto alla precedente. L’ opera incerta con elementi in calcare di dimensioni medio/grandi si regolarizza in vicinanza delle aperture in assise oblique con utilizzo di cubilia, in un quasi reticolato con catena di chiusura in blocchetti di opera quadrata. A queste strutture si attestano in fase tutti i pavimenti della domus, fatta eccezione per il pavimento del primo ambiente dopo il corridoio e per il pavimento del grande ambiente adiacente al tablino, la cui
133
136
tessitura non è coerente con le strutture murarie e il cui gusto sembra discostarsi dal programma decorativo musivo del resto della casa. Non è escluso che quest’ultimo ambiente possa essere riferito all’impianto precedente: in questo caso sembrerebbe voluta la conservazione proprio in questa stanza della memoria del vecchio edificio. L’analisi e i massetti pavimentali conforta l’ipotesi dei due momenti costruttivi: mentre tutti i massetti dei pavimenti musivi sono realizzati con un nucleo molto consistente e compatto di colore rosa carico, quello del pavimento in signino è costituito da un impasto incoerente di frammenti di pietre, calce e malta di colore bianco-grigio. La decorazione dello zoccolo dell’ambiente, riferibile all’ultima fase di ristrutturazione, raffigura un rivestimento di marmo brecciato giallo e rosso (numidico) e bianco e viola (pavonazzetto) nei riquadri maggiori, e di giallo antico nei pannelli minori sottolineati da contorni scuri. La resa pittorica è piuttosto realistica anche se di non alto livello qualitativo e si inquadra nella decorazione di IV stile di ambienti di rappresentanza con elaborati programmi decorativi dell’ultimo periodo di Pompei, nei quali la zoccolatura a lastre marmoree rimanda a significati simbolici connessi con il racconto figurato rappresentato nella parte superiore della parete. La ristrutturazione della domus avvenne fino alla seconda metà del I sec. d. C , seguite poi dalla fase di abbandono e spoliazione dell’edificio, di cui l’unico elemento rilevante è il livellamento intenzionale ottenuto con rasature e colmate di terreno limoso di tipo alluvionale, motivato forse dall’intenzione di una diversa destinazione d’uso dell’area, che non presenta peraltro nessun tipo di frequentazione e utilizzazione neanche in età medioevale, malgrado il perdurare di azioni di espoliazione. Uno strato di terreno bruno lungamente esposto contenente frammenti di malta e di laterizi notevolmente frammentati ed erosi copre tutta l’area. Ad epoca moderna, successiva al terremoto del 1915, vanno riferiti gli interventi infrastrutturali che spesso hanno gravemente danneggiato le strutture antiche.
7.3 L'inquadramento storico della domus Le notazioni tecnico strutturali sui sistemi costruttivi, nonché la documentazione offerta dal repertorio decorativo dei tassellati che trova confronti in contesti di età sillana, quali alcuni ambienti della cd. Casa dei Grifi, o in complessi come la Villa di Pompeo ad Albano (per lo stretto
legame tra architettura e decorazione che ispira il tappeto con scena di acquedotto), l’uso esteso su ampie superfici di passaggio del motivo a canestro con crustae di pietre colorata, cui sono associati tipi di pavimentazione del tutto innovativi (utilizzati- c’è da dire- soprattutto nelle soglie), tutti questi elementi sembrerebbero suggerire una datazione del rifacimento “colto” della domus nella seconda metà del I sec a.C. Questa fase edilizia coerente, nella quale convivono motivi tradizionali e “nuove creazioni” si imposta su una preesistenza sulla quale non siamo sufficientemente informati, che potrebbe collocarsi nel momento precedente la guerra sociale, documentando la presenza nella civitas foederata di Marruvium della residenza privata di grande impegno di un personaggio di rilievo nella compagine sociale dei Marsi. Sappiamo del resto dei precoci rapporti delle aristocrazie marse con la nobilitas romana, cui va forse riferita l’ipotesi di entità urbane precedenti la municipalizzazione da più parti sostenuta, purtroppo senza il supporto di una documentazione archeologica organica. Va sottolineato il caso significativo della famiglia aristocratica dei Vetii Scatones, originari di Marruvium discendenti del famoso praetor Marsorum, che sembra estinguersi dopo il 69 d.C. in concomitanza con la fase di abbandono della domus che, contrariamente a quanto osservato per altri edifici di Marruvium, non subisce trasformazioni d’uso in età tardo antica. Del resto uesta abitazione non sembra isolata nel contesto dei ritrovamenti, purtroppo frammentari, avvenuti nel corso della posa in opera di infrastrutture durante gli ultimi anni, tra cui, ad esempio, l’edificio di Via Decorati, in opera incerta con mosaico di tessere rettangolari bianche e nere disposte a canestro e pavimento in elementi fittili romboidali di varie gradazioni di rosso, lontana imitazione in materiale povero del diffuso motivo di origine ellenistica dei cubi prospettici. Altri ambienti individuati lungo il Corso Vittorio Veneto fanno sicuramente parte dello stesso ambiente culturale e dello stesso ambito cronologico.Il municipium, in analogia con quanto avviene a Sepino, fu ristrutturato nell’età giulio-claudia, quando furono costruiti l’anfiteatro, le terme, la basilica e i quartieri residenziali più vicini alle rive del Lago, la cui irreggimentazione dovuta all’intervento imperiale consentì in quegli anni l’edificazione delle terre circumlacuali, come è ben dimostrabile grazie alle strutture riferibili a domus individuate in località Civita, con muri in opera reticolata e pavimenti in cocciopesto di tradizione ellenistica.
7.4 Lo stato di conservazione dei resti archeologici I sopralluoghi effettuati nell’area della domus patrizia e delle sue strutture protettive hanno premesso di acquisire informazioni relative a: 1. stato di conservazione dei resti archeologici; 2. rapporto tra il sistema museale da un lato e le preesistenza della città antica e il tessuto costruito moderno dall’altro. L’ esame autoptico e il rilievo fotografico hanno permesso di individuare in via macroscopica i principali fattori che causano o potrebbero causare processi di degrado e di elaborare ipotesi sulle condizioni in cui più facilmente si può verificare l’innesco di tali fenomeni. In relazione allo stato di conservazione dei materiali in ambiente confinato, dovuto alla presenza della struttura di protezione e alle partiture di chiusura verticale, e allo stato di vulnerabilità dei reperti immobili, sono stati riscontrati ed esaminati: 1. le condizioni critiche di esposizione: ambiente di protezione con condizioni termoigrometriche, di ventilazione e irraggiamento non controllate; eventuali stratificazioni di masse d’aria; individuazione di situazioni critiche dovute a permamenza di acqua, proveniente da falda e/o infiltrazione; eventuali manifestazioni indotte, quali condizioni per il verificarsi di fenomeni di “effetto serra”; 2. i processi meccanici di degrado: dilatazioni termiche all’interno del materiale superiori ai valori ammissibili; tensionamenti di trazione o compressione del materiale, con microfessurazioni, distacco degli interstrati, mancanza di aderenza al supporto, espulsione di materiale; 3. i processi fisici di degrado: gelo e ricristallizzazione di sali; fenomeni dovuti a permanenza di acqua di falda e/o capillarità con possibile trasporto di sali all’interno del materiale; fenomeni di efflorescenza e subefflorescenza, manifestatisi in funzione delle condizioni di temperatura, umidità relativa e velocità dell’aria in prossimità della superficie; 4. i processi chimici di degrado: alterazioni cromatiche delle superfici; vulnerabilità dei componenti calcarei e silicei nei materiali costituenti; 5. i processi biologici di degrado: formazione di patine biologiche, con sviluppo dei muschi e licheni, conseguentemente alla presenza di umidità e alla scarsa ventilazione; presenza di erbe infEstanti, insediate negli interstizi dei materiali e causa di disgregazione ed espulsione di materiale.
Ad una prima analisi, alla luce dei fenomeni in atto, si può affermare che la copertura permanente e le partizioni verticali realizzate assicurano un buon grado di protezione nei confronti degli sbalzi termici estivi e invernali, della pioggia diretta e della radiazione solare incidente. Di contro, l’ambiente confinato risultante non sembra esercitare un controllo sui fattori di umidità relativa ed assoluta e tende a ridurre eccessivamente la ventilazione dell’aria, sia all’interno dell’ambiente che a ridosso delle superfici orizzontali e verticali. Questo determina in primo luogo delle delta termici, con gradienti verticali elevati tra la temperatura dell’aria in ambiente e le temperature superficiali delle superfici mosaicate a contatto diretto con il terreno, e inoltre sbalzi di umidità accompagnati sia da trattenimento di acqua a ridosso degli intonaci parietali e dei mosaici. Le condizioni termo igrometriche indotte hanno determinato sia il trasporto di sali solubili con rischio di cristallizzazione, sia le condizioni favorevoli per attacchi biologici, con manifesta formazione negli anni di muschi e licheni in numerose zone dell’estensione archeologica. A questo si aggiunge la ridotta ventilazione dell’aria, che rallenta l’evaporazione dell’acqua in prossimità delle pareti intonacate, generando formazione di efflorescenze e sub-efflorescenze visibili in più parti della domus. Le escursioni delle temperature e dell’umidità generano inoltre condizioni di condensazione sia superficiali sia all’interno del materiale, che unite a cicli di gelo e disgelo determinano fratturazioni e distacco di materiale. Il piano degli interventi dovrebbe includere azioni a livello urbanistico e opere correttive sulla struttura architettonica realizzata. A scala urbana è fondamentale captare e individuare il percorso dell’acqua di falda rilevata sul lato sud e prevedere il suo allontanamento dal sito archeologico. In secondo luogo è importante rimuovere dall’area museale i cavidotti tecnologici che lo attraversano e programmare il loro riposizionamento nella sede stradale. Gli interventi architettonici necessari ad un più idoneo funzionamento fluidodinamico dell’involucro possono riguardare: A. Azioni sulla struttura quali: -Rimozione degli elementi di chiusura verticali, allo scopo di favorire una adeguata ventilazione nell’ambiente confinato e la loro sostituzione con idonei sistemi per la protezione e la sicurezza del sito; -Sostituzione del piano orizzontale di copertura con un sistema “leggero” che assicuri protezione
137
138
contro la pioggia e l’irraggiamento solare diretto, ma che consenta anche un movimento omogeneo delle masse d’aria e la possibilità di utilizzare la luce radiante naturale per la protezione dell’opera. B. Introduzione di sistemi meccanici di controllo delle condizioni ambientali i quali: -Assicurino idonei valori di temperatura, umidità dell’aria e velocità dell’aria. Per un eventuale approfondimento della conoscenza dei fenomeni osservati e per valutare la necessità di programmare idonee misure correttive nella struttura di protezione, in futuro è consigliabile la predisposizione di indagini strumentali allo scopo di 1) definire le condizioni climatiche e microclimatiche dell’ambiente confinato nelle condizioni estive e invernali; 2) determinare il gradiente verticale delle temperature in zone ritenute significative; 3) verificare l’eventuale stratificarsi di masse d’aria nell’immediato intorno dei mosaici e degli intonaci parietiali; 4) determinare gli scambi termoigrometrici tra il terreno e la parete; 5) conoscere le temperature sulle superficie musiva nelle diverse condizioni di esposizione ;
139
140
8.Il progetto di restauro
8.1 Il percorso tra i ruderi: rivivere l'antica Marruvium Il percorso di valorizzazione della città di Marruvium si inserisce all’interno dell’Ecomuseo del Fucino. Nello specifico tale itinerario, si articola all’interno della traccia archeologica dell’ succitato ecomuseo. La cittadina di S. Benedetto dei Marsi, antica Marruvium, presenta numerosi lacerti di uno storico e glorioso passato romano. L’idea progettuale è dunque quella di riportarli alla memoria, farli rivivere attraverso i suoi chiari esempi nel tessuto cittadino e valorizzarli. Tale valorizzazione avviene attraverso questo percorso didattico. L’esperienza museale all’aperto permette di poter vivere l’itinerario in maniera nuova, differente e maggiormente immersiva rispetto alla proposta del museo tradizionale. Tale percorso avrà come punto di partenza, il polo museale “Marruvium”, localizzato in zona settentrionale del paese, sulla principale via di collegamento con l’abitato di Pescina, distante 3 km circa. Tale scelta strategica è motivata dalla necessità di attuare un collegamento con lo svincolo autostradale per poter includere il percorso di Marruvium all’interno di un itinerario facilmente raggiungibile e fruibile da parte dei visitatori. Il percorso, dopo una visita guidata nel polo museale, diviso in differenti aree tematiche, continuerà all’esterno, lungo un tracciato definito e studiato. Tale percorso, individuato attraverso una pavimentazione di riferimento e con la presenza di opportuni segnalatori visivi che permettano la distinguibilità di tale camminamento anche nelle ore notturne, si articola nei differenti punti oggetto di visita. Il primo punto del percorso è rappresentato dalla domus patrizia, inserita all’interno di una nuova piazza, studiata e realizzata secondo un progetto di valorizzazione del documento archeologico. Il sistema di protezione, permette inoltre di poter ricreare l’unitarietà degli ambienti della domus e permette di poterla individuare anche a distanza, grazie all’uso di un rivestimento in acciaio duplex riflettente. Dopo la prima sosta, si prosegue con la visita del portale della chiesa di S. Sabina, posta a pochi metri dalla domus, anche essa valorizzata attraverso un progetto di realizzazione di un sagrato moderno e uno spazio verde. Studiata, inoltre, sarà l’illuminazione della facciata, in modo tale da valorizzarne i dettagli e la pregia fattura di scuola duecentesca. Terzo punto del percorso, è la strada romana, localizzata sotto la Piazza Risorgimento, in cui l’osservatore sarà immerso nel contesto della Roma antica, potendo toccare con mano i basoli di pietra calcarea dell’antica via romana, che presenta i segni per l’attraversamento pedonale e quelli
Progetto del nuovo polo museale "Marruvium"
per il passaggio dei carri. Proseguendo lungo il Corso Vittorio Veneto e deviando su via Romana, porzione documentata del decumano dell’antico assetto viario romano secondo studi di topografi e studiosi antichi, si giunge al quarto punto, quello dei “Morroni”. Tali elementi, localizzati nella parte meridionale del tessuto cittadino, rappresentano con ogni probabilità tombe monumentali dedicate, secondo alcuni esperti, agli eroi della Guerra Sociale. Si presentano come elementi massivi ed imponenti, all’interno di una recinzione di delimitazione in cui si nota il tracciato dell’opus reticolatum superficiale. Conclusa questa tappa, il percorso giunge all’anfiteatro romano, localizzato proprio sull’affaccio del polo museale, permettendo dunque di concludere il percorso di visita e poter terminare l’esperienza di immersione nell’antica Marruvium. L’anfiteatro sarà totalmente visitabile, nella sua struttura unitaria venuta alla luce durante le due distinte campagne di scavo. All’interno dello spazio del lotto, sarà riposizionata la struttura che attualmente protegge i resti della domus patrizia, grazie al suo sistema di montaggio ad elementi modulari. All’interno di tale spazio, la stuttura si rivelerà meno impattante rispetto alla sua attuale collocazione e potrà ospitare al suo interno, proiezioni multimediali e spazi laboratoriali, avendo una visuale privilegiata sulla cavea dell’antico anfiteatro. Il percorso, che permette dunque di poter raccontare l’archeologia (da qui il titolo dell’elaborato) attraverso un modus nuovo e itinerante, presenterà infine diversi punti totem che avranno la funzione di guidare l’osservatore nella sua visita e poterlo indirizzare nella sua scoperta del patrimonio archeologico e culturale del paese, fornendo assistenza e informazioni tali da valorizzare a pieno i ruderi romani.
8.2 Il restauro della pavimentazione della domus Il percorso di valorizzazione dei ruderi romani, articolati all’interno dell’itinerario archeologico dell’ecomuseo del Fucino, non può esimere dal rispetto del documento archeologico quale la pavimentazione della domus patrizia. L’intervento di restauro delle superfici architettoniche si prospetta come fondamento per una successiva valorizzazione. L’approccio al sito archeologico deve dunque seguire una metodologia di intervento che ponga l’attenzione, in primis sul recupero e la preservazione dell’apparato musivo. Il primo passo dell’iter è stato quello di individuare i principali
141
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
142
meccanismi di degrado sul tessuto pavimentale e riconoscere tali degradi, in base alla descrizione e alle definizioni della normativa di riferimento “NORMAL 1/88 Alterazione dei materiali lapidei”. Successivamente sono state realizzate delle schede di dettagli di ogni ambiente della domus rilevato, in cui rilievi fotografici di dettaglio, hanno evidenziato la posizione e l’intensità del degrado stesso. Ogni patologia è stata poi analizzata e, nella proposta progettuale, si è intervenuto sul restauro delle superfici architettoniche attraverso le sue canoniche fasi di pulitura, consolidamento e protezione. Nello specifico, sono stati preventivati , in tema progettuali, solo tecniche, materiali e procedure che rispettino il documento archeologico, evitando problematiche in futuro. Nello specifico, la proposta è quella di utilizzare impacchi a base di argilla e solventi in fase di pulitura e solventi organici per il consolidamento. La condizione igrometrica della pavimentazione, fortemente compromessa dall’attuale copertura, si preventiva, mediante la nuova protezione, migliore, permettendo di preservare in condizioni ottimali il tessuto musivo.
8.3 Un nuovo volto per la piazza della domus La proposta progettuale di valorizzazione dell'abitato dell'antica Marruvium prosegue con la sistemazione della piazza della domus. Attualmente tale spazio si presenta come una frattura all'interno del contesto cittadino, da differenti punti di vista. Il degrado, l'incuria e la mancata presenza di un piano di manutenzione hanno fatto sì che tale spazio si tramutasse da centro di aggregazione ed "espositore" dell'importantissima testimonianza archeologica che racchiude, ad uno spazio totalmente anonimo e lasciato all'abbandono. Lo spazio pubblico di una città incarna, ora più che mai, l’opportunità di far sentire i cittadini parte di una comunità con un programma e una visione di lungo periodo. Il luogo ha da sempre rappresentato ed incarnato il sentimento manifesto da parte dei cittadini, primi fruitori del bene, di totale opposizione alla realizzazione dl una piazza, poichè tale soluzione, ha compromesso, notevolmente, la viabilità interna dell'abitato. Il Corso Vittorio Veneto si interrompe bruscamente all'altezza della domus, creando numerosi disagi a causa quindi di questo lacunoso sistema di scorrimento del traffico. Dal punto di visto tecnico formale, la pavimentazione attuale dello spazio presenta la posa di cubetti in porfido bocciardati, notevolmente degradati. L'apparato di arredo urbano, inoltre,
Tesi di Luigia Cipriani
appare totalmente estraneo alla condizione di creare quel senso di unitarietà ed appartenenza che uno spazio pubblico deve avere. Lo stato attuale dunque, ben riassume il notevole degrado e l'obsolescenza fisica e funzionale della piazza. La rilettura storica del luogo suggerisce la permanenza della centralità dello spazio, ripensato in maniera formale e teorica. Questa rilettura deve essere riscoperta nelle fondamenta dell'impronta romana nell'antica Marruvium. Ne consegue che l'intervento segua una linea stilistica e soprattutto critica attingendo dal passato e dal rispetto del documento archeologico. Il progetto prevede infatti che la piazza riscopra la sua funzione di aggregatore sociale, di antico e moderno forum romano, di catalizzatore turistico ma anche di riscoperta per la comunità locale. All'interno del percorso di valorizzazione, la piazza si apre come un punto di percorrenza e fruizione nell'itinerario tra i lacerti romani. La pavimentazione suggerisce una trasposizione degli spazi della domus in superficie. La tessitura appare omogenea e realizzata mediante basoli di pietra arenaria locale di colore grigio chiaro. Le balze marginali si aprono all'osservatore in prossimità dell'ingresso alla visita della domus. La scelta esterna quella linea stilistica di verità del e rispetto del documento archeologico che ritrova la sua unitarietà proprio sulla piazza. Le balze marginali, realizzate con pietra calcarea bianca locale, riprendono la sagoma delle murature di divisione dei differenti ambienti della domus patrizia. L'osservatore si ritrova così a poter trovare un confronto diretto con il lacerto romano, calandosi nella realtà più vera e documentata degli ambienti, delle dimensioni e degli spazi di quella residenza del I seco. a.C. La trama pavimentale funge poi da linea guida, da filo rosso nel percorso di visita dei ruderi di S. Benedetto dei Marsi, guidando l'osservatore ad una fruizione mediante l'ausilio di corrispondenze cromatiche e materiche differenziate dal resto del tessuto cittadino. La linea guida nel percorso è inoltre favorita anche da linee luminose di sequenza poste a raso pavimentazione che, attraverso particolari materiali catarifrangenti, creino un itinerario assistito durante le ore notturne.
8.4 Il nuovo sistema di copertura dei resti archeologici L’attuale copertura a protezione dei resti della domus patrizia, realizzata in acciaio con struttura
Il progetto di Restauro.
modulare a dadi e bulloni, si configura come una frattura all’interno del tessuto cittadino. La struttura attuale appare imponente nella sua consistenza materica e non si relaziona con il contesto , mancando, nello specifico, un dialogo con l’esigenza degli abitanti, primi fruitori dell’intervento. Tale struttura, nella sua sistemazione attuale, impedisce il corso carrabile lungo il corso Vittorio Veneto, che subisce una frattura nello scorrimento veicolare e che ha comportato numerosi disagi. L’evidente supremazia della copertura rispetto al reperto archeologico, soggetto protagonista dell’intervento, risulta pesante ed oppressiva, se non addirittura invasiva ed ha suscitato un sentimento di indignazione e repulsione contro questa sistemazione. La copertura permanente e le partizioni verticali realizzate assicurano un buon grado di protezione nei confronti degli sbalzi termici, dalla pioggia diretta e dalla adizione incidente, ma al contempo, non assicura un controllo sui fattori di umidità relativa e assoluta, riducendo la ventilazione dell’aria. Le condizioni termo igrometriche hanno determinato formazioni di muschi e licheni e la presenza costante di acqua sulle superfici parietali ha determinato efflorescenze e subeffluorescenze in differenti parti della domus. La proposta progettuale, che si articola a livello urbano nel percorso in Marruvium, prevede, a livello puntuale, la sostituzione dell’attuale copertura, rilocalizzata nello spazio attiguo all’anfiteatro romano, con un nuovo sistema di protezione del sito. La nuova struttura, nel percorso progettuale, appare più leggera e snella, meno impattante visivamente, priva di chiusure verticale. Questo espediente consente la ventilazione dell’aria e la protezione dalle precipitazioni e dalla radiazione solare incidente, consentendo un movimento omogeneo delle masse d’aria e utilizzando luce naturale radente per una migliore percezione dell’opera. Dal punto di vista percettivo, la nuova copertura restituisce quella continuità, visiva e ideologica, che l’intervento precedente aveva comportato. La proposta progettuale si delinea come un tentativo, moderno, leggero ed attuale di trattare una tematica importante e delicata come la presenza di un sito archeologico all’interno del radicato tessuto urbano. La struttura di progetto, nel rispetto del documento archeologico, evitando altri interventi invasivi nella fondazione, si ancora ai precedenti plinti di base atraverso un collegamento con una piastra metallica e dei tirafondi. La struttura di progetto si compone di quattro pilastri a sezione circolare, su cui si impostano delle travi a HEB 360 e IPE 240 a sezione variabile, sagomate con connessioni bullonate. A tali profilati metallici saranno connessi pannelli in schiuma di spessore 50 mm mediante dei connettori e sulla superficie un rivestimento con una
lamiera di spessore 0.8 mm in acciaio duplex riflettente. Questa soluzione permette di creare un effetto di leggerezza dal punto di vista strutturale e facilita la lettura del sito archeologico con le sue superfici riflettenti dall’alto.
8.5 Il nuovo polo museale "Marruvium" La proposta progettuale prevede la realizzazione di un polo museale, che si presenta come prima tappa del percorso all’interno dell’itinerario dell’antica Marruvium. Proveniendo dalla città di Pescina, percorrendo il corso V.Veneto che immette nell’abitato, si giunge all’area di parcheggio, individuata nei pressi del polo museale. Dall’area di sosta, si giunge al polo museale, grazie alla guida visiva e materica del percorso, segnato con la medesima pavimentazione e che funge da indicatore dell’itinerario. Il polo museale verrà realizzato, nella proposta progettuale, all’interno di un fabbricato ad uso agricolo di proprietà del comune di S. Benedetto dei Marsi. Attualmente tale edificio si presenta fatiscente ed inutilizzato. ll progetto propone dunque una sua valorizzazione, individuando in tale fabbricato, il nuovo polo museale chiamato “Marruvium”. L’edificio si presenta sul Corso, in posizione strategica per il percorso e soprattutto presenta una vista nella parte retrostante sull’Anfiteatro. Dal punto di vista strutturale non vengono realizzate modifiche, mentre all’interno si procederà con alcune sistemazioni tali da poter ospitare un polo museale. Esternamente verrà realizzata una tinteggiatura e posta una scritta che identifichi il museo. Verrà inoltre realizzata una rampa di accesso per i disabili, così come all’interno, alcuni dislivelli non precluderanno la visita nelle varie alee del museo. L’ingresso presenta una reception, dove iniziare il percorso. Successivamente si apriranno diverse alee, ognuna con una diversa tematica e ognuna riguardante un punto del percorso nell’antica Marruvium che verrà successivamente affrontato. L’idea progettuale è quella di creare un’ esperienza di totale immesione all’interno dell’itinerario, in modo tale da poter prima acquisirele conscenze storiche per poi immergersi nell’esperienza reale del percorso. Gli ambienti verranno dislocati secondo il tipico percorso lineare dell’esperienza museale,
143
Raccontare l'archeologia dell'antica Marruvium Valorizzazione di un percorso di ruderi romani e nuova presentazione della domus patrizia
144
presentando inoltre due ambienti non canonici quali la stanza espositiva dei reperti archeologici dell’antica Marruvium ed un laboratorio didattico. Il piano progettuale prevede la realizzazione di circa 20 parcheggi a servizio del polo museale, il quale si sviluppa su una superficie di 452 m2 e prevede la realizzazione di servizi igenici e diverse zone di servizio come guardaroba e lo spogliatoio del personale nella parte retrostante della reception.
Tesi di Luigia Cipriani
Il progetto di Restauro.
145
9. Conclusioni
L'inizio di questo percorso di ricerca è nato dalle riflessioni sulle potenzialità storiche, artistiche e culturali della zona della Marsica, finalizzato a far conoscere le caratteristiche, i fondamenti storici e culturali dell'area, in modo tale da ritrovare l'identità di valori ereditati dal passato e da trasmettere al futuro. La regione della marsica presenta infatti numerosi esempi architettonici, monumentali ed archeologici di rilievo, troppo spesso lasciati all'incuria del tempo. Di qui l’idea di una proposta finalizzata alla valorizzazione del territorio mediante l’istituzione di un Ecomuseo. Esso è da intendersi come sentimento di appartenenza identitaria al territorio, le cui comunità che vi abitano ne riconoscono e valorizzano le risorse storico-culturali, ambientali, le tradizioni, i beni ed il patrimonio locale. La ricerca, infatti, ha rilevato che in Abruzzo non esiste una normativa regionale in materia di Ecomusei, nonostante sul territorio nazionale ne siano già presenti. Lo scopo precipuo di questa valorizzazione, dunque, è quello di proseguire ed implementare l’opera del MIBACT che, mediante il progetto “Fucino 2017, archeologia a km zero”, prevede di organizzare giornate con visite guidate e sessioni in situ per esplorare e far conoscere ai cittadini il patrimonio culturale, archeologico nello specifico, ereditato dal passato. Dopo un’attenta analisi di tutti gli eventi che hanno caratterizzato nel corso dei secoli il territorio, la proposta progettuale ha delineato un ecomuseo in diversi nuclei tematici: l’ itinerario naturalistico, l’ itinerario monumentale di castelli e torri medievali e quello architettonico-archeologico. Si sono, dunque, analizzati e descritti i vari percorsi permettendo una visione globale dell’Ecomuseo e della sua strutturazione. All’interno dell’ Ecomuseo del Fucino è stato considerato il caso specifico della valorizzazione del patrimonio archeologico e architettonico della cittadina di S. Benedetto dei Marsi, antica Marruvium, capitale della regione dei Marsi. In età imperiale l’importanza di questa località, punto di incontro ed aggregazione della popolazione romana, è sottolineata da numerosi elementi, alcuni dei quali conservati nel tempo e venuti alla luce durante recenti campagne di scavi. Il progetto di valorizzazione ha previsto ,infatti, di realizzare un percorso che si articoli lungo il centro cittadino,
al fine di unire esempi di rilievo, quali l’antico Anfiteatro romano, i resti di una domus patrizia , l’antico portale duecentesco della cattedrale di S. Sabina, unica porzione conservata a seguito del terremoto del 1915, una porzione di strada romana e i Morroni, probabili monumenti funerari romani. Il progetto, avvallato da una ricerca e conoscenza del territorio, ha previsto nello specifico di operare, all'interno del sopracitato percorso di valorizzazione del sito, la riqualificazione dell'area dell'attuale domus, prevedendo una nuova copertura del sito archeologico e la realizzazione di un polo museale della storia e dei reperti dell’antica Marruvium, pensato ed organizzato come un percorso didattico accessibile a tutti. L'obiettivo prefissato da questo lavoro è stato quello di attuare una valorizzazione delle emergenze del terriorio, inserendole all'interno di un percorso che potesse riportare all'attenzione le potenzialità del luogo ed attuare un intervento di restauro finalizzato a recuperare i caratteri espresivi ed originali del grande patrimonio storico archeologico dell'abitato di S.Benedetto dei Marsi.
Appendice
Lac Fucino et les montagnes des Abruzzes, Jean-Joseph-Xavier Bidauld (1789, Metropolitan Museum of Art)
Il prosciugamento del lago del Fucino 149 Il lago Fucino per la sua posizione e bellezza, situato tra i colli e gli alti gioghi dell'appennino, era un vero miracolo della natura. La più antica memoria del Fucino è in Lacrofone, poeta greco, che lo nomina Forco, Dio Marino. Strabone così lo descrive: "Il lago, per ampiezza, somiglia ad un mare e tale pare veramente, perché essendo di figura ellittica, non ha meno di sedici miglia di diametro e, per vari seni e promontori, circa quaranta di circonferenza, quasi eguaglia il Golfo di Napoli". "Si eleva a circa 680 metri sul livello del mare e vi confluiscono i fiumi : Fonte Grande, Capodaqua, Sarcinale, Tavana, S.Marco, L'Aureo di Celano, il Mosino di Avezzano, le acque delle nevi dei vicini monti, nonchè le molte sorgenti, supposte da Seneca e il fiume Giovenco" Il lago del Fucino era il terzo lago per estensione in Italia e misurava circa 145 kmq. Esso era di origine carsica ed era unico al mondo. Aveva come immissario il fiume Giovenco e molti torrenti, ma non aveva un emissario e le sue acque finivano in un inghiottitoio naturale, situato in una località chiamata Petogna; da qui, finivano attraverso un fiume sotterraneo, che passava sotto il Monte Salviano, nel fiume Liri che attraversa la valle dietro al Monte Salviano. La conca che conteneva il lago, si è formata a causa di successivi terremoti, i quali hanno allontanato le pareti montuose, creando questo altopiano. A causa della sua origine carsica, l’inghiottitoio naturale, a volte si ostruiva con i detriti e il Fucino si gonfiava inondando i pochi terreni coltivabili e persino i paesi che lo circondavano, creando molto danno alle popolazioni che lì vivevano. Fu per questo motivo che già nell’antichità si pensò di prosciugarlo.Il primo che si propose di risolvere il problema del Fucino fu Giulio Cesare. Egli aveva concepito un vasto programma di lavori pubblici tra cui la costruzione di un emissario per il Fucino, ma fu l’imperatore Claudio, nel 41 d.C. che realizzò l’emissario del Fucino, con l’intento di reperire nuove terre da coltivare. Il progetto approvato da Claudio non intendeva eliminare del tutto il lago (si prevedeva solo il suo parziale prosciugamento), soluzione equilibrata ed originale che eliminava i danni delle esondazioni, offriva nuove terre da coltivare ed in più salvava anche l’ambiente naturale, con la conservazione di un ampio bacino lacustre, non trascurando le credenze religiose dei Marsi per i quali il Fucino era il “dio Fucino”. Così l’imperatore Claudio, alla fine dell’anno 41 d.C., ordinò l’avvio dei lavori per la costruzione dell’emissario. Occorsero 11 anni e la fatica di 30.000 schiavi per la realizzazione della galleria
sotterranea, lunga oltre cinque chilometri e mezzo. Essa fu scavata tra il lago Fucino e il fiume Liri, nelle viscere della terra, attraverso il massiccio calcareo del Monte Salviano e i terreni più vari e insidiosi dei Campi Palentini ad un centinaio di metri sotto terra. La direzione dei lavori fu affidata a Narciso, il potente e fidato liberto di Claudio. I romani scavarono in gran parte nella roccia, partendo contemporaneamente dai due fianchi opposti della montagna e scavarono molti pozzi, profondi oltre trecento metri, che servirono per trasportare il materiale di scavo e per fornire, insieme a cunicoli e gallerie, aria agli operai che lavoravano nel canale sotterraneo. Essi realizzarono anche un sistema di vasche e di chiuse nelle quali far fluire le acque prima di immetterle nell’emissario, chiamato Incile. Tutto ciò fu concepito non solo con una grande abilità e con una grande esperienza, ma anche con grande perspicacia date le difficoltà che si dovettero affrontare durante l’esecuzione dello scolo delle acque. Terminate le opere venne finalmente il momento dell’inaugurazione solenne. Vi assistettero di persona l’imperatore Claudio, L’imperatrice Agrippina e il futuro successore al trono, Nerone, allora ragazzo di una quindicina di anni. Com’era consuetudine dell’epoca, le grandi opere venivano di solito inaugurate con grandi feste e spettacoli. E per il Fucino le cose furono organizzate in forma eccezionalmente grandiosa con il più grande spettacolo del mondo antico: una grande battaglia navale con l’impiego di cento navi e 19.000 combattenti nelle acque dello stesso lago. All’eccezionale spettacolo assistette una moltitudine immensa accorsa da tutte le parti d’Italia. Al termine si aprì il passaggio alle acque, ma ci si accorse che la quota dell’emissario era troppo alta, per cui furono ripresi i lavori per abbassarla. L ’emissario cominciò comunque di lì a poco a svolgere il proprio compito e i lavori di completamento della rete di canali accessori, proseguì almeno finché visse Claudio, per essere poi abbandonati sotto il regno di Nerone. I lavori furono ripresi dagli imperatori successivi che cercarono di conquistare al lago la maggior parte dei terreni. Non si sa precisamente di quanto i Romani riuscirono a ridurre la superficie del lago. Alla caduta dell’impero Romano, venendo a mancare la necessaria manutenzione, il Fucino ritornò alle dimensioni originarie, provocando spesso esondazioni. Nella prima metà del XIX secolo venne costituita una società per azioni il cui maggiore azionista era Alessandro Torlonia , un ricco banchiere. La società aveva come scopo il prosciugamento del lago in cambio della concessione centennale dei terreni da parte del Re borbonico Ferdinando II.
Prima pagina del quotidinao "La Stampa" 15 Gennaio 1915
150
L’impresa era molto costosa e gli azionisti si ritirarono lasciando solo Torlonia, il quale incaricò rinomati ingegneri idraulici svizzeri e francesi, come Montricher, Brisse Bermont, direttore dei lavori. Questi intervennero, sul canale realizzato dagli antichi Romani, creandone uno tre volte più ampio e abbassando il fondo della galleria in modo da poter avere una quota di presa più bassa di quella romana. I lavori iniziarono nel 1856 e terminarono nel 1869, l’emissario è lungo m 6.301, per realizzarlo furono aperti e restaurati 28 pozzi romani. Dopo il prosciugamento del lago del Fucino, avvenuto con esultanza di tutte le popolazioni della Marsica, furono necessarie opere di bonifica che si protrassero fino al 1876 ed impegnarono ben 4.000 operai al giorno, con una spesa di oltre 30.000.000 lire, somma da capogiro, all'epoca dei fatti. L'emissario, portato a compimento dopo ben 22 anni, dal giorno dell'inizio dei lavori, risultò lungo m. 6301 con un dislivello di m. 6.05 ed una sezione di m2 19,6 e una capacità effettiva di smaltimento di circa 33 m3 al secondo, che si mostrò sufficiente per il completo svuotamento del lago. Successivamente iniziarono i lavori per la sistemazione idraulica del bacino. Fu scavato un grande canale lungo più di 11 km e largo m 15 che scarica le sue acque nell'inghiottitoio "Incile". A distanza di 1 km l'uno dall'altro, furono scavati i canali laterali, perpendicolari al collettore principale. Una strada di 52 km, circonda il bacino; da questa dipartono 46 strade parallele, ortogonali fra loro e ai canali laterali; in totale una rete stradale lunga 272 km, 100 canali principali e 681 canali secondari e fossati. Dei 16.500 ettari sottratti al dominio delle acque, 2500 furono dati parte agli abitanti e parte agli enti dei comuni riviareschi; il resto rimase proprietà assoluta del principe Torlonia e fu diviso in poderi di 25 ettari ciascuno. I coloni vi giunsero da tutto l'Abruzzo, dalle Marche e persino dalla Romagna. Dopo la seconda guerra mondiale, L'Ente Fucino, subentrando nell'Agro al posto dell'Amministrazione Torlonia, vi esercitò in conformità della legge stralcio di Riforma Fondiaria, tutte le funzioni relative all'espropiazioni, trasformazioni ed assegnazioni dei terreni ai contadini dei territori compresi nei vari comuni fucensi. Attualmente il Fucino è una conca fertile coltivata a ortaggi, in esso si trova il Telespazio (principale operatore nel mondo di servizi spaziali). L’emissario del Fucino è per importanza la terza opera idraulica al mondo dopo il canale di Suez e quello di Panama.
Il terremoto del 13 Gennaio 1915
Il 13 gennaio 1915 alle 7.53 del mattino, un violento terremoto colpì l’Italia centrale, provocando danni gravissimi ad Avezzano, in tutta la Piana del Fucino e in numerose località della Valle Roveto e della media Valle del Liri. L’intensità macrosismica stimata sulla base della distribuzione dei danni fu dell’XI grado della scala MCS, la magnitudo (Mw) 7.0. Le vittime, secondo studi recenti, raggiunsero complessivamente il numero di 30.519. Il catastrofico terremoto della Marsica è uno dei disastri sismici più importanti e famosi della storia italiana, secondo solo, nel Novecento, al terremoto del 28 dicembre 1908: enormi distruzioni si ebbero in tutti i paesi della zona del Fucino, alcuni dei quali furono completamente rasi al suolo con un’altissima mortalità. Avezzano, principale centro amministrativo dell’area, perse più dell’80% dei suoi abitanti (10.700 morti su un totale di poco più di 13.000 residenti).Come riporta il noto sismologo dell’epoca Alfonso Cavasino nel suo volume del 1935 sui terremoti d’Italia, il terremoto non fu preceduto da scosse premonitrici. I paesi di Avezzano, Cese, Cappelle, Massa d'Albe, Ortucchio, Pescina, Gioia dei Marsi, Lecce nei Marsi e Luco furono completamente rasi al suolo tanto che ai soccorritori fu spesso impossibile riconoscere le strade, i palazzi nobiliari o le semplici abitazioni che ne caratterizzavano i rioni. Gli abitati di Celano, di Cerchio e di Trasacco, Collelongo furono in parte risparmiati mentre danni ingenti si contarono nei centri della valle Roveto, fino a Sora e a Isola del Liri, nel basso Lazio e, verso nord, a Torano, Corvaro, Rieti. Si contarono, alla fine, ben 52 centri abitati distrutti o fortemente danneggiati dal terremoto; le regioni maggiormente interessate furono, altre all'Abruzzo, il Lazio, la Campania e l'Umbria. La morfologia delle campagne fu sostanzialmente modificata dalla comparsa di voragini e profonde spaccature che testimoniavano la presenza di faglie e movimenti tettonici. In alcuni punti il terreno si sollevò anche di diversi centimetri. A Trasacco la scarpata di faglia raggiunse in alcuni punti gli 80-90 cm, mentre verso Pescina il dislocamento verticale si assestò su una media di 30-40 cm con punte di 60-70 cm. I primi soccorsi “ufficiali” arrivarono da Roma grazie ad un treno speciale partito da Termini alle ore 13.00.Alle 13.55 del 14 gennaio giunse, alla stazione di Avezzano, il treno speciale con Re Vittorio Emanuele III e il suo seguito che “visiterà le rovine della città e porterà conforto alle popolazioni colpite dall'immane disastro”.
151
Bibliografia Maurizio Maggi , Vittorio Faletti, Gli ecomusei. Che cosa sono, cosa possono diventare, Allemandi, 2001. Ribaldi Cecilia (a cura di), Il nuovo museo. Origini e percorsi, Milano, Il Saggatore, 2005. Marc Leanen, A new look at open-air museum, monumentum, volume XX, 1982. Basso Presutti (a cura di), I luoghi del museo. Tipo e forma tra tradizione ed innovazione, Roma, Editori riuniti, 1985. Huges De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, CLUEB, 2005. Emilio Cerasani, Marruvium e S.Sabina. Memorie storiche di due civiltà, Pratola Peligna, 1986. Giuseppe Grossi, Carta archeologica della Marsica, Avezzano, 2011. Adriano La Regina, Abruzzo e Molise. Guide archeologiche, Laterza editore, Roma-Bari, 1993. Fulvio D’Amore, La Marsica tra il viceregno e l’avvento dei Borboni (1504-1793). Vita pubblica, conflitti e rivolte, Adelmo Polla editore, Cerchio, 1998. Carlo Perogalli, Castelli d’Abruzzo e del Molise, Gorlich, Milano, 1975. Giuseppe Grossi, Marsica giuda storico-archeologica, Aleph editrice, Luco dei Marsi, 2002. Giuseppe Grossi, Marsica sacra, LcL industria grafica, Avezzano, 2004. Francesco Lolli, Relazione su “Gli avanzi di Marruvium”, Avezzano, 1891 Federico Niccolini, Parco nazionale d’Abruzzo: un modello aziendale e manageriale di parco naturale, Roma, Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo, 1998. Fulco Pratesi e Franco Tassi (a cura di), Parco nazionale d’Abruzzo: alla scoperta del parco più antico d’Italia, Pescara, Carsa, 1998. Antonio Gavini, Storia dell’Architettura in Abruzzo, Milano-Roma,1927. Cesare Letta-Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975 Emilio Cerasani, Marruvium e S. Sabina, memorie storiche di due civiltà, Sulmona, 1985. Andrea Di Pietro, Catalogo dei vescovi della diocesi dei Marsi, Avezzano 1872. Roberta Cairoli, Il tesoro del lago:l'archeologia del fucino e la collezione Torlonia. Carsa Edizioni, aprile 2001. Adele Campanelli in C. Varagnoli, Conservare il passato. Metodi e desperienze di protezione e restauro nei siti archeologici, Roma, 2000. Sandro Ranellucci, Coperture archeologiche. Allestimenti protettivi sui siti archeologici, DEI editore, 2009.
Sitografia http://www.ecomusei.eu http://www.unesco.it/ http://www.parcoabruzzo.it/ http://www.parcosirentevelino.it/
Documentazione archivistica Archivio Diocesano dei Marsi Archivio comunale S.Benedetto dei Marsi Archivio Bibliotecario S.Benedetto dei Marsi Archivio Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici dell'Abruzzo
Tavole Gli ecomusei e le leggi in materia ecomuseale L'Ecomuseo dell'Altopiano del Fucino I percorsi dell'Ecomuseo del Fucino L'itinerario archeologico L'itinerario naturalistico L'itinerario medievale Il terremoto del 1915 Il prosciugamento del lago del Fucino L'antica città di Marruvium Inquadramento territoriale generale Il percorso archeologico L'anfitatro romano I mausolei funerari "Morroni" La strada romana La Chiesa di S.Sabina - Evoluzione storica La Chiesa di S.Sabina -Rilievo con trilaterazione La chiesa di S.Sabina - Restituzione grafica dei prospetti mediante fotopiano La chiesa di S.Sabina - Rilievo del degrado e trattamento delle superfici architettoniche La domus patrizia La domus patrizia - Inquadramento urbano e rilievo dello stato di fatto La domus patrizia - Rilievo- Restituzione grafica architettonica della pavimentazione La domus patrizia - Rilievo- Restituzione grafica della pavimentazione mediante fotopiano La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente oecus La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente peristilio La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambinte tablino La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente triclinio La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente atrio La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente cubicolo La domus patrizia - Rilievo- Analisi del degrado della pavimentazione ambiente ala La domus patrizia - Criticità dell’attuale copertura del sito archeologico Le coperture dei siti archeologici - Approccio metodologico all’allestimento Le coperture dei siti archeologici - Riferimenti formali Nuova sistemazione della piazza della domus e dettagli del percorso archeologico Nuovo sistema di copertura del sito archeologico Viste di progetto Il polo museale "Marruvium" Proposta per una legge regionale a tutela degli ecomusei
Altopiano del Fucino
Ringraziamenti
Desidero in primis ringraziare il professor Claudio Galli il quale mi ha accompagnato durante questi difficili mesi nella realizzazione della mia tesi di laurea, mostrando sempre vivo interesse per le tematiche affrontate e credendo nelle potenzialità di questo lavoro. Un ringraziamento a tutti i docenti, i tutor e ogni figura accademica che ha permesso, seppur con qualche difficoltà, che arrivassi alla fine di questo percorso con un ricco bagaglio di conoscenze ed esperienze, utili nel lavoro ma spero ancora più nella vita. Un ringraziamento particolare ai tecnici comunali di S. Benedetto dei Marsi, gli ingegneri e i tutti coloro che con i loro consigli e la loro disponibilità sono stati un aiuto prezioso per il mio lavoro di ricerca. Un grazie speciale, lo devo sicuramente alla mia professoressa di liceo, Fernanda Donati, la quale mi ha trasmesso l’amore per la storia dell’arte e dell'architettura, nonchè la passione per il disegno tecnico, portandomi a intraprendere questo percorso di studi. Un pensiero dolce e nostalgico lo dedico alla città di Bologna. A 19 anni mi hai accolto, con una piccola valigia e tanti sogni nel tuo rigido inverno. Sei diventata dolce, calda e rassicurante con i tuoi portici e il profumo di ragù ad ogni angolo di strada. Ti lascio ormai grande e spero matura, ma di te, mia cara Bologna, conserverò sempre un piacevole ricordo, ovunque sarò nel mio futuro. La mia avventura universitaria non sarebbe stata la stessa senza le persone stupende che ho conosciuto e che mi hanno aiutato in questo percorso, condividendo gioie, esami, nottate di progetti ma anche semplici momenti tra quelle aule di ingegneria che difficilmente dimenticherò. Grazie dunque ai ragazzi della compagnia. Grazie Guido, Francesco, Elia, Giacomo, Enrico, Davide , Alberto e Fabrizio, perché, anche nei momenti più difficili, riuscivate a strapparmi un sorriso. Più di un semplice grazie per questi anni lo devo invece alle ragazze. Amiche migliori delle mie “Mamas” non potevo trovare. Siete state più di semplici compagne di corso, siete state tutte coinquiline, sorelle e famiglia, per me. Grazie Maria Sofia, per la comprensione, il tuo supporto nei momenti difficili e i continui incoraggiamenti. Grazie a te Benedetta, per essere stata sempre un’amica sincera, leale e presente; la tua risata, la tua spontaneità e le mille storie da raccontare sono state la medicina migliore capace di strapparmi sempre un sorriso. Un ringraziamento particolare a Giulia. Sempre disponibile, dolce e attenta. Difficilmente potrò dimenticare tutte le storie vissute insieme.
Difficile trovare le parole per descrivere quello che sei stata per me, Francesca. Sincera, diretta, premurosa e attenta. Spesso, per capirci, non serviva neanche parlare. Dal viaggio a Barcellona alle revisioni di tesi andate male, dal "dormire da te Gigia” alla pizza del venerdì. Mille le storie vissute, tante altre ce ne saranno. Potrei dilungarmi per ore, ma ti voglio dire grazie per avermi capita, sostenuta e incoraggiata sempre. Grazie per aver tirato fuori lati di me che non pensavo di avere. Sono orgogliosa di aver affrontato questo percorso con te, e sono fiera di come, oggi, lo concludiamo. Condividere questo giorno di festa è forse il più dolce dei ricordi che conserverò. Alla mia amica, Caterina, riservo i ringraziamenti più forti. Mi scappa sempre un sorriso quando penso a quel giorno di settembre, quando ci siamo conosciute. Mai avrei immaginato cosa saresti diventata per me. Grazie per avermi fatto entrare nella tua vita, per la pazienza infinita che hai avuto, per la tua innata capacità di ascoltarmi, comprendermi e consigliarmi. Grazie per tutte le volte che hai creduto in me, quando nessuno lo facevo, quando c’era da stringere i denti, da piangere, da alzare la voce ma poi sempre da abbracciarsi . Grazie perché ci sei sempre stata, ci sei adesso e sono sicura che ci sarai, per tutta la vita. E’ stato un privilegio condividere un pezzo di strada con te. Ti ho osservata dall’ultimo banco durante gli esami, quando ti cercavo per un cenno d’intesa, ti ho osservato con gli occhi lucidi quando, dallo stesso banco, sei stata proclamata ingegnere e ti vedrò sicuramente adesso, quando, a ruoli invertiti, sono sicura sarai fiera di me. Sicura che sarai una costante nella mia vita, ti dico semplicemente che sei stata la cosa più bella di questi anni.ù Durante il mio periodo di studi in Portogallo, non posso non citare Livia e Luani. Avete portato un po’ di allegria brasiliana durante i freddi mesi a Guimaraes, grazie per avermi ascoltato, compreso e per ogni risata che mi faceva sentire meno lontana da casa. Un grazie speciale lo riservo a Josè Diogo. Tra le tante cose che vorrei dirti, ti ringrazio semplicemente per avermi preso per mano, pazientemente, regalandomi dei ricordi indelebili che porterò sempre nel mio cuore. La gioia più grande di questo percorso è sicuramente la possibilità di avere accanto a me le amiche di una vita. Desidero ringraziare Giulia, che nonostante la lontananza riesce ad essere sempre, con la sua gentilezza e la sua disponibilità, un’amica speciale. Grazie a Simona, l’amica matta, esuberante e folle; i rari momenti in cui riusciamo a vederci e la spontaneità di ogni risata per i nostri ricordi sono la dimostrazione della nostra amicizia. Grazie ad Anna ed alla sua esuberanza. Ringrazio con tutto il cuore Emanuela,per essere stata spesso la mia sostenitrice numero uno. Gentile, premurosa, sempre pronta ad incoraggiarmi. Non c’era difficoltà, ostacolo o esame che non poteva essere
superato senza le sue parole. Grazie Manu per esserci stata e per esserci sempre, ovunque saremo. Difficile descrivere Chiara con poche righe. Semplicemente grazie per essere al mio fianco, con il tuo fare silenzioso, da tutta la vita. La nostra foto il primo giorno d’asilo, strette mano nella mano, è esattamente allo stesso posto da quando è stata scattata, mentre continuo a collezionare momenti condivisi di gioia. Sei sempre stata al mio fianco e sempre dalla mia parte e oggi sono orgogliosa di condividere questo traguardo con te, sicura di averne altre mille da festeggiare insieme. Infine, il mio ringraziamento più sentito è quello dovuto alla mia famiglia. Vivere soli, lontani dai propri cari e dai luoghi che chiami casa è sempre molto difficile, ma grazie alla vostra presenza, al vostro affetto e al vostro amore, questo percorso è stato più semplice da sostenere. Ringrazio i miei nonni, dalla più semplice parola di incoraggiamento alla coccola di un pranzo appena tornata. Grazie ai miei zii e ai miei cugini. Ringrazio Tullio e Ivano per avermi sempre incoraggiato e sostenuto. Un pensiero speciale, lo riservo alle donne della mia famiglia. Grazie zia Erminia, sei per me una seconda mamma. Sei una donna forte, determinata e coraggiosa. Da zia, mi hai coccolato, incoraggiato, sostenuto e confortato. Grazie alla tua crema miracolosa, che mi faceva passare ogni male prima della recita all’asilo. Grazie per tutto quello che mi hai donato in questi anni. Grazie per i due splendidi regali che ci hai fatto, nella speranza di poter essere per Gea e Lisa, anche solo la metà di quello che tu sei stata per me. Grazie a mia sorella Serena per essere, semplicemente, mia sorella. Infinitamente grazie per ogni parola di conforto e sostegno. Anche se non te lo dico spesso, sono fortunata ad averti. Tutto quello che ho costruito fino ad adesso sarebbe stato impossibile senza di loro, quindi la mia dedica totale, è quella che riservo ai miei genitori. Grazie mamma e paà per avermi donato, tra tutte le cose, la libertà. La liberà di scegliere, sbagliare e imparare nella vita. Grazie per aver appoggiato ogni mia scelta, ogni decisione. Ho percorso tutta la strada fin qui, sicura di avervi sempre accanto. A te mamma, che sei una donna forte, determinata e coraggiosa, ti dico grazie per avermi insegnato a credere in me stessa e a non avere mai paura. Sei il mio riferimento, la donna che vorrei diventare da grande, la mamma che vorrei essere per i miei figli. A te papà, ti dico grazie per tutto. Grazie per i valori che mi hai trasmesso, per avermi insegnato la gentilezza, il rispetto per gli altri e quanto il duro lavoro possa ripagare gli sforzi. Grazie per l'amore che mi hai trasmesso verso questa terra, che mi ha spinto ad intraprendere questo percorso ancora più
convinta e fiera e che porterò sempre nel cuore, ovunque io sia nel futuro. Spero che oggi possiate essere orgogliosi di me.
Luigia