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Carla Saracino
14 fiabe ai 4 venti
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Titolo / 14 FIABE AI 4 VENTI Autore / Carla Saracino Copertina e illustrazioni / Iroki Progetto grafico e impaginazione / Piera Girardi
Carla Saracino
14 fiabe ai 4 venti
TUTTI I DIRITTI RISERVATI Copyright © Lupo Editore 2009 ISBN 978-88-95861-47-0 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Editore. Via Prov.le Copertino-Monteroni (km. III - cp. 34) 73043 Copertino (Lecce) • Tel. /Fax 0832.931743 www.lupoeditore.it • info@lupoeditore.it
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Nessuna fiaba, come la vita, è ideale ma ogni fiaba, piÚ della vita, è reale.
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Una premessa antimoderna Farò una prefazione platonica e antimoderna, ma non nostalgica, perché questo è l’unico modo per comprendere un libro di fiabe che sia tale: fatale. Per comprendere l’aspirazione alla grandezza, non solo letteraria, ma di stato e di forma, bisogna saper leggere oltre le righe, saper entrare in un modo di percezione che è quello di una lettura totale e non solo del testo; di quel testo o di questo. Si dice che ogni libro tradizionale di fiabe riporti alla normalità di uno stato che è e che agisce e non solo che dice, che sorprende, che meraviglia. Uno stato di grandezza (ogni grandezza è una misura, e pertanto è finita, esatta; ricordo che il concetto di infinito era nelle società tradizionali sinonimo di male) che nel libro di fiabe riposa nello sguardo non distratto dal mondo di cose precipitate. E dove sarebbero queste cose precipitate, morte? Ma nell’inverno dello stile, delle forme che è la modernità, nella sua culla predatoria che compare invece ammansita, e pertanto più pericolosa: ecco, vedete?, una figura di spettro grigio di gregge attraversa ora un clinale vertiginoso che scende dai monti della Felicità, fino ad un piano appiccato dal falò democratico del Novecento, dove non resta che scaldarsi ad un fuoco fatuo. Dobbiamo solo guardare qui e là, intorno, e senza troppi binocoli, monocoli, strumentazioni che ingrandiscano, e se solo abbiamo coscienza del tempo, come si ha coscienza della morte, ammetteremo di essere in un tempo che si ricicla, che si copia, perché siamo finiti nel postmoderno, che è una citazione perenne di tutto il moderno. In questo tempo nevica da secoli ormai su ogni aspirazione alla felicità; è un tempio buio e senza misericordia, dove le uniche padrone (come due matrigne uscite dallo zibaldone d’un an-
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tico libro di miti) sono la carestia di immagini (di immagini vere, archetipiche, centrate, bachelardianamente riposanti; al contrario esistono solo immagini centrifughe, fragili) e la disperazione del cuore (è o non è il Novecento il secolo delle psicosi?). Per di più questo tempo non ha memoria, né presente, ma vive per una spasmodica, nervosa attesa di qualcosa che deve compiersi, che sta per compiersi, come se un virus letale fosse annidato nei fasci di nervi, prima di esplodere nella notte di una sindrome. Le immagini del postmoderno sono figure imprecise, frame, frammenti di un cosmo disgregato, senza ordine, né confini; senza grandezza. In un mondo che vede dal ‘Don Chisciotte’ in poi null’altro che esempi anti-epici, la raccolta di fiabe della Saracino costituisce uno dei rari modi di inventare (nel senso di ritrovare) l’epos e renderlo agente.
stilemi all’incirca archetipici); più Cristina Campo che non il Rodari, che pedagogizza con una leggerezza che l’infanzia non può conoscere, e che lungi dal lenire, nel tempo maturo ammalerà. Come leggere il libro? Chi lo legge? Questo non è per fortuna ‘ancora un libro di fiabe per la salvezza dell’infanzia’, né è il solito esercizio grafologico in cui si spreme la fantasia come per un fake fantasmagorico, quanto l’anima di un morto percepita nella mente errante di un medium. Per fortuna i bambini, ma anche gli adolescenti, comprenderanno il libro dal suo giusto verso, ma noi? Come dovremmo leggerlo questo libro? Né dalla parte del ‘res censore’ che vede il suo ‘oggetto-cosa’ come un’altra delle tante che si ammucchiano nello scaffale–magazzino per la provvista culturologica, né con occhio avido, computazionale, che aggiunge ‘14 fiabe ai 4 venti’ al libro contabile né, peggio, come l’incantato che dice ‘oohhhh’ davanti ad una scrittura che racconta il meraviglioso.
Al tempo del postmoderno, l’archetipo, che dovrebbe essere il volto di un dio (eidòs), diventa, irrazionalmente, il rostro di una conoscenza e di una pedagogia impraticabili. Ed invece, e proprio in ‘questo’ luogo, si inizia la via della Saracino verso la scrittura in fiaba. Laddove non ci sono che miserie, rovine (“questo è un mondo di rovine”, Evola) la Saracino scrive nella giusta forma temperante tra interno ed esterno, tra accoglimento ed espressione, tra intimo e relazionato, tra drammatico e comico, greve e leggero. Insomma, letti così, questo libro, questa autrice, sono miracolosamente classici. Voglio dire che esiste una tradizione di ‘fiabe’. Ed è la medesima che si raccoglie qui. Più che originale, questo libro della Saracino è tradizionale. O meglio è originale nel senso tradizionale. In ‘14 fiabe ai 4 venti’ c’è più il Basile dell’insuperabile Pentamerone, che non La Fontaine delle corti leziose di una monarchia decaduta; più i fratelli Grimm, che non Perrault (che pure conserva
Il potere pedagogico delle 14 fiabe risiede nell’essere originario dell’immagine, che più che essere raccontata per espedienti curiosi, è espressa nella fedeltà alla sua forma, quasi a priori;
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Lo si leggerà con realismo. Questo è un possente libro di fiabe di una poetessa. E nient’altro. E come la poesia della Saracino ambisce a riconoscersi in forma di cose di realtà (non cose-oggetto, non cose e basta, ma stati, condizioni), questo libro è istituito nella realtà che può raccontare: la realtà dell’epos, anche se vista con gli occhi e per gli occhi dei bambini; i quali, e sia detto senza retorica pedagogica, sono davvero mitici, epici, reali più della realtà frazionata del mondo degli adulti.
e giammai nella sequela dei fatti riproduttivi, che le macchine letterarie sanno ormai far funzionare negli scrittori senza troppo talento, che riproducono, che si clonano. Letta in quest’ordine l’opera di fiabe è antimoderna anche nell’indice della sua pedagogia. Per noi che abbiamo l’ambizione alla felicità come ad un fatto non contaminato, ma appunto puro (in sé, per quello che si è; puro come è l’affermazione dell’identità fuori dall’essere allogeno, dalla maculazione dell’altro), ridotto all’uno, essa costituisce un testo di alta levatura pedagogica, perché insegna la fenomenologia dinamica delle forme immaginative e il loro congregarsi in risultati di fabula. Nulla è più educativo della struttura e della forma di un mitologema che sta al fondo dell’òntos, più che nella superficie di una cultura. È all’archetipo che guarda l’autrice, ma con un movimento di stile interno che fa scoprire ed esprimere le forme che sono nelle fiabe tradizionali. Perché Il rischio occorso alla scrittrice sarebbe stato quello di entrare in un’altra copisteria: quella di un tradizionalismo vano, vuoto; come per esempio è quello tramandatoci dai dizionari senza nesso della cultura moderna, che già dal Rinascimento non conoscevano della classicità che un’allegoria muta, perduta. Ma gli dei, gli eroi, i Principi, i Re, le forme animizzate della natura soprattutto, qui ci sembrano vivi, antropomorfizzati nella misura di una conoscenza che è realmente umana, ma non umanistica, nel senso della ossessione antropocentrica, giocata in senso progressivo e tecnico.
C’era una volta un antiquario, collezionista di cianfrusaglie e sciocchezzuole, un affabile vecchietto dai modi cortesi. Nella sua bottega era esposto un poco di tutto: dai vecchi manuali per cucina alle armature da guerra. [...] A ogni ora si compiaceva del suo mestiere, farfugliava nell’aria la contentezza d’essere, a suo dire, uno dei massimi antiquari della Terra. Un libro di fiabe è pedagogico perché ci insegna un tempo rallentato, che deve anche coincidere col tempo della sua lettura e della sua meditazione. Un tempo che aspira non al suo exitus, ma alla sua anteriorità; anzi, e ciò è miracoloso, le fiabe progrediscono verso l’exitus anteriore. In questo senso ogni fiaba (tradizionale) è proustiana, senza dover citare la madeleine, ed è universale, senza essere gruppale, globale, internazionalistica, universalistica. Perché nella fiaba l’infanzia non è l’infanzia del mondo, ma lo stato del mondo. La fiaba non sta nel tempo, ma nello spazio, dunque. Non essendovi diffrazione nel movimento di ‘archetipo-fabula’, ma solo somiglianza o opposizione, infine, c’è spazio solo per una conoscenza diretta e reale, che ha come fine non la conoscenza del mondo, ma il suo riconoscimento; che dura, durerà fino a quando, terminato il libro, girate le lancette, non ci diremo gettati ancora nell’incuria di essere adulti. Michelangelo Zizzi
Nel ‘luogo–stato’ del fiabesco non c’è spazio per la diffrazione. Ogni cosa ambisce ad essere solo se stessa, non altro. In questo libro di fiabe, come in ogni libro della tradizione, l’ambizione è una forma dell’espressione di sé:
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1. I quattro venti
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n una casa sul mare, tanto piccola da potervi entrare col solo dito della mano, viveva un’anziana donna, madre di tre figli caduti nella guerra dei Quattro Venti. L’anziana aveva una salute molto debole e mangiava davvero poco. Da quando ai suoi figli era toccato in sorte di morire ancora giovani e nel fiore delle forze, ella aveva perduto anche le sue. Così magra, così sottile, così moribonda, la si vedeva camminare lentamente, a piccoli passi, solo nel pomeriggio, quando andava a prendere l’acqua dolce dal pozzo che stava ai confini del mare. Rincasava presto, appena in tempo per richiudere la porta dietro di sé, allorché cominciavano a sbuffare le Tempeste Raccolte. Il luogo dove abitava l’anziana era infatti posto al centro di tutti i capricci del clima. Proprio sul capo della casa pendeva una parte di cielo che pareva una brace. Noto fin dall’antichità sulle carte degli avventurieri per essere il punto di raccolta di tutti i venti, questo lembo di terra desolato, in cui passava i suoi giorni la donna, era
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spessissimo attraversato da vortici di aria così grossi e aggressivi da far rabbrividire anche i più temerari. Il piccolo ricovero dell’anziana aveva resistito, nel tempo, a tutte le calamità e nessuno mai scoprì come. Forse, si raccontò molto tempo dopo, radici fantastiche stringevano le sue fondamenta; forse, la mano sotterranea d’un gigante buono teneva ancorata la casupola al terreno. Una sera di quelle più buie e maledette, una sera in cui ai venti si stava unendo ostinata la pioggia battente ed ogni cosa si oscurava nel colore, ogni pianta si piegava su se stessa e i fiori e i frutti scomparivano dalle strade e dai campi, la donna arrostiva, nell’angolo misero della cucina, sopra una griglia di tizzoni crepitanti, pane e cipolle. Quando sentì bussare tre volte alla porta. Ebbe un sussulto di paura. «Chi è?», chiese con voce piccina. «Uuuuuhhhhhhhh…Uuuuuhhhhh… Sono il Vento del Nord. Apri questa porta o la schiaccerò col mio soffio!». La poveretta rabbrividì quando riconobbe il soffio gelido del Vento del Nord che penetrava dalle fessure delle finestre, ma aprì lo stesso la porta. Si ritrovò davanti a un grosso vortice nero e roteante che emanava sbuffi terrificanti e freddissimi, i suoi occhi non erano occhi, ma cerchi vuoti e biancastri, le sue labbra sottili e grigie mostravano un ghigno orribile che avrebbe fatto svenire chiunque. L’anziana dovette mantenersi alla maniglia della por-
ticina, stava per volar via con la sua gonna che era già diventata gonfia come una mongolfiera. «Cosa cerchi nella casa d’una povera donna?», ebbe la forza di chiedergli. «Ah, ah, ah…», rise tronfio il Vento del Nord con quel ghigno spaventevole che si ritrovava e ingrossandosi tutto, «vuoi farmi credere di non ricordare? Non ricordi che i tuoi figli osarono sfidare me e i miei fratelli all’alba del Giorno delle Meraviglie?». «Nel Giorno delle Meraviglie ai miei figli fu ordinato di compiere la vostra uccisione. Ed essi obbedirono, anche se con poveri mezzi, ma con tanto coraggio da vendere.» «Ah, ah, ah», rideva quello, pieno di sé e magnifico, «davvero pensaste di poter vincere l’ira dei miei fratelli? La superbia del Vento dell’Est, il bollore del Vento del Sud, la grandezza del Vento dell’Ovest? Che presunzione, donna, ebbero i tuoi figli. Nulla può abbattere il dominio delle Tempeste Raccolte!». Poi, dopo una pausa e qualche folata gelida che a ogni respiro faceva divenire ghiaccio ogni cosa gli si trovasse intorno, aggiunse: «I tuoi figli giacciono nei tre punti cardinali in cui furon sbattuti dai Venti. Tuo figlio il più grande precipitò a Est ed è oggi schiavo nelle terre del Marajà. Tuo figlio il medio precipitò a Ovest e vive sospeso su un ponte a testa in giù sopra una voragine di acque profonde. Tuo figlio il piccolo è chiuso nella prigione ghiacciata del Regno Sempre Freddo di cui io sono il padrone! Ah, ah, ah…».
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La donna accolse quelle notizie col dolore più profondo che possa toccare il cuore d’un essere umano. Ella non parlava, piangeva soltanto e più piangeva più il suo stomaco si rimpiccioliva. «C’è una ragione per cui son venuto a sbuffare alla tua porta. Vuoi veder liberi, forse, i tuoi figli?». Cadeva quella sera il decennale del Giorno delle Meraviglie. L’anziana non lo sapeva o lo aveva dimenticato. «Posso lasciare liberi i tuoi figli, ma dovrai tu prendere il loro posto facendoti da me, oggi stesso, lanciare nel Sud del Mondo, dove una fanciulla capricciosa e sempre scontenta ha bisogno di un pizzico d’amore. Faccio questo non perché mosso da compassione, bensì perché ordini precisi me lo impongono, nel Giorno in cui le Meraviglie possiedono la Terra. Decidi, donna, e sii saggia». Non ci pensò più d’un secondo, la donna. Afferrò un fagottino riempiendolo di poche cose e salutò la sua casa proprio come si saluta un essere umano, carezzandone dolcemente i muri che per tanto tempo l’avevano protetta. «Io sono pronta. Ma tu sii fedele a te stesso e mantieni quel che prometti». Il Vento del Nord la caricò sulle sue imponenti spalle e, presa una rincorsa stupefacente, a grande velocità la gettò lontano. Nello stesso momento, i tre fratelli furono scagliati sullo spiazzo antistante la piccola casa. Non vennero
mai a conoscenza della storia della madre. La credettero morta per i tanti anni passati nel dolore. I Venti feroci non attraversarono mai più quel luogo, cambiando direzione. Dopo alcuni anni, i fratelli allargarono la casa, si sposarono e misero famiglia. Nelle dolci mattine di primavera, mentre zappavano la terra, volenterosi e buoni, una delicata brezza li avvolgeva sulle guance. A loro sembrava il bacio della madre.
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2. La quercia Ermelinda
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era una volta, nel tempo dei maghi e delle streghe, nel tempo degli orologi all’indietro, nel tempo delle cose senza tempo, un povero boscaiolo, tanto povero da non aver di che mangiare anche per lunghe settimane. Un dì uscì dalla sua casa diretto verso un querceto impervio e disabitato, con l’intenzione di raccogliere più legname del solito, così da poterlo vendere al mercato. Giunto appresso al tronco di una grossa quercia, prese di mira il punto su cui piantare l’accetta, ma quando fece per scagliarla, sentì una voce: «Aspetta, aspetta, buon uomo, non fare del male al mio tronco!». Da dove giungessero quelle parole, il boscaiolo non capiva. Riprovò a scaraventare l’accetta, ma di nuovo, un attimo prima che questa venisse conficcata, la voce lamentò: «Aspetta, aspetta, buon uomo, non fare del male al mio tronco!». «Insomma», sbottò il boscaiolo, «chi parla? Chi mi impedisce di lavorare?».
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Un silenzio piombò all’improvviso e dopo qualche istante di quiete apparente, la voce si presentò: «Sono io ad aver parlato, sono la quercia che tu vuoi abbattere». Il boscaiolo, per lo spavento, si apprestò a correre a gambe levate, ma uno dei rami più lunghi della quercia riuscì ad acciuffarlo dal bavero della giacca e a sollevarlo fin in cima, dove stavano appollaiati due grandi occhi color cioccolata. «Non scappare, boscaiolo, di qui non passa mai nessuno, fermati un poco!». «Cosa vuoi da me? Lasciami! Lasciami!». Il poveretto si dimenava come un animale in gabbia. «Non voglio farti alcun male, boscaiolo. Sono una quercia triste». A quel punto, persuaso dai docili toni dell’albero, il boscaiolo si calmò e si accomodò sul piano nodoso d’uno dei rami più massicci. La quercia cominciò a piangere, facendo saltellare a ogni singhiozzo il poveretto. «Quercia, perché piangi?». «Io non sono veramente una quercia. Io sono una donna trasformata in quercia anni or sono, quando il mago Putiferio ridusse me in questo misero stato obbedendo ai propositi di mio padre che non voleva andassi in sposa al mio amato Alrico. Il mio nome è Ermelinda». Il boscaiolo taceva e pareva interessarsi sempre più alle parole della quercia. «Non c’è nessun modo per cui io possa ritornare alla
mia natura umana, però c’è un modo che faccia riunire di nuovo me e Alrico». «E qual è codesto modo?», chiese il boscaiolo. «Farmi trovare da Alrico. Lui sa del mio aspetto di quercia e invano attraversa le terre straniere alla mia ricerca. Tra milioni di querce ancora non mi ha trovata. Solo tu puoi indicargli la strada giusta che lo possa condurre fin qui». «Io? E perché io?». «Perché da anni per queste contrade non passa alcun essere umano. Boscaiolo, non ho più sembianze umane, ma il mio cuore, anche se spezzato, batte ancora. Aiutami!». «Cosa posso fare, io? Io sono solo un povero uomo che ha le tasche vuote e neppure un tozzo di pane con cui sfamarsi». La quercia, allora, gli spiegò che un modo per aiutarla esisteva: «C’è un paese a cinque giorni di cammino da qui. In questo paese, nel centro della piazza, c’è una fontana che contiene tutte le lacrime delle persone tristi. Va’ e raccogli in un secchio le lacrime del mio Alrico». «E come farò a riconoscerle?», le domandò il boscaiolo. «Intreccia con le mie foglie una rete e legala ad un bastone fatto del mio legno. Le lacrime di Alrico verranno a galla da sole». Il boscaiolo fece esattamente ciò che la quercia Ermelinda gli aveva detto. Finemente intrecciò una rete
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di foglie e intagliò un bastone e un secchio. Si mise in cammino e viaggiò per cinque lunghi giorni. Giunto al paese, chiese indicazioni per la piazza e, trovatosi presto lungo il bordo della fontana, s’affacciò per calarvi la rete. Magicamente, tra le innumerevoli lacrime che si gonfiavano e si sgonfiavano, quelle di Alrico più vistosamente emersero e assunsero un colore d’un ceruleo splendente. Il boscaiolo le stipò con cura nel secchio e si rimise in cammino prendendo la via del ritorno. Quando arrivò sotto le radici di Ermelinda, questa gli disse: «A dieci giorni di cammino da qui c’è un fiume alla cui foce riposano i pensieri dei viandanti. Fa’ col mio legno una zattera e solca il fiume fino ad arrivare alla sua bocca. In quel punto udrai, fra i tanti, anche i pensieri di Alrico che mi cerca e li chiuderai nei gusci della collana di ghiande raccolte dai miei rami». E così, di buona lena, il boscaiolo si mise a costruire una solida zattera e a intrecciare fili di ghiande. Preparata ogni cosa, si incamminò per dieci lunghi giorni. Arrivato sulle rive del fiume, navigò incerto con la zattera fino ad intravederne la foce. Tutti i pensieri dei viandanti in quel mentre lo travolsero, ma nella collana che portava al collo si richiusero, come per magia, solo quelli di Alrico. Quasi subito si rimise sulla via del ritorno. Esausto e privo di forze, giunse al cospetto della quercia Ermelinda, la quale quasi non sperava più di rivederlo.
«Ora c’è solo un’ultima cosa da fare, buon uomo», disse l’albero. «Cosa?». «Spargere le lacrime sulla terra, gettare la collana nel fuoco. Solo così le lacrime e i pensieri cesseranno di esistere e Alrico mi troverà». Il boscaiolo eseguì quell’ultimo ordine. Infine s’addormentò cadendo su un giaciglio ai piedi della quercia. Al suo risveglio, Alrico era già lì che abbracciava il tronco della sua Ermelinda e più lo stringeva più le sue gambe diventavano ugualmente un tronco, più tendeva le braccia ai rami carezzandone dolcemente le foglie, più quelle diventavano ugualmente rami. Alrico divenne una quercia e si unì finalmente per sempre a Ermelinda. «Ora, boscaiolo, sarai ripagato d’ogni fatica e la tua generosità avrà un premio!». Non ebbe terminato Ermelinda di dire queste parole, che la rete, il bastone, il secchio, la collana e la zattera ricomparvero innanzi a lui, ma forgiati d’oro zecchino. Fu così che il boscaiolo divenne tanto ricco da non aver più bisogno di lavorare e potè vivere spensierato per il resto dei suoi giorni.
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