Fabio Rossi
GEMINI
Titolo / GEMINI Autore/ Fabio Rossi Copertina / Giovanni Nori Coordinamento editoriale / Donatella Neri Progetto grafico e impaginazione/ Rossana Scrimieri
TUTTI I DIRITTI RISERVATI Š Lupo Editore 2009 ISBN: 978-88-95861-60-9 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Editore Lupo Editore Via Prov.le Copertino-Monteroni (km. III - cp. 34) $PQFSUJOP -FDDF r 5FM 'BY XXX MVQPFEJUPSF JU r FNBJM MVQP!MVQPFEJUPSF JU
A Chiara A Caterina, Francesco, Benedetta
Tessiamo noi stesso il nostro fato, buono a cattivo, e il lavoro fatto non si può sfare. Nulla di ciò che facciamo vien mai – e lo si intenda in senso rigorosamente, scientificamente letterale – mai cancellato. William James, filosofo americano
Siamo su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto ci siamo accorti che non c’è il macchinista. Carlo Rubbia, scienziato italiano
Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi. Marcel Proust, scrittore francese
IL VIAGGIO 1
Mi chiamo Ulisse e questo è il racconto del mio viaggio. Ho deciso di scrivere la mia storia nella speranza che un giorno qualcuno possa leggerla e comprendere quello che ho appreso. Forse le cose possono ancora cambiare. La conoscenza del mondo non è altro che la ricerca di noi stessi nei riflessi sbiaditi del creato che ci circonda. È una sete che nessuna sorgente può placare perché l’acqua che cerchiamo l’abbiamo già bevuta, senza accorgercene, a piccoli sorsi. Ogni passo che muoviamo ci offre l’occasione per misurarci con noi stessi, per sperimentare e tracciare i nostri limiti, i nostri confini, costruendoci addosso corazze che ci proteggono da tutto quello che non vogliamo e non possiamo far entrare: perché noi siamo esseri finiti, temporali. Non siamo fatti per comprendere l’infinito che ci sta intorno, che ci sta dentro. Ci illudiamo di capire l’insieme possedendo un particolare, il mosaico da una tessera, il volto da un capello. Ci creiamo sistemi di sintesi e di elaborazione che ci consentono di fare tutto questo con miope soddisfazione, finché, un giorno, non sentiamo più nemmeno il bisogno di andarlo a cercare, il capello. Esistono però delle eccezioni. 7
Vi sono realtà che trascendono queste dinamiche e che ci vengono messe innanzi per darci delle occasioni di comprensione. Ci sono oggetti, luoghi, eventi intorno a noi che ci raccontano chi siamo, da dove veniamo, dove andremo. Sono libri senza scrittura che aspettano l’inchiostro delle nostre menti, blocchi di argilla destinati a diventare nelle mani dello scultore volto, cavallo, anfora. Nodi che racchiudono pezzi interi di mondo, che sanno tracciare la direttrice giusta. Piccoli aghi di metallo che messi al posto giusto, dentro la bussola, possono condurre grandi navi nel buio della notte. Tracciarne la rotta. Una piccola lucciola vaga solitaria alle prime luci dell’alba, timidamente. Qualcuno trovandola sul proprio cammino la scaccia infastidito, qualcun altro non la vede perché è troppo concentrato a non smarrire la via, un altro ancora la scambia per un tesoro prezioso e la rinchiude per sempre in una buia cassaforte. Ma infine capiterà che qualcuno si fermi ad osservarla in silenzio e dopo poco, sorridendo, riprenda il proprio cammino. Nella gratuita consapevolezza di quella contemplazione quell’uomo capirà tante cose. Capirà quale rotta seguire. Questa è la storia di una rotta, tracciata per condurre alla salvezza un grande vascello. È una storia di morte e vita, di speranza e di disperazione, di conoscenza. Perché in fin dei conti il bisogno di risposte è il grande motore che ci ha permesso di evolverci da piccoli invertebrati a ciò che siamo ora e a ciò che diventeremo, nella serenità che tutto quello 8
che oggi non comprendiamo in futuro sarĂ capito e che molto di quello che crediamo di conoscere sarĂ riscritto. Non so quanto tempo mi rimane, sono stremato e LUI presto sarĂ qui.
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LA CACCIA 1
Una nuova alba illuminava la foresta, facendo salire al cielo odori e rumori di un mondo che solo in apparenza si quietava con il buio della notte. Nel cuore di quell’enorme organismo pulsante un piccolo essere a due zampe avanzava incerto. Pensava d’esser prossimo alla fine del suo viaggio, ignorava che quello era solo l’inizio. Il ragazzo camminava da tempo e il sole acido intiepidiva l’aria del mattino, rischiarando la vivida luce azzurrognola che filtrava timida nella grande foresta. La notte era stata lunga, faticosa. Una notte carica di grida e sangue. Carica di fango e sudore, di attese e di lotte. Era rimasto due giorni in silenzio, si era fatto parassita simbionte del grande albero, sdraiato su quel nodoso ramo brunito senza cibo, senza acqua, senza riposo. Aveva atteso là, sospeso sopra l’esca impastata di carne putrefatta e fango, più simile ad un bizzarro rigurgito che ad un qualsiasi animale. Era partito dal villaggio due giorni prima, in una grigia mattina nebbiosa, densa di odori e di speranze. Gli anziani esigevano da lui la prova della sua maturità, del suo coraggio. La tradizione 11
tramandata dagli antichi padri era sacra e inviolabile; per diventare uomo avrebbe dovuto abbattere un grande predatore e lo avrebbe dovuto riportare con le proprie forze al villaggio. Si sarebbero tutti cibati del suo valore sancendone il successo e facendo di lui un guerriero, un cacciatore, un “padre”. Aveva così camminato oltre le colline fino alla grande foresta, cibandosi di radici e piccoli animali. Non aveva armi, né vestiti, perché la lotta doveva svolgersi alla pari, senza alcun privilegio per lo sfidante. Poteva contare solo su se stesso. Giunto all’ingresso della boscaglia aveva avuto un fremito di paura. Le gracili gambe ossute, la postura ricurva, quasi a proteggere gli organi vitali, i capelli sciolti sulle fragili spalle e gli occhi spalancati, neri, attenti. Non aveva più di sedici anni. Si era inoltrato cauto, con circospezione. Ora lui era preda, non predatore, e si muoveva in un luogo che non aveva mai visto prima in vita sua. Solo nei racconti degli anziani aveva sentito parlare della grande foresta, ma non vi aveva mai messo piede. L’aveva osservata: era un’enorme costruzione ossuta di rami e fogliame, buia e fredda nonostante il sole stesse salendo. Gli pareva un unico immenso organismo pulsante, diffidente verso gli intrusi e tutti quelli che osavano intromettersi tra le sue intricate viscere. Si udivano migliaia di piccoli suoni impastati da un intenso odore di foglie e tronchi umidi, un ritmico e continuo respiro carico di pericoli. Era avanzato sinuoso fino al cuore del mostro: il grande albero solitario. I saggi dicevano che fosse la dimora del dio dei boschi e che lassù i predatori non potessero arrampicarsi perché i loro artigli si sarebbero spezzati graffiando il possente tronco. Il ragazzo 12
aveva posizionato alla sua base l’esca, poi si era cosparso completamente il corpo di fango, per non farsi fiutare e per ripararsi dal freddo della notte, ormai prossima. Salito faticosamente fino al ramo più grande, lo aveva abbracciato con gambe e braccia. Era esattamente sopra l’esca. Aveva paura. Il tempo passava immobile e perpetuo, in uno scorrere senza principio e senza fine. Solo un lento mutare di luci e ombre. Avvertì un pizzicore. Era notte. Strani insetti neri avevano fatto il nido sul suo collo e pareva stessero deponendo larve dentro il suo orecchio destro. Immobile e terrorizzato attese la fine di quella lunga operazione, finché ordinatamente se ne andarono via. Aveva fame. Improvvisamente il pensiero volò alla sua esca. Guardò in basso. Era ancora lì. Attese di nuovo. La seconda notte, silenziosi movimenti felini fecero danzare le ombre. Nel gelo pungente dell’oscurità il ragazzo non aveva mai chiuso gli occhi, non aveva mai emesso suoni; era rimasto immobile, ricoperto di fango secco che bruciava anche nel freddo dell’oscurità. Le unghie rotte, la sete e la fame, gli insetti. Provava un dolore totale, assoluto e perenne. Quella notte il ragazzo osservava. Vide qualcosa. Il grosso animale si avventò sulla preda nel silenzio della foresta con movimenti elegantemente mortali. La liturgia si compiva tutte le notti, da quando sua madre se n’era andata col resto del branco. Lei lo aveva istruito a cacciare nel buio cercando le prede so13
litarie, insegnandogli che un animale ferito attira altri predatori, che perciò occorreva essere rapidi nel cibarsi, silenziosi nell’avvicinarsi. Aveva imparato a fiutare la paura, la morte, il sangue. Tutte le notti. Addentò voracemente l’animale inerme che stranamente non aveva opposto alcuna resistenza. Lo sezionò sbriciolandone ogni fibra. Poi il suo cervello inviò un impulso nuovo, inaspettato e violento. Paura. E d’un tratto il ragazzo fu sopra di lui. Veloce e spietato. Il predatore era diventato preda. In una danza macabra e grottesca i due contendenti lottavano selvaggiamente per strapparsi la vita. Rotolavano nel terriccio umido senza tregua; il grande felino non vedeva il suo aggressore, avvinghiato al suo dorso, e tutti i tentativi di artigliarlo erano vani. Lui, l’uomo, stringeva il collo della bestia mentre con le gambe tentava di cavalcarla in modo da non farsi azzannare e graffiare. L’adrenalina dei due esseri saturò l’aria e li fece lottare senza sosta per ore. Una lotta per non morire. La foresta, compiaciuta, assisteva allo spettacolo. Poi l’animale si contorse follemente gemendo, ferendo l’aria che però gli mancava sempre più. La gola stringeva. Tutto pulsava, scuoteva, premeva. Lentamente, poi, il buio. Il ragazzo aveva vinto. Era felice. Sfinito. Nella solitudine di quel duello era diventato uomo. 14
Caricò la bestia sulle spalle, e si avviò verso l’accampamento. Il ragazzo camminava da tempo. I piedi sanguinanti avanzavano a stento nella folta vegetazione che nascondeva alla vista sassi, radici, buche, così che ogni passo si faceva pesante, rischioso. Era esausto e si fermò accanto ad una pozza d’acqua. Calò l’enorme peso a terra provando la strana sensazione di sentirsi spinto verso l’alto, quasi che le spalle volessero abbandonarlo e fuggire lontano. Era magro, asciutto, la spina dorsale pareva uscirgli dalla schiena ora che, chinato sull’acqua melmosa, beveva avidamente. Il fluido verdastro gli colò al lati della bocca creando rivoli dalle fantasiose geometrie lungo tutto il viso ed il collo. Il sole oramai alto accorciava le ombre e la calura opprimente aveva risvegliato migliaia di insetti che affollavano il terreno e l’aria in strane confuse danze. Il ragazzo era stanco e affamato. Raccolse una pietra e prese a fracassare una zampa della bestia. La pelliccia rossastra si lacerò e in essa ficcò una mano per stringere un fascio di muscoli, grasso e sangue. Non aveva però la forza di strappare quel brandello di carne ancora calda, dovette addentarla in ginocchio, come un animale. Alzava spesso lo sguardo scrutando il folto muro di vegetazione che lo circondava, poi voracemente si avventava nuovamente sul felino morto. Sapeva che il sangue avrebbe presto attirato altri predatori, quei quadrupedi grigiastri che spolpavano le carcasse abbandonate, o peggio, altri felini. Doveva fare in fretta. Morse nuovamente il trofeo, tre volte, poi prese del terriccio umido e lo spalmò sulla zampa maciullata 15
ricoprendola completamente. Si tolse di dosso il sangue che lo aveva sporcato e si caricò nuovamente il fardello sulla schiena. Per issarlo dovette piegarsi e quasi si sdraiò sotto di esso, poi con uno sforzo sovrumano riuscì a sollevarsi in piedi. Le gambe tremavano freneticamente e tutti i muscoli del corpo erano corde tese. Il fango secco che lo ricopriva da ormai tre giorni lo aveva trasfigurato in una grottesca creatura di terra, reietto dagli dei per la propria bruttezza. Ripartì verso casa. Esausto. Giunse l’imbrunire, quando la boscaglia si fece più rada. Il terreno cominciava lentamente a salire e man mano che procedeva la foresta si ritirava dietro di lui. Al suo posto macchie di cespugli intricati punteggiavano distese sconfinate di colline erbose, alcune rigate di grigio da rivoli d’acqua che scendevano dai lontani pendii orientali. Al ragazzo erano sempre piaciute quelle cicatrici del terreno, gli sembravano inspiegabilmente rassicuranti e forti con il loro scorrere rumoroso e continuo, senza sosta. I felini non uscivano mai dalla foresta e il pensiero di essere ormai prossimo alla meta gli donò un vigore inaspettato che gli fece accelerare il passo. Giunto al primo ruscello si fermò ad annusare il vento. Decise che poteva togliersi di dosso il fango. Non correva più il pericolo di essere fiutato perché nell’aria sentiva un odore umido e denso provenire dalla foresta. Si sdraiò nell’acqua gelida del torrente e rimase immobile ad attendere che anche l’ultimo lembo di pelle si bagnasse. Era piacevole la sensazione di ristoro e di forza che ne traeva. L’energia di madre terra penetrava in lui 16
attraverso quel bagno miracoloso, secondo un ciclo che si perpetuava da tempo immemorabile. Si alzò ed uscì dall’acqua. Ora percepiva il vento che acquistava maggiore intensità e questo lo rendeva felice. Poteva sentire il proprio corpo, l’aria che lo asciugava. Ne tracciava i limiti, i confini. Il felino che aveva ucciso giaceva paziente ai suoi piedi e venne sollevato con rapidi movimenti, per essere poi riadagiato sulle spalle. Poi il giovane riprese il cammino speditamente, orgoglioso e fiero della propria vittoria, vedendo in lontananza le capanne del villaggio. Discese il pendio a grandi passi, incurante del pericoloso dondolio che il suo pesante trofeo provocava ad ogni falcata rischiando di farlo rovinare a terra. I suoi occhi erano fissi alla meta e scrutavano il crepuscolo speranzosi di scorgere qualcuno a cui poter gridare la propria gioia e annunciare l’imminente arrivo. Giunto ai piedi della collina cominciò a risalire il versante successivo. L’ultimo. Negli occhi la gioia euforica di un ragazzino di nemmeno sedici anni divenuto uomo. Poi tutto, in un istante senza tempo, cambiò. Il ragazzo si arrestò impietrito. Mollò il peso dalle spalle. La gioia mutò in terrore, l’euforia in disperazione. Da quel momento nulla sarebbe stato più uguale. La scena che gli si presentava destò in lui dolore, rassegnazione, persino repulsione. 17