Privatopia: come cambia il senso del luogo 1. Care vecchie visioni future È il 1932. Siamo nell’America post-crollo di Wall Street. Il New York Times Magazine1 pubblica un articolo a firma del padre dell’urbanistica contemporanea Le Corbusier (1887-1965) in cui viene proposta la sua personale visione ideale di città del futuro: immensi grattaceli piantati come alberi sullo sfondo verde di un parco. Per quanto suggestiva, l’ipotesi viene ribaltata qualche mese più tardi dalla replica di un altro maestro come Frank Lloyd Wright (1867-1959). Per l’architetto “organico”2 il futuro urbano, almeno quello americano, si sarebbe sviluppato orizzontalmente, conformandosi attorno a ciò che egli stesso individua come gli evidenti moderni fattori di decentramento: trasporti, comunicazioni e tecnologia. Questa visione viene ribattezzata Broadacre City3 (letteralmente: “città acrovasto”), una città caratterizzata da enormi strade a separare ed unire ambienti lavorativi ed ambienti residenziali formati da lotti di circa mezzo ettaro, con dei confini pressoché privi di margine.
Fig. 1 Broadacre City così come l’aveva immaginata Frank Lloyd Wright nel 1932 (Fonte: http://listicles.thelmagazine.com/2009/06/10-unbuilt-frank-lloyd-wright-buildings/)
Al di là del fatto che si possa considerare tale visione attraente o repellente, bisogna comunque riconoscere la lungimiranza di Wright. Egli prima di altri è riuscito a comprendere verso quale direzione stava portando l’automobile, arrivando ad interpretare l’ideale domestico americano non come il soggiorno acusticamente
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Di recente, proprio il New York Times ha dedicato un articolo alla mostra in onore all’architetto modernista Le Corbusier, tenutasi proprio quest’anno al Barbican Center di Londra. Qui potete trovare il link: http://www.nytimes.com/2009/03/26/arts/design/26abroad.html?_r=1. 2 L’architettura organica è una branca dell’architettura moderna che promuove l’armonia tra uomo e natura, la creazione di un nuovo sistema in equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale attraverso l’integrazione degli artifici umani e degli elementi naturali in un unico sito. L’opera Testamento di Frank Lloyd Wright del 1957 (in Italia, edita da Einaudi nel 1963), rappresenta un po’ la summa ideologica di questa nuova frontiera dell’architettura. 3 Il concetto viene ampliamente sviluppato da Frank Lloyd Wright nell’opera del 1932 The Disappearing City. Con il concetto di Broadacre City si intende configurare una “arcologia”, ossia una struttura talmente enorme da poter mantenere una ecologia interna e una densità abitativa estremamente alta. Per approfondimenti: http://www.accd.edu/sac/honors/main/papers%2004/Campos/broadacre.html
isolato di stampo corbusiano, ma come una casa per ciascuno, sul proprio pezzo di terreno, con ampio spazio per l’amato mezzo di trasporto privato. Ciò che semmai Wright non è riuscito a vedere è che la Broadacre City del futuro non sarebbe stata definita nelle sue forme dagli architetti ma dalle forze di mercato. Non stupisca perciò più di tanto che, già a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, mentre in Europa cominciano a muoversi le grandi agenzie pubbliche per la casa, negli Stati Uniti inizi la costruzione del moderno suburbio plasmato dal mercato. Su www.abitare.it è possibile leggere un’interessante cronaca di tre giorni a Warren in Michigan, uno dei tanti suburbi americani che può fungere da significativo esempio della crisi di questo modello abitativo, probabile sintomo di un più generalizzato e preoccupante crac: quello del Sogno Americano4. Concettualmente identificabili con il celebre esempio di Levittown5 (la grande area abitativa fatta di costruzioni in serie destinate alle famiglie operaie a reddito medio-basso che, tra le altre cose, è stata anche oggetto di analisi in The Levittowners del sociologo americano Herbert Gans), le zone suburbane statunitensi hanno da sempre dovuto subire lo scherno dei critici dell’élite urbana, inclini ad assimilare le zone residenziali di case tutte uguali con un volgare conformismo di massa. Conformismo che è in palese antitesi con le concezioni dell’architettura postmoderna (e più in generale con l’intero movimento postmodernista), che a partire dagli anni Settanta ha cominciato a giocare il ruolo di nuovo feticcio degli addetti ai lavori e non solo6. Spulciando nella la rete, è impressionante notare come il postmoderno sia ancora un argomento capace di sollevare dibattiti e discussioni; le pagine dedicategli sono perciò numerose. Per avere un’idea è sufficiente andare in Liquida, motore di ricerca di notizie dai blog (http://www.liquida.it/postmodernismo/). Ben realizzata ed esaustiva, è la pagina sul postmodernismo del “tuttologo” più odiato dai bloggers e forumers italiani, Piero Scaruffi (http://www.scaruffi.com/us/54.html). Per quanto riguarda l’architettura invece, si può dare un’occhiata su http://www.fotoartearchitettura.it/Architettura/Archivio/storia/07.html. Gli architetti del postmodernismo operano dunque una vera e propria rivolta contro lo strapotere delle tendenze più razionalistiche o decostruttiviste del modernismo, accusato di negare ogni piacere attraverso l’essenzialità delle forme. Perciò, la caotica commistione stilistica che nelle arti in genere è definita come pastiche diviene il refrain postmodernista, nel tentativo di riportare in auge il vecchio romanticismo degli stili storici, a cui si aggiunge quell’architettura vernacolare espressione di un’estetica e di una maestria che ormai appartengono al passato. Fig. 2 Piazza d'Italia a New Orleans, Louisiana, di Charles Willard Moore (1978). Esempio significativo di architettura postmoderna, contaminazione continua tra antico e moderno (Fonte:http://www.loewshotels.com/en/Hotels/Ne w-Orleans-Hotel/Tour/AmenitiesGallery.aspx)
È opportuno notare che il Postmodernismo architettonico, per così dire teorico, ossia quello che si pone in modo critico verso il Movimento Moderno, è sicuramente andato più veloce della produzione architettonica che, al contrario, non è riuscita a rispecchiare degnamente la propria controparte teorica, fermandosi ad un semplice, nuovo ismo, con i suoi dogmi da seguire e le sue inibizioni. Anche lo scarto tra l’architettura 4
L’articolo risalente al 3 marzo 2009 è a cura di Lucia Tozzi. Qui il link per visualizzarlo: http://www.abitare.it/featured/suburban-crisis/ 5 La sitografia su Levittown è ricca e variegata. Qui il link a uno dei siti più completi e meglio realizzati, a cura del Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università di Chicago in Illinois: http://tigger.uic.edu/~pbhales/Levittown.html 6 Charles Jencks, architetto, designer e storico dell’architettura, è stato il primo ad introdurre ed utilizzare il termine post-modernismo in architettura, arrivando a stabilire in apertura della sua opera The language of Post-Modern architecture (1977) che «possiamo felicemente datare la morte dell’Architettura Moderna in un preciso momento … essa termina definitivamente e completamente nel 1972» .
postmoderna e la società postmoderna non è così grande come invece quello che lo separa dalla produzione teorica, che invece si è paradossalmente, ed inequivocabilmente, scissa dalla nuda realtà per inseguire gli insegnamenti filosofici più “alla moda”. Ad una società proiettata sempre più verso la spettacolarizzazione dell’intimo, alla riduzione del gusto a sapore, del linguaggio a stile, si risponde inevitabilmente con un’architettura volgare e caricaturale, senza nessuna pretesa di aderenza all’autenticità storica, nonché distante dalle necessità della collettività, ma che proprio per questo si adatta perfettamente alla realtà di questi anni, senza significato e senza memoria. L’architettura può essere dunque definita come lo specchio fedele della società, espressione concreta dello zeitgeist. 2. Ostentazioni neotradizionaliste Esaurita l’onda lunga della Me Generation7, gli Stati Uniti sono pronti a ripartire ammantati dall’etica dei movimenti ambientalisti. A livello architettonico ed urbanistico, tutto ciò si traduce in un termine unico: neotradizionalismo. Che cosa s’intenda quando si parla di Neotradizionalismo lo spiega Andres Duany, caposcuola del movimento del Nuovo Urbanesimo che del singolare connubio tra etica e stile ne fa una bandiera: questo nuovo approccio alla vita, che chiameremo Neotradizionalismo, non rifiuta a priori tutto ciò che è stato, come era tipico dei protagonisti della Me Generation. Si tratta piuttosto di una sintesi delle parti migliori di quei due sistemi di valori un tempo contrapposti, che combina la sicurezza e la responsabilità degli anni Cinquanta con le libertà individuali e di scelta della Me Generation. I consumatori sembrano in cerca di un punto di equilibrio, di un bilanciamento fra gli estremi 8.
E ancora: un neotradizionalista sceglierebbe una stanza vittoriana, ma non comprerebbe mai un orologio vittoriano, ovviamente a molla e con ogni probabilità impreciso. Sceglierebbe senz’altro un orologio tedesco di ultima generazione. Un neotradizionalista metterebbe tubazioni e cucina moderni nella sua casa vecchio stile, laddove un tradizionalista integrale restaurerebbe un vero bagno vittoriano con tanto di vasca con le zampe da grifone, e un modernista troverebbe semplicemente impossibile vivere in una casa vittoriana9.
A questo punto però non è chiara la differenza fra questo tipo di acquirenti e, ad esempio, i ceti emergenti dei primi decenni del secolo scorso. Non ambivano forse anche gli antichi acquirenti di case ad avere tutti i contrassegni esteriori dell’arcaico prestigio insieme a tutti i comfort moderni? Certamente. È il retroterra culturale a fare la differenza. L’epica ribellione adolescenziale degli anni Sessanta contro un mondo ipocrita, fatto di risate in scatola e case in serie, ha certamente prodotto un atteggiamento quantomeno ambivalente verso la modernità di massa. Buona parte dell’energia sviluppata in quella rivolta si è poi incanalata in battaglie di tipo conservativo, come la difesa degli edifici storici e l’ambientalismo, che comportano in qualche misura la rivalutazione di un passato che si considera aureolato da una sorta di verginità. Ma la controcultura degli anni Sessanta ha partorito anche l’idea che la tecnologia avanzata sia in grado di potenziare le libertà individuali: è da questo germe che è poi nata la rivoluzione del personal computer, rapidamente attecchita fra le subculture della West Coast cresciute attorno alla Apple e confluite infine nel paradiso dei blogger sul Web di marca 2.0. Ecco allora la doppia identità dei sostenitori del neotradizionalismo: sempre sensibili alle possibilità di liberazione individuale portate avanti dalle nuove tecnologie, ma altrettanto affamati di cose nuove ed autentiche, originali, immuni al commercialismo di massa. E dato che le cose non succedono mai per caso, ecco che arriva il Nuovo Urbanesimo a tentare di rattoppare la grande frattura fra moderno e tradizionale. Inutile anche dirlo, dietro non c’è alcuna nobile intenzione, se non la prosaica finalità di voler assecondare le svariate ricerche di mercato che hanno evidenziato come siano davvero in molti ad essere disposti a pagare a caro prezzo la possibilità di riavere il mondo del passato, ma senza rinunciare ai vantaggi della modernità.
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Quando si parla di Me Generation americana, in generale ci si riferisce ad una categoria di giovani rampanti degli anni Settanta, figli di una cultura narcisistica e consumistica, poco propensi all’impegno civile e sociale, ma piuttosto concentrati sulla realizzazione personale, incentivata da una situazione economica favorevole e dall’industria delle pubbliche relazioni. 8 Citato in Andrew Ross, Celebration: la città perfetta. L’utopia urbanistica finanziata dalla Disney (1999), trad. it., Roma, ArcanaLibri, 2001, p. 45 9 Ibidem, p.46
3. Fuori dal caos, dentro la comunità: il Nuovo Urbanesimo Le parole di uno dei maggiori teorici del Nuovo Urbanesimo, l’architetto Leon Krier, rappresentano un’efficace sintesi del manifesto programmatico di tale movimento: Viviamo in un mondo non sostenibile, ubriaco di energia che prima o poi dovrà fare un passo indietro, passando da una tecnologia High ad una Low con un approccio più responsabile verso i materiali e il luogo10.
Krier è il responsabile del progetto di Poundbury, quartiere della città inglese di Dorchester dove si può ammirare un villaggio completamente ricostruito secondo i dettami del Nuovo Urbanesimo. Nelle intenzioni dell’architetto, Poundbury rappresenta «una sfida alle periferie dominate dal traffico e alla perdita dell’identità tradizionale dell’architettura locale»11, vera e propria alternativa ecosostenibile alla crescita urbana e suburbana, pronta a dichiarare guerra allo sviluppo caotico delle periferie cittadine. Fig. 3 Middlemarsh Street a Poundbury (Fonte:http://poundburyforum.proboards.com/index.cgi? board=poundburymap&action=display&thread=139)
Il Nuovo Urbanesimo, nonostante la parola urbanesimo evochi la vita delle grandi e caotiche metropoli, porta avanti principi di pianificazione (espressi nel 1996 nella Carta del Nuovo Urbanesimo12) che incarnano dunque una vigorosa opposizione all’incontrollato sviluppo urbano e suburbano convenzionale. Ispirato a un marcato antimodernismo di stampo postmodernista, il Nuovo Urbanesimo auspica la realizzazione di città pedonali con residenzialità e destinazione d’uso miste, lotti di piccole dimensioni, strade intercollegate, centro e margini chiaramente definiti. Al di là dell’obiettivo strategico di voler tornare a forme di pianificazione prebellica, caratterizzate da un’estetica tradizionale, attraverso la capitalizzazione della nostalgia popolare per la “comunità perduta” della piccola città, di notevole valore è il senso che viene attribuito ai bisogni dell’individuo e all’identità collettiva e, di conseguenza, al termine “pubblico”: pubblico significa sociale, come momento di coesione e di sentirsi parte di un gruppo, non somma di parti ma una totalità 13.
È impressionante la similitudine di tale concezione dello spazio pubblico con la definizione di gruppo dello psicologo sociale Kurt Lewin (1890-1947) :
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Tale dichiarazione è stata rilasciata in occasione di un incontro tenutosi il 7 febbraio 2006 a Roma, organizzato dall’allora neonato Centro Studi dell’Architettura Razionalista e dall’Ente Eur s.p.a. 11 www.poundbury.info 12 Congress for the New Urbanism, Charter of the New Urbanism, (www.cnu.org/charter). Il Congresso del Nuovo Urbanesimo risale al 1993. Come ricorda la carta stessa, il Congresso è stato fondato per rappresentare «una cittadinanza dall’ampia base sociale, composta da leader dei settori pubblico e privato, da attivisti della vita comunitaria e da professionisti multidisciplinari». 13 Laura Migliorini, Lucia Venini, Città e legami sociali: introduzione alla psicologia degli ambienti urbani, Roma, Carocci, 2001, pp. 121-122
il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quello che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Essa può definirsi come una “totalità dinamica”. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi, interessa lo stato di tutte le altre. Il grado di interdipendenza delle frazioni del gruppo varia da una massa indefinita a un’unità compatta 14.
Nell’ambito del Nuovo Urbanesimo, non è però semplice stabilire se la forza sociale di una comunità dipenda effettivamente dal design fisico dei luoghi o piuttosto sia una conseguenza dell’attività e del carattere dei suoi abitanti. Probabilmente, una concentrazione di individui con personalità orientate alla socialità è il miglior catalizzatore che si possa immaginare per la vitalità comunitaria, ma gli elementi salienti introdotti dal Nuovo Urbanesimo, nonostante siano stati scarsamente analizzati dai ricercatori di comunità, possono ragionevolmente rappresentare un passo significativo verso il recupero del “senso di comunità”: – le unità di vicinato vanno realizzate con percorsi pedonali e strade “a misura d’uomo” in modo da favorire ed incrementare la vita sociale e le reti di relazioni, rendendo abitato ed abitabile lo spazio pubblico; – zone e centri sono mixed use, non zonizzati, ma vari e diversificati con residenza, commercio, sport, lavoro e tempo libero non ghettizzati in spazi separati; – la storia della città viene valorizzata attraverso un uso dello spazio fortemente radicato nella cultura degli abitanti e mantenendo un rapporto con l’ambiente in senso naturale, economico e culturale; – edifici pubblici e principali luoghi di incontro devono essere “significativi” a livello architettonico, in quanto non rappresentano edifici “normali” ma sono il simbolo della comunità che anche attraverso questi deve poter sviluppare la sua identità e trasmettere la cultura della democrazia. http://newurbanismblog.com/ è il punto di riferimento per tutti coloro che vogliono rimanere aggiornati sulle opere e i contributi realizzati da tale movimento architettonico. Ideato dal 180° Design Studio (http://www.180deg.com/), tale blog offre molteplici spunti di discussione circa gli interventi realizzanti secondo i dettami del Nuovo Urbanesimo. Walkable communities, traditional neighborhood design, eco design, sustainability, smart growth sono concetti ormai assodati presso il discreto numero di frequentatori di questo ed altri blog completamente dedicati al Nuovo Urbanesimo (tutti rigorosamente linkati fra di loro). In Italia, c’è Borgo Città Nuova15, il quartiere di Alessandria realizzato secondo i canoni neourbanisti, sotto la direzione artistica dell’onnipresente Krier. Non di rado poi, è possibile sentire parlare di urbanistica partecipata (http://www.urbanisticapartecipata.org/)16, ossia quella che mette in evidenza nella realizzazione dei progetti il ruolo dei cittadini, in forma libera o associata: è il caso ad esempio del piano strutturale per la città di Massa, che dal 2007 ha messo a disposizione un sito e un forum di discussione per contenere tutte le idee e le proposte dei cittadini (http://pianostrutturale.comune.massa.ms.it/, per partecipare è necessario loggarsi). Insomma, dovunque ci si trovi o qualsiasi nome assuma, il Nuovo Urbanesimo si presenta come lanciato in una sorta di “missione morale e correttiva” verso un disegno a metà strada fra l’ideale della Gemeinschaft di Ferdinand Tönnies (1887) «che tiene insieme gli uomini come membri di un tutto», e la «pastorale militans» con il suo retorico «romanticismo agrario» che fu caratteristico dell’antiurbanesimo nazionalsocialista, e di cui parlò Ernst Bloch (1935). Tale “missione” ha come obiettivo la lotta contro i “mali” insiti in ciascun esempio di edilizia che sia stato realizzato dopo gli anni Quaranta: dalla formula postbellica della suburbanizzazione di massa sino ai più recenti esempi di urban sprawl17 (letteralmente: “stravaccamento urbano”), si tratta sempre di prodotti del medesimo “demone”, vale a dire una burocrazia che ha devastato il paesaggio e sacrificato la vita comunitaria agli interessi delle lobby dell’industria edilizia.
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Kurt Lewin, I conflitti sociali: saggi di dinamica di gruppo (1948), trad. it., Milano, Franco Angeli, 1972, p. 125 Per maggiori informazioni: http://www.sivim.it/progetti/residenziale/citta_nuova. Interessante è la sezione dedicata alla rassegna stampa che mostra come il progetto sia stato accolto con estremo entusiasmo dagli addetti ai lavori e dai cittadini. 16 Se ne parla anche nel blog di Beppe Grillo. Qui il link: http://www.beppegrillo.it/listeciviche/forum/2009/02/urbanistica-partecipata-dai-cittadini-che-la-vivono.html 17 Il fenomeno dell’urban sprawl, conosciuto meglio in Italia con il termine “città diffusa”, consiste nella rapida e disordinata crescita di un’area metropolitana spesso periferica. Lo sprawl è caratterizzato da: zone ad uso singolo, uso di terreno a bassa densità, comunità dipendenti dalle automobili, sviluppo su scala maggiore, omogeneneità dell’edilizia. 15
Figg. 4 e 5 Urban Sprawl (Fonti: http://www.lasmogtown.com/?cat=108 e http://www.nwas.org/meetings/nwa2006/Broadcast/Kelsch/watersheds/u5_assets.htm)
Nonostante il successo raccolto dal movimento sia a livello mediatico che di autorità preposte alla pianificazione locale e statale18, in realtà sono state ben poche le occasioni di vedere applicati i principi neourbanisti, per di più sempre nelle aree suburbane e non nelle grandi zone metropolitane. Solo le due figure fondatrici, i coniugi Andres Duany e Elizabeth Plater-Zyberk, sono riuscite in qualche modo a ritagliarsi uno spazio significativo, grazie anche alla cautela tutta politica nelle dichiarazioni pubbliche rilasciate, cosa che ha permesso loro di giungere a progettare più di duecento piani di rivitalizzazione cittadina, di cui l’esempio più celebre è sicuramente Seaside19, cittadina balneare situata sul Golfo del Messico in Florida, fondata nel 1983 ed ancora oggi, viva e vegeta20.
Fig. 6 "Cartolina da Seaside": Central Square Tables (Fonte: http://www.eslarp.uiuc.edu/la/LA338-S01/groups/c/)
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Il riferimento è al programma di edilizia residenziale pubblica attivato dall’U.S. Department of Housing and Urban Development (HUD) nel 1992, chiamato Hope VI. Riformato nel 1998 secondo i dettami del Nuovo Urbanesimo, il programma ha l’obiettivo di sostituire i condomini popolari esistenti con forme di edilizia pubblica neotradizionale. Volendo essere maligni, l’impressione è che si tratti di un tentativo subdolo e meschino di rimozione di individui a basso reddito da determinate zone, in modo da favorire il ripopolamento delle stesse da parte della popolazione a più alto reddito. 19 www.seasidefl.com 20 Tanto per dirne una, proprio a Seaside è stato interamente girata la celebre pellicola di Peter Weir del 1998, The Truman Show. Grazie all’ingente somma ricevuta per aver fatto da sfondo alla storia narrata su pellicola, la città ha potuto costruire una scuola.
4. Privatopia, tra Vita e Morte delle grandi città Oggi, dunque, il concetto di comunità si afferma come elemento salvifico per modi di vivere migliori, compatibili con un uso accorto e non distruttivo dell’ambiente e, soprattutto, orientati alla rinascita dello spirito di gruppo. I principi ispiratori vanno ricercati tanto nelle comunità di matrice religiosa sorte soprattutto negli Stati Uniti d’America a partire dal 1620 con il “sacro esperimento” dei Puritani (pilgrim fathers), quanto nelle varianti ipotizzate dai movimenti contro culturali degli anni Sessanta del Novecento. L’equivalente moderno di tali esperienze comunitarie è la Privatopia, anche se qui paiono attecchire con più facilità gli ideali d’antan della Casa da Sogno e della piccola città stretta attorno alla sua Main Street. Come nelle comunità del passato però, anche nella Privatopia si giunge a sperimentare la tensione che si viene inevitabilmente a creare fra libertà e mantenimento dell’ordine all’interno di un’utopia pianificata. Il termine Privatopia, ideato nel 1994 dal sociologo americano Evan McKenzie21, intende definire situazioni di autogoverno del tutto privato di insediamenti di interesse comune (Common Interest Districts), piccole comunità, condomini o edilizia cooperativa pianificata, realizzati come isole socialmente e culturalmente omogenee per pubblici preselezionati22. Solitamente le comunità di questo tipo sono gestite dalle associazioni dei proprietari di case, per quanto le imprese edili riescano comunque a mantenervi delle forme di controllo, attraverso un complesso sistema di clausole legate alla vendita degli immobili. Il compito di tali associazioni è essenzialmente quello di far rispettare le restrizioni e le convenzioni vigenti sugli immobili che rappresentano una forma di difesa del valore degli stessi, sottoscritta dai proprietari di case al momento dell’acquisto. Se da una parte il sorgere di questo tipo di comunità fisicamente e/o mentalmente “chiuse” da cancelli e sorvegliate/spiate da telecamere, ha avuto, come risultato, la crescita delle preoccupazioni riguardo all’affermazione nell’America suburbana di fenomeni di “segregazione d’élite” da parte della White America –con la upperclass chiusa nelle sue enclavi, slegata da qualsiasi preoccupazione o obbligo verso la underclass– dall’altra parte, come fa notare McKenzie, ha rappresentato la fortuna delle imprese edili. Infatti, l’insediamento basato sull’interesse condiviso costituisce una soluzione efficace al problema del progressivo aumento del costo dei terreni, così come anche alla crescente richiesta da parte degli acquirenti di avere strutture ad uso collettivo come aree ricreative, campi da golf e piscine. La formula applicata è molto semplice e non del tutto originale, trattandosi di una rielaborazione per l’edilizia privata americana del primo progetto di pianificazione urbana di Ebenezer Howard per Garden City23 (risalente alla fine dell’Ottocento): realizzando lotti abitativi più piccoli capaci di ospitare più persone, si possono sfruttare gli spazi guadagnati per realizzare le strutture ad uso collettivo; il tutto senza spendere un centesimo in più ed anzi, con il vantaggio per il gestore dello sviluppo e per gli istituti di credito finanziatori di mantenere inalterato il valore dei terreni, attraverso l’applicazione delle suddette convenzioni e regole. Un simile scenario, in cui le amministrazioni private svolgono delle funzioni che un tempo erano appannaggio delle amministrazioni locali –dalla manutenzione di strade ed illuminazione alla raccolta della spazzatura, giungendo, in alcuni casi, a porre delle limitazioni alla proprietà privata– è reso possibile dall’equiparazione di queste giurisdizioni private con la legislazione pubblica. Tendenzialmente, come regola generale è la giurisidizione più restrittiva (solitamente i regolamenti delle città autonome), quella che deve trovare applicazione sulle stesse leggi degli Stati della federazione. La conseguenza diretta di tutto ciò è lo smarrimento, in questo tipo di insediamenti, del senso di responsabilità dei residenti per la città nella cui area essi gravitano e da cui formalmente dipendono sotto il profilo amministrativo. Le persone si dimostrano sempre più restie a pagare tasse governative per i medesimi servizi cui già provvedono a loro spese, in quello che percepiscono come «uno stato repubblicano modello in miniatura, senza inutili strati di funzionari eletti a soffocare il processo di autodeterminazione»24. 21
Dal 2003 McKenzie cura personalmente il blog The Privatopia Papers, interamente dedicato al fenomeno degli autogoverni privati. Qui il link: http://privatopia.blogspot.com/. 22 Un po’ di numeri probabilmente possono aiutare a far comprendere la rilevanza del fenomeno Privatopia: nel 1970 si contavano negli Stati Uniti 10.000 di questo genere di insediamenti, nel 1980 erano 36.000, nel 1990 130.000, nel 2002 230.000. Se nel 1992, 30 milioni di statunitensi vivevano in 150.000 Common Interest Districts, dieci anni dopo erano ormai 46 milioni (dati del Community Associations Institute, 2002, www.caionline.org) 23 Due sono le opere imprescindibili per poter comprendere l’incidenza delle città-giardino sul panorama urbanistico odierno: Ebenezer Howard, La città giardino del futuro (1945), trad. it., Bologna, Calderini, 1972 e Raymond Unwin, La pratica della progettazione urbana (1911), trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1971 24 Andrew Ross, Op. Cit., p. 288. Per avere un’idea del fenomeno, ecco un link interessante: http://eddyburg.it/article/articleview/9907/0/203/, traduzione di un articolo del Newsday, risalente al 19 ottobre del 2007.
Ma il futuro non ha niente di meglio da riservarci? Ci dobbiamo accontentare di queste città private, dal vago retrogusto ellenico, espressione della privatizzazione della politica stessa? Sembrerebbe di sì, considerati anche i commenti, a dir poco entusiastici, degli utenti di American Pizza Party25, forum di fanatici, ossessionati dal Sogno Americano: «Immagino che siano dei quartieri che funzionano alla grande» scrive un utente a proposito delle gated communities. Un altro gli risponde: « Sì funzionano (…) talvolta poi non esistono neppure cancelli o muri, ci si accorge di entrare solo notando le differenze con gli altri quartieri. Capita pure che basta una strada, un incrocio, a dividere una gated community da un ghetto abitato da poveri, con case in rovina e sporcizia nelle strade. Il colpo d’occhio è notevole!» O ancora, un altro utente, a proposito della Privatopia cattolica Ave Maria26, sorta a Neaples in Florida nel 2007: «io preferisco una Privatopia senza cani, senza tv accese di notte, senza zoccoli e senza vicini che cucinano indiano. (…) Belle queste Privatopie, sono un’applicazione della “mia” del mercato di diritto: ognuno pone i vincoli giuridici che vuole, a patto che li paghi»27. Così come nell’antica polis ellenica, a differenza del moderno Stato pubblico che non contempla la pena dell’esilio, il cittadino che non ottempera alle oppressive e varie clausole, condizioni e restrizioni, viene condannato all’ostracismo e alla vendita forzata della sua abitazione. In poche parole, viene cacciato dalla comunità. La città privata costituisce perciò una rivoluzione concettuale molto ambiziosa, un aspetto utopico che fornisce al termine Privatopia un significato ben più consistente e inquietante di quanto abbia inteso McKenzie quando lo ha coniato nel 1994. Un’America in cui tutti gli enti locali vengono sostituiti dalle città private, nell’ottica di chi decide di vivere in una di queste, molto probabilmente rappresenta la realizzazione di una società giusta, ossia quella forma di Stato minimo teorizzato nel 1974 dal filosofo antistatalista Robert Nozick la cui furia “pubblico-clasta” è tale da considerare la ridistribuzione dei redditi una «violazione dei diritti del popolo» e ritenere che «la tassazione sui redditi da lavoro va assimilata al lavoro forzato». Privatopia è perciò molto più di un fortino assediato contro la criminalità e l’underclass. La si vuole in quanto realizzazione di un’utopia nostalgica. Ma c’è un però. In tutte le “utopie sperimentate” del passato, la comunità ha sempre rappresentato un obiettivo intenzionalmente condiviso da individui legati dalla medesima credenza in determinate convinzioni. Negli insediamenti pianificati di oggi, la Privatopia, pare essersi smarrito proprio quel “senso di comunità”, derivante da un più ampio progetto orientato alla creazione di società perfettamente integrate. Oggi giorno il “senso di comunità” viene assunto come parte integrante di un lessico di mercato che paradossalmente mira a fare della differenziazione di status e di identità uno dei principi di organizzazione di piccole realtà urbane e suburbane. Comunità diviene perciò sinonimo di distinzione, separazione, uno strumento per «comunicare in maniera convincente i progetti sociali»28 degli abitanti, un modo per realizzare una situazione di isolamento psicologico, collocata in una sorta di “limbo” spazio-temporale che può spingere a domandarsi «Che ora è in questo posto?»29. Per certi versi, in questi casi si materializza un’estremizzazione della storica concezione del sociologo Robert Ezra Park sulle “regioni morali” che avrebbero caratterizzato la città americana. L’idea di vicinato di Park «sempre fluida, in divenire, aperta alle contaminazioni, nel bene come nel male»30 subisce un brusco arresto, andando a spianare la strada a una sorta di secessione dei quartieri medio-alti, decisi a proiettarsi in un universo urbano altro, rescindendo i legami con le altre “regioni morali”. E poco male se, per accaparrarsi le inebrianti fascinazioni dell’effetto “tutto sotto controllo”, il prezzo da pagare è rappresentato dalle limitazioni sulle proprie libertà personali (proprio come l’inquinamento viene considerato il “prezzo del progresso”). La richiesta di sicurezza è 25
Qui il link della discussione: http://www.americanpizzaparty.com/forum/index.php?topic=465.msg8574;topicseen www.avemaria.com. L’apertura di questa città ideale “supercattolica” non ha mancato di destare l’interesse delle testate giornalistiche, sia americane (qui il link all’articolo-fiume a cura di Adam Reilly risalente al giugno 2005 e pubblicato dal The Boston Phoenix: http://www.bostonphoenix.com/boston/news_features/top/features/documents/04761828.asp), che italiane (il link all’articolo firmato da Vittorio Zucconi apparso su La Repubblica del 21 giugno del 2005: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/06/21/benvenuti-ave-maria-city.html). Interessante è anche la discussione innescata dalla notizia su Il Barbiere della Sera, webzine impostata come una vera e propria rivista online, senza tanti peli sulla lingua. Qui il link: http://www.ilbarbieredellasera.com/article.php?sid=13924. 27 Qui il link dell’intervento: http://www.haloscan.com/comments/lanzenottern/114107164927107972/ 28 Giandomenico Amendola, “I mutamenti nell’assetto e nelle identità territoriali”, in Giandomenico Amendola (a cura di), Scenari della città nel futuro prossimo venturo, Bari, Laterza, 2000, p. 64 29 Kevin Lynch, What time is thisplace?, Cambridge, MA:Mit Press, 1972 30 Agostino Petrillo, Villaggi, Città, Megalopoli, Roma, Carocci, 2006, p. 87 26
assolutamente una condizione essenziale per assaporare questo piacere, ma è lecito pensare che ci sia anche dell’altro, che difficilmente viene messo in luce da un’analisi sociale che tende a privilegiare sentimenti quali paura, odio, avidità. Non sono infatti assolutamente da sottovalutare la libido del possesso e il richiamo dell’utopia, insieme futuristica e nostalgica, di democrazia proletaria. Come tutte le utopie del controllo, anche quella di Privatopia si presenta come nostalgia per un passato inventato, come rimpianto di una falsa memoria (prerogativa eminentemente postmoderna, non c’è che dire). Gli antichi borghi evocano memorie affascinanti, da rimpiangere sì, ma da perfezionare, da emendare del loro increscioso carattere pubblico. Per fare un esempio, nel complesso di lusso di Morumbi, a São Paulo, la piazza centrale si chiama Place des Vosges ed è una replica della famosa piazza parigina. Così la reclamizzava la pubblicità sul quotidiano O Estado de S. Paulo il 15 marzo 1996: «Place des Vosges. La sola differenza è che quella di Parigi è pubblica e la tua è privata»31, laddove traspare con chiarezza l’ideologia soggiacente: la parigina Place des Vosges è tanto bella ma ha il difetto di essere pubblica, ma sarebbe perfetta se fosse privata! 5. Panoptismi cittadini: l’avanzata di Pauropolis Nel 1791, con Panopticon, Jeremy Bentham intese realizzare ciò che è stato definito da Michelle Perrot come «lo schizzo geometrico di una società razionale»32, un’utopia carceraria che si fa luogo di sperimentazione, di analisi e di controllo. Ispirato «al serraglio che Le Vaux aveva costruito a Versailles, il primo in cui i differenti elementi non sono, com’era nella tradizione, disseminati in un parco»33, nel Panopticon l’animale è sostituito dall’uomo. Ciò la dice lunga sul modo di rapportarsi alla diversità, statico nonostante il susseguirsi delle epoche: rispetto all’Altro si ha un atteggiamento scientifico, basato sull’osservazione senza contatto, sull’analisi e sulla catalogazione. In virtù di queste considerazioni, appare chiaro come il principio che guida il funzionamento della struttura panoptica sia quello della visibilità del soggetto, o meglio, della sensazione di quest’ultimo di essere costantemente osservato. Viene completamente ribalta l’idea della prigione come uno spazio senza luce, chiuso da mura spesse, porte pesanti e chiavistelli rugginosi; un luogo dotato di un suo orrore scenografico, dove però la persona gode ancora di una limitata libertà essendo sottratta allo sguardo altrui. L’opera di Bentham, rimasta a lungo tempo ignorata, è stata riscoperta grazie al contributo di Michel Foucault in Sorvegliare e punire (1975). Questa è la descrizione che dà del Panopticon: Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello, al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno corrispondente alla finestra della torre, l’altra verso l’esterno permette alla luce di attraversarla da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del controluce si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia34. Fig. 7 Struttura di un Panopticon americano (Fonte: http://historyofeconomics.wordpress.com/2008/11/)
31
Citato in Teresa Caldeira, City of walls: crime, segragation and citizenship in São Paulo, Berkeley, University of California Press, 2000 32 Michelle Perrot, “L’ispettore Bentham”, in Jeremy Benthaa, Panopticon ovvero la casa d’ispezione (1791), trad. it., Venezia, Marsilio, 1983, p. 105 33 Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), trad. it., Torino, Einaudi, 1976, p. 22 34 Ibidem, p. 171
A partire dall’analisi del Panoptismo di Foucault è possibile individuare nello stabilimento panoptico l’immagine della città odierna, una “città carcere” «teatro del dispiegamento di una macchina astratta di dominio, che opera mediante una serie di dispositivi tali da garantire al potere, con un ridottissimo dispendio di forze e di energie, il governo di tutto quello che avviene»35. Ma se negli anni della sua prima formulazione, l’idea della città panoptica si è affermata più come una metafora delle grandi istituzioni concentrazionarie che non come una realtà immediatamente presente, attualmente rappresenta invece una situazione abbastanza verosimile. Una delle letture di derivazione foucaultiana più impressionanti per il suo carattere profetico, è stata quella elaborata dall’urbanista e sociologo Paul Virilio, che già negli anni Settanta riuscì a cogliere nella tendenza alla segregazione, non più solo una caratteristica dei ghetti, ma un fenomeno che si sarebbe diffuso su scala urbana come una situazione generalizzata. Un’altra intuizione di Virilio risiede nell’idea della “città sovresposta”, l’immagine di una città «in cui la visibilità illimitata offerta dalle nuove tecnologie lascia progressivamente sempre meno scampo a chi voglia trovare riparo da occhi indiscreti»36. In tempi di gated communities e Privatopias, le parole di Virilio sull’avvenire della città non possono che meravigliare, e al contempo inquietare. Le nuove tecnologie sono gli strumenti con i quali viene perseguita la società del controllo, delle forze a loro modo subdole, perché come è stato messo in evidenza da Gilles Deleuze, sono capaci di lasciare «un’apparente libertà di circolazione e di espressione, [mentre] utilizzano strumenti di sorveglianza e di pressione indiretti, aggiranti e avvolgenti, ma altrettanto potenti ed efficaci dei precedenti»37. Il Panopticon sembrerebbe ormai appartenere al mondo di ieri, se solo non fosse che i suoi aspetti più formali, quelli più strettamente tecnici, vengono rielaborati ed applicati all’interno della “privatopia”. Se nel Panopticon è infatti possibile distinguere «colui che controlla e colui che è controllato, ciascuno con ruoli e funzioni ben distinte, e con gerarchie separate»38, nella comunità chiusa odierna, l’integrazione del controllo dall’alto con il meccanismo della mutua sorveglianza tra cittadini, camuffato in incitamento al ripristino dell’ideale comunitario («ogni compagno diventa un sorvegliante», scrisse Bentham nel Panopticon), esclude di per sé il perdurare di distinzioni tra controllori e controllati, e di conseguenza tra spazio pubblico e spazio privato, tra realtà e finzione39. In questo caos generalizzato, che pare riguardare tanto il “dentro” (la comunità) quanto il “fuori” (la società), dove non è chiaro stabilire chi o cosa sia ad orchestrare ed alimentare un tale sistema (e in questo senso si cerca di ricondurre il tutto a un non meglio definito potere assoluto, “Giano bifronte” nato dal sempre più stretto apparentamento tra politica e media), si continua ad assistere al diffondersi di un sistema di credenze collettive circa il decadimento delle città. La conseguenza è la canalizzazione di paure e inquietudini verso tutto ciò che incarna il “diverso” (e qui si rivela la presenza fobica per gli aspetti del reale ritenuti anormali e deformi all’interno dell’ “idolo” creato in tutte le utopie). Chi si ritrova nella condizione di poterselo permettere, preferisce pagare il prezzo sociale della perdita della libertà, attraverso la scelta dell’autosegregazione, pur di riacquistare un (presunto) senso di sicurezza che ha le sembianze dell’ideale comunitario suburbano. Il fenomeno della corsa all’isolamento va dunque considerato nella sua totalità come un sintomo della volontà di tagliare corto con una serie di problemi considerati ormai come insolubili. La privatizzazione dello spazio è solo un aspetto della più generale messa in discussione del ruolo dei poteri pubblici nel soddisfare le aspettative dei cittadini, una risposta forse estrema alle tensioni sociali, etniche, di classe, che storicamente attraversano la società americana (e non solo), acuite dalla tragedia dell’11 settembre 2001 e dalla profonda crisi generalizzata che sta attraversando l’intero ordine mondiale. Una vergognosa “nazi-
35
Agostino Petrillo, La città perduta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Bari, Edizioni Dedalo, 2000, p. 168 36 Ibidem, p. 171 37 Ibidem, p. 173 38 Vita Fortunati, “Da Bentham a Orwell: un’utopia panottica” in Arrigo Colombo (eds), Utopia e distopia, Milano, Franco Angeli, 1987, p. 51 39 Digitando su Google “città panottica” si ottengono come risultato circa 1.920 pagine (solo in italiano). Questo a testimonianza del fatto che il tema, per quanto possa essere mistificato, non manca di destare riflessioni e preoccupazioni, tanto che se ne potrebbe scrivere un libro. A dire il vero, di libri ne sono già stati scritti diversi, alcuni dei quali molto interessanti: Città in frantumi, sicurezza, emergenza, produzione dello spazio (Milano, Franco Angeli, 2008) e Lo sguardo che esclude. Marginalizzazione e segregazione nello spazio urbano (Pisa, Plus, 2005), entrambi di Sonia Paone, docente di Scienze per la Pace dell’Università di Pisa. Ricco di spunti interessanti risulta essere anche l’articolo sul blog Eschaton (qui il link per visualizzarlo: http://www.eschaton.it/blog/?p=875).
nostalgia” mascherata da innocua caccia al tesoro, alla ricerca dell’infanzia idealizzata inscritta nelle pagine ingiallite della mitologia americana. Non si dice dunque il falso affermando che, negli Stati Uniti, la forma insediativa della comunità chiusa è una realtà abbastanza comune, testimoniata dalla stessa capillarità con cui si sta diffondendo su tutto il territorio e, in particolar modo, nelle zone a più ampia vocazione turistica. Al contrario, in Europa, questo genere d’insediamenti non sono in grado di attecchire come modello perseguito da settori consistenti della popolazione per tutta una serie di ragioni storiche, territoriali e politico-culturali. Alcuni sporadici esempi sono rintracciabili in Gran Bretagna, di cui il più celebre, a cui ho già fatto riferimento, è sicuramente il villaggio medievale di Poundbury, interamente ricostruito dall’utopista e visionario architetto Leon Krier su commissione di Carlo, principe del Galles. In Europa la “rivolta delle élite” si consuma secondo una tendenza che non è quella della secessione radicale e della fuga dalle città, ma consiste nell’allestimento di un complesso assetto organizzativo e gestionale degli spazi urbani. Il riferimento è al fenomeno della “gentrificazione” sviluppatosi negli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta del Novecento a partire dalle rielaborazioni preservazioniste di Jane Jacobs. Un fenomeno forse ancora più subdolo, che tende a far cadere gli anticorpi europei contro la banalizzazione storica dei modelli americani, in quanto l’effetto ricercato è sempre quello della cartolina illustrata, del falso d’autore in perfetto “stile Disney”. La preferenza accordata dalle nuove élite ai vecchi centri storici, spinge perciò verso il recupero e la valorizzazione di aree in precedenza scarsamente appetite, creando al contempo degli spostamenti di popolazione che vanno a ridisegnare la distribuzione delle classi sociali in maniera piuttosto omogenea all’interno delle città europee. Per questo, si può affermare che «le barriere non sono (solo) fisiche e non sono necessariamente erette con l’ausilio della forza [ma] vi sono frontiere simboliche, che sempre meno si ha voglia di varcare, che ridisegnano lo spazio urbano mentre circoscrivono quello sociale»40. In Europa le barriere invisibili sembrano essere molto più efficaci di mura di cinta, telecamere a circuito chiuso, vigilantes e sistemi d’allarme, mentre il rapporto tra inclusione ed esclusione si gioca su una rete molto complessa di relazioni, come dimostrato anche da una ricerca etnografica del 2003 di Dal Lago e Quadrelli. Le due realtà che si configurano nella città, quella delle élite e quella degli esclusi, vivono secondo un’asimmetria che può essere definita “imperfetta”, perché arrivano a sfiorarsi e compenetrarsi per ragioni di mero interesse. Questo almeno è quello che emerge dalle riflessioni dei due autori: Due città separate verrebbe voglia di dire, se poi non si potessero ricostruire le relazioni, occulte che le legano. La città legittima pronuncia parole di paura o di sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di prostituzione a quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale41.
È sempre la paura ad alimentare la crescente ostilità verso mendicanti, senzatetto, tossicodipendenti, e soprattutto immigrati. A seguito del clima venutosi a creare dopo i fatti dell’11 settembre 2001, anche i paesi europei hanno cominciato perciò ad adottare nuove forme di controllo o ad inasprire quelle già esistenti. Francia, Germania ed Italia, essendo le mete dove si dirigono i flussi migratori più consistenti, sono di conseguenza i paesi dove sono state adottate le misure più radicali: ai corpi di polizia pubblica e privata di Francia e Germania, l’Italia risponde con i comitati cittadini che rivendicano il controllo del territorio spingendosi a chiedere l’espulsione degli immigrati. Come ricorda Petrillo, gli aderenti a tali comitati hanno svolto un ruolo significativo durante i ricorrenti sgomberi delle case degli immigrati, fornendo ad esempio stretta collaborazione alle forze di polizia nella segnalazione degli spazi occupati, allo scopo di facilitare controlli ed espulsioni. L’emergere delle istanze di controllo, in Italia come altrove in Europa, sono legate a rivendicazioni di stampo particolarista e settario, molto spesso tanto miopi da non riuscire a vedere al di là degli interessi localizzati in un determinato quartiere o addirittura di una strada. L’importante è riuscire a preservare il senso di sicurezza mettendo al bando la povertà più visibile dal centro della città. Come a Borgo Ronche, esempio di piccola Privatopia italiana che sorgerà nelle vicinanze di Pordenone entro il 201042. Nel 40
Agostino Petrillo, Villaggi, Città, Megalopoli, Roma, Carocci, 2006, p. 91 Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003, p.13 42 Qui il link per visualizzare alcuni immagini, sviluppate in 3D, di Borgo Ronche (Fontanafredda), vicino a Pordenone: http://www.virtualgeo.it/it/work.asp?id=403. La notizia ha destato scalpore anche sui media nazionali, tanto che il Corriere della Sera, in data 13 luglio 2007, ha pubblicato il seguente articolo: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/07_Luglio/13/borgo_blindato_pordenone.shtml 41
blog Diario di Bordo fra i commenti al post dedicatogli, intitolato “Cittadelle della paura o nuove comunità?” (qui il link al post: http://claudiorise.blogsome.com/2007/07/16/cittadelle-della-paura-o-nuovecomunita/), è possibile trovare uno scambio fra due utenti che testimonia come anche in Italia, le comunità private comincino a sollecitare l’immaginario collettivo popolare. Segno, probabilmente, di un declino del ruolo dello Stato nelle vesti di soggetto promotore di sicurezza e coesione. Dice un utente: Vedo un paradosso molto evidente: la ghettizzazione della normalità tradizionale. Mentre in altri paesi, sono le nuove comunità a cercare una propria identità in un paese nuovo (pensiamo alle Little Italy sparse in tutte le città americane, assieme alle Chinatown, Russian Hill, Quartieri Ebraici … ), qui il fenomeno ricorda invece i tempi del Medioevo in cui le città italiane e i monasteri si fortificavano contro le invasioni barbariche, che oggi non sono rappresentate dai clandestini, ma dall’obbiettivo imbarbarimento della società intera. Un gravissimo campanello d’allarme, che deve far riflettere sulla crisi dell’identità della intera comunità italiana, a rischio di nuova frammentazione. In pochi anni si stanno distruggendo millenni di civiltà e di tradizione, che sono in buona sostanza la culla del nostro “Made in Italy” che ha un valore incommensurabile. Cosa altro distinguerebbe altrimenti Gubbio da Los Angeles? Non certo le pietre, ma le mani sapienti dell’artigiano di Deruta …
Gli fa eco un altro: Passatismo? E’ come al solito un’etichetta superficiale ed ideologizzata. In realtà, mi si deve dimostrare come il cosmopolitismo (ideologia illuminista e marxista) sia migliore del patriottismo. E’ tutto da dimostrare che circolare per il mondo senza capirci un accidente è meglio che avere un borgo, un villaggio, un campanile e una comunità di conterranei con cui riconoscersi, aggregarsi e consociarsi.
Le dinamiche in atto nei centri urbani ed extraurbani europei non risultano perciò essere poi così dissimili da quelle delle piccole comunità americane, ma anzi con queste condividono pratiche e modalità, giungendo ad acuire il processo d’inferiorizzazione degli “esclusi” semplicemente a causa della maggiore contiguità dei loro spazi. 6. Critical City. Quando l’attacco alla città viene dalla rete Concettualmente antitetica rispetto alle varie gated communities e Privatopias è l’idea della comunità partecipata, già marginalmente introdotta in precedenza all’interno di questo saggio. Quando si parla di urbanistica partecipata non si fa riferimento a istanze isolazionistiche, come nel caso di Privatopia, bensì a un nuovo orientamento delle istituzioni locali verso un concetto di governo del territorio che mira a coinvolgere l’intera cittadinanza (o almeno quella parte interessata ad essere coinvolta). Perciò, accanto alle sedi tradizionali di eletti quali i consigli comunali, si possono affiancare sedi più o meno formali di confronto ed orientamento come tavole sociali, laboratori di quartiere, piani strategici, che hanno lo scopo di mettere a confronto interessi territoriali in forma diretta, delegando successivamente alla democrazia rappresentativa il compito di recepire o respingere le indicazioni assunte. Che si tratti di un social network dei blog di quartiere di una grande città come Genova (www.centrostorico.genova.it, www.sarzano.genova.it, www.albaro.it, www.marassi.genova.it, sono solo quattro dei diciotto blog di quartiere della città di Genova) o di un comitato promotore per la democrazia e lo sviluppo partecipati di un piccolo paese in provincia di Roma come Vicovaro (www.vicovaro2000.it), passando per la campagna parigina “Adottiamo una panchina”43, si sta sempre e comunque parlando di intelligenti istanze di partecipazione urbana provenienti dal basso. Il filo conduttore pare essere la nostalgia per lo spazio pubblico classico, inteso come lo spazio nel quale i cittadini si radunavano per discutere dei fatti riguardanti la città secondo un ideale di vita politica retta dal dialogo e dall’argomentazione. È il ritorno della polis ellenica, ripensata però nell’ottica del democratico Web 2.0. Va da sé che l’urbanistica partecipata non può assolutamente prescindere dalla rete. Internet svolge così un ruolo di primo piano, molto più incisivo che nel caso della Privatopia dove, i siti delle varie comunità sparse un po’ in tutto il mondo finiscono per essere dei mega spot pubblicitari, buoni giusto per accalappiare qualche incauto compratore ammaliato dal discutibile effetto “cartolina illustrata”. A questo punto, diviene più rilevante tastare il polso della percezione del fenomeno della segregazione comunitaria nei vari blog, testate online e forum disseminati per la rete che non assecondare la tronfia seriosità delle homepage delle varie Seaside, Poundbury o Ave Maria. 43
Qui il link per visualizzare la notizia, apparsa anche in Italia su La Repubblica del 1 settembre 2009: http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/esteri/parigi-panchine/parigi-panchine/parigi-panchine.html
Internet è il luogo (virtuale) dove potenzialmente tutti possono discutere e proporre idee programmatiche che cerchino di contrastare il declino economico, sociale e culturale dei luoghi (fisici). Un’idea vecchia come il mondo implementata su di una piattaforma assolutamente innovativa. Forse è proprio a partire da questi presupposti che Augusto Pirovano di StudioBard, un piccolo gruppo di ricerca e progettazione nel campo dell’urbanistica e delle tecnologie informatiche, ha ideato e lanciato nel 2008 CriticalCity (www.criticalcity.org). Ufficialmente, si tratta del primo gioco di collaborazione urbana in Italia. A guardar bene però, ci si può trovare molto di più: è il geniale tentativo di combinare l’approccio creativo e pragmatico della partecipazione collettiva nel realizzare una visione condivisa della città con le tecnologie del Web 2.0, per loro natura fortemente sociali, collaborative e in grado di diffondere anche a distanza le idee e gli interventi decentrati. Ecco come lo descrive il suo ideatore, Augusto Pirovano: CriticalCity è una community che sfrutta le potenzialità relazionali del virtuale e le mette al servizio del reale con interventi creativi sul territorio. Per capirci, non è Second Life, anzi … potremmo definirlo come un Second Life al contrario: dinamiche da social network nelle strade di una vera città. CriticalCity è innanzitutto un gioco. Abbiamo scelto lo strumento del gioco per le sue enormi potenzialità di coinvolgimento, perché è una attività naturale e fondamentale dell’uomo … e soprattutto perché siamo convinti che l’impegno civico del cittadino e il suo riappropriarsi della città, deve essere prima di tutto divertente perché possa avere un seguito. Un gioco che però ha una caratteristica: di avvenire sul territorio. Il territorio è l’elemento centrale, lo si nota appena si entra nel sito, dove si trova subito una mappa come sfondo. Una mappa della città che mostra il collocamento dei giocatori iscritti ed entro breve anche i luoghi dove sono avvenute le missioni di intervento dei cittadini, le loro “ago punture”, potremmo dire. L’idea è quella di far percepire la città come un immenso campo di gioco dove il cittadino-giocatore può collaborare e sfidarsi con altri giocatori nel tentativo di vivere e migliorare la città44.
Fig. 8 Schematizzazione grafica dei principali obiettivi di CriticalCity (Fonte: http://progettokublai.net/diari/2008/09/23/criticalcity-si-ma-cose/)
Il messaggio sotteso a un’operazione di questo genere pare abbastanza chiaro: un invito rivolto ai cittadini a riappropriarsi dell’ambiente in cui vivono, sviluppando il senso di comunità (virtuale e reale) attraverso un’interazione inclusiva e perché no, magari tentando di restituire smalto a spazi e realtà degradate. Il tutto è portato avanti secondo modalità, tempi e motivazioni stabilite dai cittadini stessi, in un processo di bottom up stupefacente.
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L’intervento è disponibile su Kublai, un ambiente di progettazione online pensato per i creativi e orientato allo sviluppo locale, promosso dal Laboratorio per le politiche di sviluppo del Ministero dello Sviluppo Economico. Il suo obiettivo principale è quello di sviluppare e rafforzare progetti creativi che abbiano un impatto in termini di sviluppo locale, ossia sul territorio nel quale vengono proposti. Qui potete trovare il link: http://progettokublai.net/diari/2008/09/23/criticalcity-si-ma-cose/
Il successo di CriticalCity è testimoniato dai circa mille iscritti al sito e dai numerosi articoli dedicatigli a partire da maggio 2008 (fase d’implementazione della versione beta)45. Considerando che non si sta parlando di un grande social network statico come Facebook bensì di una nicchia, oltretutto che implica un dinamismo e un impegno che non è da tutti, quella di questa piccola start-up è già di per sé una grande impresa. Ma come funziona CriticalCity? È semplicissimo da capire. Una volta effettuata la registrazione, l’utente si collega al sito dove trova una serie di missioni proposte, che spaziano in vari campi: dal sociale all’ambiente, passando per la street art, solo per citarne alcuni. L’utente sceglie la missione che preferisce e va a svolgerla direttamente sul territorio: se si tratta ad esempio di una missione di teatro di strada, il giocatore va fisicamente per strada a recitare. Qui la documenta, scattando foto o facendo un filmato. Tornato a casa, va sul sito e racconta la propria missione, aggiungendo foto, video e audio se necessario. In questo modo guadagna punti, sale di livello e può così scegliere nuove missioni sempre più complesse. Al contempo quella missione diventa d’esempio per tutti gli altri che possono premiarla votandola. Le missioni sono tante. Si passa dall’esplorazione urbana, in cui i giocatori vanno ad esplorare e mappare edifici e zone abbandonate, nella consapevolezza che la riappropriazione del territorio passi dalla conoscenza dei luoghi stessi, all’organizzazione di pic-nic in aiuole pubbliche degradate, dopo averle ripulite e migliorate. Ancora una volta è chiaro come si voglia far passare il messaggio che spazio pubblico non è sinonimo di spazio di nessuno, bensì di tutti, perciò uno spazio pubblico sottratto al degrado è una risorsa di cui può beneficiare l’intera collettività. Altre missioni sono di coinvolgimento collettivo. Azioni simili a flash-mob46, inserite all’interno di una community che si allarga e si conosce per le strade della città. Si tratta di missioni che stimolano la scoperta e la conoscenza delle tante città che esistono dentro alla città. C’è n’è una ad esempio, che invita a fare il giro del mondo: dato il carattere volutamente aperto ad interpretazione, un giocatore ha pensato bene di svolgerla facendo cantare il proprio inno nazionale a tutti gli stranieri incontrati in giro47. Ci sono poi missioni di street-art che portano il giocatore ad intervenire fisicamente sulla città: “Cacciatore d’ombre” ad esempio, invita a catturare con gessi colorati le ombre urbane create sui marciapiedi dalla luce dei lampioni48. Si tratta di piccoli tentativi di cambiamento, che ancora prima del territorio coinvolgono la percezione della città da parte del cittadino. Se il Web 2.0 ha segnato l’inizio di un web in cui l’utente non è un lettore passivo ma diventa creatore di contenuti, allo stesso modo si può parlare di cittadinanza 2.0, ossia quella in cui il cittadino non si limita ad aspettare e subire passivamente le decisioni e gli interventi delle autorità locali, ma diventa protagonista attivo del cambiamento. Naturalmente siamo ancora nell’ambito dell’esperimento, ma è indubbio come esistano ampi margini di miglioramento nel mettere in rete e liberare le energie dei cittadini, facendoli riappropriare del territorio in maniera creativa. Solo in questo modo si possono affrontare i problemi che il futuro ci pone nelle nostre città. Di certo, una soluzione più ragionevole e coraggiosa rispetto alla fuga nella Privatopia. Epilogo A termine di questa breve analisi sul cambiamento della percezione del senso del luogo mi riservo il diritto di fare alcune considerazioni. Essendo l’ambito architettonico/urbanistico difficilmente razionalizzabile in termini di macro trend, il mio tentativo è stato quello di cogliere e comprendere gli aspetti più salienti di una tendenza particolare che però 45
Qui il link dove si possono trovare tutti gli articoli, post e interventi dove si parla di CriticalCity, nel periodo che va dal 18 maggio 2008 al 4 novembre 2009: http://blog.criticalcity.org/parlano-di-noi/ 46 Il flash-mob (dall’inglese flash – breve esperienza e mob – moltitudine) è un evento nel quale un gruppo di persone si riunisce all’improvviso in uno spazio pubblico, mettendo in pratica un’azione insolita, per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi. Il raduno viene generalmente organizzato attraverso comunicazioni via internet o tramite telefoni cellulari. In molti casi, le regole dell’azione vengono illustrate ai partecipanti pochi minuti prima che l’azione abbia luogo. Nella maggior parte dei casi, il flash-mob non ha alcuna motivazione se non quella di rompere la quotidianità. Qui il link al più famoso sito di flash-mobbing inglese: www.flashmob.co.uk/. Per quanto riguarda i flashmobbers italiani il sito di riferimento è www.flashmobitalia.info/ 47 Qui il link per visualizzare la video missione: http://www.youtube.com/watch?v=fz0VTMCEmMg&feature=player_embedded 48 Per visualizzare questa e tante altre missioni basta andare sul sito www.criticalcity.org. Cliccando su “Critical Headquarter”, in basso a sinistra sullo schermo, è possibile scorrere la lista di tutte quante le missioni svolte, nonché vedere quali sono ancora le missioni da svolgere.
si sta affermando anche a livello generale, più negli Stati Uniti che in Italia (anche se nel brusio indistinto della rete qualcosa si sta muovendo nel nostro paese, seppur solo a livello di evanescente chiacchiericcio). La nostalgia ha espugnato quest’ultimo baluardo e la rivalsa della dimensione locale su quella globale, della comunità sulla società, del “periferico” sul centrale, ne è la prova più evidente. L’ideale della piccola comunità pianificata, la Privatopia, pare collocarsi perfettamente a metà strada tra il mito sociale e l’utopia regressiva, affondando le sue radici in quella tradizione americana di utopie realizzate con la prerogativa della condivisione e che traggono spunto dal modello di democrazia illuminata dei pilgrim fathers. Privatopia è utopia regressiva dal momento in cui si pone come alternativa dell’esistente andando a pescare direttamente in un passato idealizzato, e mito sociale nella misura in cui costituisce il substrato condiviso da più individui. Ma al di là dei tratti puramente estetici (lo stucchevole “effetto cartolina”), nelle recenti comunità pianificate pare sopravvivere ben poco del villaggio pre-bellico, nonostante l’obiettivo dichiarato sia proprio quello di tentare di mettere un freno agli stili di vita (post)moderni attraverso un design vicino alla storicizzazione farsesca dei parchi a tema Disney, che esalti gli aspetti sociali della vita del piccolo centro.
Figg. 9 e 10 Sopra, un’immagine della Main Street di Disney World ad Orlando, Florida (Fonte: http://www.pbase.com/mrickard/image/84336837) A destra, un’immagine della Main Street di Celebration, Florida (Fonte: http://justsaygood9.blogspot.com/2009/09/celebrationtown-florida-usa.html). Riuscite a trovare qualche differenza?
Possono la disposizione di strade e aree pedonali, ampi porticati, cancelli bassi, spazi verdi comuni più ampi di quelli privati, incrementare la qualità dei rapporti interpersonali? Probabilmente sì. Ma da qui a parlare di comunità coesa, specialmente se si tratta di interventi per così dire “calati dall’alto”, ce ne passa. Può la condivisione del disagio essere il presupposto per sviluppare il “senso di comunità”? Assolutamente no. Come ricordato anche da Zygmunt Bauman «il condividere stimmate e umiliazioni pubbliche non trasforma i sofferenti in fratelli»49. Che fine ha fatto il tanto rimpianto “senso di comunità”? L’insofferenza e l’inquietudine che spingono alla chiusura nella Privatopia sono da ricercarsi dunque nel mancato riconoscimento ed accettazione dell’alterità, sbrigativamente identificata con le forme più drastiche di degrado sociale e urbano (criminalità, povertà, caos, sporcizia …). Per chi ha la possibilità di mettere in pratica la fuga, il rifugio “sicuro” è rappresentato dalle comunità chiuse, che riescono a garantire la certezza di poter condividere gli spazi tra “eguali” (un po’ come nel passato, quando ancora non ci si spostava con la medesima facilità di oggi). La comunità diviene perciò il luogo dell’omologazione interna e dell’esclusione esterna. Niente a che vedere dunque con le immagini rassicuranti del passato. Gli acquirenti ne sono consapevoli e forse proprio per questa ragione, gli abitanti aumentano di anno in anno e le comunità si moltiplicano, nella totale noncuranza del fatto di dover vivere secondo le regole imposte dalle amministrazioni private che gestiscono le residenze. L’utopia urbanistico-spaziale porta con sé, inevitabilmente, i segni dell’utopia politica, non essendo il solo aspetto urbanistico a veicolare l’interesse degli acquirenti. È la rivoluzione “silenziosa” della privatizzazione, una minaccia per le democrazie di tutto il mondo. 49
Zygmunt Bauman, Voglia di comunità (2001), trad. it., Bari, Laterza, 2003, p. 118
La frammentazione sociale conseguente all’affermazione di queste nuove forme dell’abitare, che è andata a ridisporre case e persone in un modo non troppo diverso da quello del periodo della segregazione razziale americana degli anni Sessanta, a mio parere denota il grande fallimento delle politiche d’integrazione razziale e sociale poste in essere in tutte le democrazie. In conclusione, i dubbi qui sollevati circa la riduzione della politica comunitaria alla sola dimensione del “buon vicinato”, dovrebbero spingere a una riflessione profonda sulle tendenze privatistiche in atto. I tentativi di partecipazione portati avanti da un progetto come CriticalCity, finanche i vari forum, blog e social network di città e paesi, rappresentano sicuramente un’innovazione in senso più democratico della vita sociale comunitaria. Ma si tratta sempre di esperienze embrionali, limitate a una dimensione che ancora non può permettersi di andare al di là del localismo. Pare dunque non esserci la possibilità di riuscire a cogliere con certezza il tipo di sviluppo futuro, anche immediato, del ritorno della comunità chiusa. Ma se anche un pensionato di Celebration50 (la raccapricciante riproposizione nostalgica del villaggio americano, marchiata Disney) arriva ad affermare: «ciò di cui avremmo bisogno in questa città è di vedere ogni tanto un ubriaco»51, forse allora la speranza di una “controfuga” dall’artefatta vita di queste comunità non è poi così tanto un utopia. E cos’è quest’ultima, se non una nuova e, in questo caso auspicabile, forma di nostalgia?
50
www.celebration.fl.us/ è il sito istituzionale di Celebration, rivolto solo ed esclusivamente ai cittadini. http://celebrationtowncenter.com/ è invece il sito per il turismo. 51 Citato in Andrew Ross, Op. Cit., p. 378
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Link alle immagini http://www.eslarp.uiuc.edu/la/LA338-S01/groups/c/ http://historyofeconomics.wordpress.com/2008/11/ http://justsaygood9.blogspot.com/2009/09/celebration-town-florida-usa.html http://www.lasmogtown.com/?cat=108 http://listicles.thelmagazine.com/2009/06/10-unbuilt-frank-lloyd-wright-buildings/ http://www.loewshotels.com/en/Hotels/New-Orleans-Hotel/Tour/AmenitiesGallery.aspx http://www.nwas.org/meetings/nwa2006/Broadcast/Kelsch/watersheds/u5_assets.htm http://www.pbase.com/mrickard/image/84336837 http://poundburyforum.proboards.com/index.cgi?board=poundburymap&action=display&thread=139 http://progettokublai.net/diari/2008/09/23/criticalcity-si-ma-cose/
Marco Luchini