La ricostruzione cronologia del disastro ato in sicilia dagli anni 90 al 2010

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L’efficienza pubblica e la storia degli ATO rifiuti in Sicilia Politiche pubbliche

Domenico Michelon - Domenico Quagliana |

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Si ricostruisce la storia della vicenda rifiuti in Sicilia attraverso l’esperienza degli ATO e si avanzano alcune riflessioni sui meccanismi perversi che alimentano le politiche pubbliche in questo ambito...

L’evoluzione normativa Il concetto di Ambito Territoriale Ottimale (ATO) è stato introdotto con la legge n. 36/1994, nota come “Legge Galli”, per avviare un profondo processo di modernizzazione e riorganizzazione del settore idrico, reso scarsamente efficiente dall’estrema frammentazione degli operatori. Questa frammentazione impediva l’affermarsi di una gestione efficiente di tipo industriale e determinava una disomogeneità degli standard qualitativi del servizio. Per fare fronte a questa situazione, la legge assegnava alle autorità regionali e locali la riorganizzazione dei servizi di acquedotto e lo smaltimento attraverso un’integrazione territoriale. Il decreto 22/96, noto come “Decreto Ronchi”, ha esteso l’organizzazione del servizio mediante ATO anche al settore della gestione dei rifiuti. L’idea era quella che nel territorio di ciascun ATO, coincidente con la Provincia, si realizzasse l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti, si riorganizzassero le modalità di gestione dei servizi condividendo personale e mezzi, venissero garantiti i medesimi standard. L’eliminazione della frammentazione dei servizi avrebbe, inoltre, reso più difficile l’infiltrazione di organizzazioni mafiose che nella gestione dei rifiuti avevano già dimostrato molto interesse. Nel gennaio 1999 (con decreto n. 2983), la Presidenza del Consiglio dei Ministri dichiarò lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani in Sicilia. La decisione fu presa in risposta alla nota del 2 dicembre 1998, con cui il Presidente della Regione siciliana rappresentava la grave crisi determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti. Successivamente l’emergenza è stata estesa anche ai rifiuti speciali, speciali pericolosi ed alla bonifica dei siti inquinati. Con decreto commissariale n.150 del 25 luglio 2000 veniva approvato il “Documento delle priorità degli interventi per l’emergenza rifiuti in Sicilia” (P.I.E.R.), che individuava gli interventi prioritari propedeutici al superamento del periodo transitorio dell’emergenza (inizialmente fissato in ventiquattro mesi), e al conseguimento dell’autonomia di smaltimento nell’ambito della regione. Il P.I.E.R., attraverso la ricognizione della dotazione impiantistica dell’isola, del flusso dei rifiuti e dei livelli di raccolta differenziata (da raggiungere), individuava e collocava nel territorio la rete impiantistica sia per la frazione umida (impianti di compostaggio) che per la frazione secca (impianti di selezione e valorizzazione). Per la frazione residuale della raccolta differenziata, il PIER prevedeva la produzione di Combustibile Derivato dai Rifiuti (CDR) e venivano individuati altresì i comuni sede di impianto e gli ambiti per la selezione e valorizzazione della frazione secca (ATO), nonché i Comuni sede di impianto ed i sub ambiti per la produzione di compost (sub-ATO). L’ordinanza commissariale n.3190 del 22 marzo 2002 sostituiva la produzione del CDR, con la termovalorizzazione della frazione secca. La successiva ordinanza commissariale n.488 dell’11 giugno 2002, nelle allegate “Linee guida per la raccolta differenziata”, vista l’introduzione della termovalorizzazione osservava: “Viene meno, in tal modo, la necessità della suddivisione, effettuata nel P.I.E.R., in ATO e sub ATO a servizio del sistema impiantistico del CDR, e si possono estendere gli ATO ed i sub-ATO alla gestione integrata delle raccolte differenziate (materiale secco da RD e umido da RD) alla gestione integrata dei rifiuti, cioè alla gestione della frazione residuale a valle della raccolta differenziata…”. Con ordinanza commissariale n.1166 del 18 dicembre 2002 veniva poi adottato il Piano di gestione dei rifiuti, che costituiva un vero e proprio “corpus” in cui confluivano i precedenti atti di pianificazione già adottati dal Commissario delegato, rimarcando il ruolo centrale della raccolta differenziata. Alla sua presentazione il


Piano veniva definito come un “work in progress”, cioè uno strumento dinamico, flessibile ed integrabile, in considerazione della necessità di assicurarne sia l’efficienza attraverso la sua concreta applicazione, sia la conformità alla mutevole normativa comunitaria e nazionale in tema di gestione dei rifiuti. Il Piano di gestione dei rifiuti riprendeva la suddivisione del territorio regionale in ATO (25) e sub-ATO (35). Secondo il Piano, la società di gestione integrata dei rifiuti doveva essere dotata della massima flessibilità gestionale. Tale flessibilità gestionale richiedeva l’adozione di uno statuto modellato secondo i principi della società per azioni. La Società doveva essere sottoposta ad un rigido controllo pubblico, con precise indicazioni statutarie in merito al controllo della maggioranza del capitale azionario e alla nomina del Consiglio di Amministrazione, dell’Amministratore e dei Sindaci. In precedenza, con ordinanza commissariale n.1069 del 28 novembre 2002, il Commissario delegato aveva stabilito che l’aggregazione dei comuni sarebbe potuta avvenire esclusivamente per ATO mentre non era consentita l’aggregazione per sub-ATO. Nella stessa ordinanza veniva poi stabilito che con decorrenza dalla data di piena operatività della Società, tutte le attività di competenza degli enti soci, comprese le funzioni amministrative e fiscali, venivano delegate alla stessa, compresi l’affidamento dei servizi, la riscossione delle tariffe e l’attribuzione della titolarità delle risorse per la gestione dei rifiuti. Il 31 dicembre 2002 nascevano 27 (e non 25) Società d’ambito. Nel frattempo, dalla dichiarazione dello stato di emergenza (22 gennaio 1999) fino alla costituzione degli ATO (31 dicembre 2002), non era stato realizzato nessun impianto significativo per la gestione finale dei rifiuti. In questo periodo, a parte qualche (spesso inutile) isola ecologica e diverse campagne di sensibilizzazione (che informavano sulla necessità di fare la raccolta differenziata a fronte di nessun servizio reale offerto) non era stata rimossa nessuna delle cause che avevano indotto al riconoscimento dello stato di emergenza. Nel corso di questi anni molti attori – amministratori, tecnici del settore, semplici cittadini – si erano lamentati per il fatto che il decreto Ronchi avesse complicato il problema della gestione dei rifiuti in Sicilia. Dimenticando che la Sicilia si era dotata di un Piano Regionale per lo smaltimento dei rifiuti già nel 1984, in ossequio alla legge 915 del 1982 e che questo Piano non aveva mai avuto attuazione. Quanto sopra vuole servire a ricordare che il problema rifiuti in Sicilia non è recente, e soprattutto non è da addebitare nè all’emanazione del decreto Ronchi nè soltanto agli ATO, ma ad una serie di cause storiche, che non è il caso di analizzare in questa sede, ma che possiamo sintetizzare con alcuni titoli: • interessi consolidati (legittimi ed illegittimi); • insipienza ed indifferenza degli amministratori nei confronti del problema; • incertezza, se non latitanza, degli uffici che avrebbero dovuto avviare ed assicurare la realizzazione del Piano del 1984.

L’attuazione dei processi e la sensibilità della politica. Costi espliciti e costi occulti Il problema è quindi antico. Il decreto Ronchi lo aveva soltanto fatto emergere, fissando una serie di scadenze e di obiettivi da rispettare e contribuendo a cambiare la sensibilità dei cittadini nei confronti del problema. Invariato è rimasto, invece, il punto di vista e la sensibilità della politica.Tra i componenti dei consigli di amministrazione degli ATO infatti sono stati nominati politici non eletti, funzionari di partito (di tutti i partiti), parenti di sindaci, qualche tecnico. Risultano assenti figure manageriali riconosciute. L’avvio delle attività degli ATO è stato molto difficile. A parte il disorientamento generale (degli amministratori abbiamo già detto), uno degli ostacoli più difficili da affrontare è stato l’errata interpretazione del ruolo degli ATO da parte dei Sindaci e dei funzionari dei Comuni. In generale gli amministratori pubblici hanno considerato gli ATO come una controparte e non come una società di cui essi stessi sono proprietari. Ciò ha avuto come conseguenza una scarsa collaborazione, la diffidenza ad accettare nuove regole (condivisione di mezzi e personale provenienti dai comuni soci, l’equiparazione dei servizi a prescindere dalla dimensione dei comuni, ecc.), un agguerrito sbarramento a riconoscere i nuovi (maggiori) costi del servizio. E’ stato, infatti, estremamente difficile convincere sindaci e funzionari che l’aumento dei costi era dovuto al cambiamento del sistema e non a una loro errata computazione.


Prima degli ATO molti costi non apparivano alla voce unica “servizio di igiene urbana” (o simile) del bilancio comunale ma erano “occultati” in altre partite di bilancio: i carburanti rientravano in una voce complessiva; molti servizi di pulizia erano inseriti in progetti obiettivo; molti costi del personale precario non erano a carico del Comune ma della Regione; lo spazzamento costituiva una voce a se stante. L’occultamento di alcuni oneri consentiva ai sindaci di limitare il peso della TARSU riversata sui cittadini. Inoltre il nuovo sistema prevedeva per gli operatori un contratto (Federambiente) più oneroso rispetto al contratto dei lavoratori comunali ed introduceva l’IVA. Infine, senza alcuna analisi preventiva delle effettive necessità e delle conseguenze sui costi, nell’aprile 2004 veniva siglato un accordo tra l’allora Presidente della Regione/Commissario per l’emergenza rifiuti Cuffaro ed i Sindacati in cui si stabiliva che alle Società di ambito sarebbero dovuti transitare gli impiegati comunali, gli articolisti addetti al servizio (individuati mediante apposita ricognizione) e i dipendenti delle ditte private impegnate nei vari servizi. La crisi del sistema Al momento della presentazione dei piani d’ambito redatti dalle Società, era possibile verificare l’adeguatezza e la congruenza dei costi rispetto al contesto nazionale o europeo. Il problema è che quanto enunciato nei piani d’ambito, nella maggior parte dei casi, non è mai stato messo in pratica: si è sempre andati avanti soprattutto con le assunzioni, con il ricorso a ditte esterne, mentre non sono stati fatti gli investimenti previsti (e questo non lo dice nessuno), e nei casi in cui qualche investimento è stato fatto, è stato fatto male e/o addirittura sbagliando. Si è dunque avuto un impiego non ottimale delle risorse del POR 2000-2006 gestite dal Commissario per l’Emergenza rifiuti. Tutto ciò ha portato alla situazione che, rispetto al costo che sostenevano ante ATO, i Comuni si sono ritrovati con un costo di gran lunga superiore. Come segnalato in precedenza i costi adesso comprendono l’IVA, gli ex articolisti, i costi di conferimento. Questi ultimi, rispetto ad uno scenario di 5-10 anni fa cui si fa spesso riferimento, sono molto lievitati perché si sono modificati i requisiti degli impianti (e in Sicilia quando si parla di impianti si parla ancora solo e soltanto di discariche). Infine, ci sono i bilanci che venivano redatti cercando di far quadrare i conti senza aumentare la TARSU. Quindi vi è un insieme di elementi critici che ha portato al deterioramento della situazione, mentre non si può affermare che sia il modello ad aver prodotto la crisi. Sarebbe stato un bene se la revisione a livello regionale della legge avesse meglio valutato il modello in rapporto alle cause della crisi. Per quanto riguarda i debiti degli ATO nei confronti di terzi e dei Comuni nei confronti degli ATO, la situazione è complessa e articolata. Come scritto prima, se si vuole affermare che gli ATO hanno fatto lievitare notevolmente i costi si deve anche dire che questi costi non erano mai stati inseriti nei bilanci della maggior parte dei comuni. Nei casi in cui però i Comuni hanno operato correttamente, inserendo i costi nei bilanci ed aumentando la TARSU, appare sbagliato non avere previsto per questi enti misure di salvaguardia e/o di premialità. Anzi, paradossalmente, vengono “premiati” quei Comuni che hanno provocato i maggiori disastri, andando a finanziare i debiti provocati e accumulati e di fatto penalizzando chi in questi anni ha fatto semplicemente il proprio dovere. Questo è forse l’aspetto più critico dello scenario che si va delineando: i malesseri sopra descritti hanno riguardato, in sostanza, gli ATO che hanno cercato di funzionare, mentre vita più facile hanno avuto gli ATO che si sono limitati a “galleggiare”. In alcuni di questi ultimi la presenza di consigli di amministrazione fortemente politicizzati/condizionabili ha fatto sì che le attività proprie dell’ATO venissero sottomesse alle esigenze della politica, limitandosi a svolgere il minimo indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi (senza ovviamente raggiungerli) e cercando di accontentare i dante causa con favori e cortesie (errata valutazione dei costi affinché questi risultassero compatibili con i bilanci comunali, assunzioni non giustificate, servizi ad personam, ecc.). Sono proprio gli ATO di quest’ultimo tipo che hanno messo in crisi il sistema e sono questi che la politica ha preso come unità di misura per valutare il sistema. Il ruolo del Commissario delegato In tutto questo, vista l’importanza del ruolo conferitogli ed il notevole costo di gestione, ci si chiede quale sia stato il ruolo dell’ufficio del Commissario delegato.


L’ufficio ha distribuito equamente agli ATO (in base alla popolazione ed all’estensione del territorio) i finanziamenti provenienti dal POR 2000-2006 per l’acquisto di mezzi ed attrezzature e per la realizzazione degli impianti; ha costituito l’Osservatorio dei rifiuti che recepiva tutte le informazioni relative agli obiettivi raggiunti; ha approvato progetti e rilasciato autorizzazioni; ha curato i rapporti con il Ministero dell’Ambiente e con la Commissione Europea; ecc. Tuttavia non è mai intervenuto per guidare, correggere, integrare, consigliare quegli ATO che non sono stati in grado di dimostrare (alcuni fin da subito) di avere intrapreso la strada giusta con iniziative dirette a raggiungere gli obiettivi per i quali erano stati costituiti. Forse in nome di un principio di non interferenza, non è mai entrato nel merito delle scelte gestionali delle società, lasciando così che alcune continuassero ad essere guidate da amministratori incompetenti (ovviamente in buona fede) ed altre non fossero amministrate per niente (ovviamente per buona causa). Apriamo un breve inciso: a dicembre 2009(!), in nome di questa pax democratica sono stati distribuiti equamente agli ATO (in base alla popolazione e all’estensione del territorio) i residui dei finanziamenti provenienti dal POR 2000-2006 per l’acquisto di mezzi ed attrezzature e per la realizzazione degli impianti, richiedendo come sola garanzia l’approvazione del bilancio 2009 e prescindendo dagli obiettivi raggiunti e della capacità di spesa (e quindi di organizzazione e programmazione) dalle singole società. Il risultato è che numerose società, per l’ennesima volta, non hanno presentato alcun progetto e così continuano a rimanere residui provenienti dal POR. L’Ufficio non ha mai pensato di introdurre indicatori in grado di valutare in corso d’opera l’efficienza delle Società d’Ambito, né di stabilire target intermedi da raggiungere per correggere i percorsi sbagliati. In realtà, un intervento diretto sulle società è stato fatto. Per ridurre i costi è stato chiesto di limitare a tre il numero dei componenti dei Consigli di Amministrazione. Da alcuni dati risulta che nei cosiddetti ATO virtuosi (ossia quelli che hanno raggiunto gli obiettivi di raccolta differenziata ed hanno costi e numero di personale compatibili con la popolazione gestita) il costo dei CdA incideva appena per l’1-2%. Di alcuni altri, nella maggior parte dei casi coincidenti con gli ATO che non funzionano, è meglio tacere (augurandosi che qualcun altro approfondisca il problema). Il tentativo di razionalizzazione Nonostante alcuni ATO dimostrino che il sistema, se ben guidato, è in grado di funzionare (come del resto avviene nel resto dell’Italia), numerose voci si levano contro gli ATO siciliani. Hanno iniziato i sindaci, sempre più alle prese con problemi di bilanci ridotti al minimo e quindi in maggiore difficoltà ad integrare quanto introitato con la TARSU per ricoprire i costi del servizio; sono seguite le associazione dei Sindaci (ovviamente); si sono aggiunti i Sindacati (che per non perdere visibilità, comunque, si aggiungono); e la lista potrebbe continuare.Ma cosa dicono i cittadini, cioè i destinatari del servizio? Certamente quelli ai quali non viene ritirata la spazzatura, a ragione, protestano. Ma le proteste sono spesso disgiunte da un’analisi delle cause. Infatti, chi lo spiega ai palermitani che la loro spazzatura non viene ritirata non per colpa degli ATO ma per colpa di una vecchia amministrazione di AMIA a dir poco allegra? Chi lo spiega ai cittadini di numerosi paesi siciliani che la raccolta dei rifiuti spesso non avviene perché le Società non hanno i soldi per pagare i carburanti dei compattatori in quanto i Comuni non trasferiscono le somme dovute? Chi lo spiega ai cittadini di numerosi paesi siciliani che gli operatori non lavorano in quanto sono talmente tanti che chi li ha assunti, non avendo considerato che poi gli avrebbe dovuto pagare lo stipendio, adesso si accorge che questi soldi non li ha? Di contro ci sono cittadini che non protestano. Sono quelli che appartengono ai territori gestiti dai cosiddetti ATO virtuosi. Fanno la raccolta differenziata, non hanno i rifiuti davanti alla porta, hanno a che fare con operatori pagati regolarmente. Ma sono pochi, vivono in un centinaio di Comuni di piccola dimensione, ammontano a circa cinquecentomila persone su una popolazione di cinque milioni. Sono circa il 10%, e non fanno opinione. A questo punto l’Assemblea Regionale, dopo un superficiale approfondimento e senza avere sentito le parti, ma soltanto le voci di chi urla di più, ha deciso che il sistema va cambiato ed in base ad una serie di principi: gli ATO non funzionano (prendendo come sola prova quelli che “veramente” non funzionano); gli ATO sono costosi (prendendo come sola prova quelli che “veramente” disperdono denaro, perché hanno assunto un numero spropositato di operatori ed hanno gli uffici intasati da personale amministrativo, perché


continuano a noleggiare cassonetti e compattatori in quanto – per motivi “incomprensibili” – non sono stati in grado nemmeno di acquistarli con le somme messe a disposizione dal POR); gli ATO non sono in grado di gestire il servizio (prendendo come sola prova gli ATO che “veramente” non hanno mai gestito il servizio e non sono stati neanche in grado di bandire una gara d’appalto); in base a questi principi decide di cambiare sistema. Si è deciso di cambiare sistema senza individuare e rimuovere le cause che ne hanno impedito la corretta applicazione, decide così di cambiarlo “radicalmente”. Cambiare, ovviamente, è più facile che affrontare e risolvere il problema, e presenta il vantaggio di non mettere a nudo una delle sue cause principali: cioè che il difetto non sta nel sistema, ma nelle sue modalità di gestione e dunque in quelli che lo gestiscono. E quelli che lo gestiscono li ha scelti la Politica. Inoltre la Politica sembra non aver fin qui considerato che, quale che sia il sistema, questo deve tenere conto che: • l’assenza di impianti di trattamento fa aumentare i costi – occorrerebbe quindi accelerarne i tempi di realizzazione, avocandosi la Regione la realizzazione di quelli in capo agli ATO inoperosi o in difficoltà; • esistono dei parametri che stabiliscono il corretto rapporto tra popolazione servita e numero di operatori – per cui va risolto in via preliminare il problema degli esuberi di personale in alcune Società. Come sono in esubero ora, saranno in esubero con qualsiasi sistema di gestione; • esistono dei parametri che stabiliscono il corretto costo di gestione in funzione della popolazione servita – per cui i criteri di computo dei costi di gestione ed i limiti che questi non devono superare vanno definiti preliminarmente all’avvio del sistema di gestione; • non è possibile concepire nuove forme di aggregazioni di Comuni se prima non si stabiliscono le modalità di condivisione dei costi per il ripianamento dei debiti già maturati. Se proprio si devono fare, meglio sarebbe se le nuove Società avviassero la propria attività senza avere già debiti. La legge 9/2010 “Gestione integrata dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati”, in vigore dal 23 aprile, non contiene alcuna indicazione in merito. Appare una soluzione formale, non sostanziale, dei problemi da affrontare. Essa contiene norme per molti aspetti condivisibili. Ma si deve verificare se consente di applicare le misure, gli strumenti, in grado di evitare il ripetersi della situazione attuale. Da una prima lettura non pare che questi strumenti ci siano. Infatti non vengono definiti neanche i criteri di scelta degli amministratori (un aspetto quanto meno dubbio). Se si fosse voluto affrontare più correttamente il tema della riforma degli ATO si sarebbero dovute stabilire due cose: • cercare di capire obiettivamente come si è determinata l’attuale situazione e quali sono stati gli attori responsabili che hanno portato a tutto questo; • cercare di intravedere quale vuole essere il sistema siciliano a regime.

Traguardando queste due cose, ossia il punto di partenza ed il punto di arrivo, si sarebbe potuto tentare di trovare la soluzione. Ma osservando il resoconto del dibattito in aula all’ARS, in merito all’approvazione della nuova Legge, il quadro appare a dir poco sconfortante, sembra che la Politica abbia cercato solamente di eliminare un fastidioso ronzio, cercando di scaricare le colpe ad entità astratte, lontane, subite, come se la Politica, accorgendosene all’ultimo momento, non si fosse mai accorta di niente. StrumentiRes Anno II - n° 4 - Maggio 2010

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