Nico Naldini
Il treno del buon appetito
RE RONZANI EDITORE Nei ricordi di un poeta le storie di un Novecento che nessuno ha mai raccontato
Pier Paolo Pasolini, Suonatore di fisarmonica (Archivio Contemporaneo ‘A. Bonsanti’, A-III 5)
Nico Naldini
Il treno del buon appetito Con cinque disegni di Pier Paolo Pasolini Introduzione di Franco Zabagli
RONZ ANI EDITORE VICENZA • 2017
I disegni di Pier Paolo Pasolini che illustrano questo volume sono conservati a Firenze presso l’Archivio Contemporaneo ‘A. Bonsanti’. Ronzani Editore ringrazia Graziella Chiarcossi e il Gabinetto Vieusseux per aver gentilmente autorizzato la riproduzione. Nelle didascalie sono riportati titolo e segnatura del disegno secondo il Catalogo dell’Archivio Contemporaneo, al quale si rinvia per tutti i dati ulteriori. È vietata la duplicazione o la riproduzione con qualsiasi mezzo.
© Ronzani Editore Vicenza marchio editoriale di Elabora S.r.l. Viale del Progresso, 10 - 36010 Monticello Conte Otto (Vi) www.ronzanieditore.it info@ronzanieditore.it ISBN 978-88-94911-00-8 Prima Edizione : Febbraio 2017
PER NICO di Franco Zabagli
Nico Naldini è prima di ogni altra cosa un poeta. Una constatazione da fare così, pianamente, senza tante cerimonie in Parnaso, proprio come succede nelle prime righe di un racconto che Goffredo Parise gli ha dedicato nel Sillabario n. 2. Un poeta che fa circolare i propri versi «quasi con ritrosia e sottobanco », secondo quel che un altro amico, Andrea Zanzotto, scrive di lui recensendo nel 1988 La curva di San Floreano, raccolta «smilza eppure densissima » dove Naldini aveva riunito per la collana ‘bianca’ di Einaudi tutte le poesie scritte fino ad allora. Poesie in dialetto e in lingua cadenzate per lo più su una perfetta misura breve, che trattengono ognuna un frammento di realtà o di eccentrica saggezza, e che fissano la verità della vita senza aggiungere letteratura alle epifanie della gioia, ma senza neanche chiedere sconti alle esazioni della malinconia e del dolore. Quand’era ancora un ragazzo, Nico Naldini esordisce sotto l’incantesimo maieutico dell’Academiuta di lenga furlana, fondata a Casarsa dal cugino Pier Paolo Pasolini. Negli 11
almanacchi dell’Academiuta pubblica i primi versi e poi, nel 1948, sempre sotto quell’insegna editoriale, la sua prima plaquette: Seris par un frut. Ha continuato a esser poeta «con ritrosia e sottobanco » anche nei successivi decenni, durante i quali ha sì pubblicato poco, ma variamente ha lavorato nell’editoria, nel giornalismo, nel cinema, e più che altro ha vissuto. Come se si fosse accorto che una speciale bellezza che ancora abitava il mondo aveva i giorni contati, e con essa la «strana gioia di vivere » che allertava i sensi di uomini straordinari come Giovanni Comisso, Filippo de Pisis o Sandro Penna, numi di una meravigliosa libertà esistenziale, «Dei fastosi e cialtroni » diventati col tempo un prediletto argomento di ricerca e scrittura biografica. Durante l’ultimo scorcio del Novecento Naldini si è fatto narratore dei personaggi nei quali ha riconosciuto una sua genealogia d’elezione, veri maestri di un sapere senza regole, trasmesso semmai nella corrente stessa della vita, tutt’al più persistente, per chi sarà capace di riconoscerlo, nelle accensioni della poesia. Vita di Giovanni Comisso (1985), Pasolini, una vita (1989), De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore (1991), sono libri per i quali Naldini ha messo a punto, come 12
a premunirsi da ogni implicazione troppo soggettiva, un metodo, meglio forse uno stile che privilegia l’utilizzo diretto dei documenti: lettere, diari, carte d’archivio, tutto ricomposto con un sottile lavoro di tagli intarsi e suture dentro il flusso limpido e quasi imperturbato della sua propria scrittura. Ma in altri libri degli stessi anni, come Nei campi del Friuli. La giovinezza di Pasolini (1984) o Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise (1989), quell’oggettività cede a un coinvolgimento testimoniale più esplicito, e il racconto, per quanto lineare e pudico, rivela la verità vibrante delle cose viste, delle esperienze condivise, già ben dentro quella prospettiva della memoria dove Naldini, con Il treno del buon appetito, arriva infine per collocare anche se stesso. Questo libro, pubblicato nel 1995, segna il punto in cui «quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere » (così aveva scritto Pasolini in Descrizioni di descrizioni) lascia emergere nella sua prosa la prima persona per avvicinarsi alle forme di una personale recherche. Lo fa cautamente, e tenendosi sempre lontano dai viluppi dell’autoanalisi. Solo nelle stupende pagine iniziali del Preambolo in corsivo torna a considerare, con una sincerità, una fermezza di sguardo che danno i brividi, tre 13
quattro episodi cruciali della prima infanzia: quelli in cui si sperimenta per la prima volta la frizione dolorosa con la realtà, e che ci rivelano per sempre a noi stessi. Un effetto di luce all’alba, una distrazione della madre, una fiaba, bastano a far conoscere l’angoscia dell’abbandono a questo Petit Poucet friulano che sta per smarrirsi nel buio del mondo. Ma che scopre, anche, certi fugaci fenomeni di felicità che di tanto in tanto visitano la nostra vita: come il «treno del buon appetito » che dà il titolo al libro, il direttissimo Vienna - Roma col sontuoso wagon - restaurant ornato di stemma e scritte d’oro, che la sera sostava a Casarsa appena un minuto, per subito sparire «nel tempo incommensurabile delle visioni », proprio come il Rex davanti agli abitanti sbigottiti del borgo di Amarcord. In quei pochi fatti remoti Naldini riconosce le ragioni che lo hanno reso «vulnerabile per sempre », e forse l’origine stessa di quell’io esitante, gregario, che sembra impedirgli di parlare di se stesso se non in relazione a qualcun altro. Perché è sempre attraverso la biografia degli amici che Naldini, anche in questo libro, arriva a scandire la propria. La grande sezione centrale, Gli amici che ho inseguito e il conforto della natura, è una suite di racconti autobiografici che si aprono e 14
chiudono obbedendo a una segreta intermittenza lirica, avanti e indietro nel tempo, in paesaggi e città di un’Italia che più non esiste. Lo struggente adagio iniziale sulle notti d’estate nella Roma del 1975, la Piazza dei Cinquecento come «un’immensa, stillante grotta notturna », dove già pare che incomba, a chiudere oscuramente un’epoca intera, il destino imminente di Pasolini. Venezia, con quell’aria che «è l’unica al mondo che non turba », e nel cui cielo ancora «volano i semidei del Tiepolo ». I primi anni Cinquanta a Trieste, per l’università, e prima ancora la guerra e il dopoguerra a Casarsa, a Versuta, il Friuli come una mappa di «adorati toponimi » e di scoperte esaltanti. Gli anni Sessanta a Milano, e in certi posti della campagna pavese dove ancora si poteva scoprire, intatta, una vita «arcaica e magica ». Infine, per ritrovare un’autenticità ormai del tutto estinta nel popolo italiano, l’approdo in Africa, in un paese «su una costa non lontana dall’Isola dei Lotofagi ». Ognuno di questi luoghi si accompagna al nome, alle fattezze, all’eros irradiante di un ragazzo: Vito, Ferruccio, Attilio, Bertino. Forse non è mai stato scritto un libro che racconti con altrettanta verità quello che è stato, nella specifica antropologia dell’Italia, l’amo15
re tra uomini. Così implicito, ma anche così naturale finché è rimasto nella sua «pura ontologia », prima che le libertà e i nuovi conformismi della rivoluzione sessuale lo mutassero in tutt’altra cosa. I cultori di gender studies non mi pare abbiano visto l’originalità della testimonianza che questo libro contiene. Non fosse altro per aver riportato quel che a proposito dell’omosessualità usava dire, già in tempi lontani, un grande poeta che omosessuale non era: «Per me tra uno che ama le donne e uno che ama i ragazzi c’è la stessa differenza che tra uno che ha i capelli neri e uno che li ha biondi ». Oltre ai ragazzi ci sono stati altri amici nella vita di Naldini, tra i quali si sa che figurano, per un singolare karma anagrafico, personaggi di prim’ordine del Novecento italiano: Biagio Marin, Virgilio Giotti, Sandro Penna, Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Carlo Emilio Gadda, Federico Fellini, Goffredo Parise («Il solo fratello »). Nel Treno del buon appetito, per ciascuno di loro, Naldini concentra il suo estro biografico in pochi episodi esemplari, il racconto si affina in rapidi ritratti eseguiti con una perspicuità psicologica folgorante, acutissima, alle volte severa. Non la severità retrospettiva di un compte rendu, ma quella di chi rispetta viril16
mente il pudore degli affetti, ed è avvezzo a considerare il destino altrui con la medesima lucidità del proprio. Eminenti in questa brigata stanno Pasolini e Comisso: i doj amis accomunati dallo struggente congedo dell’ultima poesia in dialetto raccolta in La curva di San Floreano: opposti, e fatalmente essenziali nel rispettivo esempio di vita e di poesia. Naldini ha condiviso con Pasolini le vicende famigliari, gli anni della zoventùt friulana e tanta altra vita in seguito e altrove. Fino a quella morte sulla quale nessuno ha scritto pagine tanto intense e partecipi come quelle che si leggono nel cuore di questo libro, dove il dolore primordiale dell’abbandono annunciato nel Preambolo va a coincidere, in un’assoluta semplicità di parole, con quello estremo per la vita che finisce: «Nella lotta anche più brutale c’è una zona di calma in cui c’è un alter ego che assiste incredulo a quello che sta accadendo. Più che immaginarla io la sento dentro di me, questa zona calma dell’animo di Pasolini, durata pochi attimi che si allungano nell’eternità. Al di là del dolore fisico e del terrore io sento come venga invasa da uno sgomento infinito simile a quello dei bambini abbandonati per sempre ». Comisso è stato invece il formidabile esempio di una vitalità senza disperazione, proprio in 17
virtù del «rapporto misurato e sereno » che era stato capace di instaurare con la vita, di quel suo modo speciale di cercare il piacere alla luce di un «ideale classico » che sembrava appartenergli naturalmente, o del «luccichio del suo misticismo (assorbito magari durante il suo famoso viaggio in Oriente) involontario come quello delle lucciole nelle sere d’estate in cui la luce riflessa dalle lagune non moriva mai ». Quest’ultima intuizione è davvero un magnifico momento di intelligenza critica che sancisce la misteriosa autorevolezza di Giovanni Comisso, maestro di una sapienza che sembra compenetrare le bellezze più immateriali della natura, e amico che dopo la morte continua a vivere, scrive ancora Naldini in quella poesia friulana, drenti la part miej di me: dentro la parte migliore di me.
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PREAMBOLO IN CORSIVO
Pier Paolo Pasolini, Due ragazzi
(Archivio Contemporaneo ‘A. Bonsanti’, A-II 49)
Oltre gli amici da me rincorsi, io della mia vita ho solo tre fatti degni di ricordo, accaduti durante l’infanzia, e vorrei trovare un’imbastitura psicagogica (si dice così?) per tenerli uniti. Cercherò di riassumerli il più velocemente possibile. Il primo. Ho cinque anni e alla stazione di Casarsa con mia madre e mia nonna stiamo aspettando il treno per Roma. L’alba, il cielo che schiarisce e infiamma i margini di alcune nuvolette viola sparse sopra il tetto dell’albergo Leon d’oro e più in là tra i due campanili della chiesa. Le campane annunziano le prime funzioni religiose e la stazione emana gli odori degli antichi scali ferroviari che rendevano le partenze indimenticabili. Le care sembianze del mio paese non sono mai state tanta parte di me, e nello stesso tempo così distaccate che non mi sazio di guardarle col timore di perderle. Mi stanno struggendo di una nostalgia che invade tutto il mio essere col presentimento che d’ora in poi sarà sempre dentro di me. Raccolgo due grani di ghiaia dal tappeto che ricopre il marciapiede dei viaggiatori e li metto in tasca. Di tanto in tanto li tasto e continuerò a tastarli anche a Roma. La seconda stazione del ricordo appartiene alla stessa epoca. Una recita di bambini nel teatrino 21
delle monache. Una sera uggiosa, con uno sparuto pubblico maleodorante di abiti bagnati di pioggia. Sul palcoscenico dobbiamo fare un girotondo – durante le prove ho sofferto di un capogiro che mi ha fatto cadere a terra, ho cercato di spiegarlo alle suore ma non mi hanno capito – e poi da solo devo recitare una poesia intitolata La perla. Cerco tra il pubblico mia madre. Anche se non riesco a vederla mi tranquillizzo al pensiero che verrà a prendermi alla fine dello spettacolo. Quando tutto il pubblico e gli altri bambini se ne sono andati, io sono ancora là ad aspettarla. Una ragazzina un poco più grande di me si offre di accompagnarmi a casa, ma a casa non c’è nessuno. La stessa ragazzina allora mi porta in un luogo dove non sono mai stato prima, la sala del cinematografo. Ci lasciano entrare e ci troviamo al buio in mezzo a un pubblico folto, caldo, entusiasta. La mia accompagnatrice mi alza reggendomi, e per qualche istante vedo Tarzan che vola da una liana all’altra lanciando il suo richiamo nella giungla. Mia madre si scusa, è dispiaciutissima di aver sbagliato i conti dell’orologio, ma io non voglio quasi ascoltarla visto che mi ha reso vulnerabile per sempre. Il terzo ricordo dovrà essere ancora più rapido. Non ho ancora sei anni perché non so leggere. Mia madre legge per me una fiaba da un libro 22
illustrato. Una capra col suo capretto è inseguita da un lupo finché un possente montone interviene a difenderli. Il clou per me non stava nella fiaba, bensì nel disegno che mostrava la capra avanzare in un paesaggio rupestre con il capretto che le saltellava al fianco. Mi struggeva un sentimento molto simile a quello che avevo provato raccattando i due sassolini alla stazione di Casarsa: ora si rivolgeva ai due fuggiaschi. Mi aveva colpito il dramma oggettivo della cattiveria del lupo, molto meno però del legame interiore minacciato tra madre e figlio. Li inseguivo con delle fantasticherie che mi riportavano sempre a un punto oscuro di emozioni e intenerimenti che sarebbero rimasti inesprimibili. Salvo riaffacciarsi anche molti anni più tardi quando, dopo aver subìto lo shock della bellezza nell’incontro casuale con una persona ignota, oscure analogie mi riportavano nel triangolo emotivo in cui la madre sfuggiva la minaccia del lupo proteggendo il figlio, il capretto che avrebbe continuato per sempre a saltellare al suo fianco. Ho fatto tanto in fretta che mi è rimasto lo spazio per l’ultimo avvenimento della mia infanzia. Nelle sere d’estate, dopo cena, le mie sorelle mi portavano a un passaggio a livello poco fuori del paese dove erano attese dalle loro amiche per giocare, mentre io mi perdevo nella contemplazione 23
del passaggio dei treni. Era un’emozione immensa vedere il mondo luminoso dei viaggiatori apparire e sparire, finché la grande magia scoccava puntualmente alle otto e mezza, con l’arrivo del direttissimo Vienna-Roma. Date le dimensioni ridotte dello scalo casarsese, alcuni vagoni, tra cui il wagon-restaurant blu con lo stemma e le scritte d’oro, si fermavano proprio davanti al passaggio a livello. Lo spettacolo mi toglieva il fiato, con la visione dei signori a tavola tra stuoli di camerieri, specchi e suppellettili scintillanti, in un mondo che aveva la transitorietà dei sogni. E infatti dopo qualche minuto non c’era più e noi restavamo accecati dal suo ultimo bagliore. Durante il minuto di sosta, per congiungermi a quel paradiso, avevo imparato a gridare con quanta forza avevo: «Buon appetito! Buon appetito! » Una sera la porta del vagone si spalancò e ne discese un cuoco tutto vestito di bianco, con il cappellone, che saltando tra i binari arrivò fino a me e mi depositò tra le mani un pacco fatto in fretta che conteneva un tesoro di dolciumi mai visti prima. Mi disse: «Ciao Mimmo », e con un balzo fu di nuovo dentro il vagone che sparì lentamente nel tempo incommensurabile delle visioni, costringendomi per il resto della vita ad aspettare che il treno del buon appetito si fermasse ancora una volta davanti a me. 24
Infine, e questa volta sarà per concludere davvero, da bambino avevo spesso degli stringimenti al cuore. Lo strano è che oggetto della mia compassione fossero quasi sempre delle donne, quando mi sembrava di vedere nei loro occhi una speciale malinconia femminile, una vaga sofferenza di tutto il loro essere, così suggestiva che non saprei come spiegarla, mentre ancora oggi darei non so cosa per dipanare quei ricordi. Forse erano immagini interposte della figura materna, uscite dai recessi del suo amore per avvincermi ancora di più a sé. Se ciò fosse accaduto forse non avrei conosciuto la mia fetta di mondo, ma in cambio avrei avuto una quiete smemorata. Ciò è pura fantasticheria, perché è stata invece l’ansia di prendere posto dovunque. L’ansia e il suo corteo di terrori per lo più superflui, chiuso dal minore dei mali: la paura di perdere il treno, non certo quello del buon appetito, ma un accelerato qualsiasi. Sidi Bou Saïd, estate del 1994 Spero che qualcuno vorrà sfogliare questo libro. In tal caso dovrò avvertirlo che in esso sono finiti alcuni brani di due miei libretti precedenti: Nei campi del Friuli (1984) e Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise (1989). 25