A cura della redazione di Maddmaths! (Matematica Applicata: Divulgazione e Didattica): Roberto Natali, Stefano Pisani, Alice Sepe, Cristiana Di Russo, Andrea Tosin, Emiliano Cristiani http://maddmaths.simai.eu Maddmaths! è il sito di divulgazione della Simai (Società Italiana Matematica Applicata e Industriale)
Sommario Noi e la matematica Come far funzionare l'insegnamento della matematica… di Sol Garfunkel e David Mudford Bisogna essere un genio per fare matematica?... di Terence Chi-Shen Tao Giovani matematici crescono Laurent Gosse Matilde Marcolli Fantamatematica Erdos: storia di un infaticabile… di Stefano Pisani John Nash: uno, nessuno, centomila… di Stefano Pisani Vita da matematico Annarita Ruberto Andrea Plazzi: sono l’uomo che parla con Rat-man L’angolo arguto Viaggi nel tempo: istruzioni per l’uso…di Diego Altobelli Lacci da scarpe e cravatte… di Nuno Crato Focus FBI e wavelets… di Nuno Crato I matematici, i plasmi e la fusione nucleare… di Giacomo Dimarco L’alfabeto della matematica A come approssimazione… di Corrado Mascia L come limite… di Corrado Mascia Il test di Proust (math reloaded) Elisabetta Strickland Nicola Bellomo Maria Esteban Di tutto un po' L'aritmetica del rischio... di Roberto Natalini Una tavola periodica delle forme... di Alessio Corti Bonus: Dueallamenouno, il blog di Roberto Natalini Vedi alla voce errore (parte prima) Vedi alla voce errore (parte seconda) La strana matematica di David Foster Wallace
Noi e la matematica
Come far funzionare l'insegnamento della matematica‌ di Sol Garfunkel e David Mudford Bisogna essere un genio per fare matematica?... di Terence Chi-Shen Tao
Come far funzionare l’insegnamento della matematica Sol Garfunkel, direttore del Consortium for Mathematics and Its Applications, e David Mumford, medaglia Fields, professore emerito di matematica alla Brown University, hanno posto un paio di mesi fa sulle pagine del New York Times, il problema di cosa fare per migliorare l'insegnamento della matematica nelle scuole superiori americane. Il loro intervento, ignorato dalla mezzi di comunicazioni italiani, è stato ripreso in seguito da Le Monde e dal sito del CNRS francese Images des Mathématiques. La ricetta che propongono è abbastanza rivoluzionaria, e non siamo nemmeno sicuri che sia effettivamente fattibile nei termini da loro proposti. Ma ci sembra un approccio stimolante e concreto da cui partire per cominciare a ripensare tutta la didattica della matematica. di Sol Garfunkel e David Mudford C'è un allarme diffuso negli Stati Uniti sulla condizione dell'insegnamento della matematica. Questo allarme può essere ricondotto all'analisi dei risultati piuttosto scarsi degli studenti americani in vari test internazionali (PISA), ed è ora incorporato nella legge “Nessuno resti indietro” introdotta da George W. Bush, che richiede agli studenti della scuola pubblica di sostenere dei test standardizzati a partire dal 2014 e penalizza le scuole e gli insegnanti nel caso in cui questo non avvenga. Tutta questa preoccupazione, tuttavia, è basata sull'ipotesi che ci sia un unico corpus ben determinato di conoscenze matematiche che ognuno dovrebbe avere per essere preparato a svolgere un mestiere del XXIesimo secolo. Questa ipotesi è sbagliata. La verità è che ci sono diversi insiemi di conoscenze matematiche che sono utili per affrontare diversi mestieri, e che l'insegnamento della matematica dovrebbe cambiare per rispecchiare questo fatto. Oggi, le scuole superiori americane offrono un successione composta da algebra, geometria, ancora più algebra, gli inizi dell'analisi matematica e poi l'analisi vera e propria (o una versione “riformata” in cui questi argomenti sono mescolati). Questo è stato codificato dal Curriculum Comune Statale di Base, recentemente adottato da più di 40 stati. Questo curriculum altamente astratto, semplicemente non è il modo migliore di preparare la maggior parte degli studenti delle superiori alla loro vita futura. Per esempio, quando mai capita a un adulto di trovarsi in una situazione in cui si debba risolvere un'equazione quadratica? O gli serva di sapere che cosa sia un “gruppo di trasformazioni” o un “numero complesso”? Certamente per i matematici professionisti, i fisici o gli ingegneri è necessario sapere tutto questo, ma per la maggior parte dei cittadini sarebbe meglio studiare come si stabilisce il costo dei mutui, come si programma un computer e come si devono leggere i risultati statistici di un esame medico. Un programma di matematica che si incentrasse sui problemi della vita reale, potrebbe ancora far conoscere agli studenti gli strumenti astratti della matematica, e in particolare la manipolazione di quantità incognite. Ma c'è una differenza abissale tra l'insegnare la matematica “pura”, al di fuori di ogni contesto, e insegnare alcuni problemi rilevanti che porteranno gli studenti ad apprezzare come una formula matematica possa modellare e chiarire le situazioni del mondo reale. Il primo metodo è quello seguito dai corsi di algebra attuali, che introducono la misteriosa variabile x, che molti studenti faticano a capire. Al contrario, un approccio contestuale, come quello usato dagli scienziati, introdurrebbe delle formule come abbreviazioni di quantità semplici – per esempio come nella famosa equazione di Einstein E=mc 2, dove E sta per l'energia, m per la massa e c per la velocità della luce. Immaginate di sostituire la successione di algebra, geometria e analisi, con una composta da finanza, dati numerici e ingegneria di base. Nel corso di finanza gli studenti imparerebbero la funzione esponenziale, a usare le formule in un foglio di calcolo e a studiare i bilanci finanziari di
persone, società e governi. Nel corso di dati numerici, gli studenti metterebbero insieme i propri insiemi di dati e imparerebbero come, in settori diversi come lo sport o la medicina, campioni più grandi diano una migliore stima delle medie. Nel corso di ingegneria di base, gli studenti imparerebbero come funzionano i motori, le onde sonore, i segnali televisivi e i computers. All'inizio, le varie scienze e la matematica sono state scoperte insieme, e anche adesso sarebbe meglio impararle insieme. I tradizionalisti obietteranno che il curriculum di studi attuale insegna una cosa fondamentale come il ragionamento astratto, anche se le capacità specifiche non sono immediatamente utili nella vita quotidiana successiva. Una generazione fa, i tradizionalisti sostenevano anche che studiare il latino, benché non avesse applicazioni pratiche, aiutasse gli studenti a sviluppare delle straordinarie capacità linguistiche. Noi crediamo che studiare matematica applicata, così come studiare lingue vive, fornisca al tempo stesso una conoscenza immediatamente utilizzabile e la capacità di astrazione. In matematica, quello di cui abbiamo bisogno è di una “alfabetizzazione quantitativa,” ossia l'abilità di fare connessioni quantitative ogni volta che la vita lo richieda (come per esempio quando ci troviamo davanti a risultati medici contrastanti e dobbiamo decidere se sottometterci o meno ad un certo trattamento), e di “modellistica matematica,” ossia l'abilità di passare concretamente dai problemi quotidiani alle loro formulazioni matematiche (come quando decidiamo se è meglio comprare o noleggiare una macchina nuova). I genitori, le commissioni statali per l'insegnamento e le scuole hanno una scelta importante da compiere. La successione tradizionale di argomenti matematici della scuola superiore non è la sola via alla competenza matematica. È vero che il profitto dei nostri studenti, misurato con gli standard tradizionali, è sceso rispetto a quello degli studenti di altri paesi, ma crediamo che il modo migliore per gli Stati Uniti di porsi nella competizione globale sia quello di battersi per l'alfabetizzazione quantitativa di tutti: insegnare argomenti che abbiano senso per tutti gli studenti e possano essere usati nel corso della loro vita. È attraverso le applicazioni della vita reale che la matematica è emersa nel passato, è fiorita per secoli ed è connessa oggi alla nostra cultura. Sol Garfunkel è il direttore del Consortium for Mathematics and Its Applications. David Mumford, medaglia Fields, è professore emerito di matematica alla Brown University. L'articolo originale è apparso il 28 agosto 2011 nel New York Times ed è apparso successivamente il 14 settembre 2011 su Le Monde. È stato inoltre pubblicato sul sito Images des Mathématiques nella traduzione di Jean Michel Kantor. Tradotto dall'inglese da Roberto Natalini.
Bisogna essere un genio per fare matematica? Direttamente dal blog di Terence Tao, uno dei migliori matematici viventi, medaglia Fields nel 2006, un'opinione su di un problema che spesso allontana le persone dal fare matematica. di Terence Tao È meglio guardarsi da nozioni come genio e ispirazione; sono una specie di bacchetta magica e dovrebbero essere usate con cautela da chiunque voglia vedere le cose con chiarezza. (José Ortega y Gasset, “Sul romanzo”) Bisogna essere un genio per fare matematica? La risposta è un NO enfatico. Per dare dei contributi buoni ed utili alla matematica, uno deve lavorare duramente, conoscere bene un settore, conoscere altri settori e altri strumenti, fare domande, parlare con altri matematici e pensare al "quadro d'insieme". E sì, sono anche richieste una ragionevole quantità di intelligenza, pazienza e maturità. Ma non serve una qualche sorta di magico "gene del genio" che spontaneamente generi ex nihilo profonde intuizioni, soluzioni inaspettate ai problemi, o altre abilità soprannaturali. L'immagine popolare del genio solitario (e forse anche un po' matto), che ignora i lavori precedenti e la conoscenza convenzionale e riesce, con qualche inesplicabile ispirazione (potenziata, forse, da un tocco a piacere di sofferenza ) ad inventarsi un'originale soluzione mozzafiato ad un problema che aveva messo in difficoltà tutti gli esperti, è un'immagine affascinante e romantica, ma anche parecchio sbagliata, almeno nel mondo della matematica moderna. Ci sono ovviamente risultati e intuizioni spettacolari, profondi e notevoli in questo campo, ma sono il faticoso raggiungimento finale di anni, decenni, o anche secoli di costante lavoro e progresso compiuto da molti grandi e bravi matematici; il progresso da uno stadio di comprensione al successivo può essere terribilmente non banale, e spesso piuttosto inaspettato, ma tuttavia si costruisce sulla base dei lavori precedenti, piuttosto che ripartendo totalmento da zero. (Questo è per esempio il caso del lavoro di Wiles sull'Ultimo teorema di Fermat, o di Perelman sulla Congettura di Poincaré.) In effetti, trovo che la realtà della ricerca matematica attuale, in cui i progressi sono ottenuti naturalmente e in modo cumulativo come conseguenza di un duro lavoro, diretto dall'intuizione, dagli studi precedenti e da un pizzico di fortuna, sia molto più soddisfacente dell'immagine romantica che avevo da studente, di una matematica che progrediva principalmente grazie alla mistica ispirazione di una rara stirpe di persone "geniali". Questo“ culto del genio” comporta infatti non pochi problemi, poiché nessuno è capace di produrre queste (molto rare) ispirazioni su base anche approssimativamente regolare, e con con un'affidabile e consistente correttezza. (Se qualcuno mostra di farlo, sono del parere di rimanere molto scettico sulle loro affermazioni.) Lo sforzo di provare a comportarsi in questo modo impossibile può portare alcune persone a diventare troppo ossessionate con i "grandi problemi" e le "grandi teorie", altri a perdere quel sano scetticismo nel proprio lavoro o nei loro strumenti, e altri ancora a diventare troppo scoraggiati per continuare a fare matematica. Inoltre, attribuire il successo al talento innato (che è al di là del proprio controllo) piuttosto che ai propri sforzi, alla pianificazione, all'istruzione (che invece sono in qualche modo controllabili) può portare ad altri problemi ancora. Certamente, anche se uno lascia perdere la nozione di genio, sarà ancora possibile che in un dato istante di tempo alcuni matematici siano più veloci, con maggiore esperienza, maggiori conoscenze, più efficienti, più attenti, o più creativi di altri. Questo non implica, tuttavia, che soltanto i "migliori" matematici debbano fare matematica; questo è l'errore comune di scambiare il vantaggio assoluto per il vantaggio comparato. Ci sono talmente tanti settori di ricerca matematica interessanti
e problemi da risolvere, molto più di quelli che possono essere trattati in dettaglio dai "migliori" matematici, e qualche volta l'insieme degli strumenti e delle idee che possiedi ti permetterà di trovare qualche cosa che altri bravi matematici non hanno visto, anche perché anche i più grandi matematici avranno pure loro delle debolezze in alcuni aspetti della ricerca matematica. Fino a che riesci ad imparare, hai delle motivazioni, e abbastanza talento, ci saranno sempre alcune parti della matematica in cui potrai dare un solido e utile contributo. Potrebbe non essere la parte più "glamour" della matematica, ma in pratica questo porta a una cosa abbastanza sana; in molti casi viene fuori che i banali aspetti pratici di un argomento sono molto più importante di qualsiasi sofisticata applicazione. Inoltre, è anche necessario "fare pratica" in qualche parte non-alla-moda di un certo settore prima di poter avere la possibilità di confrontarsi con un famoso problema; date un'occhiata alle prime pubblicazioni di uno qualsiasi dei grandi matematici di oggi per vedere cosa voglio dire. In alcuni casi, un'abbondanza di talento grezzo può finire (un po' perversamente) per essere in effetti dannoso per lo sviluppo matematico a lungo termine di una persona; se le soluzioni dei problemi si trovano troppo facilmente, per esempio, uno potrebbe non mettere abbastanza energia nel lavorare seriamente, fare domande stupide, o allargare il proprio orizzonte, e quindi potrebbe eventualmente portare ad un ristagno delle proprie abilità. Inoltre se uno è abituato a un successo facile, potrebbe non sviluppare la pazienzanecessaria per trattare problemi veramente difficili. Il talento è importante, certamente; ma come uno lo sviluppa e lo nutre lo è ancora di più. È anche utile ricordare che la matematica professionale non è uno sport (in opposizione alle gare matematiche). Lo scopo in matematica non è di ottenere il piazzamento migliore, il "punteggio" più alto, o il maggior numero di premi e riconoscimenti; è invece quello di aumentare la comprensione della matematica (sia per sé stessi, che per i propri colleghi e per gli studenti), e contibuire al suo sviluppo e alle applicazioni. Per questi compiti, la matematica ha bisogno di tutte le persone in gamba che si riescono a trovare. Vi suggerisco infine di leggere l'articolo “How to be a genius“, di David Dobbs, New Scientist, 15 September 2006. [Ringrazio Samir Chomsky per avermelo segnalato.] (Tradotto per gentile concessione dell'autore, qui il post originale in inglese) Terence Chi-Shen Tao è un matematico australiano nato nel 1975, vincitore nel 2006 della medaglia Fields. Svolge ricerca principalmente nei campi dell'analisi armonica, delle equazioni differenziali alle derivate parziali, della combinatoria, della teoria analitica dei numeri e della teoria della rappresentazione. Il suo risultato più famoso è il teorema di Green-Tao, dimostrato in collaborazione con Ben Green, che afferma l'esistenza di progressioni aritmetiche arbitrariamente lunghe di numeri primi. Tao è attualmente professore all'Università della California di Los Angeles. Ha un blog personale What's New, in cui presenta aggiornamenti sulle sue ricerche, articoli divulgativi, discussioni di problemi aperti e altre cose legate alla matematica.
Giovani matematici crescono
Laurent Gosse Matilde Marcolli
Laurent Gosse Laurent Gosse ha 42 anni, si è formato in Francia e dal 1999 lavora in Italia, prima come Postdoc all’Università dell’Aquila, poi all’Università di Pavia e poi come ricercatore confermato, dal 2002, all’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del Cnr di Bari. Con i suoi articoli scientifici, è nel top 1% mondiale per le citazioni dei suoi lavori in campo matematico. Raccontaci il tuo percorso scolastico. Ti piaceva la matematica sin da piccolo? Perché? Eri considerato un giovane particolarmente dotato? Sono andato alla scuola francese negli anni SettantaOttanta, un'epoca durante la quale le classi medie sognavano ancora il Cursus Honorum: Baccalaureat C, Classes Préparatoires, Grandes Ecoles. Sto parlando di persone che non avevano potuto usufruire della "prima massificazione scolare" (quella che non aveva portato ad una svalutazione dei diplomi) e che, inconsapevolmente, alimentavano la "seconda massificazione". Mi riferisco a ciò che meglio ha spiegato il sociologo Louis Chauvel su tali argomenti. Lo stesso Alain Connes, in un’intervista alla rivista "Pour la Science" descrive anche un Zeitgeist di questo tipo. Nel mio caso particolare, l'aspetto competitivo caratteristico del sistema scolastico francese e' stato esacerbato durante il periodo 1983-87 trascorso al "Lycée Naval de Brest", un collegio militare dove si accedeva tramite un concorso nazionale da affrontare a 14 anni, nella più pura tradizione napoleonica! Per rispondere alla tua ultima domanda, direi che l'unica dote che ho sempre saputo di avere era una memoria piuttosto acuta. E all’università? Quali esami hai amato di più? In quali hai ottenuto risultati migliori? Dopo il disastro alle "Classes Preparatoires" del Collegio Militare (dovuto in parte all'organizzazione interna del collegio ma anche a delle scelte arbitrarie nei programmi: chi ha voglia di leggere St-John Perse e Yukio Mishima a 18 anni?), il piccolo campus Universitario di Valenciennes si è rivelato un mondo di grande libertà ... fatto anche di ragazze! Il ritmo meno frenetico permetteva di sviluppare interessi personali senza che ne soffrissero le materie da studiare. E' durante questo periodo che, lavorando come DJ, ho assistito all'esplosione della musica elettronica prodotta in modo del tutto amatoriale (penso ad esempio a Tim Simenon), mentre stavo frequentando il Dipartimento di Informatica per partecipare ad un progetto di Ray Tracing su un VAX 3000 con altri amici, tutti programmatori appassionati. In un certo senso sono giunto alla matematica seguendo la strada della programmazione scientifica (le “immagini di sintesi”) in un epoca privilegiata durante la quale le macchine 16/32 bits permettevano ancora di imparare l'Assembler 68000, il multi-tasking ed i coprocessori stando comodamente a casa, con dei libri americani fotocopiati. Così non ho mai frequentato un solo corso di informatica durante i miei 2 primi anni di università ma ottenevo sempre il voto massimo all'esame! Dunque per i primi anni, l'informatica è stata la mia prima passione (sebbene non mi sia mai chiesto se Dio fosse dentro Unix!) dopo la musica.
Quando il gruppo di amici si è diviso, mi sono orientato verso la matematica perché era la mia materia di predilezione in "classe preparatoire": odiavo la termodinamica, gli amplificatori operazionali ed il fatto che Mizoguchi si masturbasse ogni sera ascoltando il campanello del cane accanto mi aveva sempre lasciato indifferente. Durante il periodo "licence/maitrise" all'Università di Lille, ho ritrovato un po' dell'ambito competitivo perché stavamo in 400 all'entrata (era il periodo delle "allocazioni insegnamento" del ministro Lionel Jospin che offriva complessivamente 70000 franchi per passare il CAPES, la parola "seconda massificazione" prende allora tutto il suo senso!) ed uscimmo in meno di 40 con la "maitrise" (la vostra laurea) 2 anni dopo. Personalmente mi piaceva molto la Geometria Differenziale, in cui ho preso il migliore voto agli esami pur sapendo bene che non sarebbe stato possibile continuare su questa strada. Qual è stato l’argomento della tua tesi? Per il terzo ciclo universitario, mi sono spostato a Parigi, che era soltanto a 220 km da casa mia. Ho avuto la fortuna di essere ammesso al DEA ANLA di Paris-IX Dauphine a settembre 1992 (avevo rinunciato a fare il prestigioso Magistère MMFAI all'ENS Ulm pochi anni prima) dove i professori erano eccezionali: P.-L. Lions insegnava le PDE's, Y. Meyer le wavelets, J.P. Bourguignon l'analisi globale. Era il 1992-93 e Claude Kipnis era direttore del DEA (Diplome d'Etudes Approfondies, non esiste un equivalente in Italia) ma è venuto a mancare prima della fine dell'anno accademico, cosi ho perso la possibilità di lavorare al "laboratoire de météorologie dynamique", che sarebbe stato un piacere per l'appassionato di windsurf che ero diventato, cosi abituato a decifrare le mappe per trovare il vento. Fortunatamente, ho incontrato Gregoire Allaire sul Forum X che mi ha subito fatto un'offerta per il "Laboratoire d'Etudes Thermiques des Réacteurs" del CEA Saclay. Il responsabile della mia tesi era Imad Toumi, ora passato ad Areva, che aveva proposto un argomento strettamente legato ai calcoli industriali ma considerato troppo semplice dall'ambito accademico. Si trattava di studiare un nuovo modo di risolvere numericamente le equazioni della fluidodinamica comprimibile, i gas per intenderci, tenendo conto dei cosiddetti termini di sorgente, quelli che nascono dalle reazioni all'interno del fluido (stavano pensando alla simulazione dei two-phase flows liquid/vapor che accadono nei fluidi portatori di calore in regime incidentale in un impianto nucleare PWR). Chiaramente, ciò prende una risonanza totalmente diversa oggi dopo l'incidente di Fukushima sebbene i reattori lì fossero di tipo BWR, una tecnologia meno costosa. Ricordo ancora un Professore famoso dichiarare: "dopo tutto, i termini sorgenti non sono altro che una perturbazione di ordine zero della soluzione omogenea"... Un'opinione che si e' rivelata cosi sbagliata nel corso del tempo! Quando, e come, hai capito di voler fare della matematica il tuo mestiere? Non credo che, a parte per una piccola élite privilegiata, le cose procedano in questo modo: nella vita si fa ciò che si può fare e basta. Ho finito la tesi di dottorato a settembre 1997 dopo 35 mesi di finanziamento ed un'interruzione di 10 mesi per il Servizio Nazionale nel 1994-1995. Non si parlava allora di disoccupazione per questi alti diplomi, ma i danni delle privatizzazioni iniziavano a farsi sentire lentamente. La gente diventava più ansiosa per i concorsi di "Maitre de Conférences" (il vostro posto di ricercatore all'università) e nonostante le offerte di posizioni Postdoc TMR (Training and Mobility of Researchers) nell'Unione Europea, il desiderio di "sistemarsi" (una parola italiana che dobbiamo assolutamente includere nella nostra lingua!) cresceva sempre di più. Dopo la tesi, il mio Direttore mi ha consigliato di partire per questa struttura: dico, francamente, che non lo rifarei MAI! Queste strutture si sono rivelate macchine terribili volte alla fabbricazione di precari e mi ritengo molto fortunato di aver potuto, dopo 5 anni di precarietà (niente quotizzazioni alla pensione, a volte niente contratti di lavoro e pagamenti "mano a mano" ...), entrare in un istituto pubblico nel 2002. Ciò detto, ancora una volta, bisogna assolutamente relativizzare il peso delle scelte personali con quello delle circostanze e del contesto socio-economico.
Descrivici il campo dei tuoi studi attuali: cosa studi attualmente e quali sono le sue ricadute pratiche? E' difficilissimo risponderti: e' un po' (tenendo conto di tutte le proporzioni) come chiedere a Richard Wagner di spiegare la sua tetralogia in poche parole (certe lingue cattive dicono che Tolkien l'ha fatto in 3 volumi!). Ti posso dire che la mia ricerca adesso si concentra su 2 punti particolari: - l'estensione delle tecniche numeriche sviluppate che sulle equazioni fluidodinamiche con sorgente, che prendono il nome di “schemi well-balanced” (ben bilanciati, perché bilanciano perfettamente il contributo del trasporto con quello del termine di reazione), a una nuova classe di equazioni. Si tratta delle equazioni cinetiche collisionali con velocità continue, che includono tutti i modelli lineari o debolmente non-lineari del tipo Equazioni di Boltzmann. Ad esempio, l'equazione dei semi-conduttori, la dinamica delle cellule mosse da stimoli chimici, i modelli gravitazionali di gas stellari, o anche semplicemente il trasporto di massa o di calore. - dare un piccolo contributo al settore del Compressed Sensing (acquisizione compressa di dati), sfruttando il fatto che non risulta così difficile dimostrare la proprietà isometrica ristretta di certe matrici di dati,le cui colonne contengono le componenti di certe basi ortogonali (si parla di structured sensing matrices). Le funzioni Prolatene costituiscono che un caso particolare; Holger Rauhut e Rachel Ward hanno dato bei contributi in questo campo. Per quanto riguarda le applicazioni concrete, penso per esempio a una bellissima estensione di uno schemawell-balanced originalmente fatto per il sistema detto di Cattaneo, realizzato in collaborazione con Giuseppe Toscani quando ero TMR postdoc a Pavia. Questa estensione multidimensionale, fatta dai colleghi Buet, Despres e Franck in questo articolo, potrebbe un giorno risultare utile nell'impianto ITER, il progetto di impianto per la fusione nucleare attualmente in costruzione nel sud della Francia. Ricordi qual è stato il primo lavoro scientifico che hai affrontato quando sei diventato “professionista” della matematica e quanti anni avevi? E' quasi impossibile risponderti a meno di avere più precisioni sul termine "professionista". Ero sotto contratto a durata determinata al CEA quando facevo il dottorato: ero già matematico professionista ? Probabilmente no. Quando ero TMR Postdoc (capire "precario"), non mi sarebbe passato per la testa di considerarmi professionista perché potevo uscire del circuito (come è capitato a tanti altri) dal giorno all'indomani. Mi sono sentito professionista a 33 anni quando ho avuto il posto permanente, nel 2002, 5 anni dopo aver avuto il dottorato di ricerca, ma li, avevo già pubblicato una decina di articoli su riviste peer-reviewed. Sei diventato ricercatore CNR a 33 anni e sei nel top 1% mondiale delle citazioni. Esistono consigli che puoi dare a un giovane, oggi, per raggiungere risultati simili, e così velocemente? Allora, la risposta a questa domanda è facile, perché David Donoho l'ha già data: ogni giovane ricercatore deve leggere la sua opinione che si trova a questo link. Questo ricercatore eccezionale dimostra una grande umiltà quando spiega il suo how to. Io non posso che provare a imitare il suo talento nello spiegare la mia esperienza. Le mie citazioni provengono soprattutto da pochi articoli, quei 2 o 3 che trattano daglischemi well-balanced per le equazioni con sorgente ed un paio di altri dedicati all'ottica geometrica. La ricetta è piuttosto semplice: si deve beccare un argomento molto fertile, provare a essere in situazione di “monopolio” e sempre mantenere un margine di anticipo sugli altri. Più facile dirsi che farsi! Chiaramente, i datori di lavoro hanno un ruolo di prima importanza (ritornerò a questo punto con la tua domanda sulla Medaglia Fields) perché tocca a loro dare il soggetto di ricerca. Io ho avuto la "fortuna" (metto le virgolette e dirò perché dopo) di poter realizzare questo programma al meno due volte di seguito. Una bellissima fonte di problemi fertili è l'ambito industriale, nel mio caso il CEA Saclay. L'altra fonte è stata il gruppo di professori al IACM di Heraklion che mi ha
portato verso l'ottica geometrica per i miei 2 primi anni di postdoc TMR (tra l'altro non ero stato capace di concludere niente quando sono andato via). Ho messo quelle virgolette perché quando uno lavora su un soggetto cosi fuori dal mainstream, può capitare di veder passare un lungo tempo senza che nessuno ci si soffermi. Ho già raccontato che diversi professori dicevano pubblicamente che l'argomento dei "termini sorgenti" non aveva nessun interesse matematico! Evidentemente, essendo più maturo oggi, mi godo questi periodi durante i quali posso sviluppare i miei algoritmi senza nessun rischio di concorrenza esterna, pero può risultare una difficoltà quando si devono trovare contratti a tempo determinato anno dopo anno. Certi referees possono essere particolarmente aggressivi nei confronti di un paper sottomesso su un argomento considerato cosi borderline. Voglio finire con un messaggio rivolto ai giovani lettori: su alcuni dei miei papers più citati, ho ricevuto referee's reports spaventosi, e alcuni sono stati rifiutati da diversi editori. E' importante tenere in mente che il refereeing process può a volte esprimere la voce della doxa la più conformista e che il nome di un co-autore famoso può aiutare molto: dettagli si possono ricavare da questo articolo. Ci racconti qual è il risultato scientifico che hai conseguito di cui sei più fiero? La maggioranza delle persone potrebbe rispondere "quello che non ho ancora scritto". Ma ti darò una risposta più personale: a me importa soprattutto "l'istante di comprensione", questo "AHA!" che segnala che la difficoltà e' stata superata. Senza paragonarmi ad una persona del suo calibro, Henri Poincaré ne parla molto bene quando racconta come ha visto, tutto di un colpo, le funzioni "fushiane" mentre saliva sul tram... E' vero ciò che Laurent Schwartz chiama la "percolazione" del mestiere della ricerca: si pensa tantissimo a certe cose, c'è il pericolo della disperazione perché non si fa mai un bel passo in avanti, ci sono le false speranze che si rivelano dei veri errori, e poi c'è l'illuminazione imprevedibile, con la scarica di adrenalina concomitante ed il sudore che ti bagna la camicia quando "vedi" il trucco magico. La disperazione può anche tornare perché a volte si pensa pure: "ma e' cosi semplice, come mai non ci ho pensato prima ?". Alla fine, facciamo un mestiere di maniaco-depressivi! Di esempi te ne potrei dare diversi: durante la mia tesi, stavo sul treno RER che portava a Saclay quando ho capito come si doveva regolarizzare un termine ambiguo che bloccava completamente la comprensione di un sistema di equazioni alle derivate parziali. Quando abbiamo lavorato con Peter Markowich sull'approssimazione semi-classica dell'equazione di Schrodinger nei cristalli, si doveva fare uno schema numerico per un sistema iperbolico per il quale la funzione di flusso era sconosciuta! Ho capito come fare facendo la spesa di Natale in mezzo al supermercato. Più recentemente, ho scoperto quasi casualmente che certe funzioni introdotte da David Slepian nei anni '60, conosciute come Sferoidi prolati, hanno una proprietà piuttosto rara che permette di far funzionare gli algoritmi diacquisizione compressa dei dati. Ero convinto che fosse una cosa straconosciuta per gli specialisti del campo: ciononostante, ho scritto ad Emmanuel Candès che ha avuto la gentilezza non soltanto di rispondermi, ma anche di indicarmi della bibliografia per aiutarmi a scrivere le dimostrazioni perché il fatto non era noto ... Un ultimo esempio è quello dell'approssimazione detta well-balanced delle equazioni cinetiche con la variabile di velocità continua e dunque dei termini collisionali integrali: questo problema mi e' stato suggerito da Giuseppe Toscani nel 2003. L'ho risolto nel 2010, quando ho riscoperto le elementary solutionsdi Kenneth Case e Carlo Cercignani: dei lavori fatti negli anni Sessanta-Settanta! I lettori potranno facilmente immaginare ciò che si prova quando un problema vecchio di 7 anni si sblocca all'improvviso ... Molto spesso a scuola, a volte viene data un’idea della matematica come di una disciplina “vecchia”, ammuffita, in sostanza morta. Tu che sei un matematico che la matematica la “fa” ci spieghi se la matematica è in viva e in salute?
Si, la matematica può anche essere in piena salute, ma non è cosi ovvio. Se vai a paragonare i lavori pubblicati nei anni 1960/70 (sto pensando ai papers di Slepian, Pollak, Case, Zweifel, Cercignani, Siewert, per prendere degli esempi concreti sui quali ho lavorato personalmente), puoi percepire a quale punto una deriva eccessivamente teorica e tecnica c'è stata negli anni 1990/2000. I vecchi articoli sono stati scritti con lo scopo di far passare un'idea al lettore, per convincerlo che un modo molto concreto per risolvere problema che via via affrontavano esiste perché è stato scoperto dagli autori stessi. E' molto interessante anche rileggere oggi ilpaper di John Nash dentro il quale introduce il metodo, ormai banale, delle "stime a priori". Invece adesso, ti ritrovi a volte con dei testi illeggibili che mirano unicamente a fare un curriculum da presentare al concorso di avanzamento di carriera. Li ancora, non si può fare a meno del contesto socio-economico. Ma c'è anche un'altra dimensione al problema della disciplina percepita come "vecchia", ed in un certo senso, quell'aggettivo e' anche giusto. La matematica e' un'arte difficile, un po' come il violino (pensiamo alle ore dedicate da una solista di altissimo livello come Hillary Hahn) o le arti marziali, che richiedono tantissime ore di sforzi per impadronirsene. Invece viviamo ormai nella società del "tutto e subito" ben descritta dallo scrittore Philippe Muray (col suo homo festivus) ma anche dalle finzioni hollywoodiane come "Genio ribelle”. Sempre più grande e' la parte di gente che diventa allergica allo sforzo intellettuale e alle mediazioni di qualsiasi tipo: da questo Zeitgeist un po' decadente proviene anche il fascino per i reality televisivi, che rappresentano oggi un circuito parallelo (e nettamente meno impegnativo delle lezioni di trigonometria, per riprendere una battuta di Story of my life di Jay McInerney) e di rapido successo sociale. Dunque, in questo senso, la percezione della "vecchiaia" della matematica non e' del tutto sbagliata ... Invece e' sbagliato pensare che quest'opinione negativa valga esclusivamente per la nostra scienza: quante persone possono immaginare le ore di lavoro che ci vogliono per raggiungere la maestrìa di un Giorgio Armani o di un Domenico Dolce? A volte chiamo questo stato di mente infantile la "sindrome Amadeus-Forman", perché il Mozart di questo film e' ben lontano del vero genio musicista, che soffriva probabilmente della sindrome di Asperger. Prenderò un altro esempio hollywoodiano: una parte del personale del film Black Swan ha avuto tante difficoltà a far passare il messaggio che non si può "fabbricare una vera ballerina in un anno e mezzo" e che Natalie Portman doveva assolutamente essere sostituita (da Sarah Lane, una vera professionista dell’American Ballet Theater) per certe scene. Tra l'altro, non vi consiglio di andare a vedere quel film! Tu sei un caso di cervello ‘in entrata’: dalla Francia sei arrivato qui in Italia. Puoi fare un confronto fra il sistema universitario italiano e quello francese, circa le politiche tenute con i giovani matematici, e darci una tua opinione? Io sono espatriato perché una persona potente ha distrutto la mia carriera in Francia per delle ragioni che non si spiegano ancora adesso. Ho già detto che sono caduto nella trappola dei "postdocs TMR" dell'UE, che significava una lenta deriva verso la precarietà (con dei contratti a durata sempre più breve) del lavoro ad alto livello di qualificazione (generalmente quelli che ne parlano bene non ne hanno grande esperienza sul campo!) ben sfruttata da certi professori senza scrupoli che ti affittano un loro appartamento subito dopo averti fatto firmare il contratto. Dopo 2 anni ad Heraklion, mi sono trasferito all'Aquila, poi a Roma, poi a Pavia, per alla fine vincere il concorso al CNR a Bari. Alla tua domanda ho già quasi risposto precedentemente; mi permetto soltanto un piccolo commento sul sistema francese ripetendo una bella citazione "Gli Anglo-Americani hanno capito che un piccolo studente di storia dell'Arte può a volte diventare Lawrence d'Arabia, invece i Francesi non lo capiranno mai". Ora in Francia, abbiamo un sistema super-elitario che considera gli innumerevoli danni collaterali (tra i quali mi sono trovato anni fa!) come un "costo ragionevole" (e' un tema ricorrente nella nostra cultura, che si ritrova ben illustrato ad esempio in "Citadelle" di A. Di St-Exupery). Ciò ci permette di fare un brain drain dei giovani più dotati scientificamente esattamente come gli USA lo facevano grazie a degli stipendi più elevati. Noi siamo in grado di proporre il prestigio delle nostre "Grandes Ecoles" dove i cugini dall'altra parte dell'oceano propongono la fiat money con lo scopo di portarsi a casa il futuro potenziale di una nazione meno
ben preparata. Una tale competizione aperta e globale (del tipo che difende Georges Soros alla fine del suo libro "l'Alchimia della Finanza" e con le sue fondazioni) non farà che esacerbare le disuguaglianze tra diverse aree del mondo (esattamente come il free trade distrugge inevitabilmente le possibilità di mantenere un welfare state). La medaglia Fields viene assegnata a giovani matematici particolarmente brillanti che abbiano meno di quarant’anni. Molto spesso si pensa che un matematico esprima tutte le sue migliori energie creative e intellettuali entro i 40 anni. Condividi questa visione? Basta dire che Andrew Wiles e' stato escluso per ragione di età per intuire che un problema probabilmente esiste. Io penso che forse c’è una confusione sulla Medaglia Fields: in sintonia con la società aperta e competitiva di oggi del tipo di quella di G. Soros, percepisco la medaglia come una competizione, un po' come un boardercross di snowboard quando butti 4 concorrenti nel pipe e vince il primo arrivato. C'è una bella battaglia, un bello spettacolo, ma alla fine le regole fanno sì che, sebbene il nome del vincitore non si può conoscere in anticipo, delle caratteristiche del suo profilo si possono già indovinare. Per vincere unboardercross, non puoi che essere un po' massiccio, sennò sarai eliminato dagli altri concorrenti al passaggio delle porte strette dove occorre spesso un po' di rissa. Lo stesso, per vincere la Medaglia Fields con la barriera dei 40 anni, devi aver seguito il Cursus Honorum, aver lavorato sempre con i migliori nei posti più all'avanguardia. Questo significa che non c'è posto per dei profili un po' atipici ... Detto questo, non intendo negare il grande merito dei vincitori: miro unicamente a sottolineare che questo tipo di regola ha come conseguenza di confinare statisticamente i potenziali vincitori all'interno di una certa sotto-classe ben identificata di popolazione dove un certo tipo di percorso professionale risulta più probabile. Ogni competitore sa bene che cambiando le regole, si cambia generalmente il risultato finale. Le opportune naturalizzazioni di ultimo minuto per assicurarsi di una bella classifica nazionale entrano anche bene in questo quadro generale. Personalmente, mi sento molto più creativo oggi a 42 anni rispetto a 10 anni fa. Ma non mi sono mai posto il problema della Medaglia Fields (che vedo piuttosto come una specie di show-business scientifico): a 20 anni ero più felice lavorando in discoteca che se avessi dovuto imparare i spazi di Hilbert. A 30 anni, un bel ricordo e' di aver fatto l'andata-ritorno Paros-Naxos con altri surfisti durante un bel giorno ventoso di agosto 1999. Se vuoi vincere l'altissimo livello, sicuramente non puoi prendere il tempo a vivere armoniosamente. Gli esempi famosi dei atleti francesi come Laure Manaudou illustrano bene il concetto. Che cosa può avere di interessante la matematica per un giovane moderno? Questa ultima domanda mi mette un pochino in imbarazzo perché mi chiedi un'opinione su un lavoro tipicamentemiddle class in una società che sembra aver progettato di annientare la middle class per trasformarsi in una specie di Venezia (o di Monte-Carlo) gigante, un museo all'aria aperta per ricchi happy few(il mondo dei ultimi film di Woody Allen). Oltretutto, ad un livello "macro", la nostra professione non ha visto venire, né gli eccessi della finanza matematica, né le turpitudini che sono uscite dal Climategate (vedere comunque il libro di Benoît Rittaud). Buttarsi sulla matematica a 13 anni al giorno d'oggi significa uscire fuori dal circuito promosso dai mass media continuamente. Oltre agli aspetti di sicurezza del lavoro legati al posto statale (sebbene le difficoltà dell'Italia sui bond markets diventeranno presto un ostacolo serio per finanziare questi posti) ma non specifici alla scienza matematica (infatti vale per qualsiasi lavoro universitario), vorrei riposizionare la tua domanda in un contesto socio-economico più generale. La parte occidentale dell'Unione Europea e' ormai diventata una società rapidamente invecchiata, economicamente in deflazione, con dei tassi d'interesse reali positivi, ciò significa concretamente che un detentore di capitale si arricchisce non facendo NIENTE (J.-P, Chevennement, un politico francese ha dichiarato che "l'Euro e' diventato il Mark CFA", il Franc CFA era la moneta che l'impero Francese aveva imposto nelle sue colonie africane). Siamo esattamente nella situazione che J.-M. Keynes aveva provato al massimo di evitare, cioè una concentrazione eccessiva del capitale ai
posti dove risulta inutile per la maggioranza della società, la speculazione borsista (questo aspetto e' spiegato perfettamente da Paul Jorion) con i suoi bisogni fasulli di "liquidità" che invece crea instabilità e rischio. Intanto, gli stipendi si adeguano alla concorrenza asiatica ed ormai, il trucco dell'indebitamento eccessivo delle classi lavorative si e' esaurito nella crisi bancaria del 2008: la ricercatrice Elisabeth Warren ha fatto delle bellissime conferenze free access su questo argomento. Un'altra parte del capitale e' stata investita nell'immobiliare, il settore più inutile per una società volta verso l'innovazione scientifica ma percepito come critico dalla gerontocrazia e anche dai suoi giovani eredi (cf. l'esempio delle fiction tipo Gossip Girl, elaborate direttamente da agenzie di comunicazione specializzate e ben analizzate dal punto di vista sociologico da Mona Chollet). Dunque bisogna impregnarsi dell'idea spiacevole che nella società occidentale come evolve adesso, la matematica risulta sfortunatamente ben poco utile, esattamente come le altre discipline scientifiche che non a caso vengono trascurate dai politici eletti, ben collegati alla vox populi. Delle persone del calibro di Louis Chauvel, Emmanuel Todd o Philippe Even spiegano bene che la ripartizione demografica attuale (e la ripartizione capitalistica che ne risulta) non e' per niente quella di una società che avrebbe portato l'uomo sulla Luna! Ormai, si pensa maggiormente al corto termine (come si fa ad una certa età) e si vota per il candidato che promette di abbassare le tasse sulla seconda casa al mare! Siamo di fronte a 2 problemi gravi: il disequilibrio demografico che introduce un bias nelle elezioni a favore dei pensionati baby-boomers (i quali hanno potuto godersi l''inflazione stipendiale dei anni '70), ed una grossa reinterpretazione del concetto di Adam Smith. la "mano invisibile" (tra l'altro molto più marginale nella sua opera che lo pretendono certe persone). Per illustrare le ultime mie frasi di questa interview, ti allego una sua citazione ripresa dalla "Ricchezza delle nazioni", che dimostra chiaramente quanto e' stato falsificato il suo pensiero dagli allievi di Milton Friedman e della Scuola di Chicago: "A parità o quasi di profitti, quindi, ogni individuo è naturalmente incline a impiegare il suo capitale in modo tale che offra probabilmente il massimo sostegno all'attività produttiva interna e dia un reddito e un'occupazioneal massimo numero di persone del suo paese. [...] Quando preferisceil sostegno all'attività produttiva del suo paese [...] egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni" (sottolineato da me). Ciò e' molto diverso dai discorsi televisivi sulla cosidetta "mano invisibile" che mirano a giustificare della pauperizzazione delle nazioni sviluppate tramite delocalizzazioni esterne, dark pools, e circuiti opachi attraverso paradisi fiscali accomodanti ... Noi, ricercatori, viviamo maggiormente delle tasse pagate dai cittadini. Più c'è disoccupazione, precarietà, stipendi bassi ed evasione fiscale, meno ci saranno posti. E non posso prendermi la libertà di nascondere questa realtà ad un giovane lettore!
Matilde Marcolli Matilde Marcolli, classe 1969, insegna al California Institute of Technology dopo essersi laureata all'Università di Milano. Una delle sue passioni? L'attivismo politico, in varie strutture della sinistra extraparlamentare, collettivi anarchici e comunisti. Qual è il suo campo di studi? In generale mi occupo di "fisica matematica", che vuol dire che lavoro sulle strutture matematiche che stanno alle spalle dei modelli della fisica teorica, ma anche che utilizzo strumenti e idee prese da teorie fisiche per ottenere risultati in matematica pura con strumenti nuovi. Ci racconta il suo percorso universitario (da studentessa e da docente)? Ho conseguito prima una laurea in fisica, all'universita' di Milano, ma con un relatore di tesi a matematica e un correlatore a fisica. La tesi era su strutture topologiche delle simmetrie delle teorie di gauge delle particelle elementari. Ho poi preso un dottorato (un PhD) in matematica alla University of Chicago, con una tesi ancora legata alle teorie di gauge, ma da un punto di vista diverso, quello di costruire invarianti delle strutture differenziabili di varieta' in bassa dimensione (dimensione tre o quattro): un importante problema aperto in topologia. Dopo il PhD ho lavorato per tre anni al MIT come postdoc, e poi per diversi anni all'Istituto Max Planck di matematica come professore associato. Dal 2008 sono professore ordinario al Caltech. Lei, a soli 28 anni, è stata anche C.L.E. Moore instructor al MIT, un titolo ambito che viene riconosciuto alle “giovani promesse”. Anche da piccola era considerata una bambina prodigio in matematica? Della scuola negli anni prima del liceo non ho molto da dire, eccetto che e' stata inutile e noiosa: sapevo gia' leggere e scrivere a tre anni e quel che ho imparato poi e' venuto soprattutto dai libri (molti) che avevo in casa. Il liceo e' stata la prima esperienza scolastica intellettualmente stimolante e veramente interessante. Ho fatto il liceo classico: la materia che mi piaceva in assoluto di piu' era il Greco, seguita da Filosofia e Storia dell'Arte. Di matematica nei licei classici purtroppo si fa poco o niente: una brutta eredita' dello stupido Crocianesimo che ancora appesta le istituzioni scolastiche italiane. Ad ogni modo sono stati anni che ricordo come molto belli e in cui ho imparato molto. Da un punto di vista di formazione culturale generale e' stata un'ottima esperienza, anche se la cultura scientifica ho dovuto farmela fuori dalla scuola, in buona parte attraverso l'accesso agli ottimi libri economici di matematica e di fisica superiore importati dall'allora Unione Sovietica (la famosa casa editrice Mir) attraverso il partito comunista, ed in parte anche grazie ad amici di famiglia che avevano una formazione scientifica e che mi davano buoni suggerimenti su cosa leggere. Alla fine le scelta di una carriera scientifica ha avuto molto a che fare con la formazione ideologica marxista e con l'idea che la scienza sia il metodo migliore a nostra disposizione per cercare di dare senso al mondo che ci circonda.
Poco dopo la laurea all’Università di Milano lei è subito andata a studiare all’estero e non è più tornata. Ci racconta questa sua scelta? Era l'inizio degli anni '90: l'Europa stava cambiando, ed era difficile prevedere come. La scienza in Italia e' sempre stata poco valorizzata. Non basta? Si pensa che i matematici esprimano le loro idee migliori fino a quarant’anni. Lei, che di anni ora ne ha 42, cosa pensa di questa idea? Nella tipica carriera scientifica nei centri di punta del settore, una persona tipicamente arriva intorno ai quarant'anni al livello piu' avanzato: professore ordinario, direttore di un laboratorio eccetera. (In Italia le carriere sono piu' lente per via di una burocrazia arretrata e soffocante, nonche' della cronica carenza di risorse, ma quella italiana non e' per niente una situazione tipica.) Quello che tipicamente succede e' che, raggiungendo quel livello di carriera, aumentano drasticamente gli impegni di carattere amministrativo che sottraggono tempo alla ricerca: l'insegnamento, gli studenti da supervisionare, la burocrazia di dipartimento, le domande di fondi, tutte cose che uno riesce in gran parte ad evitare nei primi anni della carriera accademica. In altri campi della scienza si riesce forse meglio a gestire questi impegni senza far diminuire la produzione di ricerca, perche' il lavoro di ricerca e' strutturato diversamente, piu' basato sul lavoro di gruppo nei laboratori, meno sull'impegno di tempo continuo del singolo ricercatore. In matematica e' piu' difficile, il che spesso significa un calo di produttivita' scientifica, da cui viene la favola della matematica e i quarant'anni. Conosco matematici famosi che lavorano in istituti di ricerca senza insegnamento e senza quasi burocrazia e che a settant'anni sono ancora tanto produttivi quanto lo erano a trenta. Secondo lei, l’università italiana premia e sostiene i suoi elementi più dotati? La formazione scientifica nelle universita' italiane era senz'altro eccellente. Parlo soprattutto di quella che ho conosciuto piu' da vicino, e cioe' in fisica teorica, e negli anni prima di tutte le abominevoli riforme e controriforme a cui e' stata soggetta l'universita' italiana negli ultimi decenni. Allora era molto facile per bravi laureati italiani trovare accesso ai migliori centri di ricerca e universita' all'estero. Ora vedo molto pochi studenti italiani arrivare allo stesso livello e temo che possa essere un sintomo che la preparazione universitaria e' cambiata, non necessariamente nel modo piu' soddisfacente. L'atmosfera che ricordo allora nell'universita' era molto stimolante intellettualmente e senz'altro ci spingeva a dare il meglio e ad imparare molto e di piu' di quel che era strettamente richiesto dal curriculum e dagli esami. E' stato senz'altro grazie a quel periodo universitario e a tutto quello che ho imparato in quegli anni che sono poi riuscita a continuare con successo negli stadi successivi. Ancora oggi uso continuamente nel mio lavoro quello che ho imparato in quegli anni. Può farci un confronto con le istituzioni scientifiche straniere, data anche la sua esperienza personale? Per riuscire nella carriera scientifica quando si e' giovani, ci vuole che l'ambiente di lavoro abbia molta flessibilita', niente burocrazia, nessuna struttura gerarchica, e una buona disponibilita' di fondi. Da questo punto di vista le buone universita' americane soddisfano tutti questi criteri. In Europa, nella mia esperienza, sono poche le istituzioni che hanno questi requisiti: in Germania il sistema degli Istituti Max Planck riesce spesso a soddisfare questi criteri, ed e' un ottimo ambiente di lavoro, ma le universita' no: hanno troppa struttura gerarchica rigida e intrattabile. La scienza ne soffre. Nel campo del lavoro, essere giovani in Italia è diverso dall’essere giovani all’estero? Non ho mai fatto l'esperienza di lavorare in Italia. La formazione che si ha da studenti, come dicevo prima, e' molto buona. Da quel punto di vista, per studenti bravi e motivati, non penso faccia troppa
differenza. Il problema viene dopo: una volta completati gli studi, che possibilita' si aprono per un giovane scienziato? All'estero senz'altro ci sono molte piu' opportunita'. Sul lavoro, le è mai capitato qualche episodio divertente, legato allo stupore altrui nel constatare la sua giovane età? No, dal punto di vista generale della carriera accademica e scientifica non sono in una fascia di eta' diversa da quella che normalmente ci si aspetta in questo ambiente. Al primo convegno scientifico a cui andai molti anni fa (ma quello era in Italia dove si ha una percezione diversa di questi fattori di eta') qualcuno si stupi': avevo ventun anni. Lei riassume in sé quelli che potrebbero essere considerati due grandi “ostacoli”: il fatto che sia una donna e il fatto che sia giovane. La combinazione di questi due fattori le è stata mai di intralcio, nel suo lavoro? Come dicevo, "giovane" non si applica gran che nel mio ambiente: ho l'eta' che ci si aspetta che uno abbia al mio livello di carriera, ne' piu' ne' meno. Le donne sono senz'altro ancora in minoranza nelle posizioni accademiche scientifiche, specie quelle di alto livello, e questo e' ancora un effetto di quella che e' stata sempre la marginalizzazione della donna nella societa' tradizionale. La societa' per fortuna cambia e alla fine spariranno anche queste differenze. Se l'essere donna puo' rendere le cose difficili nella carriera scientifica e' difficile a dirsi: ci sono studi che cercano di individuare il "bias" inconsapevole che colleghi possono avere e come si manifesti, ma quando questo accade e' di solito in forme sottili ed implicite, per cui e' difficile direttamente accusare qualcuno di parzialita'. E' proprio il fatto che i pregiudizi siano subdoli e spesso inconsci che rende difficile combatterli efficacemente. Ha qualche hobby, passione, oltre alla matematica? L'attivismo politico, in varie strutture della sinistra extraparlamentare, collettivi anarchici e comunisti; occasionalmente scrivo romanzi, racconti, pezzi teatrali; mi piacciono l'arte astratta e surrealista e la musica atonale.
Fantamatematica
Erdos: storia di un infaticabile‌ di Stefano Pisani John Nash: uno, nessuno, centomila‌ di Stefano Pisani
Erdos: storia di un infaticabile La storia di Paul Erdos, fra i migliori matematici del XX secolo, instancabile, bizzarro, vagabondo e non esattamente contrario alle droghe sintetiche... di Stefano Pisani «Ricordo che erano le cinque di un freddo mattino quando io e Ivona, mia moglie, sentimmo bussare alla porta. In effetti quei colpi insistenti svegliarono prima il nostro cane che cominciò a abbaiare e alla fine, per farlo smettere, decisi di alzarmi e andare a vedere chi fosse. Quando aprii mi ritrovai di fronte un vecchietto bisunto con i capelli grigi arruffati e gli occhialoni che esclamò: “La mia mente è aperta!”. Beh! Mi sorprese a tal punto che gli scagliai contro il cane. Dopo dieci minuti di lotta feroce contro l’animale, l’uomo trovò la forza di dirmi che era un famoso matematico e di nome faceva Paul Erdos». La testimonianza di T.K., algebrista ungherese che scrisse con Erdos 14 articoli prima di riuscire a liberarsi di lui (uno dei quali Sulla disposizione in grafi plani delle macchie di sangue derivanti dai morsi di Schnauzer) dice molto sulle bizzarre abitudini di quello che fu uno dei più prolifici matematici di tutti i tempi. Paul Erdos (Budapest 1913 - Varsavia 1996), totalizzò infatti ben 1485 articoli e si fermò solo perché fu stroncato da un infarto nel bel mezzo di un congresso a Varsavia. «Fu un momento drammatico per tutti. Io notai che Erdos era stramazzato al suolo in modo sospetto, e mi avvicinai subito a lui. Ricordo perfettamente che si afferrò a una manica della mia giacca e mi disse: “Vogliamo scrivere un lemma insieme? Solo un lemma, non penso di avere molto tempo”. Ha amato la matematica fino all’ultimo» rammenta con dolore un matematico che preferisce rimanere anonimo (Vladimir Buturra – nella lingua del paese da cui proviene, “Buturra” è una grave offesa, e Vladimir è sempre restio a rivelare il suo cognome). In quanto a produzione fu superato un pelino forse solo da Eulero, e viene considerato fra i più grandi matematici del XX secolo e certamente il più insistente. Il suo stile di vita era estremamente personale. Potremmo definirlo lo “zingaro della matematica”, perché Erdos, fra una conferenza e l’altra, viaggiava appunto costantemente alla ricerca di colleghi con cui collaborare. Bussava alle loro porte, diceva la sua famosa frase «La mia mente è aperta» e per chi aveva di fronte non c’era scampo: doveva scrivere un articolo scientifico con Erdos, fosse un matematico di un campo completamente diverso dal suo oppure un bambino di 12 anni con la pertosse. «Erdos? Sì, sì lo ricordo benissimo – ci racconta Santippe Permafrost, la cameriera di un motel a ore in cui Erdos, per sbaglio, una volta si fermò – per una settimana bussò a tutte le porte dell’albergo e quando non gli aprivano lui gridava: “C’è nessuno? La mia mente è aperta, ma questa camera non lo è! Ma chi è che ansima lì dietro?”. Non si è arreso fino a quando la polizia non lo ha portato via perché era stato denunciato per voyeurismo. Ho saputo che in cella ha proposto un teorema a un tizio che era finito dentro per furto di grondaie. Una brutta storia» Bambino prodigio, Paul venne ben presto accettato tra i matematici ungheresi come loro pari o almeno fra i matematici ungheresi del suo nido.
Ha elaborato e risolto problemi legati alla teoria dei grafi, combinatoria, teoria dei numeri, analisi, teoria dell’approssimazione, teoria degli insiemi e probabilità e teoria della infinità degli articoli scientifici che si possono scrivere. Il suo modo di lavorare era uno spot al sudore: si presentava, diceva la sua famosa frase e si stabiliva a casa di qualche suo collega costringendolo a lavorare anche per venti ore al giorno. Questa cosa metteva a dura prova i suoi collaboratori. «Non nego – ricorda uno dei suoi collaboratori più frequenti - di aver pensato spesso di farla finita avvelenandomi con il collutorio scaduto. Ma tutte le volte che entravo in bagno ci trovavo Erdos che frugava nell’armadietto delle medicine e si bloccava istantaneamente quando mi vedeva. A volte ci fissavamo per ore, rimanendo ognuno nella sua posizione». Oggi sappiamo cosa cercasse Erdos. Era il suo piccolo “aiutino” quotidiano. Dal 1971, ossia alla veneranda età di 58 anni, il grande matematico cominciò a far uso massiccio di anfetamine, che gli consentivano di lavorare finalmente quanto voleva. Non solo. Passava le restanti quattro ore della giornata leggendo, appollaiato su una batteria d’automobile per ricaricarsi. Un giorno un suo amico, preoccupato per la sua salute lo sfidò a non assumere anfetamine per un mese scommettendo 500 dollari. Erdos non prese nemmeno una pasticca, e vinse la scommessa. Dopo aver ritirato la sua vincita disse all’amico: «Ti ho dimostrato che non sono un drogato, ma tu hai fatto perdere un mese di teoremi e dimostrazioni alla matematica. Prima quando mi sedevo davanti a un foglio bianco la mia mente si riempiva di idee e teoremi mentre adesso quando vedo un foglio bianco vedo solo un foglio bianco». Subito dopo aver finito la frase, Erdos ingurgitò in un colpo solo 500 dollari delle migliori anfetamine che avesse mai gustato. Ma non furono solo le anfetamine e la sua cocciutaggine a portare a questa enorme prolificità. Contò moltissimo anche il fatto che Erdos era completamente solo al mondo e sembrava avere come unico, esclusivo interesse, la matematica. Tutto ciò che possedeva, qualche vestito e parecchi appunti matematici, era stipato in due logore valigie che si portava sempre dietro nei suoi vagabondaggi. Una volta, ormai Erdos era famoso, un matematico lo vide che passeggiava per la città con le sue due valigie al seguito e preso dall’entusiasmo gli corse incontro: «Gli saltai al collo e gli dissi: beh, porta anche me, giacché porti questi borsoni! E lui mi portò in braccio fino a casa». Erdos era una persona ossessionata dalla matematica e non desiderava soldi o fama. Infatti la maggior parte del denaro che riceveva per le conferenze lo donava per cause benefiche, tenendo per sé solo quanto era sufficiente a soddisfare il suo frugale stile di vita. Dava soldi a tutti i mendicanti, e in tanti, conoscendolo, si mascheravano ormai da barboni e gli chiedevano l’elemosina al suo passaggio. Quando riscosse il suo primo stipendio fu avvicinato da un pover’uomo, in realtà proprietario di banca, che gli chiese i soldi per una tazza di tè. Allora Erdos tirò fuori dalla busta una piccola somma, che tenne per sé, e gli diede tutto il resto. L’uomo allora lo guardò e, commosso, gli disse: «E dov’è il mio tè?». Si può dire che semplicemente non si curava affatto di ciò che non era matematica. «Alcuni socialisti francesi hanno detto che la proprietà è un furto — soleva ripetere. — Io penso che più che altro sia una seccatura. Certo è un problema quando non ho i soldi del biglietto del treno e spesso devo viaggiare dentro un pacco raccomandato su cui qualche volta dimentico di scrivere fragile». Non aveva una casa e tutte le sue proprietà materiali erano stipate in due logore valigie che lo accompagnavano ovunque andasse. Ma letteralmente: le valigie avevano le gambe. Stefano Pisani è giornalista scientifico e autore satirico. Collabora con varie testate fra cui Le Scienze, Mente & Cervello, e “Il Misfatto”, inserto satirico de “Il Fatto Quotidiano”. Si occupa di divulgazione nei campi della sismologia e della matematica.
John Nash: uno, nessuno, centomila Direttamente da “A Beautiful Mind”, John Nash, il bizzarro individuo che inventò un equilibrio che porta il suo nome in senso ironico di Stefano Pisani John Forbes Nash (Bluefield, 13 giugno 1928) è un grande matematico ed economista statunitense. Ben prima, però, un architetto e un urbanista inglese del XVIII secolo, massimo rappresentante del genere pittoresco, fu anche lui un John Nash. E non solo. Anche suo padre si chiamava allo stesso modo. Tutto questo gettò un velo di confusione sui primi anni del piccolo Johnny, che non è mai riuscito, nel corso della sua vita, a ricordarsi precisamente quale dei vari Nash fosse in realtà. Nash, che sarà al centro di un noto film (“A Beautiful Mind”) in cui si celebra la sua esaltante schizofrenia, già da piccolo rivela un carattere solitario e bizzarro. Alcune testimonianze di chi lo ha conosciuto da bambino, lo descrivono come un bambino. Altre, come un introverso che nutriva più interesse per i libri piuttosto che per il gioco con i coetanei. In realtà, John aveva già capito che date due strategie poste in essere da due concorrenti, nessuno dei due può migliorare la propria posizione adottando una strategia diversa (Equilibrio di Nash), e quindi il rimpiattino poteva anche andare in malora. Nash, o chiunque credesse di essere, giunto al liceo usa la sua superiorità intellettuale rispetto ai compagni soprattutto per ottenere considerazione e rispetto, cose che gli tengono compagnia da solo, a casa, la sera del ballo dell’ultimo anno. Ottiene anche una prestigiosa borsa di studio, grazie ad un lavoro di chimica in cui vi era però lo zampino del padre, che voleva riscattare un suo esperimento liceale di anni prima in cui fece esplodere zampe di rana durante la ripetizione di un noto esperimento di Galvani, prima ancora di cominciarlo. Visto il grande interesse del padre per la chimica, John fa tutto quello che può per andare bene in Matematica, compreso il fatto di non instaurare rapporti di amicizia né con donne né con uomini. Partecipa alla Putnam Mathematical Competition, un premio molto ambito, ma lo vince il suo compagno di classe e rivale Edward Lopez. Questa resterà per lui sempre una delusione cocente, che sarà solo in parte mitigata dal Nobel del 1994 (che comunque Nash tentò di barattare col Putnam, incontrando il rifiuto categorico di Lopez che nel frattempo era diventato un cocciutissimo elettrauto). Nel 1949, mentre studia per il dottorato, sviluppa delle considerazioni che 45 anni più tardi gli valsero il premio Nobel. Così impara a tenere più ordinate le sue carte. Intanto cominciano a manifestarsi i primi segni della malattia. Conosce anche una donna, di 5 anni più anziana di lui, e per convincersi che non sia un’allucinazione la mette incinta. Alla nascita del figlio, i sintomi della sua malattia stranamente peggiorano, e Nash non vuole né aiutare economicamente la madre né riconoscere il figlio. Si impegna, invece, a conoscere un'altra donna, Alicia Lerde, che diventerà sua moglie. In questo periodo visita anche il Courant Institute, dove incontra Louis Nirenberg, che lo introduce ad alcune problematiche delle equazioni differenziali alle derivate parziali. In questo campo ottiene un risultato straordinario legato ad uno dei famosi problemi di Hilbert, uno di quelli che potrebbero valere la medaglia Fields, se non fosse che Ennio De Giorgi, di cui Nash ignorava i risultati, aveva già risolto lo stesso problema pochi mesi prima in maniera indipendente e usando più colori.
Comincia nel frattempo a occuparsi delle contraddizioni della meccanica quantistica cosa che probabilmente gli causò i suoi primi seri disturbi mentali. Nash passa circa trenta anni tra i successi scientifici ed accademici e la schizofrenia paranoide, essendo accolto in istituti universitari prestigiosi e in ospedali psichiatrici altrettanto prestigiosi, cercando, inutilmente, di individuare una qualche differenza. Durante i suoi ricoveri, si lega particolarmente ai degenti con la sindrome di Asperger. Per la loro spiccata attenzione ai dettagli, egli li usa mettendoli a guardia dei propri appunti mentre è occupato a farsi attraversare il cervello da ripetute scariche di 450 volt per tre volte alla settimana (con interessanti risultati). La terapia gli consente comunque finalmente di isolarsi completamente (dopo l’elettroshock chiunque aveva paura di toccarlo). I deliri più ricorrenti riguardano le visioni di messaggi criptati (provenienti anche da extraterrestri), il credere di essere l'imperatore dell'Antartide, il piede sinistro di Dio, un pupazzo interamente fatto di sushi, l'essere a capo di un governo universale, il pensare di contare qualcosa in casa. Dopo lunghi travagli, all'inizio degli anni Novanta, le crisi sembrano avere fine. Anche se la moglie chiama un’ambulanza quando Nash le comunica di aver vinto il Nobel per l’Economia. A proposito delle sue frequenti allucinazioni, Nash disse «Quando non riesci più a capire se chi hai di fronte è vero oppure no è un guaio. Come fai, per esempio, a fidarti dei suoi soldi?». Alla consegna del Nobel, nel 1994, è passato alla storia il momento in cui Nash, nel suo discorso, ringrazia i reali di Svezia e il pubblico presente «sempre che siate davvero tutti qui». Oltre a finire nell’Albo d’oro degli “Schizofrenici Più Famosi del Mondo”, Nash vinse infatti un premio Nobel per l'Economia per aver introdotto la nozione di equilibrio oggi universalmente usata nella Teoria dei giochi: di un comportamento, cioè, che non può essere migliorato con azioni unilaterali, nel senso che lo si sarebbe tenuto anche avendo saputo in anticipo il comportamento dell'avversario (a questo punto dovrei fare una battuta, ma una volta tanto voglio che ve la caviate da soli). Dell’incontro con un altro genio, Albert Einstein, John Nash ricorda: «Quando sono andato da lui, un suo assistente, John Kemeny, gli stette sempre vicino e in silenzio, come una guardia del corpo. Probabilmente Einstein incontrava un sacco di matti, e aveva bisogno di un minimo di protezione. Ma nessuno può fermare l’imperatore dell’Antartide». Durante la sua malattia, Nash sentiva anche delle voci. Ben lungi dal farlo ritenere un veggente cristiano, le sue voci reagivano criticamente ai suoi pensieri e talvolta gli facevano la supercazzola. «Sono continuate per vari anni. Alla fine ho deciso di ignorarle. Ho capito che erano solo una parte della mia mente: un prodotto del subconscio, o un percorso alternativo della coscienza. Ehi, come si permette di parlare così di mia madre?». Stefano Pisani è giornalista scientifico e autore satirico. Collabora con varie testate fra cui Le Scienze, Mente & Cervello, e “Il Misfatto”, inserto satirico de “Il Fatto Quotidiano”. Si occupa di divulgazione nei campi della sismologia e della matematica.
Vita da matematico
Annarita Ruberto Andrea Plazzi
Annarita Ruberto Insegnante... all'avanguardia, blogger infaticabile, versatile e piena di interessi. Questo mese incontriamo Annarita Ruberto. Ci racconta il suo percorso di studi? Ho frequentato il Liceo Classico, il glorioso “Quinto Ennio” di Gallipoli. Poi, con una brusca virata (la storia è troppo lunga…) mi sono laureata in Fisica all’Università del Salento, discutendo una tesi in Algebra delle correnti e Teoremi a bassa energia. Successivamente ho frequentato i primi tre anni del Corso di Laurea in Biologia… poi abbandonato per sopraggiunto matrimonio con un romagnolo doc, relativa figliolanza e migrazione in quel di Romagna. Come mai ha deciso di dedicarsi all'insegnamento? Ci pensava già in giovane età? No, non credo di aver pensato all’insegnamento da piccola anche se mi sono trovata, mio malgrado, ad “insegnare” al tempo in cui frequentavo le medie. Vi chiederete come sia stata possibile una cosa del genere. In breve, ero una bimbetta sveglia e molto, ma molto curiosa. La mia curiosità mi portava a divorare letteralmente libri su libri di qualsiasi genere purché soddisfacessero la mia insana curiosità di conoscere. In tal modo, ero riuscita a sviluppare una buona capacità di esprimermi verbalmente e per iscritto. Insomma riuscivo piuttosto bene a scuola…così il mio professore di lettere ebbe la folgorante idea di consigliare qualche genitore di spedire a fare i compiti da me il proprio pargolo, che non era quel che si dice una cima! Comprensibile il concetto? Mi stavo indirizzando verso la ricerca universitaria… ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Fui convocata per una supplenza breve in una scuola media e lì scoppiò la scintilla. Mi innamorai letteralmente di quei fanciulli. I ragazzi di età compresa tra gli undici e i 14 anni sono plasmabili come tenera creta, pronti a lasciarsi guidare se si riesce a conquistare la loro fiducia. Non dimenticherò mai la prima volta che, a 23 anni, misi piede in una classe di primini, considerati delle vere pesti. Venticinque paia di occhi, sorridenti, sornioni, interrogativi, crucciati, sfidanti. Sembravano dire: “ Noi siamo qui! Facci vedere che cosa sai fare! Sorprendici!”. Ecco è cominciata così e la magia si ripete ogni giorno, quando mi ritrovo con le mie adorabili pesti. Le materie scientifiche che mi sono ritrovata ad insegnare non godevano e non godono di una buona fama. In genere sono viste come le bestie nere! E ci credo! Il modo in cui sono proposte è astratto e fine a se stesso. Sin da subito ho giurato a me stessa che non avrei reiterato la prassi didattica che avevo subito da scolara. E così mi sono impegnata a sperimentare nuove metodologie in cui i ragazzi sono gli artefici del proprio apprendimento, entrando all’interno delle discipline. Fondamentali sono state due esperienze : il progetto pilota Senis, seminario nazionale per l’insegnamento scientifico e una Borsa di ricerca ministeriale per insegnanti. Il primo è durato dal 1999 al 2001. Eravamo una quarantina di insegnanti, selezionati sul territorio nazionale in base a determinati requisiti, che si scambiavano in rete le proprie esperienze didattiche e confrontavano le realtà di riferimento. Un periodo bellissimo che ha portato alla stesura di un volume “Il Progetto SENIS – La formazione scientifica nella scuola media” per il MIUR. Tra i coordinatori, Paolo Guidoni, Giuseppe Accascina, Eugenio Torracca. La borsa di ricerca ministeriale ha portato alla produzione di ingenti materiali, prodotti con gli alunni di una classe terza, presenti sul sito dell’IRRER, un curricolo scientifico annuale. Nel 2001 è iniziata la mia collaborazione con la
rivista Scuola e Didattica dell’Editrice La Scuola, che dura tuttora e, nell’ambito della collaborazione, ho continuato ad approfondire la ricerca didattica e metodologica. E invece, come è avvenuto lo sbarco nel mondo dei blog? E’ stato inevitabile, direi. Nel decennio appena trascorso, abbiamo assistito a una crescita esponenziale delle tecnologie digitali e alla nascita della realtà virtuale. I ragazzi cominciavano a vivere in un mondo parallelo, scollato dalla scuola. Così, per non perderli per strada, mi sono lanciata nel mondo delle piattaforme di e-learning, ho conseguito due master, uno in progettazione e-learning e l’altro sui metodi della comunicazione e apprendimento in rete. Mi sono fatta un’esperienza che è continuata con diversi incarichi ministeriali: il progetto ForTic per la formazione degli insegnanti nelle nuove tecnologie informatiche, in cui sono stata impegnata come tutor dei corsi A e B e come master trainer per la provincia di Ravenna. I due blog didattici, Scientificando e Matem@ticaMente, che gestisco dal 2007, sono nati per l’esigenza di sperimentare altre vie alternative, che affiancassero l’insegnamento in aula. Un modo di offrire ai ragazzi un terreno in cui interagire oltre i muri dell’aula, che li motivasse e li rendesse attori in un’esperienza formativa, vicina alle loro esigenze di nativi digitali. I ragazzi, infatti, collaborano attivamente alla vita dei blog con articoli personali, in cui raccontano quel che apprendono a scuola e come lo apprendono. I blog sono diventati pertanto due progetti didattici con caratteristiche peculiari e valide in ambito didattico e apprenditivo. Un riconoscimento di tali funzioni è sfociato nella selezione di Scientificando da parte del Progetto Europeo STELLA (Science Teaching in a Lifelong Learning Approach, http://www.stella-science.eu/) come uno dei quattro progetti scientifici di eccellenza italiani, che sono stati inseriti nell’e-book “Science Education in European Schools - Selected Practices from the STELLA Catalogue” (in formato ridotto al seguente indirizzo: http://www.stellascience.eu/documents/STELLA_eBook_Executive_Summary_it.pdf) Qual è, a suo avviso, il contributo che un'esperienza didattica può apportare alla 'pratica' della divulgazione e... viceversa? Per quanto riguarda Scientificando (http://scientificando.splinder.com) e Matem@ticaMente (http://lanostramatematica.splinder.com), nati come blog didattici, si sono modificati in maniera naturale, includendo anche la comunicazione scientifica. Direi che l’esperienza didattica può migliorare la divulgazione (preferisco il termine comunicazione a divulgazione) sia in termini di chiarezza che di precisione e correttezza, mentre la divulgazione può essere di supporto alla didattica nel senso che ne dilata e amplifica il raggio di azione. Si dice in giro che i giovani, nell'era di Internet, abbiano perso la capacità di concentrarsi. Secondo lei, che sta a contatto con ragazzi molto giovani, è un luogo comune o c'è qualcosa di vero? Ecco “si dice in giro”… da chi non è a contatto stretto, quotidianamente, con i ragazzi! Oggi i ragazzi hanno indubbiamente più occasioni di distrarsi rispetto a diversi anni fa. E questo non se lo sono cercato loro. Mi irrita chi pontifica, attribuendo ogni responsabilità ai ragazzi! La questione è complessa e non può essere liquidata in poche righe. Sicuramente Internet è potenzialmente un grosso distrattore e non solo per i giovani. Il link è sempre in agguato…per questo i ragazzi dovrebbero essere educati a muoversi con consapevolezza nelle maglie della rete. E in questo la scuola può fare molto e anche la famiglia. Ciò precisato, i giovani riescono a concentrarsi nella misura in cui “l’offerta” si presenta “attraente”. Ovvero se la proposta formativa è resa interessante, la partecipazione è assicurata e i livelli di concentrazione ( e i risultati in termini di apprendimento) diventano sorprendenti. Il nostro sito ha l'ambizione (e la speranza) di parlare di matematica soprattutto attraverso le sue applicazioni e la matematica moderna. Cosa pensa di questo approccio? E’ un approccio molto valido, soprattutto con gli utenti particolarmente giovani, che hanno bisogno di trovare connessioni concrete tra matematica e realtà. Le applicazioni della matematica
arrivano più direttamente e coinvolgono più efficacemente rispetto ad un approccio astratto e formale, spesso privo di significato per chi è molto giovane. Cosa fa quando non insegna o quando non... posta? Ha qualche hobby, interesse particolare? Mi dedico alla famiglia, marito e due figli, che assorbono molto del mio tempo. Se ho qualche hobby? Diversi…troppi per essere curati adeguatamente. Così finisce che faccio una gran confusione. Magari comincio un quadro che non porto a termine perché nel frattempo mi perdo a scrivere dei versi (tento più che altro;)). Oppure inizio un lavoro a maglia che rimane lì perché mi viene voglia di realizzare un cardigan all’uncinetto, che quasi sicuramente, rimarrà incompiuto. E non dimentichiamo il pianoforte, passione scritta nel DNA, provenendo da una famiglia di musicisti da generazioni. Spero di non essere saltata di palo in frasca e di non aver fatto confusione, cosa che mi riesce piuttosto bene se mi metto d’impegno.
Andrea Plazzi: sono l'uomo che parla con Rat-Man Traduttore, saggista e editor italiano, attivo in campo fumettistico per la Panini Comics, noto soprattutto per la sua consulenza per le opere di Leo Ortolani, Andrea Plazzi ha 48 anni ed è laureato in matematica, anche se lavora nel campo dei fumetti da quando aveva 15 anni. A cosa gli è servito studiare matematica? A imparare a concentrarsi. «Rat-saluti a tutti (fletto i muscoli e sono nel vuoto)» Come ti è venuto in mente di iscriverti alla facoltà di matematica? Mi è sempre piaciuta, fin dalle elementari e al liceo era la materia preferita insieme a Francese e Filosofia. Inoltre, anche se grossi dubbi non li ho mai avuti, al momento di iscrivermi all'università a farmi decidere definitivamente è stata l'idea che non avevo alcuna voglia di perdere tempo a studiare esami interminabili a memoria (mi giungevano notizie terrificanti di spauracchi come Diritto Privato a Giurisprudenza, Anatomia a Medicina, etc.) e che solo la matematica mi avrebbe permesso di farlo: un'idea un po' ingenua e semplificata dello studio ma sostanzialmente lo penso ancora. Quale materia ti piaceva di più? Decisamente Analisi e Analisi Numerica, insegnamento nel quale ho dato la tesi. Poi geometria differenziale e analisi complessa, che avrei voluto molto approfondire e mi sono poi servite nel lavoro. Dopo la laurea hai avuto altre esperienze in campo strettamente matematico? Ho avuto una borsa di studio al CINECA di Bologna, il centro interuniversitario di calcolo e servizi informatici. Era un progetto di ricostruzione di strutture biologiche a partire da dati empirici, nell'ambito di un programma più vasto di quello che forse oggi si chiamerebbe "imaging diagnostico". Prima e dopo ho sviluppato il motore geometrico di un sistema italiano 3D orientato al CAM: è stato necessario tutto quello che sapevo (e molto ho dovuto imparare), anche perché dovevo fare tutto, dallo studio della funzionalità da implementare (che so, calcolo di proprietà locali di superfici parametriche, come le varie curvature) all'implementazione software. C'era anche da tenere il passo con un progetto di collaborazione che intanto si era avviato col politecnico di Budapest, dove tutti i colleghi erano di alto livello, persone davvero preparatissime. Là - questa è la parte leggendaria - mi hanno presentato Rubik. Proprio quello. Dopo qualche anno in giro, da bravo italiano sono tornato a casa, sviluppando software per applicazioni industriali (dove un po' di matematica c'è sempre, in assetto variabile, diciamo; per esempio nel firmware di controllo di una pompa di ausilio alla funzione respiratoria nei soggetti non autosufficienti). In tutto, circa 7 anni prima di passare all'editoria a tempo pieno. Come hai cominciato a occuparti di fumetti in modo professionale?
Negli anni Ottanta durante gli ultimi anni d'Università, tornarono a essere pubblicati in Italia i supereroi Marvel, di cui sono sempre stato un grande appassionato sin dai tempi della Corno. Mi chiesero di fare delle traduzioni, cosa che mi è sempre piaciuta. Dal punto di vista del normale traduttore letterario, il fumetto Marvel è un oggetto quasi esoterico, perché a parte le difficoltà specificamente linguistiche dipende in maniera cruciale da un numero abnorme di nomi, fatti e relazioni tra i personaggi (la "continuity Marvel") che vanno conosciute e rispettate e in cui semplicemente non si entra da un giorno all'altro. Per esempio, tormentoni e frasi-chiave hanno spesso traduzioni anche infedeli ma ormai passate nell'uso e note ai lettori, da usare obbligatoriamente ("It's clobberin' time!" diventa "è tempo di distruzione!" e non "è tempo di botte da orbi!" e così via; gli esempi sono centinaia). Per questo motivo, da molti anni i curatori di questi fumetti ne sono stati prima semplici lettori. Come hai conosciuto Leo Ortolani? Circa 20 anni fa cominciò a pubblicare storielle graficamente impresentabili e narrativamente perfette: delle macchine comiche dall'umorismo micidiale, e divenne abbastanza noto quasi subito tra appassionati nel giro delle fanzine (allora esistevano ed erano cartacee) Sei un grande fan di Leo, o ti paga bene per sembrarlo? In editoria è impossibile farsi corrompere (nulla è pagato bene) e vige la più francescana buona fede (se qualcuno non lo è perché così ci si guadagna, mi contatti immediatamente): Leo mi piace moltissimo da sempre e seguirne l'evoluzione negli anni è uno dei miei grandi piaceri. E oggi è anche un ottimo, davvero ottimo disegnatore che realizza le sue brillanti ed efficacissime intuizioni grafiche (i "musi di scimmia", gli "occhi pallati", etc.) con una buona tecnica. Secondo te Rat-Man è il miglior fumetto comico italiano di sempre? E Jacovitti? Non amo né classifiche né dichiarazioni "assolute" e per me questi confronti non hanno senso. Sicuramente - è un'opinione personale – Leo è già entrato nella storia del fumetto italiano e questo mi sembra straordinario se pensiamo che anagrafe alla mano e mano protesa in un istintivo gesto di scongiuro e di attaccamento alla vita – potrebbe non essere neppure a metà della sua carriera. Jacovitti è al di là di qualsiasi classificazione, una singolarità ineliminabile (restando in tema matematica…) nella storia del fumetto, senza precedenti o eredi, né paragoni. Un po' come Magnus. Come sta il fumetto italiano in generale? Quale sono le eccellenze degli ultimi anni? Vanno cercate spigolando tra i tanti volumi che escono in libreria, spesso con tirature minime e quasi invisibili, unico fatto editorialmente nuovo e positivo degli ultimi anni (gli editori che ne vendono pochissime copie e che nonostante tutto insistono nel pubblicarli potrebbero non essere d'accordo). Non vedo grandi novità nel fumetto ufficiale, quello che ancora riesce ad arrivare al grande pubblico: Disney e Bonelli sono una certezza, e non credo che possiamo aspettarci scherzi o sorprese. Personalmente - ma i nomi sono tantissimi - mi piace molto Davide Pascutti, un giovanenon-più-ragazzino (o se volete un non-proprio-professionista-non-più-esordiente). E' pieno di idee e
il suo libro su Coppi per Becco Giallo è uno dei più ingiustamente sottovalutati e meno recensiti, rispetto al valore e all'interesse. Che effetto fa essere un famoso personaggio dei fumetti (L'ubiquo sovrintendente Plazzus, Mr. P, etc? Io che c'entro? E' Leo l'autore. Ed è così bravo che certi suoi personaggi come quelli che citi restano impressi nella memoria dei lettori anche se in realtà appaiono di rado (una manciata di volte in quasi 15 anni; vero che sembra di più? Magia di Leo). Hai un blog abbastanza nutrito, in cui ti occupi di fumetti, ma anche di scienza. Cosa accomuna queste passioni? Forse solo io. Ma in realtà c'è un legame che faccio sempre fatica a mettere a fuoco e a descrivere, quando mi viene chiesto, tra il modo in cui lavoravo e ragionavo quando mi occupavo di matematica ("facevo matematica" è davvero eccessivo; non è da tutti poterlo dire, nel senso più pieno e originale, almeno) e il mio modo di impostare un progetto editoriale, o di concentrarmi durante una traduzione. Non saprei spiegarmi meglio: ha a che fare con la forma mentale con cui svolgevo e svolgo attività anche molto diverse ma che in me inducono stati mentali analoghi. Rimpiangi di aver ‘perso tempo’ a studiare matematica? Quali sono i migliori fumetti in cui ci sono riferimenti alla matematica? Ovviamente no, sono felice di avere studiato matematica, che è stata parte importante del mio lavoro per diversi anni e che mi ha lasciato gli strumenti per continuare a capirne una piccola parte e, volendo e trovando il tempo, di ampliare le mie conoscenze. I due "fumetti matematici" recenti (dicitura assolutamente impropria) più notevoli sono sicuramente GOTTINGA e LOGICOMIX: storie diversissime che, senza alcuna tentazione o cedimento didascalico, raccontano vicende, fatti e persone inserendo suggestioni logico-matematiche sofisticate ma riuscendo a restare leggibili a qualsiasi lettore (interessato). Recentemente hai parlato nel tuo blog di David Foster Wallace. Come mai? Cosa ti colpisce di lui? Quali sono i tuoi scrittori preferiti? Di DFW è nota la fascinazione per la matematica, la preparazione non comune e tutt'altro che ingenua in una persona di formazione filosofica (non riesco a immaginare niente del genere in Italia: credo che una simile figura da noi semplicemente non potrebbe esserci, o formarsi). La sua prosa è lucida e precisa restando appassionata e mai arida. Trovo che in lui il ragionamento e l'argomentazione logica non siano vezzi intellettuali ma strumenti al servizio di una tensione etica costante e sempre presente, una specie di "poetica della necessità di essere" (o dell'impossibilità di essere altrimenti) che, per esempio, il suo saggio QUESTA E' L'ACQUA esprime al massimo grado. Leggerlo in originale è affascinante, perché DFW usa un inglese elegante ma non particolarmente difficile, riuscendo a essere estremamente espressivo. Per il resto, in prosa leggo quasi solo saggistica e (troppo) poca narrativa per avere dei veri e propri gusti, almeno nella fiction. Ultimamente ho riletto quasi tutto Primo Levi. E tra gli italiani, ripensandoci, mi piacciono Paolo Nori e Emidio Clementi, entrambi assai poco tipici.
L’angolo arguto
Viaggi nel tempo: istruzioni per l’uso…di Diego Altobelli Lacci da scarpe e cravatte… di Nuno Crato
Viaggi nel tempo: istruzioni per l’uso Due chiacchiere in chat con il fisico che ha ideato la prima macchina del tempo funzionante. Un reportage di Diego Altobelli di Diego Altobelli «Professore, viaggeremo mai nel tempo?» «Che io sappia non esistono motivi per cui ci sia impedito di osservare lo scorrere del tempo a velocità differenti.» «Era un sì?» «Era un forse se.» Da quando la prestigiosa Physical Review Letters ha pubblicato "A new time-machine model with compact vacuum core" ovvero Un nuovo modello di macchina del tempo con un nucleo vuoto compatto, Amos Ori dice che la sua vita è cambiata, radicalmente, per via di un numero incalcolabile di geek paranoici. «Pensano che appartenga a una setta segreta di matematici.» «La π2?», chiedo inserendo un emoticon. Non coglie. È israeliano e, a quanto vedo, per niente interessato alle logge massoniche deviate italiane. «Mi ritengono responsabile di teorie surreali. Un giorno ci scriverò un libro: La cospirazione quantistica del nucleo vuoto toroidale.» «Non immaginavo fosse così grave.» «Se ne parlo sono complice, se non ne parlo sono un mistificatore, se dico che è tutto falso nessuno ci crede. Scrivendo quel saggio sulle curve temporali sono diventato il protagonista involontario di un grottesco complotto cosmico.» Mentre gli chiedo se cambiare account di posta serva a qualcosa penso al Pendolo di Foucault, forse il miglior manuale di sopravvivenza alle fuffe cospirazioniste. «Tranquillo Prof», vorrei scrivergli, «davanti al segreto si crea sempre mistero e complotto, è normale, ha presente Casaubon?» ma, dopo la pessima battuta sui matematici massoni, sto zitto. «Sono convinti che i matematici stiano realizzando le invenzioni letterarie della fantascienza per prendere il sopravvento sugli scrittori e conquistare il mondo. Non ricordo se abbiano utilizzato un’espressione così tautologica ma il senso era questo…» «Secondo lei l’interesse dei geek paranoici si è sviluppato dopo la pubblicazione del saggio sulla macchina del tempo?» «Assolutamente. Lì sostenevo che se fosse possibile sfruttarle, le CTC [closed timelike curves, curve temporali chiuse, nda], permetterebbero di incontrare il passato prossimo invece del futuro. Vorrei non averlo mai scritto.» «A questo proposito vorrei chiederle, sempre in via del tutto teorica...» «Quel saggio è piaciuto solo a chi mi fa domande idiote sui viaggi nel tempo.» «…sarebbe possibile tornare indietro e uccidere Hitler?» [non risponde, nda] «Quindi Professore, se ho capito bene, secondo i geek cospirazionisti, i matematici starebbero mettendo in pratica le invenzioni presenti nei romanzi di science fiction?» «Anche nei racconti.»
«E a che pro?» «Non so, immagino per la TOE.» «La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto?» «No quella è 42. Mi riferivo alla teoria del tutto [theory of everything, nda]: il sogno di produrre un sistema in grado di descrivere i fenomeni fisici facendo convivere...» «Meccanica quantistica e relatività generale?» «Esatto.» «Insomma Prof, chi può dire se il gatto nella scatola sia vivo o morto, giusto?» «Diciamo che siamo andati avanti rispetto a Schrödinger e agli esperimenti sulla desincronizzazione delle funzioni d’onda, più stimolanti senz’altro da un punto di vista narrativo che matematico.» «Lei crede che la letteratura potrà mai ideare un dispositivo che la matematica non sia in grado di descrivere?» «No, come non potrà mai esistere alcun postulato matematico che non possa essere espresso tramite il linguaggio…» Dannazione. «Tornando al modello ipotetico, la macchina consisterebbe in una regione toroidale vuota...» Non ho più la conclusione dell'intervista. «...immersa in una regione di materia vasta e sferoidale...» Colpo basso ricorrere a Wittgenstein. E io che volevo chiedergli con quali pubblicazioni i matematici avrebbero conquistato il mercato editoriale in attesa di conquistare il mondo. «...secondo Tipler e Hawking non è possibile immaginare nessuna macchina del tempo senza violare le Weak Energy Conditions, le quali stabiliscono che per ogni osservatore fisico la densità di energia è non-negativa...» Avevo già pronti titoli di libri di matematica divulgativa. Decine, centinaia di titoli. Peccato. «...a partire dalle condizioni iniziali su una regione vuota compatta S0...» “Aspettando Gödel” credo l’avrebbe apprezzato. «… ds2 = dx2 + dy2 -2dzdT + [f(x,y,z)-T] dz2…» “Attrito e Castigo” non so. «…considerando che f,xx + f,yy = 0…» “Protone e Proserpina” forse era troppo banale. «...Rizjz = -(1/2)f,ij...» Ma, alla fine, l’avrei salutato con “Higgs bosone crapulone”. «...pertanto ds2 = dx2 + dy2 -2dzdt…» Ho un'illuminazione: «Secondo lei l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra potrebbe essere una curva temporale chiusa? A livello di grandezza ci siamo, no?» E resto in attesa guardando lampeggiare il cursore della chat. Se dice di sì, ho ottimo materiale per i complottisti dell'abaco. Se dice no, pace. «Si rende conto che se rispondessi alimenterei supposizioni parascientifiche da cui potrei non liberarmi più?» Vai a vedere che il prof l'ha letto il Pendolo di Foucault. Se ci fosse, invece, qualcuno interessato a conoscere il funzionamento delle closed timelike curves per scoprire, una volta per tutte, se sia possibile tornare indietro e invecchiare meno del proprio gemello cattivo, se si possa uccidere un nonno ed esserne il nipote, se esista un universo parallelo in cui i genitori sono liceali vintage che non hanno mai ascoltato Chuck Berry o, magari, se avendo la possibilità di modificare il presente intervenendo sul passato, sareste portati a ripetere e-sat-ta-men-te le stesse azioni già compiute (compreso l’acquisto compulsivo di tutte le serie di Quantum Leap con Scott Bakula e Dean Stockwell ché magari le prime due pure pure ma le altre…), insomma, se ci fosse qualcuno interessato all’ennesimo esercizio mentale paradossale, ecco come realizzare una macchina del tempo funzionante: Prendete una regione toroidale vuota
Immergetela nella Via Lattea Accendete un buco nero su una galassia lontana lontana Avvitatela su se stessa Ora inserite la regione toroidale nel buco e attivate la fonte di energia Girate a velocità sostenuta in senso antiorario Smettete di girare e guardate l'orologio Se non siete ancora in ritardo per il lavoro complimenti. Siete tornati indietro nel tempo. Nella remota possibilità in cui abbiate seguito le istruzioni del fisico israeliano leggermente riadattate e non fosse accaduto nulla di scientificamente rilevante, sedetevi e assaporate la regione toroidale vuota che solo l’occhio inesperto del vostro coinquilino scambierà, all’inizio, per una comune ciambella. Proust iniziò a viaggiare nel tempo mangiando un plumcake francese e, quando tornò indietro, scrisse sette romanzi di getto, che valgono come uno solo. Paradossi dell'algebra letteraria. «E lei, Professore, se riuscisse a tornare indietro nel tempo?» «Non accetterei la sua intervista.» di Diego Altobelli 2010 [Revolutionine.com] L'autore intende citare le fonti che, più o meno esplicitamente, lo hanno influenzato durante le prime 42 stesure del raccontino oltre, ovviamente, alla trilogia di Ritorno al Futuro e Quantum Leap (tutte le serie, anche le ultime). Innanzi tutto Richard Alleyne (16/11/2010), The sci-fi inventions that maths predicts are possible [www.telegraph.co.uk], poi Michele Diodati (22/07/2005), Viaggiare nel tempo [pesanervi.diodati.org], Gregory Mone (11/02/2005), Nature's Own Time Machine [www.popsci.com] e, naturalmente, A new time-machine model with compact vacuum core (2005) del mitico Amos Ori, facilmente reperibile sul sito della Physical Review Letters [prl.aps.org] ma anche altrove [arxiv.org].. Raccontino rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5 Italy P.S.: Se ti è piaciuto questo racconto, leggi anche IL GIORNO IN CUI VIAGGIAMMO PIU' VELOCI DELLA LUCE (gli alieni parlarono in francese e ci dissero scemi) dallo stesso autore!
Lacci da scarpe e cravatte I matematici adorano i problemi presi dalla vita pratica che siano facili a formularsi. Spesso succede infatti che siano anche i più difficili a risolversi, e quindi i più interessanti. Per questa ragione può nascere un notevole entusiasmo per problemi apparentemente banali, come trovare il modo migliore di allacciarsi le scarpe! (tradotto, con il permesso dell'autore, da “Figuring It Out: Entertaining Encounters with Everyday Math” di Nuno Crato, Springer; 1st Edition. edition (October 8, 2010), 227 pagine (in Inglese); ISBN-10: 3642048323.) I matematici adorano i problemi presi dalla vita pratica che siano facili a formularsi. Spesso succede infatti che siano anche i più difficili a risolversi, e quindi i più interessanti. Per questa ragione può nascere un notevole entusiasmo per problemi apparentemente banali, come trovare il modo migliore di allacciarsi le scarpe! Gli schemi di allacciamento delle scarpe sono stati studiati per la prima volta dal matematico John Halton, che li vedeva come casi particolari del celebre problema del commesso viaggiatore, un problema matematico difficile e molto studiato ispirato da un'altra situazione reale: un commesso viaggiatore vuole passare attraverso un certo numero di città, visitando ognuna soltanto una volta, ma i suoi punti di arrivo e partenza sono fissati. Il cammino dei lacci delle scarpe è equivalente alla strada perscorsa dal commesso viaggiatore, con gli occhielli della scarpa al posto delle città. Il cammino più corto per i lacci è equivalente a determinare la strada più breve fra tutte le città. Questo problema è stato di nuovo considerata dal matematico australiano Burkard Polster in uno studio pubblicato nel 2002 su Nature, una delle principali riviste scientifiche del mondo. Polster ha studiato in modo sistematico i vari modi di allacciarsi le scarpe. Apparentemente, sembrerebbe ci siano solo uno o due modi di allacciarsele. Invece, persone di culture diverse tendono ad allacciarsi le scarpe in modi abbastanza diversi. Per limitarci a due soli esempi, pensate ai diversi metodi usati in USA e in Europa. Negli Stati Uniti, i lacci sono di solito allacciati facendo degli zigzag contrapposti, e visti dall'altro sembrano incrociarsi, mentre in Europa sono allacciati con degli zigzag alternati in tal modo che gli occhielli sembrino essere congiunti orizzontalmente dai lacci, se visti da sopra. C'è anche il metodo usato nei negozi di scarpe, in cui i lacci fanno uno zigzag continuo dalla cima al fondo e quindi risalgono in diagonale. Quale di questi metodi pensate sia il più efficiente? La prima cosa strana e che in realtà ci sarebbe un numero incredibile di modi di allacciarsi le scarpe. Per scarpe con due file di cinque occhielli ciascuna, per esempio, Polster trovò che ci sono 51.480 modi diversi di allacciarsele. Questo numero diventa dell'ordine dei milioni, se aumentano gli occhielli. Polster si limitò a considerare i modi di allacciarsi le scarpe che usano tutti gli occhielli e tali che, tirando i lacci, tutti gli occhielli si avvicinino. Per esempio, i lacci non possono passare per tre occhielli successivi dallo stesso lato, perché questo non permetterebbe di rispettare la condizione di avvicinamento sull'occhiello centrale dall'altra parte.
A questo punto, Polster introdusse dei criteri supplementari di efficienza, richiedendo che la sicurezza dell'allacciamento dovesse essere massimizzata, minimizzando però allo stesso tempo la tensione dei lacci. Confrontando i tre sistemi di allacciatura precedentemente descritti, Polster verificò che il più efficiente è il metodo americano, e il secondo miglior sistema dipende dal numero delle coppie di occhielli. Se ce ne sono quattro o più, il metodo Europeo è superiore a quello dei negozi di calzature, per tre coppie di occhielli sono uguali, e con una o due coppie di occhielli il problema è banale e tutti e tre i metodi coincidono. Se provate a verificarlo in pratica, vedrete che è molto semplice. Tuttavia, Polster non si limitò a studiare soltanto questi tre metodi. Tenendo conto dei vincoli che si era imposto, analizzò il problema completo e scoprì che il metodo più efficiente non è, alla fine, nessuno dei tre usati comunemente. Trovò invece un metodo meno conosciuto di allacciare le scarpe, chiamato “a cravattino” (bow-tie), che sembra essere il più efficiente di tutti. Considerando invece solo la massima sicurezza dell'allacciatura, non trovò nessun metodo strano. In questo caso, il metodo americano e quello dei negozi di calzature sono i migliori. Quando le file di occhielli sono lontane, il sistema dei negozi di calzature è il migliore. Quando sono vicine, è meglio il sistema americano. Polster fu probabilmente ispirato per questo lavoro matematico sui lacci delle scarpe da una ricerca altrattanto curiosa pubblicata alcuni anni prima dai fisici computazionali Thomas Fink e Yong Mao, che consideravano i vari modi di fare il nodo a una cravatta. Questa ricerca fu raccolta in un libro pubblicato da questi due autori nel 1999, intitolato “Gli 85 modi di fare il nodo alla cravatta: scienza ed estetica dei nodi della cravatta”. Il loro studio comincia con una breve storia delle cravatte e quindi passa ad esplorare la teoria matematica dei nodi. I due fisici cercarono di identificare ogni possibile tipo di nodo, limitandosi a quelli che si possono allacciare in meno di 10 mosse. Anche così, trovarono 85 modi diversi di allacciare una cravatta. Il più semplice richiede solo tre mosse. Partite mettendo la cravatta con la parte esterna verso la camicia, e il numero dispari di giri garantisce che finirete con la parte esterna verso l'esterno, come dovrebbe essere. Questo si chiama il “nodo orientale” ed è raramente usato con abiti occidentali. Dopo c'è un nodo in quattro mosse, che è quello usato dalla maggior parte delle persone. Le cose diventano un po' più complicate quando il numero di mosse aumenta. Uno dei nodi più impressionanti con otto mosse è il nodo alla Windsor, in realtà mai usato dal Duca eponimo, ma che è simile ai nodi voluminosi che questi era abituato ad indossare. Torna comodo quando si vuole ottenere un nodo di grande volume. Molti altri nodi sono descritti nel libro. Insomma, non importa che un nodo sia di moda o meno, ma potrete essere sempre certi che la matematica potrà descriverlo. Nuno Crato è professore ordinario presso l'Università Tecnica di Lisbona e ricercatore del Centro per la Matematica Applicata all'Economia. La sua ricerca è centrata sui modelli statistici e probabilistici con varie applicazioni, tra cui serie temporali in finanza, comportamento di algoritmi probabilistici e analisi statistica del DNA. Ha fatto parte del Direttivo della Società Matematica Portoghese per 10 anni a ne è stato Presidente dal 2004 al 2010. Fa anche parte del Comitato per la Divulgazione della Matematica dell'European Mathematical Society. I suoi lavori divulgativi in matematica sono stati tradotti e pubblicati in Italiano e in Inglese. Recentemente è stato nominato Amministratore delegato di Taguspark, il più grande parco scientifico e tecnologico del Portogallo.
Focus
FBI e wavelets‌ di Nuno Crato I matematici, i plasmi e la fusione nucleare‌ di Giacomo Dimarco
FBI e wavelets Il linguaggio della matematica può sembrare esoterico e puramente astratto, ma molte delle sue costruzioni finiscono per avere applicazioni sorprendenti. Uno dei più recenti e spettacolari successi della matematica ha avuto luogo nel trattamento dei segnali, e in particolare nel trattamento delle immagini. Questa nuova tecnica ha un nome un po' strano: analisi delle wavelets. di Nuno Crato Come sempre, questo nuovo strumento non è caduto dal cielo: le sue origini posso essere fatte risalire al lavoro del matematico francese Jean Baptiste Joseph Fourier (1768–1830), che creò una tecnica conosciuta come “analisi armonica”, o più comunemente, analidi si Fourier. Da giovane, Jean Baptiste studiò all'accademia militare di Auxerre, la sua città natale, dove stette, ricevendo un'educazione matematica. Più tardi entrò in seminario con l'idea di diventare monaco, ma proprio allora ci fu la Rivoluzione francese. Lentamente, cominciò a supportare il movimento rivoluzionario, e alla fine si dichiarò pronto a lottare per un governo libero, liberato dalla monarchia e dal clero. Nel trambusto della rivoluzione, fu però fatto prigioniero e per poco non fu condannato a morte. In seguito, cominciò a insegnare a Parigi e accompagnò Napoleone nella sua campagna d'Egitto, come componente del suo comitato scientifico. Tornato in Francia, fu nominato prefetto del dipartimento dell'Isère, lavorò all'Istituto di statistica, e fu eletto membro dell'Accademia delle Scienze di Parigi. Il più importante lavoro di Fourier, La Théorie Analytique de la Chaleur (La teoria analitica del calore) è una delle pietre miliari della scienza del XIX secolo. Fourier stupì i suoi contemporanei, affermando che ogni funzione poteva essere rappresentata come la somma di onde, ossia, dalla somma delle ben note funzioni trigonometriche seno e coseno, le onde sinusoidali. Sosteneva che era spesso più facile operare matematicamente con la somma di onde che con le funzioni originali, e che le somme di quel tipo erano equivalenti alle funzioni iniziali, se si addizionavano un numero sufficiente (eventualmente infinito) di elementi. Venne fuori che questa idea abbastanza strana, era capace di fare molte cose. I matematici sono arrivati a basarsi sull'analisi di Fourier per risolvere molti problemi che sarebbero stati impossibili con altri mezzi. Nel 1965, grazie al lavoro di James Cooley e John Tukey presso i Bell Laboratories nel New Jersey, l'idea di Fourier diventò un tecnica molto pratica. Cooley e Tukey crearono un nuovo algoritmo per calcolare le serie di Fourier, e lo chiamarono la Fast Fourier Transform o FFT (Trasformata di Fourier Rapida). Oggi la FFT si usa in moltissimi campi, dall'analisi dei segnali radio alle previsioni economiche allo studio clinico delle onde cerebrali. Il matematico Gilbert Strang del MIT, disse a questo proposito che “intere attività sono passate dalla lentezza alla velocità usando quest'unica idea, che è matematica pura” Più recentemente, negli anni '70 e '80, vari ingegneri e matematici cominciarono a cercare di risolvere certe limitazioni pratiche delle serie di Fourier. Per esempio, se volessimo codificare uno dei concerti di Bartok usando onde sinusoidali, avremmo bisogno di un numero enorme di tali onde,
perché il concerto ha dei cambiamenti bruschi, mentre le onde continuano fino all'infinito. Matematicamente, questo vuol dire che un numero gigantesco di coefficienti è richiesto per rappresentarlo correttamente. Ciò è molto poco pratico per gli scopi della registrazione digitale. La tecnica di Fourier è invece perfetta per registrare un momento specifico del concerto. Per ricreare il suono orignale dovete solo sintetizzare le varie frequenze, le diverse note, e riprodurre i timbri dei vari strumenti, che sono aggiunti a queste note. Ma, poiché le note fluiscono costantemente, usare le onde per registrare l'intero concerto non è proprio possibile in pratica. L'idea che ebbero alcune persone fu allora di creare delle mini-onde con un preciso inizio, parte media e fine, e usare queste mini-onde per analizzare il segnale originale. Yves Meyer, dell'École Polytechnique in Francia, e Ingrid Daubeschies, una matematica belga che all'epoca lavorava ai Bell Laboratories, hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo di questa idea. Un nuovo strumento matematico era nato. In Francia le nuove funzioni erano chiamate “ondelettes”, ondine, e in inglese e un po' ovunque sono ora conosciute come “wavelets”. Quando l'FBI chiese a un gruppo di matematici come era lavorare meglio all'enorme archivio di impronte digitali posseduto dall'agenzia federale, questi proposero le wavelets. L'FBI ha immagazzinato impronte digitali a partire dal 1924. Dal 1996 il loro archivio contiene 200 milioni di files, e continua a crescere al ritmo di quasi 50.000 nuovi files ogni giorno. Quando l'FBI cominciò a trasmettere elettronicamente delle immagini dell'archivio, osservarono che il sistema che usavano era molto lento, e che le immagini dovevano essere compresse per poter essere trasmesse in modo corretto. Il formato JPEG, il sistema di compression più usato comunemente su internet, producva un'immagine molto sgranata. Quando una forte compressione dell'immagine era necessaria, i dettagli sparivano e la transizione netta tra le linee veniva sfocata. Dopo un gran lavoro di trattamenti matematici e molti esperimenti con i consulenti matematici, l'FBI decise di passare al sistema basato sulle wavelets per comprimere le immagini. Crearono allora una nuova wavelet speciale adatta per riprodurre le impronte digitali, che rese possibile ottenere riduzioni importanti della dimensione dei files. Un altro successo della matematica. Tradotto, con il permesso dell'autore, da “Figuring It Out: Entertaining Encounters with Everyday Math” di Nuno Crato, Springer; 1st Edition. edition (October 8, 2010), 227 pagine (in Inglese); ISBN- 10: 3642048323. Nuno Crato è professore ordinario presso l'Università Tecnica di Lisbona e ricercatore del Centro per la Matematica Applicata all'Economia. La sua ricerca è centrata sui modelli statistici e probabilistici con varie applicazioni, tra cui serie temporali in finanza, comportamento di algoritmi probabilistici e analisi statistica del DNA. Ha fatto parte del Direttivo della Società Matematica Portoghese per 10 anni a ne è stato Presidente dal 2004 al 2010. Fa anche parte del Comitato per la Divulgazione della Matematica dell'European Mathematical Society. I suoi lavori divulgativi in matematica sono stati tradotti e pubblicati in Italiano e in Inglese. Recentemente è stato nominato Amministratore delegato di Taguspark, il più grande parco scientifico e tecnologico del Portogallo.
I matematici, i plasmi e la fusione nucleare Cosa c'entrano i matematici con la matematica non è difficile da immaginare, ma con i plasmi e con la fusione nucleare? di Giacomo Dimarco Ma poi cosa sono i plasmi? E la fusione nucleare? Cerchiamo di procedere con ordine e vediamo se riusciamo a trovare un collegamento fra questi mondi che in prima istanza potrebbero sembrare molto distanti fra loro ma che in effetti non lo sono per niente. La prima domanda alla quale cerchiamo di dare una risposta è: cos'è la fusione nucleare? La fusione è il processo che avviene nel Sole e nelle stelle, la luce che vediamo e il calore che percepiamo sono il risultato di questo fantastico processo naturale. La fusione è il processo nel quale due atomi di idrogeno si incontrano e si fondono in un atomo di elio. Durante la loro unione, i due atomi rilasciano un enorme quantitativo di energia che noi percepiamo come luce e calore. Purtroppo, la fusione avviene in maniera naturale solo quando la temperatura del gas raggiunge temperature fra le decine e le centinaia di milioni di gradi. Le altissime temperature che caratterizzano questi fenomeni fanno sì che gli elettroni si separino dai nuclei e diventino liberi di viaggiare all'interno del gas. Un gas che si viene a trovare in questo stato prende il nome di plasma. Quindi un plasma (risposta all'altra nostra domanda) è un gas ad altissima temperatura contenente particelle cariche: ioni positivi ed elettroni negativi. Grazie a queste sue caratteristiche le forze elettromagnetiche possono agire sul plasma per modificarne la forma e la direzione e quindi, in principio, è possibile guidare un plasma e costringerlo a piegarsi alle nostre esigenze. Un altro aspetto molto importante è che il plasma stesso produce dei campi elettromagnetici rendendo la dinamica complessiva delle particelle molto complessa e difficile da studiare. Talmente difficile che a questo punto non resta che far intervenire la matematica. La matematica è lo strumento che ci consente di descrivere e di rappresentare la realtà, di fare come si dice in linguaggio matematico un "modello" della realtà. Il lavoro del matematico consiste nel descrivere i plasmi attraverso dei sistemi di equazioni, chiamate alle derivate parziali, e, successivamente, dati dei valori iniziali (ovvero le caratteristiche del gas ionizzato all'inizio del nostro esperimento) cercare di capire come il plasma evolve nel tempo. Perché facciamo questo? Perché è ormai qualche decina di anni che l'uomo cerca di riprodurre la fusione nucleare, che avviene nelle stelle, sulla Terra con lo scopo di produrre energia. E come cerca di farlo? Una delle idee più studiate dai fisici, matematici e ingegneri di tutto il mondo è attraverso dei dispositivi chiamati Tokamak (essenzialmente dei tori). All'interno di queste macchine si cerca di confinare il plasma attraverso dei campi elettromagnetici per evitare che lambisca le pareti che in tal caso si fonderebbero immediatamente a causa della temperatura del gas alla quale nessun materiale esistente potrebbe resistere. Il motivo per cui la matematica è fondamentale in questi studi è che grazie alla sua capacità di riprodurre la realtà ci consente di immaginare e riprodurre il funzionamento di tali dispositivi sui computer (o supercomputer) e di essere di supporto nella progettazione per gli ingegneri e di
comprensione della molteplicità dei fenomeni veramente complessi che avvengono all'interno di un plasma per i fisici. Le sfide sono ancora tantissime e molti problemi non sono ancora stati risolti, la ricerca matematica fa passi avanti ma ancora non siamo in grado di simulare perfettamente questi fenomeni, ma nulla ci viete di sperare un giorno di avere una piccola parte di Sole anche sulla Terra e, se sarà cosi, sarà grazie anche alla matematica. Per chi fosse interessato in Europa è attualmente in costruzione nei pressi di Marsiglia (Francia), uno di questi dispositivi chiamato ITER (www.iter.org), a questo progetto collaborano fra gli altri numerosi istituti di matematica delle Università di tutto il mondo. Giacomo Dimarco è Professore di Matematica Applicata all’Università Paul Sabatier, Tolosa III (Francia).
L’alfabeto della matematica
A come approssimazione… di Corrado Mascia L come limite… di Corrado Mascia
A come APPROSSIMAZIONE Un’idea comune e’ che la matematica sia la scienza esatta per eccellenza. Molto spesso, invece, in matematica capita di lavorare con quantita’ non esattamente determinate e il problema principale e’ di controllare l’errore che si commette. di Corrado Mascia La tipica situazione di questo genere e’ quella in cui si ha un problema che non si sa risolvere e di cui, per forza di cosa, si cerca una soluzione approssimata. Ovvero, non si conosce la soluzione, ma si sa determinarne una versione ragionevolmente simile, indicando (in maniera precisa!) il senso in cui essa somigli alla soluzione che sto cercando. Un esempio semplice per comprendere questo concetto e ottimo prototipo di partenza e’ il calcolo di un’area. Supponiamo di essere tutti d’accordo sul fatto che l’area di un rettangolo e’ data dalla formula ”base per altezza”. Come calcolare aree di regioni che non siano rettangoli? Senza speranza! (o quasi...). Un primo approccio possibile e’ quello di determinare delle approssimazioni dell’area richiesta. Ad esempio, l’area della regione sara’ certamente maggiore dell’area di un rettangolo in essa contenuto. E l’area del rettangolo e’ nota! Quindi abbiamo già fatto una stima per difetto dell’area richiesta. Quanto questo numero si discosta da quello che realmente cerchiamo? Solo con questo dato, non possiamo dire nulla. Con un minimo di fantasia in piu’, però, possiamo immaginare di ”inscatolare” la regione in un rettangolo che la contenga. Ecco una stima per eccesso: l’area della regione (incognita) e’ minore dell’area del rettangolo che la contiene (noto). Con la stima dall’alto e dal basso possiamo così anche controllare l’errore di approssimazione, che e’ minore o uguale alla differenza delle aree dei due rettangoli (quello contenente e quello contenuto). Abbiamo in questo modo un valore approssimato dell’area e abbiamo una stima dell’errore commesso. Puo’ capitare però che l’errore che commettiamo sia pero’ troppo grossolano, e ci serva una stima piu’ precisa. Come fare? Nel caso dell’area ci sono due ragionamenti possibili. Il primo e’ di ingrandire il rettangolo contenuto e rimpicciolire il rettangolo contenente. Strategia efficace, ma ci si rende rapidamente conto del fatto che non si riesce ad andare troppo in la’. Il secondo modo e’ piu’ intelligente: se conosciamo l’area di un rettangolo, conosciamo anche l’area di una regione composta da due, tre, quattro, una famiglia di rettangoli! Quindi possiamo migliorare l’approssimazione aggiungendo al precedente rettangolo contenuto un altro rettangolo. E cosi’ via. Nell’approssimazione per eccesso, occorrera’, evidentemente, togliere rettangoli. In questo modo siamo in grado di ottenere regioni approssimanti che si avvicinino sempre piu’ alla regione richiesta determinando un’approssimazione dell’area. L’errore commesso e’ sempre controllato dalla differenza delle aree delle regioni approssimanti, quindi migliora ad ogni passo. Il numero di situazioni in cui i procedimenti di approssimazione entrano in gioco e’ elevatissimo. Impossibile farne un elenco. Un ambito in cui la cosa e’ particolarmente importante e’ quello dell’analisi numerica che, grosso modo, si interessa dell’approssimazioni di modelli applicati, tradotti in equazioni matematiche, tramite calcolatore. Ad esempio, esiste un modello ragionevolmente affidabile di propagazione di impulsi nervosi nei nostri neuroni (dovuto, in primis, ad Hodgkin ed Huxley). Il modello ha una sua traduzione matematica chiara, di cui non e’ affatto evidente trovarne una soluzione esplicita.
Come fare? Avvalersi del computer e’ un’ottima strategia... bisogna allora approssimare il modello con una versione che sia comprensibile al calcolatore. Una volta trovata la soluzione numerica approssimata e’ fondamentale stabilirne l’errore. E’ come pensare che il computer sappia calcolare solo aree di rettangoli e lo si voglia utilizzare per determinare approssimazioni di aree di regioni qualsiasi. In definitiva, che vuol dire approssimare? Avvicinarsi... Ma il concetto di vicinanza e’ relativo. Quindi, a seconda di criteri di vicinanza diversi (ovvero maniere diverse di calcolare l’errore commesso), ci possono essere strade di approssimazione diverse. E’ un po’ quello che accade nell’arte: chi puo’ dire che un quadro di Picasso o di Boccioni rappresenti meno la realta’ di una fotografia? Strade diverse, tecniche diverse, possono inquadrare aspetti diversi della realta’ che ci circonda. Corrado Mascia è professore associato in Analisi Matematica all’Università di Roma “Sapienza”. E’ docente dei corsi “Equazioni differenziali” e “Modelli analitici per le Applicazioni”.
L come Limite Qual è la velocità di quella macchina? Sì ma dico, non la velocità media - la velocità in questo preciso istante. Può dircelo solo un'operazione di "limite" di Corrado Mascia “Tutto scorre” sosteneva qualcuno una manciata di secoli fa. Così, per descrivere il mondo in cui siamo immersi, occorre tenere conto di quantità variabili nel tempo e nello spazio. E in questo movimento, di frequente, si vorrebbe possedere un linguaggio in grado di descrivere le variazioni anche in regimi, in cui, apparentemente, non ha senso. Un esempio: a che velocità corre quella macchina che sfreccia lungo la A1, partita da Roma e diretta verso Milano? Difficile a dirsi. La distanza da Roma a Milano è di circa 600 chilometri. Se la vettura impiegherà 6 ore per completare il percorso la sua velocità media sarà stata di 100 chilometri l'ora. Si tratta di una media, per l'appunto. E ora? Sembra ragionevole considerare su un intervallo di tempo più breve. Da Orte ad Arezzo sono circa 130 chilometri e il nostro amico ha impiegato circa un'ora e un quarto, quindi la media è stata di quasi 105 chilometri all'ora. Ma ora? Ora che ha appena superato il casello di Arezzo? Qual è la sua velocità? Si possono considerare intervalli di tempo (o di distanza) più brevi, ottenendo valori sempre più vicini a quello cercato, dividendo le distanze per i tempi corrispondenti. Ma alla velocità di questo istante non si arriverà mai, perché questo singolo attimo dura zero secondi e dividere per zero, per un capriccio dei numeri con cui lavoriamo, non ha senso. La situazione è peculiare: possiamo calcolare medie su intervalli di tempo sempre più piccoli, ma non di durata nulla. Possiamo arrivare molto vicini a quello che andiamo cercando, ma raggiungerlo... mai! C'è un unico piccolo e minuto punto di baratro, lo zero, che ci impedisce di determinare precisamente la velocità istantanea. Nella prassi quotidiana, non si tratta di un problema terribilmente grave. La velocità media in un intervallo di tempo sufficientemente breve - un secondo, ad esempio - può ragionevolmente essere considerata la velocità di un istante. Ma per il rigore della matematica questo palliativo non è soddisfacente, perché il concetto di ``breve'' è soggettivo e il criterio valido nel problema di oggi, potrebbe non esserlo per il problema di domani. Cercando una soluzione universale, buona per tutti i gusti e per tutti i problemi, si sviluppa un linguaggio che permette di arrivare fino a zero e arrivarci con tutti i crismi del rigore logico. Si parla allora di ``passaggio al limite'' che sta, grosso modo, ad indicare l'entrata in un mondo diverso, più raffinato di quelle delle semplici operazioni elementari; un mondo in cui, a volte, dividere per zero è possibile. Corrado Mascia è professore associato in Analisi Matematica all’Università di Roma “Sapienza”. E’ docente dei corsi “Equazioni differenziali” e “Modelli analitici per le Applicazioni”.
Il test di Proust (math reloaded) Alla fine del XIX secolo, l'adolescente Marcel Proust scopre in un libro in inglese della sua amica Antoinette Faure, figlia del futuro presidente della Repubblica francese Felix Faure, il test passato alla storia come “questionario di Proustâ€?. All'epoca, questo tipo di giochi era molto in voga nelle grandi famiglie francesi: esso consisteva in una serie di domande sui gusti e sulle aspirazioni di chi vi si sottoponeva. Abbiamo modificato le domande del test 'in senso matematico', e ogni mese un matematico risponderĂ ai quesiti di questo 'Test di Proust - math reloaded'.
Elisabetta Strickland Maria Esteban Nicola Bellomo
Elisabetta Strickland Questo mese risponde al nostro Test di Proust Elisabetta Strickland. Professore ordinario di algebra presso l'università degli studi di Roma "Tor Vergata", nel 2007 è stata la prima donna ad essere nominata vice presidente dell'Istituto nazionale di alta matematica e organizza attività come responsabile dell'Osservatorio Interuniversitario sugli Studi di Genere (di cui è socia fondatrice). Ha anche pubblicato raccolte di racconti sulla matematica, come "I numeri nel cuore" (con Ciro Ciliberto e Fausto Saleri), edito da Springer, Milano, nel 2007.
1) Il tratto principale del mio essere matematico. La forma mentis. Ogni cosa della mia vita viene analizzata come una questione di matematica da risolvere. 2) La qualità che desidero in un matematico. L’eleganza. I risultati ottenuti devono essere eleganti, oltre che ovviamente rigorosi, importanti, interessanti, intriganti. 3) La qualità che preferisco nella matematica La sua onnipresenza: permea la realtà, è ovunque, splendidamente ineluttabile. 4) Quel che apprezzo di più nei miei colleghi matematici. L’intelligenza. La matematica è una grande palestra per la mente, se c’è materia prima, si acquisisce una abilità interpretativa che arricchisce molto. 5) Il mio principale difetto come matematico. La pragmaticità quasi ottusa. Tendo ad andare dritto al risultato senza tanti fronzoli, magari mi perdo qualcosa… 6) La mia lettura matematica preferita. “Classical Groups” di Hermann Weyl. 7) Il mio sogno come matematico. Poichè attualmente mi occupo di questioni legate all’INdAM, Istituto Nazionale di Alta Matematica, vorrei riuscire a dare alla comunità matematica italiana una sede adeguata per questo storico Ente, fondato da Francesco Severi. 8) Qual’è la principale debolezza della matematica. Tende a far vivere fuori dalla realtà, se non si è forti può modificare molto il rapporto con ciò che ci circonda. 9) Il matematico che vorrei essere. Uno di quei matematici che si diverte da matti a fare la matematica, praticamente non fa altro, riempie di calcoli qualunque superficie sgombra. Io sono più normale, faccio orario d’ufficio! 10) Il paese dove vorrei vivere.
Quello in cui vivo, l’Italia. E’ il paese più bello del mondo, non posso vivere senza la bellezza. Peccato che la situazione attuale del paese mi faccia soffrire molto. 11) L’esercizio matematico che preferisco. Individuare proprietà matematiche di una struttura astratta andandole a cercare in una più concreta in cui la prima possa essere rappresentata. 12) Il Teorema che amo. Il Teorema di Chauchy per i gruppi finiti, che dice che ogni gruppo finito ha un elemento di periodo un primo che divida l’ordine del gruppo. Dice una cosa semplice e la dimostrazione usa una idea elegante. 13) L’applicazione della matematica che preferisco. Nella teoria delle superstringhe in fisica si possono usare le rappresentazioni dei gruppi per studiare le simmetrie delle particelle. 14) I matematici che mi hanno indirizzato. David Kazhdan, George Lusztig, Victor Kac, Robert MacPherson, David Buchsbaum, Corrado De Concini. 15) I matematici che mi hanno dissuaso. Nessuno. 16) Il nome della variabile che preferisco. Se avessi un euro per ogni volta che ho scritto la elegantissima “x” sarei davvero ricca. 17) Il tipo di calcolo che preferisco. Vedere come funziona uno spazio guardando a come agiscono delle matrici: si fanno scoperte bellissime. 18) Il tipo di calcolo che utilizzo di più. Il calcolo algebrico. 19) Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente. Nessuno in particolare. Quando sono complicati, la soddisfazione è maggiore, quindi va sempre bene. 20) I nomi che preferisco. Esempio. Controesempio. Devo sempre vedere concretamente qualunque cosa, finchè non viene prodotto un esempio o un controesempio non sto tranquilla. 21) Quel che detesto più di tutto. Scoprire sul web che qualcuno ha avuto un’idea simile ad una mia e l’ha fatta funzionare in modo molto più elegante e prima di me. 22) I matematici che disprezzo di più. Quelli che non fanno capire nulla di quello che fanno. 23) L’impresa scientifica che ammiro di più. Aver mandato in orbita una stazione spaziale internazionale usando il know-how di molte nazioni.
24) La riforma culturale che apprezzo di più. Aver ammesso le donne all’università. 25) Il dono di natura che vorrei avere. La vista che avevo a vent’anni, cioè tale da poter evitare l’uso degli occhiali. 26) Da matematico, come vorrei essere ricordato. Come una che qualche buon teorema l’ha dimostrato. 27) Stato attuale dei miei studi. Molto confuso, mi interessano aree sempre più lontane da quella di provenienza, ma è bellissimo così. 28) Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza. Gli errori di distrazione. E’ difficile non farne mai. 29) Il mio motto. Vivere è creare, ma non è mio, è del filosofo Bergson.
Luoghi comuni, curiosità et alia. 1.Perchè la matematica dovrebbe descrivere l’universo? Penso semplicemente che avesse ragione Wigner, premio Nobel in fisica nel 1963, quando sottolineò “l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali”. Egli scoprì che nella teoria delle particelle giocavano principi fondamentali di simmetria. 1b. Lei ha descritto l’universo? E cosa in particolare? Mi sono occupata di teoria delle rappresentazioni in modo molto astratto, quindi no. 2.Perchè la ricerca matematica è uomo? E’ falso. Sono esistite donne matematiche di grande talento, come Ipazia, Emilie de Breteuil, Sophie Germaine, Maria Gaetana Agnesi, Mary Fairfax Somerville, Sonya Kovalevskaya, Emmy Noether. 2.b Dove sono finite le donne? Non sono finite da nessuna parte. Esistono attualmente matematiche di fama internazionale, come Claire Voisin, Michele Vergne, Dusa McDuff, Karen Uhlembech, tanto per citarne qualcuna. La neo eletta Presidente della European Mathematical Society è una donna, Marta Sanz-Solè, e anche la neo eletta Presidente della International Mathematical Union è una donna, Ingrid Daubechies. 3.La matematica applicata cresce alla stessa velocità dei software matematici? Sono un’algebrista, non sono documentata sui software matematici a sufficienza da poter rispondere. 3b. Quale funzione potrebbe modellizzare la crescita del settore della matematica di cui si occupa? Un polinomio di grado molto elevato.
4. Quanto conta lo studio nella risoluzione di grosse questioni matematiche? Moltissimo. 5. Quanto conta il formalismo? Spesso il formalismo è la matematica. 6. Matematica e grammatica sono legate? Sì, strettamente. 6b. Lei parla “matematica” correttamente? Nessuno mi ha mai fatto notare il contrario. 7. Quanto bisogna essere portati per riuscire in matematica? Molto! 8. Per fare cosa bisogna avere meno di trent’anni? Nulla! “Nihil difficile volenti”. 8b. Lei è portato? E da quando? A conti fatti, direi di sì. Ho avuto fortuna, a scuola ho avuto insegnanti eccezionali, mi hanno fatto divertire con la matematica fin dalle scuole elementari. Se non avessi trovato divertente la matematica, avrei fatto qualcos’altro.
Nicola Bellomo Questo mese si cimenta con il test di Proust il Presidente della SIMAI (Società Italiana Matematica Applicata e Industriale) Nicola Bellomo, che è professore di Fisica Matematica e Matematica Applicata alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino.
1) Il tratto principale del mio essere matematico: Filosofia-modelli matematici-problemi-teoremi 2) La qualità che desidero in un matematico: Ricerca di problemi e metodi nuovi e innovativi 3) La qualità che preferisco nella matematica: La capacita’ di formalizzare anche i pensieri 4) Quel che apprezzo di più nei miei colleghi matematici: Che domanda imbarazzante! 5) Il mio principale difetto come matematico: Voler seguire troppo il mio istinto 6) La mia lettura matematica preferita: La critica della Ragion Pura di Kant 7) Il mio sogno come matematico: Inventare una matematica dei sistemi viventi 8) Qual è la principale debolezza della matematica: Chiudersi nella ricerca della perfezione nelle ripetizioni 9) Il matematico che vorrei essere: Lo so che non e’ una gran trovata, ma vorrei essere me stesso 10) Il paese dove vorrei vivere: Un’Italia migliore: quella che sognavo da giovane 11) L’esercizio matematico che preferisco: Da piccolo ero affascinato dalla prova del nove 12) Il teorema che amo: Il Teorema di Pitagora 13) L’applicazione della matematica che preferisco:
Non esiste una applicazione della matematica esistono le applicazioni della matematica 14) I matematici che mi hanno indirizzato: Kant, Lee Segel e una persona a me molto vicina (non sono sicuro sia una matematica) 15) I matematici che mi hanno dissuaso: Non capisco la domanda 16) Il nome della variabile che preferisco: Nel determinismo la u, nei giochi stocastici la B calligrafica, nelle distribuzioni di probabilita’ la f. 17) Il tipo di calcolo che preferisco: La prova del nove 18) Il tipo di calcolo che utilizzo di più: Equazioni di conservazione 19) Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente: Tutti 20) I nomi che preferisco (teorema, corollario, lemma…): A ciascuno il suo ruolo senza preferenze, ma i Lemmi sono generalmente i piu’ difficili 21) Quel che detesto più di tutto: La ripetitivita’ 22) I matematici che disprezzo di più: Meglio che mi sto zitto, comunque quelli che si occupano sempre dello stesso problema 23) L’impresa scientifica che ammiro di più: Il DNA 24) La riforma culturale che apprezzo di più: Quella che in Italia non c’e mai stata 25) Il dono di natura che vorrei avere: Riuscire a unire le intuizioni che avevo da piccolo con la professionalita’ acquisita da vecchio 26) Da matematico, come vorrei essere ricordato: Vorrei essere ricordato come quello che giocava bene al calcio ala destra o sinistra 27) Stato attuale dei miei studi: Una buona premessa per i prossimi anni 28) Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza: Gli errori fatti alla ricerca di nuove frontiere 29) Il mio motto: Non ho un motto ma una certa costanza nel perseguire obiettivi Luoghi Comuni curiosità et alia Perché la matematica dovrebbe descrivere l’universo?
La matematica puo’ formalizzare tante cose dall’universo grande a quello piccolissimo Lei ha descritto l’universo?, e cosa in particolare? A me interessa la materia vivente Perché la ricerca matematica è uomo? Non sono certo che questa affermazione (o domanda) sia corretta Dove sono finite le donne? Le donne sono ovunque La matematica applicata cresce alla stessa velocità dei software matematici? Molto piu’ velocemente pero’ molti matematici non se ne accorgono Quale funzione potrebbe modellizzare la crescita del settore della matematica di cui si occupa? I processi dinamici non sono descritti da funzioni, ma al piu’ da equazioni (modelli) Quanto conta lo studio nella risoluzione di grosse questioni matematiche? Senza intuizione non si va lontani Quanto conta il formalismo? Senza formalismo si rimane fermi Matematica e grammatica sono legate? Certo Lei parla “matematica” correttamente? Chi lo sa? Gli studenti dei miei corsi pensano di si Quanto bisogna essere portati per riuscire in matematica?, per fare cosa bisogna avere meno di trenta anni? Bisognerebbe non essere disincentivati da piccoli quando i cattivi maestri fanno odiare la matematica. Per giocare bene al calcio. Lei è portato?, e da quando? Si via dal vento. Da sempre.
Maria J. Esteban Nata nei paesi baschi nel 1956, Maria J. Esteban ha studiato matematica all'Università di Bilbao per poi andare a Parigi per la Tesi di dottorato, compiuta sotto la direzione di P.L. Lions. Ha lavorato per molti anni come ricercatrice al CNRS, prima a Paris VI e quindi a Paris-Dauphine. Ha fatto parte del comitato della European Mathematical Society per la matematica applicata. Attualmente è Presidente della SMAI, la Société des Mathématiques Appliquées et Industrielles.
1. La mia virtù preferita in matematica La curiosità e l'intuizione 2. Il tratto principale del mio essere matematico L'eccitazione nervosa che precede l'arrivo di una buona idea. 3. La qualità che desidero in un matematico Avere una buona cultura scientifica 4. La qualità che preferisco nella matematica Il rigore 5. Il mio principale difetto come matematico Una logica implacabile che si trasmette nella vita di tutti i giorni, che non è sempre perfetto. 6. La mia lettura matematica preferita I libri che descrivono bene e con chiarezza una serie di tecniche e di problemi, mettendo le cose in prospettiva, come chi raccontasse una storia. 7. Il mio sogno come matematico Aiutare a risolvere problemi « utili ». 8. Qual è la principale debolezza della matematica La matematica attuale è spesso troppo lontana dalla realtà; Mi piace quando serve a risolvere problemi concreti. 9. Il matematico che vorrei essere Aperta su altri domini e discipline, scientificamente colta. 10. Il paese dove vorrei vivere La Francia mi va bene. 11. L’esercizio matematico che preferisco Tutti e nessuno in particolare. 12. Il teorema che amo Il teorema di Lebesgue della convergenza dominata
13. L’applicazione della matematica che preferisco Quella che serve a a capire meglio un fenomeno naturale. 14. I matematici che mi hanno indirizzato Il mio direttore di Tesi di dottorato, alcuni dei miei professori all'Università equalcuno dei miei collaboratori. 15. I matematici che mi hanno dissuaso Quelli che difendono troppo la loro parrocchia, quelli che sono troppo competitivi. 16. Il nome della variabile che preferisco X 17. Il tipo di calcolo che preferisco. Mi diverto molto a fare dei calcoli numerici, è come un gioco e spesso sono stata ispirata da loro nella ricerca di un risultato teorico. 18. Il tipo di calcolo che utilizzo di più È molto variabile. 19. Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente Quando si semplificano lunghe formule complesse. 20. I nomi che preferisco (teorema, corollario, lemma…) Lemmi e proposizioni. 21. Quel che detesto più di tutto La pedanteria. 22. I matematici che disprezzo di più Quelli che si prendono per quello che non sono. 23. L’impresa scientifica che ammiro di più La buona ricerca medica. 24. La riforma culturale che apprezzo di più Quella che cercasse di insegnare a leggee e a scrivere al 100% della popolazione mondiale. 25. Il dono di natura che vorrei avere Più forza e resistenza quando vado in montagna. 26. Da matematico, come vorrei essere ricordato Come una persona che ha aiutato gli altri a progredire e che ha avuto qualche buona idea. 27. Stato attuale delle mie ricerche Ci lavoro quando ho tempo, ma sono in questo momento troppo presa dai problemi di gestione della ricerca, È anche interessante, ma a volte mi piacerebbe avere qualcuna di quelle lunghe giornate di seguito per poter riflettere su di un problema difficile. A volte le idee che mi passano per la testa devono aspettare un bel po' di giorni prima che abbia il tempo di vedere se funzionano veramente ! 28. Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza Avrei quasi preferito rispondere alla domanda opposta, perché penso di essere in generale abbastanza indulgente.
29. Il mio motto: Mai lasciarsi scoraggiare. b. Luoghi comuni, curiosità et alia 1. Perché la matematica dovrebbe descrivere l’universo? Perché sono il linguaggio con cui sono scritte le equazioni della fisica. 1.b. Lei ha descritto l’universo?, e cosa in particolare? Ho cercato di studiare delle equazioni che possono servire a studiare la struttura della materia, ma in un modo ancora molto lontano dalle vere applicazioni. 2. Perché la ricerca matematica è maschile ? Chi dice che la ricerca matematica sia maschile ? Non sono d'accordo, non ha sesso, e se succede che ci siano più ricercatori uomini che donne, è per delle ragioni sociologiche e legate all'educazione. 2b. Dove si nascondono le donne? Non si nascondono mica ! Io non mi nascondo di certo, e le mie amiche matematiche nemmeno ! 3.La matematica applicata cresce alla stessa velocità dei software matematici? Penso proprio di sì, si cresce rapidamente nella modellistica, nella ricerca di nuovi metodi per risolvere problemi applicati, e spesso gli algoritmi si sviluppano anche in vista di un problema applicato concreto. 3b. Quale funzione potrebbe modellizzare la crescita del settore della matematica di cui si occupa? Proprio nessuna ! Se ci fosse una sola funzione che potesse descrivere un settore della matematica vorrebbe dire che le nostre teorie sono troppo semplici. 4. Quanto conta lo studio nella risoluzione di grosse questioni matematiche? Le idee vengono in generale solo dopo aver lavorato, riflettuto, provato diversi approcci... Senza lavorare, difficile trovare. 5. Quanto conta il formalismo? Il formalismo è importante per scrivere i risultati, ma spesso non per trovarli. È la mia esperienza, ma potrebbe essere diverso i altri domini. 6. Matematica e grammatica sono legate? Evidentemente ! Perché entrambe sono legate al linguaggio, parlato e scritto. 6b. Lei parla “matematico” correttamente? Penso di si, in generale, anche se nelle discussioni informali e in quelle in cui si discute con dei colleghi su problemi da risolvere, siamo spesso approssimativi. 7. Quanto bisogna essere portati per riuscire in matematica? Per fare cosa bisogna avere meno di trenta anni? Se non si è dotati, non si riesce a risolvere problemi interessanti, e diventa difficile riuscire. Ma non per niente d'accordo che bisogna avere meno di trent'anni per riuscire a fare della buona matematica. Ci sono un sacco di contro-esempi. 7b. Lei è portata? e da quando?
In matematica ? Penso di essere dotata per certe cose non per altre. Sono brava per l'intuizione, per ÂŤ vedere delle strade da seguire quando cerco di dimostrare un risultato. Ho dell'immaginazione. Da quando ? Non so, credo da sempre
Di tutto un po'
L'aritmetica del rischio‌ di Roberto Natalini Una tavola periodica delle forme racconta gli universi immaginari... di Alessio Corti
L'aritmetica del rischio Qual è l'effettiva probabilità di avere un disastro nucleare in Italia nei prossimi 25 anni? Per scoprirlo, proviamo a giocare un ambo... di Roberto Natalini L'argomento principale usato dai fautori del nucleare è il seguente: non abbiamo scelta. La nostra società ha bisogno di energia. Quella prodotta da combustibili fossili non è abbastanza e quella prodotta da energie alternative non è ancora disponibile (e secondo loro non può superare una frazione piccola del fabbisogno totale). Quindi: bisogna investire nel nucleare, le nuove centrali sono a rischio zero e il costo dell'energia nucleare è inferiore alle altre. Lo so, sembra facile non essere d'accordo ORA. Ma parlarne dopo la tragedia giapponese non vuol dire speculare sul dolore o essere offuscati dall'emozione. Intanto perché non ci sarebbe nulla di male ad essere almeno turbati, come testimoniano su Internet le testate giornalistiche di paesi storicamente pro-nucleari come USA, Francia (sic!) o Gran Bretagna (senza parlare dei ripensamenti di Svizzera e Germania). E poi, perché solo dall'esperienza nasce la possibilità di capire di cosa si sta parlando, e stimare veramente i costi e i rischi delle nostre scelte. Per prima cosa: cosa vuol dire che le centrali di tipo nuovo sono a rischio zero? Ovviamente non vuol dire che i rischi non esistono, ma che si ritengono quantificati al di sotto di altri eventi improbabili con i quali conviviamo tranquillamente. Per esempio si potrebbe osservare che il fatto che ci siano ogni anno circa 4.000 morti in incidenti d'auto in Italia, ossia ogni anno ogni guidatore ha una probabilità su 10.000 di morire, non scoraggia la gente a usare l'automobile. Forse perché ci sembra di avere più controllo su quello che ci può capitare. Ma cosa vuol dire sicurezza nel caso di centrali nucleari? Secondo me dovrebbe voler dire che ogni passaggio della catena ha una bassa percentuale di rischio, tale che il rischio totale di incidente nel periodo di vita della centrale (stimato intorno ai 30 anni), sia tollerabile. In ambito legale si definisce rischio tollerabile quello a fronte del quale, chi mette in atto l'operazione a rischio, può sostenerne gli oneri di riparazione e risarcitori per eventuali danni a cose e soprattutto persone. Ora, i costi di un incidente nucleare possono essere molto pesanti e difficilmente sono realmente sostenuti da chi fa le scelte. Vediamo allora le stime di rischio. Una commissione di ricerca del MIT ha stimato nel 2003, utilizzando stime probabilistiche, che il rischio di incidente al nocciolo dei reattori nucleari è di 1/10000 per reattore e per anno negli Stati Uniti. Per i reattori di tipo nuovo un'altra ricerca ha diminuito questa probabilità di un fattore 10, ossia 1/100000. Personalmente, non vedo su quali esperienze si possa basare una stima di questo genere. Abbiamo l'energia nucleare da pochi decenni. Abbiamo avuto 3 incidenti “seri”, altri 16 importanti e un'ottantina di incidenti minori, e anche nel super-tecnologico Giappone ci sono stati vari allarmi in precedenza. Ci sono circa 400 centrali nel mondo, e questo vorrebbe dire, assumendo la stima di 1/100000 all'anno, 1/250 di probabilità ogni anno di avere almeno un incidente grave nel mondo, ossia su 25 anni circa 1/10(*). Se fosse vera la stima del MIT, saremmo stati abbastanza sfortunati. Sì è vero, abbiamo imparato da questi incidenti, ma il disastro giapponese ci ha fatto vedere come in realtà non sappiamo stimare per nulla la frequenza degli eventi. Cosa vuol dire che un materiale resiste a un terremoto del grado 8 della scala Richter? Nessun materiale può dare garanzie di questo genere. Sarebbe come calcolare la probabilità di un attacco terroristico con aerei lanciati su un grattacielo prima dell'11 settembre. Insomma, per stimare il rischio, sembra che abbiamo ben poche informazioni. Inoltre non è ancora ben conosciuto l'effetto a lungo termine delle radiazioni sui materiali di protezione, cemento e acciaio, che circondano il reattore.
Parliamo dei costi. Quando se ne parla, sarebbe bene parlare di TUTTI i costi. Montaggio, smontaggio, sicurezza della centrale e soprattutto smaltimento dei rifiuti. Secondo una ricerca americana, di cui si è parlato sul New York Times, l'estate scorsa il prezzo dell'energia fotovoltaica sul mercato americano è diventato inferiore a quello dell'energia prodotta negli impianti nucleari di nuova generazione. E non richiederebbe i massicci investimenti che richiede il nucleare, e che spesso rischiano di non essere assorbiti nemmeno nel lungo periodo. In Inghilterra per esempio, un'altra ricerca ha messo in evidenza che se i costi del trattamento completo dei rifiuti nucleari fossero messi in conto, la redditività economica delle centrali sarebbe messa seriamente a rischio. E ancora non capisco bene di cosa stiano parlando. I rifiuti nucleari saranno pericolosi per migliaia, se non per milioni di anni. Come si calcola il costo della loro manutenzione? Come si fa a dire che i costi totali del trattamento dei rifiuti e dello smantellamento della centrale sono coperti, come dichiarato qui, proprio non riesco a capirlo. Chi ha mai fatto materiali destinati a durare millenni? E chi può garantire sulla sorveglianza di siti che, lasciati a se stessi, potrebbero contaminare e distruggere tutto il nostro territorio? Che questi siti siano a rischio è cosa nota, tanto che Obama ha deciso di bloccare l'uso dei depositi del Monte Yucca. Tuttavia, l'EPA, l'ente per l'ambiente americano, non ha esitato a prodursi a questo proposito in affermazioni abbastanza assurde, come “L'EPA ha pubblicato nel Registro Federale il nuovo regolamento nel 2009. Il nuovo regolamento limita le dosi di radiazioni nel Monte Yucca per un milioni di anni dopo la loro chiusura. Per i primi 10.000 anni, l'EPA applicherà la dose prescritta dal regolamento 2001 di 15 millirem per anno. Da 10.000 a un milione di anni, l'EPA fissa una dose limite di 100 millirem per anno. Il regolamento dell'EPA richiede che il Dipartimento per l'energia dimostri che il Monte Yucca può contenere in modo sicuro i rifiuti, considerando gli effetti di terremoti, attività vulcanica, cambiamenti climatici e corrosione per un milione di anni” (Fonte EPA). Leggere che un Ente costituito da esseri umani possa decidere di fissare delle regole per tempi superiori a quelli dell'intera civiltà umana, e addirittura comparabili a quelli del'esistenza di Homo Sapiens, può far sorridere, ma dà anche l'idea della scarsa responsabilità con cui simili affermazioni possano essere state fatte. Insomma, il bilancio dei costi normali sembra incerto, ma che succede se teniamo conto di eventi eccezionali? Quanto costa un solo incidente nucleare in termini di contaminazione? Quanto costa evacuare una regione per un raggio di 30 Km, come sta succedendo ora in Giappone? Insomma, se anche fossero vere le stime più ottimistiche, se si realizzasse in Italia il piano Scajola di costruire 10 centrali nucleari si avrebbe un probabilità su 400 di avere un incidente in 25 anni, con costi abbastanza incalcolabili È questo il rischio che vogliamo correre? 1/400 è la probabilità di fare un AMBO giocando al Lotto! Non vi sembra un po' alto? (ok, sto andando veramente a spanne, ma credete che siamo così lontani dalla realtà?). Insomma, sarebbe ora, in questo turbinare di numeri, che qualche cosa fosse chiaro. Ci sono molte cose che si possono fare per risparmiare energia (coibentare meglio gli edifici per esempio), tanta ricerca per migliorare le energie alternative (esiste già lo spray per rendere l'acciaio fotovoltaico, Google ha appena investito 5 miliardi di dollari in un impianto eolico off-shore), ma per favore, non carichiamoci di rischi che nessuno sa veramente gestire e men che meno questo governo(**). (*) Se la probabilità di avere un incidente all'anno per un reattore è 1/n, allora la probabilità di NON avere incidenti con k reattori è p(k)=(1-1/n)k, e quindi di avere almeno un incidente in un anno è 1-p(k). Analogamente, su M anni, la probabilità di non avere incidenti è p(k)M (facendo l'ipotesi ottimistica che non ci sia un degrado delle prestazioni) e quindi di avere almeno un incidente è 1-p(k)M=1-(1-1/n)kM.
(**) Ovviamente non abbiamo nemmeno sfiorato la specificitĂ della situazione italiana, con un territorio ad alto rischio sismico, in cui non siamo nemmeno capaci di gestire i rifiuti ordinari, figuriamoci i rifiuti nucleari...
Una “tavola periodica” delle forme racconta gli universi immaginari Un gruppo di matematici sta cercando di fare nel campo della geometria quello che la tavola periodica degli elementi ha fatto nel campo della chimica, elencando le forme in 3, 4 e 5 dimensioni che non possono essere decomposte in forme più semplici: in altre parole, gli "atomi" della geometria... di Alessio Corti La tavola periodica è uno degli strumenti fondamentali della scienza chimica. Organizza l'elenco degli atomi di cui tutta la materia è costituita e ne spiega le proprietà chimiche. Il lavoro che ho cominciato con il mio gruppo del Dipartimento di Matematica dell’Imperial College di Londra ha l’obiettivo di creare uno strumento in qualche modo simile per le forme in 3, 4 e 5 dimensioni: realizzare cioè un elenco di tutte le forme indecomponibili e codificarne le proprietà in termini di dati relativamente semplici. Come fa notare Tom Coates, uno dei membri del mio team, «molti sono a loro agio con l’idea di forme a 3 dimensioni, ma per coloro che non lavorano nel nostro campo potrebbe essere difficile immaginare forme a 4 o 5 dimensioni. Tuttavia, comprendere meglio questi oggetti è importante in vari settori di ricerca scientifica». Ci aspettiamo di trovare forse fino a un milione di forme indecomponibili in 4 dimensioni: probabilmente non potrete appendere un poster della tavola nella vostra stanza, ma ci attendiamo che sarà comunque uno strumento molto utile per i matematici, e interessante anche per i non addetti ai lavori. La teoria iniziata dal matematico giapponese Mori negli anni Ottanta consente di decomporre le forme definite da equazioni algebriche in forme più semplici fino a raggiungere alcune forme basilari, le forme indecomponibili, che sono dette varietà di Fano. E’ noto che esistono 105 varietà di Fano in 3 dimensioni: l’obiettivo di questa ricerca è elencare le varietà di Fano in 4 e 5 dimensioni. Il progetto di ricerca, frutto della collaborazione di matematici in Australia, Regno Unito, Russia e Giappone, è finanziato dall’EPSRC, il Leverhulme Trust, la Royal Society e l'ERC. In questo lavoro useremo metodi della teoria delle stringhe, un modello che tenta di riconciliare le forze fondamentali della natura. teoria delle stringhe postula, oltre alle note 4 dimensioni (tre coordinate spaziali più il tempo), l'esistenza di dimensioni addizionali, che occupano una forma di dimensione così piccola che non lascia traccia nell'esperienza quotidiana ed è impossibile da rilevare con gli strumenti di misura odierni. Il nostro gruppo utilizzerà gli strumenti della teoria delle stringhe per esaminare universi immaginari dove queste dimensioni addizionali occupano una delle forme che desideriamo studiare. Quello che stiamo facendo non è compilare un semplice elenco: stiamo classificando famiglie di forme con proprietà simili, nel senso che conducono a universi immaginari con proprietà fisiche simili. L'elenco delle forme indecomponibili sarà utile alla matematica, certamente, ma anche alla teoria delle stringhe, fornendo possibili geometrie per le dimensioni addizionali. Ci potranno poi essere anche applicazioni più concrete, per esempio alla robotica.
Per comunicare usiamo un blog (http://coates.ma.ic.ac.uk/fanosearch),che ospita, oltre alle animazioni anche molte immagini, e Twitter: in questo modo tutti possono seguire gli sviluppi del progetto in tempo reale. Alessio Corti è titolare di una cattedra di Matematica Pura all’Imperial College di Londra. I suoi argomenti d’interesse riguardano principalmente la geometria algebrica, la teoria dei modelli minimali e le varietà di Fano.
Bonus: il blog Dueallamenouno di Roberto Natalini Indirizzo del Blog: http://dueallamenouno.comunita.unita.it Vedi alla Voce errore (parte prima) Vedi alla Voce errore (parte seconda) La strana matematica di David Foster Wallace
Vedi alla voce: errore Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche; impiccati o non impiccarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che ti impicchi o che non ti impicchi, ti penti d’entrambe le cose… Questa, miei signori, è la somma della scienza della vita! Søren Kierkegaard, Aut-Aut
di Roberto Natalini A un certo punto a tutti noi capita di fare errori. A me capita con una certa frequenza, anche se tendo a non ammetterlo, e l’ultimo in ordine di tempo è stato quello di pensare di poter scrivere un breve testo sugli errori. Più ci rifletto e più la vastità dell’argomento si apre davanti a me, senza che riesca a precisarne bene i contorni. Pensateci, ogni volta che scegliamo possiamo commettere errori, e a volte persino tutte le scelte disponibili possono rivelarsi sbagliate, e sbagliamo anche per non aver capito che c’era una scelta da fare. L’incertezza segna costantemente la nostra vita, e chiamiamoesperienza i nostri errori passati. In effetti, già definire cosa sia un errore non risulta affatto facile come si capisce aprendo il vocabolario alla voce corrispondente. erróre s. m. [dal lat. error -oris, der. di errare «vagare; sbagliare»]. Lo sviarsi, l’uscire dalla via retta, deviazione morale. Fallo, colpa, peccato. Opinione, affermazione erronea, giudizio contrario al vero. Quanto contrasta con le regole di una tecnica o scienza, o manca di correttezza, di esattezza. Azione inopportuna, svantaggiosa. (alcuni significati della parola errore presi dal Vocabolario Treccani)
L’errore nasce quando ci si allontana da una regola ritenuta giusta, si ha un’opinione contraria al vero(in italico le parole che in qualche modo cortocircuitano e rendono autoreferenziale la definizione di errore: perché è sbagliato? perché non è giusto. A me sembra si inneschi un loop). Nel passato era spesso riferito a credenze in materia religiosa. La deviazione dalla giustizia e dalla verità rischia però oggi di poter apparire soggettiva: cosa vuol dire infatti “allontanarsi dalla retta via”? In questo senso, un significato riduzionista consiste a ritenere errori solo quelle cose che ci porteranno conseguenze negative, e solo dal verificarsi di queste conseguenze avremo la certezza che si trattava di un errore: “L’unico errore di Mussolini è stato quello di allearsi con Hitler”, “Che errore non fare prima una legge contro le intercettazioni telefoniche”. Insomma sono errori a posteriori, non sono errori di per sé, ma solo comportamenti che a lungo andare hanno determinato un peggiorarsi di una situazione soggettiva, come se non avessimo un criterio “a priori” per sapere se una nostra azione risulterà sbagliata, ma dovessimo sempre usare il senno di poi. Per questo ci sembra molto più ovvio e incontrovertibile l’errore scientifico, anzi in qualche modo è la base del metodo stesso. Per essere scientifica una teoria deve essere soggetta a falsificabilità, ossia fornire i criteri con cui si possa misurare il rispetto o meno dell’ipotesi teorica. Le spiegazioni del mondo sono ipotesi parziali, sintesi di tutte le esperienze precedenti, congetture sul mondo e sul suo funzionamento. Se a un certo punto le mele smettessero di cadere dagli alberi, dovremmo prenderne atto e capire cosa non va nella nostra fisica. In realtà, come dimostra la recente vicenda dei neutrini(e con questo soddisfo tutti coloro (pochi) che mi avevano chiesto di scrivere qualche cosa su questo argomento. Quello sì sarebbe stato un errore, avventurarsi in un argomento di cui ho una scarsissima comprensione), le cose sono molto più complicate di così. Questo neutrino che sembra andare troppo veloce potrebbe fornire una falsificazione alle teorie accettate della materia
oppure no, perché le misure che abbiamo compiuto non erano accurate, oppure soffrivano (mai verbo fu più appropriato) di errori sistematici, e magari abbiamo trascurato qualche effetto classico elementare. La ricerca dell’errore potrà essere resa molto complessa dalla limitatezza dei nostri strumenti e anche dalla difficoltà creata dal fatto che guarderemo sempre ai risultati sperimentali alla luce di una qualche teoria precedente, che ci fornirà il punto di vista anche nostro malgrado: a un uomo con un martello, qualsiasi cosa sembra un chiodo (Mark Twain). In matematica le cose dovrebbero in teoria andare meglio e gli errori dovrebbero essere facili da individuare e correggere. Eppure, forse proprio perché, almeno fino a un certo punto il criterio per stabilire se una cosa è sbagliata o meno è più netto, è proprio in matematica che gli errori sembrano essere centrali a tutta la costruzione. Intanto osserviamo che è un peccato che sia così, la matematica potrebbe essere più avventurosa e immaginativa se non ci fossero gli errori. È il terrore di fare errori che blocca il principiante e anche il matematico affermato. Ma da dove viene questa paura? L’errore non dovrebbe essere evidente e saltare subito all’occhio? Se leggete 2+3=6 riconoscerete subito l’errore e penserete a una semplice distrazione. Ma sin(x+y)=sin(x)+sin(y), per ogni x,y vi sembrerà un’affermazione falsa solo se avrete capito cosa c’è scritto nell’equazione, ossia se avrete il linguaggio sufficiente per capire il problema. In effetti, la maggior parte degli errori che si riscontrano nei compiti di matematica a tutti i livelli, escludendo gli errori di distrazione, si configurano come errori dovuti alla mancanza di comprensione del problema e delle proprietà degli oggetti necessari a risolverlo. Insomma, cerchiamo senza riflettere di riportare in un contesto nuovo alcune idee apprese in un contesto totalmente diverso. Come se, avendo appreso che l’acqua spegne il fuoco, deducessimo erroneamente che la stessa proprietà vale per tutti i liquidi, inclusa la benzina. Questa mancanza di comprensione del linguaggio si ritrova in quest’altro errore tipico degli studenti dei primi anni: tan(x)/x=tan(1) ossia semplificando sopra e sotto la x nella tangente trigonometrica senza ben capire il significato di cosa sia questa funzione (eh, già, magari ci siamo persi la lezione in cui si spiegava cosa fosse una funzione tangente e stiamo ancora lì a cercare di visualizzare una retta tangente a una curva). Si ricava così una bizzarra identità, il cui significato poco importa (per i più curiosi, sarebbe come dire che la tangente trigonometrica è una funzione lineare), non sarà mai contraddittorio con niente della nostra vita reale, o almeno così ci sembra, e non capiamo perché il nostro insegnante stia lì a sottilizzare. Forse il nocciolo di questa difficoltà sta proprio in questo fatto. La matematica costruisce oggetti sempre più complessi che contengono un sacco di informazioni e idee e sintetizzano anni di apprendistato e pensieri, ed è questa la sua forza, come se nella compressione informativa avessimo moltiplicato la potenza della nostra comprensione. Però, se guardiamo meglio, all’aumentare dell’astrazione gli errori diventano più difficili da scovare e la loro stessa natura diventa più sfuggente e difficile da articolare. Ci dimentichiamo che gli oggetti devono essere usati nel modo giusto, e cosa vogliono dire veramente. Ecco allora l’esempio di paradosso che possiamo incontrare se non sappiamo gestire l’astrazione: Suppongo sia a = b moltiplico per a: a2= a*b
sottraggo b2: a2-b2 = a*b-b2 metto in evidenza (a-b): (a+b)(a-b) = b(a-b) divido da entrambi i lati per (a-b): (a+b) = b uso che a=b: a+a = a ossia: 2a = a poi semplifico per a e ottengo 2=1 Se non vi siete meravigliati del risultato allora vuol dire che a) conoscevate già questo esempio, oppure b) non state ragionando. Insomma, 2=1 è un errore, ma dove esattamente ci siamo sbagliati nei passaggi precedenti? Pensateci un po’ prima di continuare a leggere (soprattutto quelli del casob)). Fatto? Bene. Allora, se rifate tutti i passaggi vi renderete conto che quando dividete per (a-b) state commettendo un abuso. Infatti la divisione è definita per tutti i numeri diversi da 0 (perché? beh, ok, farei un grosso errore a partire in questa direzione proprio ora, per cui se non lo sapete, fate finta di saperlo e ne riparleremo in seguito), e abbiamo fatto l’ipotesi che a=b, ossia a-b=0. Insomma, abbiamo diviso per zero. Siamo incorsi in un errore concettuale, dividere per zero, reso possibile da un cattivo utilizzo dell’astrazione. Di errori concettuali, dovuti o meno all’astrazione o ai pregiudizi, o a concetti non ben definiti, è piena la matematica, come hanno potuto constatare per esperienza personale quasi tutti i più grandi matematici. 1- continua.
Vedi alla voce: errore (parte II)
di Roberto Natalini In una puntata precedente, abbiamo detto che la matematica è una delle poche esperienze umane dove la nozione di errore possa essere veramente apprezzata senza entrare in eccessive complicazioni filosofiche (anche se come al solito non è che non ce ne siano. Come tutte le cose con una lunga storia, concetti nucleari come Verità, Giustizia, Errore sono sempre difficili da definire). L’errore, visto come deviazione dal ragionamento logicamente corretto, è parte integrante della vita del matematico. In un certo senso è l’unico vincolo alla sua fantasia: tutto quello che puoi dimostrare logicamente e senza errori è vero. I primi a rendere operativa questa pratica furono i greci che, a partire dal quarto secolo A.C., inaugurarono il concetto di dimostrazione matematica che sarebbe poi culminato negli Elementi di Euclide, il modello di ogni successivo libro di matematica. Non che tutto fosse poi così rigoroso. Per esempio, il Primo Teorema degli elementi stabilisce che: “Sopra una retta data possiamo costruire un triangolo equilatero.” La dimostrazione è molto semplice: metti un compasso in a e tracci un cerchio di raggio ab. Ti metti in b e fai la stessa cosa. Prendi uno dei due punti dove si intersecano i due cerchi (e chiamiamolo d, come fece Nicolò Tartaglia) e uniamo sia a che bcon un segmento al punto d. Questi due nuovi segmenti uniscono il centro dei cerchi alla loro circonferenza, per cui saranno entrambi uguali al raggio che, ricordiamo, era lungo ab. Per cui otteniamo un triangolo equilatero. Nonostante abbia reso in modo discorsivo la dimostrazione originale di Ilustrazione dal Primo Libro degli Euclide, sembra che, date le definizioni, i postulati e gli assiomi, elementi di Euclide, la costruzione del triangolo debba discendere in modo trattodall’edizione di Nicolò necessario. E questo pareva a Euclide. Solo che, ricordando che è Tartaglia, 1565. solo il primo teorema, sembra si sia dimenticato di dimostrare che i due cerchi hanno veramente un’intersezione (va bene, si (Fonte Wikimedia Commons) vede a occhio, ma, ahimé, non è un argomento). Certo, si può rimediare, magari aggiungendo un nuovo assioma che dica che se la somma dei raggi di due cerchi è minore della distanza dei loro centri allora le due circonferenze si incontrano, ma questo non poteva essere in nessun modo il primo teorema, ed questo è per dire che l’idea di “rigore” in una dimostrazione era ancora di là da venire. Certo, Aristotele aveva codificato la logica delle proposizioni e c’era tutta la teoria dei sillogismi, ma non si parlava ancora di un procedimento completamente astratto, dell’idea di poter calcolare “automaticamente” una proposizione partendo da una serie ben precisa di principi primi, e questo anche a causa di una serie di ambiguità del linguaggio ordinario. Tutto va bene se dico: a) Tutti gli uomini sono mortali; b) Socrate è un uomo; da cui segue che c) Socrate è mortale. Ma perché allora non ha va bene: a) Gli apostoli sono dodici; b) Pietro è un apostolo; allora c) Pietro è dodici? Cosa non ha funzionato nel nostro ragionamento? [Risposta: non ha funzionato l'ambiguità dell'attributo numerale, che in realtà sta per "un insieme formato da dodici persone", che quindi darebbe come risultato: c) Pietro appartiene a un insieme formato da dodici persone, che è un'affermazione vera]. La logica e l’idea stessa di dimostrazione matematica avrebbero fatto passi da gigante nel corso dei secoli, passando per la Scolastica medievale, Bacone, Cartesio, Leibniz. Tuttavia è solo verso la fine dell’800, con Boole e De Morgan, che vengono gettate le basi della moderna logica matematica. Prima di raccontare come queste idee avrebbero influenzato il modo di ragionare dei matematici, c’è da segnalare che, a partire dal ’500, abbiamo un rinascita in Europa degli studi
matematici. Dopo che la scuola italiana aveva importato la nuova scienza araba dell’algebra, nasce una generazione di persone, Cartesio, Pascal, Fermat, Newton, Leibniz, che in pochi decenni muta completamente il panorama matematico. Nascono la geometria analitica ed il calcolo differenziale e integrale, e con loro entrano in campo tantissime idee inizialmente poco rigorose, a partire dalle nozioni stesse di infiniti e infinitesimi. Uno degli esempi più spettacolari di questo modo di pensare è il trattamento della cosiddetta “Serie di Grandi”, dal nome del matematico italiano Guido Grandi che nel 1703 per primo (forse…) cercò di capire quanto valesse la “somma infinita”: 1-1+1-1+1-1+1-1…. Grandi osservò che a seconda di come venivano raggruppati i termini, il risultato cambiava. Se isoliamo infatti il primo 1 e cancelliamo a due a due gli altri otteniamo: 1+(-1+1)+(-1+1)+(-1+1)+(-1+1)+….=1 Se invece partiamo subito cancellandoli a due a due abbiamo: (1-1)+(1-1)+(1-1)+(1-1)+(1-1)+…=0 Grandi era un prete e cercò di giustificare quanto aveva trovato con argomenti religiosi: “Mettendo in modo diverso le parentesi nell’espressione 1-1+1-1+… io posso, volendo, ottenere 0 o 1. Ma allora l’idea della creazione ex nihilo è perfettamente plausibile.” Chiaramente, e lo dico una volta per tutte, la “Serie di Grandi” non converge, ossia non esiste nessun valore a cui tenda il limite delle somme parziali, che infatti oscillano continuamente tra 0 e 1. E questo, in termini moderni chiuderebbe la faccenda. La cosa strana è che intere generazioni di grandi matematici si sono accaniti per oltre un secolo intorno a questo problema, con argomenti che oggi non riterremmo in nessun modo validi. In realtà, Grandi stesso, Leibniz, Eulero e Fourier, insomma un po’ tutti, pensavano che il valore della somma infinita fosse ½. L’argomento principale di Grandi e di Leibniz (la storia, a colpi di scambi epistolari, è in realtà un po’ più complessa, vedi per esempio il bell’articolo di Giorgio Bagni, un collega tragicamente scomparso due anni fa) era che per ogni x tale che |x|<1, vale l’uguaglianza (al limite): 1-x+x2-x3+x4-x5+….=1/(1+x) Se in questa uguaglianza facciamo tendere x → 1 otteniamo: 1-1+1-1+1-1+1-1….=1/(1+1)=½ Ovviamente questa NON è una dimostrazione, e può sorprendere, con il senno di poi, che dei grandi matematici potessero dargli credito. Certo, Leibniz aveva di questo limite un’idea probabilistica, al punto di scrivere che, arrestando la somma in un punto qualsiasi si aveva la stessa probabilità di ottenere 0 o 1, da cui si poteva dedurre che il “Valor Medio” della somma era ½. Evidentemente questo tipo di problema richiedeva una maggiore attenzione al problema di cosa fosse una dimostrazione, ma dal punto di vista psicologico questa confusione non aveva nulla di sorprendente. Lo stesso Bagni ha compiuto un esperimento psicologico-didattico interessante, descritto nello stesso articolo citato poco prima, in cui ha chiesto a 88 ragazzi di Liceo di esprimersi sul valore di questa somma infinita. Ebbene, il 29% ha risposto che la somma valeva 0, il 4% che valeva 1, per il 20% poteva valere sia 0 che 1, e ben il 34% non ha risposto. Solo il 5% ha dato la risposta esatta (che era impossibile dare un valore). Come dire che non sempre l’errore salta subito all’occhio. Insomma, a quell’epoca regnava una notevole confusione sui criteri di verifica di una dimostrazione, e solo nell’800, a partire dalle opere di Cauchy, sarebbe cominciata una fase di sistemazione rigorosa dell’analisi. In modo abbastanza curioso, fu però proprio Cauchy a commettere uno degli errori più famosi della storia della matematica. Augustin Louis Cauchy era uno dei matematici più famosi del suo tempo e nel 1821 pubblicò una dimostrazione del fatto che se una successione di funzioni continue converge in ogni punto ad una funzione, allora questa funzione limite è continua. Questa dimostrazione era sbagliata in modo irreparabile, perché l’enunciato stesso era falso. Solo alcuni anni più tardi, dopo che altri matematici avevano fornito dei “contro-esempi” (ossia degli esempi in cui si fa vedere che il teorema non vale, il modo migliore di trovare un errore, in definitiva), si capì che la convergenza puntuale doveva essere rimpiazzata dalla cosiddetta “convergenza uniforme”. Ma allora, è proprio impossibile non commettere errori? In fondo, se anche Cauchy si sbagliava,
come è possibile essere sicuri che un teorema pubblicato sia giusto? E non dimentichiamo che nella matematica di oggi alcuni lavori sono di una complessità incredibile. Per esempio, qualche anno fa F. Almgren ha dimostrato un risultato importante di teoria geometrica della misura in un lavoro pubblicato nel 2000 che contava circa 1000 pagine (e che ironicamente si intitola: “Almgren’s big regularity paper”). Come si può essere sicuri che questo lavoro sia giusto?
La strana matematica di David Foster Fallace di Roberto Natalini Le derivate sono solo trigonometria con un po’ di immaginazione (David Foster Wallace, Infinite Jest)
Tre anni fa si toglieva la vita David Foster Wallace (21 Febbraio 1962-12 settembre 2008). Con i suoi punti di vista spesso spesso curiosamente alieni 1, ci ha lasciato reportage avvincenti su soggetti di per sé non necessariamente brillanti2, e soprattutto romanzi e racconti di una bellezza sorprendente3. Quello che colpisce maggiormente è però il senso di intimità che coglie la maggior parte dei suoi lettori, un’intimità che si è tramutata in uno straordinario lutto collettivo al momento della sua morte. Leggendo Wallace sentiamo una voce nella nostra testa che parla, come se fosse un secondo io più intelligente e linguisticamente onnisciente, che con noi costruisce un dialogo intenso e pieno di significato. Parliamo di lui in questo blog perché una delle passioni di Wallace era la matematica. Nelsaggio/racconto fittiziamente autobiografico, “Tennis, Trigonometria, Tornado”, Wallace scrive: “Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per andare a frequentare l’università dove si era laureato mio padre fra i vivaci rilievi delle Berkshires nel Massachusetts occidentale, sviluppai un’improvvisa fissazioneper la matematica”. Questa passione non era solo una finzione narrativa o un’infatuazione passeggera. Nel 2003 pubblicò addirittura un saggio sull’infinito 4, in cui cercò di “narrare” ad un pubblico non specialistico, lui che specialista non era, le motivazioni profonde che avevano portato Cantor, alla fine dell’800, a fare dei progressi decisivi nella comprensione della natura degli insiemi infiniti. Uno dei punti centrali della sua analisi è la soluzione matematica deiparadossi di Zenone sul movimento, come ad esempio quello della dicotomia 5. La nostra esperienza ci dice che possiamo attraversare una strada, ma Zenone lo nega, perché secondo lui non possiamo compiere un numero infinito di azioni in tempo finito. I matematici del XIX secolo risolsero questo paradosso, innanzitutto chiarendo con Cantor nel 1871 la natura profonda dei numeri reali, e al tempo stesso definendo, con Weierstrass, in modo rigoroso e definitivo, la nozione di convergenza di una serie (che almeno fino a Cauchy presentava parecchi lati oscuri) 6.Quest’analisi evidenzia l’esistenza di due idee di infinitoabbastanza diverse: l’infinito circolare e paradossale di Zenone,l’Ápeiron(=indeterminato) dei greci, che si avvita su se stesso senza arrivare ad una conclusione; el’infinito matematico, cantoriano, che permette di usare queste espansioni infinite in modo perfettamente definito. Una decina di anni prima, Wallace aveva già affrontato, da narratore, l’idea di infinito, nel suoromanzoInfinite Jest 7 (=lo scherzo infinito, chein questa sede rinunciamo a riassumere in modo credibile 8 ),in cui incontriamo delle situazioni narrative che corrispondono ai due infiniti di cui sopra.Da una parte abbiamo la ripetizione infinita, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita porta solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalla droga e dall’alcool (i continui cicli di disintossicazione e di ricaduta) 9 , il sesso come esperienza vuota ed estraniante, la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, l’intrattenimento pervasivo e mai soddisfacente (il film eponimo di Incandenza viene visto dalle vittime in un susseguirsi di cicli ricorsivi), la circolarità del sistema di produzione energeticaonanita(sic!), basato sulla “fusione anulare”, ossia un sistema che “produce rifiuti che alimentano un processo i cui rifiuti alimentano la fusione stessa”. L‘idea di questa fusione era venuta allo stessoIncandenza da giovane, osservando un pomello ruotare intorno
all’asse formato dal suo perno, in una doppia rotazione formante una cicloide sferica10. L’idea dei doppi cerchi rotanti viene poi ripresa nel progetto degli edifici dell’accademia di tennis, disegnati a creare la forma di unacardioide11. Questa circolarità autoreferenziale, che ingabbia la quasi totalità dei personaggi del romanzo, potrebbe avere però una via di fuga, un rovesciamento radicale che corrisponde all’idea cantoriana di infinito. Alcuni dei personaggi principali subiscono un’inversione di punto di vista e noi stessi, strada facendo, siamo portati a cambiare le nostre aspettative. Wallace cerca con il suo romanzo di superare, e farci superare, l’isolamento solipsistico che ci imprigiona. In uno dei passaggi maggiormente significativi del romanzo, uno dei capi istruttori dell’accademia di tennis, riflette a un certo punto sulla struttura del gioco: “ogni palla colpita bene ammette n possibili risposte, n2 risposte possibili a queste risposte, (…) come un continuo cantoriano di infinità di possibili mosse e risposte, cantoriano e bello perché stratificato, contenuto, questa infinità bigenerata di infinità di scelta ed esecuzione, matematicamente incontrollata, ma umanamente contenuta, delimitata dal talento e dall’immaginazione di se stessi e dell’avversario, ripiegata su se stessa dalle frontiere date dall’abilità e dall’immaginazione che alla fine fanno perdere uno dei giocatori, e impediscono a entrambi di vincere, che creano, alla fine, un gioco, queste frontiere del sé” (IJ, p.97). Trasposto nella scrittura, l’avversario siamo noi, i lettori che reagiamo e interagiamo con il testo che ci viene proposto, che è calcolato in modo millimetrico proprio per rispondere alle nostre reazioni. Da questa dialettica infinita, ma convergent, dalle frontiere del testo, nasce il gioco, il romanzo che vive in ognuno di noi, questa voce che ci parla dentro la testa. (12/9/2008 R.I.P.).
Footnotes/Endnotes 1 In un intervista (che si può ascoltare qui: http://www.wpr.org/book/davidfosterwallace/) la sorella Amy ha cercato di descriverlo a chi non lo abbia mai incontrato come “qualcuno con cui, dopo averci parlato solo qualche minuto, pensi sia appena sbarcato da una navicella spaziale.” 2 Ma che nelle sue pagine lo diventavano: una crociera di lusso, una fiera nel Midwest, la televisione e la narrativa contemporanea, il tennis (tra cui un famoso articolo su Federer come esperienza religiosa), il festival del cinema porno, l’uso della grammatica inglese, Kafka, le elezioni americane del 2000. 3 Parliamo per esempio, tanto per dare dei riferimenti, di Infinite Jest (1996) (che da molti è considerato il romanzo più importante degli anni ’90, una specie di Ulisse-di-Joyce dei nostri tempi, per quel poco che valgono questo tipo di confronti), delle raccolte di racconti Brevi interviste con uomini schifosi (1999) e Oblio (2004), del suo romanzo incompiuto The Pale King (2011), in uscita fra poco anche in Italia. 4 Si tratta di Everything&More, tradotto in italiano come “Tutto e di più” dalla casa editrice Codice, che ne ha appena annunciato un’imminente ristampa, speriamo depurata dei numerosi errori di traduzione della prima edizione, tipo che i numeri interi erano tradotti “numeri integrali”. 5 i.e.: voglio attraversare una strada, ma dopo aver percorso metà del tragitto, per arrivare dall’altra parte devo ancora arrivare alla metà del tragitto rimanente, ossia aggiungere un quarto, e poi alla metà della metà, ossia un ottavo, e poi metà della metà della metà, etc… Ossia devo attraversare un numero infinito di sottointervalli di ampiezza ogni volta dimezzata rispetto al precedente. 6 Potrebbe sembrare che chi scrive si sia lasciato prendere la mano eccedendo in dettagli matematici, ma è importante sapere che Wallace dedica almeno 150 pagine alla discussione dettagliata, anche se a volte un po’ confusa, di questi sviluppi. 7 È una citazione dall’Amleto: “Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio; a fellow of infinite jest, of most excellent fancy. (Ahimè, povero Yorick!…Quest’uomo io l’ho conosciuto, Orazio, un giovanotto d’arguzia infinita e d’una fantasia impareggiabile).
8 Ma per i più curiosi diciamo solo che c’è un’accademia di tennis fondata da un certo James O. Incandenza, in seguito divenuto cineasta di valore, poi morto in circostanze inquietanti. C’è un gruppo di ex-tossicodipendenti in una casa di riabilitazione vicina all’accademia. E c’è un mondo del futuro prossimo (che coincide con i nostri anni) in cui Stati Uniti, Messico e Canada sono riuniti nell’Organizzazione delle Nazioni dell’America del Nord (ONAN, sic!), una società dominata dal piacere fine a se stesso e dalla dipendenza. A questo stato di cose si ribellano i terroristi separatisti del Quebec. La loro arma dovrebbe essere un film dello stesso Incandenza, intitolato “Infinite Jest” come il romanzo, che è così avvincente da risultare fatale ai suoi spettatori, e che è andato perduto alla morte del suo autore. Lo so, così ancora non si capisce come si vada avanti per 1281 pagine, nell’edizione italiana. 9 “Un paradosso poco menzionato della dipendenza da una Sostanza è il seguente: una volta che siete così schiavi di una Sostanza da doverla abbandonare per salvarvi la vita, la Sostanza schiavizzante è diventata per voi così profondamente importante che uscirete di senno quando ve la porteranno via” (da Infinite Jest) 10 Un punto sull’equatore della sfera percorrere un cerchio che ruota in verticale percorrendo un cerchio orizzontale. 11 Una curva che si ottiene facendo ruotare nel piano un cerchio intorno ad un altro cerchio dello stesso raggio, insomma quasi una proiezione piatta della cicloide sferica, che ha una forma quasi di un cuore.